Nessuna responsabilità professionale per l’amministratore di sostegno in difetto di prova di una attività colposa o dolosa nell’informativa al Giudice Tutelare.

Tribunale di Genova,
Sentenza del 2 gennaio 2025 n. 6,
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI GENOVA
in persona del dottor Pasquale Grasso in funzione di giudice unico ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al n.9479 del ruolo generale degli affari contenziosi
dell’anno 2020 e vertente tra
V. E. M. L., in persona dell’amministratore di sostegno avv. E. T. , con il proc.
dom. avv. E. R.
– attore –
e
C. avv. S., con il proc. dom. avv. A. D. V.
– convenuto –
e
Generali Italia spa, con il proc. dom. avv.B. P.
– chiamata in causa da S. C. –
CONCLUSIONI
Per parte attrice
“Piaccia al Tribunale Ill.mo, reiectis contrariis e previe le declaratorie meglio
viste:
– previa, in via istruttoria, integrazione di consulenza tecnica d’ufficio in ordine
all’esistenza di vizi occulti nell’immobile, per cui è causa, al momento
dell’acquisto a mezzo dell’atto di permuta del 24/2/2017, quali quelli descritti
dal C.T.P. Geom. L. L. nelle sue note critiche del 27/7/2023, riguardo
all’esistenza di vizi occulti nell’immobile al momento dell’acquisto (notevoli
infiltrazioni dalla copertura non impermeabilizzata del bagno; notevoli
infiltrazioni del seminterrato lato strada), che ne riducono ulteriormente il
valore a tale momento ed in caso, di esito positivo, in che misura ciò incida sul
valore commerciale dell’immobile in tale data;
– accertare e dichiarare la civile responsabilità dell’Avv. S. C., quale
amministratore di sostegno di E. M. L. V. , per avere stipulato l’atto di permuta
del 24/2/2017, secondo le modalità dedotte e/o per i fatti e le condotte riferite
in atto introduttivo ed accertande in causa, accettando una valutazione
dell’immobile di via N. C. n.11 uni in Genova sovradimensionata e maggiore
del valore effettivo e commerciale dello stesso e comunque, ponendo in essere
un atto non conveniente per l’amministrata;
– condannare, conseguentemente, l’Avv. S. C. a risarcire a E. M. L. V. tutti i
danni subiti per i fatti di causa, quantificati in € 90.000, (pari al differenziale
fra il valore reale dell’immobile avuto in permuta, maggiorato del conguaglio
ricevuto di €.30.000 ed il valore dell’immobile dato in permuta dalla stessa del
valore di €.210.000, come dichiarato in atto), o nella somma maggiore o
minore accertanda in corso di causa;
– somme maggiorate di interessi legali e di rivalutazione monetaria dal dovuto
al soddisfo.
– rigettare ogni diversa domanda e/o eccezione avversaria perché
inammissibile e/o infondata.
– Vinte le spese di lite.”.
Per S. C.
“In via pregiudiziale e/o preliminare: accertare e dichiarare, per le esposte
ragioni, il difetto di legittimazione passiva del convenuto;
in via principale e nel merito: rigettare le domande attoree in quanto infondate
in fatto ed in diritto per le esposte ragioni;
in via subordinata: nel non creduto caso di accoglimento, anche parziale, delle
avversarie domande, limitare la condanna al minor importo determinando
come di giustizia e condannare, in ogni caso, la terza chiamata Generali Italia
S.p.A. a manlevare e garantire il convenuto da quanto questi fosse tenuto a
corrispondere a parte attrice, ivi incluse le spese del presente giudizio.”.
Per Generali Italia spa
“Piaccia all’Ill.mo Tribunale adito, ogni contraria azione eccezione e deduzione
respinta:
IN VIA PRELIMINARE
ACCERTARE E DICHIARARE la carenza di legittimazione passiva dell’Avv.C. per
le motivazioni in atti e per la conseguenza respingere la domanda attorea e
conseguentemente la domanda di manleva nei confronti della Compagnia
esponente con vittoria di spese di causa.
IN VIA DI PRINCIPALITA’:
RIGETTARE, le domande attoree in confronto all’Avv. C. perché infondate sia in
fatto che in diritto e comunque e non provate;
IN VIA SUBORDINATA:
Nel non creduto caso in cui venisse ACCERTATA una responsabilità
professionale in capo all’Avv. C., provata l’esistenza di danni risarcibili e del
nesso di causalità con l’operato dello stesso, RIDIMENSIONARE la
quantificazione del danno in misura inferiore rispetto a quanto richiesto
dall’attrice e comunque entro i limiti del giusto e del provato, ed ACCERTATA in
forza delle previsioni contrattuali di polizza, l’operatività della polizza, nonché
fornita la prova della risarcibilità del sinistro ai sensi e termini di polizza
RICONDURRE alle condizioni di polizza l’eventuale responsabilità in regime di
manleva della Compagnia quivi costituita con l’applicazione condizioni tutte di
polizza, nonché del massimali e scoperti (tenuto conto che limite di esposizione
della Compagnia non potrà in alcun caso essere superiore al massimale di
polizza).
Il tutto, con il favore delle spese, diritti ed onorari della presente procedura.”
MOTIVI DELLA DECISIONE
E. M. L. V. , agendo in giudizio in persona del proprio amministratore di
sostegno avv. E. T. (e a ciò autorizzato dal giudice tutelare) conveniva in
giudizio l’avv. S. C. esponendo
– che il convenuto era stato amministratore di sostegno della sig.ra V. dal
18.11.2014 al 3.5.2018;
– che, nel corso del mandato in questione, l’avv.C. aveva rappresentato al
Giudice Tutelare la necessità di procedere alla vendita di immobile di proprietà
dell’amministrata per far fronte al pagamento delle spese condominiali relative
a detto immobile e nella prospettiva della incapacità anche futura di pagare i
costi dominicali afferenti a detto bene;
– che l’avv.C. aveva altresì segnalato al giudice di aver ricevuto proposta
contrattuale di permuta tra detto immobile e altro che non prevedeva costi di
amministrazione, altresì con la previsione di un diritto a conguaglio per
l’importo di euro 30.000,00;
– che, nonostante la contrarietà dell’amministrata, il giudice tutelare aveva
autorizzato la sopra menzionata operazione di permuta, che veniva conclusa
attribuendo all’immobile ceduto dalla V. il valore di euro 210.000,00 e a quello
acquisito il valore di euro 180.000,00;
– che, operata rinnovata valutazione degli immobili in questione da parte del
nuovo amministratore di sostegno, avv.T., subentrato nella funzione per
rinuncia dell’avv. C., doveva ritenersi che il valore dell’immobile ricevuto in
permuta era di soli 90.000,00 euro, con conseguente danno per pari importo
(180.000,00 – 90.000,00) per l’amministrata;
– che il danno in questione era ascrivibile alla condotta negligente del
convenuto, in ogni caso non “sanata” dall’autorizzazione del giudice tutelare.
Su detti presupposti parte attrice chiedeva la condanna del convenuto al
pagamento del sopra menzionato importo a titolo di risarcimento danni. L’avv.
S. C. si costituiva in giudizio contestando in fatto e in diritto la domanda
attrice; in particolare esponeva
– che l’atto di permuta oggetto di contestazione non rientrava tra i poteri
dell’amministratore di sostegno, così che – attesa la specifica autorizzazione
resa dal giudice tutelare – non poteva essere imputato al convenuto;
– che la stima del valore dell’immobile acquistato, allegata da parte attrice, era
errata in fatto e in diritto, oltre che ancorata a erronee valutazioni
dimensionali. Il convenuto concludeva pertanto domandando il rigetto della
domanda attrice; per il denegato caso di accoglimento della stessa, chiamava
in causa con le modalità di rito la propria compagnia assicurativa, Generali
Italia spa. Generali Italia spa si costituiva in giudizio svolgendo difese del tutto
sovrapponibili a quelle del proprio assicurato.
* * * * *
Considerato che
– parte attrice individua quale condotta negligente posta in essere dal
convenuto quella consistita nella passiva accettazione della stima, in tesi
erronea per difetto, del valore dell’immobile acquisito in permuta dalla sig.ra
V., in difetto di ulteriori indagini che nel caso in esame sarebbero state
doverose;
– l’istruttoria condotta impone di escludere il ricorrere di profili di negligenza
degni di rilievo nella condotta posta in essere dal convenuto avv. C.
nell’espletamento del proprio ruolo di amministratore di sostegno della sig.ra
V. ;
– si consideri a tal fine che
▪ la ctu svolta in corso di causa – a ministero del geom. L. C. – oltre a
evidenziare la sussistenza di una possibile discrepanza (tra il valore
dell’immobile assunto in atto di permuta e quello, diverso, opinato da parte
attrice) di entità sensibilmente minore rispetto a quella sostenuta dall’attore,
risulta di fondamentale importanza nella parte in cui sottolinea il carattere
eminentemente variabile di questo tipo di valutazioni, e soprattutto la
fortissima incidenza delle concrete condizioni personali (dei soggetti coinvolti),
ambientali e sociali, che non sempre possono venire adeguatamente colte dalle
stime tecniche operate dai professionisti, stime che – peraltro – possono essere
anche sensibilmente differenti da quelle degli operatori di mercato (cfr. in
particolare a pag. 12 della relazione, ove si legge che “il ctu precisa che –
indipendentemente dalle valorizzazioni estimative aritmetiche di un bene
immobile – sul mercato si può giungere ad una determinazione differente del
“valore” stesso … tenendo conto di aspetti … come ad esempio in presenza di
competitor, oppure tenendo conto del bacino territoriale di riferimento ed il
subject acquirente … nel caso di specie … sarebbe possibile operare un
differente adeguamento del prezzo “a salire” rispetto al valore calcolato … [per
contro] non sussistono elementi all’epoca di riferimento tali da motivare un
adeguamento del prezzo “a scendere” rispetto al valore calcolato”);
▪ il sopra evidenziato ampio margine di variabilità della stima e
dell’apprezzamento del valore del bene immobile considerato, evidenzia in sé
la difficile, e a ben vedere insussistente, configurabilità di una condotta
negligente dell’amministratore di sostegno, ove si consideri ulteriormente 1) il
non enorme discostamento rispetto alla stima opinata dal ctu (solo oggi, e con
parametri tecnici verosimilmente non disponibili nelle concrete circostanze in
cui ha operato il convenuto); 2) la particolarissima situazione soggettiva
dell’amministrata, che a causa dei debiti accumulati in relazione all’immobile
già di proprietà (debiti che non aveva la provvista per sostenere e che erano
destinati nel tempo a crescere, con concrete e attuali prospettive di
pignoramento del bene da parte dei creditori, situazione che avrebbe azzerato
ogni possibilità di proficuo utilizzo del bene a fini di realizzo economico) era
gravata dalla concreta necessità e urgenza di procedere alla cessione del bene;
3) la notevole appetibilità dell’immobile acquisito in relazione alle scarse
entrate economiche della sig.ra V., visto che era caratterizzato dalla previsione
di minime spese di amministrazione; 4) la richiesta – positivamente esitata – di
autorizzazione all’operazione di permuta indirizzata dall’avv. C. al giudice
tutelare, con condotta che – prescindendosi in questa sede da ogni
considerazione in ordine alla giuridica titolarità dell’operazione in capo al
giudice tutelare, sostenuta dal convenuto – quanto meno evidenzia l’adozione
di adeguate cautele e modalità di confronto con l’organo massimo di tutela
dell’amministrata da parte dell’odierno convenuto;
▪ la particolare “conformazione normativa” dei rapporti intercorrenti tra
amministratore di sostegno, soggetto amministrato e giudice tutelare (sulla
quale cfr. Cass. SS.UU. n.1606/20), se non consente in sé di escludere in
astratto la configurabilità di forme di responsabilità risarcitoria
dell’amministratore di sostegno (perché non possono escludersi condotte
incidenti in concreto, e in senso lesivo degli interessi del soggetto
amministrato, sulle decisioni adottate dall’autorità giudiziaria), impone tuttavia
di valutare in concreto se sussistano elementi indicativi del fatto che l’esercizio
del potere di controllo (e la conseguente tutela del soggetto amministrato)
esercitato dal giudice con il provvedimento autorizzatorio reso
all’amministratore di sostegno sia stato in qualche modo dolosamente o
colpevolmente “sviato” da inidonea condotta informativa posta in essere
dall’amministratore di sostegno: circostanza che, nel caso in esame, non risulta
adeguatamente dimostrata (e a ben vedere nemmeno allegata) da parte
attrice;
– merita pertanto, in conclusione, pieno rigetto la domanda attrice;
– l’esito processuale comporta l’assorbimento della domanda di manleva svolta
dal convenuto nei confronti di Generali Italia spa, soggetto che – ai fini del
successivo provvedimento di governo delle spese di lite – deve affermarsi
essere stato correttamente chiamato in giudizio dal convenuto;
– la ripartizione delle spese di lite è orientata dalla soccombenza, secondo la
liquidazione operata in dispositivo;
– parimenti, vanno poste in via definitiva a carico di parte attrice le spese di
ctu, come liquidate in corso di causa;
P.Q.M.
Il giudice, pronunciando definitivamente, disattesa e respinta ogni diversa
domanda, istanza ed eccezione, così provvede:
– rigetta le domande attrici;
– pone definitivamente a carico di parte attrice le spese di ctu, come liquidate
in corso di causa;
– condanna E. M. L. V. a rifondere le spese di lite in favore di S. C. e di
Generali Italia spa; spese che – in applicazione dello scaglione di valore da €
52.000,01 a € 260.000,00 del regolamento recante la determinazione dei
parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense (D.Min.
Giust. n.147/22) e applicati i valori minimi in considerazione del concreto
valore di causa – si liquidano per ciascuno dei predetti soggetti in € 7.052,00
per compensi, oltre rimborso spese forfettario al 15%, Iva e Cpa nella misura e
con le modalità di legge.
Genova, 2.1.2025
Il giudice
dott. Pasquale Grasso

Nessun vincolo di solidarietà tra i coniugi in comunione legale dei beni per il debito contratto da uno solo.

Cass. civ., Sez. II, Ord., 11/12/2024, n. 31856
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente
Dott. GRASSO Giuseppe – Relatore
Dott. PAPA Patrizia – Consigliere
Dott. TRAPUZZANO Cesare – Consigliere
Dott. GRASSO Gianluca – Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso 22658/2019 R.G. proposto da:
A.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CASSIODORO 1/A, presso lo
studio dell’avvocato MARCO PAGANI, che la rappresenta e difende giusta
procura in atti;
– ricorrente –
contro
B.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANTONIO CIAMARRA 259,
presso lo studio dell’avvocato DANIELA CARLETTI, che lo rappresenta e difende
giusta procura in atti;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
nonché
C.C., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA ADRIANA 11, presso lo studio
dell’avvocato MARCO ROSSI, che la rappresenta e difende unitamente
all’avvocato DE ANGELIS ISABELLA MARIA CESARINA;
– controricorrente ai ricorsi principale e incidentale –
avverso la sentenza n. 3405/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata
il 22/05/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29/05/2024
dal Consigliere GIUSEPPE GRASSO;
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. A.A. ottenne sentenza di condanna nei confronti del di lei figlio, B.B., e della
moglie separata di costui, C.C., al pagamento della somma di Euro 152.237,54,
che l’attrice espose avere mutuato ai convenuti, onde consentire loro l’acquisto
della casa familiare.
2. Impugnò la sentenza la sola C.C.
2.2. La Corte d’Appello di Roma, accolta l’impugnazione della C.C., rigettò la
domanda avanzata nei di lei confronti dalla A.A.
La difformità dell’epilogo consiglia, sia pure in breve, riprendere, da sùbito, i
passaggi argomentativi salienti della decisione di secondo grado:
a) colui che chiede la restituzione di somma che affermi essere stata data a
mutuo, oltre alla consegna, deve provare il titolo, ancor più in ambito familiare
(cita Cass. nn. 180/2018 e 17050/2014 );
b) la scrittura dell’11/6/2004, con la quale il B.B. riconosceva il debito era priva
di valore nei confronti della C.C., la quale, non solo non ha l’aveva sottoscritta,
ma l’aveva anche contestata e il riconoscimento di uno dei debitori solidali non
produce effetto nei confronti degli altri, ai sensi dell’art. 1309 cod. civ., né
risultava che avesse rilasciato procura al marito;
c) peraltro, nel regime di comunione legale dei beni, il debito contratto da uno
dei coniuge, seppure allo scopo di far fronte ai bisogni della famiglia, non pone
l’altro coniuge nella veste di debitore solidale (cita Cass. n. 3471/2007 ), di
talché non v’è vincolo di solidarietà (cita Cass. n. 10116/2015 ).
3. A.A. propone ricorso sulla base di tre motivi.
B.B. in seno al depositato controricorso propone ricorso incidentale fondato su
quattro motivi.
C.C. resiste con controricorso al ricorso incidentale del B.B.
Sono state depositate memorie illustrative.
4. Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 1372 e
dell’art. 132 , co. 2, n. 4, cod. proc. civ., anche in relazione al n. 5 dell’art. 360
cod. proc. civ.
Si assume che la C.C. non avrebbe potuto essere considerata terza, “bensì
parte sostanziale”, per avere beneficiato del mutuo per la stipula del contratto
d’acquisto della casa familiare, ciò, per lo meno “sotto il profilo dell’affidamento
ingenerato nella signora A.A.”. Il preliminare d’acquisto era stato stipulato dalla
sola C.C. e in tale occasione la suocera aveva erogato una prima parte del
mutuo.
Tutti fatti che la sentenza aveva omesso di esaminare, giungendo a conclusione
in contrasto con l’art. 1372 cod. civ. e il principio d’apparenza (cita Cass. n.
3471/2007 ).
4.1. Il motivo è in parte inammissibile e per altra parte privo di fondamento.
Quanto al profilo d’inammissibilità.
Costituisce principio fermo che l’art. 360 , primo comma, n. 5, cod. proc. civ.,
riformulato dall’art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 , conv. in legge 7
agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile
per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o
secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia
carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito
diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle
previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4,
cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato
omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il
“come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra
le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi
istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo
qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in
considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte
le risultanze probatorie (S.U. n. 8053, 07/04/2014, Rv. 629831 – 01; alla quale
si è conformata la successiva giurisprudenza).
Peraltro, a volere prescindere da ogni altra considerazione, l’omesso esame
non sarebbe stato, in ogni caso, qui ipotizzabile, non vertendosi in ipotesi di
mancata considerazione di un fatto storico-documentale, avente carattere di
decisività, bensì, come già sopra s’è detto, di rivendicazione di un diverso
apprezzamento del complesso delle emergenze di causa (cfr., ex multis, Cass.
n. 18886/2023 ).
Quanto al resto.
Il richiamo alla sentenza n. 3471/2007 di questa Corte è operato solo a
riguardo di una delle massime tratte dalla predetta decisione, in particolare Rv.
595338 – 01.
La ricorrente, tuttavia, non s’avvede essere preclusivo il non verificarsi della
condizione delineata da altro principio di diritto tratto dalla medesima
sentenza, secondo il quale “Nella disciplina del diritto di famiglia, in relazione
alle obbligazioni contratte da uno solo dei coniugi nell’interesse della famiglia, il
creditore che, ai sensi dell’art. 189 cod. civ., voglia agire anche nei confronti
del coniuge dello stipulante, deve dimostrare non solo che il convenuto è
coniuge dello stipulante, ma anche che i beni della comunione non sono
sufficienti ad estinguere l’obbligazione e che l’unico debitore principale, il
coniuge stipulante, non abbia adempiuto l’obbligazione, assunta
esclusivamente a suo carico” (Rv. 595337 – 01).
Nel caso in esame non consta essere stato neppure prospettato che i beni della
comunione non siano sufficienti ad estinguere l’obbligazione.
5. Con il secondo motivo viene denunciata nullità della sentenza per violazione
degli artt. 112 e 132 , co. 2, n. 2, cod. proc. civ., per non essere state
riportate le conclusioni trascritte a verbale dalla esponente, fra le quali quelle
istruttorie, alle quali non si era dato corso, né in primo, né in secondo grado.
5.1. La doglianza è infondata.
Deve osservarsi che la Corte di merito, pur non avendo pedissequamente
trascritto le conclusioni, le ha, in sintesi, richiamate a pag. 3 e non consta che
non le abbia prese in considerazione.
Sul punto il Collegio intende dare continuità al principio secondo il quale
L’omessa trascrizione delle conclusioni delle parti non è di per sé causa di
nullità della sentenza, assumendo rilevanza solo se ed in quanto accompagnata
dalla mancata considerazione delle stesse da parte del giudice (Sez. 2, n.
11150, 09/05/2018, Rv. 648052).
Si è, inoltre, condivisamente precisato che l’omessa od erronea trascrizione
delle conclusioni delle parti nella intestazione della sentenza importa la sua
nullità solo quando le conclusioni formulate non sono state prese in esame,
mancando in concreto una decisione sulle domande o eccezioni ritualmente
proposte, mentre -se dalla motivazione della sentenza risulta che le conclusioni
delle parti sono state esaminate e decise, nonostante l’omessa o erronea
trascrizione – il vizio si risolve in una semplice imperfezione formale, irrilevante
ai fini della validità della sentenza (Sez. 5, n. 10465, 17/04/2024, Rv.
670843).
Quanto alla istanza istruttoria, che richiama la prova diretta e contraria di cui
alla memoria ex art. 183 cod. proc. civ., va osservato che, la stessa risulta
implicitamente non accolta, tenuto conto della “ratio decidendi” della sentenza,
né, peraltro, in questa sede la ricorrente spiega la peculiare decisività di essa
prova.
Il giudice di merito non è tenuto a respingere espressamente e motivatamente
le richieste di tutti i mezzi istruttori avanzate dalle parti qualora nell’esercizio
dei suoi poteri discrezionali, insindacabili in sede di legittimità, ritenga
sufficientemente istruito il processo. Al riguardo la superfluità dei mezzi non
ammessi può implicitamente dedursi dal complesso delle argomentazioni
contenute nella sentenza (Sez. 3, n. 14611, 12/07/2005, Rv. 584883).
6. Con il terzo motivo viene denunciata violazione degli artt. 132 , co. 2, n. 4,
cod. proc. civ., per “palese inesistenza della motivazione”.
La ricorrente afferma che la sentenza, avendo dichiarato che l’accoglimento
dell’appello rendeva “assorbita ogni altra censura”, aveva omesso di rendere
motivazione.
6.1. Il motivo non supera lo scrutinio d’ammissibilità.
Non è dato cogliere il significato della censura e l’interesse alla stessa. È del
tutto ovvio che le doglianze (o profili di esse) che sono state dichiarate
assorbite (in senso proprio) non possono che riguardare l’impugnazione della
C.C.
Non avendo la ricorrente proposto appello non potevano esserci motivi
d’impugnazione della stessa non esaminati perché assorbiti.
7. Il B.B. premette alla esposizione dei motivi del ricorso incidentale quanto
segue:
– in primo grado aveva chiesto, in via principale “la declaratoria della
responsabilità solidale della Signora C.C.” e, in subordine, “in via
riconvenzionale condizionata, per il caso di accoglimento della domanda, la
condanna di C.C. a tenerlo indenne per quanto fosse eventualmente
condannato a pagare all’attrice a titolo di restituzione del prestito erogato,
nella misura del 50% del capitale, nonché, per intero, di ogni ulteriore importo
comunque connesso alla pretesa restitutoria “;
– il Tribunale, rigettata ogni altra domanda ed eccezione, accolta la domanda
principale aveva condannato “B.B. e C.C. in solido al pagamento in favore di
A.A. della somma di Euro 152.337,54 “.
8. Con il primo motivo il ricorrente incidentale denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 1988 e 1309 cod. civ., nonché l’omesso esame di un
fatto controverso e decisivo, addebitando alla decisione di non avere
apprezzato la natura plurilaterale della scrittura, che conferiva certezza a un
rapporto già in essere, da cui derivava la solidale responsabilità dei coniugi,
trattandosi di obbligazione assunta nell’interesse familiare.
9. Con il secondo motivo denuncia violazione degli artt. 1362 e segg., 2697 e
2727 e segg. cod. civ., nonché 115 e 116 cod. proc. civ., nonché l’omesso
esame di fatti controversi e decisivi, addebitando alla decisione di non avere
applicato correttamente i criteri legali sull’ermeneutica negoziale, che
imponevano di tenere conto del tenore letterale dello scritto e del
comportamento delle parti, secondo il canone della buona fede.
10. Con il terzo motivo viene denunciata violazione e falsa applicazione degli
artt. 186 , 143 e 144 cod. civ., nonché l’omesso esame di fatti controversi e
decisivi, addebitandosi alla decisione di non avere tenuto conto del contenuto
completo del principio di diritto estratto dalle sentenza di cassazione nn.
3471/2007 e 10116/2005 , laddove viene fatto salvo il principio di apparenza,
causa del ragionevole affidamento sul fatto che il contraente agisca anche in
nome e per conto dell’altro coniuge. Doveva, inoltre, negarsi la qualità di terzo
alla C.C., la quale aveva preso parte alle trattative e stipulato con il marito il
contratto di compravendita, il cui corrispettivo era stato pagato con i soldi dati
a mutuo dalla A.A.
11. Con il quarto motivo viene denunciata violazione degli artt. 112 e 132 , co.
2, n. 4, cod. proc. civ., per non avere la Corte locale pronunciato sulle
domande subordinate del B.B. “concernenti, quand’anche esclusa la solidarietà
passiva della coniuge, la sussistenza della responsabilità di quest’ultima per
l’obbligazione dedotta in giudizio e il diritto dello stesso B.B. alla restituzione
da parte della stessa del 50% della somma mutuata”.
13. Le esposte censure incidentali sono accomunate dalla sorte
d’inammissibilità.
Con la comparsa di primo grado B.B. svolse domanda, che qualificò
“riconvenzionale”, nei confronti della C.C., chiedendo che la stessa “sia
dichiarata tenuta a conseguentemente condannata a tenerlo indenne e/o a
rimborsagli la sua quota parte del debito contratto”.
Il Tribunale, siccome riporta la sentenza d’appello, così decise: “In
accoglimento della domanda proposta condanna B.B. e C.C. in solido al
pagamento in favore di A.A. della somma di Euro 152.337,54”, oltre accessori
e al rimborso delle spese legali.
Il B.B. non appellò la sentenza del Tribunale che non aveva soddisfatto la sue
pretese nei confronti della C.C. e che lo aveva condannato in solido al rimborso
del mutuo in favore della madre; sentenza della quale, anzi, chiese
espressamente la conferma con l’atto costitutivo d’appello.
Da ciò deriva che la condanna al medesimo inflitta in primo grado è passata in
giudicato, siccome l’omessa pronuncia sulle domande avanzate nei confronti
della C.C.
Ne deriva che costui non è portatore di alcun interesse giuridicamente
apprezzabile al ricorso incidentale. Pertanto, il ricorso incidentale, è nel suo
complesso, inammissibile.
14. Il regolamento delle spese segue la soccombenza e le stesse vanno
liquidate, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonché delle
svolte attività, siccome in dispositivo, in favore della controricorrente.
Le stesse vanno poste a carico solidale della ricorrente A.A. e del ricorrente
incidentale B.B., avendo quest’ultimo aderito, sostanzialmente alla posizione
della prima, avversando quella della controcorrente C.C.
La comunione di posizioni induce a compensare le spese tra la A.A. e il B.B.
15. Ai sensi dell’art. 13 , comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1
, comma 17 legge n. 228/12 ) applicabile ratione temporis (essendo stato il
ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), sussistono i
presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente principale e
di quello incidentale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari
a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso
art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso principale, dichiara inammissibile quello incidentale e
condanna in solido la ricorrente A.A. e il ricorrente incidentale B.B. al
pagamento, in favore della controricorrente C.C., delle spese del giudizio di
legittimità, che liquida in Euro 6.500,00 per compensi, oltre alle spese
forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e
agli accessori di legge. Compensa fra la A.A. e il B.B.
Ai sensi dell’art. 13 , comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1 ,
comma 17 legge n. 228/12 ), si dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento da parte della ricorrente principale e di quello
incidentale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
previsto per il rispettivo ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13,
se dovuto.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 29 maggio 2024.
Depositato in Cancelleria l’11 dicembre 2024.

