Diffusione di riprese o registrazioni fraudolente di incontri privati o conversazioni a contenuto sessuale

Cass. Pen., Sez. V, Sent., 17 gennaio 2025, n. 2112; Pres. Pezzullo, Rel. Cons. Occhipinti
sessuale
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo
1.Con la sentenza impugnata, la Corte di Appello di Napoli ha confermato la decisione del Tribunale
di Napoli Nord, che aveva dichiarato A.A. colpevole del delitto di cui all’art. 617-septies cod. pen. (in
esso assorbito il reato di diffamazione aggravata contestato al capo B), per avere diffuso, mediante
applicativo whatsapp, una ripresa audio/video, effettuata fraudolentemente con il proprio telefono
cellulare, di un incontro privato avvenuto con B.B., avente a oggetto le fasi immediatamente
successive a un rapporto sessuale tra i due, avvenuto all’interno dell’abitacolo dell’autovettura in uso
alla p.o., in cui la stessa appariva in pose intime.
2. Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite del difensore di fiducia, avvocato D.
D.I., che svolge tre motivi – enunciati nei limiti richiesti per la motivazione ai sensi dell’art. 173 disp.
att. cod. proc. pen.
2.1. Vizi di motivazione in relazione al primo motivo di appello, laddove ci si doleva della mancata
dimostrazione della diffusione del video incriminato a opera dell’imputato, evidenziando come la
sentenza abbia affidato l’affermazione di responsabilità alla ‘verosimile’ riconducibilità della condotta
diffusiva all’imputato, in spregio al principio del ‘ragionevole dubbio’, senza neppure prendere in
considerazione la possibilità che il video sia stato estrapolato dal telefono della p.o. o l’alternativa
dell’accesso di un hacher all’interno del cellulare. Inoltre, sotto il profilo soggettivo, si lamenta che
non sia stato provato il dolo specifico, incompatibile con il ravvisato dolo eventuale.
2.2. Vizi della motivazione in merito al mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui
all’art. 131-bis cod. pen. Si duole il ricorrente che la Corte di appello abbia valorizzato profili di
negatività del fatto senza procedere a una valutazione complessiva, prendendo in esame aspetti, quali
la incensuratezza e la giovanissima età dell’imputato, l’assenza di abitualità e la rudimentalità della
condotta.
2.3. Vizi di motivazione in relazione all’eccessiva severità del trattamento sanzionatorio, per il diniego
delle circostanze attenuanti generiche e del beneficio della sospensione condizionale della pena,
riconoscibili in ragione dell’atteggiamento processuale collaborativo tenuto dall’imputato, sia in sede
di interrogatorio che optando per il rito abbreviato.
Motivi della decisione
Il ricorso non è fondato.
1.1.Non ha pregio il primo motivo, laddove ci si duole del vizio di motivazione della sentenza
impugnata nella parte in cui ha affermato la riconducibilità della diffusione dei video incriminato
all’imputato affidandosi a un mero giudizio di verosimiglianza.
1.2.In realtà, dalla lettura della sentenza impugnata, conforme a quella di primo grado, emerge che la
Corte di appello – nel condividere il percorso argomentativo esplicitato dal giudice di primo grado –
ne ha pedissequamente riportato le valutazioni, conformemente a questi ritenendo espressamente
provata “oltre ogni ragionevole dubbio” la responsabilità dell’imputato, alla luce di plurimi indici,
analiticamente indicati in entrambe le sentenze di merito (dichiarazioni analitiche e dettagliate della
p.o., riscontri provenienti dalle altre prove dichiarative, perizia sui cellulari, dichiarazioni
dell’imputato), della riconducibilità al A.A. della diffusione del video fraudolentemente carpito.
1.3.Nel riportare le valutazioni del primo giudice, la Corte di appello ha, effettivamente, inserito
l’avverbio “verosimilmente” (pg.3) con riguardo alla attribuibilità della condotta di diffusione del
video, ma, all’evidenza, si tratta di una improprietà linguistica (da elidere) resa palese dal complessivo
ragionamento probatorio nel quale, impropriamente, essa si inserisce. La sentenza impugnata ha,
invero, dato conto delle ragioni della ritenuta captazione fraudolenta delle immagini, e, cioè
dell’assenza di consenso della p.o., come plasticamente reso evidente – oltre che dalle modalità della
ripresa, fugacemente realizzata subito dopo un rapporto sessuale, – da alcune immagini del video, in
cui la p.o. esprime la propria sorpresa e contrarietà per quell’azione improvvida, invitando l’autore a
mettere da parte il telefono, e delle ragioni del convincimento per cui l’autore della diffusione non
poteva che essere stato il A.A.: i due giovani era soli in auto quando vennero fatte le riprese, e il video
è venuto in possesso della p.o. solo dopo che era stato già diffuso.
1.4. Quanto alle possibilità alternative che non sarebbero state prese in considerazione dalla Corte di
appello – al di là della considerazione che, invece, la Corte di appello, e già il primo giudice, avendo
specificamente argomentato in merito alle ragioni per cui hanno ritenuto che la diffusione del video
fosse attribuibile al A.A., hanno, in tal modo, implicitamente escluso altre possibili ricostruzioni del
fatto – giova anche considerare come, essendo stato dedotto, in proposito, il vizio di motivazione di
cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la predetta censura non concerna né la ricostruzione
dei fatti, né l’apprezzamento del giudice di merito, ma debba essere, invece, circoscritta alla verifica
che il testo dell’atto impugnato contenga l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che
lo sorreggono, che il discorso giustificativo sia effettivo e non meramente apparente (cioè idoneo a
rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata), che nella
motivazione non siano riscontrabili contraddizioni, né illogicità evidenti (cfr. Sez. U, n. 47289 del
24/09/2003, Petrella, Rv. 226074). In particolare, con riguardo al vizio di illogicità della motivazione,
la menzionata disposizione postula che essa sia manifesta, cioè di spessore tale da risultare percepibile
ictu oculi, restando ininfluenti le minime incongruenze e dovendosi considerare disattese le deduzioni
difensive che, anche se non espressamente confutate, appaiano logicamente incompatibili con la
decisione adottata (ex multis Sez. 2, n. 35817 del 10/07/2019, Rv. 276741). La giurisprudenza di
legittimità è, invero, chiara nell’affermare che “non è censurabile, in sede di legittimità, la sentenza
che non motivi espressamente in relazione a una specifica deduzione prospettata con il gravame,
quando il suo ridetto risulti dalla complessiva struttura argomentativa della sentenza” (Sez. 4, n. 5396
del 15/11/2022, dep. 8/2/2023, Rv. 284096). Sotto tale aspetto, la doglianza si risolve in un dissenso
‘decisionale’, inidoneo, come tale, a segnalare in questa sede precarietà logiche della decisione
impugnata o, peggio, vuoti di motivazione sui punti interessati, peraltro dovendo sottolinearsi come
l’imputato non abbia offerto realistiche alternative da confrontare, non potendo aver rilievo, a fini
inibitori della pronunzia di sentenza di condanna, un’ipotesi alternativa del tutto congetturale, pur se
in astratto plausibile (da Sez. 4, n. 22257, del 25/3/2014, Rv. 259204), come quella dell’azione di un
‘hacher’ prospettata dalla difesa. Invero, la selezione dei fatti e delle situazioni rilevanti è propria del
giudice del merito e, quando l’interpretazione di essi è sorretta da una adeguata motivazione, continua
ad essere incensurabile nel giudizio di legittimità, anche dopo la riforma che ha novellato l’art. 606
comma primo lett. e) cod. proc. pen. (art. 8 L. n. 46 del 2006), tenuto anche conto del fatto che la
valutazione della prova non può essere disancorata dal contesto in cui è inserita e che un simile
compito non può spettare al giudice di legittimità, sulla base della lettura necessariamente parziale
suggeritagli dal ricorso per cassazione. (V. in argomento, Sez. 2, 23/03/2006, n. 1399 e Sez. 6,
24/03/2006, n. 14054, Rv. 233454). A ciò deve aggiungersi che neppure l’emersione di una criticità
su una delle molteplici valutazioni contenute nella sentenza impugnata può comportare
l’annullamento della decisione per vizio di motivazione, allorché le restanti offrano ampia
rassicurazione sulla tenuta del ragionamento ricostruttivo (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M e altri,
Rv. 271227), posto che dà luogo a vizio della motivazione non qualunque omissione valutativa che
riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma solo quello che sia idoneo a disarticolare uno degli
essenziali nuclei di fatto che sorreggono l’impianto della decisione, quale risultante dall’esame del
complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato (Sez. 2, n. 9242 del
08/02/2013, Rv. 254988; Sez. 2, n. 18163 del 22/04/2008; Sez. 1, n. 13528 del 11/11/1998, Rv.
212053). 2. Non è fondata neppure la doglianza incentrata sull’elemento soggettivo.
2.1. È opportuno, a tale proposito, ricordare che il delitto di diffusione di riprese e registrazioni
fraudolente, previsto dall’articolo 617-septies del codice penale – in attuazione della legge delega del
23 giugno 2017, n. 103, intervenuta a seguito di un lungo dibattito critico, generato soprattutto della
diffusione da parte dei mass media dei contenuti delle intercettazioni e dalla lesione del diritto alla
riservatezza non solo dei soggetti diretti destinatari dell’ intercettazione, ma anche dei soggetti esterni
e coinvolti in quanto semplici interlocutori del soggetto-bersaglio – è stato inserito dall’art. 1, D.Lgs.
29 dicembre 2017, n. 216, con decorrenza dal 26 gennaio 2018, per reprimere comportamenti che
violano la riservatezza degli individui (e, contestualmente, la loro reputazione e immagine) tramite la
diffusione di materiale raccolto fraudolentemente, ai fine di danneggiare i beni giuridici menzionati;
con tale innesto, si sono volute colmare lacune emerse nel sistema penale riguardo alla tutela della
riservatezza, colpita da aggressioni poste in essere mediante l’impiego di sistemi captativi a carattere
tecnologico.
2.2. L’art. 617-septies cod. pen. punisce “Chiunque, al fine di recare danno all’altrui reputazione o
immagine, diffonde con qualsiasi mezzo riprese audio o video, compiute fraudolentemente, di
incontri privati o registrazioni, pur esse fraudolente, di conversazioni, anche telefoniche o
telematiche, svolte in sua presenza o con la sua partecipazione.”
L’inserimento della disposizione nel Libro Secondo (Dei delitti in particolare), Titolo dodicesimo (Dei
delitti contro la persona), Capo Terzo (Dei delitti contro la libertà individuale), Sezione Quinta (Dei
delitti contro l’inviolabilità dei segreti) del codice penale fornisce indicazioni sul bene giuridico che
si intende tutelare: la norma affonda le proprie radici nell’ art. 15 Cost., che tutela la libertà e la
segretezza della corrispondenza e di ogni forma di comunicazione, ma anche nell’art. 21 Cost. posto
a presidio del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro
mezzo di diffusione.
La tutela della libertà e segretezza delle conversazioni e comunicazioni passa naturalmente anche
dalla inviolabilità del domicilio (art. 14 Cost.), dal momento che, con la norma di nuovo conio, non
si può garantire tutela alla libertà di espressione e manifestazione del pensiero (quale che sia la forma
assunta) avvenuta in un contesto ed in luogo pubblico per volontà delle parti o per le specifiche
modalità con cui la comunicazione/conversazione viene concretamente posta in essere.
Si può cogliere, dunque, la ratio della norma incriminatrice, non soltanto nella libertà e segretezza
delle conversazioni o comunicazioni, ma anche nella tutela dell’onore e della reputazione degli
interlocutori della conversazione, di qualsiasi genere, che avvenga in privato, i cui contenuti sono e
devono intendersi destinati a rimanere tra i presenti (i quali hanno diritto a non vedere carpite con
l’inganno parole o esternazioni di qualsivoglia genere, e a vederle diffuse nell’etere), semprechè non
sussista espresso consenso alla divulgazione.
In questo senso, si può affermare che la inviolabilità e la segretezza delle comunicazioni o
conversazioni sono protette dalle ingerenze esterne o dalla arbitraria e non autorizzata diffusione extra
presenti, non soltanto perché viene in tal modo garantita la libera esplicazione e manifestazione del
pensiero, ma anche per evitare che una indebita circolazione dei contenuti di conversazioni o
comunicazioni private possa ledere la reputazione e l’onore del soggetto passivo.
Giova richiamare un passo della Relazione illustrativa trasmessa al Parlamento, la quale chiarisce
che: “La norma punisce colui che diffonde il contenuto di incontri o conversazioni riservate, registrate
con mezzi insidiosi, (microfoni o telecamere nascoste), e quindi fraudolentemente, allo scopo di
recare nocumento all’altrui reputazione. Sul piano empirico, la società della comunicazione di massa
registra il frequente ricorso a simili stratagemmi, posti scientemente in essere con lo scopo della
successiva divulgazione. Si tratta di condotte agevolate dalla diffusione, anche tra privati, di mezzi
tecnologici del tutto idonei all’ampia e immediata divulgazione di contenuti comunicativi carpiti
senza l’altrui consenso (si pensi alle potenzialità dei moderni dispositivi portatili e ali ‘uso dei soci al
media). Ne consegue un grave pregiudizio all’onore e alla dignità della vittima, discendente dalla
divulgazione di immagini e/o parole carpite quando la stessa presumeva di partecipare a una
comunicazione del tutto privata, in un contesto, cioè, riservato e confidenziale, che tale doveva
restare, contro ogni indebita invasione della propria sfera personale.”
La previsione della procedibilità a querela conferma come oggetto di tutela dell’art. 617-septies cod.
pen. sia l’interesse del singolo al mantenimento del proprio onore e della reputazione e a evitarne la
compromissione a seguito di indebite e non autorizzate divulgazioni all’esterno delle manifestazioni
del proprio pensiero, espresse in privato.
2.3.Sul piano strutturale, la condotta sanzionata consiste nella diffusione di una captazione
fraudolenta, effettuata mediante riprese audio/video o registrazioni, di conversazioni o incontri di tipo
privato, alle quali l’agente abbia preso parte o sia stato presente.
La fattispecie in questione pone il tema del raffronto con i reati a sfondo sessuale come quello di
“diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”, previsto dall’art. 612-ter cod. pen.,
che si sostanzia nella divulgazione non autorizzata online di file multimediali a contenuto
sessualmente esplicito, soprattutto a scopo di vendetta nei confronti dell’ex partner. L’art. 612-ter:
punisce chiunque “invia, consegna, cede, pubblica o diffonda immagini o video a contenuto
sessualmente esplicito destinati a rimanere privati e senza il consenso delle persone rappresentate”.
Peculiarità di questo tipo di immagini e video – oltre alla connotazione del loro contenuto, che deve
essere sessualmente esplicito, laddove nel reato di cui all’art. 617-septies assume rilievo la fraudolenta
captazione delle immagini/registrazioni di dati sensibili – è che gli stessi sono girati con il consenso
della persona ritratta (all’interno di coppie, nell’ambito di momenti intimi consensuali). A essere non
consensuale, dunque, nel reato di cui all’art. 612-ter, non è la realizzazione del materiale pornografico,
ma la sua successiva diffusione.
2.4. Sotto il profilo soggettivo, ai fini della integrazione del delitto di cui all’art. 617-septies cod. pen.,
si richiede che la condotta miri ad arrecare danno alla reputazione e all’immagine altrui, con tale
previsione risultando chiaro, in coerenza con le descritte rationes, come la acquisizione fraudolenta
di conversazioni/incontri privati abbia l’obiettivo di tutelare non solo la segretezza delle conversazioni
e delle comunicazioni, ma anche la reputazione del soggetto passivo in seguito alla lesione della stessa
dovuta alla divulgazione di dati sensibili. In tale contesto normativo, la captazione in quanto tale
costituisce un antefatto penalmente irrilevante, richiedendosi che la condotta miri ad arrecare danno
alla reputazione e all’immagine altrui.
La norma incriminatrice in questione si caratterizza, dunque, per la presenza del dolo specifico nel
soggetto agente, richiedendosi, cioè, quale elemento essenziale della fattispecie, un requisito di natura
psichica, consistente in uno scopo ulteriore verso cui deve tendere la volontà del soggetto agente: la
norma, punendo la fraudolenta ripresa, audio o video, di incontri privati, o la registrazione, anch’essa
fraudolenta, di conversazioni, anche telefoniche o telematiche, a cui l’agente abbia preso parte o abbia
presenziato, richiede, ai fini della configurazione del reato de quo, non la mera diffusione del
materiale, bensì che la diffusione avvenga al fine di recare danno all’altrui reputazione o immagine.
Non sarebbe, ad esempio, sufficiente a integrare il reato la sola diffusione di immagini o registrazioni
carpite senza il consenso della vittima, pur supportata dal dolo generico: non è punibile,
esemplificando, la condotta di chi abbia ‘cliccato’ sul tasto condividi, richiedendosi il quid pluris,
sotto il profilo soggettivo, costituito dall’intenzione di danneggiare l’immagine e la reputazione della
persona offesa, uno scopo ulteriore verso cui deve tendere la volontà del soggetto agente, una
proiezione finalistica, sebbene non se ne richieda, ai fini dell’esistenza della fattispecie, l’effettivo
conseguimento.
È chiaro che tale finalizzazione della volontà presuppone il dolo – generico – richiesto per la
realizzazione dell’evento tipico della fattispecie (diffusione delle immagini o della registrazione),
comprensivo quindi, anche del dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che la messa
in circolazione delle riprese o delle registrazioni fraudolentemente carpite possa determinarne la
diffusione.
2.5.Alla luce di tali coordinate, rileva il collegio come, nella sentenza impugnata, l’affermazione della
Corte di appello, circa la ravvisabilità dell’elemento psicologico del dolo eventuale nella fattispecie
in esame, debba essere intesa come riferita all’elemento soggettivo che sorregge la condotta materiale
del reato, da intendersi quale volontaria messa in circolazione del video ritraente un momento intimo
dell’incontro privato tra l’imputato e la p.o. e la sua eventuale diffusione.
Poiché però, ai fini della integrazione della fattispecie criminosa si richiede, sotto il profilo soggettivo,
che la condotta diffusiva (dolo generico, anche eventuale) sia accompagnata dalla finalità di arrecare
danno all’immagine o alla reputazione della vittima (dolo specifico), va ricordato come la prova di
tale elemento possa essere tratta da ogni elemento utile allo scopo, attraverso un ragionamento logico-
inferenziale, secondo le regole generali in tema di valutazione dell’elemento soggettivo del reato,
desumendolo, cioè, dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive dell’azione criminosa,
attraverso le quali, con processo logico-deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva
del soggetto, in modo da evidenziarne, oltre alla cosciente volontà e rappresentazione degli elementi
oggettivi del reato, l’intenzione di danno specificamente richiesto dalla norma.
2.6.Nel caso di specie, i giudici di merito hanno evidenziato come le modalità della condotta fossero
chiaramente fraudolente, e la diffusione del video imputabile all’odierno ricorrente, mentre il fine
specifico perseguito dall’agente può trarsi dalla stessa oggettiva materialità della condotta, ovvero
dalle modalità con le quali il filmato è stato realizzato, immediatamente dopo il rapporto sessuale (ciò
che rende evidente una finalità diversa da quella erotica o comunque collegata al rapporto sessuale
appena consumato) e dal mezzo di diffusione del filmato, che è stato fatto circolare su una chat di
amici, comuni anche alla p.o., elementi che appaiono direttamente esplicativi della precisa volontà di
danneggiare la reputazione della vittima. È, dunque, riscontrabile nella fattispecie in esame, accanto
al dolo generico (anche eventuale) che deve supportare psicologicamente la condotta diffusiva,
l’ulteriore elemento volitivo necessario ai fini dell’integrazione del delitto sotto il profilo soggettivo,
costituito dalla specifica volontà di danneggiare la vittima, integrante il dolo specifico.
2.7. Il principio di diritto che deve essere affermato è, quindi, che, ai fini dell’integrazione del reato
di cui all’art. 617-septies, è richiesta la prova, ritraibile da ogni elemento utile, della sussistenza in
capo all’agente del dolo specifico, costituito dal fine di arrecare danno all’altrui reputazione o
immagine.
3. Non ha pregio il secondo motivo con cui ci si duole del vizio argomentativo che sorregge, nella
sentenza impugnata, il mancato riconoscimento della speciale causa di non punibilità per la lieve
entità del fatto. La Corte di appello ha, infatti, valorizzato plurimi indici della gravità del fatto (pg.4),
con valutazione del tutto coerente con ì principi di diritto affermati da questa Corte, anche nella sua
più autorevole composizione. Invero, le Sezioni Unite Tushaj’ (S.U. n. 13681 del 25/02/2016) hanno
rilevato che l’art. 131-bis cod. pen. fa riferimento testuale alle modalità della condotta, per inferirne
che tale disposizione non si interessa tanto della condotta tipica, bensì ha riguardo alle modalità di
estrinsecazione del comportamento, anche in considerazione delle componenti soggettive della
condotta stessa, al fine di valutarne complessivamente la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla
legge e conseguentemente il bisogno di pena. Occorre, pertanto, avere riguardo – ai fini della
applicabilità della causa di non punibilità – al fatto storico, alla situazione reale e irripetibile costituita
da tutti gli elementi di fatto concretamente realizzati dall’agente, perché non è in questione la
conformità al tipo (la causa di non punibilità presuppone un fatto conforme al tipo e offensivo, ma il
cui grado di offesa sia particolarmente tenue tanto da non richiedere la necessità di pena), bensì l’entità
del suo complessivo disvalore e questo spiega il riferimento alla connotazione storica della condotta
nella sua componente oggettiva e soggettiva. Pertanto, il giudizio finale di particolare tenuità
dell’offesa postula necessariamente la positiva valutazione di tutte le componenti richieste per
l’integrazione della fattispecie, sicché i criteri indicati nel primo comma dell’art. 131 -bis cod. pen.
sono cumulativi quanto al giudizio finale circa la particolare tenuità dell’offesa ai fini del
riconoscimento della causa di non punibilità, e alternativi quanto al diniego, nel senso che
l’applicazione della causa di non punibilità in questione è preclusa dalla valutazione negativa anche
di uno solo di essi (infatti, secondo il tenore letterale dell’art. 131-bis cod. pen. nella parte del primo
comma qui rilevante, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del
danno o del pericolo, l’offesa è di particolare tenuità. (Sez. 3 n. 893 del 28/06/2017, Rv. 272249; Sez.
6 n. 55107 del 08/11/2018, Rv. 274647; Sez. 3 n. 34151 del 18/06/2018, Rv. 273678), Sez. 7
Ordinanza n. 10481 del 19/01/2022, Rv. 283044). Risulta, pertanto, del tutto decontestualizzata,
rispetto a tale canone ermeneutico, la doglianza difensiva incentrata sulla mancata valorizzazione di
alcuni indici favorevoli al ricorrente, giacché, come detto, la Corte di appello ha enucleato una
pluralità di fattori di segno opposto.
4. Il terzo motivo, incentrato sul trattamento sanzionatorio, è manifestamente infondato. La Corte di
appello ha dato conto delle ragioni del diniego delle circostanze attenuanti generiche e del beneficio
della sospensione condizionale della pena (pg. 5). Invero, l’art. 62-bis cod. pen. attribuisce al giudice
la facoltà di cogliere, sulla base di numerosi e diversificati dati sintomatici (motivi che hanno
determinato il reato, circostanze che lo hanno accompagnato, danno cagionato, condotta tenuta “post
delictum”, ecc.), quegli elementi che possono suggerire l’opportunità di attenuare la pena edittale.
Trattandosi di valutazione di merito, essa si sottrae alle censure di legittimità, potendo il giudice di
merito escludere la sussistenza delle circostanze attenuanti generiche con motivazione fondata sulle
sole ragioni preponderanti della propria decisione, purché non contraddittoria e congruamente
motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori
attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (Sez. 6, n. 42688 del 24.09.2008, Rv. 242419; conf.
sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269), essendosi limitato a prendere in esame, tra gli elementi
indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente, e atto a determinare o meno il
riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole
o all’entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso (Sez. 2,
n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163; Sez. 2 – , n. 23903 del 15/07/2020, Rv. 27954902).
4.1. In tema di sospensione condizionale della pena, vige il medesimo principio di diritto già sopra
richiamato, secondo cui il Giudice di merito, nel valutare la concedibilità del beneficio, non ha
l’obbligo di prendere in esame tutti gli elementi richiamati nell’art. 133 cod. pen., potendo limitarsi
ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti (Sez.4, n.34380 del 14/07/2011, Rv.251509; Sez.3, n.35731
del 26/06/2007, Rv.237542; Sez.l, n.560 del 22/11/1994, dep20/01/1995, Rv.20002).
5. Al rigetto del ricorso segue, ex lege, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
5.1. L’imputato deve altresì essere condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e di difesa
sostenute nel presente giudizio dalla parte civile. Poiché la parte civile è ammessa al patrocinio a
spese dello Stato, compete alla Corte di cassazione, ai sensi degli artt. 541 cod. proc. pen. e 110 del
D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, pronunciare condanna generica dell’imputato al pagamento di tali
spese in favore dell’Erario, mentre è rimessa al giudice che ha pronunciato la sentenza passata in
giudicato, la liquidazione delle stesse mediante l’emissione del decreto di pagamento ai sensi degli
artt. 82 e 83 del citato D.P.R. (Sez. U, Ordinanza n.5464 del 26/09/2019. (dep. 2020), De Falco, Rv.
277760).
5.2. In caso di diffusione del presente provvedimento, devono essere omesse le generalità e gli altri
dati identificativi, a norma del D.Lgs. N. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre,
l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla
parte civile ammessa al patrocinio a spese dello stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di
appello di Napoli con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 D.P.R. 115/2002,
disponendo il pagamento in favore dello Stato.
Così deciso in Roma, il 17 ottobre 2024.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2025.

Rito famiglia ante- Cartabia. I provvedimenti del G.I. non sono reclamabili

Cass. Civ., Sez. I, ordinanza 31 gennaio 2025 n. 2299 – Pres. Acierno, Cons. Rel. Caiazzo
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi
Dott. ACIERNO Maria – Presidente
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere
Dott. CAIAZZO Rosario – Relator
Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso …/2023 proposto da
A.A.; B.B.; rappresentate e difese dall’avv. …per procura speciale in atti;
-ricorrente –
-contro-
C.C., rappres. e difeso dagli avv.ti…, per procura speciale in atti;
-controricorrente-
-nonché-
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI VENEZIA;
-intimato-
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Venezia, n. …/2023, depositata in data 5.10.2023;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 3.12.2024 dal Cons. rel., dott.
Rosario Caiazzo.
Svolgimento del processo
Con la sentenza n. …/19, in data 28/02/19, il Tribunale di Verona, dichiarava la cessazione degli effetti
civili del matrimonio contratto tra C.C. e A.A. ai sensi dell’art. 4, comma 12, L. 898/70, disponendo,
con separata ordinanza, la prosecuzione del giudizio per la decisione sulle condizioni economiche
del divorzio.
Con sentenza definitiva dello stesso Tribunale, emessa nel 2023, veniva rigettata la domanda della
A.A. di assegnazione della casa coniugale, ponendo a carico di C.C. l’obbligo di versare a titolo di
contributo al mantenimento della figlia maggiorenne B.B. la somma di Euro 550,00 mensili,
rivalutabile annualmente secondo l’indice ISTAT, con versamento diretto alla figlia e decorrenza dal
mese di gennaio 2022, oltre alla forfettizzazione delle spese straordinarie nella misura di Euro250,00
mensili e conguaglio alla fine di ogni semestre.
Al riguardo, il Tribunale osservava che la domanda materna di assegnazione della casa coniugale
era palesemente infondata, tenuto conto che la revoca di tale assegnazione alla ex moglie era stata
disposta con la sentenza non definitiva sullo status n. …/19 resa in data 28/02/19 che, in difetto di
impugnazione delle parti – le quali non avevano fatto riserva di appello – era ormai passata in
giudicato ed era, quindi, divenuta definitiva, restando del tutto irrilevanti sul tema le deduzioni
della ex moglie in ordine sia alla pretesa natura fittizia del trasferimento di residenza della figlia, sia
alle condizioni economico/reddituali delle parti, sia alle condizioni di salute della stessa B.B.;
nell’accordo siglato dai coniugi il 25/07/14, la pretesa natura fittizia del trasferimento di residenza
della figlia non emergeva in alcun modo, poiché in esso si faceva espresso riferimento alla frequenza
da parte della stessa dell’Istituto paritario sito in P, che necessariamente presupponeva la presenza
nella città siciliana per tutta la durata del corso; doveva pertanto escludersi che da tale documento
risultasse un accordo tra le parti volto a mantenere la residenza effettiva della figlia presso la casa di
Legnago, emergendo per contro documentalmente l’avvenuto trasferimento di B.B. a P, necessario
per motivi di studio; a fronte di tale compendio probatorio, madre e figlia non avevano fornito in
causa alcuna prova concreta del fatto che nel periodo in esame (2014/2015) la figlia fosse, invece,
effettivamente rimasta ad abitare stabilmente a L; in caso di separazione o divorzio, il
provvedimento di assegnazione della casa coniugale o di revoca dell’assegnazione è pronunciato nei
confronti del coniuge, non dei figli, sicché non aveva pregio la tesi dell’ex moglie per cui la sentenza
non definitiva del Tribunale di Verona sarebbe nulla perché emessa senza la partecipazione al
procedimento della stessa figlia (chiamata in causa dopo la pronuncia della sentenza non definitiva,
per l’integrazione del contraddittorio sulla domanda paterna attinente alla elisione/modifica del
contributo paterno al mantenimento della figlia maggiorenne), tenuto conto che, nel giudizio
relativo alla domanda della moglie di assegnazione della casa coniugale, la figlia non era
litisconsorte necessaria (senza considerare che sia la moglie che la figlia, costituite in giudizio dopo
la sentenza non definitiva che aveva revocato l’assegnazione della casa, non avevano impugnato nei
termini la sentenza stessa, né fatto espressa riserva d’appello ai sensi dell’art. 340 c.p.c.); non era
parimenti meritevole di accoglimento neanche la domanda di figlia e moglie diretta all’aumento del
contributo paterno al mantenimento della figlia B.B., tenuto conto delle risultanze dell’istruttoria sia
in ordine alle condizioni reddituali/patrimoniali dei due genitori, sia in ordine alle condizioni di
salute della figlia; richiamato integralmente per relationem, a tale riguardo, il contenuto
dell’ordinanza depositata il 22/01/22, con la quale il giudice, all’esito di puntuale disamina sia della
documentazione reddituale/patrimoniale prodotta in causa dalle parti, sia delle condizioni di salute
della figlia, e valutata la circostanza dedotta da madre e figlia che quest’ultima, pur avendo ottenuto
un cambio di residenza per esigenze di studio, non aveva mai, di fatto, cessato la coabitazione con
la madre, né acquisito l’indipendenza economica, aveva rideterminato in Euro550,00 mensili il
contributo paterno al mantenimento di B.B. (originariamente stabilito, in sede di separazione
consensuale nel 2010, nella misura di Euro350,00 mensili, rivalutato alla data dell’ordinanza a circa
Euro390,00), con versamento diretto alla figlia stessa e decorrenza dal mese di gennaio 2022,
stabilendo la forfettizzazione delle spese straordinarie nella misura di Euro250,00 mensili, con
conguaglio alla fine di ogni semestre; madre e figlia hanno, invece, chiesto l’aumento a Euro1.200,00
mensili (in via principale) e a Euro700,00 mensili (in via subordinata) della contribuzione a carico
del padre e la forfettizzazione delle spese straordinarie, avendo entrambe allegato la natura
invalidante delle patologie che affliggevano la ragazza e la difficoltà di ottenere il pagamento della
quota paterna delle spese sanitarie, per avere il padre da sempre disconosciuto e sminuito l’esistenza
e la gravità dei problemi di salute della figlia; il contributo al mantenimento di quest’ultima poteva
essere confermato nella misura già stabilita dall’ordinanza depositata 22/01/22, pari a Euro550,00
mensili, con versamento diretto alla figlia e decorrenza dal mese di gennaio 2022, oltre alla
forfettizzazione delle spese straordinarie nella misura di Euro250,00 mensili, con conguaglio alla fine
di ogni semestre, non avendo le parti allegato alcun significativo mutamento delle rispettive
condizioni reddituali; nella detta ordinanza, il giudice aveva evidenziato che “…sulle entrate del
ricorrente grava la metà della rata di mutuo della casa familiare (in comproprietà con la ex moglie
A.A.) pari ad Euro 258,50 e da quanto risulta in atti il ricorrente sta pagando anche gli arretrati delle
rate di mutuo, anche per la quota parte della ex moglie resistente (cfr. doc. 26C; doc. 26B)”, ed aveva
altresì precisato che “…il ricorrente sta quindi anticipando la quota della rata di mutuo anche per la
parte della resistente”; la madre resistente e la figlia chiamata in causa avevano documentato che ad
B.B., a seguito di riconoscimento da parte della Commissione medica INPS di una invalidità del 75%
della ragazza, in conseguenza della diagnosi di “soggetto con diatesi allergica e diagnosi di malattia
rara (sindrome di Elhers Danlos tipo ipermobile in terapia con cannabis e fans. e ambliopia
occasionale. Intolleranza a fruttosio e lattosio istamina. Aneurisma del setto interatriale”) era stato
riconosciuto un assegno di invalidità di importo mensile pari a Euro 297,42, categoria INVCIV, con
decorrenza dal 01/06/21; madre e figlia non avevano specificamente allegato, né documentato in
causa, l’effettiva incidenza della patologia che affliggeva B.B. sulla sua concreta capacità lavorativa,
tant’è che la madre, nella comparsa conclusionale di replica, aveva definito detta patologia in termini
di “…handicap grave ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge 104/1992 con inevitabile diminuzione
della capacità lavorativa o comunque del tempo dedicabile allo svolgimento di attività lavorativa”,
senza chiarire né l’entità di detta diminuzione, né la residua misura del tempo che la ragazza era in
grado di dedicare al lavoro; lo stesso certificato medico, a firma Dr. D.D., prodotto descriveva un
quadro sintomatologico caratterizzato da persistenza di sindrome dolorosa prevalentemente
incidente sulla capacità motoria della paziente e, in particolare, sulla capacità di fare spostamenti
tramite mezzi di trasporto pubblici, che nulla diceva rispetto alla capacità lavorativa della ragazza
per attività che potrebbero astrattamente essere svolte in smart working o, comunque, senza
spostamenti dalla propria residenza.
Con sentenza del 21.2.23, la Corte territoriale rigettava l’appello proposto da A.A. e B.B., osservando
che la domanda di assegnazione della casa di abitazione familiare proposta dalla madre era stata
rigettata con la sentenza parziale n. …/2019, sul punto passata in giudicato, che copriva il dedotto ed
il deducibile; il primo giudice, sebbene per relationem, aveva richiamato i contenuti della precedente
ordinanza del 22 gennaio 2022, precisando che nella stessa erano stati indicati gli assetti reddituali e
patrimoniali delle parti atti a giustificare il contributo in Euro. 550,00 mensili; tale statuizione non
era stata impugnata; al riguardo, la mera richiesta di aumento non si poteva giustificare assumendo
che l’invalidità del 75% risulterebbe per ciò sola sufficiente, in quanto non erra stato specificato e
criticato il decisum, ove si è dato conto che la residua capacità lavorativa (anche in regime di smart
working) sarebbe rimasta con la possibile incidenza sul reddito; il motivo di impugnazione per il
riconoscimento dell’assegno divorzile, se così inteso il petitum, non poteva essere accolto in quanto
genericamente formulato; il motivo sulle spese non si rapportava alla ratio decidendi ed era
parimenti infondato in diritto; non era fondato l’appello circa la compensazione delle spese di lite
nella misura del 50%,-con condanna delle resistenti in solido tra loro a rifondere al ricorrente il
residuo 50%- in considerazione sia della soccombenza di madre e figlia sul tema dell’assegnazione
della casa coniugale, sia del biasimevole comportamento processuale di entrambe rispetto al doc. 6
prodotto dall’ex marito all’utilizzazione del quale la A.A., dopo le fondate rimostranze del ricorrente,
aveva dichiarato di voler rinunciare; le appellanti non erano vincitrici in quanto la domanda per
l’assegnazione della casa familiare era stata rigettata, mentre la domanda per l’assegno della figlia
aveva trovato solo in parte accoglimento, tanto che il primo giudice aveva operato la compensazione
ex art. 92, c.2, c.p.c.
A.A. e B.B. ricorrono per cassazione avverso la suddetta sentenza di secondo grado, con otto motivi,
illustrati da memoria. C.C. resiste con controricorso.
Motivi della decisione
Il primo motivo deduce nullità della sentenza impugnata e dell’intero procedimento, per violazione
e falsa applicazione degli artt. 101 c. 1-2, 112, 156, 163 c. 3 n. 2, 164 e 331 c.p.c., in relazione agli artt.
111, c. 1 e 2, Cost. e 6 par. 1 CEDU e al mancato contraddittorio nei confronti di B.B. nel giudizio
conclusosi con la sentenza (non definitiva) n. …/2019.
Al riguardo, le ricorrenti lamentano che la revoca dell’assegnazione della casa coniugale è avvenuta
in difetto di partecipazione al procedimento da parte della figlia B.B. e nonostante il fatto che,
secondo consolidato orientamento del giudice di legittimità, il giudice debba comunque verificare
che il provvedimento richiesto non contrasti con i preminenti interessi della prole, per cui la sentenza
impugnata, in relazione agli altri, è nulla e come tale improduttiva di effetti giuridici nei confronti
di B.B., la quale, pertanto, aveva pieno diritto di ottenere l’assegnazione della casa familiare, che
viene disposta nel preminente interesse dei figli
A tal proposito, si evidenzia come correttamente il primo giudice avesse ribadito con l’ordinanza
17.01.2022, l’assoluta tempestività delle domande ed eccezioni di B.B., la quale era dunque
legittimata a svolgere tutte le difese e richieste, in quanto il giudizio si era svolto, nella prima fase,
senza la sua necessaria partecipazione e la previa instaurazione del contradditorio nei suoi confronti
che, ai sensi dell’art. 383 c. 3 c.p.c. data la ricorrenza di una nullità del giudizio di primo grado,
avrebbe dovuto indurre il giudice d’appello a rimettere le parti a quest’ultimo.
Le ricorrenti lamentano, in definitiva, che il preteso trasferimento della figlia a Palermo non era mai
avvenuto, per cui la revoca dell’assegnazione della casa familiare non avrebbe potuto essere disposta
in quanto la stessa non aveva mai perso la funzione di abitazione principale per B.B.
Il secondo motivo deduce nullità della sentenza impugnata e dell’intero procedimento “ab origine”,
per violazione e falsa applicazione degli artt. 70, n. 1, 72, 101, c. 1 e 2, 156, 163, c. 3, n. 2, 164 e 331
c.p.c., nonché dell’art. 5, c. 5, della legge n. 898 del 1970, in relazione agli artt. 111, c. 1 e 2, Cost. e 6
par. 1 CEDU, in ragione della violazione del contraddittorio nei confronti del Pubblico Ministero,
nell’ambito del giudizio conclusosi con sentenza definitiva n. 334/2023.
Sul punto, le ricorrenti eccepiscono la nullità della sentenza e dell’intero procedimento di primo e
secondo grado, per avere la Corte d’Appello confermato la decisione del Tribunale di Verona che
aveva rigettato la domanda di assegnazione della casa familiare ed ogni altra richiesta di A.A. e della
figlia chiamata in causa, senza che risulti alcuna notifica al Pubblico Ministero, quale litisconsorte
necessario, né il successivo avviso dell’udienza di precisazione delle conclusioni, né il deposito di
conclusioni scritte da parte di quest’ultimo, come rilevabile anche dallo storico del fascicolo (doc. 25
– fasc. Cass.).
Il terzo motivo denunzia nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa
applicazione degli artt. 4, c. 12, L. 898/1970 e 340 c.p.c., nonché degli artt. 112, 115, 116, 132, 324 c.p.c.,
in relazione all’asserito passaggio in giudicato della sentenza non definitiva, in ordine
all’assegnazione della casa coniugale e all’omesso esame della riserva di appello, proposta in sede di
costituzione.
Sul punto, si evidenzia che tale domanda era stata oggetto di apposita riserva di appello, ex art. 340
c. 1, c.p.c., nell’interesse della A.A., nella comparsa di costituzione in data 30/7/2019 nel giudizio di
primo grado; il pactum dolens riguardante tale doglianza si incentra sugli effetti della sentenza non
definitiva pronunciata in materia di divorzio.
Al riguardo, le ricorrenti assumono che la pronuncia della sentenza non definitiva è relativa solo allo
scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, ed il relativo giudicato potrà
formarsi solo sullo status; la riserva di appello era stata correttamente espressa anteriormente alla
prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza, in conformità con quanto stabilito
dall’art. 340 c.p.c., e la domanda era stata oggetto di impugnazione nell’atto di appello; pertanto il
dictum codicistico della riserva di impugnazione contenuta nell’art. 340 c.p.c. risulta ampiamente
rispettato, a nulla rilevando l’attestazione di preteso “passaggio in giudicato”, citata in sentenza, in
quanto erroneamente rilasciata – e, tutt’al più riferibile allo scioglimento o alla cessazione degli effetti
civili del matrimonio; la Corte di Appello, pertanto, nel valutare la richiesta di assegnazione della
casa coniugale, ha errato nel ritenere tale domanda passata in giudicato, soprattutto laddove non ha
valutato la richiesta di riserva di appello formulata nella comparsa e costituzione avvenuta prima
dell’udienza successiva alla comunicazione della sentenza, ex art. 340 comma 1 c.p.c.
Il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 132 c. 2 n. 4 e 156 u.c. c.c., in
relazione all’omessa motivazione sulla domanda avente ad oggetto l’assegnazione della casa
familiare, svolta anche dalla figlia in proprio, quale soggetto non autosufficiente e invalida nella
misura del 75%, in quanto la Corte territoriale, ritenendo erroneamente la formazione del giudicato,
è venuta meno all’onere motivazionale sulle domande proposte da entrambe le ricorrenti, negando
la facoltà di modifica e riesame anche dei provvedimenti qualificabili come definitivi.
Sussisteva, pertanto, in merito a questa specifica censura, una palese violazione di legge, nonché una
manifesta illogicità e carenza della motivazione, ciò comportando la nullità della sentenza
impugnata.
Il quinto motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 337 sexies c.c., con riguardo alla
revoca dell’assegnazione della casa coniugale, per aver la Corte d’Appello redatto una motivazione
apparente circa le condizioni di salute di B.B. (affetta da una sindrome fibromialgica secondaria a
lassità legamentosa, altresì chiamata “Sindrome di Ehlers-Damlos EDS di tipo ipermobile”) e non
coerente con i fini di tutela della prole, per i quali l’istituto è sorto, stante che, come affermato dalla
Consulta, salvo che l’assegnazione non venga meno di diritto al verificarsi di una nuova convivenza
di fatto o nuovo matrimonio, “la decadenza dalla stessa deve essere subordinata ad un giudizio di
conformità all’interesse del minore” (C. Cost., sent. n. 308/2008).
Difatti, le ricorrenti assumono altresì che, terminato l’anno scolastico, la figlia aveva spostato
nuovamente la propria residenza in Legnago (VR), nel pieno rispetto degli accordi sottoscritti con la
scrittura privata del 25.07.2014, che i giudici del merito non hanno in alcun modo esaminato.
Il sesto motivo denunzia violazione e falsa applicazione artt. 156 u.c. c.c. e 709 c. 4 c.p.c. circa la
misura dell’assegno di mantenimento in favore della figlia, che non è stata congruamente motivata,
in ordine alla mancata rivalutazione in termini inferiori rispetto alla domanda, in virtù della
invalidità civile riconosciuta ad B.B. nella misura del 75%, e alla riconosciuta riduzione permanente
della capacità lavorativa dal 74% al 99% (artt. 2 e 13 L. 118/71 e 9/D.L. 509/88), senza tener conto che
già il Tribunale aveva evidenziato, nell’ordinanza del 17.01.2022, la graduale diminuzione del
reddito netto della A.A., la quale, per accudire la figlia si era gravata di tutte le ulteriori spese
mediche, essendo sottoposta alla cessione del 1/5 dello stipendio per fare fronte a tali oneri.
Il settimo motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., per aver la Corte
d’Appello condannato le ricorrenti al pagamento delle spese, omettendo di esaminare la riserva di
appello e affermando, erroneamente, la formazione del giudicato sulla domanda proposta dalle
appellanti.
L’ottavo motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 54, D.L. n. 83/2012 e ss.mm., ex L.
n. 134/2012, con riferimento al principio del minimo costituzionale in relazione all’omessa
motivazione e al mancato esame di più documenti decisivi per il giudizio, in particolare con riguardo
alla scrittura privata del 25/7/2014 (doc. 20), ai certificati di residenza di B.B., da cui si evinceva che
si era verificato uno spostamento provvisorio della residenza per ragioni di studio (doc. 21).
In particolare, le ricorrenti lamentano che la Corte territoriale aveva del tutto omesso di motivare la
propria decisione riguardante il rigetto della domanda di assegnazione della casa coniugale da loro
proposta nell’atto di appello in virtù della riserva formulata ex ante, fondando la relativa statuizione
su elementi, quali il passaggio in giudicato della domanda, non conformi alla realtà processuale.
Il ricorso va accolto nei limiti di cui si dirà.
Anzitutto, non è fondata l’istanza di rinvio a nuovo ruolo contenuta nella memoria illustrativa
presentata dalle ricorrenti, imperniata su una censura d’incostituzionalità dell’art. 380 bis per
asserita violazione del diritto di difesa nella fissazione delle udienze camerali.
Tale critica d’incostituzionalità, del tutto generica, non ha pregio poiché nel procedimento delle
decisioni camerali sui ricorsi per cassazione il diritto di difesa è del tutto garantito; né le istanti
specificano quale sarebbe la violazione paventata.
Il primo motivo è inammissibile. La Corte d’Appello, con la sentenza parziale n. …/2019, ha
dichiarato inammissibile il capo d’impugnazione riguardante la revoca dell’assegnazione della casa
familiare a favore delle ricorrenti, in quanto tale domanda era stata espressamente esaminata per
essere rigettata nel merito e, in difetto di impugnazione, tale questione non è più riesaminabile
essendosi su essa formato il giudicato che copre il dedotto ed il deducibile.
Al riguardo, la statuizione impugnata è conforme all’orientamento di questa Corte a tenore del
quale, il giudice che abbia pronunciato con sentenza non definitiva su alcuni capi di domanda,
continuando l’esame della causa per la decisione su altri, non può riesaminare le questioni già decise
con la sentenza non definitiva, neppure al fine di applicare nuove norme sopravvenute in corso del
procedimento, in quanto la nuova regolamentazione giuridica del rapporto va applicata dal giudice
dell’impugnazione avverso la sentenza non definitiva (Cass., n. 29321/21).
Le statuizioni contenute nella sentenza non definitiva possono essere riformate o annullate solo in
sede d’impugnazione, non con la sentenza definitiva successivamente resa (Cass., n. 10067/20).
Nella specie, la doglianza, nella sua prolissità, non coglie la ratio della sentenza impugnata, che ha
evidenziato la preclusione formatasi sulla questione della revoca dell’assegnazione della casa
familiare, senza la partecipazione al giudizio della figlia, con il formarsi del giudicato derivante dalla
mancata impugnazione della sentenza non definitiva, a nulla rilevando la prosecuzione del giudizio
per le altre questioni.
Il secondo motivo è parimenti inammissibile. Nel procedimento di divorzio fra coniugi con figli
minori o incapaci, a norma degli artt. 4 e 5 legge n. 898 del 1970 (come novellati dalla legge n. 74 del
1987), il Pubblico ministero è litisconsorte necessario in concorrenza con le parti private ed è titolare
di un autonomo potere di impugnazione in relazione agli interessi dei suddetti figli, con la
conseguenza che, ove uno dei coniugi abbia proposto appello avverso un capo della sentenza di
primo grado riguardante i predetti interessi, il relativo atto d’appello deve essere notificato anche al
P.M. presso il Tribunale e, in difetto di notifica, il giudice di secondo grado deve disporre
l’integrazione del contraddittorio nei suoi confronti a norma dell’art. 331 cod. proc. civ (Cass., n.
23379/2007).
Nella specie, il Pubblico Ministero è intervenuto nella prima fase del giudizio, conclusosi con la
sentenza parziale, mentre B.B. nelle more della prosecuzione del giudizio è divenuta maggiorenne.
Terzo, quarto e quinto motivo, esaminabili congiuntamente poiché tra loro connessi, sono invece
fondati.
Nelle conclusioni relative alla comparsa di risposta successiva alla sentenza parziale di primo grado
sul vincolo e sulla revoca dell’assegnazione della casa coniugale, la A.A. si “riservava” l’appello,
formulando un’istanza urgente ex art. 709, u.c., c.p.c. previgente- applicabile ratione temporis- sulla
modifica della statuizione della suddetta revoca adducendo circostanze nuove.
Invero, nel terzo motivo, nell’ultima parte, le ricorrenti allegano questo profilo assumendo che il
giudicato è modificabile rebus sic stantibus e che all’interno del giudizio possono essere dedotte
modifiche. L’art. 709, u.c., c.p.c., prevede infatti, che i provvedimenti temporanei ed urgenti assunti
dal presidente con l’ordinanza di cui all’art. 708 c. 3 c.p.c. possono essere modificati e revocati dal
giudice istruttore.
Su questa istanza la sentenza impugnata tace, limitandosi a dar conto del giudicato formatosi sulla
mancata formulazione della riserva d’appello, fatto che dunque, di per sé, nella fattispecie, non
precludeva la suddetta istanza a norma dell’art. 709, u.c., sulla quale la Corte d’Appello avrebbe
dovuto pronunciarsi.
Al riguardo, nell’ambito del procedimento di separazione personale dei coniugi, i provvedimenti
adottati dal giudice istruttore, ex art. 709, ultimo comma, cod. proc. civ., di modifica o di revoca di
quelli presidenziali, non sono reclamabili poiché è garantita l’effettività della tutela delle posizioni
soggettive mediante la modificabilità e la revisione, a richiesta di parte, dell’assetto delle condizioni
separative e divorzili, anche all’esito di una decisione definitiva, piuttosto che dalla moltiplicazione
di momenti di riesame e controllo da parte di altro organo giurisdizionale nello svolgimento del
giudizio a cognizione piena (Cass., n. 15416/2014).
Va altresì rilevato che anche la figlia ha formulato la domanda di assegnazione della casa coniugale
per la quale non è intervenuta la decisione della Corte territoriale.
Gli altri motivi sono da considerare assorbiti.
Per quanto esposto, in accoglimento dei motivi terzo, quarto e quinto, la sentenza impugnata va
cassata, con rinvio alla Corte d’Appello, anche in ordine alle spese del giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo, quarto e quinto motivo del ricorso, nei limiti di cui in motivazione; dichiara
inammissibili il primo e il secondo motivo, assorbiti gli altri motivi.
Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’Appello di Venezia, in diversa
composizione, anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
Dispone che ai sensi dell’art. 52 del D.Lgs. n. 196/03, in caso di diffusione della presente ordinanza
si omettano le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.
Conclusione
Così deciso in Roma il 3 dicembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2025.