Le violenze inflitte al coniuge determinano l’addebito della separazione e la condanna al risarcimento dei danni.

Corte d’Appello di Ancona, Sentenza 16 dicembre 2024,
N. R.G. 726/2024
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE D’APPELLO DI ANCONA
SECONDA SEZIONE CIVILE
ha pronunciato la
seguente
S E N T E N Z A
nella causa civile in II grado iscritta al N° 726 del Ruolo generale dell’anno
2024,
promossa da
R. E. , rappresentata e difesa dall’avv. Valentina Lo Bartolo per procura in calce
al ricorso in primo grado
– Appellante –
CONTRO
C. A. , rappresentato e difeso dall’avv. Michele Pratelli per procura in calce alla
comparsa di costituzione in appello
– Appellato –
NEI CONFRONTI DI
PROCURA GENERALE della REPUBBLICA di ANCONA in persona del Procuratore
pro tempore
-Intervenuta –
Al quale è stato riunito il giudizio di II grado iscritto al N° 731 del Ruolo
generale dell’anno 2024, promossa da
C. A. , come sopra rappresentato e difeso
– Appellante –
CONTRO
R. E. , come sopra rappresentata e difesa
– Appellata –
NEI CONFRONTI DI
PROCURA GENERALE della REPUBBLICA di ANCONA in persona del
Procuratore pro tempore
-Intervenuta –
OGGETTO: appello avverso la sentenza n. 526 pronunciata dal Tribunale di
Pesaro all’esito della camera di consiglio tenutasi in data 28.05.2024
Sulle CONCLUSIONI
Per la R. :
“Piaccia all’Ecc.ma Corte di Appello di Ancona, ogni avversa e/o diversa
domanda, eccezione e conclusione disattesa, in accoglimento del presente atto
di gravame, così statuire:
In Via principale di merito: a) ritenuti fondati i motivi esposti con l’appello,
riformare in parte qua i capi della sentenza impugnata n. 526/2024, emessa
nella causa R.G. n. 1451/2021 dal Tribunale di Pesaro, G.I. Dott. Davide Storti
in data 17.06.2024, depositata e notificata il 18.06.2024 a mezzo pec,
pertanto, in accoglimento dei motivi tutti di appello sopraesposti e delle
conclusioni spiegate dalla Appellante, così statuire:
1) In via principale e nel merito pronunciare la separazione personale dei
coniugi E. R. e A. C. con dichiarazione di addebito a carico di quest’ultimo per
tutti i fatti esposti degli atti depositati, consistenti nella grave e reiterata
violazione di tutti i doveri nascenti dal matrimonio, come sono stati provati nel
corso della istruttoria documentale ed orale espletata, consistenti nella grave e
reiterata violazione del dovere di rispetto della dignità, libertà e onore della
persona della coniuge e nella mancanza di assistenza morale e materiale;
2) condannare A. C. al risarcimento dei danni morali, esistenziali e biologici
patiti dalla sig.ra R. E. per la sua condotta di grave lesione della integrità
psicofisica, della salute e della dignità della coniuge, come in atti descritta,
nella somma che si quantifica in €50.000,00= e/o in quella diversa somma che
risulterà di Giustizia;
3) condannare A. C. ex art. 96 c.p.c. al risarcimento dei danni per lite
temeraria nella somma che verrà ritenuta equa e di giustizia; 4) disporre la
cancellazione delle espressioni sconvenienti ed offensive a pag. 18 della
comparsa di costituzione del Resistente “pessima moglie” ed altre analoghe
espressioni contenute nei successivi scritti difensivi (in particolare nella III
memoria istruttoria “quella di instaurare numerosi rapporti esogamici”) con
condanna della Controparte ex art. 89 c.p.c. e delle altre espressioni lesive
della dignità della medesima;
5) rigettare in ogni caso ogni avversa, diversa domanda.
6) confermare per il resto della sentenza impugnata.
7) Vittoria di spese, funzioni ed onorari del primo e secondo grado di giudizio,
incluse le fasi cautelari e di reclamo, da distrarsi in favore dello Stato, avendo
la Appellante presentato domanda di ammissione al beneficio”.
Per il C.:
“Piaccia all’Ecc.ma Corte di Appello adito, ogni contraria istanza ed eccezione
disattesa, respingere il gravame avversario in quanto inammissibile oltre che
infondato in fatto e in diritto per le ragioni di cui in narrativa.
Voglia altresì, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Pesaro n.
526/2024 emessa in data 17.06.2024 all’esito del giudizio n. 1451/2021 RG,
notificata in data 18.06.2024, e in accoglimento dei suesposti motivi: – in via
principale, dichiarare la separazione personale dei coniugi con addebito a
carico della sig.ra R. per le ragioni esposte in atti e conseguentemente
disporre che quest’ultima non ha diritto a percepire alcun assegno di
mantenimento;
– in subordine, accertare e dichiarare che la sig.ra R. non ha comunque diritto
a percepire alcun assegno di mantenimento per le ragioni di cui al terzo motivo
di gravame;
– in ulteriore subordine, rideterminare l’importo mensile del contributo
economico da corrispondersi a controparte tenuto conto delle ragioni espresse
al punto 3) del presente atto.
In ogni caso, vinte le spese di lite del doppio grado di giudizio”.
Per la Procura intervenuta:
“Visti gli atti del fascicolo in epigrafe indicato e l’appello avverso la sentenza
del Tribunale collegiale di Pesaro nel procedimento di separazione personale tra
le parti in questione in punto omesso addebito della separazione all’attuale
parte appellata, mancato risarcimento e spese del giudizio;
considerato che le doglianze esposte appaiono infondate atteso che il Tribunale
con motivazione esaustiva e del tutto condivisibile ha fondato e motivato la
decisione parametrandola alle risultanze dell’ampia attività istruttoria svolta ed
in conformità all’orientamento giurisprudenziale in materia
Chiede il rigetto dell’appello “
FATTI DI CAUSA
E. R. si è rivolta al Tribunale di Pesaro al fine di sentir dichiarare la
separazione personale dal marito A. C. con addebito a carico del resistente, il
quale avrebbe violato il dovere di fedeltà ed avrebbe avuto un comportamento
aggressivo e controllante; la ricorrente ha altresì chiesto che vengano posti a
carico della controparte un assegno in favore della moglie ed un adeguato
contributo al mantenimento del figlio D. , maggiorenne ma non ancora
autonomo.
Costituendosi in giudizio, il C. ha preliminarmente eccepito il difetto di
giurisdizione del Tribunale adito, essendo stato già avviato nella Repubblica
Dominicana un giudizio volto allo scioglimento del matrimonio, ivi contratto; in
via subordinata, il resistente ha contestato la fondatezza delle domande
proposte dalla ricorrente ed ha chiesto che la separazione venga piuttosto
addebitata alla moglie, la quale avrebbe intrattenuto relazioni extraconiugali; il
C. non si è comunque opposto al versamento di un assegno in favore del figlio
D. , evidenziando peraltro di provvedere direttamente alle esigenze del figlio
maggiore
N. , il quale da tempo vive presso il padre.
All’esito della pronuncia parziale con cui in data 16.03.2022 è stata dichiarata
la separazione personale tra i coniugi e dell’istruttoria successivamente svolta,
con sentenza pronunciata nella camera di consiglio tenutasi in data 28.05.2024
il Tribunale di Pesaro ha rigettato le reciproche domande di addebito, ponendo
a carico del marito un assegno mensile d’importo pari ad euro 2.500,00 quale
concorso nel mantenimento della moglie ed un assegno d’importo pari ad euro
500,00 quale concorso nel mantenimento del figlio D. , oltre al concorso in
misura pari al 75% nelle spese straordinarie che si renderanno necessarie per
il ragazzo, compensando infine tutte le spese di lite tra le parti.
I primi giudici, dopo aver ritenuto che il C. abbia di fatto rinunciato
all’eccezione di difetto di giurisdizione, hanno evidenziato che il rapporto
coniugale appariva irrimediabilmente logorato sin dal novembre/dicembre 2020
e che pertanto risulta irrilevante qualsiasi violazione dell’obbligo di fedeltà
eventualmente commessa dalla R. nel marzo 2021; hanno altresì escluso che
l’istruttoria complessivamente svolta abbia comprovato i maltrattamenti ascritti
al marito, rigettando per tale motivo non soltanto la richiesta di addebito, ma
anche la domanda di risarcimento danni proposta nei suoi confronti.
Avverso tale pronuncia ha proposto appello la R. , la quale ha richiamato tutti
gli elementi dai quali dovrebbero desumersi i comportamenti aggressivi tenuti
dal marito, oggetto anche di un separato procedimento penale; l’appellante ha
altresì ribadito la richiesta di risarcimento danni ai sensi dell’art. 96 c.p.c. e di
cancellazione delle espressioni offensive contenute negli atti processuali della
controparte.
Anche il C. ha proposto appello avverso la medesima pronuncia, censurando il
mancato accoglimento della domanda di addebito proposta nei confronti della
moglie e ribadendo che sino al marzo 2021 il menage familiare era proseguito
secondo le modalità consuete; ha altresì contestato che sussistano i
presupposti per riconoscere un assegno di mantenimento in favore della R. , la
quale disporrebbe di redditi propri e non si sarebbe attivata per reperire un
lavoro, chiedendo in ogni caso il ridimensionamento del contributo determinato
dai primi giudici.
La Procura Generale, intervenendo in entrambi i giudizi, ha chiesto il rigetto di
entrambe le impugnazioni.
All’esito della riunione delle cause e delle plurime memorie depositate dalle
parti,
la presente causa è stata infine trattenuta in decisione in data 23.10.2024 nelle
forme della camera di consiglio.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo e principale motivo d’appello, la R. censura la sentenza nel
capo in cui i primi giudici hanno ritenuto che l’istruttoria svolta non abbia
adeguatamente comprovato i comportamenti aggressivi imputati al C.;
l’appellante ribadisce invece la propria domanda di addebito, evidenziando che
gli elementi complessivamente acquisiti comproverebbero pienamente il
comportamento aggressivo e controllante tenuto dal marito nei confronti della
moglie.
Tale motivo dev’essere accolto.
E’ stato infatti chiarito da tempo che “le reiterate violenze fisiche e morali,
inflitte da un coniuge all’altro, costituiscono violazioni talmente gravi dei doveri
nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé, non solo la pronuncia di
separazione personale, in quanto cause determinanti la intollerabilità della
convivenza, ma anche la dichiarazione della sua addebitabilità al loro autore”
(leggasi da ultimo Cass. Sez. I, ordinanza n.22294 del 07.08.2024).
Nel caso di specie, il C. non ha mai contestato di aver inviato i numerosissimi
messaggi prodotti dalla moglie, caratterizzati da una particolare violenza
verbale, da chiare minacce e da continue ingiurie: basti pensare al messaggio
inviato in 24.05.2018 in cui il marito ha scritto “il collo te lo dovevo spezzare
anni fa, ammazzare a te e a quel mocassinaro”, oppure ai continui messaggi
inviati nel pomeriggio del 01.07.2019, contenenti pesanti insulti e ripetute
minacce di “cancellare dalla faccia della terra” la moglie, cui chiarisce: “ti
ammazzo con le mie mani, sappilo”. I testimoni escussi hanno altresì
confermato le continue richieste del marito di sapere dove e con chi si trovasse
in ogni momento la moglie, la quale era spesso costretta ad inviargli foto o
video per comprovare quanto aveva appena riferito.
Pur non essendo emersa dalla documentazione medica prodotta e dalle
dichiarazioni rese dai testi una prova incontrovertibile in merito alle percosse
riferite dalla R., in conclusione, è stato comunque comprovato un
comportamento aggressivo del C. che non può trovare alcuna giustificazione
nella sua particolare gelosia: è stato del resto chiarito che, anche in ambito
penale, tale sentimento non costituisce una scriminante, né un’attenuante, ma
può addirittura aggravare il reato ove assuma “caratteristiche morbose e di
ingiustificata espressione di supremazia e possesso” (leggasi ad esempio Cass.
Sez. I Penale, sentenza n.16054 del 10.03.2023).
Le ingiurie e le minacce non possono ritenersi giustificate neppure alla luce
delle problematiche psichiche desumibili dalla documentazione medica
prodotta, tenuto conto che “in tema di separazione dei coniugi, ove uno di essi
sia affetto da una patologia psichiatrica che non comporti un’effettiva
incapacità di intendere e volere, il giudice, ai fini della pronunzia di addebito,
non è esonerato dalla verifica e valutazione dei comportamenti coniugali allo
scopo di accertare l’eventuale violazione dei doveri di cui all’art. 143 c.c. e la
loro efficacia causale nella crisi coniugale” (cfr. Cass. Sez. I, ordinanza n.10711
del 20.04.2023); nel caso di specie, risulta evidente che le eventuali
problematiche del C. non hanno pregiudicato in alcun modo la sua capacità di
inserirsi proficuamente nella società e non possono quindi scriminare i suoi
comportamenti.
In accoglimento dell’appello ed in riforma della sentenza di primo grado,
quindi, la separazione dev’essere addebitata al marito.
2. Con il secondo motivo d’appello, poi, la R. censura la sentenza nel capo in
cui i primi giudici hanno rigettato la domanda di risarcimento dei danni;
l’appellante ribadisce invece di aver adeguatamente comprovato i
comportamenti illeciti addebitati al marito.
L’impugnazione dev’essere condivisa anche sotto tale profilo. E’ stato infatti
chiarito che la violazione degli obblighi coniugali può giustificare non soltanto
l’addebito della separazione, ma anche la condanna al risarcimento dei danni
ove sia stato accertato un comportamento tale da integrare un illecito rilevante
ai sensi degli artt. 2043 e ss. c.c. (leggasi ad esempio Cass. Sez. I, ordinanza
n.16740 del 06.08.2020).
Come già evidenziato nel precedente capo, l’istruttoria ha consentito di
accertare comportamenti del C. astrattamente riconducibili a fattispecie
penalmente rilevanti (a prescindere dall’esito del procedimento pendente a suo
carico per i medesimi fatti).
Risulta altresì ragionevole presumere che tali comportamenti abbiano
determinato un concreto turbamento nella R. nell’ultimo periodo della relazione
coniugale: facendo riferimento in via analogica ai parametri elaborati dalla
giurisprudenza di merito per la liquidazione del danno non patrimoniale, risulta
quindi equo determinare il risarcimento spettante all’odierna appellante
nell’importo pari ad euro 10.000,00 in valuta attuale.
3. Dev’essere a questo punto esaminato il primo e principale motivo
dell’appello proposto dal C., il quale censura la sentenza nel capo in cui i primi
giudici hanno rigettato la domanda di addebito della separazione alla moglie;
l’appellante ribadisce a riguardo che la R. avrebbe ripetutamente violato
l’obbligo di fedeltà al coniuge.
Tale motivo dev’essere rigettato.
Come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità sopra citata, infatti,
l’accertamento di eventuali condotte violente “esonera il giudice del merito dal
dovere di procedere alla comparazione, ai fini dell’adozione delle relative
pronunce, col comportamento del coniuge che sia vittima delle violenze,
trattandosi di atti che, in ragione della loro estrema gravità, sono comparabili
solo con comportamenti omogenei” (cfr. Cass. Sez. I, ordinanza n.22294 del
07.08.2024).
Tenuto conto dei comportamenti accertati a carico del marito, pertanto,
risultano irrilevanti le eventuali violazioni dei doveri coniugali imputabili alla
moglie, non essendosi tradotte in comportamenti caratterizzati da violenza.
4. Con il secondo ed il terzo motivo d’appello, poi, il C. censura la sentenza nel
capo in cui i primi giudici hanno posto a suo carico un assegno di
mantenimento in favore della moglie d’importo pari ad euro 2.500,00 mensili;
l’appellante evidenzia a riguardo la capacità professionale della R. , la quale
non si adopererebbe in alcun modo per reperire un lavoro.
L’impugnazione dev’essere rigettata anche sotto tale profilo. I primi giudici,
infatti, hanno già tenuto conto degli aspetti evidenziati dal C., ma hanno
comunque riconosciuto alla R. un congruo assegno di mantenimento in
considerazione dell’elevatissimo tenore di vita goduto nel corso della relazione
matrimoniale e delle risorse di cui ancor oggi dispone il marito, solo in parte
desumibili dalla documentazione prodotta.
Né rileva il fatto che, all’esito del giudizio di scioglimento del matrimonio
successivamente avviato, il Tribunale di Pesaro abbia riconosciuto in favore
della R. un assegno divorzile d’importo sensibilmente minore (secondo quanto
risulta dalla documentazione prodotta nel procedimento riunito n.731/2024),
tenuto conto dei diversi presupposti su cui continua ancor oggi a fondarsi
l’assegno di mantenimento.
5. Debbono da ultimo essere rigettate sia l’istanza avanzata dalla R. al fine di
ottenere la cancellazione delle espressioni a proprio avviso offensive contenute
negli atti della controparte, sia la domanda volta ad ottenere la condanna del
C. al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 96 c.p.c.
E’ stato infatti chiarito da tempo che, “in tema di espressioni offensive o
sconvenienti contenute negli scritti difensivi, non può essere disposta, ai sensi
dell’art. 89 cod. proc. civ., la cancellazione delle parole che non risultino
dettate da un passionale e incomposto intento dispregiativo, essendo ben
possibile che nell’esercizio del diritto di difesa il giudizio sulla reciproca
condotta possa investire anche il profilo della moralità, senza tuttavia eccedere
le esigenze difensive o colpire la scarsa attendibilità delle affermazioni della
controparte. Ne consegue che non possono essere qualificate offensive
dell’altrui reputazione le parole (…), che, rientrando seppure in modo piuttosto
graffiante nell’esercizio del diritto di difesa, non si rivelino comunque lesive
della dignità umana e professionale dell’avversario” (leggasi ad esempio Cass.
Sez. III, sentenza n.26195 del 06.12.2011).
Nel caso di specie, le espressioni percepite come offensive dalla R. risultano
strettamente connesse alla domanda di addebito proposta dal C. ed in ogni
caso non hanno superato il limite della continenza verbale.
Analoghe conclusioni debbono essere tratte per quanto riguarda la domanda di
risarcimento proposta ai sensi dell’art. 96 c.p.c., non essendo emerso alcun
elemento dal quale poter desumere che il marito abbia agito con mala fede o
colpa grave: è stato del resto chiarito che “agire in giudizio per far valere una
pretesa non è di per sé condotta rimproverabile, anche se questa si riveli
infondata, dovendosi attribuire a tale figura carattere eccezionale e/o
residuale, al pari del correlato istituto dell’abuso del processo, giacché una sua
interpretazione lata o addirittura automaticamente aggiunta alla sconfitta
processuale verrebbe a contrastare con i principi dell’art.24 Cost.” (leggasi ad
esempio Cass. Sez. III, ordinanza n.19948 del 12.07.2023).
6. L’esito complessivo del giudizio, caratterizzato dalla prevalente soccombenza
del C., ne impone la condanna a rifondere le spese di entrambi i gradi di
giudizio, secondo gli importi liquidati in dispositivo in considerazione
dell’attività processuale effettivamente necessaria ai fini della decisione.
Sussistono altresì i presupposti previsti dall’art. 13 comma 1 quater D.P.R. n.
115 del 2002 per il versamento da parte del C. (appellante nel giudizio riunito)
di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato in misura pari a quello
dovuto per l’appello.
P.Q.M.
La Corte d’appello, definitivamente pronunciando sull’appello proposto da R. E.
e da C. A. avverso la sentenza n. 526 pronunciata dal Tribunale di Pesaro
all’esito della camera di consiglio tenutasi in data 28.05.2024, cosí dispone:
In parziale riforma della sentenza,
ADDEBITA la separazione al marito.
DICHIARA TENUTO e CONDANNA C. A. a risarcire il danno subito da R. E. in
conseguenza dei fatti meglio descritti in motivazione, liquidandolo nell’importo
complessivamente pari ad euro 10.000,00. RIGETTA l’istanza proposta dalla R.
ai sensi dell’art. 89 c.p.c., nonché la domanda proposta ai sensi dell’art. 96
c.p.c..
PONE a carico di C. A. le spese di entrambi i gradi di giudizio, liquidate per
quanto riguarda il primo grado in complessivi euro 7.600,00 per compenso
professionale e per quanto riguarda il presente grado in euro 6.000,00 per
compenso professionale, in entrambi i casi oltre a rimborso forfettario spese
generali e ad oneri fiscali e previdenziali nella misura di legge.
DA’ ATTO che sussistono i presupposti per porre a carico del medesimo
soccombente, ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater D.P.R. 115 del 2002,
l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato in
misura pari a quello dovuto per l’appello.
Così deciso in Ancona, nella camera di consiglio del 4 dicembre 2024
Il Consigliere estensore Il Presidente
dott. Valentina Rascioni dott. Guido Federico