Quando si configura l’uso distorto dei permessi giornalieri per assistenza al familiare disabile ex lege n. 104/1992?

Cass. Civ., Sez. Lav., Ord., 17 gennaio 2025, n. 1227; Pres. Patti, Rel. Panariello
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
Svolgimento del processo
1.- A.A. era stato dipendente di C.Spa fino al 30/12/2019, quando era stato licenziato per giusta causa
(opinamento di destituzione) in seguito alla contestazione disciplinare di un uso distorto dei permessi
giornalieri per assistenza al familiare (suocero) disabile ex lege n. 104/1992.
Il dipendente impugnava il licenziamento per vari motivi, fra cui l’insussistenza del fatto addebitato.
2.- Costituitosi il contraddittorio, il Tribunale, all’esito della fase c.d. sommaria di cui al rito introdotto
dalla legge n. 92/2012, accoglieva la domanda di annullamento del licenziamento e di reintegrazione
nel posto di lavoro e condannava altresì la società al pagamento dell’indennità risarcitoria nel limite
massimo di dodici mensilità.
A seguito di opposizione della società, il Tribunale confermava l’annullamento e la reintegrazione,
ma limitava la condanna risarcitoria disponendo la detrazione dell’assegno alimentare percepito.
3.- Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’Appello accoglieva il gravame interposto da C.Spa.
Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:
a) la contestazione disciplinare si riferisce ai permessi fruiti nei giorni 4, 11, 16 ottobre 2019, 6 e 23
novembre 2019 e addebita al lavoratore di aver dedicato al suocero soltanto un’ora al giorno,
impiegando tutto il resto della giornata in attività personali insieme alla moglie;
b) la difesa del lavoratore è nel senso che occorre considerare anche le incombenze esterne come
l’acquisto di medicinali e di altri generi di prima necessità e che comunque era rimasto presso
l’abitazione del suocero anche dopo le ore 17,00, quando l’attività investigativa era terminata;
c) secondo il Tribunale occorre tenere conto anche delle attività strumentali ed accessorie rispetto
all’assistenza vera e propria, nonché del tempo impiegato dal lavoratore per recarsi presso l’abitazione
dell’assistito e del tempo di rientro presso la propria abitazione, tutti integranti la nozione di
“assistenza”;
d) all’esito di determinati calcoli il Tribunale ha accertato che il tempo complessivamente dedicato al
familiare disabile era stato pari ad ore 16 o 17 in cinque giorni, quindi pari al 40/42% del totale ed ha
ritenuto che sommando a questa percentuale il tempo impiegato in attività strumentali comunque
finalizzate all’assistenza, non erano stati violati dal dipendente gli obblighi di buona fede e
correttezza, sicché la condotta da lui tenuta non poteva dirsi illecita, in quanto di valenza solo
marginale, senza efficacia interruttiva del nesso di causalità diretta tra la fruizione del permesso e
l’assistenza al disabile;
e) fondato è il secondo motivo di gravame, con cui la società lamenta l’erroneità di questo giudizio;
f) va infatti considerato che secondo la Suprema Corte di Cassazione (Cass. n. 9217/2016) la mancata
assistenza per due terzi o per almeno la metà del tempo dovuto integra una grave violazione dei doveri
di correttezza e di buona fede;
g) nel caso in esame, pur volendo seguire il calcolo del Tribunale, si perviene ad un’assistenza
(comprensiva delle attività strumentali ed accessorie) pari al 42,5/45% del tempo totale, che è
inferiore alla metà;
h) pertanto, deve ritenersi spezzato il nesso causale fra quei permessi e l’assistenza al familiare
disabile;
i) in ogni caso il comportamento rientra nelle ipotesi contemplate dall’art. 45, punti 2 e 4, del
regolamento all. A al r.d. n. 148/1931, fra cui rientra l’avvalersi “della propria condizione … per
procurarsi … premi, compensi o vantaggi indebiti, ancorché non ne siano derivati inconvenienti di
servizio”.
4.- Avverso tale sentenza A.A. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
5.- C. Spa ha resistito con controricorso.
6.- Il Consigliere delegato dal Presidente ha formulato ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. una proposta di
definizione accelerata di decisione, ravvisando la manifesta infondatezza del ricorso a causa
dell’esistenza di plurimi precedenti di questa Corte, ai quali è stata ritenuta conforme la sentenza
impugnata.
7.- Il difensore del ricorrente ha proposto tempestiva istanza di decisione.
8.- Entrambe le parti hanno depositato memoria.
9.- Il collegio si è riservata la motivazione nei termini di legge.
Motivi della decisione
1.- Il ricorrente premette che, a seguito dell’art. 24 L. n. 183/2010, sono venuti meno i requisiti della
continuità e dell’esclusività dell’assistenza al disabile e che, a seguito dell’art. 6 D.Lgs. n. 119/2011,
l’assistenza non deve essere necessariamente prestata in coincidenza con le ore in cui il lavoratore
avrebbe dovuto svolgere la propria attività lavorativa.
2.- Ciò posto, con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. il ricorrente
lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ossia
che egli aveva prestato assistenza tutti i giorni di assenza dal lavoro, anche se in misura ritenuta
insufficiente dalla Corte territoriale.
Il motivo è infondato, poiché – come riconosce lo stesso ricorrente – l’omissione denunziata non
sussiste, avendo la Corte espressamente considerato quella circostanza e valutata nella sua portata
quantitativa, ritenuta tuttavia insufficiente ai fini del nesso causale fra l’assenza dal lavoro e
l’assistenza al disabile.
3.- Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. il ricorrente lamenta
“violazione e falsa applicazione” degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché 33, co. 3, L. n. 104/1992, per
avere la Corte ritenuto necessario che l’assistenza sia prestata in coincidenza con le ore in cui il
dipendente avrebbe dovuto svolgere attività lavorativa, o comunque per avere ritenuto necessaria una
percentuale minima della giornata da dedicare all’assistenza al familiare disabile.
Il motivo è fondato per quanto di ragione.
3.1.- Ai fini dell’interpretazione dell’art. 33, co. 3, L. n. 104/1992 va evidenziato che, contrariamente
all’assunto della Corte d’Appello, la nozione di diritto al permesso per assistenza a familiare disabile
(e quella correlativa di “uso distorto” o “abuso del diritto” al permesso) implica un profilo non soltanto
quantitativo, bensì anche – e soprattutto – qualitativo.
Sotto il primo profilo va tenuto conto non soltanto delle prestazioni di assistenza diretta alla persona
disabile, ma anche di tutte le attività complementari ed accessorie, comunque necessarie per rendere
l’assistenza fruttuosa ed utile, nel prevalente interesse del disabile avuto di mira dal legislatore. In
questo senso rileveranno le attività (e i relativi tempi necessari) finalizzate ad esempio all’acquisto di
medicinali, al conseguimento delle relative prescrizioni dal medico di famiglia, all’acquisto di generi
alimentari e di altri prodotti per l’igiene, la cura della persona e il decoro della vita del disabile, o
infine alla possibile partecipazione di quest’ultimo ad eventi di relazione sociale, sportiva, religiosa
etc.
Sotto il secondo profilo vanno valutate portata e finalità dell’intervento assistenziale (da parte del
dipendente) in favore del familiare disabile, tenuto conto del complessivo contesto, anche relazionale,
rispetto ad eventuali strutture sanitarie, pubbliche o private, presso le quali sia necessario espletare
accertamenti o effettuare ricoveri.
Posta questa nozione, costituita dalle due componenti (quantitativa e qualitativa), soltanto qualora sia
evincibile un abuso – nel senso tecnico-giuridico di “abuso del diritto” – potrà configurarsi un “uso
distorto” dei predetti permessi.
3.2.- A tal fine occorre allora valutare i due elementi costitutivi della fattispecie abusiva illecita.
Sul piano oggettivo il concetto di “abuso del diritto” implica un esercizio del diritto per scopi diversi
da quelli per i quali il diritto stesso è riconosciuto dall’ordinamento (c.d. sviamento funzionale).
Questa è la nozione di abuso tradizionalmente tratta dall’art. 833 c.c. (relativo agli atti emulativi del
proprietario), per il quale ciò che rileva è l’assenza di utilità per il proprietario e la destinazione
esclusiva dell’atto a pregiudicare terzi.
In materia tributaria il concetto di “abuso del diritto” ha trovato una più precisa connotazione nell’art.
10 bis L. n. 212/2000, secondo cui ciò che rileva è il compimento di “una o più operazioni prive di
sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente
vantaggi fiscali indebiti” (su tale nozione v. da ultimo Cass. n. 22072/2024; Cass. ord. n. 14674/2024).
In questa materia, dunque, il concetto di “abuso del diritto” implica la creazione di un’apparentia iuris,
alla quale non corrisponde la realtà di alcuna operazione economica. È questo anche il caso della c.d.
società schermo, ritenuta da questa Corte una costruzione di puro artifizio, diretta, nel settore
tributario, al raggiungimento di un mero beneficio fiscale indebito, attraverso la creazione di catene
di società prive di effettività economica o di no genuine economic activity (Cass. n. 10305/2024).
Anche in tal caso, dunque, la connotazione propria dell’abuso è il pregiudizio all’interesse pubblico
all’integrità delle entrate tributarie.
Nozione analoga di “abuso del diritto” è quella elaborata in materia di immigrazione. In particolare
questa Corte ha affermato che il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari al cittadino
extracomunitario coniuge di cittadino italiano, disciplinato dal D.Lgs. n. 30/2007, non presuppone la
convivenza effettiva dei coniugi e neppure il pregresso regolare soggiorno del richiedente. E tuttavia,
ai sensi dell’art. 30, co. 1 bis, D.Lgs. n. 286/1998, deve essere negato ove il matrimonio risulti fittizio
o di convenienza, assumendo a tal fine rilievo le “linee guida” elaborate dalla Commissione europea,
contenenti una serie di criteri valutativi che inducono ad escludere l’abuso dei diritti comunitari, e il
“manuale” redatto dalla stessa Commissione, recante, invece, l’indicazione degli elementi che fanno
presumere tale abuso (Cass. ord. n. 13189/2024; Cass. n. 6747/2021). Anche in tal caso, dunque, ciò
che rileva è la creazione di un’apparentia iuris, priva di effettiva consistenza relazionale fra le due
persone unite formalmente in matrimonio, volto a pregiudicare l’interesse pubblico al controllo e al
contingentamento della presenza di stranieri sul territorio nazionale.
In materia di locazione questa Corte ha ravvisato un “abuso del diritto” del locatore, in termini di
comportamento contrario a buona fede e correttezza, soltanto nel caso in cui il ritardo nell’esercizio
delle proprie prerogative non risponda ad alcun interesse del suo titolare e si traduca in un danno per
il conduttore (Cass. ord. n. 11219/2024). Anche in tal caso, dunque, ciò che rileva è il compimento di
un atto privo di qualunque funzione per il suo autore e idoneo ad arrecare un pregiudizio all’altra
parte.
In materia societaria questa Corte ha ravvisato un “abuso del diritto” in termini di “abuso di
maggioranza” (con conseguente annullabilità della delibera assembleare che ne costituisca
attuazione) nel caso in cui il voto espresso non trovi alcuna giustificazione nel perseguimento
dell’interesse della società, poiché volto a perseguire un interesse personale antitetico a quello sociale,
oppure sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza, diretta a ledere
i diritti partecipativi o gli altri diritti patrimoniali dei soci di minoranza, in violazione del canone della
buona fede oggettiva nell’esecuzione del contratto (Cass. n. 4034/2024). Anche in tal caso la nozione
di “abuso del diritto” implica un atto o un comportamento privo di qualunque efficacia funzionale,
destinato unicamente a pregiudicare diritti o interessi di terzi.
In materia fallimentare questa Corte ha affermato che il giudizio di omologazione del concordato
fallimentare è limitato alla verifica della regolarità formale della procedura e dell’esito della
votazione, restando escluso ogni controllo sul merito, giacché la valutazione del contenuto della
proposta concordataria, riguardando il profilo della convenienza, è devoluta ai creditori, sulla base
del parere inerente ai presumibili risultati della liquidazione formulato dal curatore e dal comitato dei
creditori. Tuttavia si è precisato che resta pur sempre salva l’indagine sull’eventuale abuso del diritto,
ravvisabile nel caso in cui, in presenza di una proposta concordataria avanzata da un terzo, si riscontri
un ingiustificato sacrificio per le ragioni del debitore, che, non essendo parte dell’accordo intervenuto
tra il proponente e i creditori, si veda sottrarre i suoi beni sulla base di una valutazione che, pur idonea
a soddisfare i crediti in misura ritenuta conveniente dalla maggioranza dei creditori, risulti
palesemente insufficiente rispetto al valore reale dell’attivo fallimentare. In tal caso, infatti, l’istituto
concordatario finirebbe per essere impiegato per procurare a chi l’utilizza un vantaggio ulteriore
rispetto alla tutela del diritto presidiato dallo strumento e a chi lo subisce un danno maggiore rispetto
a quello strettamente necessario per la realizzazione del diritto dell’agente (Cass. ord. n. 30703/2023,
che richiama sul punto Cass. n. 3274/2011).
Dunque, sul piano sistematico e ordinamentale può dirsi che, sotto il profilo oggettivo, il concetto di
“abuso del diritto” implichi l’assenza di funzione, ossia un esercizio del diritto solo apparente, privo
di qualunque legame ed utilità rispetto allo scopo per il quale quel diritto è riconosciuto dal legislatore.
Sul piano soggettivo è necessario un elemento psicologico, di natura intenzionale o dolosa, che
parimenti deve essere accertato, sia pure mediante presunzioni semplici, dalle quali sia possibile
individuare la finalità di pregiudicare interessi altrui. Nel caso del diritto al permesso per assistere un
familiare disabile, queste presunzioni possono essere fondate ad esempio sul tempo “irrisorio” o
comunque molto limitato dedicato nella singola giornata all’assistenza al disabile, ovvero sulle
particolari connotazioni dell’elemento oggettivo.
Entrambi gli elementi sono necessari, sicché l’assenza (o il mancato accertamento) di uno dei due
impedisce la configurabilità di un “abuso del diritto”.
3.3.- Orbene, a prescindere da calcoli più o meno esatti – che si traducano in determinate percentuali
riferite al tempo totale pari alla somma del tempo di ciascuna giornata in cui il dipendente ha fruito
dei permessi – la prossimità del tempo dedicato all’assistenza almeno alla metà di quello totale, specie
se a quella quantità di tempo si aggiungono i tempi necessari di percorrenza dalla propria abitazione
a quella del disabile, si è in presenza di un esercizio del diritto che può essere sussunto nella nozione
legale di assistenza al familiare disabile. In tal caso va quindi esclusa la sussistenza di una condotta
di “abuso del diritto”, contraria ai principi di buona fede e correttezza.
La Corte territoriale è dunque incorsa in un errore di sussunzione, poiché non si è attenuta alla predetta
nozione di assistenza al disabile, ma si è affidata unicamente ad un calcolo aritmetico relativo ai
tempi, rivelatisi prossimi alla metà di quello totale di assenza dal lavoro, senza verificare se nella
fattispecie sussistessero tutti gli altri elementi necessari per sussumere la fattispecie concreta in quella
astratta del diritto ai permessi.
Questa Corte ha più volte affermato che ricorre un errore di sussunzione quando, in relazione al fatto
accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non
doveva esserlo, ovvero che sia stata male applicata (Cass. n. 26307/2014; Cass. n. 22348/2007). Del
resto, il controllo di legittimità non si esaurisce in una verifica di correttezza dell’attività ermeneutica
diretta a ricostruire la portata precettiva della norma, ma è esteso alla sussunzione del fatto, accertato
dal giudice di merito, nell’ipotesi normativa (Cass. ord. n. 1537/2022; Cass. n. 21772/2019; Cass. n.
24756/2007).
3.4.- La necessità che il nesso causale fra l’assenza dal lavoro e l’assistenza al disabile sia valutato
non soltanto in termini quantitativi, ma anche qualitativi e complessivamente in modo relativo, ossia
tenendo conto del contesto e di tutte le circostanze del caso concreto, è stata da tempo affermata da
questa Corte in materia di congedo straordinario retribuito ai sensi dell’art. 42, co. 5, D.Lgs. n.
151/2001 (Cass. n. 29062/2017; Cass. n. 13383/2017) e ha indotto a ritenere che il c.d. abuso del
diritto sussista soltanto se quel nesso causale venga a mancare “del tutto” (Cass. n. 19580/2019).
Questa Corte ha infatti ritenuto che solo a tale condizione potrebbe rimproverarsi al lavoratore di aver
tenuto un comportamento contrario a buona fede e correttezza (Cass. n. 4984/2014). Va dunque
ribadito che “… Ove l’esercizio del diritto soggettivo non si ricolleghi alla attuazione di un potere
assoluto e imprescindibile, ma presupponga un’autonomia comunque collegata alla cura di interessi,
soprattutto ove si tratti – come nella specie – di interessi familiari tutelati nel contempo nell’ambito
del rapporto privato e nell’ambito del rapporto con l’ente pubblico di previdenza, il non esercizio o
l’esercizio secondo criteri diversi da quelli richiesti dalla natura della funzione può considerarsi abuso
in ordine a quel potere pure riconosciuto dall’ordinamento. L’abuso del diritto, così inteso, può dunque
avvenire sotto forme diverse … In base al descritto criterio della funzione, deve ritenersi verificato un
abuso del diritto potestativo allorché il diritto venga esercitato … non per l’assistenza al familiare,
bensì per attendere ad altra attività …” (Cass. n. 4984 cit., in motivazione).
3.5.- Dunque il giudice di merito deve accertare se la condotta contestata in via disciplinare al
lavoratore abbia comunque preservato le finalità primarie dell’intervento assistenziale voluto dal
legislatore, perché in tal caso il fatto contestato in termini di “uso distorto” o di “abuso del diritto” si
rivelerebbe insussistente.
Nell’ambito di questa imprescindibile verifica non sono sufficienti meri dati quantitativi, ma occorre
compiere una valutazione complessiva, sia quantitativa che qualitativa, della condotta tenuta dal
lavoratore, tenendo altresì conto del contesto in cui quella condotta è stata tenuta.
Ne consegue che il c.d. abuso del diritto potrà configurarsi soltanto quando l’assistenza al disabile sia
mancata del tutto, oppure sia avvenuta per tempi così irrisori oppure con modalità talmente
insignificanti, da far ritenere vanificate le finalità primarie dell’intervento assistenziale voluto dal
legislatore (id est la salvaguardia degli interessi del disabile), in vista delle quali viene sacrificato il
diritto del datore di lavoro ad ottenere l’adempimento della prestazione lavorativa.
Di tale relatività del giudizio la Corte territoriale non ha tenuto conto, essendosi limitata e fermata ad
un accertamento meramente quantitativo in termini di percentuale del tempo giornaliero dedicato
all’assistenza al disabile, sulla base di una nozione errata di assistenza cui è collegato il diritto al
permesso ex lege n. 104/1992.
Resta in ogni caso fermo che il datore di lavoro, salvo diverso accordo tra le parti sociali, non può
sindacare la scelta dei giorni in cui fruire di tali permessi, rimessa esclusivamente al lavoratore e
soggetta solo ad obbligo di comunicazione, né può contestare la prestazione dell’assistenza in orari
non integralmente coincidenti con il turno di lavoro, la quale pertanto non costituisce “abuso del
diritto” (Cass. ord. n. 26417/2024).
In conclusione, i giudici del reclamo non si sono attenuti alla sopra indicata nozione legale di
assistenza al familiare disabile e a quella correlata di “abuso del diritto” al permesso per tale
assistenza, sicché va cassata affinché venga compiuto un nuovo esame di tutte le circostanze del caso
concreto e ne sia garantita l’esatta sussunzione in quella nozione legale.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso, rigetta il primo; cassa la sentenza impugnata e rinvia
alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, in relazione al motivo accolto, anche per la
regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione lavoro, in data 5 dicembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2025.

Azione risarcitoria: la qualità di erede della parte convenuta in giudizio va provata.

Tribunale di Avezzano, sentenza del 28 gennaio 2025, n. 47
Svolgimento del processo e motivi della decisione
1. Con atto di citazione notificato agli appellati costituiti in date [omissis] e [omissis]
A. A. […] ha proposto appello avverso la sentenza n. 243/21 depositata in data
17.9.2021 e notificata in data [omissis] con cui il Giudice di Pace di Avezzano ha
rigettato le domande risarcitorie proposte dall’odierna appellante ritenendo maturata
la prescrizione quinquennale in relazione alle stesse.
L’appellante ha chiesto l’integrale riforma della sentenza appellata, con accoglimento
delle domande risarcitorie già proposte in primo grado e condanna alle spese del
doppio grado.
2. Si sono costituite B. B., C. C. e D. D. nelle qualità in epigrafe indicate, le quali
hanno chiesto il rigetto del gravame.
3. Si è altresì costituito E. E. deducendo di essere del tutto privo di legittimazione
passiva e di essere stato erroneamente citato quale erede di F. F. a cui non sarebbe
legato da alcun vincolo di parentela come evincibile dal certificato integrale di stato di
famiglia originario del 18.11.2022 prodotto unitamente alla comparsa di costituzione.
4. Sentite le parti ed acquisito il fascicolo di primo grado, la causa è stata quindi
riservata in decisione sulle conclusioni precisate all’udienza del 16.9.2024.
5. Stante l’articolata evoluzione della presente vicenda processuale occorre
premettere:
che l’odierna appellante introdusse un primo giudizio risarcitorio dinanzi al Giudice di
Pace di Tagliacozzo nel [omissis] nei confronti di F. F. e di G. G., chiedendo il
risarcimento dei danni subiti a causa del taglio di alberi non autorizzato sul proprio
fondo e dall’uso di un caterpillar sempre sul proprio fondo (giudizio nel quale, su
istanza di F. F. […], è stato chiamato H. H. quale proprietario del fondo confinante che
avrebbe incaricato F. F. del taglio degli alberi);
che tale giudizio, in cui si è costituito F. F. mentre sono rimasti contumaci G. G. […] e
H. H., si è concluso con sentenza n. 88/13 di condanna: a) di H. H. al pagamento
dell’importo di € 2.000,00 a titolo risarcitorio per il taglio non autorizzato di alberi
(importo corrisposto dalle eredi di costui nelle more della proposizione dell’appello); b)
di G. G. e di F. F. in solido al pagamento dell’importo di € 500,00 per i danni arrecati al
terreno;
che proposto appello avverso tale sentenza dalle sole eredi di H. H. (L. L., B. B., D. D.
e I. I.), nel giudizio di appello si è costituita l’originaria attrice A. A., mentre sono
rimasti contumaci F. F. e G. G.;
con sentenza n. 90/19 del Tribunale di Avezzano, depositata in data 13.2.2019 e
notificata in data [omissis], la sentenza di primo grado n. 88/13 è stata dichiarata
nulla stante la nullità della notifica dell’atto introduttivo del giudizio nei confronti di H.
H.;
è stato quindi notificato un primo atto di citazione dinanzi al Giudice di Pace di
Avezzano da parte dell’odierna appellante in data 19.3.2019 (in epigrafe denominato
“atto di citazione in riassunzione ex artt. 353 e 354 c.p.c.” ed in cui viene chiesto di
riassumere il giudizio celebratosi dinanzi al Giudice di Pace di Tagliacozzo),
pacificamente non seguito da iscrizione a ruolo della causa;
è stato poi notificato un successivo atto di citazione in data [omissis] (in epigrafe
denominato “atto di citazione” ed in cui viene dato atto della mancata iscrizione a
ruolo dell’atto di citazione sopra menzionato), cui ha fatto seguito il giudizio che si è
concluso con la sentenza appellata, giudizio nel quale si sono costituite B. B. , D. D. e
I. I. (sempre quali eredi di H. H. ed anche quali eredi di L. L.), mentre sono rimasti
contumaci F. F. e G. G. ;
con la sentenza il primo giudice ha ritenuto maturata la prescrizione quinquennale
della pretesa risarcitoria, potendosi avere riguardo solo all’effetto interruttivo della
prescrizione prodottosi nel [omissis] per effetto della notifica dell’atto introduttivo del
primo giudizio coltivato dall’odierna appellante dinanzi al Giudice di Pace di Tagliacozzo
per essersi tale giudizio ormai estinto in ragione della tardività della riassunzione a
seguito della sentenza n. 90/19 del Tribunale di Avezzano;
sempre con tale sentenza il primo giudice ha altresì dichiarato comunque maturata la
prescrizione nei confronti delle eredi di H. H. essendo stata dichiarata nulla con la
suindicata sentenza di appello n. 90/19 la notifica della chiamata in causa del de cuius
nel giudizio conclusosi con la sentenza n. 88/13 del Giudice di Pace di Tagliacozzo e
non ricorrendo validi atti interruttivi della prescrizione anteriormente alla citazione
introduttiva del giudizio conclusosi con la sentenza in questa sede appellata.
6. Avverso la sentenza n. 243/21 in questa sede appellata A. A. ha formulato un unico
articolato motivo di gravame, deducendo l’erroneità della sentenza impugnata in
quanto il giudizio originariamente coltivato nel [omissis] non poteva ritenersi estinto
posto che il primo atto di citazione in riassunzione era stato tempestivamente
notificato nei termini normativamente previsti, irrilevante restando il profilo della
mancata iscrizione a ruolo.
Sempre secondo l’appellante da tale vizio della sentenza appellata conseguirebbe
l’erroneità della stessa quanto al conseguente accertamento della maturazione della
prescrizione in relazione alla domanda risarcitoria formulata, domanda da accogliere
nel merito sulla base degli elementi acquisiti.
7. L’appello proposto deve essere in parte dichiarato inammissibile ed in parte
rigettato nel merito.
7.1. In primo luogo non può ritenersi validamente introdotto e deve dunque essere
dichiarato inammissibile l’appello svolto nei confronti di F. F. .
Ed infatti, avendo l’appellante dato atto all’udienza del 23.5.2022 del decesso di F. F.
anteriormente alla notifica dell’appello avverso la suindicata sentenza n. 243/21
(segnatamente, in data [omissis] stando al certificato di morte in atti), è stato
concesso termine sino al [omissis] per l’effettuazione della notifica, personalmente,
agli eredi.
Alla successiva udienza del 23.1.2023, si è costituito E. E. che, come sopra esposto,
ha contestato la propria qualità non solo di erede ma anche di mero chiamato
all’eredità di F. F., producendo allo scopo certificato integrale di stato di famiglia
originario.
A tale udienza le parti hanno chiesto rinvio per la precisazione delle conclusioni, come
anche alla successiva udienza del 13.11.2023, rinviata quindi al 16.9.2024.
Alcuna documentazione ulteriore sul punto è stata depositata successivamente alla
costituzione di E. E. né la questione in esame risulta oggetto di specifiche deduzioni
negli scritti conclusionali.
Orbene è noto che, a fronte di specifica contestazione, la parte che ha evocato in
giudizio i chiamati all’eredità è gravata dell’onere di provare la qualità di erede e non
solo di mero chiamato all’eredità (cfr., Cass., sent. n. 25885/20, Cass., sent. n.
21436/18).
E’ parimenti noto che il rapporto di parentela con il de cuius deve essere provato
tramite gli atti dello stato civile, salva la possibilità di darne prova con qualsiasi mezzo
nel caso in cui gli atti dello stato civile manchino o siano andati distrutti od omettano
la registrazione di un atto (cfr., Cass., ord. n. 22192/20).
Tale onere non può tuttavia ritenersi assolto dall’appellante nel caso di specie.
Ed infatti, se è vero che parte appellante ha prodotto un certificato di stato di famiglia
storico di F. F. da cui emergeva l’esistenza di un nucleo familiare composto dal de
cuius e da E. E. nato a [omissis] il [omissis], è parimenti vero che E. E. , pur nato in
tale data e comune, ha prodotto come detto il certificato integrale di stato di famiglia
originario da cui non emerge alcun rapporto di parentela con il de cuius.
In ogni caso, successivamente a tale produzione, non è stato specificamente dedotto
quale eventualmente fosse il rapporto di parentela in ragione del quale E. E. potrebbe
essere ritenuto anche solo un chiamato all’eredità di F. F. ex art. 565 c.c. (rapporto
comunque da dimostrarsi nei termini sopra indicati, come anche avrebbe dovuto
dimostrarsi l’effettiva assunzione della qualità di erede per accettazione espressa o
tacita dell’eredità).
Da tanto consegue la declaratoria di inammissibilità del gravame nei confronti di F. F.
non essendo stato notificato l’appello nei confronti degli eredi del predetto F. F. ma nei
confronti di un soggetto privo di tale qualità, senza che da ciò consegua
l’inammissibilità dell’intero gravame non ricorrendo, con riguardo all’impugnazione
proposta nei confronti delle altre appellate costituite, un’ipotesi di cause inscindibili.
7.2 Del pari inammissibile risulta il gravame proposto nei confronti delle altre
appellate costituite, B. B., C. C. e D. D.
Al riguardo risulta dirimente evidenziare che con riferimento alla posizione degli eredi
di H. H. l’appellante non ha censurato tutte le rationes decidendi della decisione
impugnata.
Non risulta segnatamente oggetto di specifici motivi di gravame la motivazione con cui
il primo giudice ha affermato che, in ogni caso, sarebbe maturata la prescrizione in
relazione alla pretesa risarcitoria nei confronti delle eredi di H. H. in ragione
dell’accertata nullità della notifica della citazione eseguita nei confronti di costui nel
corso del primo giudizio dinanzi al Giudice di Pace di Tagliacozzo e dell’assenza di
ulteriori validi atti interruttivi anteriormente alla maturazione della prescrizione.
Ebbene in assenza di puntuali doglianze sul punto (vuoi con riguardo all’individuazione
degli atti interruttivi vuoi con riguardo all’eventuale rilevanza della formulazione di una
richiesta di condanna in solido) tale motivazione risulta di per sé sufficiente a
giustificare la decisione adottata nei confronti delle eredi di H. H..
Dalla mancata specifica impugnazione di tale motivazione discende quindi, in accordo
con la giurisprudenza di legittimità, l’inammissibilità del gravame nei confronti delle
suindicate appellate (cfr., Cass., sent. n. 13880/20, Cass., sent. n. 18641/17).
7.3 Con riguardo infine all’appello proposto nei confronti di G. G. lo stesso deve essere
rigettato, potendosi confermare la sentenza appellata seppur con diversa motivazione
in relazione alla questione, devoluta in sede di gravame e dibattuta nel corso del
primo grado, dell’estinzione del primo giudizio coltivato dall’odierna appellante (cfr.,
Cass., sent. n. 4889/16).
Giova in particolare premettere che non viene in questa sede contestata la decisione
del primo giudice nella parte in cui, ritenuto estinto il primo giudizio originariamente
incardinato dall’odierna appellante dinanzi al Giudice di Pace di Tagliacozzo, ha
ritenuto maturata la prescrizione della pretesa risarcitoria nei confronti di F. F. e G. G.
(non potendosi evidentemente produrre l’effetto sospensivo della prescrizione ove si
abbia riguardo al solo secondo atto di citazione del [omissis]).
Di contro è oggetto di contestazione la possibilità di ritenere effettivamente estinto
tale primo giudizio risarcitorio in considerazione della mancata tempestiva
riassunzione nel termine di legge a seguito della declaratoria di nullità della sentenza
n. 88/13, per avere il primo giudice erroneamente ritenuto necessaria allo scopo
anche l’iscrizione a ruolo a seguito della notifica del primo atto di citazione in
riassunzione nel [omissis].
Ed infatti, pur potendosi accedere alla ricostruzione di parte appellante in ordine agli
effetti derivanti dalla mancata iscrizione a ruolo del primo atto di riassunzione
notificato nel [omissis] (cfr., Cass., sent. n. 1950/16), deve rilevarsi:
i) che dalla documentazione prodotta non emerge che l’iscrizione a ruolo del giudizio
conclusosi con la sentenza in questa sede appellata sia avvenuta nel termine di cui
all’art. 307 comma primo c.p.c. avuto riguardo, quanto alla relativa decorrenza, ai
termini di legge in relazione alla data di prima comparizione indicata nella citazione
del [omissis];
ii) che in ogni caso non emerge neanche una piena coincidenza delle conclusioni
formulate nei due atti di citazione notificati nel marzo e nel [omissis] (quanto alla
conferma o non della sentenza n. 88/13 ed all’indicazione dei soggetti di cui viene
chiesta la condanna), atti connotati peraltro, come sopra indicato, anche dalle diverse
intestazioni riportate in epigrafe ed anche da diverse indicazioni circa l’espressa
volontà di riattivare l’originario giudizio.
Non può dunque ritenersi che l’appellante abbia dimostrato la tempestività della
riassunzione e può conseguentemente confermarsi la decisione del primo giudice in
ordine alla ritenuta estinzione del primo giudizio risarcitorio coltivato.
Le argomentazioni che precedono giustificano dunque il rigetto dell’appello, rendendo
superflua un’attenta disamina sia del profilo relativo alla scindibilità anche delle cause
originariamente proposte nei confronti di G. G. e di F. F. (evocati in giudizio quali
titolare dell’impresa che aveva eseguito le attività contestate e quale collaboratore di
tale impresa) sia dell’idoneità del materiale istruttorio acquisito a fondare la
responsabilità a titolo risarcitorio dei singoli appellati e, segnatamente, di G. G..
8. Quanto alla regolamentazione delle spese del presente grado si ritiene che tali
spese: i) debbano essere poste a carico dell’appellante in ragione della soccombenza
nei confronti delle appellate B. B., C. C. e D. D. ; ii) possano essere compensate nella
misura di ½ e seguano invece la soccombenza nella restante misura di ½ nei confronti
di E. E. , tenuto conto della significativa peculiarità della controversia ed avuto in
particolare riguardo alle risultanze dei certificati da ambo le parti prodotti.
Tali spese sono liquidate d’ufficio come in dispositivo, secondo i parametri minimi del
relativo scaglione tariffario (€ 1.101,00/€ 5.200,00) in ragione della ridotta
complessità della controversia e, quanto a E. E., con distrazione in favore del
procuratore dichiaratosi antistatario.
Deve infine darsi atto che, avuto riguardo all’epoca dell’introduzione del presente
giudizio d’appello, ricorrono le condizioni per il versamento di un ulteriore importo da
parte dell’appellante a titolo di contributo unificato dovuto per l’impugnazione ai sensi
all’art. 13, comma 1-quater del D.P.R. n. 115/02 (cfr., in caso di appellante ammesso
al patrocinio a spese dello Stato, Cass., ord. n. 8982/24, con cui è stato chiarito come
nel caso di rigetto, inammissibilità ovvero improcedibilità del gravame il giudice
attesta l’obbligo di versare tale importo da parte dell’appellante, ancorché ammesso in
via anticipata e provvisoria al patrocinio a spese dello Stato, rilevando a tal fine
soltanto l’elemento oggettivo costituito dal tenore della pronuncia che ne determina il
presupposto, mentre le condizioni soggettive della parte vanno invece verificate, nella
loro specifica esistenza e permanenza, a cura della Cancelleria al momento
dell’eventuale successiva attività di recupero del contributo).
P.Q.M.
definitivamente pronunciando nella causa civile di secondo grado iscritta al n. 1597 del
ruolo generale per gli affari contenziosi per l’anno 2021 così provvede:
DICHIARA inammissibile l’appello proposto da A. A. nei confronti di F. F. […], nonché
nei confronti di B. B. , C. C. e D. D. (nelle qualità in epigrafe indicate);
RIGETTA l’appello proposto da A. A. nei confronti di G. G ;
COMPENSA le spese di lite del presente grado tra A. A. e E. E. nella misura di ½;
CONDANNA A. A. al pagamento delle spese di lite del presente grado in favore di E. E.
nella restante misura di 1/2, che liquida in complessivi € 639,00, oltre spese generali,
I.V.A. e cassa come per legge, con distrazione in favore del procuratore dichiaratosi
antistatario;
CONDANNA A. A. al pagamento delle spese di lite del presente grado in favore di B.
B., C. C. e D. D., che liquida in complessivi € 1.278,00, oltre spese generali, I.V.A. e
cassa come per legge;
DA’ atto delle condizioni di cui all’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. 115/02 nei
riguardi dell’appellante A. A..

Va dichiarato adottabile il minore il cui sviluppo psicofisico sia stato pregiudicato dai genitori.