La separazione è addebitabile alla moglie fedifraga anche se il marito ha tollerato il tradimento

Tribunale di Pordenone,
Sentenza del 16 ottobre 2024, n. 587
Svolgimento del processo
Con sentenza parziale n. 479/2023 pubblicata il 10/07/2023, il Tribunale ha
pronunciato la separazione personale dei coniugi e con separata ordinanza ha
disposto la rimessione della causa in istruttoria sulle domande accessorie.
Concessi i termini ex art.183 VI comma c.p.c. ed espletata l’istruttoria, la
causa è stata rimessa al Collegio per la decisione all’udienza del 7 giugno
2024, tenutasi mediante trattazione scritta, previa concessione dei termini di
cui all’art.190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e note di
replica.
Motivi della decisione
1. Addebito.
L’art. 151, secondo comma, c.c. stabilisce “Il giudice, pronunziando la
separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale
dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo
comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”. Presupposto
fondamentale della dichiarazione di addebito, pertanto, è, oltre alla domanda di
parte, la prova della violazione, da parte del coniuge contro il quale l’addebito
è richiesto, di uno o più obblighi derivanti dal matrimonio. La valutazione
discrezionale del giudice di merito deve comprendere il complessivo
comportamento dei coniugi nello svolgimento del rapporto coniugale, con la
conseguenza che il contegno tenuto da un coniuge dovrà essere giudicato
valutandolo comparativamente con quello tenuto dall’altro coniuge (Cass. civ.
n. 11792 del 05/05/2021). Tuttavia, il comportamento oggettivamente
riprovevole di un coniuge non può dirsi giustificato dalla provocazione dell’altro
quando si traduca nella violazione di regole imperative di condotta e di norme
morali di particolare rilevanza sociale ovvero la violazione degli obblighi di
fedeltà e di assistenza morale e materiale. Altro presupposto per la pronuncia
di addebito è l’accertamento che il comportamento contrario ai doveri coniugali
abbia causato l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, gravando sul
coniuge richiedente l’onere della prova, sia della contrarietà del
comportamento del coniuge ai doveri che derivano dal matrimonio, sia
dell’efficacia causale di questi comportamenti nel rendere intollerabile la
prosecuzione della convivenza. (Cass. civ. n. 16691 del 05/08/2020).
Orbene, ciò premesso, nel caso di specie il marito sostiene che la crisi
matrimoniale sia esclusivamente addebitabile alle condotte della moglie, la
quale avrebbe avuto diverse relazioni extraconiugali e avrebbe abbandonato la
casa familiare.
Procedendo con ordine, ed esaminando per prima cosa l’accertata sussistenza
delle relazioni extraconiugali della moglie, tale circostanza può affermarsi come
provata in quanto la stessa ricorrente TULLIA l’ha dichiarata nel corso della
consulenza tecnica d’ufficio espletata in corso di causa; l’incarico è stato
conferito nel giudizio di separazione per accertare le competenze genitoriali e
quale modalità di affido appaia di maggior interesse per i minori e, nella
ricostruzione della storia coniugale e familiare, la ricorrente TULLIA ha
dichiarato di aver iniziato una prima relazione nell’ottobre 2018, di averla
chiusa e di averne intrapreso un’altra nel 2021 (v. pag. 17 della relazione della
consulenza tecnica d’ufficio, in atti).
Giova precisare che le dichiarazioni rilasciate al consulente tecnico d’ufficio
durante i colloqui hanno la valenza di confessione stragiudiziale rilasciata ad un
terzo, ai sensi dell’art. 2735, comma primo, seconda parte, c.c. e possono
ben essere poste a fondamento della decisione, poiché nell’ordinamento
processuale civile vigente manca una norma di chiusura che imponga la
tassatività dei mezzi di prova ed è pertanto consentito il ricorso alle prove
atipiche (sul tema v. ex multis Sez. 2 – , Ordinanza n. 3689 del 12/02/2021,
Sez. 3, Ordinanza n. 24468 del 04/11/2020; per analogia con il caso di specie
“Nei giudizi di separazione fra coniugi, ai fini della statuizione sull’affidamento
dei figli il giudice può legittimamente valorizzare il contenuto delle relazioni del
coordinatore genitoriale, unitamente alle risultanze della consulenza tecnica
d’ufficio, poiché nell’ordinamento processuale vigente manca una norma di
chiusura che imponga la tassatività dei mezzi di prova ed è pertanto consentito
il ricorso alle prove atipiche . Sez. 1 – , Ordinanza n. 27348 del 19/09/2022).
Tali dichiarazioni, valutate unitamente ai contenuti delle copie di riproduzioni
informatiche di messaggistica istantanea allegati sub doc. n. 4 di parte
convenuta (non è stata contestata da parte ricorrente la loro conformità agli
originali nella prima difesa utile) induce a ritenere effettivamente sussistenti i
fatti lamentati dal marito.
Infatti, nel documento n. 4 allegato alla comparsa di costituzione e risposta si
legge una conversazione tenuta tra i coniugi con messaggistica istantanea con
inequivoci riferimenti alla scoperta dei tradimenti della moglie da parte del
marito e con altrettante inequivoche ammissioni della moglie, definitivamente
confermate poi dalle dichiarazioni rese al terzo consulente nel corso del
processo.
Passando ora al secondo aspetto, la questione che si pone nel caso di specie è
se i tradimenti della moglie possano ritenersi di per sé la sola causa del venir
meno dell’affectio coniugalis.
A tal proposito, parte ricorrente eccepisce, da un lato, la tolleranza
dell’infedeltà da parte del marito – in quanto la coppia avrebbe intrapreso
successivamente alla scoperta dei tradimenti un percorso psicoterapeutico – e,
dall’altro lato, che la vita matrimoniale era stata caratterizzata da momenti
difficili, da trascuratezza da parte del marito ed eccessiva irritabilità dello
stesso, paventando così la preesistenza della crisi matrimoniale rispetto
all’infedeltà della moglie.
Tali eccezioni, tuttavia, non possono ritenersi adeguatamente dimostrate.
Quanto alla tolleranza, la stessa non può costituire un esimente rispetto alla
violazione dell’obbligo di fedeltà (cfr. sul punto cass. civ. 25966/2022), né può
dirsi, nel caso di specie, che la stessa si sia rivelata quale indice dell’assenza
da tempo di affectio coniugalis (una sorta di indifferenza da parte del marito).
Invero, dagli atti e da quanto riferito dai coniugi nel corso delle operazioni
peritali, è emerso che al tempo del primo tradimento, quello del 2018, la
moglie avrebbe riferito al marito una diversa versione (non meglio specificata)
e che il marito le avrebbe creduto; qualche anno dopo, ella ha confessato il
primo tradimento, il marito ha intrapreso una serie di ricostruzioni ed ha
scoperto altre infedeltà, a quel punto vi è stato un forte litigio tra i coniugi nel
marzo del 2022, con un episodio di aggressione fisica da parte del marito nei
confronti della moglie (riconosciuto dal marito). Tale episodio ha determinato
poi l’allontanamento, prima provvisorio poi definitivo, della moglie e dei figli
dalla casa familiare e il determinarsi di una serie di fatti conseguenti, tra cui
anche un percorso psicoterapeutico per la gestione dei figli in quel momento,
per di più interrottosi presto per disaccordo.
Pertanto, dalla ricostruzione finora effettuata non è emerso un contegno del
marito che possa essere qualificato come tolleranza dell’infedeltà della moglie;
né può ritenersi che le mere dichiarazioni di parte, non suffragate da altre
prove (le prove testimoniali chieste da parte ricorrente vertono sulle attività
lavorative dei coniugi, sull’organizzazione familiare e sul litigio violento tra i
coniugi, ma nulla dicono su una preesistente crisi coniugale), siano sufficienti a
far ritenere che fosse venuta meno da tempo risalente l’affectio coniugalis. Il
marito, infatti, ha riferito al consulente tecnico d’ufficio alcuni momenti forti
della vita matrimoniale (la depressione post- partum della moglie, il ricovero
della stessa in psichiatria, il ricovero del secondo figlio neonato, il
trasferimento del marito per ragioni di lavoro e la gestione del ménage
familiare, il successivo ricongiungimento di moglie e figli nella nuova residenza
del marito), ma riferisce, altresì, di aver sempre percepito la coppia come unita
e forte. Dinanzi a tale diversa versione dei fatti, ritenuta provata l’infedeltà e il
suo stretto nesso con il disgregarsi dell’affectio coniugalis, graverebbe sulla
moglie dimostrare l’interruzione del nesso di causalità tra l’infedeltà della
moglie e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza matrimoniale,
dimostrando cioè la preesistenza della crisi (cfr. sul punto cass. civ.
3923/2018), ma tale prova non può dirsi raggiunta nell’odierno processo.
Per quanto concerne, infine, la seconda violazione di cui il marito si duole, e
cioè l’allontanamento della moglie dalla casa familiare, tale comportamento si
inserisce nell’epilogo della crisi ed è giustificato quale reazione al litigio violento
(in occasione del quale il marito avrebbe percosso la moglie con schiaffi e
spintoni) accaduto nel marzo del 2022;
anche quest’ultimo episodio – che nella sua autonoma portata e rilevanza
penale a carico del marito è stato valutato nelle sedi proprie – non rappresenta
che il precipitato dell’irreversibilità della crisi coniugale, cagionata, per tutte le
ragioni sopra esposte, dalla condotta infedele della moglie.
La domanda di addebito, pertanto, è fondata. La separazione dei coniugi sarà
pertanto dichiarata addebitabile alla moglie.
2. Assegno di mantenimento a favore della moglie.
La domanda di assegno di mantenimento avanzata dalla moglie è infondata e
sarà, pertanto, rigettata.
Ai sensi dell’art. 156 c.c., infatti, uno dei requisiti per riconoscere il diritto di
ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento è che la
separazione non sia addebitabile al richiedente.
L’addebito della separazione a carico della moglie esclude, pertanto, il suo
diritto all’assegno di mantenimento.
3. Provvedimenti riguardo ai figli e pendenza del giudizio di divorzio.
Per quanto concerne i provvedimenti riguardo ai figli, deve darsi atto della
pendenza tra le parti di procedimento di divorzio, incardinato davanti al
Tribunale di Verona (quale giudice competente per la residenza dei minori),
ove sono stati adottati provvedimenti cautelari a tutela dei minori ai sensi
dell’art. 473-bis.15 c.p.c. e ove è stata pronunciata in data 18 settembre 2024
ordinanza ex art. 473-bis.22 c.p.c. con provvedimenti temporanei e urgenti,
come dichiarato da parte ricorrente e non contestato da parte resistente.
L’ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 473-bis.22 c.p.c. nel giudizio di
divorzio, suscettibile di conservare la sua efficacia anche dopo una eventuale
estinzione del processo, prevale sui provvedimenti provvisori emessi nel
giudizio di separazione; pertanto, con la presente sentenza il Tribunale deve
limitarsi a dare atto della vigenza dell’ordinanza ex art. 473-bis.22 c.p.c. nel
giudizio di divorzio sull’affido e mantenimento della prole, e ciò per evitare il
rischio di contrasti nelle decisioni e privilegiare quelle decisioni destinate
comunque a travolgere quelle della separazione e a proiettare i propri effetti
nel tempo in modo più duraturo nella regolamentazione dei rapporti tra i
coniugi; tuttavia, al fine di non privare di un titolo esecutivo l’avente diritto
all’assegno di mantenimento a favore della prole fino alla sopravvenienza dei
provvedimenti del divorzio, non appare superfluo ribadire in sentenza che sono
fermi fino a tale momento i provvedimenti assunti in corso di causa.
4. Spese.
Profili di reciproca soccombenza (la ricorrente perde sull’addebito e
sull’assegno di mantenimento, il resistente ha perso nei provvedimenti
provvisori stabiliti in corso di causa e nel reclamo dinanzi alla Corte d’Appello)
giustificano l’integrale compensazione tra le parti delle spese del presente
giudizio. Per le stesse ragioni gli oneri della c.t.u., già liquidati con separato
decreto, sono a carico di entrambe le parti in quote uguali, ferma la solidarietà
nei confronti del c.t.u.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza disattesa, così
provvede:
dichiara che la separazione dei coniugi è addebitabile a TULLIA; rigetta la
domanda di assegno di mantenimento a favore della moglie; sull’affido e
mantenimento della prole dà atto che è pendente giudizio di divorzio tra i
coniugi, ove sono state pronunciate ordinanze ex art. 473-bis.15 e 473-bis.22
c.p.c., fermi restando sino a tali pronunce i provvedimenti pronunciati nel corso
della presente causa; compensa le spese di lite; pone gli oneri della c.t.u., già
liquidati con separato decreto, a carico di entrambe le parti in quote uguali,
ferma la solidarietà nei confronti del c.t.u.

La scuola è tenuta al risarcimento del danno per non aver assegnato ore di sostegno aggiuntive in favore del minore autistico.