Corte d’Appello di Perugia, sentenza 7 ottobre 2024, n. 8
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
Il Tribunale per i ### dell’### con sentenza n. 13/2024 depositata il ###,
dichiarava lo stato di adottabilità del minore ### respingendo ogni contraria
richiesta proveniente dai genitori del minore.
Tale sentenza veniva impugnata dinanzi alla Corte di Appello di ### con
separati atti di impugnazione, dai due genitori, che argomentavano
essenzialmente sulla insussistenza dei presupposti per la dichiarazione di
adottabilità, osservando che la coppia genitoriale aveva manifestato
temporanee difficoltà stante la lontananza dalla famiglia di origine, che vi era
stato interessamento e volontà da parte loro di incontrare il bambino, che era
stata negata; che la signora ### è aiutata dalla sua famiglia di origine, che la
supporta sia per la cura del figlio ### di anni 8 che della piccola ### sorella
di ### nata nel 2022; che vi era stata disponibilità di ### a riprendere il
percorso al CSM e la terapia farmacologica, al fine di continuare il percorso di
supporto e sostegno per sé e per la minore; che il TM aveva ignorato la
richiesta della nonna paterna del minore ### di rendersene affidataria
supportando figlio e nuora nel percorso di recupero delle funzioni genitoriali.
Gli appellanti hanno dunque rassegnato le seguenti conclusioni:
per ### “revocare la decadenza dalla responsabilità genitoriale del sig. ###
nonché revocare nei confronti del minore ### la dichiarazione dello stato di
adottabilità, disponendo il rientro dello stesso presso la famiglia di origine, ed
altresì disponendo le misure di sostegno e di aiuto previste dall’art. 1 comma
2° ### n. 184/83; nonché disporre l’avvio degli incontri protetti padre-figlio,
giammai attivati nonostante ab origine richiesti.
– In via subordinata: disporre l’ascolto della sig.ra ### nata a ### il ### e
residente in ### alla Corte II n. 5/PT, CF: ###, madre di ### e nonna
paterna di ### nella forma dell’ascolto da remoto; ed all’esito disporre
l’affidamento etero familiare presso la famiglia della sig.ra ### resasi
disponibile ad accogliere il piccolo presso la sua abitazione di cui all’art. 2
comma 1° ### 184/83 per la durata massima ivi prevista, (se del caso anche
proseguendo quello disposto e in atto), ripristinando gli incontri con i genitori
secondo tempi e modalità ritenute opportune. – in ogni caso: disporre,
l’elaborazione di un idoneo progetto di sostegno e interventi a tutela del
minore, consistente nell’affidamento del minore ai SS e al CF territorialmente
competenti; nel ### di ### presso l’abitazione del minore; nella presa in
carico dei genitori da parte dei SS competenti; nella presa in carico della ###
da parte del ### nella presa in carico di ### da parte del ### ha così
concluso: “ 1)in accoglimento del presente appello, riformare integralmente la
sentenza n. 13/2024 ### – ### N. /2022, oggi impugnata perché
immotivata, illogica, carente, contraddittoria per tutte le causali espresse nella
narrativa del presente atto; 2)sempre in accoglimento del presente appello,
previa riforma dell’impugnata sentenza, revocare il provvedimento di
sospensione e decadenza dalla responsabilità genitoriale della sig.ra ### e del
di lei compagno, nonché revocare la dichiarazione dello stato di adottabilità
emessa nei confronti del minore ### disponendo il rientro dello stesso presso
la famiglia di origine e, altresì, disponendo le misure di sostegno e di aiuto
previste dall’art. 1 comma 2° ### n. 184/83; nonché dare inizio agli incontri
protetti padre-figlio, giammai attivati nonostante sin da subito richiesti; 3)in
via subordinata, sempre in accoglimento del presente appello, previa riforma
dell’impugnata sentenza, a)disporre l’ascolto di ### nata a ### il ### e
residente in ### alla Corte II n. 5/PT, CF: ###, madre di ### e nonna
paterna di ### nella forma dell’ascolto da remoto; b)disporre l’affidamento del
minore ### alla nonna paterna, ### al fine di favorire il rientro, l’allocazione
e la permanenza del minore ### nel nucleo familiare di appartenenza, dicasi
famiglia di origine, con l’elaborazione di un idoneo progetto di sostegno e
interventi a tutela del minore, consistente nell’affidamento del minore ai SS e
al CF territorialmente competenti, nel ### di ### presso l’abitazione del
minore, nella presa in carico dei genitori da parte dei SS competenti, nella
presa in carico della ### da parte del ### nella presa in carico di ### da
parte del ### c)disporre un percorso di supporto e un progetto di sostegno,
anche terapeutico ove necessario, a favore dei genitori del minore, mediante i
servizi territorialmente competenti, con il coinvolgimento anche della nonna
paterna, ### nella gestione della vita familiare e nell’educazione e gestione
del minore, mediante attività di sostegno e affiancamento dei genitori nello
svolgimento delle loro funzioni, in quanto la nonna paterna è disponibile anche
ad affiancare i genitori nell’affidamento del minore ### d)ove si non dovesse
accedere alla richiesta di affido avanzata dalla nonna paterna, disporre
l’immediato rientro, allocazione e permanenza dello stesso minore ### presso
l’abitazione dei nonni materni, dove la ### risiede e convive insieme ai di lei
genitori e agli altri due figli minori, ### e ### in ### e)in ogni caso
disporre, fermo restando il rientro, l’allocazione e la permanenza del minore
### nel nucleo familiare di appartenenza, dicasi famiglia di origine cioè della
madre, dei due suoi fratelli e dei nonni materni, sempre ove non si dovesse
accedere alla richiesta di affido avanzata dalla nonna paterna, l’elaborazione di
un idoneo progetto di sostegno e interventi a tutela del minore, consistente
nell’affidamento del minore ai SS e al CF territorialmente competenti, nel ###
di ### presso l’abitazione del minore, nella presa in carico dei genitori da
parte dei SS competenti, nella presa in carico della ### da parte del ###
nella presa in carico di ### da parte del ### f)disporre un percorso di
supporto e un progetto di sostegno, anche terapeutico ove necessario, a favore
dei genitori, mediante i servizi territorialmente competenti, con il
coinvolgimento anche della nonna paterna, ### nella gestione della vita
familiare e nell’educazione e gestione del minore, mediante attività di sostegno
e affiancamento dei genitori nello svolgimento delle loro funzioni, in quanto la
nonna paterna è disponibile anche ad affiancare i genitori nell’affidamento del
minore ### g)disporre e fissare immediatamente, nelle more del
reinserimento del minore ### nella famiglia dei nonni materni e della madre,
gli incontri e la frequentazione tra i genitori stessi e il minore anche in
ambiente protetto”.
Si è costituita in giudizio l’avv. ### in qualità di tutore e difensore del minore
### contestando tutte le deduzioni e richieste contenute negli atti di appello
in quanto prive di fondamento e contrarie agli interessi del minore, chiedendo il
rigetto del gravame.
Previa riunione dei due fascicoli ed integrazione del contraddittorio con gli
affidatari del minore, ai sensi dell’art.5 della legge n. 184 del 1983, demandata
ai ### incaricati con modalità di segretazione dell’identità degli affidatari,
all’udienza del 17.9.2024, alla quale il procedimento è stato rinviato per la
relativa decisione, la Corte di Appello – ### minorenni – ha trattenuto la causa
in decisione. Il P.G., nella persona della dr.ssa ### ha concluso come da
verbale d’udienza, chiedendo il rigetto del gravame.
Entrambi i gravami sono infondati e non meritano accoglimento. In punto di
diritto non pare superfluo ricordare che il principio ispiratore della disciplina
dell’adozione, secondo cui il minore ha diritto di essere educato nella famiglia
di origine, incontra i suoi limiti nel caso in cui, in via non transitoria, questa
non sia in grado di prestare le cure necessarie e assicurare l’obbligo di
mantenere, educare ed istruire la prole. Il prioritario diritto fondamentale del
figlio di vivere, nei limiti del possibile, con i suoi genitori e di essere allevato
nell’ambito della propria famiglia, sancito dall’art. 1 della l.n. 184 del 1983,
impone particolare rigore nella valutazione dello stato di adottabilità, ai fini del
perseguimento del suo superiore interesse, potendo quel diritto essere limitato
solo ove si configuri un endemico e radicale stato di abbandono – la cui
dichiarazione va reputata, alla stregua della giurisprudenza costituzionale, della
Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia, come «extrema
ratio» a causa dell’irreversibile incapacità dei genitori di allevarlo e curarlo per
loro totale inadeguatezza (Cass., 30/06/2016, n. 13435; Cass., 26/05/2014, n.
11758). Sulla scorta di quanto detto e in conformità all’orientamento della
Suprema Corte, la prioritaria esigenza del figlio di vivere con i genitori biologici
impone particolare rigore nella valutazione dello stato di abbandono che non
può fondarsi né su anomalie non gravi del carattere e della personalità dei
genitori (Cass. 18563/2012), né su impedimenti di ordine transitorio (Cass.
9949/2012). Inoltre, la Corte ha costantemente ribadito che il giudice di
merito, nell’accertare lo stato di adottabilità di un minore, deve in primo luogo
esprimere una prognosi sull’effettiva ed attuale possibilità di recupero,
attraverso un percorso di crescita e sviluppo, delle capacità e competenze
genitoriali, con riferimento, in primo luogo, alla elaborazione, da parte dei
genitori, di un progetto, anche futuro, di assunzione diretta della responsabilità
genitoriale, caratterizzata da cura, accudimento, coabitazione con il minore,
ancorché con l’aiuto di parenti o di terzi, ed avvalendosi dell’intervento dei
servizi territoriali (Cass. n. 14436/2017). Il giudice di merito, quindi, deve,
prioritariamente, tentare un intervento di sostegno diretto a rimuovere
situazioni di difficoltà o disagio familiare e, solo quando, a seguito del
fallimento del tentativo, risulti impossibile prevedere il recupero delle capacità
genitoriali entro tempi compatibili con la necessità del minore di vivere in uno
stabile contesto familiare, è legittima la dichiarazione dello stato di adottabilità
(Cass. 22589/2017; Cass. 6137/2015). Da tanto consegue che, per un verso,
compito del servizio sociale incaricato non è solo quello di rilevare le
insufficienze in atto del nucleo familiare, ma, soprattutto, di concorrere, con
interventi di sostegno, a rimuoverle, ove possibile, e che, per altro verso,
ricorre la «situazione di abbandono» sia in caso di rifiuto ostinato a collaborare
con i servizi predetti, sia qualora, a prescindere dagli intendimenti dei genitori,
la vita da loro offerta al figlio sia inadeguata al suo normale sviluppo psico-
fisico, cosicché la rescissione del legame familiare è l’unico strumento che
possa evitargli un più grave pregiudizio ed assicurargli assistenza e stabilità
affettiva (Cass. 7115/2011).
Inoltre, il giudizio sulla situazione di abbandono deve fondarsi su una
valutazione quanto più possibile legata all’attualità, considerato il versante
prognostico. Il parametro, che perviene anche dai principi elaborati dalla Corte
di ### (cfr. in particolare la sentenza del 13/10/2015 – caso S.H. contro ###,
è divenuto un principio fermo anche nella giurisprudenza di legittimità, come
può rilevarsi dalla pronuncia n. 24445 del 2015: «In tema di adozione del
minore, il giudice, nella valutazione della situazione di abbandono, quale
presupposto per la dichiarazione dello stato di adottabilità, deve fondare il suo
convincimento effettuando un riscontro attuale e concreto, basato su indagini
ed approfondimenti riferiti alla situazione presente e non passata, tenendo
conto della positiva volontà di recupero del rapporto genitoriale da parte dei
genitori». Solo un’indagine sulla persistenza e non solo sulla preesistenza della
situazione di abbandono, svolta sulla base di un giudizio attuale, in particolare
quando vi siano indizi di modificazioni significative di comportamenti e di
assunzione d’impegni e responsabilità da parte dei genitori biologici, può
condurre ad una corretta valutazione del parametro contenuto nella L. n. 184
del 1983, art.8 dovendosi tenere conto del diritto del minore a vivere nella
propria famiglia di origine, così come indicato nell’art. 1 della L. n. 184 del
1983 (Cass.22934/2017). In particolare, la norma, anche alla luce della
progressiva elaborazione compiuta dalla giurisprudenza di legittimità e dai
principi introdotti dalla Corte Europea dei diritti umani, fissa rigorosamente il
perimetro all’interno del quale deve essere verificata la sussistenza della
condizione di abbandono. Si deve trattare di una situazione non derivante
esclusivamente da condizioni di emarginazione socio economica (disponendo
l’art. 1 che siano intraprese iniziative di sostegno nel tempo della famiglia di
origine), fondata su un giudizio d’impossibilità morale o materiale
caratterizzato da stabilità ed immodificabilità, quanto meno in un tempo
compatibile con le esigenze di sviluppo psicofisico armonico ed adeguato del
minore, non dovuta a forza maggiore o a un evento originario derivante da
cause non imputabili ai genitori biologici (cfr. sentenza ### contro ### del
16/7/2015), non determinata soltanto da comportamenti patologici ma dalla
verifica del concreto pregiudizio per il minore (Cass. N. 7193/ 2016). ### è
integrato anche da una situazione di fatto obiettiva che, a prescindere dagli
intendimenti dei genitori, impedisca o ponga in pericolo il sano sviluppo
psicofisico del minore per il non transitorio difetto dell’assistenza materiale e
morale necessaria a tal fine (così fra le altre, 26 gennaio 2011, sez. 1, n.
1838).
In definitiva, vi è abbandono se la situazione familiare è tale da compromettere
in modo grave e irreversibile lo sviluppo psicofisico della personalità del
minore, dovendosi prescindere dalla soggettiva responsabilità o dalla
colpevolezza dei genitori e dei parenti, a fronte del preminente interesse del
minore (così Cass. 31 marzo 2010, sez.1, n.7961; vedi anche Cass. 18
febbraio 2005, sez.1, n.3389). Per “situazione di abbandono”, quindi, si deve
considerare non soltanto il rifiuto intenzionale e irrevocabile dell’adempimento
dei doveri genitoriali, ma anche una situazione di fatto obiettiva del minore,
che a prescindere dalla volontà dei genitori, impedisca o ponga in pericolo il
suo sano sviluppo psicofisico, per il non transitorio difetto di quell’assistenza
materiale e morale necessaria a tal fine.
Ciò premesso, nel caso in esame, facendo applicazione delle norme
disciplinanti la materia alla luce dei criteri interpretativi sopra richiamati, alla
luce delle risultanze istruttorie raccolte in prime cure può giungersi alla
conclusione che la sentenza impugnata merita piena conferma.
Dall’esame del fascicolo trasmesso dal ### dell’### nonché dalle relazioni dei
### sociali di ### e di ### (provincia di ###, luogo ove la coppia si è
trasferita, emergono carenze strutturali nelle rispettive competenze genitoriali
che hanno indotto il giudice di primo grado a formulare una prognosi negativa
circa la loro recuperabilità in tempi rapidi e compatibili con le esigenze
evolutive del minore.
Innanzitutto va rilevato che il procedimento per la dichiarazione di adottabilità,
instaurato su ricorso del Pm, fa seguito a un precedente procedimento de
potestate, attivato in quanto il minore ### veniva condotto presso una casa
famiglia segretata, con affido ai servizi sociali di ### La relazione di ingresso
in casa famiglia del minore, di cui alcuni stralci sono riportati nella sentenza
impugnata, riportava che il minore, pur avendo due anni, non era in grado di
camminare e veniva tenuto sempre nel girello, per cui era abituato a stare in
punta di piedi presentando problemi ai tendini delle gambe e dei piedi, inoltre
non si cibava se non di latte e biscotti. Nella relazione di valutazione delle
competenze genitoriali del 13.7.2022 si espone che il bambino, quanto al
linguaggio, si limitava alla lallazione.
Da subito, appena inserito in casa famiglia, ### ha cominciato a recuperare le
tappe evolutive saltate, ha imparato a deambulare, a cibarsi di pietanze solide,
ha arricchito il suo linguaggio.
Tali fatti non sono neppure contestati nel loro storico verificarsi, pur tentando
gli appellanti di darne una spiegazione con riferimento ad una situazione
momentanea di difficoltà e preoccupazioni legate a problemi di lavoro del
padre, alla mancata assunzione di psicofarmaci da parte della madre (in
quanto in stato di gravidanza) ed all’assenza di supporto dai familiari che
risiedevano lontano.
In realtà, pare indiscutibile che la coppia ### abbia tenuto condotte che
hanno posto seriamente a rischio la salute del bambino, con rischio di
pregiudicare in maniera grave funzioni essenziali della persona quali la
deambulazione e la parola e di ostacolare una sua corretta crescita (si pensi
all’adozione di un regime alimentare povero e ripetitivo, costituito solo da latte
e biscotti). Il mancato raggiungimento degli obiettivi di crescita attesi in
ragione dell’età è di per sé indice di grave negligenza e trascuratezza da parte
dei genitori del minore. Nessun dubbio, quindi, sulla sussistenza di una pre-
condizione di abbandono utile a giustificare il provvedimento di rescissione del
legame familiare.
La relazione dell’### 1 del 13.7.2022 di valutazione delle competenze
genitoriali evidenziava per entrambi i genitori “la presenza di indicatori di grave
inadeguatezza genitoriale legati ad aspetti di carenza nella critica e di giudizio;
criticità nella funzione protettiva con scarsa capacità di riflettere sulle
ripercussioni delle proprie azioni rispetto al figlio (…) tendenza a considerare
normali scelte come quella di portare il bambino in macchina senza il
seggiolino (…), mancanza di una piena coscienza delle problematiche e dei
bisogni del figlio (…)”.
Va aggiunto che la madre è affetta da disturbo ossessivo compulsivo ed il
padre da abuso di alcolici, da ritenersi nient’affatto sporadico (vedasi il
certificato del casellario, da cui risultano precedenti per guida in stato di
ebbrezza sia nel 2008/9 che nel 2019). Orbene, dagli atti risulta che i percorsi
suggeriti dal ### per il recupero delle funzioni genitoriali non hanno avuto
buon esito. Invero il sig. ### dopo che era stata accertata positività all’alcool
a novembre e dicembre 2022, non si è più presentato per i dovuti controlli né
presso il ### né presso il ### interrompendo ogni contatto con i servizi
territorialmente competenti.
Emerge dunque dagli atti, come dato concreto ed attuale che non ha trovato
adeguata smentita neppure del corso del presente procedimento (anzi, il legale
del padre ha riferito all’ultima udienza di non avere più notizie del signor ###,
che i genitori del minore ### non hanno compiuto alcuna evoluzione positiva
e risultano tuttora gravemente inadeguati a prendersi cura di prole minore,
tanto è vero che anche per ### il ### di ### ha aperto un procedimento a
tutela e li ha sospesi dalla responsabilità genitoriale; né risultano sopravvenuti
elementi tali da indurre ad una diversa valutazione rispetto a quanto accertato
dal servizio specialistico nel 2022. ### per i ### ha formulato un giudizio
negativo sulla capacità di recupero delle competenze genitoriali sulla base di
una serie di elementi comportamentali emersi da una completa istruttoria e
all’esito di un iter giudiziario nel corso del quale sono stati posti in essere tutti i
possibili interventi di sostegno, protrattisi a lungo e proseguiti anche dopo il
trasferimento della coppia in ### (come richiamati a pag. 3-4 della sentenza
impugnata alla quale si fa integrale rinvio e risultanti dalle plurime relazioni dei
### in atti).
Nel caso in esame è stata correttamente valutata dal giudice di prime cure la
circostanza che gli appellanti non hanno dato prova di adesione a percorsi di
recupero dalle dipendenze (quanto a ### che ha interrotto ogni contatto con il
### e che in ogni caso non ha dimostrato di aver superato le problematiche di
abuso di alcool); la ### ha affermato, senza offrirne adeguata prova, di
seguire una terapia farmacologica e di essere seguita dal CSM di ### ma ciò
non risulta certo sufficiente in quanto le sue carenze genitoriali non sono legate
solo alla patologia psichiatrica da cui ella è affetta (disturbo ossessivo
compulsivo) ma trovano radice in una più ampia e grave inadeguatezza, legata
anche – come evidenziato dalla valutazione delle competenze genitoriali in atti)
– alla carenza di funzioni metacognitive ed alla scarsa capacità di mettersi in
discussione, tendendo ad attribuire all’esterno le responsabilità. La relazione
dell’### 1 concludeva “### anche difficile, viste le caratteristiche di
personalità e di funzionamento della coppia, prevedere un lavoro di supporto
specialistico rivolto all’implementazione della resilienza e all’acquisizione di
capacità genitoriali che non preveda un supporto assistenzialistico nelle 24
ore”. ### della signora ### è tutt’altro che transeunte, ove si consideri che
anche il suo primo figlio, attualmente di anni dieci, è stato sempre cresciuto dai
nonni materni e che la stessa ### è in regime di affido ai nonni, i quali, stante
anche l’età avanzata, manifestano difficoltà ad occuparsi dei due minori, tanto
che il tribunale di ### sta valutando di disporre il collocamento del bambino
più grande presso il padre biologico. Dal canto suo anche il signor ### risulta
aver gravemente sottovalutato i bisogni del figlio, senza mostrare di aver
svolto alcun percorso critico e consapevole in ordine alle cause che hanno
condotto all’allontanamento del minore dalla famiglia di origine.
Altro dato che emerge dalle relazioni è che l’interesse per le sorti di ### da
parte dei genitori e dei nonni è stato pressoché assente. In particolare, dal
2023 in poi, essi non hanno chiesto più alcuna informazione sul bambino,
allontanandosi volontariamente dall’### per dare alla luce la secondogenita
### Anche in tale circostanza , dunque, essi hanno anteposto le loro necessità
rispetto alle esigenze del minore ### Venendo poi alla questione della
presenza di parenti entro il quarto grado idonei a svolgere funzioni genitoriali
vicariali, deve evidenziarsi che dopo che per ### a seguito di segnalazione del
### dell’### è stato aperto un procedimento a tutela, ne è stato disposto
l’affido al servizio sociale di ###, competente per territorio in base alla nuova
residenza della signora ### Dalle relazioni del suddetto servizio è emerso che
la minore è collocata presso i nonni materni, che però accusano una certa
difficoltà, data l’età avanzata e la necessità di occuparsi dell’altro nipotino ###
da sempre collocato presso i nonni.
Il nucleo familiare della madre pare quindi oggettivamente impossibilitato a
prendersi cura di ### e nemmeno ne ha fatto richiesta.
Quanto poi alla disponibilità asseritamente manifestata dalla madre di ### a
prendersi cura del minore ### (adducendo che in primo grado si sarebbe
verificato un vizio procedurale, in quanto la signora aveva fatto richiesta di
essere sentita e ciò non è avvenuto, senza adeguata motivazione) è vero che
non vi è stata una formale pronuncia da parte del giudice di prime cure su tale
richiesta (che viene reiterata in questa sede), ma la richiesta audizione
sarebbe meramente esplorativa, dal momento che la pur formalizzata
manifestazione di disponibilità della signora a rendersi collocataria del minore
non sarebbe sufficiente ad accoglierne la richiesta.
Invero, la signora ### mai risulta aver preso contatti con i servizi sociali o con
il tutore per avere notizie del bambino fin da quando è stato collocato in casa
famiglia, mai ha chiesto di incontrarlo, mai ha mostrato forme di
interessamento per lui, quali ad esempio l’invio di beni materiali come vestiti o
giocattoli. Dagli atti risulta che la signora ### vive in un Comune diverso
rispetto alla famiglia ### e non risultano esservi stati rapporti significativi tra
nonna paterna e minore neppure nel limitato periodo in cui ### ha vissuto in
### cioè dalla nascita fino al 2021. Nelle relazioni non si dà conto di alcun
legame affettivo della signora ### con ### e, per inciso, neppure con ###
tanto è vero che ella viene menzionata di rado nelle relazioni dei servizi di
### e mai è stata svolta un’indagine sociale sulle sue condizioni di vita.
La nonna paterna sarebbe a tutti gli effetti per ### un’illustre sconosciuta con
cui non ha sviluppato alcuna relazione di attaccamento, tanto che sarebbe
lesivo dei suoi interessi sradicarlo dal contesto in cui vive attualmente;
oltretutto dalle relazioni dei servizi la ### parrebbe convivere con il figlio ###
padre del minore che ha posto in essere le condotte pregiudizievoli per il suo
sviluppo di cui si è dato conto in precedenza, ulteriore ragione ostativa al
collocamento del minore presso la nonna.
Dai documenti acquisiti risulta che il minore, da giugno 2022 è stato inserito
presso una famiglia affidataria nella quale si è ben adattato e che e si è da
subito posta in ascolto dei suoi bisogni, adoperandosi con dedizione
ammirevole affinchè il bambino potesse apprendere tutte le abilità confacenti
alla sua età e superare i deficit che ne avevano caratterizzato la primissima
infanzia. I genitori affidatari infatti si sono lodevolmente prodigati per una sana
ed equilibrata crescita del bambino, seguendo tutti i suggerimenti degli
specialisti, garantendogli ogni tipo di supporto possibile (inserimento in un nido
privato, logopedia, terapia di psicomotricità, danza movimento terapia, attività
Giurisprudenza di merito Ondif
14
sportiva) utile al suo sviluppo psicofisico e soprattutto, come emerge dalle
relazioni allegate alla comparsa di costituzione, offrendogli attenzioni costanti,
premure ed affetto.
Al momento dunque (vedasi in particolare la relazione dei servizi sociali del
7.6.2024) il minore vive una situazione di evidente benessere psico-fisico, con
un adeguato livello di protezione e affetto, pienamente inserito nel contesto
familiare anche allargato, risultando del tutto pregiudizievole per il suo
interesse – come rimarcato dai ### sociali e dal tutore qualsiasi cambiamento,
ancor più l’eventuale ripresa di una relazione con le figure genitoriali o con i
rami parentali materno e paterno, rispetto ai quale il minore non ha maturato
alcun attaccamento.
Da tanto consegue la conferma della decisione impugnata in ordine alla
dichiarazione di adottabilità del minore.
La natura della lite e degli interessi coinvolti giustifica la compensazione delle
spese di lite.
P.Q.M.
Respinta ogni diversa domanda, istanza ed eccezione, così decide: -rigetta i
reclami e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata; -compensa le spese
di lite tra le parti.

Una stabile convivenza ultratriennale dei coniugi non preclude di per sé la delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento per vizi genetici del matrimonio-atto.

Cass. Civ., Sez. I, Ordinanza del 28 gennaio 2025, n. 1999, Cons.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 6829/2024 R.G. proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato in R (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato
MARZO GIANCARLO (-) rappresentato e difeso dall’avvocato MARCIANO
FABRIZIO (Omissis)
-ricorrente-
Contro
B.B., elettivamente domiciliato in R (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato
INCHINGOLO GIANNI (Omissis) rappresentato e difeso dall’avvocato
AMBROSIO MARIA (Omissis)
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO NAPOLI n. 47/2024 depo-sitata il
09/01/2024.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21/01/2025 dal
Consigliere FILIPPO D’AQUINO.
Svolgimento del processo
1. A.A. ha proposto ricorso davanti alla Corte di Appello di Napoli, chiedendo
dichiararsi l’efficacia della sentenza rotale del 25 novembre 2020 del Tribunale
Ecclesiastico Interdiocesano Partenopeo, divenuta definitiva, con cui era stata
dichiarata la nullità del matrimonio contratto con B.B. in data 29 dicembre
1997, per difetto di discrezione di giudizio di entrambi i coniugi e per incapacità
del ricorrente ad assumere gli obblighi coniugali.
2. La Corte di Appello di Napoli, con la sentenza qui impugnata, ha rigettato il
ricorso del ricorrente, ritenendo la sentenza contraria all’ordine pubblico in
conformità ai principi di Cass., Sez. U., n. 16379/2014 , per il fatto che
l’instaurazione della convivenza e il per-durare della stessa per oltre un triennio
non consente il venir meno del matrimonio, inteso come rapporto, quand’anche
esistessero vizi genetici dell’atto di matrimonio.
3. Propone ricorso per cassazione il A.A., affidato a due motivi, cui resiste con
controricorso la B.B.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 , primo comma, n. 3,
cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 112 cod. proc.
civ., nonché degli artt. 797 , primo comma, n. 7 cod. proc. civ., anche alla luce
dei principi indicati da Cass., n. 149/2023 , in relazione alla convivenza
ultratriennale, in assenza di allegazione di fatti idonei a integrare il contrasto
della sentenza rotale con i principi di ordine pubblico.
2. Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 , primo comma, n.
4, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 8 lett. b) del
Protocollo addizionale all’Accordo di modifica del Concordato Lateranense
stipulato in data 18.02.84 tra Stato Italiano e Santa Sede, ratificato con L. n.
121/1985 , nonché degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., nonché ancora degli
artt. 132 , secondo comma, n. 4, e 118 disp. att. cod. proc. civ.
3. Osserva il ricorrente – a sostegno dei due motivi di impugnazione – che la
convivenza non può operare in termini ostativi al riconoscimento di vizi genetici
dell’atto di matrimonio, ove il vizio genetico sia riconosciuto dall’ordinamento
interno e, in particolare, riguardi vizi del consenso analoghi a quelli previsti
dall’ordinamento italiano. Osserva, inoltre, il ricorrente che il giudice interno
non può riesaminare il merito della sentenza del Tribunale ecclesiastico.
4. Va preliminarmente rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, non
essendo oggetto del ricorso la rivalutazione del giudizio in fatto articolato dal
giudice del merito, né incentrandosi il ricorso su una rivalutazione della
motivazione del giudice del merito. Non meritano accoglimento neanche le
ulteriori eccezioni di inammissibi-lità per difetto di specificità, essendo il ricorso
sufficientemente an-corato ai fatti, agli atti e ai documenti di causa, né
trattandosi di censure nuove, essendo le stesse pertinenti alla originaria causa
petendi.
5. I due motivi, i quali possono essere esaminati congiunta-mente, sono
fondati. Secondo la tradizionale giurisprudenza di questa Corte (Cass., n.
27236/2008 ), l’ordine pubblico non osta al riconoscimento in Italia della
sentenza rotale che abbia dichiarato nullo il “matrimonio-atto” concordatario
nel caso previsto dal can. 1095, n. 2, ob gravem defectum discretionis iudicii
(per mancanza grave della discrezione di giudizio: Cass., n. 27236/2008 ). Con
il menzionato arresto, questa Corte ha ritenuto che “non ogni incompatibilità
con l’ordine pubblico italiano rileva a impedire l’efficacia di esse nel nostro
ordinamento, dovendo il giudice della delibazione tenere conto della specificità
dell’ordinamento canonico”, risultando ostative al riconoscimento le sole
“incompatibilità assolute con l’ordine pubblico italiano”, non anche quelle
relative “in ragione del favore particolare al loro riconoscimento che lo Stato
italiano s’è imposto con il protocollo addizionale del 18 febbraio 1984
modificativo del concordato” (Cass., n. 27236/2008 ; Cass. Sez. U., n.
19809/08 ). Solo in caso di non assimilabilità delle cause di annullamento a
quelle interne l’ordine pubblico preclude il riconoscimento delle sentenze
ecclesiastiche (Cass. Sez. U., n. 19809/08 , cit.), mentre nei casi in cui la
fattispecie di diritto canonico sia assimilabile a quelle dell’ordi-namento interno
e sia “ancorata a fatti oggettivi analoghi” (Cass., n. 27236/2008 ),
l’incompatibilità è relativa e non ne preclude il rico-noscimento
nell’ordinamento italiano.
6. Sotto questo specifico profilo, questa Corte ha ritenuto che l’ordinamento
interno, nella parte in cui prevede l’incapacità, anche di intendere e di volere,
dei nubendi (artt. 117 , 119 , 120 cod. civ.) “non differisce in linea di massima
da quella dell’ordinamento canonico” (Cass., n. 27238/2008 , cit.); ragione per
la quale, al riconoscimento in Italia della sentenza dichiarativa di nullità del
matrimonio per difetto di discrezione di giudizio non è ostativo l’ordine
pubblico, senza – peraltro – che osti la tutela dell’incapace nel caso in cui la
domanda fosse proposta dal soggetto non affetto da incapacità, come avviene
in caso di annullamento del matrimonio per errore sulle qualità essenziali
dell’altro coniuge ex art. 122 cod. civ., derivante da malattia fisica o psichica
(Cass., n. 27238/2008 ).
7. Questo principio, riaffermato successivamente (Cass., n. 19808/2009 ;
Cass., n. 9844/2012 ), è stato rimeditato dalla successiva giurisprudenza di
questa Corte che, evidenziando la rilevanza del matrimonio-rapporto, in
relazione agli obblighi solidaristici che derivano dalla convivenza (fatti propri
dalla giurisprudenza costituzionale e dal diritto dell’Unione) e alla efficacia
sanante della convivenza sui vizi del matrimonio-atto, come risultante dai casi
di decadenza della proposizione delle varie azioni di annullamento (artt. 119 –
123 cod. civ.), ha ritenuto che la convivenza come coniugi, quale elemento
essenziale del matrimonio-rapporto, ove pro-trattasi per almeno tre anni dalla
celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di
ordine pubblico italiano, tale da impedire la dichiarazione di efficacia della
sentenza di nullità pronunciata dal Tribunale ecclesiastico per qualsiasi vizio
genetico del matrimonio-atto (Cass., Sez. U., nn. 16379-16380/2014; Cass., n.
1494/2015 ; Cass., n. 1622/2015 ; Cass., n. 1788/2015 ; Cass., n. 3877/2015
). Pertanto, una volta integrata la convivenza ultratriennale, divengono
irrilevanti nell’ordinamento interno i vizi genetici del matrimonio canonico
“nonostante la sussistenza dell’e-lemento essenziale della convivenza
coniugale” (Cass., Sez. U., n. 16379/2014 , cit.).
8. La giurisprudenza più recente ha, tuttavia, dato una interpre-tazione
restrittiva di questo principio. È stata negata applicazione del principio, ad
esempio, nel caso in cui la sentenza ecclesiastica abbia dichiarato la nullità del
matrimonio per errore essenziale sulle qualità personali dell’altro coniuge
dovuto a dolo di questo, anche in caso di convivenza ultratriennale dei coniugi.
Questo caso di annul-lamento del matrimonio-atto è, difatti, previsto anche
nell’ordina-mento italiano e non è sanabile dalla protrazione della convivenza
prima della scoperta del vizio (Cass., n. 17910/2022 ).
9. Più in generale, non tutte le sentenze ecclesiastiche di annul-lamento per
vizi genetici del matrimonio-atto sono precluse dalla protrazione di una
convivenza ultratriennale stabile dei coniugi, ma solo quelle che non hanno
rilevanza per l’ordinamento interno, risul-tando viceversa delibabili le sentenze
di annullamento per vizi genetici “che rilevano come tali anche per il codice
civile italiano” (Cass., n. 17910/2022 , cit.).
10. Nel qual caso, non è la convivenza ultratriennale in sé a costituire un limite
di ordine pubblico alla delibazione in Italia di sentenze di annullamento per vizi
di capacità, integrato dalla mera deficienza caratteriale o immaturità del
coniuge, ma solo quei vizi che originino da un deficit psichico, ossia da uno
stato patologico idoneo a incidere sulla capacità di intendere e volere del
soggetto e sul cor-retto formarsi della sua volontà cosciente, la cui valutazione
è ri-messa al giudice del merito, il quale è onerato di verificare se i vizi, come
riscontrati dalla sentenza del Tribunale ecclesiastico, si inquadrino in una delle
cause di nullità del matrimonio riconosciute dall’ordinamento italiano (Cass., n.
28307/2023 ; Cass., n. 149/2023 ), come nel caso di incapacità di intendere e
di volere (art. 120 cod. civ.). È, pertanto, compito del giudice del merito
verificare se la causa di nullità del matrimonio ecclesiastico sia da qualificarsi
come incapacità di valutare ex ante la rilevanza del vincolo matrimoniale,
analogo a un deficit psichico, ovvero a uno stato patologico idoneo a incidere
sulla capacità di intendere e volere del soggetto e sul cor-retto formarsi della
sua volontà cosciente, ovvero se costituisca una mera deficienza caratteriale o
mera immaturità del coniuge, causa di nullità, quest’ultima, che incontra il
limite dell’ordine pubblico in caso di convivenza ultratriennale (Cass., n.
28307/2023 ).
11. La sentenza di appello si è limitata a statuire l’incompatibilità con l’ordine
pubblico della sentenza ecclesiastica per la mera protra-zione della convivenza
ultratriennale, senza verificare se la causa di nullità del matrimonio-atto trovi
riscontro in analoghe cause di nullità dell’ordinamento interno, come nel caso
di un deficit psichico idoneo a comportare una incapacità di intendere e di
volere, tale da com-portare l’incapacità patologica di comprendere il senso del
matrimonio, causa di nullità alla quale non osta la convivenza ultra-triennale,
ovvero se il matrimonio sia stato annullato per mera im-maturità del coniuge,
la cui pronuncia in sede ecclesiastica non può essere riconosciuta
nell’ordinamento interno in caso di protrazione della convivenza ultratriennale.
12. Il ricorso va, pertanto, accolto e la sentenza cassata con rinvio alla Corte di
Appello di Napoli, perché valuti se la causa di nullità del matrimonio
concordatario di cui alla sentenza oggetto di delibazione si inquadri in una delle
cause di nullità riconosciute dall’ordinamento italiano secondo i principi
enunciati. Al giudice del rinvio è rimessa la regolazione delle spese del giudizio
di legittimità.
Va disposto l’oscuramento delle generalità e dei dati identificativi degli
interessati.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte
di Appello di Napoli, in diversa composizione, anche per la regolazione e la
liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Va disposto l’oscuramento delle generalità e dei dati identificativi degli
interessati.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2025.
Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2025.

Divieto di compensazione dei crediti alimentari

Tribunale Avellino, Sez. II, sentenza 2 maggio 2024 n. 881
Il Tribunale di Avellino, II sezione civile, nella persona del giudice monocratico Dott. Sossio
Pellecchia, viste le conclusioni così come precisate in atti e lette le note di trattazione scritta che
tengono luogo della discussione orale della causa, ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., pronunzia la
presente
SENTENZA
nella causa iscritta al n. …/2020 R.G. A.C.C., avente ad oggetto “Opposizione a precetto (art. 615, 1′
comma c.p.c.)” e vertente
TRA
Attore 1 , nata a L. 1 il D. 1 (C.F. C.F. 1 ), rappresentata e difesa dagli Avv.ti…, in virtù di procura in
atti,
OPPONENTE
CONTRO
Convenuto 1 , nato ad L. 2 il D. 2 , (C.F. C.F. 2 );
OPPOSTO CONTUMACE
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con atto di citazione notificato una prima volta in data 24.02.2020 ed una seconda volta, a seguito di
ordine giudiziale di rinnovazione, in data 30.6.2020, Attore 1 ha proposto opposizione ex art. 615,
comma primo, c.p.c., avverso l’atto di precetto notificatole da Convenuto 1 per il pagamento della
somma complessiva di Euro 5.280,52 in virtù della sentenza n. …/2019 emessa dal Tribunale di
Avellino in data 22.10.2019 (dep. in pari data) con la quale Attore 1 è stata condannata al pagamento
della somma di Euro 5.058,20 nei confronti di Convenuto 1 a titolo di rimborso della metà della
somma prelevata dalla Pt 1 dal conto cointestato con … Attore 2
Attore 1 ha eccepito come unico motivo di opposizione la compensazione tra il credito del
Convenuto 1 il credito da lei vantato a titolo di mantenimento suo e della prole, disposto nella misura
di Euro 350,00 con ordinanza presidenziale del Tribunale di Avellino n. cronol. ../2017 e, in seguito,
con sentenza di separazione n. …/2019 di questo Tribunale del 10.12.2019 (dep. in data 17.12.2019).
In particolare, Attore 1 ha notificato ad Convenuto 1 at- to di precetto in data 17.07.2018 per una
somma complessiva di Euro 5.541,82, essendosi Convenuto 1 reso inadempiente rispetto all’obbligo
di mantenimento a suo carico.
L’opposto, pur se ritualmente e tempestivamente evocato in giudizio, non si è costituito.
Alla prima udienza svoltasi in data 25.11.2020, il giudice ha disposto la sospensione dell’esecuzione
e concesso i termini ex art. 183, comma 6, c.p.c., con rinvio all’udienza dell’11.03.2021, all’esito della
quale il giudice ha accolto le istanze istruttorie.
All’udienza del 02.03.2022, la causa, una volta istruita, è stata rinviata all’udienza del 04.04.2024,
all’esito della quale il nuovo giudice istruttore, ritenuta la causa matura per la decisione, ha rinviato
per la precisazione delle conclusioni e la decisione ex art. 281 sexies c.p.c. all’udienza del 2.05.2024.
L’opposizione fondata e va accolta.
La compensazione è un modo di estinzione dell’obbligazione diverso dall’adempimento, di carattere
satisfattivo, atteso che va a soddisfare un interesse succedaneo del creditore, rappresentato
dall’interesse del creditore di estinguere un suo debito a fronte del credito vantato verso il medesimo
soggetto che è, al contempo, suo creditore e debitore.
L’ordinamento consente così a due soggetti obbligati, l’uno obbligato verso l’altro, di estinguere le
reciproche obbligazioni per l’ammontare corrispondente.
La compensazione può essere legale laddove ha ad oggetto crediti certi, liquidi ed esigibili,
giudiziale quando il credito opposto in compensazione non è liquido ma è di pronta e facile
liquidazione e, infine, volontaria, nel caso in cui la compensazione opera per volontà delle parti, al
di fuori dei requisiti stabiliti dalla legge.
Nel caso in esame, l’opponente eccepisce la compensazione legale, essendo i crediti vantati dalle
parti in causa giudizialmente accertati nell’an e nel quantum, rispettivamente con la sentenza n.
…/2019 del 22.10.2019 il credito dell’opposto e con la successiva sentenza n. …/2019 del 17.12.2019 il
controcredito dell’opponente, da lei opposto in compensazione.
Tuttavia, la compensazione può operare per quella parte di credito spettante all’opponente a titolo
di mantenimento della stessa riconosciuto nella misura di Euro 200,00, dovendo escludersi invece la
compensazione della restante parte di credito di Euro 150,00, riferita al mantenimento della prole.
Nello specifico, l’assegno di mantenimento al coniuge separato non è qualificabile quale credito
alimentare, anche se ha la funzione di provvedere agli alimenti in favore del coniuge che si trovi
incolpevolmente “in stato di bisogno e nell’impossibilità di svolgere attività lavorati- va”, e, pertanto,
è opponibile in compensazione (Cass., Sez. 3, Sent. n. 9686 del 26.05.2020: “Con l’opposizione ex art.
615 c.p.c. il debitore esecutato può opporre in compensazione al creditore procedente un
controcredito certo (cioè, definitivamente verificato giudizialmente o incontestato) oppure un
credito illiquido di importo certamente superiore (la cui entità possa essere accertata, senza dilazioni
nella procedura esecutiva, nel merito del giudizio di opposizione) anche nell’ipotesi di
espropriazione forzata promossa per il credito inerente al mantenimento del coniuge separato, non
trovando applicazione, in difetto di un “credito alimentare”, l’art. 447, comma 2, c.c.”).
Diverso è il caso dell’assegno corrisposto per il mantenimento dei figli in virtù del suo carattere
alimentare: Cass., Sez. 6, O.R.D. n. 23569 del 18 novembre 2016: “Il carattere sostanzialmente
alimentare dell’assegno di mantenimento a beneficio dei figli, in regime di separazione, comporta la
non operatività della compensazione del suo importo con altri crediti.
(Nella specie, la S.C., confermando l’ordinanza di merito, ha ritenuto l’inadempimento del coniuge
onerato, che aveva operato una illegittima compensazione tra quanto dovuto a titolo di assegno in
favore dei figli e il proprio credito per rate di mutuo”; Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 11689 del
14.05.2018: “Il carattere sostanzialmente alimentare dell’assegno di mantenimento a beneficio dei
figli, in regime di separazione, comporta la non operatività della compensazione del suo importo
con altri crediti” (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso la
compensazione tra credito per spese di lite e credito derivante dal mancato pagamento di ratei
dell’assegno di mantenimento cumulativamente dovuto per l’ex moglie e le figlie).
Pertanto, la compensazione può operare unicamente per la somma di Euro 200,00 al mese
riconosciuta a titolo di mantenimento dell’opponente.
Tuttavia, essendo il danaro un bene fungibile ed essendo il credito per il mantenimento della Pt 1
stabilito con la sentenza n. 2370/2019 e qui opposto in compensazione fissato nella misura di Euro
200,00 al mese, può senz’altro valorizzarsi, anche per ragioni di economia processuale, la sua volontà
di opporlo in compensazione per Euro 5.541,82. Dunque, essendo stato il mantenimento riconosciuto
alla Pt 1 con decorrenza da maggio 2017, nel corso del presente giudizio può ritenersi sicuramente
accertato un controcredito dell’opponente pari ad almeno Euro 11.200,00, per 56 mensilità fino al
dicembre 2021.
Difatti, all’udienza del 15.12.2021 i testi Testimone 1 e Testimone 2 hanno concordemente dichiarato
che l’opposto non ha versato l’assegno di mantenimento all’opponente ininterrottamente dal maggio
2017 fino alla data della loro deposizione.
Essendo, quindi, il controcredito opposto in compensazione per Euro 5.541,82 maggiore del credito
per il quale l’opposto ha minacciato l’esecuzione, il precetto va annullato e va dichiarato che
l’opposto non ha diritto a procedere esecutivamente in danno dell’opponente per il credito indicato
nel precetto medesimo.
Le spese di lite seguono la soccombenza dell’opposto e si liquidano e si distraggono come in
dispositivo (III scaglione di valore, decisione senza deposito di comparse conclusionali e memorie
di replica, valori tra i minimi ed i medi).
P.Q.M.
Il Tribunale di Avellino, definitivamente pronunziando, disattesa ogni diversa istanza, deduzione
ed eccezione, così provvede: 1. accoglie l’opposizione e, per l’effetto, annulla il precetto opposto e
dichiara che l’opposto non ha diritto di agire esecutivamente in danno dell’opponente per il credito
indicato nello stesso, che si è estinto per compensazione; 2. condanna l’opposto a pagare
all’opponente le spese di lite, liquidate in Euro 125,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi
professionali, oltre iva, cpa, se dovute, come per legge, e rimborso delle spese forfettarie nella misura
del 15% dei compensi, con distrazione in favore degli avv.ti …
Conclusione
Così deciso in Avellino, il 2 maggio 2024.
Depositata in Cancelleria il 2 maggio 2024.

Separazione consensuale: l’atto di trasferimento della proprietà della casa coniugale non costituisce convenzione matrimoniale.