TAR Napoli, sez. IV, sentenza (ud. 9 ottobre 2024) 13 novembre 2024, n. 6188
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
Premesso che i ricorrenti, in qualità di genitori dell’alunno minore -OMISSIS-,
affetto da disturbo dello spettro autistico, impugnano i provvedimenti
specificati in epigrafe, con i quali, nonostante le sue gravi patologie, l’Istituto
scolastico Scuola secondaria di I grado “B.” di S. M. la C., ha disposto che egli
sia è affiancato da un insegnante di sostegno per sole 18 ore settimanali e non
per l’intero orario scolastico (30 ore settimanali), malgrado i deficit cognitivi e
neurologici;
in particolare gravano: a) il Piano Educativo Individualizzato per l’anno
scolastico 2023/2024 del 23 ottobre 2023; b) il verbale della riunione G.L.O.
(operativo) del 23 ottobre 2023; c) la -OMISSIS-; d) la -OMISSIS- avente ad
oggetto: “Assegnazione ore di sostegno alunno d.a. -OMISSIS- nato a P. (NA) il
(omissis)”.
Lamentano che nonostante i loro solleciti, supportati da certificazione medica
attestante la gravità delle patologie sofferte dall’alunno e la continua richiesta
di ore suppletive di insegnante di sostegno, l’Istituto Scolastico resistente, in
data 15 settembre 2022, con i provvedimenti impugnati, comunicava ai
genitori che all’alunno: “…sono state attribuite n. 18 ore di sostegno su posto
EH su un tempo di scuola di 30 ore settimanali, distribuite dal Lunedì al
Venerdì”;
i deducenti agiscono inoltre per la condanna dei convenuti resistenti al
risarcimento di tutti i danni patiti e patendi dal minore per effetto
dell’assegnazione di sole 18 ore di sostegno – che ritengono insufficienti a
garantire la sua piena integrazione scolastica – nella misura che sarà
quantificata in corso di causa o nella misura che il Tribunale vorrà quantificare
equitativamente;
Rammentato che la Sezione con Ordinanza n. 142 del 16 gennaio 2024
accoglieva la domanda cautelare motivando nei seguenti termini la delibata
sussistenza del fumus boni iuris nel gravame e, versandosi in materia di
giurisdizione esclusiva, impartendo il conseguente dettame di adozione degli
atti più idonei a tutelare interinalmente il diritto del minore per cui è causa:
“RITENUTO, all’esame sommario proprio della cognizione in sede cautelare, che
il ricorso sia provvisto del prescritto fumus boni juris, avuto riguardo alla
patologia sofferta dal minore (e alla riconosciuta gravità della stessa: art. 3,
co.3, l. n. 104/1992 con altresì necessità di accompagnamento) sul quale i
ricorrenti esercitano la potestà genitoriale e che sussista il periculum in mora,
in ragione dell’avvio dell’anno scolastico;
RILEVATO infatti che può annettersi natura di sufficiente prova della reclamata
necessità di sostegno scolastico ai verbali di accertamento dell’handicap grave
(all.ti.8 e 9 del ricorso) attestanti altresì il riconoscimento dell’indennità di
accompagnamento, nonché al verbale del GLHO del 23 ottobre 2023 (all. 6
produz. cit.) nel quale si dichiara la “gravità del caso” e sancisce la correlata
“necessità di 30 ore” di sostegno scolastico al fine di fronteggiare le esigenze di
integrazione scolastica ed inclusione del minore per cui è causa;
RITENUTO, pertanto, che l’istituto scolastico intimato debba provvedere,
conformando all’uopo sia il gravato Pei che il provvedimento di assegnazione
delle ore del dirigente scolastico impugnati:
-ad assegnare al predetto minore un insegnante di sostegno per il numero di
ore necessarie a coprire il monte ore di frequenza settimanale pari a 30
(trenta) in considerazione della situazione di handicap grave del medesimo,
con copertura integrale dell’orario, non essendo sufficientemente motivata
l’assegnazione in un numero di ore inferiore (nella specie, 18) delle ore da
poter assegnare al minore per cui è causa;
RITENUTO di dover rinviare il giudizio alla camera di consiglio del 5 giugno
2024 al fine di verificare l’ottemperanza al presente provvedimento cautelare,
sollecitando l’amministrazione a depositare nota sull’effettivo adempimento
almeno 10 giorni prima della camera di consiglio così fissata;
RITENUTO di riservare la regolazione delle spese per la fase cautelare all’esito
della predetta camera di consiglio”;
Rammentato altresì che con successiva ordinanza collegiale n. 4766 del 30
agosto 2024, la Sezione, stante il mancato adempimento dell’amministrazione
al disposto deposito di nota circa l’effettivo adempimento all’ordinanza
cautelare n. 142/2024, disponeva l’acquisizione dall’Amministrazione di
documentati chiarimenti sul punto, così statuendo:
“Premesso che con Ordinanza 16 gennaio 2024, n. 142 la Sezione accoglieva la
domanda cautelare spiegata dai ricorrenti disponendo che “l’istituto scolastico
intimato debba provvedere, conformando all’uopo sia il gravato Pei che il
provvedimento di assegnazione delle ore del dirigente scolastico impugnati:
-ad assegnare al predetto minore un insegnante di sostegno per il numero di
ore necessarie a coprire il monte ore di frequenza settimanale pari a 30
(trenta) in considerazione della situazione di handicap grave del medesimo,
con copertura integrale dell’orario, non essendo sufficientemente motivata
l’assegnazione in un numero di ore inferiore (nella specie, 18) delle ore da
poter assegnare al minore per cui è causa”, contestualmente rinviando il
giudizio alla Camera di consiglio del 5 giugno 2024 al fine di verificare
l’ottemperanza al riportato provvedimento cautelare e sollecitando
l’amministrazione a depositare nota sull’effettivo adempimento almeno 10
giorni prima della Camera di consiglio così fissata;
Rilevato che in vista della alla Camera di consiglio del 5 giugno 2024
l’Amministrazione scolastica onerata ha disatteso siffatta sollecitazione, non
depositando la richiesta nota in ordine all’effettivo adempimento all’Ordinanza
cautelare n. 142/2024 e alla relativa assegnazione dell’insegnante di sostegno
per l’intero monte ore (30) di frequenza scolastica settimanale del minore per
cui è causa, né lumi al riguardo sono stati forniti da parte ricorrente, che ha
presentato richiesta di passaggio in decisione non intervenendo in Udienza;
Rilevato, peraltro, che dalla memoria prodotta dai ricorrenti in data 4 giugno
2024 si desumono elementi assertivi circa l’intervenuto pressoché integrale
adempimento da parte dell’Amministrazione, all’incremento delle ore di
sostegno scolastico disposto dalla Sezione, affermandosi in tale memoria
(pag.3) che l’Istituto resistente “aumentava di sole poche ore l’insegnamento
di sostegno al minore, passando da 18 a 27 ore”, come emergerebbe da una
non meglio precisata memoria che sarebbe stata prodotta dalla resistente;
Ritenuto, pertanto, che occorre acquisire documentati chiarimenti da parte
dell’Amministrazione scolastica, in ordine all’effettivo (ancorché, in ipotesi, non
integrale) adempimento all’Ordinanza cautelare n. 142/2024, chiarimenti da
produrre per il tramite dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato, entro giorni 30
(trenta) dalla comunicazione in via amministrativa, ovvero dalla notifica a cura
di parte ricorrente, ove anteriore, della presente Ordinanza;
Ritenuto di dover rinviare l’ulteriore trattazione della domanda cautelare alla
Camera di consiglio di cui al dispositivo” (ossia all’odierna camera di consiglio
del 9 ottobre 2024);
Rilevato che l’Amministrazione non ha ottemperato al disposto incombente,
non producendo i richiesti chiarimenti in ordine all’effettivo (ancorché, in
ipotesi, non integrale) adempimento all’Ordinanza cautelare n. 142/2024;
Atteso che il procuratore costituito di parte ricorrente ha prodotto in data 3
ottobre 2024 memoria, poi nuovamente depositata il 5 ottobre 2024, con la
quale ha rappresentato che “al fine di fugare ogni dubbio, si rappresenta che
l’Istituto Scolastico resistente, sin dalla ordinanza interlocutoria n. 142/2024
provvedeva ad assegnare all’alunno –
OMISSIS- le ore di sostegno necessarie passando da 18 alla cattedra
completa”, ed ha conseguentemente dichiarato la cessazione della materia del
contendere, instando, peraltro, per la pronuncia di condanna alle spese,
nonché per il risarcimento del danno.
Il Collegio, ravvisati i presupposti per la definizione del giudizio con sentenza in
forma semplificata ex art. 60 c.p.a., prende atto di quanto rappresentato da
parte ricorrente e alla luce dell’istanza formulata, opina di dover dichiarare la
cessazione della materia del contendere ex art. 34, co.5, c.p.a., risultando la
pretesa di parte ricorrente integralmente soddisfatta nel corso del giudizio;
Rammentato che il provvedimento impugnato del dirigente, nonché il parimenti
gravato P.E.I., recanti assegnazione al minore -OMISSIS-, di un numero
inadeguato di ore di sostegno e pari a sole 18 ore risultano carenti di
motivazione rapportata alla gravità della patologia sofferta dal medesimo e alla
necessità del correlato numero di ore di sostegno, essendo ancorati alla sola
considerazione dei vincoli imposti all’organico di diritto e dell’eventuale
assegnazione di posti in deroga;
Considerato, conseguentemente, che la proposizione del ricorso ha all’evidenza
avuto efficacia causale sulla nuova manifestazione di volontà provvedimentale
dell’Amministrazione, attuata mediante l’assegnazione al minore per cui è
causa, delle ore di sostegno nel numero richiesto dai ricorrenti mediante il
gravame in trattazione e disposto con la riportata ordinanza cautelare n.
42/2024;
Ritenuto, pertanto, che possa essere dichiarata la soccombenza virtuale
dell’Amministrazione, con la conseguente condanna al pagamento in favore
della parte ricorrente delle spese di lite, con attribuzione ai procuratori
dichiaratisi antistatari;
Ritenuto che debba essere accolta anche la domanda di risarcimento del danno
patito dai ricorrenti per l’illegittima privazione del minore dell’integralità del
sostegno scolastico, al riguardo evidenziandosi che la colpa
dell’Amministrazione discende dal patente contrasto degli impugnati
provvedimenti, con l’evidente necessità di integrale sostegno scolastico,
dovendosi annettere rilevo e valenza probatoria e tali fini , come del resto già
posto in luce con l’Ordinanza cautelare n. 142/2016, “ai verbali di
accertamento dell’handicap grave (all.ti.8 e 9 del ricorso) attestanti altresì il
riconoscimento dell’indennità di accompagnamento, nonché al verbale del
GLHO del 23 ottobre 2023 (all. 6 produz. cit.) nel quale si dichiara la “gravità
del caso” e sancisce la correlata “necessità di 30 ore” di sostegno scolastico al
fine di fronteggiare le esigenze di integrazione scolastica ed inclusione del
minore per cui è causa”;
Rammentato che in punto di responsabilità della P.A. da provvedimento
illegittimo nell’azione ex art. 30, c.p.a., “Il privato, che assume di essere stato
danneggiato da un provvedimento illegittimo dell’amministrazione pubblica,
non è tenuto ad un particolare impegno per dimostrare la colpa della stessa,
potendosi limitarsi ad allegare l’errore compiuto e la illegittimità dell’atto, oltre
alla mancanza di diligenza” (T.A.R. Campania – Napoli, sez. I, 17/04/2023,
n.2339);
Ritenuto, per converso, che non può l’Amministrazione invocare a discolpa, nel
paradigma della responsabilità ex lege aquilia de damno, che l’illegittimità
provvedimentale si sia prodotta “non iure” per effetto di incertezza normativa,
difficoltà e dubbi interpretativi, oscillazioni giurisprudenziali ovvero oscurità
della fattispecie in punto di fatto e documentale, conformemente a nota
giurisprudenza;
Rilevato, quanto al nesso causale, che secondo l’orientamento
giurisprudenziale consolidato della Sezione (ex plurimis, cfr. TAR Campania –
Napoli, Sez. IV, n. 3660/2024, n. 3534/2024 e n. 2367/2024), la seppur
temporanea sottrazione o diminuzione delle ore di sostegno, rispetto al monte
ore dovuto in virtù della patologia riscontrata nel minore e debitamente
certificata, provoca inevitabilmente danni allo sviluppo della personalità del
minore stesso nonché alla famiglia;
Segnalato che in via equitativa, quanto alla quantificazione, la Sezione è
orientata a riconoscere forfettariamente l’importo di 1000,00 € per ogni mese
di privazione dell’integrale monte ore di sostegno necessarie al minore, a far
tempo dalla data di adozione del provvedimento del dirigente scolastico che ha
assegnato il sostegno in misura inferiore, e fino alla data di integrazione del
monte ore;
Quanto al risarcimento del danno e, in particolare alla quantificazione del
relativo ammontare in virtù del periodo di tempo durante il quale il minore è
stato privato dell’integralità del sostegno scolastico, la difesa dei ricorrenti,
sulla base della giurisprudenza della Sezione, correttamente citata, che
riconosce l’importo di € 1000,00 per ogni mese di siffatta privazione, conclude
sostenendo che “ la quantificazione dei danni patiti dal minore è calcolabile in €
8.000,00 (ottenuto moltiplicano €1000,00 per 8 mensilità”, senza peraltro
precisare gli estremi temporali di riferimento di detto calcolo;
Ritiene infatti il Collegio di non poter concordare con tale quantificazione,
atteso che nel mentre nel caso di specie risulta certo il dies a quo di
produzione del lamentato pregiudizio, individuabile, come affermano i
ricorrenti, nella data di approvazione del P.E.I. (23 ottobre 2023) che
illegittimamente non attribuiva al minore la totalità delle ore di sostegno
(limitandosi a 18 ore), ma già auspicava la necessità di una copertura di
sostegno pari a 30 ore, viceversa non è certo il dies ad quem, da farsi
coincidere con il momento dell’attribuzione al medesimo delle ore mancanti,
ossia con l’integrazione del monte ore, pari nella specie a 30;
Rilevato che tale carenza è dipesa della mancata produzione da parte
dell’Amministrazione del provvedimento di assegnazione di tali ore aggiuntive,
nonché dal non avere i ricorrenti circostanziato la data dell’avvenuta
integrazione, peraltro in ciò agevolati dal principio della vicinanza alle fonti di
prova.
Giova rammentare al riguardo, in punto di diritto, che nel giudizio risarcitorio
non opera il principio dispositivo con metodo acquisitivo, fondato
sull’allegazione da parte del danneggiato di elementi di prova cui possa poi
sopperire il giudice acquisendo in via istruttoria elementi di certezza non
allegati, ma vige pienamente il principio dispositivo, che onera l’attore di
fornire piena prova degli elementi della fattispecie risarcitoria. Si è infatti anche
di recente, ribadito che “Nell’azione di responsabilità per danni il principio
dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo
proprio dell’azione di annullamento (..)” (Consiglio di Stato, Sez.VII ,
15ovembre 2023 , n. 9796;nello stesso senso, Consiglio di Stato, sez. IV ,
11/09/2023, n. 8259; T.A.R. Lazio – Roma, sez. II, 18 maggio 2023, n. 8451).
Con la precisazione, peraltro, che nel caso, come quello di specie, di
quantificazione equitativa del danno, il principio dispositivo e il correlato onere
della prova in capo al danneggiato declina sul versante dell’acclaramento della
durata del pregiudizio patito.
Osservato, invero, che per traguardare il richiesto importo di 8.000,00 Euro,
occorrerebbe poter affermare e provare che l’integrazione del sostegno sia
avvenuta dopo 8 mesi dal 23 ottobre 2023, ossia il 23 giugno 2024, il che non
è affatto documentato; e, del resto, collide con la stessa affermazione della
memoria dei ricorrenti sopra riportata, secondo cui “al fine di fugare ogni
dubbio, si rappresenta che l’Istituto Scolastico resistente, sin dalla ordinanza
interlocutoria n. 142/2024 provvedeva ad assegnare all’alunno -OMISSIS- le
ore di sostegno necessarie passando da 18 alla cattedra completa”; senonché
l’ordinanza cautelare n. 142/2024 è stata pubblicata il 16 gennaio 2024, ragion
per cui, se, per ammissione degli stessi ricorrenti, l’Istituto resistente ha
integrato le ore di sostegno fin dalla citata ordinanza, ne consegue che il
pregiudizio è durato all’incirca tre mesi.
Ritenuto quindi che l’Amministrazione, che in accoglimento della domanda
attorea viene condannata al risarcimento del danno per l’illegittima privazione
della totalità del sostegno scolastico ai danni del minore -OMISSIS-, debba
altresì essere onerata (criterio di determinazione del quantum dettato ai sensi
dell’art. 30, co.4, c.p.a.), di calcolare l’importo di 1000,00 € da riconoscere alla
parte ricorrente per ogni mese, con decorrenza dal 23 ottobre 2023 – data di
adozione del P.E.I. 2023/2024 – e fino alla data dell’effettiva integrazione del
monte ore di sostegno (non sono infatti emersi elementi atti ad inferire che
detta integrazione sia avvenuta solo quando il procuratore della ricorrente l’ha
dichiarata, ossia a con la suindicata memoria del 5 ottobre 2024, e non
antecedentemente);
Considerato, per converso, che avendo i ricorrenti, con la più volte citata
memoria del 5 ottobre 20234, affermato che l’Istituto Scolastico resistente
provvedeva ad assegnare all’alunno -OMISSIS- le ore di sostegno necessarie
passando da 18 alla cattedra completa, sin dalla ordinanza interlocutoria n.
142/2024, ed essendo stata la stessa comunicata all’Amministrazione dalla

Segreteria della Sezione in data 16 gennaio 2024 (come risulta dal Sistema
informativo della G.A.), emerge un elemento di certezza, ovverosia che
l’integrazione delle ore di sostegno è avvenuta non prima di mesi tre dal 23
ottobre 203; ragion per cui il Collegio può, intanto, riconoscere ai ricorrenti
l’importo di € 3.000,00 a titolo di danno non patrimoniale ex art. 2059, c.c.
sub specie di danno esistenziale sofferto dal minore; fermo restando che la
parte residua di risarcimento del danno, rapportata all’ulteriore periodo di
protrazione della illegittima privazione dell’integralità del sostegno, sarà
quantificata dall’Istituto scolastico resistente, in contraddittorio con i ricorrenti
(entrambe le parti, in realtà, sono in grado di pervenire agevolmente ad una
data certa, trattandosi di un dato di comune conoscenza);
Ritenuto, quindi, che l’Amministrazione, in accoglimento della domanda attorea
debba essere condannata, sulla scorta di quanto sopra osservato, al
risarcimento del danno per l’illegittima privazione della totalità del sostegno
scolastico ai danni del minore -OMISSIS-, a corrispondere ai ricorrenti
l’importo di € 3.000,00 (tremila), salvo l’eventuale maggior danno, calcolato,
ex art. 30, co.4, c.p.a., in applicazione del criterio dianzi illustrato; l’importo
complessivo così quantificato dovrà essere maggiorato di interessi legali e
rivalutazione maturandi dalla data di pubblicazione della presente sentenza
all’effettivo soddisfo
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale la Campania (Sezione Quarta),
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, dichiara
cessata la materia del contendere.
Condanna l’Amministrazione scolastica resistente al risarcimento del danno in
favore dei ricorrenti, liquidato in € 3.000,00 (tremila), fatto salvo l’eventuale
maggior danno calcolato, ex art. 30, co.4, c.p.a., in applicazione del criterio di
cui in parte motiva, maggiorato di interessi legali e rivalutazione maturandi
dalla data di pubblicazione della presente sentenza all’effettivo soddisfo.
Condanna l’Amministrazione scolastica resistente a corrispondere ai ricorrenti
le spese di lite, che liquida in Euro 1500,00 (millecinquecento) oltre accessori
di legge, con attribuzione al procuratore dichiaratosi antistatario.
Ordina che la presente Sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui agli articoli 6, paragrafo 1, lettera
f), e 9, paragrafi 2 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento
europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, all’articolo 52, commi 1, 2 e 5, e
all’articolo 2-septies, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come
modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla
Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente
provvedimento, all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato
idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate.

La disparità reddituale determinata da impossibilità oggettiva di ricollocarsi nel mondo del lavoro in conseguenza delle scelte concordate in costanza di matrimonio determina il riconoscimento dell’assegno divorzile.

Cass. civ., Sez. I, Ord., 31/12/2024, n. 35225
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Dott. REGGIANI Eleonora – Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 928/2024 R.G. proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato in ROMA VIA PANAMA 52/54, presso lo studio
dell’avvocato CECINELLI GUIDO (Omissis) che lo rappresenta e difende per
procura speciale allegata al ricorso
Ricorrente
Contro
B.B., elettivamente domiciliata in ROMA VIGLIENA 10, presso lo studio
dell’avvocato MALARA ALESSANDRO (Omissis) che la rappresenta e difende per
procura speciale allegata al controricorso;
controricorrente
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di PERUGIA n. 799/2023
depositata il 09/11/2023;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 04/12/2024 dal
Consigliere CLOTILDE PARISE.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 104/2023 il Tribunale di Spoleto, stante l’intervenuta
dichiarazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio tra B.B. e A.A.
con la sentenza n. 654/2020 dello stesso Tribunale, rigettava la domanda
proposta della B.B. avente ad oggetto il riconoscimento dell’assegno divorzile
nell’importo pari ad Euro 700,00, da rivalutare annualmente secondo l’indice
ISTAT, o, comunque, la somma maggiore o minore ritenuta di giustizia, e
compensava le spese di lite tra le parti.
2. La Corte d’Appello di Perugia, con sentenza 799/2023 pubblicata il
09/11/2023, accoglieva l’appello proposto avverso la citata sentenza da B.B. e
poneva a carico di A.A. il pagamento in favore dell’appellante, a titolo di
assegno divorzile, dell’importo di Euro 300,00 mensili, rivalutabili annualmente
secondo gli indici ISTAT, a decorrere dalla domanda, compensando le spese di
lite tra le parti.
3. Avverso la suddetta sentenza, A.A. propone ricorso per cassazione, affidato
a quattro motivi, nei confronti di B.B., che resiste con controricorso.
4. Il ricorso è stato fissato per la trattazione in camera di consiglio. Il ricorrente
ha depositato memoria illustrativa.
Motivi della decisione
1. I motivi di ricorso sono così rubricati: i) “Violazione e falsa applicazione
dell’art. 342 , comma 1 c.p.c., – mancata indicazione delle parti della sentenza
che si intendeva impugnare – mancata indicazione delle modifiche da apportare
alla ricostruzione dei fatti compiuti dal giudice di primo grado – violazione e
falsa applicazione dell’art. 163 c.p.c. – mancata indicazione del domicilio e del
difensore dell’appellato, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 c.p.c.”;
ii) “Violazione e/o errata interpretazione dell’art. 5 n. 6 1. 898/70 con
riferimento all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. per l’omesso esame di un fatto
decisivo per il giudizio già oggetto di discussione fra le parti”; iii) “Della
violazione in relazione alla ritenuta mancanza di mezzi adeguati e
all’impossibilità di poterseli procurare, con riferimento alle risultanze istruttorie

acquisite agli atti. Carenza di prova in ordine alla mancanza di mezzi adeguati –
art. 360 , comma 1, n. 5 c.p.c.” (rubricato sub 2.2.);” iv)” Violazione e falsa
applicazione dei criteri attributivi e determinativi dell’assegno divorzile indicati
nella legge n. 898/70 art. 5 n. 6 in ordine al suo riconoscimento, art. 360 ,
comma 1, n. 3 c.p.c.”
2. Il primo motivo è inammissibile.
2.1. Il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 342 ,
comma 1, c.p.c., deducendo che l’appello dell’ex moglie era inammissibile in
quanto si limitava a riportare la sintesi di quanto accaduto in primo grado e a
ricostruire i fatti di causa, dando conto in maniera acritica e non
contestualizzata delle ragioni in diritto per cui avrebbe dovuto essere riformata
l’impugnata sentenza.
2.2. Secondo l’orientamento di questa Corte che il Collegio condivide, poiché
l’appello è un mezzo di gravame con carattere devolutivo pieno, non limitato al
controllo di vizi specifici, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel
merito, il principio della necessaria specificità dei motivi – previsto dall’art. 342
, comma 1, c.p.c. – prescinde da qualsiasi particolare rigore di forme, essendo
sufficiente che al giudice siano esposte, anche sommariamente, le ragioni di
fatto e di diritto su cui si fonda l’impugnazione, ovvero che, in relazione al
contenuto della sentenza appellata, siano indicati, oltre ai punti e ai capi
formulati, anche, seppure in forma succinta, le ragioni per cui è chiesta la
riforma della pronuncia di primo grado, con i rilievi posti a base
dell’impugnazione, in modo tale che restino esattamente precisati il contenuto
e la portata delle relative censure (tra le altre Cass. 2320/2023).
2.3. Nella specie, la Corte di merito si è attenuta ai suesposti principi ed ha
rigettato motivatamente l’eccezione di inammissibilità dell’appello, rimarcando
che risultavano individuate le parti della sentenza di primo grado impugnate (in
ordine alla mancata dimostrazione da parte della B.B. della sua oggettiva
impossibilità di procurarsi i mezzi di sostentamento e in ordine alla disparità
economica tra i coniugi) e risultava chiaro il contenuto delle critiche espresse al
riguardo. Rispetto a questa puntuale argomentazione, la doglianza espressa
con il primo motivo di ricorso non si confronta.
Non risulta, inoltre, dalla sentenza ora impugnata che fosse stata eccepita
dall’odierno ricorrente anche la mancata indicazione del domicilio
dell’appellante e del nome del difensore dell’appellato costituito in primo grado,
sicché anche su questo punto la censura è generica e difetta di autosufficienza,
in quanto nel ricorso non è compiutamente precisato quando, come e dove
dette questioni fossero state poste nel giudizio d’appello.
3. Anche gli altri motivi, da esaminarsi congiuntamente per la loro
connessione, sono inammissibili.
3.1. Il ricorrente deduce (secondo motivo) che la Corte di merito non ha
valutato l’esistenza del diritto all’assegno divorzile in relazione
all’inadeguatezza dei mezzi a disposizione della B.B. o all’impossibilità per la
stessa di procurarseli per ragioni oggettive, operando poi un raffronto con un
tenore di vita analogo a quello condotto in costanza di matrimonio, nonché
applicando, attraverso una valutazione ponderata e bilaterale, gli altri criteri
previsti dalla L. n. 898 del 1970 , art. 5 , comma 6. Inoltre la Corte territoriale
non avrebbe considerato il più basso costo della vita in Russia e soprattutto il
fatto, ritenuto decisivo dal ricorrente, che l’ex moglie aveva abbandonato per
propria volontà il domicilio coniugale al fine di andare a convivere con un altro
uomo (tale C.C.) ed aveva cessato, sua sponte, di svolgere tutte le attività
lavorative fino a quel momento svolte (presso il Centro Commerciale di
Bracciano e quale interprete russo/italiano). Il ricorrente sostiene, inoltre, che
la B.B. aveva allegato di aver svolto, per il C.C., attività indicative della sua
capacità lavorativa, tra cui l’assistenza al padre anziano dello stesso C.C. e la
cura dell’orto, e che aveva allegato, invece, a riprova della propria oggettiva
impossibilità di procurarsi mezzi di sostentamento, documentazione reddituale
in lingua russa sprovvista di traduzione asseverata. Nella memoria illustrativa,
il ricorrente, riportando in sintesi le argomentazioni svolte con i motivi terzo e
quarto, deduce che “La Corte d’Appello ha omesso di considerare e valutare
che la Sig.ra B.B., prima ha abbandonato il domicilio coniugale in M, dove
lavorava (docc. in atti) e subito dopo stabilito la propria residenza in Spoleto
(dove è iniziato il procedimento odierno) presso l’abitazione del Sig. C.C. con il
quale intratteneva una stabile relazione (indice di stabilità della relazione). La
Sig.ra B.B. non ha provato di aver dato apporto alla realizzazione del
patrimonio familiare e personale del ricorrente il quale, all’epoca del
matrimonio, era già titolare di un rapporto di lavoro subordinato, e già era
proprietario del piccolo immobile (circa 60 mq.) in M. Ancora la Corte d’Appello
non ha considerato che la B.B. ha sempre prestato attività lavorativa (poi
abbandonata per andare a convivere con il Sig. C.C. a Spoleto) e per precisa
scelta di vita della stessa, si trasferiva in Russia dove vive con la madre.
Ancora la Corte d’Appello ha omesso di valutare e di verificare se la Sig.ra B.B.
sia priva di mezzi adeguati per vivere dignitosamente (è esperta di vendite di
articoli di abbigliamento ed è bilingue russo-italiano oltre alla lingue inglese)”.
3.2. Tutte le censure di cui trattasi sono in realtà impropriamente dirette alla
rivalutazione dei fatti e difettano pure di specificità.
Occorre premettere che la Corte di merito si è attenuta ai noti principi
affermati da questa Corte (Cass. sez. Un. 18287/2018 e successive conformi),
secondo cui “il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge,
cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e
perequativa, ai sensi dell’art. 5 , comma 6, della L. n. 898 del 1970 , richiede
l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e
dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri
equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il
parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla
quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare,
alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-
patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente
alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune,
nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata
del matrimonio ed all’età dell’avente diritto”.
Nello specifico, la Corte territoriale, dopo aver accertato il prerequisito dello
squilibrio patrimoniale e reddituale scrutinando in dettaglio e in comparazione
le condizioni economico-patrimoniali delle parti, ha valutato approfonditamente
e con motivazione congrua ogni profilo di rilevanza, anche sul contributo dato
alla famiglia dall’ex moglie nel corso del matrimonio e in ordine all’oggettiva
impossibilità per quest’ultima di superare la disparità economica evidenziata
attraverso un collocamento nel mondo del lavoro, ritenuto estremamente
difficile, soprattutto in Russia e a maggior ragione nell’attuale stato di guerra,
avuto altresì riguardo all’età della beneficiaria (54 anni) e alla durata del
matrimonio (18 anni).
La Corte d’Appello ha rimarcato trattarsi di un lasso di tempo sicuramente
ragguardevole, aggiungendo che nel corso di esso “la B.B. ha investito il suo
tempo nel ruolo di moglie-lavoratrice, contribuendo al soddisfacimento anche
economico (e non solo) delle esigenze di famiglia, in quanto si è anche presa
cura dell’ex coniuge assistendolo durante il suo periodo di malattia nel 2009;
sul punto non vi è contestazione tra le parti. Né può essere inteso come rifiuto
della B.B. a reinserirsi nel mondo del lavoro il fatto che non riesca a trovare, a
54 anni, un impiego fisso. Non vi sono elementi probatori al riguardo. Anzi, al
contrario, è emerso che la B.B. ha sempre lavorato ed ha tentato in tutti i modi
di proseguire a lavorare, anche nel periodo di attuale crisi dovuto allo stato di
guerra in cui verte la Russia, dove vive. Ciò smentisce l’assunto dello A.A. in
ordine ad una inerzia della B.B. e, quindi, ad una sua colpevole impossibilità di
trovare un lavoro”.
La Corte territoriale ha inoltre dato atto che i documenti prodotti dall’ex moglie
sulla sua condizione reddituale erano stati tradotti da un traduttore
professionista dell’Agenzia di traduzioni “(Omissis)”, che aveva apposto il
proprio timbro e la propria firma sulla traduzione, mentre l’appellato, odierno
ricorrente, nulla aveva contestato in merito alla qualifica di esperto da parte
del suddetto né, tanto meno, aveva contestato la veridicità in concreto delle
circostanze rappresentate e certificate nei documenti tradotti, quale ad
esempio l’erogazione da parte del Fondo Pensionistico dell’indennità pari ad
appena Euro 12.
3.3. A fronte di detto chiaro, preciso e lineare percorso motivazionale, il
ricorrente genericamente richiama il requisito del “tenore di vita”, inconferente
in base alla più recente giurisprudenza di questa Corte in tema di assegno
divorzile, e si limita a riproporre la propria ricostruzione dei fatti, senza
svolgere una critica compiuta e pertinente alle argomentazioni svolte nella
sentenza impugnata, nonché sollecitando impropriamente una rivisitazione del
merito.
3.4. Resta aggiungere che non si rinviene nella sentenza impugnata alcun
riferimento all’asserita convivenza della B.B. con il C.C., nel ricorso non si
precisa se si trattò di convivenza more uxorio con le connotazioni di rilievo ai
fini che qui interessano (e che comunque non rileverebbe ai fini compensativo –
perequativi – cfr. Cass. Sez. Un. 32198/2021 ), ma soprattutto non si indica
compiutamente quando, come e dove la questione sia stata sottoposta
all’esame della Corte d’Appello. La controricorrente afferma sul punto che “nel
giudizio di separazione giudiziale non è mai stato accertato giudizialmente
l’adulterio e che, in ogni caso, la separazione giudiziale è stata poi trasformata
in separazione consensuale con conseguente rinuncia da parte del A.A. alla
domanda sull’addebito” (pag.16 controricorso).
4. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo.
Ai sensi dell’art.13 , comma 1-quater del D.P.R. 115 del 2002 , deve darsi atto
della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del
ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
previsto per il ricorso per cassazione, a norma del comma 1-bis dello stesso
art. 13, ove dovuto (Cass. S.U. n.5314/2020 ).
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le
generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30
giugno 2003 n. 196 , art. 52.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione
delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in Euro 3.200,00, di cui Euro
200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali (15 per cento) ed accessori,
come per legge.
Ai sensi dell’art.13 , comma 1-quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del
ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
previsto per il ricorso per cassazione, a norma del comma 1-bis dello stesso
art.13, ove dovuto.
Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le
generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30
giugno 2003 n. 196 , art. 52 .

L’allontanamento dalla casa familiare non è motivo di addebito della separazione qualora non abbia incidenza causale sulla crisi coniugale.

Cass. civ., Sez. I, Ord., 28/01/2025, n. 2007
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 4713/2024 R.G. proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato in M VIA (Omissis), presso lo studio
dell’avvocato GASSANI GIAN ETTORE (Omissis) che lo rappresenta e difende
– ricorrente –
contro
B.B., elettivamente domiciliata in R VIA (Omissis), presso lo studio
dell’avvocato PATTI SALVATORE LUCIO (Omissis) che lo rappresenta e difende
unitamente all’avvocato GIOVANDO CRISTINA (Omissis)
– controricorrente –
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO TORINO n. 1164/2023 depositata il
20/12/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21/01/2025 dal
Consigliere FILIPPO D’AQUINO.
Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Torino, con sentenza in data 15 novembre 2022, previa
riunione dei ricorsi promossi da A.A. e B.B., sposati in data 30 ottobre 2002 in
C (TO), ha pronunciato la separazione dei coniugi, rigettando le reciproche
domande di addebito.
2. La Corte di Appello di Torino ha rigettato l’appello principale del marito e ha
accolto l’appello incidentale della moglie. Ha ritenuto il giudice di appello, per
quanto qui rileva, che la separazione fosse da addebitare a reiterate “condotte
offensive e maltrattanti nei confronti della moglie”, tali da costituire violenze
fisiche e verbali di un coniuge ai danni dell’altro. In particolare, il giudice di
appello ha ritenuto che la convivenza fosse già deteriorata a partire dal periodo
2012 – 2013, valorizzando, in termini di condotte causalmente rilevanti ai fini
della intollerabilità della convivenza, un carteggio mail risalente al periodo
2013 – 2014, ascrivendo al comportamento del marito l’intenzione della moglie
di allontanarsi periodicamente dal marito con la figlia; per effetto
dell’accoglimento della domanda di addebito, il giudice di appello ha dichiarato
assorbita la pronuncia relativa alla domanda di mantenimento. La sentenza
impugnata ha, di converso, ritenuto non provato l’addebito della separazione
alla moglie, fondato sul dedotto intento della madre di allontanare la figlia dal
padre dalla casa coniugale di C, né ha tenuto conto di una successiva crisi della
coppia, intervenuta nel periodo 20192020, per effetto di una relazione
extraconiugale intrattenuta dal marito.
3. Propone ricorso per cassazione il A.A., affidato a cinque motivi,
ulteriormente illustrato da memoria, cui resiste con controricorso la B.B., la
quale ha anch’essa depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 , primo comma, n. 3,
cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 151 e 2697 cod. civ.,
nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto sussistente il nesso di
causalità tra il comportamento assunto dal ricorrente e il giudizio di
addebitabilità della separazione.
Osserva parte ricorrente che la sentenza impugnata avrebbe valorizzato
comportamenti estrapolati da conversazioni avvenute nel periodo 2012 – 2015,
laddove la crisi coniugale si sarebbe manifestata solo nel 2019, così
palesandosi per il periodo pregresso, da parte della moglie, la tollerabilità del
clima familiare. In particolare, la moglie avrebbe imposto al marito di rimanere
nella casa coniugale in C, laddove lei si sarebbe trasferita a Torino con la figlia
da circa un decennio (2008 – 2009), per tornarvi durante i fine settimana. I
comportamenti assunti da parte ricorrente sarebbero, quindi, da inquadrare in
una relazione di coppia caratterizzata dalla decisione della moglie di
allontanarsi periodicamente, da un decennio, dalla casa coniugale. Deduce,
pertanto, che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente considerato
assolto da parte della moglie l’onere di comprovare l’esistenza del nesso di
causalità tra comportamento del ricorrente e intollerabilità della convivenza.
2. Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 , primo comma, n.
3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ.,
nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto addebitabile la separazione
al marito, incorrendo in ultrapetizione, laddove il nesso eziologico tra
intollerabilità della convivenza e condotte del ricorrente sarebbe stato
incentrato su una relazione extraconiugale intrattenuta dal marito durante il
periodo pandemico del 2020.
3. Con il terzo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 , primo comma, n. 3,
cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli art. 151 e 2697 cod. proc.
civ., nonché, in relazione all’art. 360 , primo comma, n. 5, cod. proc. civ.,
omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione fra
le parti, nella parte in cui la sentenza impugnata ha omesso di considerare che
i comportamenti oggetto di valutazione erano successivi all’allontanamento
della moglie dalla casa coniugale e alla interruzione della convivenza coniugale.
Parte ricorrente osserva che sin dal 2009 la presenza del coniuge nella casa
coniugale si era fatta via via più saltuaria (con assenza ingiustificata, come
ribadito in memoria), sicché – trattandosi di violazione del dovere di
coabitazione – sarebbe essa stessa circostanza idonea e decisiva a determinare
l’addebito della separazione alla moglie.
4. Con il quarto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 , primo comma, n. 3,
cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 151 e 156 cod. civ.,
nella parte in cui la sentenza impugnata ha disconosciuto il diritto del marito
all’assegno di mantenimento, trattandosi di questione dipendente
dall’illegittima declaratoria di addebito della separazione al ricorrente.
5. Con il quinto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 , primo comma, cod.
proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 91 cod. proc. civ., per avere
la sentenza di appello condannato il ricorrente al pagamento dei due gradi delle
spese di giudizio.
6. Il primo motivo e il terzo motivo, i quali possono essere esaminati
congiuntamente, sono inammissibili, in conformità all’eccezione articolata da
controricorrente e ribadita in memoria. I motivi non sono incentrati su una
erronea ripartizione dell’onere della prova, bensì su una revisione della
valutazione delle prove, preclusa in sede di legittimità, in un ambito familiare
in cui la convivenza ha vissuto (come risulta dalla sentenza impugnata) tre
distinte fasi di criticità, rispettivamente nel periodo 2008/2009, nel periodo
20122014 e, infine, nel periodo 2019/2020.
7. La sentenza impugnata ha valorizzato in termini causali, ai fini
dell’intollerabilità della convivenza, la seconda fase di criticità, incentrata sul
clima di tensione e di ripetute offese che si era generato per effetto di
comportamenti ascrivibili al marito nel periodo 2012 -2014. Di converso, il
giudice di appello ha escluso che avesse incidenza causale il comportamento
posto in essere dalla moglie di iscrivere la figlia a una scuola a Torino nel
periodo 2008/2009, così allontanando la figlia dalla casa coniugale (“Il A.A. non
ha provato che l’origine della frattura coniugale fosse da ricondursi alla
decisione unilaterale della moglie di iscrivere la figlia in una scuola a Torino,

distante una trentina di chilometri da C, circostanza (risalente al 2009) che
avrebbe comportato l’allontanamento dalla casa coniugale di moglie e figlia e la
violazione dei doveri di assistenza morale e materiale fra i coniugi”: pag. 5
sent. imp.). Nella specie, il giudice di appello ha escluso che l’allontanamento
della figlia dalla casa coniugale sia avvenuto senza il consenso del padre,
atteso il periodico ritorno di moglie e figlia in C e atteso il contributo dato dalla
moglie al marito nel 2017 al pagamento delle spese della casa coniugale. E’
stato, inoltre, valorizzato l’originario ricorso introduttivo del marito, ove si
deduceva che “i coniugi e C. si riunivano il mercoledì sera a C e trascorrevano
tutti i fine settimana in montagna o al mare, fino a che gli incontri vennero
progressivamente a ridursi, per decisione della resistente” (sent. imp., loc.
cit.). Ha, infine, ritenuto il giudice di appello di trascurare, come elemento
causale idoneo a rendere intollerabile la convivenza, la relazione extraconiugale
intrattenuta dal marito nel periodo 2019/2020, cosi ritenendo che
l’intollerabilità della convivenza fosse causalmente da ricollegare al secondo ed
esteso momento di crisi coniugale.
8. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’allontanamento dalla casa
familiare, costituendo violazione del dovere di coabitazione, è fortemente
pregnante come motivo di addebito, benché a condizione che abbia assunto
efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale, salvo che la
convivenza fosse già in quel momento intollerabile (Cass., n. 11032/2024 ;
Cass., n. 25966/2016 ); efficacia causale esclusa, dal giudice di appello, in
quanto allontanamento concordato tra i coniugi, di carattere non definitivo,
così come è stata esclusa l’efficacia causale della relazione extraconiugale del
marito intrattenuta successivamente; valutazioni che rientrano nel potere-
dovere del giudice di valutare e scegliere gli elementi di prova nell’esaminare le
domande proposte dalle parti. Valutazioni che, a loro volta, incidono sul
giudizio di efficienza causale di intollerabilità della convivenza, giudizio fondato
pertanto su valutazioni in fatto incensurabili in sede di legittimità.
9. Infondato è, invece, il secondo motivo, posto che – secondo la
giurisprudenza di questa Corte – il principio di corrispondenza fra il chiesto e il
pronunciato, fissato dall’art. 112 cod. proc. civ., implica unicamente il divieto
per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di
emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, ma non
osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base a una ricostruzione dei
fatti di causa – alla stregua delle risultanze istruttorie – autonoma rispetto a
quella prospettata dalle parti nonché in base all’applicazione di una norma
giuridica diversa da quella invocata dall’istante (Cass., n. 16809/2008 ).
10. Non vi è, pertanto, violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e
pronunciato ove il giudice proceda a una ricostruzione dei fatti differente da
quella prospettata dalle parti, a condizione che la statuizione trovi
corrispondenza nei fatti di causa e si basi su elementi di fatto ritualmente
acquisiti in giudizio e oggetto di contraddittorio (Cass., n. 11112/2019 ; Cass.,
n. 3353/2016 ; Cass., n. 2209/2016 ; Cass., n. 18922/2011 ). Nella specie, il
ricorrente non ha censurato la statuizione del giudice di appello, secondo cui i
fatti valorizzati ai fini dell’addebitabilità della separazione erano stati introdotti
nel corso del giudizio di primo grado (“che ella veniva insultata e denigrata
anche avanti alla figlia, e che “Le violenze (fossero) passate ben presto da
verbali a fisiche””). Pertanto, come deduce parte controricorrente, spetta al
giudice del merito, nei limiti della domanda proposta, la valutazione dei fatti
posti a fondamento della domanda e l’individuazione di quelli rilevanti ai fini
della decisione. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei
suddetti principi.
11. Sono, per l’effetto, assorbiti gli ultimi due motivi. Il ricorso va, pertanto,
rigettato, con spese regolate dalla soccombenza e liquidate come da
dispositivo, oltre raddoppio del contributo unificato.
Va disposto l’oscuramento delle generalità e dei dati identificativi degli
interessati.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali del giudizio di legittimità in favore della controricorrente, che
liquida in complessivi Euro 4.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, 15%
rimborso forfetario e accessori di legge; dà atto che sussistono i presupposti
processuali, a carico di parte ricorrente, ai sensi dell’art. 13 comma 1 – quater
D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 , inserito dall’art. 1 , comma 17 della l. 24
dicembre 2012, n. 228 , per il versamento di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 –
bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Va disposto l’oscuramento delle generalità e dei dati identificativi degli
interessati.
Conclusione
Così deciso in Roma il 21 gennaio 2025.
Depositata in Cancelleria il 28 gennaio 2025.

Inammissibile l’azione di riduzione promossa dal legittimario che non abbia compiuto l’inventario nei termini di legge.