Cass. civ., Sez. III, Ord., 17/12/2024, n. 32975
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TATANGELO Augusto – Presidente
Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere
Dott. GUIZZI Giaime Stefano – Consigliere
Dott. GORGONI Marilena – Relatore
Dott. FANTICINI Giovanni – Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 6831/2021 R.G. proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato in R V.LE (Omissis), presso lo studio
dell’avvocato SABRINA MAGRINI (Omissis), rappresentato e difeso
dall’avvocato MAURO MENGUCCI (Omissis);
– ricorrente –
contro
B.B., rappresentata e difesa dall’avvocato ANDREA GIUNTA (Omissis), pec:
(Omissis);
avverso la sentenza della Corte d’appello di Ancona n. 752/2020, depositata in
data 21/07/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/11/2024 dal
Consigliere MARILENA GORGONI.
Svolgimento del processo
1. Con decreto n. 155/2003 veniva ingiunto a A.A. il pagamento a favore della
Banca delle Marche Spa di Euro 76.183,84.
2. In forza di detto titolo l’ingiungente in data 13/03/2003 iscriveva ipoteca
giudiziale per l’importo di Euro 68.000,00 relativamente alla quota di 3/10
dell’appartamento di proprietà dell’ingiunto sito in Pesaro.
3. I 3/10 dell’immobile suddetto erano stati trasferiti da A.A. a B.B. in sede di
separazione consensuale, omologata in data 13/01/2003 e annotata a margine
dell’atto di matrimonio in data 23/01/2023.
4. Successivamente, in data 22/09/2009, la banca notificava a B.B. atto di
pignoramento immobiliare relativo all’immobile suddetto.
5. B.B., conclusa con la banca una transazione, otteneva il decreto n 192/2011
con cui veniva ingiunto a A.A. il pagamento a suo favore di Euro 57.000,00
corrisposti alla banca in forza della transazione, facendo leva sulla scrittura
privata dell’8/04/2005 con cui A.A. si obbligava a garantire e a manlevare B.B.
“da ogni eventuale somma che la stessa fosse stata costretta a pagare a causa
della suddetta ipoteca giudiziale”.
6. Il Tribunale di Pesaro, con sentenza n. 44/2015, rigettava l’opposizione al
decreto ingiuntivo n. 192/2011 proposta da A.A.
7. La Corte d’Appello di Ancona, con la sentenza n. 752/2020, resa pubblica in
data 21/07/2020, ha rigettato l’impugnazione proposta da A.A. ed ha
confermato la pronuncia di primo grado.
8. Per quanto ancora rileva in questa sede, la Corte territoriale ha ritenuto che:
– essendo stato l’atto traslativo contenuto nel ricorso per separazione
consensuale trascritto in data 14/05/2003 (quindi, dopo l’iscrizione dell’ipoteca
giudiziale ai danni di A.A., risalente al 12/03/2003), qualsiasi azione legale
esercitata da B.B. nei confronti di detta iscrizione ipotecaria si sarebbe rivelata
“disperata e temeraria”;
con la scrittura dell’8/04/2005, dopo aver premesso che la banca aveva iscritto
ipoteca prima che l’atto di assegnazione fosse trascritto, le parti avevano
concordato che A.A. si sarebbe impegnato a far cancellare l’ipoteca giudiziale
quanto prima e che comunque avrebbe manlevato B.B. di ogni somma da
questa pagata eventualmente alla banca in forza di detta ipoteca;
– perdurando l’inadempimento di A.A., la banca nel 2009 aveva iniziato la
procedura esecutiva sull’immobile, costringendo B.B. ad accordarsi per salvare
la casa, stipulando addirittura un mutuo per coprire il debito di A.A., ottenere
la liberazione dall’ipoteca e fermare la procedura esecutiva;
– i diritti di A.A. nei confronti della banca non risultavano minimamente
compromessi dal comportamento di B.B.
8. A.A. ricorre ora per la cassazione della sentenza n. 752/2020 della Corte di
merito, formulando due motivi.
9. B.B. resiste con controricorso.
10. È stata disposta la trattazione in Camera di Consiglio, in applicazione degli
artt. 375 e 380 – bis 1 cod. proc. civ.
11. Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza decisoria nei sessanta
giorni dalla data della camera di consiglio.
Motivi della decisione
12. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e falsa applicazione
di norme di diritto e segnatamente degli artt. 162 e 163 c.c. in correlazione
con l’art. 2644 c.c. (art. 360 , comma 1, n. 3 c.p.c.)”.
Il ricorrente sostiene che, essendo l’iscrizione dell’ipoteca illegittima, perché
successiva all’annotazione ex art. 162 cod. civ. della convenzione con cui
aveva trasferito a B.B. l’immobile per cui è causa, quest’ultima avrebbe dovuto
non già raggiungere una convenzione con la banca, ma difendersi in giudizio,
opponendo alla banca di essere proprietaria dei 3/10 della proprietà
dell’appartamento, e solo là dove fosse risultata soccombente nei giudizi di
opposizione a precetto o, comunque, di opposizione ex art. 619 cod. proc. civ.
nei confronti della banca, avrebbe potuto far valere l’obbligo di garanzia e di
manleva assunto con la scrittura privata dell’aprile 2005.
Il motivo è complessivamente infondato.
In primo luogo, va considerato che a pag. 3 della sentenza si legge che la corte
d’appello ha ritenuto il profilo relativo all’opponibilità dell’atto attributivo “in
parte superato dall’accordo del 8.04.2005” e che detta statuizione non è stata
attinta dalle censure del ricorrente.
Inoltre, l’assunto da cui muove il ricorrente, cioè che l’atto di trasferimento
inserito nell’accordo di separazione fosse una convenzione matrimoniale, come
tale soggetta alle peculiari forme di pubblicità per essa previste (annotazione a
margine dell’atto di matrimonio, ex art. 162 , 4 comma, cod. civ., e trascrizione
ex art. 2647 cod. civ.), introduce una questione nuova e, come tale, non
esaminabile, anche per l’impossibilità di svolgere in sede di giudizio di
legittimità gli accertamenti di fatto necessari (cfr. Cass. 1/07/2024, n. 1818)
L’assunto è, comunque, anche infondato in diritto, essendo la convenzione
matrimoniale uno strumento che implica la convivenza e la scelta di un regime
patrimoniale, là dove l’atto di trasferimento di un bene inserito nelle pattuizioni
con cui i coniugi regolano in sede di separazione i loro rapporti economici
configura un contratto atipico sottoposto alle regole del diritto comune (Cass.
11/05/1984, n. 2887; Cass. 12/09/1997, n. 9034 ; Cass. 24/04/2007, n. 9863
; Cass. 23/09/2013, n. 21736 ).
13. Con il secondo motivo si denunzia “Violazione e falsa applicazione di norme
di diritto e segnatamente degli artt. 1175 e 1375 c.c. in correlazione con l’art.
1227 c.c. (art. 360 , comma 1, n. 3 c.p.c.)”.
Attinta da censura è la statuizione con cui la corte d’appello ha statuito che non
poteva pretendersi da B.B. un comportamento diverso, neppure alla luce del
superiore principio di buona fede contrattuale.
Il ricorrente ribadisce che, essendo l’esclusiva proprietaria dell’immobile, la
B.B. avrebbe dovuto quantomeno proporre opposizione di terzo ex art. 619
cod. proc. civ. piuttosto che prestare acquiescenza all’operato della Banca delle
Marche Spa, rinunciando espressamente e irrevocabilmente e “sin d’ora” a
qualsiasi azione legale nei confronti della Banca delle Marche Spa
La scelta volontaria di rinunciare a qualsiasi azione legale nei confronti della
Banca delle Marche Spa avrebbe dovuto essere ritenuta contraria alla buona
fede ed alla correttezza, avendo impedito qualsiasi difesa contro il
pignoramento immobiliare eseguito da Banca delle Marche Spa; sicché, detto
comportamento rinunciatario avrebbe dovuto essere valutato anche ai sensi
dell’art. 1227 cod. civ.
Il motivo è inammissibile.
La ragione assorbente è da individuarsi nella mancata censura della sentenza
nella parte in cui ha ritenuto comunque salvi e, quindi, non pregiudicati dal
comportamento di B.B. i diritti dell’odierno ricorrente verso la banca.
Pertanto, anche a prescindere dalla censura introdotta con il motivo qui
scrutinato – che, comunque, è inficiata a monte dal convincimento infondato
(per le ragioni già esposte) che B.B. avrebbe potuto contestare alla banca
l’inopponibilità dell’iscrizione ipotecaria giudiziale – l’impugnazione non
potrebbe raggiungere il suo scopo, quello di ottenere l’annullamento in toto di
tutte le ragioni che autonomamente hanno sorretto il capo di sentenza che ha
negato la configurabilità di un comportamento volontario e pregiudizievole di
B.B., e ciò in applicazione del consolidato principio secondo cui quando una
sentenza o un capo della stessa sia sorretta da più ragioni autonomamente
idonee a tal fine, se una di dette ragioni non formi oggetto di censura si
determina l’inammissibilità, per sopravvenuto difetto di interesse, delle censure
relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto
queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta
definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (Cass.
26/02/2024, n. 5102 ).
14. Il ricorso va, dunque, rigettato.
15. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
16. Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto,
ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di
cui all’art. 13 , comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 .
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore
della controricorrente, liquidandole in complessivi Euro 5.800,00, oltre a Euro
200,00 per esborsi, nonché alle spese generali ed accessori di legge.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui all’art. 13 , comma
1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 , per il versamento al competente
ufficio di merito, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in
cui lo stesso sia dovuto), a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Conclusione
Così deciso il 12 novembre 2024.
Depositata in Cancelleria il 17 dicembre 2024.

Responsabilità professionale dell’avvocato che instaura tardivamente l’azione di disconoscimento della paternità.

Tribunale Brescia, Sez. II, Sent., 20/01/2025, n. 256
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di BRESCIA
SEZIONE SECONDA CIVILE
nella persona del Giudice dott.ssa Elena Fondrieschi ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
Nella causa civile di 1 GRADO iscritta al n. r.g. 18234/2019 promossa da:
P1 , con l’avv. Bruno Liberti
ATTORE
contro
C1 , con gli avv.ti Giovanna Aucone e Sergio Ferrari
CONVENUTO
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con atto di citazione notificato in data 10.12.2019, il sig. P1 conveniva in
giudizio l’avv. C1 deducendo quanto segue.
Nel mese di settembre 2009 il sig. P1 si rivolgeva all’avv. C1 al fine di
chiedergli assistenza professionale relativa alla procedura di separazione
promossa dalla ex moglie, X1 r.g. 14159/2009 e altresì per la causa di
disconoscimento della secondogenita X2 ,r.g. 18638/2010 (docc. 1 e 2).
L’avv. C1 predisponeva la comparsa di costituzione e risposta con la quale non
si opponeva alla domanda di separazione ma si opponeva alla richiesta
presentata dalla sig. X1 circa l’assegnazione della casa coniugale e di un
assegno di mantenimento (doc. 3).
In data 1.2.2009 all’udienza presidenziale veniva assegnata provvisoriamente
la casa coniugale cointestata ai coniugi alla sig.ra X1 ed inoltre, veniva posto a
carico del sig. P1 l’obbligo di contribuire al mantenimento della moglie
mediante assegno mensile di 400,00 curo (doc. 4).
In data 1.12.2009 l’avv. C1 informava fattore in merito alle decisioni prese nel
corso dell’udienza camerale ma lo stesso avrebbe omesso di informarlo circa la
possibilità di impugnare il provvedimento di assegnazione mediante reclamo
alla Corte d’Appello (doc. 5).
Nel mese di gennaio 2010. il sig. P1 ha, quindi, dovuto lasciare la casa
coniugale per trasferirsi presso l’abitazione della propria madre,
corrispondendo alla stessa la somma annua di 2.400,00 euro a titolo di
indennità per vitto e alloggio (doc. 8).
Successivamente, l’avv. C1 depositava una nota integrativa autorizzata datata
22.1.2010 (doc. 6) con la quale chiedeva la revoca immediata del
provvedimento di assegnazione della casa coniugale, ma tale richiesta sarebbe
pervenuta oltre la scadenza dei termini per proporre il reclamo.
Con sentenza del 19.6.2013 il Tribunale di Brescia modificava il provvedimento
di assegnazione (doc. 7) stabilendo “quanto alla domanda di assegnazione
della casa coniugale in comproprietà, è appena il coso di evidenziare che il
provvedimento di assegnazione viene adottato solo nel caso in cui vi siano figli
minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti”.
Inoltre lamentava che l’Avv. C1 avrebbe omesso di eccepire l’incapacità a
testimoniare della sig.a X2 nel procedimento di separazione.
L’attore deduceva di aver subito un danno patrimoniale pari a 29.000,00 euro
di cui 20.600,00 euro corrisposti a titolo di vitto e alloggio alla propria madre
da gennaio 2010 a settembre 2018, data coincidente con il decesso della
stessa ed inoltre, sarebbe stato privato di un potenziale guadagno da parte
della ex moglie in relazione al godimento esclusivo della casa coniugale per un
importo complessivo non inferiore a 8.400,00 euro (metà del canone locatizio
percepibile).
Deduceva inoltre che avrebbe subito un danno non patrimoniale quantificabile
in non meno di 25.000,00 euro a causa di un trauma psicologico conseguente
al cambiamento radicale delle proprie abitudini che lo avrebbe costretto a
ricorrere all’utilizzo di ansiolitici e calmanti (doc. 9).
In data 18.1.2019, il sig. P1 avanzava richiesta di risarcimento danni all’avv.
C1 (doc. 12), il quale rispondeva mediante missiva del 31.5.2019 affermando
di aver proposto allo stesso la possibilità di presentare reclamo avverso il
provvedimento presidenziale ma che lo stesso si sarebbe rifiutato di procedere
in tal senso (doc. 13).
Deduceva altresì che l’avv. C1 avrebbe predisposto tardivamente l’atto di
citazione in merito all’azione di disconoscimento di paternità della figlia X2
(doc. 14) e che tale procedimento si sarebbe concluso con una dichiarazione di
intervenuta prescrizione dell’azione con condanna del sig. P1 alla refusione
delle spese legali nei confronti della figlia e della ex moglie per un totale
complessivo di 17.128,00 euro (spese legali, liquidate in favore della figlia in
complessivi Euro 7.100,00 oltre accessori e nei confronti della ex moglie X1 in
ulteriori Euro 6.400,00 oltre accessori) ed inoltre, tale provvedimento gli
avrebbe precluso definitivamente la possibilità di far accertare giudizialmente
l’effettiva paternità della figlia X2 e ciò gli avrebbe comportato un danno non
patrimoniale quantificabile in non meno di 20.000,00 euro.
Deduceva altresì di aver corrisposto all’avv. C1 l’importo di 7.324,00 euro a
titolo di compenso professionale e ne chiedeva la ripetizione a causa
dell’asserita condotta negligente del professionista.
Chiedeva in via principale, di accertare la responsabilità professionale dell’avv.
C1 e per l’effetto, condannarlo al risarcimento di tutti i danni subiti dall’attore,
quantificati in complessivi 98.452,80 euro o nella diversa somma che venisse
accertata in corso di causa, oltre interessi e rivalutazione monetaria dalla data
del comportamento negligente al saldo effettivo.
L’avv. C1 ritualmente costituitosi in giudizio, deduceva di aver espletato
diligentemente il proprio mandato professionale in quanto l’obbligazione
dell’avvocato costituisce un’obbligazione di mezzi e non di risultato, pertanto, il
professionista avrebbe l’obbligo di mettere in atto le condizioni necessarie a
consentire al cliente la realizzazione dello scopo perseguito ma non a
conseguire il risultato.
Esponeva inoltre, di aver informato il sig. P1 circa la possibilità di esperire
reclamo avverso il provvedimento presidenziale dell’1.12.2009 ma che costui si
sarebbe rifiutato di procedere in tal senso non volendo sostenere ulteriori costi.
Deduceva altresì di aver reso edotto l’attore di essere decaduto dall’azione di
disconoscimento della paternità della figlia X2 ma che, nonostante ciò, il sig.
P1 avrebbe deciso di procedere ugualmente con la causa ed inoltre, lo stesso
non avrebbe fornito clementi atti a dimostrare che quest’ultimo avrebbe avuto
notizia degli adulteri della moglie solo in epoca recente.
Rappresentava inoltre la mancanza di prova circa il nesso causale tra il danno
lamentato dall’attore e la condotta asseritamente negligente del convenuto.
In merito al quantum domandato dall’attore, in relazione all’indennità di vitto e
alloggio asseritamente corrisposta dallo stesso alla madre, deduceva che
l’attore non avrebbe provato di essersi trasferito presso l’abitazione della
madre, né tanto meno di aver effettuato dei versamenti alla stessa a titolo di
vitto e alloggio poiché le ricevute prodotte dall’attore avrebbero solo un valore
confessorio tra il sig. P1 e la sig.ra C2
Contestava altresì il quantum domandato dall’attore in riferimento al mancato
riconoscimento dell’indennità di occupazione della casa coniugale da parte della
moglie, poiché il parametro di riferimento utilizzato dal medesimo sarebbe
inappropriato ed inoltre, il sig. P1 non avrebbe fornito dei riscontri oggettivi in
merito.
Contestava inoltre la documentazione prodotta dall’attore al fine di dimostrare
il danno biologico asseritamente subito dallo stesso poiché si tratterebbe di una
consulenza stragiudiziale non assunta in contradditorio tra le parti.
Infine, contestava la richiesta di risarcimento avanzata dall’attore in merito
all’impossibilità di accertare giudizialmente l’effettiva paternità della figlia X2
poiché non si comprenderebbe la natura del danno né i criteri impiegati
dall’attore per la quantificazione dello stesso.
L’avv. C1 a conferma della correttezza della propria condotta professionale
esponeva che dopo l’esposto presentato dal sig. P1 l’Ordine degli Avvocati di
Brescia non ha dato seguito alla vicenda ed ha archiviato il procedimento.
Chiedeva in via principale, di accertare il corretto espletamento del mandato
difensivo allo stesso conferito da parte del sig. P1 accertare che nessun danno
è stato arrecato all’attore e per l’effetto, rigettare le domande attoree.
In via subordinata, nell’ipotesi di accoglimento della domanda attorea,
quantificare i danni nella sola misura che venisse accertata in corso di causa e
rigettare tutte le voci di danno che non risultassero accertate nell’an e nel
quantum.
La causa è stata istruita con l’assunzione di prova testimoniale e
successivamente, fissata a precisazione delle conclusioni, è stata trattenuta in
decisione con termini di legge per deposito di comparse conclusionali e di
replica.
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione
La responsabilità del prestatore di opera intellettuale, nel caso di specie
l’avvocato, per un’attività professionale negligente nei confronti del cliente
richiede la dimostrazione del danno e del nesso causale tra il comportamento
del professionista e il pregiudizio subito dal cliente (Cass. 15743/2024 ).
Quindi, anche laddove il professionista abbia commesso un errore non sussiste
un’automatica responsabilità dello stesso ovvero un automatico diritto al
risarcimento in favore del cliente essendo la responsabilità dell’avvocato
configurabile solo nel caso in cui – eseguita una valutazione prognostica – è
possibile asserire con certezza che senza l’errore il cliente avrebbe ottenuto il
risultato sperato.
Ciò premesso, nel caso di specie si osserva che la censura circa la mancata
eccezione di incapacità a testimoniare della figlia X2 non coglie nel segno
perché l’azione di disconoscimento della paternità proposta dal P1 nei confronti
della figlia X2 non comportava l’incapacità di quest’ultima a testimoniare nella
causa di separazione giudiziale dei genitori ma piuttosto una valutazione circa
la sua attendibilità. Su questo aspetto risulta che l’avvocato C1 a pagina 8 della
comparsa conclusionale della causa di separazione (cfr. all. 1) in relazione
all’udienza di ammissione dei mezzi di prova del 4 luglio 2017 ha puntualmente
rilevato che “inutile dire che la signora X2 ha espresso da tempo, per tale fatto,
ampio astio e malanimo nei confronti dell’odierno esponente e, per ciò solo, si
reputa che le sue dichiarazioni andranno più opportunamente espunte dal
Collegio a pagina 3 della memoria di replica (cfr all. n. 2), il difensore ha
ribadito che: “la stessa risposta, peraltro, si impone anche rispetto alle
condotte che le figlie hanno descritto, invero genericamente, collocandole in un
tempo assai remoto. Sulla parzialità delle deposizioni da parte delle figlie si
richiama quanto già riferito nei precedenti atti e ci si limita ad osservare che,
nell’esaminare una domanda di addebito, si reputa debba essere
particolarmente scrupoloso il vaglio di attendibilità dei testimoni, che deve
tener conto dei rapporti familiari e personali” Quindi risulta documentato che il
convenuto ha contestato l’attendibilità delle dichiarazioni rese dalla sig.ra X2
invitando il giudice a non tenerne conto ai fini della decisione.
Dalla lettura della sentenza emessa a conclusione del giudizio di separazione
emerge che quanto testimoniato dalla sig.ra X2 durante il giudizio di
separazione non ha influito sulla decisione della causa. Invero, nella sentenza
si legge che “benché … entrambe le figlie della coppia, sentite come testi
abbiano riferito che la madre aveva sempre subito le violenze del padre,
spesso ubriaco, tale contegno del coniuge non può ritenersi causa della
separazione in quanto anch’esso risalente nel tempo, avendo le figlie dichiarato
che gli ultimi anni di violenza cui avevano assistito risalivano all’anno 2001”.
Per quanto riguarda la doglianza relativa alla mancata opposizione avverso il
“provvedimento ingiusto di assegnazione della casa coniugale emesso dal
Presidente in difetto dei presupposti di legge ” non avendolo reclamato si rileva
quanto segue.
La casa coniugale era cointestata ai coniugi, la figlia X2 sebbene maggiorenne
ed economicamente sufficiente risiedeva nella casa familiare con la madre e
nutriva grande avversità verso il padre che aveva intentato azione di
disconoscimento nei suoi confronti, la sig.ra X1 era priva di reddito, tanto che il
sig. P1 anche con la sentenza di separazione è stato condannato a
corrispondere un mantenimento mensile pari a Euro 375,00, mentre il P1 era
titolare di redditi propri oltre che proprietario di altri immobili (alito n. 12), tra
cui era comproprietario della casa in cui dopo il provvedimento si è trasferito
con la madre, “di un altro immobile sito in X dove trascorre le sue giornate …
aveva la disponibilità esclusiva di altri appartamenti delle figlie, mentre la
sig.ra X1 dispone solamente della casa coniugale” (verbale 20.11.2011 all. 14
convenuto). Nel periodo in cui è stato emesso il provvedimento presidenziale
una parte della giurisprudenza riconosceva al giudice ampia discrezionalità
nell’assegnare la casa familiare di cui i coniugi fossero comproprietari a quello
tra i due economicamente più debole, ciò anche in mancanza di figli minorenni
o maggiorenni non economicamente indipendenti con esso conviventi, al fine di
favorire il consorte privo di redditi propri, consentendogli così di mantenere il
tenore di vita goduto in costanza di matrimonio (Cass. civ. n. 870/1998 e Cass.
civ. n. 2070/2000 ).
Invero le successive richieste di modifica del provvedimento presidenziale
avanzate dalla difesa del P1 il 22.1.2010 (all-6 convenuto), il 20.11.2011 ed il
19.4.2012 (in quest’ultimo caso adducendo anche un peggioramento delle
condizioni di salute del P1 , non sono state accolte dall’allora giudice istruttore
dott.ssa F..
Non si ritiene, quindi, raggiunta la prova secondo la regola “del più probabile
che non ” che in caso di reclamo la Corte di Appello di Brescia avrebbe
senz’altro riformato il provvedimento sfavorevole al P1 assegnando a lui stesso
la casa. Sul punto si rileva che la stessa sentenza n. 2411/2013 non ha
assegnato ad alcuno dei comproprietari la casa di cui erano comproprietari.
La domanda altorea di risarcimento va respinta anche per assenza di prova del
danno. Quanto alla causa di separazione, Fattore ha dedotto di aver subito
danni rappresentati dall’indennità di vitto e alloggio che avrebbe corrisposto dal
gennaio 2010 al settembre 2018 alla propria madre per complessivi Euro
20.600,00 (Euro 2.400 annui); nonché dal mancato guadagno di Euro 8.400
che avrebbe potuto ricavare se l’immobile in comproprietà con la moglie
anziché essere goduto da quest’ultima in via esclusiva dal dicembre 2009 al
giugno 2013 fosse stato dato in locazione (valore locatizio dell’immobile
stimato in 400 euro considerato alla metà per 42 mensilità durante i quali l’ex
moglie ha goduto in via esclusiva dell’immoblle in comproprietà).
Quanto alla prima richiesta non si comprende come possa essere anche
astrattamente imputabile al convenuto il periodo dal giugno 2013 al 2018
posto che il fatto che l’attore non è tornato nel possesso dell’immobile
nonostante la sentenza n. 241 1/2013 costituisce elemento estraneo alla
condotta del convenuto per la quale il P1 ha incardinato con diverso difensore
causa r.g. 17148/2015. Coglie nel segno l’argomentazione del convenuto
laddove espone che l’attore per ottenere l’eventuale ristoro delle somme
corrisposte alla madre, avrebbe dovuto dimostrare che se fosse rimasto nella
propria casa avrebbe sostenuto una spesa in misura inferiore. In altri termini la
richiesta risarcitoria dell’attore avrebbe potuto trovare ristoro solo nel caso in
cui la difesa attorea avesse provato che in caso di revoca del provvedimento di
assegnazione della casa coniugale, nel medesimo lasso di tempo preso in
considerazione, il sig. P1 per il proprio mantenimento avrebbe speso una cifra
inferiore rispetto a quella sostenuta vivendo con la madre nella casa che era
cointestata ad entrambi (i testimoni indicati dall’attore hanno riferito soltanto
che il P1 avrebbe contribuito a pagare le utenze della casa materna e
all’acquisto di generi alimentari, provvedendovi personalmente o versando
alcune somme alla di lui madre: trattasi di costi che avrebbe sostenuto
quand’anche avesse continuato ad abitare nella casa coniugale di cui era
parimenti comproprietario al 50%).
La seconda richiesta si pone in termini ipotetici in quanto non è in alcun modo
certo come gli ex coniugi avrebbero gestito il bene in comproprietà nel quale
peraltro viveva anche la secondogenita X2 , non risulta quindi altamente
probabile che avrebbero posto in locazione l’immobile traendo il guadagno
asserito dall’attore.
Quanto alle conseguenze di carattere non patrimoniale si rileva che non è stata
espressamente dedotta la sussistenza di alcun danno biologico e che risulta
oltremodo difficile stabilire nel complesso quadro relazionale quali ripercussioni
sullo stato d’animo dell’attore siano potenzialmente connesse alla sola
assegnazione della casa alla ex moglie che viveva con la secondogenita verso
la quale era stato incardinata azione di disconoscimento della paternità.
Per quanto concerne la doglianza sul deposito tardivo della domanda di
disconoscimento della paternità della secondogenita X2 si rileva quanto segue.
Il professionista ha predisposto fatto di citazione per il disconoscimento nel
mese di ottobre 2010 e lo ha notificato il 4.11.2010 (doc. 14).
Lo stesso difensore, a pagina 3 della propria comparsa di costituzione datata
28.10.2009 e depositata nella causa di separazione (doc. 3), riportava
l’intenzione del sig. P1 di procedere per la richiesta di disconoscimento della
figlia X2: “Come egli ha di recente scoperto, ella da molti anni intrattiene,
senza scrupolo alcuno, diverse relazioni extraconiugali, tali da alimentare nel
marito fondati sospetti che la secondogenita X2 in realtà non sia neppure sua
figlia; il sig. P1 intende pertanto promuovere al più presto azione per il
disconoscimento di paternità”.
In sede istruttoria, durante l’esperimento dell’interrogatorio formale, è emerso
che al legale convenuto sin dai primi colloqui (il primo avvenuto a settembre
del 2009) era stato riferito dal cliente circa forte dubbio sulla paternità di una
delle due figlie (verbale dell’8.6.2021 : “il sig. P1 era venuto da me per la
separazione ricevuta dalla moglie perché l’assistessi in quel procedimento, in
tale occasione mi aveva parlato solo della separazione in vista della
costituzione per l’udienza. Non ricordo dopo quanto tempo, ma
successivamente il sig. P1 mi raccontò di avere dei sospetti circa la paternità di
una delle sue figlie. Io suggerii di chiedere alla collega T1 che assisteva la
moglie del P1 la disponibilità ad effettuare un esame del DNA”).
In data 9.6.2010 l’avv. C1 invia una missiva all’avv. T1 – legale della sig.ra X1 –
circa la scoperta delle relazioni extraconiugali della donna, da cui
presumibilmente sarebbe stata concepita la figlia X2 (v. sub. doc. 17).
Da quanto sopra documentato, in particolare, dalla comparsa di costituzione in
giudizio nella causa di separazione, emerge inequivocabilmente che nell’ottobre
del 2009 il P1 avesse conoscenza dell’adulterio della moglie e che tale
circostanza fosse stata resa nota all’avv. C1 il quale la riportava nel proprio
atto del 28.10.2009. Ne consegue che fazione di disconoscimento è stata
tardivamente incardinata dal legale convenuto ex art. 244 c.c.
La difesa del convenuto si concentra sul fatto che il P1 sarebbe stato informato
della probabile eccezione di decadenza che l’ex moglie e la figlia avrebbero
sollevato in ordine alla data dell’effettiva scoperta dell’adulterio e che,
comunque, l’esito negativo del giudizio è dipeso dal fatto che “il cliente non è
stato in grado di fornire elementi utili a dimostrare di aver avuto notizia dei
tradimenti in epoca recente
Si impongono due ordini di considerazioni, da un lato rimane fermo il fatto che
l’avv. C1 ha dato avvio al procedimento di disconoscimento della paternità oltre
un anno dalla dichiarata (in comparsa di costituzione) scoperta e dall’altro che
comunque nella sentenza n. 1915/2013 è dato atto che l’eccezione di
decadenza è stata sollevata effettivamente dalle convenute e comunque
“avrebbe potuto essere rilevata d’ufficio ” e che “occorreva che il marito
dimostrasse non solo i tradimenti della moglie, ma soprattutto la data della
scoperta di questi da parte sua.
I capitoli di prova dell’attore, di cui va ribadita l’irrilevanza, erano tutti diretti a
dimostrare che la X1 dall’epoca della celebrazione del matrimonio, risalente al
maggio 1972, avesse intrattenuto relazioni extraconiugali.
Nessuna richiesta di prova orale è stata dedotta con riferimento alla recente
venuta a conoscenza delle condotte libertine della moglie”.
Quanto sopra dimostra che la tematica della decadenza dell’azione di
disconoscimento non è stata trattata con la dovuta diligenza dal professionista
incaricato che ha incardinato fazione certamente un anno dopo la scoperta e
nella stessa attività preparatoria e di predisposizione dell’atto non ha
adeguatamente approfondito una questione rilevabile anche d’ufficio senza
formulare capitoli di prova coerenti e senza aver dato atto di aver richiesto al
cliente puntuali spiegazioni sul punto. Appare, quindi, non pertinente che il
convenuto ora addebiti verso il P1 l’incapacità di costui di fornire elementi utili
sulla data della scoperta, quando, nemmeno dà atto di aver esaminato con
costui la questione e non ha dimostrato di aver colto l’essenzialità di formulare
adeguata prova a riguardo.
Tali elementi provano l’inadempimento del convenuto e fondano la richiesta di
risarcimento del danno quantificato in Euro 17.128,80 oltre interessi dal
18.1.2019 (data della prima richiesta risarcitoria doc. 12) ovvero l’importo
dovuto a titolo di spese legali liquidate in soccotnbenza in favore della P2 oltre
alla restituzione dei compensi per questa causa versati all’avv. C1
Su quest’ultimo punto risulta provato dai doc. 40-41 e 42 che l’attore ha
versato l’importo di euro 7.324,00 all’avv. C1 direttamente o ai suoi stretti col
laboratori. Dalle ricevute prodotte, infatti, è riportata la dicitura degli acconti
versati, cui segue la data del pagamento, ed accanto la firma dell’avv. C1 dallo
stesso riconosciuta in sede di interrogatorio formale oppure quella dei suoi
collaboratori. Costoro, avv.ti C. e P., sentiti come testimoni hanno negato di
aver ricevuto le predette somme, pur riconoscendo la paternità delle firme
siglate a fianco alle varie diciture di acconto per conto dell’avv. C1 Quanto
riferito appare inverosimile anche considerato che dalla semplice visione dei
documenti allegati sub doc. 40, 41, 42, è possibile notare come l’inchiostro sia
uniforme per ogni riga, il che fa ben intendere come sia la scritta “Acconto 00
in data…” che la sottoscrizione, siano state effettivamente eseguite con la
stessa penna. Ogni riga, infatti, è consecutiva all’altra, per cui le firme
successive risultano essere state apposte quando le precedenti risultavano già
esistenti. In assenza di prova della falsità dei documenti rileva che le
sottoscrizioni sono state effettivamente apposte dall’avv. C1 dall’avv. C. e
dall’avv. P. per conto del primo con dicitura “x M “; testi hanno confermato
l’autenticità delle loro firme nelle date di ricezione degli acconti indicati.
Dal momento che non è stata fatta espressa imputazione a quale causa si
riferisse l’importo complessivo di 7.324,00 considerato quanto liquidato nella
sentenza di disconoscimento e i valori in uso presso la terza sezione
dell’intestato Tribunale per le cause di separazione si liquida l’importo da
restituire in quanto riferibile alla causa di disconoscimento in Euro 5.500 oltre
interessi dal dovuto al saldo.
Non può invece essere riconosciuta l’ulteriore richiesta di risarcimento di danno
da perdita di chance di poter far accertare la verità biologica sulla paternità
della secondogenita X2 Invero la sentenza con cui il P1 è stato dichiarato
decaduto dall’azione di disconoscimento da atto che “dall’esame dei testi
indicati dalle convenute è emerso come da molti anni il marito accusasse la
moglie di tradimento e questo anche in presenza di terze persone (testi T2 e
T3 ; si consideri pure la denuncia querela sporta dalla X1 nei confronti del
marito nel maggio 1998 – quindi più di dieci anni prima l’indizio del presente
giudizio – sempre in relazione ad accuse di relazioni sentimentali con altri
uomini)”. Alla luce di tali considerazioni è inequivoco che data la realtà dei fatti
non si poneva alcuna occasione favorevole per un diverso accertamento e che
quindi non è stata la condotta del convenuto ad impedire all’attore di
conoscere la verità circa l’effettiva o meno paternità della secondogenita, già
all’epoca della notifica dell’atto di citazione non accertabile giudizialmente dato
il tempo trascorso dalla scoperta degli adulteri.
Le spese di lite seguono la soccombenza con condanna di parte convenuta alla
rifusione in favore di parte attrice delle spese di lite, liquidate in complessivi
Euro 5.838.55 di cui Euro 5.077,00 per compenso professionale (considerati
valori medi per fase studio, introduttiva, istruttoria e decisionale) ed Euro
761.55 per spese generali oltre iva, cpa, spese di notifica, contributo unificato
e marca da bollo.
P.Q.M.
Il Tribunale di Brescia, in composizione monocratica, definitivamente
pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita così
dispone:
Condanna il convenuto a corrispondere all’attore l’importo di Euro 17.128,80
oltre interessi legali dal 12.1.2019 al saldo.
Condanna il convenuto a restituire l’importo di 5.500 oltre interessi legali dalla
ricezione al saldo.
Condanna parte convenuta a rifondere a parte attrice le spese di lite, liquidate
come in parte motiva.
Conclusione
Così deciso in Brescia, il 20 gennaio 2025.
Depositata in Cancelleria il 20 gennaio 2025.