Corte d’Appello di Lecce, Sentenza del 19 novembre 2024,
n.940, Relatore Brocca
Presidente Esposito – Relatore Brocca
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 1144 emessa il 14.07.2022, pubblicata il 20.07.2022, il
Tribunale di Brindisi, in composizione collegiale, decidendo sulla domanda
formulata da R.A., N.M. e N.F., con atto di citazione notificato nei confronti di
S.P.G., così provvedeva: “Condanna S.P.G. alla restituzione della somma di
euro 26.532,14 in favore della massa ereditaria, per le causali di cui in
premessa; Dispone lo scioglimento della comunione ereditaria sulla ridetta
somma di euro 26.532,14 secondo le regole della successione legittima,
attribuendo a ciascuno dei tre coeredi la somma di 8.844,04 e condanna per
l’effetto S.P.G. al pagamento in favore di N.F. e N.M. della somma di euro
13.266,07 per ciascuno di essi, oltre ad interessi legali dalla domanda al
soddisfo; Accoglie per quanto di ragione la domanda proposta da R.A., e per
essa dai suoi eredi N.F. e N.M., in relazione alla reintegra della quota di
legittima spettante alla stessa sull’eredità di N.G., deceduto il 16.09.2009; Per
l’effetto, dichiara che la donazione disposta in favore di S.P.G. da N.G. con il
testamento olografo del 24.07.2009 e pubblicato il 23.04.2010 dal notaio L.CH.
in Grottaglie, lede la quota di legittima spettante a R.A. (e per essa ai suoi
eredi N.F. e N.M.) nella misura di euro 30.350,91, alla stregua del valore del
patrimonio ereditario stimato dal CTU ing. F.D’A. nella relazione peritale; Per
l’effetto, dispone la reintegra di detta quota di legittima, condannando S.P.G. al
pagamento in favore di R.A., e per essa dei suoi eredi N.F. e N.M., della
somma di euro 30.350,91 oltre interessi legali sulla somma rivalutata anno per
anno dal dì dell’apertura della successione alla pubblicazione della presente
decisione, a decorrere dalla quale saranno dovuti i soli interessi legali sino al
soddisfo; Condanna la convenuta alla refusione delle spese di lite in favore
dell’attore in misura di 2/3, dichiarandole compensate per il resto e con
distrazione in favore dei difensori distrattari ex art. 93 c.p.c., spese liquidate
per l’intero in complessivi euro 13.411,83, di cui euro 411,83 per esborsi, oltre
rimborso spese generali al 15%, iva e cpa come per legge; Spese di CTU a
carico degli attori in misura di 1/3 e della convenuta in misura di 2/3”.
Con atto di citazione dell’8.03.2011, R.A., N.M. e N.F., rispettivamente moglie
e figli di N.G., deceduto in Villa Castelli (Br) il (omissis), convenivano innanzi al
Tribunale di Brindisi S.P.G. per far accertare e dichiarare l’inefficacia nei loro
confronti della disposizione contenuta nel testamento olografo redatto dal de
cuius in data 24.07.2009, in quanto lesiva della quota di riserva loro spettante,
con riconoscimento del diritto alla reintegra della stessa e con condanna di
S.P.G. al risarcimento del danno in loro favore nella misura di € 30.110,47 in
ragione degli illegittimi ed immotivati prelievi effettuati dal conto corrente del
de cuius.
Esponevano gli attori che il de cuius, successivamente alla separazione di fatto
dalla moglie R.A., aveva intrattenuto una relazione sentimentale con S.P.G.
convivendo con la stessa presso l’abitazione sita in Villa Castelli (Br) alla
(omissis), di proprietà esclusiva del de cuius.
Era accaduto, poi, che N.G. si fosse ammalato di una grave malattia polmonare
che lo aveva costretto nel suo ultimo anno di vita a diversi ricoveri nei mesi di
agosto, settembre e dicembre 2009 e lo aveva portato alla morte in data
16.12.2009.
Successivamente, essi eredi erano venuti a conoscenza del fatto che il de cuius
aveva disposto con testamento olografo della abitazione di Via Kennedy in
favore della S.P.G., con lesione della quota legittima ad essi spettante e senza
nulla disporre in merito alla mobilia ivi presente, e che nel periodo del ricovero
del N.G. da agosto a ottobre 2009, la convenuta aveva eseguito prelievi e
spese con il bancomat dal conto del de cuius, tanto che avevano sporto nei
suoi confronti denuncia querela per appropriazione indebita. Promuovevano,
pertanto, azione di riduzione per lesione della quota legittima spettante a
ciascuno di essi, chiedendo disporsi CTU al fine di calcolare la quota disponibile
e quella legittima del patrimonio relitto dal de cuius, nonché la restituzione alla
massa ereditaria delle somme acquisite senza titolo da S.P.G..
Si costituiva in giudizio S.P.G., con comparsa di costituzione e risposta
depositata il 3.6.2011, eccependo preliminarmente l’inammissibilità della
domanda di riduzione ex art. 564 c.c. per non avere gli attori preventivamente
accettato l’eredità di N.G. con beneficio di inventario e instando, nel merito,
per il rigetto della domanda.
In particolare, deduceva che gli attori avevano già colmato la quota di riserva,
avendo ricevuto in donazione l’appartamento sito in Taranto alla Via Veneto n.
116, che, per dimensioni e caratteristiche nonché per posizione, era da
considerarsi di notevole valore economico.
Formulava altresì domanda riconvenzionale per l’importo complessivo di €
155.965,99 quale retribuzione maturata per l’attività di natura domestica e di
assistenza domiciliare prestata in favore del de cuius, oltre interessi e
rivalutazione.
Veniva disposta la separazione della causa avente ad oggetto la domanda
riconvenzionale per competenza del Giudice del Lavoro e, in attesa della sua
definizione, sospesa la causa principale che, una volta intervenuta la decisione
del Tribunale di Brindisi – Sezione Lavoro di rigetto della domanda di S.P.G.,
veniva riassunta da N.M. e N.F., in proprio e anche quali eredi di R.A. nelle
more deceduta, ed istruita con prove orali, interrogatorio formale di S.P.G. e
con una CTU tecnica e una CTU contabile.
Precisate le conclusioni, previa concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c.,
la causa veniva decisa con la sentenza in epigrafe.
Il primo giudice preliminarmente rigettava, ritenendola infondata, l’eccezione
di inammissibilità dell’azione ex art. 564 c.c. per aver gli attori documentato di
aver accettato con beneficio di inventario l’eredità di N.G. in data antecedente
all’instaurazione del giudizio.
Osservava, in particolare, che, comunque, l’art. 564 c.c. nulla prescriveva in
ordine al fatto che l’accettazione beneficiata dovesse essere effettuata prima
della dichiarazione di successione che, peraltro, rilevava solo sotto il profilo
fiscale.
Riteneva parimenti infondata e meritevole di rigetto, oltre che tardiva in
quanto sollevata solo in comparsa conclusionale, l’eccezione di improponibilità
della domanda di riduzione per la mancata redazione dell’inventario nei termini
di legge, sul presupposto che l’art. 564 c.c. fa salva l’ipotesi dell’erede che
abbia accettato col beneficio di inventario e che ne sia decaduto, non
prevedendo in tal caso l’inammissibilità dell’azione di riduzione.
Quanto al merito della domanda attorea, la riteneva fondata e meritevole di
accoglimento. Osservava che il de cuius, avendo donato in favore della S.P.G.,
con testamento olografo del 24.7.2009, l’immobile sito in Villa Castelli e ai figli,
con atto del 31.10.2006, la nuda proprietà dell’immobile sito in Taranto –
riservando per sé l’usufrutto- aveva di fatto così esaurito tutto il suo
patrimonio e totalmente pretermesso la moglie R.A., attrice deceduta in corso
di causa e di cui gli attori erano gli unici eredi.
Quanto alla donazione in favore dei figli, riteneva che la stessa dovesse
qualificarsi come ordinaria donazione in conto di legittima – attesa la
contraddizione testuale relativa alla clausola di dispensa da imputazione ex se
in essa contenuta e la non chiara ed inequivoca volontà del donante di
dispensare i donatari dall’imputazione – e che, dunque, gli attori N.F. e N.M.
dovessero imputare alla propria quota di riserva la donazione ricevuta in vita
dal de cuius.
Richiamando le risultanze della CTU dell’ing. D’A. in quanto condivise, per cui
l’asse ereditario di N.G. era pari ad un valore di € 204.000,00, reputava che,
detratte le spese funerarie per € 3.000,00, dovessero aggiungersi € 26.532,14,
appartenenti al de cuius e di cui la S.P.G. aveva disposto ingiustificatamente.
Riteneva, infatti, il Tribunale, con riferimento alla domanda attorea di
risarcimento del danno ex art. 2043 per gli illegittimi prelievi effettuati dal
conto corrente del de cuius, da qualificarsi in realtà quale azione di rendiconto,
che, per quanto accertato dal CTU dott. MA., della somma oggetto di
prelevamento pari ad € 30.110,47, appariva giustificata alla luce della
documentazione depositata dalla convenuta, solo la spesa di € 3.000,00 per
spese funerarie e di € 578,33 per il pagamento di bollette, non avendo per la
restante parte la N.G. dato prova rigorosa che gli importi fossero stati usati
nell’interesse del de cuius.
In particolare, sotto tale profilo risultava ingiustificato il prelevamento della
somma di € 9.137,00 mediante assegno circolare emesso in favore di Compass
s.p.a. e le dichiarazioni rese al riguardo della teste C.B. apparivano
scarsamente credibili e inverosimili, oltre che non suffragate da ulteriori
elementi di prova.
Riteneva, pertanto, che la S.P.G. fosse tenuta alla restituzione della somma di
€ 26.532,14 che doveva essere devoluta secondo le regole della successione
legittima e divisa in parti uguali tra gli attori, con conseguente condanna della
convenuta al pagamento in favore di N.F. e N.M. della somma di € 13.266,07
ciascuno in virtù della ripartizione in parti uguali fra gli stessi anche della quota
della loro madre R.A., deceduta nelle more.
Ricostruito l’asse ereditario per un valore pari ad € 227.532,14 (valore stimato
dal CTU in € 204.000,00, sottratti € 3.000,00 per spese funerarie e aggiunti €
26.532,14 da restituirsi da parte della S.P.G. all’asse ereditario) e stimato il
valore della quota disponibile (pari a ¾ del totale in 170.649,10), la quota di
riserva per ciascuno degli attori risultava pari ad € 56.883,03.
Stante il valore dell’immobile ricevuto in vita da N.F. e N.M. stimato in €
117.000,00 (58.500,00 per ciascuno), reputava che nessuna lesione della loro
quota di riserva potesse ravvisarvi, anzi per effetto della restituzione delle
somme ad opera della S.P.G., essi venivano a ricevere una quota in eccedenza
(58.500,00+8.844,04 quale quota parte di € 26.532,14).
Riteneva, invece, che la quota di legittima spettante a R.A., erede
pretermessa, era stata lesa in conseguenza della donazione disposta dal de
cuius in favore di S.P.G., e ne disponeva, pertanto, la riduzione con reintegra
in favore della R.A. nella misura di € 48.038,99 (sottraendo dalla quota di
riserva € 56.883,03 l’importo di € 8.844,04 pari ad 1/3 di € 26.532,14) e, per
effetto della riduzione delle quote legali ab intestato di N.F. e N.M. pari ad €
17.688,08 (8.844,04 ciascuno), nella misura di 30.350,91, con condanna della
convenuta al pagamento di detto importo in favore degli eredi F. e M., oltre
interessi e rivalutazione e alle spese del giudizio in misura di 2/3, compensate
per il resto tra le parti.
Avverso la suddetta sentenza ha proposto appello S.P.G. con citazione
notificato il 19.10.2022, articolando diversi motivi di gravame, più avanti
sintetizzati, ed insistendo nelle originarie deduzioni e richieste, previa richiesta
di sospensione dell’esecutività della impugnata sentenza.
Si sono costituiti in giudizio, con comparsa depositata in data 29.12.2022, N.M.
e N.F., chiedendo il rigetto dell’appello in quanto infondato e la conferma della
sentenza di primo grado, con vittoria di spese della presente fase di giudizio.
All’udienza del 18.06.2024, precisate dalle parti le conclusioni, la causa è stata
trattenuta per la decisione con concessione dei termini di cui all’art.190 cpc.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di appello parte appellante si duole dell’ingiustizia e
illegittimità della sentenza nella parte in cui rigetta l’eccezione di
inammissibilità ed improponibilità dell’azione di riduzione per mancato
compimento dell’inventario, per violazione degli artt. 564 e 487 c.c. ed erronea
valutazione delle risultanze processuali.
Avrebbe errato il primo giudice, in primo luogo nel ritenere improponibile la
detta eccezione poiché tardivamente sollevata dalla convenuta, odierna
appellante, solo in sede di comparsa conclusionale, laddove, invece, sin dalla
comparsa di costituzione e risposta del 3.06.2011, S.P.G. aveva eccepito che
gli attori legittimari, pur essendosi dichiarati eredi e rivendicando l’eredità
anche dei beni mobili dell’ultimo domicilio del de cuius, non avevano accettato
l’eredità con beneficio di inventario, e, a seguito dell’allegazione di parte attrice
della accettazione avvenuta in data 27.12. 2020, non allegata all’atto di
citazione, e senza redazione dell’inventario, per come dedotto dagli stessi, alle
udienze istruttorie del 3.06.2019 e del 3.10.2019, insisteva per
l’inammissibilità della domanda di riduzione ai sensi dell’art. 564 per
intervenuta decadenza dal beneficio d’inventario non avendo compiuto
l’inventario nel termine prescritto dall’art. 487 c.c.
Parimenti erroneo sarebbe, a dire dell’appellante, il successivo passaggio della
sentenza in cui ritiene comunque l’eccezione infondata nel merito sul
presupposto che l’art. 564 c.c., facendo salva l’ipotesi dell’erede che abbia
accettato col beneficio d’inventario e che ne sia decaduto, non prevede in
siffatta ipotesi l’inammissibilità dell’azione di riduzione.
Evidenzia l’appellante che perché possa dirsi perfezionata la fattispecie di cui
all’art. 564 c.c., trattandosi di fattispecie a formazione progressiva, è
necessario il compimento di entrambi i momenti che la costituiscono, quello
dichiarativo di formalizzazione dell’accettazione e quello fattivo di concreta
esecuzione dell’inventario (entro tre mesi dall’apertura della successione),
entrambi secondo le modalità di legge.
Pertanto, si deduce, avendo gli attori meramente accettato l’eredità con
beneficio di inventario ma senza provvedere alla redazione dello stesso, tale
omessa redazione avrebbe comportato il mancato acquisto del beneficio e non
la decadenza dal medesimo, con la conseguenza dell’inammissibilità della
domanda di riduzione per carenza del presupposto al riguardo richiesto dall’art.
564, comma 1, c.c., cioè l’accettazione con beneficio d’inventario. Parimenti
erronea sarebbe la sentenza nella successiva parte in cui fonda ancora
l’infondatezza dell’eccezione della convenuta sulla circostanza che R.A. non
aveva ricevuto alcunché rimanendo totalmente pretermessa dalla successione
del marito, avendo questi esaurito tutti i suoi beni con la donazione a S.P.G.
dell’immobile di Villa Castelli e ai figli dell’immobile in nuda proprietà sito in
Taranto.
Deduce l’appellante che, in realtà, nella fattispecie si verterebbe in un’ipotesi di
successione ab intestato apertasi con la morte del N.G. e con la quale N.M.,
N.F. e R.A. hanno assunto la qualità di legittimari sull’universalità dei beni
mobili ed immobili relitti in successione, come confermato anche dalla
circostanza che gli attori hanno rivendicato con la citazione introduttiva del
giudizio i beni mobili del de cuius presenti nell’immobile donato alla S.P.G.
La disposizione testamentaria olografa del 24.07.2009 avrebbe disposto un
mero legato in favore della S.P.G., avente ad oggetto l’immobile sito in Villa
Castelli, senza che il testatore abbia inteso assegnare quel bene come quota
del patrimonio complessivo. Con la conseguenza che la R.A. non era stata
totalmente pretermessa dall’eredità del N.G. in quanto ad egli era succeduta
per successione legittima sugli altri beni mobili relitti (la mobilia
dell’appartamento donato alla S.P.G., oggetto di valutazione da parte del CTU).
Conclude l’appellante chiedendo, in riforma della sentenza impugnata, una
pronuncia di declaratoria di inammissibilità della azione di riduzione spiegata
dagli eredi N.G.
2. Con il secondo motivo di appello parte appellante reputa ingiusta ed
illegittima la sentenza di primo grado per erronea valutazione delle risultanze
processuali, violazione di legge in relazione all’art. 132 c.p.c. e per apparente
e/o carente motivazione in relazione alle risultanze della CTU.
Deduce l’appellante che il primo giudice avrebbe acriticamente letto e fatto
proprie le risultanze della CTU dell’Ing. D’A. – relative alla stima del valore
dell’immobile sito in Taranto alla Via Veneto n.116 ed oggetto di donazione del
N.G. in favore dei figli – in contrasto con le risultanze istruttorie emerse in sede
di controdeduzioni alla CTU, omettendo la valutazione delle deduzioni tecniche
offerte dalla convenuta.
In particolare, le valutazioni compiute dal CTU sarebbero incomplete e del tutto
inattendibili in quanto rese in assenza del rituale sopralluogo e solo sulla base
di fotografie prodotte dagli attori che nelle more avevano alienato l’immobile,
senza aver acquisito il prezzo di vendita applicato dagli stessi in sede di
vendita e senza considerare il valore di mercato del bene al momento della
successione (2009).
Sul punto, la sentenza di primo grado sarebbe priva di valida motivazione.
Non sarebbe stato valutato, in tal modo, il valore dell’immobile in relazione alla
posizione semicentrale e signorile della città che comporterebbe, a dire
dell’appellante, un valore di mercato a mq compreso tra € 1.300,00 e €
1.700,00 e non già di € 875,00 euro al mq come stimato dal CTU, con la
conseguenza che la stima effettuata dal CTU per un valore dell’immobile pari
ad € 117.000,00 non sarebbe attendibile, aggirandosi invece il reale valore al
momento dell’apertura della successione intorno ai 210.000,00 euro.
Chiede, pertanto, la rinnovazione nella presente fase di giudizio della CTU per
rideterminare il valore della donazione del de cuius in favore dei figli M. e F.
N.G., ai fini della riunione fittizia dei beni e della imputazione in conto di
legittima con il supero sulla disponibile.
Parimenti inattendibile sarebbe, inoltre, la CTU con riferimento alla stima
dell’immobile legato dal de cuius a S.P.G. con il testamento olografo del
24.07.2009, valutazione acriticamente fatta propria dal primo giudice senza
considerare, e conseguentemente accertare, se per il detto immobile,
accatastato come locale uso deposito C/2 e utilizzato di fatto a fini abitativi,
potessero trovare o meno applicazione i valori relativi ad un’abitazione civile
A/3.
Il valore dell’immobile, pertanto, sarebbe stato sovrastimato in € 87.000,00 e,
in conseguenza, erroneamente determinati, in percentuale su tale eccessivo
valore, gli oneri per la sua sanatoria.
Anche con riferimento all’immobile donato dal de cuius a S.P.G., pertanto,
l’appellante chiede la rinnovazione della CTU.
3. Con il terzo motivo di appello si impugna, per erronea valutazione delle
risultanze processuali, la parte della sentenza che ha condannato S.P.G. a
restituire in favore degli eredi legittimi le somme prelevate dal conto corrente
bancario del de cuius, pari a complessivi € 26.532,14, nel periodo da agosto
2009 fino al 9.12.2009, data del decesso di N.G.
Parte appellante reputa che, anche con riferimento alla domanda restitutoria
e/o di rendiconto, il primo giudice abbia recepito acriticamente le valutazioni
del CTU dott. MA. – che ha verificato unicamente la presenza di partite in
entrata ed in uscita sul conto corrente bancario del de cuius e quindi l’esistenza
o meno di pezze contabili a giustificazione delle uscite effettuate dal conto –
senza considerare che il de cuius, il quale aveva sempre conservato le piene
facoltà cognitive, ben poteva materialmente eseguire le operazioni di prelievo
direttamente dallo sportello bancomat; che, in virtù del rapporto affettivo tra il
N.G. e la S.P.G., il conto corrente del de cuius veniva dalla stessa movimentato
in numerose occasioni con prelievi di modesti importi per far fronte alle
esigenze della vita quotidiana del compagno e ciò anche nei periodi in cui lo
stesso non era ricoverato ed era in grado di procedere materialmente alla loro
esecuzione, peraltro senza considerare che i ricoveri ospedalieri del N.G. non
erano avvenuti con soluzione di continuità ma con diverse interruzioni e che
nei periodi di ricovero si sono registrati unicamente quattro prelievi di somme
pari e/o superiori ad euro 1.000,00.
4. Con il quarto motivo di appello, l’appellante reputa errata la sentenza nella
parte in cui ha ritenuto non giustificato il movimento effettuato sul conto
corrente del de cuius con l’emissione di un assegno circolare di euro 9.137,00
in data 26.08.2009 in favore di Compass Spa.
Avrebbe errato il primo giudice a valutare inattendibili le dichiarazioni rese
dalla teste C.B. sul presupposto che non fosse credibile la circostanza, in
assenza di documentazione che la comprovasse, che la stessa fosse creditrice
del N.G., alla luce del fatto che questi si trovava in buone condizioni
finanziarie, e fosse contraddittorio che la C. dapprima avesse contratto un
finanziamento con Compass Spa e allo stesso tempo avesse prestato soldi in
contanti al N.G., in realtà omettendo di considerare che le dichiarazioni della
teste collocano il prestito non nell’anno 2009, ma nell’anno precedente. A ciò si
aggiunge, a dire dell’appellante, che l’assenza di documentazione a supporto
del prestito effettuato in favore del de cuius è ricollegabile alla natura dei
rapporti in essere tra le parti, in considerazione della relazione di vita
ultraquarantennale tra il N.G. e la S.P.G. che ha necessariamente coinvolto
anche i figli di questa e che avrebbe dovuto portare a ritenere giustificato il
detto esborso.
5. Con il quinto motivo di appello, rubricato “rideterminazione dell’asse
ereditario e conseguente rigetto della domanda di riduzione e di restituzione”,
parte appellante, dalle argomentazioni svolte con i precedenti motivi di appello
fa discendere la rideterminazione dell’asse ereditario sulla scorta di una diversa
valutazione dei beni relitti, senza riduzione della disposizione testamentaria
effettuata in favore di essa appellante e con rigetto della domanda di
restituzione somme a titolo di rendiconto.
Conseguentemente chiede, in riforma della impugnata sentenza, il rigetto della
domanda di riduzione del legato disposto in favore di S.P.G. per violazione
della quota di riserva; con vittoria di spese di giudizio della fase cautelare e di
entrambi i gradi del giudizio di merito.
– Questo Collegio ritiene che vada accolto il primo motivo di appello e vada
dichiarata la inammissibilità della domanda di riduzione.
L’art 564 c.c prevede la accettazione con beneficio di inventario quale
condizione di ammissibilità della azione di riduzione rivolta nei confronti di terzi
non coeredi (come è nel caso in esame). Si tratta non di requisito costitutivo
ma appunto di condizione di ammissibilità, né può il legittimario sanare la
situazione con successiva accettazione beneficiata, essendo egli ormai erede
puro e semplice, in quanto ha accettato l’eredità con il fatto stesso di aver
proposto l’azione. Il difetto dell’accettazione dell’eredità con beneficio
d’inventario, quale condizione di ammissibilità dell’azione di riduzione delle
liberalità in favore di persone non chiamate alla successione come eredi, non è
oggetto di un’eccezione in senso tecnico, sicché la mancanza di tale condizione,
come per tutte le altre condizioni dell’azione, deve essere rilevata d’ufficio dal
giudice, anche in grado di appello (Cassazione civile, sez. II, 19/10/2012, n.
18068).
Osserva il Collegio che in tema di successioni “mortis causa”, l’art. 484 cod.
civ., nel prevedere che l’accettazione con beneficio d’inventario si faccia con
dichiarazione, preceduta o seguita dalla redazione dell’inventario, delinea una
fattispecie a formazione progressiva di cui sono elementi costitutivi entrambi
gli adempimenti ivi previsti; infatti, sia la prevista indifferenza della loro
successione cronologica, sia la comune configurazione in termini di
adempimenti necessari, sia la mancata di una distinta disciplina dei loro effetti,
fanno apparire ingiustificata l’attribuzione all’uno dell’autonoma idoneità a dare
luogo al beneficio, salvo il successivo suo venir meno, in caso di difetto
dell’altro. Ne consegue che, se da un lato la dichiarazione di accettazione con
beneficio d’inventario ha una propria immediata efficacia, determinando il
definitivo acquisto della qualità di erede da parte del chiamato che subentra
perciò in “universum ius defuncti”, compresi i debiti del “de cuius”, d’altro
canto essa non incide sulla limitazione della responsabilità “intra vires”,che è
condizionata (anche) alla preesistenza o alla tempestiva sopravvenienza
dell’inventario, in mancanza del quale l’accettante è considerato erede puro e
semplice (artt.485, 487,488 cod. civ.) non perché abbia perduto “ex post” il
beneficio, ma per non averlo mai conseguito. Infatti, le norme che impongono
il compimento dell’inventario in determinati termini non ricollegano mai
all’inutile decorso del termine stesso un effetto di decadenza, ma sanciscono
sempre come conseguenza che l’erede venga considerato accettante puro e
semplice, mentre la decadenza è chiaramente ricollegata solo ed
esclusivamente ad alcune altre condotte, che attengono alla fase della
liquidazione e sono quindi necessariamente successive alla redazione
dell’inventario (e di seguito si illustreranno).
Se invece il legittimario, dopo aver dichiarato di accettare con il predetto
beneficio, non compie l’inventario nei termini di legge, l’azione di riduzione, nei
casi previsti dall’art 564 c.c., non può essere esercitata: e ciò perché in tal
caso non si verifica una decadenza dal beneficio, bensì manca la fattispecie da
cui deriva l’applicazione di esso. L’omessa redazione dell’inventario comporta il
mancato acquisto del beneficio e non la decadenza dal medesimo, ne consegue
che all’erede, il quale agisce contro i terzi non chiamati alla successione, è
precluso l’esperimento dell’azione di riduzione, non sussistendo il presupposto
al riguardo richiesto dall’art. 564 primo comma ultima parte cod. civ., cioè
l’accettazione con beneficio d’inventario (v Cass.civ. 16739 del 09/08/2005).
Ad avviso della dottrina assolutamente prevalente il fondamento della norma,
dell’art 564 c.c. che pone una condizione di procedibilità dell’azione di
riduzione, è individuato nella tutela dei donatari e legatari estranei, per i quali
è necessaria la preventiva constatazione ufficiale della consistenza dell’asse
ereditario. Altre sono le ipotesi di decadenza che, come dispone l’ultimo inciso
del primo comma dell’art 564 c.c., non fanno perdere all’erede il diritto di
chiedere la riduzione: si tratta delle ipotesi previste dagli artt 493 e 494 c.c.
(alienazione dei beni senza autorizzazione e infedeltà o omissioni
nell’inventario ).
La legge intende subordinare l’esercizio dell’azione al fatto che la consistenza
dei beni ereditari venga accertata per mezzo dell’inventario, e ciò al fine di
tutelare i donatari e i legatari i quali, se una parte dell’attivo ereditario venisse
loro occultata, correrebbero il rischio di subire una riduzione non giustificata.
Ciò spiega l’esclusione del requisito in caso di azione contro coeredi in quanto
costoro, se il legittimario non si comporta correttamente, possono promuovere
essi stessi la redazione dell’inventario.
Pertanto erra il Tribunale quando sostiene che la disposizione del primo comma
non si applica nel caso di specie perché l’erede è decaduto dal beneficio di
inventario per non averlo redatto nei termini.
In realtà il richiamo operato dall’ultimo inciso del primo comma dell’art 564
non si riferisce all’ipotesi de qua della mancata redazione dell’inventario ma,
come sopra illustrato, alle ipotesi di decadenza previste dagli artt 493 e 494
c.c.
Si ribadisce che invece la fattispecie della mancata redazione dell’inventario
comporta l’effetto della accettazione pura e semplice e quindi ricade
pienamente nella regola della inammissibilità della azione di riduzione verso i
terzi.
Va anche sgombrato il campo da eventuali dubbi sulla natura di terzo da parte
della S.P.G.. Infatti dal tenore letterale della disposizione testamentaria si
evince la costituzione di un legato e non la istituzione di erede. L’atto contiene
una disposizione particolare a titolo gratuito senza che il testatore abbia inteso
assegnare quel bene come quota del patrimonio complessivo.
Infine coglie nel segno la censura relativa alla inammissibilità della azione
anche con riferimento alla posizione di R.A.
E’ noto il principio per cui a norma dell’art. 564 cod. civ., il legittimario che
abbia la qualità di erede non può esperire l’azione di riduzione delle donazioni e
dei legati lesivi della sua quota di legittima ove non abbia accettato l’eredità
con beneficio d’inventario, non potendo tale condizione valere, invece, per il
legittimario totalmente pretermesso, il quale può acquistare i suoi diritti solo
dopo l’esperimento delle azioni di riduzione o di annullamento del testamento
(v per tutte Cass Civ. n. 24836 del 17/08/2022). La pretermissione del
legittimario può verificarsi anche nella successione “ab intestato”, qualora il
“de cuius” si sia spogliato in vita del suo patrimonio con atti di donazione.
Tale fattispecie è stata erroneamente richiamata nel caso in esame laddove la
stessa R.A. e poi i suoi eredi, hanno sin dall’atto introduttivo del giudizio di
primo grado, allegato la presenza di beni mobili relitti. La circostanza che il
CTU abbia attribuito ai beni mobili un valore esiguo di 2.000-3.000 euro, non
fa venire meno la natura di relictum e il diritto dei terzi (legatari e\o eventuali
creditori) alla redazione dell’inventario.
Ma a ben vedere, nel caso in esame, il relictum è costituito anche dal denaro
esistente sul conto corrente. Lo stesso giudice di primo grado scrive (a pag 4 e
a pag 6 ) che l’importo di euro 26.532,14 (proveniente dal conto corrente del
de cuius) va aggiunto all’asse ereditario. Detto denaro deve entrare nella
massa ereditaria ai fini della determinazione della quota di legittima e della
successiva riduzione della donazione.
Anche sotto questo profilo, esistendo un relictum, la R.A. e per essa i suoi
eredi, non potevano ritenersi totalmente pretermessi e quindi erano soggetti
alla regola dell’art 564 comma primo ed erano tenuti all’inventario.
Resta da valutare se la inammissibilità della domanda di riduzione, produca i
suoi effetti anche sulla ulteriore domanda avente ad oggetto l’accertamento
dell’illecito prelevamento delle somme dal c.c. bancario intestato a N. G. e, per
l’effetto, di condanna al risarcimento del danno arrecato nella misura
corrispondente a detto prelevamento.
La originaria domanda era stata formulata come richiesta di risarcimento del
danno ed è stata riqualificata dal giudice di primo grado come azione di
rendiconto “ tenuto conto del principio iura novit curia e del fatto che gli attori
hanno dedotto in citazione l’esistenza di tutti i fatti costitutivi della azione di
rendiconto” (v sentenza impugnata).
L’azione di rendiconto è effettivamente esperibile nei confronti di chi, tramite
delega bancaria, svuoti il conto corrente del defunto ed è volta alla condanna
di chi abbia male operato sul conto corrente del defunto, appropriandosi
indebitamente del denaro di quest’ultimo.
Nel caso in esame, tuttavia va rilevato che i prelievi che si assumono indebiti
non sono avvenuti dopo il decesso del N.G., ma mentre questi era in vita.
Osserva la Corte che in realtà la domanda era rivolta non a rendere il conto
della gestione del denaro, bensì a recuperare nella massa ereditaria il denaro
proveniente dal conto corrente de cuius e in tal senso è stata accolta dal
Tribunale. Quindi si trattava di una domanda di natura petitoria volta a
reintegrare la pienezza e l’esclusività del diritto degli eredi sull’asse ereditario
mediante il recupero all’asse ereditario, anche del denaro già depositato su
conto corrente e incassato dalla S.P.G. prima del decesso del de cuius.
La domanda di accertamento e di “risarcimento” è stata esercitata dagli attori-
eredi legittimi non autonomamente ma in maniera connessa alla azione di
riduzione e al fine di comprendere nella azione di riduzione, anche quel denaro.
Per tale motivo ritiene la Corte che anche tale domanda venga travolta dal
giudizio di inammissibilità della azione di riduzione.
In ogni caso appaiono fondate anche le censure nel merito formulate nel terzo
e quarto motivo di appello in quanto, trattandosi di prelievi di somme
effettuate non dopo il decesso ma prima della morte del dante causa, era
necessario provare in maniera rigorosa non solo gli avvenuti prelievi, ma il
dissenso del titolare del conto e la destinazione delle somme contro la volontà
del de cuius.
Il ricovero del N.G., non gli impediva di gestire i suoi beni, la convivenza
quarantennale con la S.P.G. giustifica una presunzione di consenso nell’impiego
delle somme prelevate e gli attori non hanno assolto all’onere probatorio a loro
carico che non era solo quello di provare i prelievi, ma di provare il dissenso
del N.G.
Anche con riferimento all’assegno di euro 9.137,00, la teste C.B. ha illustrato
le causali del versamento. I dubbi sulla attendibilità della teste non portano a
ritenere provata la tesi degli originari attori perché era loro onere fornire la
prova della illegittima destinazione del denaro e, anche a non prendere in
considerazione le risultanze della prova testimoniale, resterebbe non provata la
loro tesi con il conseguente rigetto della domanda nel merito.
Pertanto, in accoglimento del primo motivo di appello e assorbendo ogni
motivo e ogni altra questione e richiesta, la sentenza impugnata va riformata e
va dichiarata la inammissibilità della domanda formulata in primo grado dagli
attori.
La soccombenza degli appellati e la riforma integrale della sentenza di primo
grado comportano la condanna degli stessi al pagamento, in solido tra loro, a
favore della S.P.G., delle spese di entrambi i gradi del giudizio che si liquidano
come in dispositivo.
La complessiva regolamentazione delle spese di lite all’esito della decisione di
merito (con applicazione per la fase di appello di importo superiore al minimo
dello scaglione da 52.001 a 260.000), comprende anche le spese del
procedimento cautelare in corso del presente giudizio, atteso che l’esito della
fase cautelare endoprocessuale non ha un’autonoma rilevanza ai fini della
complessiva regolamentazione delle spese di lite.
P.Q.M.
La Corte di Appello di Lecce, sezione seconda civile, definitivamente decidendo
sull’appello proposto da S.P.G., con atto di citazione notificato il 19.10.2022
nei confronti di N.M. e N.F., avverso la sentenza di primo grado n. 1144 del
Tribunale di Brindisi pubblicata il 20.07.2022 così provvede:
accoglie l’appello e in riforma della sentenza impugnata, dichiara inammissibile
la domanda formulata dagli attori in primo grado.
Condanna N.M. e N.F. in solido tra loro, al pagamento a favore di S.P.G. delle
spese processuali che liquida in euro 7.200,00 per il primo grado e euro
8.000,00 per il secondo grado, oltre IVA e CAP per legge, rimborso forfetario al
15% e CU del grado di appello.

Il sostegno è diretto a permettere al beneficiario di esercitare in prima persona i suoi diritti.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 29 dicembre 2024, n. 34854
Svolgimento del processo
G.A. e G.G. odierni ricorrenti, sono fratelli di G. P., beneficiario di amministrazione di
sostegno aperta, su istanza del Pubblico Ministero, dal giudice tutelare del Tribunale di
Padova, con ricorso depositato il 15 novembre 2022, sulla base di quanto riferito dai
vigli urbani e dai servizi sociali in merito allo stato di trascuratezza e di scarsa igiene
in cui viveva il beneficiario.
Il giudice tutelare, sentito il beneficiario e nella opposizione dei suoi fratelli, ha
ritenuto opportuna la nomina quale amministratore di un terzo estraneo alla famiglia
nella persona dell’avv. E.C. (in sostituzione di altro avvocato che aveva rinunciato
all’incarico).
I fratelli del beneficiario hanno proposto reclamo, deducendo l’assenza dei presupposti
per l’apertura della misura e comunque che il loro congiunto può essere
adeguatamente protetto dalla rete familiare.
La Corte d’appello di Venezia ha confermato il provvedimento di apertura di
amministrazione di sostegno sul rilievo che lo stesso interessato ha dichiarato di avere
bisogno di qualcuno che lo aiuti nelle faccende, e che, come segnalato dei vigili urbani
e degli assistenti sociali, la persona viveva in una condizione di degrado e di scarsa
igiene personale, ed erano stati trascurati i suoi affari quali la richiesta di pensione e la
dichiarazione della successione materna; che i fratelli si sono dimostrati poco
collaborativi giungendo persino a rifiutare la fornitura di pasti messa a disposizione dal
servizio sociale.
Avverso il predetto provvedimento hanno proposto ricorso per cassazione i fratelli del
beneficiario affidandosi a quattro motivi.
Si è costituito con controricorso l’avv. C. nella qualità di amministratore di sostegno di
G. P.. I ricorrenti hanno depositato memoria.
In esito alla udienza camerale del 12 luglio 2024 la causa è stata rimessa alla pubblica
udienza, disponendo la notifica del ricorso a G. P., beneficiario, e sollecitando le parti
ad interloquire sulla regolare instaurazione del contraddittorio nei gradi di merito.
Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta chiedendo la declaratoria di
nullità dell’intero procedimento.
Alla pubblica udienza del 14 novembre 2024 il Pubblico Ministero nella persona del
Sostituto procuratore generale Luisa De Renzis ha concluso come da requisitoria
scritta.
I procuratori delle parti hanno insistito in atti. Non costituito G. P..
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art.
404 c.c. per non aver il Giudice valutato correttamente la capacità del beneficiario di
provvedere ai propri interessi, requisito fondamentale di applicazione dell’istituto. I
ricorrenti deducono che il fratello P. non ha alcuna alterazione psichica e che
comunque l’amministrazione di sostegno non è stata aperta per provvedere a queste
esigenze ma per occuparsi essenzialmente della gestione patrimoniale. Osservano che
all’amministratore sono stati affidati molteplici compiti, tra cui gli atti di straordinaria
amministrazione, la gestione dei conti correnti, la scelta del medico di famiglia, il
compito di prestare il consenso informato ai trattamenti sanitari al trattamento dei
dati personali l’assunzione di colf, la richiesta di prestazioni previdenziali, esorbitanti le
effettive esigenze dell’interessato ed inutilmente invasivi.
2.- Con il secondo motivo del ricorso si lamenta la violazione e/o falsa applicazione di
norme di diritto in relazione all’art. 112 c.p.c. laddove il Giudice non si è pronunciato
in ordine alla richiesta di accertamento della presenza di un’adeguata rete familiare. I
ricorrenti deducono di essere in grado di occuparsi del fratello e che la Corte d’appello
non ha adeguatamente valutato questo profilo.
3.- Con il terzo motivo del ricorso si lamenta la violazione e/o falsa applicazione di
norme di diritto in relazione in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., ovvero
travisamento della prova sul punto della ritenuta fragilità psichica dell’interessato,
nonché l’erronea interpretazione delle dichiarazioni rese dal beneficiario in sede di
ascolto con conseguente violazione del principio di autodeterminazione. I ricorrenti
deducono che la circostanza che il fratello abbia manifestato la volontà di essere
aiutato non costituisce condizione necessaria per l’applicazione di tale misura. Egli,
infatti, è capace di intendere e volere, è in salute e non deve assumere medicinali e in
occasione delle ultime elezioni ha regolarmente votato; la volontà di essere aiutato è
stata manifestata con riferimento alla cura quotidiana.
4.- Con il quarto motivo del ricorso si lamenta la violazione e/o falsa applicazione di
norme di diritto in relazione all’art. 409 c.c. nonché dell’art. 194 c.p.c. laddove il
giudice di merito non ha espletato consulenza tecnica di ufficio in assenza di
qualsivoglia motivazione. I ricorrenti osservano che prima di poter procedere alla
nomina di un amministratore di sostegno, si deve accertare che nel singolo caso
specifico ricorrano tutti i presupposti previsti dall’art. 404 c.c., ossia: la sussistenza o
meno di una infermità e/o di una menomazione, fisica o psichica; una effettiva
impossibilità, anche parziale, della persona beneficiaria di attendere ai propri
interessi; l’esistenza di un nesso causale tra le circostanze sopraddette. L’esistenza di
tali presupposti – imprescindibile per poter nominare un amministratore di sostegno –
può essere accertata solo attraverso un’indagine condotta da un tecnico del settore;
indagine alle cui conclusioni il giudicante deve eventualmente riportasi. Invece, il
giudice ha fondato il suo convincimento sulla base delle sole relazioni fornire dai
servizi sociali e dalla polizia locale mancando, pertanto, una analisi completa sugli
aspetti psicologici che dovevano essere vagliati anche da uno specialista e che di
ritiene necessaria ai fini del riconoscimento dei presupposti legittimanti l’adozione
della misura.
5. Con la ordinanza interlocutoria n. 19935/ 2024 emessa in esito alla udienza
camerale del 12 luglio 2024, il Collegio ha rilevato che l’odierno ricorso per
cassazione, promosso dai fratelli del beneficiario, è stato notificato al soggetto
nominato amministratore di sostegno (avv. C.) di G. P., ma non a quest’ultimo
personalmente; che ugualmente non risulta che gli sia stato notificato il reclamo,
promosso sempre dai fratelli, notificato invece all’amministratore di sostegno nella
supposizione che egli sia legittimato a rappresentare il beneficiario nel presente
procedimento; che non risulta dal tenore degli atti portati alla attenzione del Collegio,
che il giudice tutelare, pur procedendo alla audizione del beneficiario, lo abbia avvisato
della facoltà di nominare un difensore. Di conseguenza il Collegio, nella ordinanza
interlocutoria, oltre a disporre la notifica del ricorso per cassazione nei confronti del
diretto interessato, ha invitato le parti a interloquire sulla regolarità della procedura in
particolare sulla integrità o meno del contraddittorio, invitandoli espressamente a
indicare se vi sono ulteriori atti cui fare riferimento, al fine di verificare se il
beneficiario è stato preventivamente invitato a esercitare le garanzie difensive che gli
competono.
6.- Il Procuratore generale evidenzia come effettivamente la procedura in oggetto
abbia avuto inizio e prosecuzione in difetto di idoneo contraddittorio perché il
beneficiario; che il beneficiario rappresenta la (vera) parte legittimata a stare in
giudizio nei procedimenti riguardanti la propria persona così da consentirgli l’esercizio
dei diritti fondamentali; che il quadro normativo, quale già delineato nell’ordinanza
interlocutoria, non consente di derogare alla regola della conservazione (piena) della
capacità processuale dell’interessato ed al necessario coinvolgimento dello stesso nei
giudizi che lo riguardano che non risulta dagli atti la notifica del reclamo (incardinato
dai fratelli del beneficiario) notificato esclusivamente all’amministratore di sostegno
sulla erronea presupposizione che costui fosse l’unico soggetto legittimato a poter
rappresentare il beneficiario nel procedimento giudiziario; che questa lacuna ha viziato
e vizia l’intero procedimento e non può dirsi sanata dalla partecipazione in giudizio
dell’amministratore di sostegno. Sulla scorta di queste considerazioni ha chiesto
dichiararsi la nullità dell’intero procedimento.
7.- Le considerazioni del Procuratore generale sono condivisibili e si deve rilevare e
dichiarare la nullità del decreto di apertura della amministrazione di sostegno.
La questione è stata sottoposta al contraddittorio delle parti invitandole anche ad
indicare eventuali atti ulteriori rispetto a quelli già portati all’attenzione delle Corte,
rilevanti al fine di valutare se il contraddittorio è stato o meno instaurato. Il ricorso per
cassazione, unitamente alla ordinanza interlocutoria è stato notificato all’interessato,
ma nessun altro atto oltre a quelli già depositati è stato indicato o allegato dalle parti.
7.1.- Si deve quindi rilevare che il presente procedimento è stato aperto ad iniziativa
del Pubblico Ministero che aveva ricevuto segnalazioni da parte dei servizi sociali circa
la mancata cura in cui versava la persona di P. G. e la sua abitazione.
Non risulta dagli atti disponibili che questo ricorso sia stato notificato al beneficiario, il
quale è stato tuttavia condotto in udienza innanzi al giudice tutelare. Dal verbale di
udienza del 17/3/2023 non risulta che l’interessato abbia avuto la possibilità di
leggere il ricorso, né che gli sia stata spiegata adeguatamente la natura e la finalità
del procedimento, né che sia stato avvisato che il provvedimento avrebbe potuto
comportare limitazioni della capacità di agire; non risulta neppure che gli sia stato
rivolto l’invito a munirsi di un difensore. Il giudice tutelare si è limitato a chiedergli
“cosa ne pena se individuiamo una persona che la aiuta e la segue e la supporta nella
gestione della vita quotidiana?” domanda incongrua e fuorviante rispetto a quello che
sarà poi il contenuto del provvedimento adottato, ove sono previste limitazioni
importanti della capacità del beneficiario.
Il giudice tutelare ha infatti disposto che l’amministratore di sostegno è autorizzato a
compiere in sostituzione dell’interessato e in nome e per conto dello stesso tutti gli atti
di gestione patrimoniale, ordinaria e straordinaria, quali la riscossione della pensione,
l’utilizzo di carte di credito, la chiusura e apertura di conto correnti bancari, la
presentazione di dichiarazioni di redditi, gli investimenti mobiliari, la assunzione di
personale di servizio, la prestazione del consenso ai trattamenti chirurgici e sanitari
nonché al trattamento dei dati personali. Da questo momento in poi il beneficiario
scompare dal processo, posto che il reclamo è stato notificato soltanto al suo
amministratore di sostegno e non gli è stato notificato il ricorso per cassazione, se non
dopo che il Collegio ha ordinato la integrazione del contraddittorio.
7.2.- Di queste evidenti e palesi violazioni del principio del contraddittorio, nonché del
principio di salvaguardia della dignità della persona fragile, non si è preoccupata la
Corte d’appello, la quale si è limitata ad affermare che sussistono i presupposti per la
nomina di un amministratore di sostegno dal momento che il beneficiario, pur essendo
una persona colta, è affetto da “un disturbo schizoaffettivo di tipo residuale” e il suo
comportamento è incongruo: è trasandato, non è in grado di curare la propria persona
negli aspetti igienico sanitari, è uso a indossare abiti non adeguati alle condizioni
meteorologiche e girovagare per la città, non ha curato le pratiche di successione e
previdenziali.
8.- La descritta condizione di fragilità non giustifica però – ancor prima che la adozione
di una misura fortemente limitativa della capacità- il trattamento processuale ricevuto
dal G. e l’errore in cui sono incorse non solo le parti, ma anche entrambi i giudici di
merito nel non considerare che nella procedura per la istituzione di
un’amministrazione di sostegno non esistono parti necessarie al di fuori del
beneficiario dell’amministrazione (Cass. n.14190 del 05/06/2013) e che
l’amministratore di sostegno non può rappresentare il beneficiario nel giudizio di
impugnazione (Cass. n. 451 del 08/01/2024). L’art. 720-bis ratione temporis vigente
richiama infatti l’art. 716 c.p.c. sulla conservazione della capacità processuale
dell’interessato, e negli stessi termini oggi dispone l’ art.473- bis.55 in relazione
all’art. 473-bis.58 c.p.c.
8.1.- La conservazione della capacità processuale del diretto interessato nei giudizi
ablativi o limitativi della capacità di agire è un principio consolidato nel nostro
ordinamento, già previsto in tema di interdizione ed inabilitazione dall’art. 716 c.p.c.,
ancora prima della entrata in vigore della legge 9 gennaio 2004 n. 6, e risponde ai
principi costituzionali espressi dagli artt.24 e 111 Cost., in ragione dei quali deve
essere assicurata al titolare di diritti e interessi legittimi la piena capacità di agire e
difendersi nel processo ove questi diritti vengono in discussione, a maggior ragione se
si tratta di diritti fondamentali della persona.
8.2.- In termini, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che la ratio dell’art.
716 c.p.c., a norma del quale l’interdicendo non perde la capacità processuale di agire
e contraddire nel giudizio di interdizione, pur dopo che gli è stato nominato un tutore
provvisorio (e quindi deroga in parte qua all’art. 75 c.p.c.), è di consentirgli di
difendere il diritto all’integrale conservazione della capacità di agire. Ne deriva da un
lato che il predetto tutore non è parte necessaria di tale giudizio, non configurandosi
un interesse della tutela all’esito del medesimo; dall’altro che il tutore provvisorio non
assume la veste, nel giudizio di interdizione, di rappresentante processuale
dell’interdicendo (Cass. 16/11/2000, n.14866). Questo principio è stato applicato dalla
giurisprudenza di legittimità anche in tema di amministrazione di sostegno, pur
prendendo atto che si tratta di misura che non necessariamente comporta la
limitazione della capacità di agire; tuttavia ogniqualvolta si discuta, in un giudizio
promosso per la apertura della amministrazione sostegno della possibilità di applicare
l’art 411 c.c. che consente al giudice tutelare di estendere al beneficiario determinati
effetti, limitazioni o decadenze previsti per l’interdetto o l’inabilitato, una lettura
costituzionalmente orientata della normativa di riferimento esige che il destinatario
della misura ablativa di diritti disponga delle medesime garanzie che assistono le
procedure di interdizione o di inabilitazione, con particolare riferimento al rispetto del
diritto di difesa e del contraddittorio, non potendo ragionevolmente riconoscersi
garanzie differenziate in relazione a provvedimenti che spieghino pari effetti
sostanziali (Cass. 29/11/2006, n.25366; Cass. n. 6861 del 20/03/2013).
8.2.- Anzi, a maggior ragione le garanzie processuali devono essere applicate nel caso
dell’amministrazione di sostegno che, pur potendo comportare la limitazione delle
capacità del beneficiario, resta pur sempre una misura tendente a valorizzare
l’autonomia della persona ed a proteggerla senza mortificarne, se non nella misura
strettamente necessaria, la facoltà di autodeterminarsi (Cass. civ. 11/05/ 2017, n.
11536; Cass. civ. 26/10/ 2011, n. 22332).
E’ necessario quindi che il processo ove si discute delle misure dirette ad incidere sulla
vita e sulla capacità della persona abbia una struttura partecipativa e che il
beneficiando non venga considerato alla stregua di un semplice oggetto sul quale
compiere l’accertamento istruttorio, ma soggetto di diritto, protagonista, nei limiti in
cui lo consente la sua condizione, dei procedimenti che lo riguardano.
8.3.- Il beneficiando conserva dunque la capacità processuale per tutta la durata del
procedimento, anche se gli è stato nominato un amministratore provvisorio, e pur
quando il provvedimento di apertura dell’amministrazione è divenuto definitivo
conserva la facoltà di chiederne la revoca (art 413 c.c.). Egli conserva inoltre il diritto
di essere informato e di esprimere la propria opinione ed eventualmente il dissenso su
tutti gli atti dell’amministratore, il che costituisce uno spazio di libertà e di
autodeterminazione incomprimibile, anche nei casi in cui ne venga fortemente limitata
la capacità; e conserva la facoltà di rivolgersi in qualunque momento al giudice
tutelare anche in modo informale (Cass. n. 7414 del 20/03/2024).
9.- Di contro, l’amministratore di sostegno provvisoriamente nominato non può
costituirsi in nome e per conto del beneficiario, il quale ha diritto di difendersi
scegliendo liberamente il suo difensore (Cass. n. 451 del 08/01/2024);
l’amministratore, nel presente processo, non ha neppure la facoltà di proporre una
autonoma impugnazione perché l’art. 720- bis c.p.c. ratione temporis vigente non
richiama(va) l’art. 718 c.p.c. (sulla legittimazione alla impugnazione del tutore e
curatore). Diversamente, nel rito disegnato dal D.lgs. n. 149/2022, applicabile ai
procedimenti instaurati successivamente al 28 febbraio 2023, l’amministratore di
sostegno ha il potere di impugnare il provvedimento di primo e secondo grado, atteso
che l’articolo 473- bis. 58 c.p.c. richiama, in quanto compatibili, tutte le norme della
sezione terza, ferma restando però la conservazione della capacità processuale da
parte del beneficiario.
10.- Ciò non significa che il beneficiando debba necessariamente costituirsi nel giudizio
di apertura della amministrazione a mezzo di un difensore, o avere un difensore
d’ufficio, ma, dovendo fruire delle stesse garanzie previste per l’interdicendo e per
l’inabilitando deve essere informato della pendenza del procedimento e della facoltà di
difendersi in esso, pur avendo la libertà di restare – consapevolmente- contumace. Per
questa ragione si è affermato, nella consolidata giurisprudenza di questa Corte, che il
giudice deve, ogni caso in cui il provvedimento da emettere, sia o non corrispondente
alla misura richiesta, incida in maniera diretta sui diritti inviolabili della persona,
invitare la parte a nominare un difensore nel rispetto dei principi costituzionali in
materia di diritto di difesa e del contraddittorio (Cass. n. 25366 del 29/11/2006; Cass.
civ. n. 6861 del 20/03/2013).
11.- Il principio richiede talune precisazioni alla luce delle affermazioni contenute nella
sentenza delle sezioni unite di questa Corte n. 2198 del 30 luglio 2021 ove si afferma
che l’amministrazione di sostegno si configura come un istituto nel cui contenitore
sono riunite ed unificate fattispecie che secondo il sistema previgente erano
considerate tra loro ontologicamente diverse; e che prevede rimedi e forme di tutela,
anch’essi radicalmente nuovi e non compatibili con le preesistenti – ma rimaste in
vigore- figure normative di protezione degli incapaci. L’unicità del nuovo istituto che
combina in sé tratti disciplinari tradizionali con elementi del tutto innovativi, impedisce
quindi di pervenire ad una soluzione di carattere unitario, valida per tutti i casi
indistintamente, non potendosi quindi risolvere le varie problematiche che possano
insorgere in nome della generalizzata applicazione delle norme del procedimento
camerale ovvero di quello a cognizione ordinaria, imponendosi piuttosto soluzioni
differenziate a seconda delle varie fattispecie per le quali è richiesta l’amministrazione
di sostegno ovvero in relazione al contenuto del provvedimento emesso dal giudice
tutelare.
12.- L’amministrazione di sostegno è infatti disegnata dalla legge n. 6 del 9 gennaio
2004 come uno strumento volto a proteggere senza mortificare la persona affetta da
disabilità, chiamando il giudice all’impegnativo compito di adeguare la misura alla
situazione concreta della persona e di variarla nel tempo, così da assicurare
all’amministrato la massima tutela possibile con il minor sacrificio della sua capacità di
autodeterminazione. Introducendo l’amministrazione di sostegno, il legislatore ha
dotato l’ordinamento di una misura che può essere modellata dal giudice tutelare in
relazione allo stato personale e alle circostanze di vita di ciascun beneficiario e in vista
del concreto e massimo sviluppo delle sue effettive abilità.
La funzione della misura non è rassicurare i familiari sulla conservazione del
patrimonio, o preservare i terzi dal fastidio della convivenza civile con le persone
fragili, ma migliorare la qualità di vita del soggetto protetto soddisfacendo i suoi
bisogni e le sue esigenze; a questa condizione si giustifica l’intervento dell’autorità
giudiziaria ed è in vista di questa finalità che si assicura la partecipazione del
soggetto, nei limiti in cui le sue condizioni lo consentono, alle scelte che lo riguardano.
E’ di fondamentale importanza, quindi, che l’interessato abbia piena contezza della
ragioni per cui è richiesta la misura e delle sue possibili conseguenze, in modo da
potersi compiutamente esprimere in merito. Ciò anche al fine di consentire al giudice
verificare, da un lato, le competenze della persona e cioè le sue capacità e abilità, e,
dall’altro, le sue carenze, poiché la persona potrebbe essere in grado di
autodeterminarsi e di esercitare con sufficiente avvedutezza taluni diritti, ovvero
operare in taluni ambiti della vita sociale ed economica, mentre potrebbe non essere
abile e competente in altri settori. In esito a tale verifica il giudice, oltre a decidere
l’an della misura, deve anche definire e perimetrare i compiti e i poteri
dell’amministratore, in termini direttamente proporzionati all’incidenza degli accertati
deficit sulla capacità del beneficiario di provvedere ai suoi interessi, di modo che la
misura risulti specifica e funzionale agli obiettivi individuali di tutela, altrimenti
implicando un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona (Cass.
02/11/2022, n.32321).
12.1.- Una rivoluzione copernicana, quindi, che sostituisce alla idea che il soggetto
minus habens debba essere escluso (id est interdetto) dalla partecipazione alla società
civile, l’idea della inclusione, in conformità a quanto stabilisce l’art. 12 della
Convenzione di New York del 2006 sui diritti delle persone con disabilità, il quale
vincola gli Stati parte a consentire alle persone con disabilità l’accesso «al sostegno di
cui dovessero necessitare per esercitare la propria capacità giuridica». Il “sostegno”, in
questa prospettiva, è diretto a permettere al soggetto di esercitare in prima persona i
suoi diritti.
13.- Il modello ideale dell’amministrazione di sostegno è quindi quello di una misura di
mero supporto, che non comprime in alcun modo la capacità del soggetto ma la
potenzia, affiancandogli una persona che lo aiuta ad esercitare in prima persona i suoi
diritti. Ed è evidente che se ci si muove nell’ambito di questo modello ideale, lo
schema processuale da seguire non è quello del giudizio contenzioso, ma di una
procedura di gestione di interessi la cui attivazione è rimessa in primo luogo allo
stesso interessato (art 406 c.c.).
14.- I modelli ideali devono però far conto con la realtà e cioè con la possibilità che la
fragilità del soggetto richieda, per poter proteggere la persona e realizzare il suo
miglior interesse, una limitazione della capacità, come è consentito dall’art 411 c.c. La
misura, ove il giudice tutelare ritenga di estendere al beneficiario le limitazioni e
decadenze previste per l’interdetto o l’inabilitato comporta il conferimento
all’amministratore di specifici poteri di rappresentanza o di assistenza rispettivamente
analoghi a quelli del tutore o del curatore, nei limiti strettamente necessari a
proteggere gli interessi del beneficiario.
14.1.- In questo caso il giudizio è contenzioso perché si discute di diritti e cioè di
possibili limitazioni della capacità di agire; ed il fatto stesso che se ne debba discutere
impone il rispetto del diritto di difesa e del contradditorio, anche qualora l’esito del
giudizio sia poi nel senso della piena conservazione della capacità. Con la conseguenza
che, in questo caso, è doverosa una regolare vocatio in ius del diretto interessato, e
quindi la notifica non solo del ricorso ma anche di un decreto di comparizione con la
indicazione della data dell’udienza, che contenga l’avviso che la parte ha facoltà di
costituirsi conferendo mandato difensivo ad un avvocato, che in ogni caso si procederà
alla sua audizione e che il beneficiando conserva la capacità processuale per tutta la
durata del giudizio, anche nel caso di provvisoria apertura della amministrazione di
sostegno.
14.3.- Soltanto così la parte, edotta della natura del processo, delle sue finalità e dei
suoi diritti viene messa in condizione di partecipare consapevolmente al giudizio.
La possibilità che la persona interessata possa non comprendere il contenuto del
decreto di comparizione non esime certamente le parti ed il giudice dal promuovere e
istruire un regolare processo; si avrebbe altrimenti una anticipazione di giudizio sulla
mancanza di capacità dell’interessato. E non vi è ragione per ritenere che in un
giudizio ove si discuterà della sua capacità di agire il possibile beneficiario di
un’amministrazione di sostegno limitativa debba godere di garanzie processuali
inferiori a quelle di qualsiasi cittadino convenuto in giudizio per diritti patrimoniali,
garanzie disegnate dall’art. 163 c.p.c. che impone di offrire al convenuto tutte le
informazioni su ciò che deduce colui che ha promosso il giudizio, delle richieste che
costui muove all’autorità giudiziaria, nonché sulle modalità della costituzione e della
facoltà di ricorrere alla difesa tecnica, anche a spese dello Stato ricorrendone i
presupposti.
15.- Una ulteriore notazione deve farsi: poiché nel procedimento per l’apertura di
un’amministrazione di sostegno il giudice tutelare gode di ampi poteri ufficiosi, tra i
quali appunto quello di limitare la capacità a prescindere dalla domanda, non è
dirimente -al fine di valutare se si tratti di un procedimento contenzioso o meno- il
contenuto del ricorso introduttivo. Infatti, anche qualora i soggetti legittimati
propongano l’apertura di una mera amministrazione di supporto, in esito alla audizione
dell’interessato e delle parti il giudice tutelare potrebbe adottare un provvedimento
limitativo. Di conseguenza la regolare vocatio in ius del soggetto interessato -con la
notifica del ricorso e di un decreto di comparizione che riporti le indicazioni sopra
precisate- è sempre doverosa, salvo che nei casi in cui il giudice tutelare sia in grado
di escludere con assoluta certezza che in quel giudizio non si dovrà discutere di
limitazioni di capacità, oltre che nel caso in cui l’interessato stesso abbia proposto il
ricorso conferendo mandato ad un avvocato (difesa tecnica), perché in questo caso le
piene garanzie processuali sono già realizzate. Non così nel caso in cui il ricorso sia
proposto personalmente dall’interessato ma senza difesa tecnica; in tal caso va
comunque avvisato della facoltà di nominare un difensore.
16. Devono quindi enunciarsi i seguenti principi di diritto
A) Nel procedimento per l’apertura della amministrazione di sostegno, avendo il
giudice tutelare la facoltà di estendere al beneficiario, anche d’ufficio, effetti,
limitazioni o decadenze previste da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato,
è doverosa una regolare vocatio in ius del diretto interessato, con la notifica non solo
del ricorso ma anche di un decreto di comparizione con la indicazione della data
dell’udienza e che contenga l’avviso che la parte ha facoltà di costituirsi tramite un
avvocato, che può presentare istanza per la ammissione al patrocinio a spese dello
Stato, che in ogni caso si procederà alla sua audizione e che il beneficiando conserva
la capacità processuale per tutta la durata del giudizio, anche nel caso di provvisoria
apertura della amministrazione di sostegno. L’adempimento può essere omesso solo
qualora il giudice tutelare sia in grado di escludere con assoluta certezza che in quel
giudizio non si dovrà discutere di limitazioni di capacità, oltre che nel caso in cui
l’interessato stesso abbia proposto il ricorso conferendo mandato ad un avvocato; se
l’interessato ha proposto ricorso personalmente, senza ricorrere alla difesa tecnica,
dovrà essere avvisato dal giudice tutelare della facoltà di nominare un difensore.
B) Il beneficiario di una amministrazione di sostegno conserva, per tutta la durata del
giudizio, la capacità processuale e la facoltà di scegliere il difensore di sua fiducia e
non può essere rappresentato nel giudizio stesso dal nominato amministratore di
sostegno. Egli conserva in ogni caso, anche qualora la misura divenga definitiva, la
facoltà di chiedere la revoca della misura e di interloquire direttamente, anche per via
informale, con il giudice tutelare.
Da quanto sopra esposto consegue, in accoglimento per quanto di ragione del ricorso
e in conformità alle conclusioni del Pubblico Ministero la cassazione del provvedimento
impugnato, la dichiarazione di nullità del decreto di apertura della amministrazione di
sostegno e dell’intero processo, con rinvio ai sensi dell’art 383 comma 3 c.p.c. al
giudice tutelare del Tribunale di Padova in persona di magistrato diverso da quello che
ha emesso il decreto di apertura della amministrazione di sostegno, per un nuovo
esame previa regolare instaurazione del contraddittorio.
P.Q.M.
Accoglie per quanto di ragione il ricorso, cassa il provvedimento impugnato dichiara la
nullità del decreto di apertura della amministrazione di sostegno e dell’intero processo,
con rinvio al giudice tutelare del Tribunale di Padova in persona di magistrato diverso
da quello che ha emesso il decreto di apertura della amministrazione di sostegno, per
un nuovo esame, previa regolare instaurazione del contraddittorio.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri titoli
identificativi a norma dell’art. 52 d.lgs. 196/2003.