Patrocinio a Spese dello Stato: il compenso dell’avvocato non può essere liquidato in misura non adeguata al decoro professionale.

Tribunale Brindisi, Sent., 18/12/2024, n. 1828
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI BRINDISI
SEZIONE CIVILE
nella persona del Giudice Monocratico Dott. Antonio Sardiello
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta nel registro generale sotto il numero d’ordine 1415/2023
R.G.
TRA
(…) avv. (…) n. a X con studio in X (cod. fisc. (…)) in proprio rapp. e dif.
dall’avv. MC con studio in X (cod. fisc X
Ricorrente
contro
C1 in persona del Ministro pro tempore con sede in X (cod. fisc. X ex lege
domiciliato presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato con sede in
All’udienza del 20.11.2024 la causa, dopo la discussione, è stata riservata per
la decisione. Successivamente, sono pervenute note riepilogative.
Svolgimento del processo
L’avv. P1, con ricorso ai sensi del’art. 281-decies e ss. c.p.c., ha proposto, per
i motivi ivi dettagliatamente sviluppati, opposizione avverso il decreto di
liquidazione dei compensi emesso dal Tribunale di Brindisi, in data 28.03.2023,
comunicato a mezzo PEC in pari data, con il quale detto Tribunale ha liquidato
in favore dell’avv. P1 il compenso maturato quale difensore della sig.ra P2, nel
giudizio rubricato al numero di R.G. 3823/2020 e quantificato nella somma di
Euro 1.200,00 oltre accessori di legge.
Ha, pertanto, la ricorrente, rassegnando le seguenti conclusioni: “rigettata ogni
avversa istanza di contrario contenuto, revocare l’impugnato decreto,
provvedendo alla liquidazione del compenso spettante all’avv. P1 per le causali
di cui alla narrativa del presente ricorso in misura non inferiore a Euro
3.112,87, oltre 15% spese generali di studio e accessori di legge. Con vittoria
di spese e competenze del giudizio di opposizione.
La ricorrente ha lamentato che l’opposto provvedimento sarebbe errato sia
perché non avrebbe specificato l’iter seguito nella liquidazione, sia perché non
in linea con i parametri forensi, avendo riconosciuto somme inferiori ai minimi
e non adeguate all’effettiva attività svolta, all’esito della lite ed al decoro della
professione.
Il C1 non si è costituito.
All’udienza del 20.11.2024 la causa è stata riservata per la decisione.
Successivamente, sono pervenute note riepilogative.
Motivi della decisione
Il ricorso è fondato e merita il rigetto per i motivi di seguito indicati.
L’avv. P1 è stata difensore della sig.ra P2 nel procedimento innanzi al Tribunale
di Brindisi RG 11.3823/2020, promosso dalla predetta nei confronti del sig. P3
, avente ad oggetto la separazione fra coniugi.
La sig.ra P2 aveva, all’uopo, richiesto e ottenuto l’ammissione al beneficio del
patrocinio a spese dello Stato con Provv. 11.870 del 2020 del Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati di X , in data 27 ottobre 2020 all. 3.
Il suo L’avv. X , ha provveduto a svolgere tutta l’attività professionale
necessaria per la tutela dei diritti della propria assistita:
a) per la fase di studio: esame e studio degli atti a seguito della consultazione
con la cliente, ricerca documenti precedenti la costituzione in giudizio;
b) per la fase introduttiva del giudizio: redazione ricorso e autentica di firma in
procura, formazione del fascicolo e della posizione della pratica in studio,
deposito in uno agli allegati, esame provvedimento giudiziale di fissazione
udienza presidenziale, notificazione, esame della corrispondente relata, esame
atto di costituzione avverso, inclusi allegati, ulteriori consultazioni con la
cliente;
c) per la fase decisionale: partecipazione udienza presidenziale con
trasformazione del rito in consensuale per raggiunta conciliazione
giudiziale/transazione della controversia, esame del provvedimento conclusivo
del giudizio, ritiro del fascicolo, trascrizione del decreto n. cron. 36/2022 in
data 4.1.2022 (con assegnazione della casa coniugale) presso i registri
immobiliari all. 4 e 5.
Il raggiungimento dell’accordo tra le parti è avvenuto grazie ad una laboriosa
attività di mediazione e collaborazione dei difensori che, con un’intensa attività
stragiudiziale, sono riusciti a placare l’accesa conflittualità fra i coniugi.
Conclusa l’attività difensiva, con istanza in data 5 marzo 2023 l’avv. P1 ha
richiesto al Tribunale la liquidazione delle proprie competenze, come da nota
spese depositata telematicamente il 13.03.2023 e redatta in riferimento allo
scaglione “Indeterminabile – complessità bassa”.
Secondo i valori-base indicati nel D.M. n. 55 del 2014 per l’attività
effettivamente svolta delle fasi di studio, introduttiva e decisionale (per come
sopra dettagliatamente descritta), con l’aumento del 25% dell’importo previsto
per la fase decisionale, stante il raggiungimento dell’accordo (art.46 D.M. n. 55
del 2014 ), si va a determinare un compenso complessivo pari a Euro 6.225,75
che, con l’applicazione della decurtazione del 50% ex art. 130 D.P.R. n. 15 del
2002, si riduce a Euro 3.112,87 oltre 15% spese gen. di studio e accessori di
legge.
Con Provv. in data 28 marzo 2023, comunicato a mezzo PEC in pari data, il
Tribunale di Brindisi così ha provveduto sulla predetta istanza:
“…LIQUIDA
in favore dell’avv. (…) le somme di seguito specificate: fase di studio Euro
600,00, fase introduttiva Euro 500,00, fase decisoria Euro 900,00; oltre Euro
400,00 quale aumento per transazione; totale Euro 2.400,00, ridotto nella
misura del 50% ai sensi dell’art.130 D.P.R. n. 115 del 2002 = Euro 1.200,00
oltre spese generali al 15%, iva e cap come per legge….”.
Ha lamentato la ricorrente che, nel liquidare l’attività da lei svolta nel sopra
citato giudizio, il Tribunale ha utilizzato (così come richiesto nell’istanza di
liquidazione dello stesso difensore e nell’allegata nota specifica) valori tariffari
relativi a cause di valore indeterminabile di complessità bassa operando,
tuttavia, una riduzione del compenso base – costituito dal valore medio dei
parametri di liquidazione (art. 4 del D.M. n. 55 del 2014 ) – che risulta del
tutto ingiustificata.
Deve convenirsi che l’art. 4 del D.M. n. 55 del 2014 , per come da ultimo
novellato col D.M. n. 37 del 2018 , ha introdotto limiti ben precisi al potere
giudiziale di riduzione dei compensi: in particolare, tenuto conto del parametro
medio/base, il Giudice non può, ridurre, in ogni caso, il compenso dell’avvocato
in misura superiore al 50%.
Cosicché la riduzione di cui al combinato disposto degli artt. 82 e 130 del
D.P.R. n. 115 del 2002 giammai potrà essere superiore al 50% del parametro
base.
Lo ha confermato la Suprema Corte di Cassazione che con la sentenza n.10438
del 19 aprile 2023 – qui allegata per facilità di consultazione all. 7 – ha
affermato il seguente principio di diritto: “Ai fini della liquidazione in sede
giudiziale del compenso spettante all’avvocato nel rapporto col proprio cliente,
in caso di mancata determinazione consensuale, come ai fini della liquidazione
delle spese processuali a carico della parte soccombente, ovvero in caso di
liquidazione del compenso del difensore della parte ammessa al beneficio del
patrocinio a spese dello Stato nella vigenza dell’art.4 , comma 1, e art.12 ,
comma 1, del D.M. n. 55 del 2014 , come modificati dal D.M. n. 37 del 2018 , il
giudice non può in nessun caso diminuire oltre il 50 per cento i valori medi di
cui alle tabelle allegate”.
A tale interpretazione si perviene, altresì, in maniera sistematica vista anche la
previsione dell’art.13 bis introdotto nella L. n. 247 del 2012 secondo cui la
corresponsione del compenso professionale deve essere proporzionata alla
quantità e qualità della prestazione resa, tenendo conto della natura, del
contenuto e delle caratteristiche dell’attività legale effettivamente e
concretamente svolta nonché della coerenza con i compensi previsti dal D.M.
del 10 marzo 2014, n. 55 .
D’altro canto la stessa Suprema Corte, in più pronunce anche recenti, ha
statuito che il potere discrezionale riconosciuto al Giudice nella determinazione
del compenso dell’avvocato “non può condurre ad una liquidazione che, pur nel
rispetto delle indicazioni dell’art.4 del D.M. n. 55 del 2014 , remuneri l’opera
del difensore, al netto delle spese vive, con una somma non consona al decoro
professionale che l’art.2233 c.c. pure impone di considerare” (Cass. Civ. ord.
n.24492 del 30.11.2016 ).
E’ accaduto, invece, nel caso di specie che il provvedimento di liquidazione
abbia operato una duplice diminuzione, prima decurtando il compenso richiesto
(in conformità col parametro base) e conducendolo a misura perfino inferiore ai
minimi parametrici e poi, ulteriormente, riducendolo della metà in termini
percentuali, in aperta violazione del D.M. n. 55 del 2014 e dei principi sopra
espressi.
Alla luce di tutto quanto esposto il compenso professionale spettante all’avv.
P1 per l’attività prestata in favore della sig.ra P2 nel procedimento innanzi al
Tribunale di Brindisi rubricato al numero di R.G. 3823/2020 dovrà essere
liquidato in misura non inferiore a C 3.112,87, oltre 15% spese generali di
studio e accessori di legge, come richiesto dallo stesso difensore con l’istanza
di liquidazione, come da seguente prospetto:
Tabelle: 2014-2018
Competenza: Giudizi di cognizione innanzi al tribunale
Valore della Causa: Indeterminabile – complessità bassa
Fase Compenso
Fase di studio della controversia, valore medio: Euro 1.620,00
Fase introduttiva del giudizio, valore medio: Euro 1.147,00
Fase decisionale, valore medio: Euro 2.767,00
Compenso tabellare (valori medi) Euro 5.534,00
Aumento del 25 % su Euro 2.767,00 per conciliazione giudiziale o transazione
della controversia (art. 4, comma 6) Euro 691,75
Compenso maggiorato comprensivo degli aumenti Euro6.225,75
Riduzione del 50 % su Euro 6.225,75 per gratuito patrocinio (art. 130 D.P.R.
n. 115 del 2002 )
Compenso al netto delle riduzioni Euro 3.112,87
PROSPETTO FINALE
Compenso tabellare Euro 5.534,00
Totale variazioni in aumento + Euro 691,75
Totale variazioni in diminuzione – Euro 3.112,88
Compenso totale Euro3.112,87
Spese generali ( 15% sul compenso totale, già ridotto del 50 ) Euro 466,93.
Somma da liquidare, in riforma del decreto di liquidazione opposto Euro
3.579,80.
Spese irripetibili del presente giudizio, in considerazione della mancata
costituzione del C1 opposto.
P.Q.M.
il Tribunale di Brindisi
nella persona del Giudice Monocratico Dott. Antonio Sardiello
definitivamente, decidendo sul ricorso, ai sensi dell’art. 281-decies e ss.
c.p.c., depositato telematicamente in data 28.4.2023, dall’avv.to EB , avverso
il decreto di liquidazione dei compensi emesso dal Tribunale di Brindisi, in data
28.03.2023, comunicato a mezzo PEC in pari data, con il quale detto Tribunale
ha liquidato in favore dell’avv. (…) il compenso maturato quale difensore della
sig.ra E2 nel giudizio rubricato al numero di R.G. 3823/2020 e quantificato
nella somma di Euro 1.200,00 oltre accessori di legge, così provvede:
1) Revoca l’impugnato decreto e liquida il compenso spettante all’avv. (…) ,
per le motivazioni di cui innanzi, in Euro 3.579,80, comprensiva della somma
del 15% per spese generali, oltre accessori come per legge.
2) Pone il suddetto pagamento a carico dell’Erario, autorizzando la emissione
del relativo mandato di pagamento
3) Spese del presente giudizio irripetibili, stante la mancata costituzione del C1
resistente.