Il compenso del Curatore Speciale del minore va posto a carico dei genitori soccombenti.

Tribunale di Pisa, decreto 9 ottobre 2024
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
Vista la richiesta di liquidazione del compenso avanzata dal curatore del
minore, Avv. XX, in ragione dell’attività svolta e dell’impegno profuso;
considerato che – benché la nomina del curatore del minore nel presente
procedimento sia stata assunta in applicazione delle norme antecedenti alla
c.d. Riforma Cartabia e quindi ai sensi del disposto dell’art. 78 c.p.c., al fine di
tutelare al meglio l’interesse del minore, vista la peculiare problematicità del
caso – tale nomina si inserisce nel solco che il legislatore della riforma ha poi
tracciato con il rafforzamento dell’istituto;
considerato che, nel perdurante silenzio sul punto del legislatore (anche nelle
nuove norme di cui all’art. 473 bis. 7 e 473 bis.8 c.p.c.), i curatori dei minori
sono nella prassi, nella stragrande maggioranza dei casi, avvocati specializzati
nel diritto di famiglia, quindi professionisti che fanno applicazione nell’esercizio
dell’incarico, oltre che delle proprie doti umane di equilibrio e buon senso,
anche e soprattutto del proprio bagaglio di conoscenze tecnico-professionali
(tanto che nelle prassi di molti uffici giudiziari costituisce titolo preferenziale
per la nomina l’aver svolto specifici corsi di formazione);
ritenuto che si debba far ricorso ai principi generali e in particolare al principio
dell’eccezionalità del carattere gratuito o meramente volontario di un’attività
lato sensu professionale e dunque pur sempre lavorativa, quale quella in
questione;
considerato altresì che, allorché il legislatore ha voluto stabilire la gratuità di
un incarico lo ha fatto espressamente come ad esempio per il tutore
dell’incapace (art. 379 c.c.) o per l’amministratore di sostegno (art. 411 c.c.
nella parte in cui fa rinvio anche all’art. 379 c.c.);
ritenuto, conseguentemente, che in assenza di un’analoga norma che preveda
la gratuità dell’Ufficio di curatore del minore, non è lecito inferirne la gratuità,
ma sia invece necessario ritenerne l’essenziale onerosità;
considerate le peculiarità della figura e del ruolo del curatore del minore, e
ritenuto che essa non sia inquadrabile nella nozione di mandatario, come
ritenuto da alcuni giudici di merito, in quanto la figura del mandatario
presuppone appunto il “mandato” ossia un incarico di compiere uno o più atti
giuridici nell’interesse del mandante, mentre nel caso del curatore l’incarico
non proviene dall’interessato, bensì dal giudice e ha ad oggetto non tanto e
non solo atti giuridici, ma una variegata attività anche fattuale (come ad
esempio i colloqui con i genitori, l’ascolto del minore…) non riconducibile
quindi ad atti giuridici in senso tecnico;
letto l’art. 3, lett. n del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, il quale dà una
definizione ampia di “ausiliario del magistrato” e vi ricomprende, tra gli altri,
“qualunque altro soggetto (…) comunque idoneo al compimento di atti, che il
magistrato o il funzionario addetto all’ufficio può nominare a norma di legge”;
ritenuto che tale ampia definizione si attagli al caso di specie e che pertanto,
anche in assenza di una normativa specifica e in forza del tenore letterale di
tale ultima norma, sia applicabile il Capo V del Titolo II delle Disposizione di
attuazione del c.p.c.;
letto, conseguentemente, l’art. 52 disp. att. c.p.c., in base al quale il compenso
deve essere liquidato con decreto dal Giudice che ha nominato l’ausiliario
“tenuto conto dell’attività svolta” e il decreto con cui i compensi sono liquidati,
a norma dell’art. 53 disp. att. c.p.c., deve contenere l’indicazione della “parte
che è tenuta a corrisponderli”;
ritenuto, quanto ai criteri e parametri di liquidazione da applicare, che il
Decreto Ministeriale 13 agosto 2022, n. 147 (regolamento recante modifiche al
decreto 10 marzo 2014, n. 55, concernente la determinazione dei parametri
per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell’articolo
13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247) al cui art. 10-septies
prevede che “Per le attività difensive svolte dall’avvocato in qualità di curatore
del minore, il compenso è liquidato applicando i parametri previsti dalle tabelle
allegate al presente decreto relative alle procedure e ai giudizi in cui è di volta
in volta nominato”;
ritenuto che ove il curatore speciale del minore non abbia svolto attività
prettamente “difensive”, ma abbia invece rappresentato l’interesse del minore
nei rapporti con i genitori e con il giudice e proceduto all’ascolto del minore,
non sia applicabile tale norma, quanto piuttosto, in base a criteri generali
stabiliti, la normativa per la liquidazione del compenso degli ausiliari del
giudice e quindi innanzitutto dell’art. 49 L DPR 115/01 cit. (“agli ausiliari del
magistrato spettano l’onorario, l’indennità di viaggio e di soggiorno, le spese di
viaggio e il rimborso delle spese sostenute per l’adempimento dell’incarico”) e
dell’art. ART. 51 (L) DPR cit. (“Nel determinare gli onorari variabili il magistrato
deve tener conto delle difficoltà, della completezza e del pregio della
prestazione fornita”);
ritenuto che, quanto alla misura degli onorari, sia applicabile l’art. 50 DPR
115/01 e poiché l’attività del curatore non rientra in alcuna delle attività per le
quali sono previsti onorari a tariffa, che debba conseguentemente farsi ricorso
agli onorari a vacazioni;
ritenuto che l’onere del pagamento dei compensi debba gravare sui genitori
esercenti la responsabilità genitoriale, non essendovi motivo alcuno per
discostarsi dal principio generale in forza del quale le spese legittimamente
dovute in favore dei figli devono essere sostenute innanzitutto dai genitori
(artt. 147, 148, 316, 316 bis, 320 c.c.);
ritenuto, infatti, di non condividere la diffusa tesi secondo la quale, mutuando
l’orientamento consolidatosi presso i tribunali per i minorenni, dovrebbe
ritenersi onerato del pagamento del compenso direttamente il minore, il quale
quindi, in quanto di regola privo di redditi, dovrebbe sempre beneficiare
dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (facendo anche leva, da parte
dei sostenitori di questa tesi, sulla norma di cui all’art. 76 L DPR 115/02 cit.
che consente – in caso in cui gli interessi del richiedente siano in conflitto con
quelli degli altri familiari con lui conviventi – di tener conto solo dei redditi del
richiedente (in questo caso appunto del solo minore);
ritenuto, infatti, che debbano valutarsi a tal fine i seguenti elementi, in senso
contrario alla tesi anzidetta:
– nella grande maggioranza dei casi, dinanzi al TO si verte in situazioni in cui i
genitori si trovano ancora nella piena titolarità della responsabilità genitoriale e
quindi, come tali, sono direttamente obbligati col proprio patrimonio a far
fronte agli obblighi civili della prole minorenne – al contrario di quanto accade
comunemente presso i Tribunali per i minorenni;
– la nozione di conflitto di interessi che è alla base della norma di cui all’art. 76
L DPR 115/02 che non si attaglia al caso in questione: infatti, tra il genitore
esercente la responsabilità genitoriale ed il proprio figlio minore può sussistere
un mero conflitto di fatto, ma mai un conflitto di interesse in senso tecnico,
come quello delineato da tale norma, atteso che il genitore ha l’obbligo
giuridico di perseguire l’interesse vero ed ultimo del figlio minore (e quindi
anche eventualmente ove diverso da quello che egli/ella ritenga tale);
– ragioni di giustizia sostanziale impongono di tenere nella debita
considerazione il fatto che, ove il tribunale debba nominare un curatore
speciale del minore per individuare quale sia l’interesse del minore e tutelarlo
anche nei confronti del genitore, la relativa spesa debba essere sostenuta dal
genitore stesso, trattandosi di spesa stabilita dal giudice, necessaria nel
superiore interesse del figlio minore;
– sarebbe inoltre contrario a giustizia far ricadere sull’Erario e dunque sulla
collettività, notevolissimi oneri di spesa, connessi ai compensi e spese del
curatore (attesa l’implementazione che all’istituto ha dato la Riforma Cartabia,
munendo alcune ipotesi di nomina obbligatoria addirittura della sanzione della
nullità processuale, in caso di omessa nomina), spesso derivanti da patenti
violazioni da parte dei genitori, o di uno di essi, ai propri basilari doveri nei
confronti dei propri figli minori;
– ritenuto infatti che, diversamente opinando, tali genitori si vedrebbero
ingiustificatamente sollevati, magari pur in presenza di una situazione
finanziaria florida, dalle conseguenze patrimoniali delle proprie condotte illecite
e inadempienti ai propri doveri genitoriali;
ritenuto, pertanto, per quanto precede, che l’onere del compenso del curatore
del minore debba essere posto in capo ai genitori, e che debba applicarsi, al
pari del compenso per gli altri ausiliari del giudice, la regola della
soccombenza;
ritenuto, tuttavia che, al pari di quanto accade per gli ausiliari, non possa
procedersi alla liquidazione, una volta che la causa sia definita, posto che dopo
tale momento il giudice perde il potere di emettere il provvedimento con cui
grava le parti delle spese del giudizio, (in tal senso, sulla liquidazione del ctu
dopo la definizione della causa, Cass. civ. Sez. IV, ord. 30/11/2021 n.
37480/21, nella quale la Suprema Corte ricorda che al professionista rimane la
possibilità di richiedere l’emissione di un decreto ingiuntivo);
rilevato, infatti che una volta definito il giudizio e regolato con sentenza l’onere
delle spese processuali, il giudice non ha più il potere di provvedere alla
liquidazione del compenso di un ausiliario, pena l’emissione di un
provvedimento abnorme, emesso da un Giudice in carenza di potere, che
andrebbe ad incidere in modo definitivo su posizioni di diritto soggettivo (Cass.
civ. VI sez., Ord. 3/8/2021 n. 24101);
ritenuto, per quanto precede, di non poter procedere alla liquidazione;
P.Q.M.
Rigetta l’istanza.