Il giudice può estendere l’obbligo di preventiva concertazione a tutte le spese straordinarie “a garanzia di entrambi i genitori ed al fine di evitare eventuali fonti di contenzioso tra le parti”

Cass. civ. Sez. VI – 1, 23 ottobre 2017, n. 25055
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12328/2017 R.G. proposto da:
B.B., rappresentato e difeso dall’Avv. Marco Tonon, con domicilio eletto in Roma, largo L. Fregoli, n. 8, presso lo studio degli Avv. Enrico Sales e Rosario Salonia;
– ricorrente –
contro
R.F.;
– intimato –
avverso il decreto della Corte d’appello di Venezia depositato il 7 novembre 2016;
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 26 settembre 2017 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.
Svolgimento del processo
che B.B. ha proposto ricorso per cassazione, per un solo motivo, avverso il decreto del 7 novembre 2016, con cui la Corte d’appello di Venezia ha accolto parzialmente il reclamo proposto da R.F. avverso il decreto emesso il 7 giugno 2016, ponendo a carico di ciascun genitore, nella misura del 50%, le spese straordinarie (es., mediche, scolastiche, sportive e/o ricreative) necessarie per i figli minori R.A., L. e F., documentate e previamente concordate tra le parti, confermando nel resto la decisione impugnata;
che il R. non ha svolto attività difensiva;
che il Collegio ha deliberato, ai sensi del Decreto del Primo Presidente del 14 settembre 2016, che la motivazione dell’ordinanza sia redatta in forma semplificata.
Motivi della decisione
che con l’unico motivo d’impugnazione la ricorrente censura il decreto impugnato per aver incluso tra le spese da concordare preventivamente non soltanto quelle sportive e/o ricreative, ma anche quelle mediche e scolastiche, che non costituivano oggetto del reclamo, e per avere in tal modo frainteso la portata della decisione di primo grado, che aveva previsto l’obbligo di concordare le sole spese sportive e/o ricreative che comportassero un esborso superiore ad Euro 200,00, senza considerare che il genitore affidatario dei figli minori non ha l’obbligo di concertare con l’altro genitore l’effettuazione e la determinazione delle spese straordinarie, nei limiti in cui le stesse non implichino decisioni di maggior interesse per i figli;
che, nella parte riflettente il vizio di ultrapetizione, il motivo è infondato, dovendosi escludere che, ai fini della determinazione delle modalità con cui il ricorrente deve contribuire al mantenimento dei figli, collocati presso l’altro genitore, il decreto impugnato incontrasse un limite nelle censure rivolte alla decisione di primo grado, in quanto, trattandosi di provvedimenti a tutela dei figli minori, trova applicazione il principio, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in tema di separazione e divorzio, ma riferibile anche ai figli di genitori non coniugati, secondo cui il criterio fondamentale cui devono ispirarsi i predetti provvedimento è rappresentato dallo esclusivo interesse morale e materiale della prole, previsto in passatodall’art. 155 c.c.ed oggi dall’art. 337-ter, con la conseguenza che il giudice non è vincolato dalle richieste avanzate dai genitori o dagli accordi intervenuti tra gli stessi (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 1, 22/05/2014, n. 11412; 20/06/2012, n. 10174; 18/03/2010, n. 6606; 3/08/2007, n. 17043);
che, nel censurare l’imposizione a suo carico dell’obbligo di concordare le spese straordinarie, la ricorrente richiama il principio, ripetutamente affermato da questa Corte in riferimentoall’art. 155 c.c., nel testo anteriore alle modificazioni introdotte dalD.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, secondo cui il carattere straordinario della spesa non implica necessariamente un obbligo di concertazione tra i genitori, ravvisabile soltanto in riferimento alle spese che implichino decisioni di maggiore interesse per i figli (come quelle imposte da eventi eccezionali ed imprevedibili), in relazione alle quali è configurabile un onere d’informazione a carico del genitore affidatario, affinché l’altro genitore possa partecipare alla decisione, mentre riguardo alle scelte attinenti ai fatti ordinari della vita del minore (come quelle in materia d’istruzione), in relazione ai quali è previsto un dovere di vigilanza del genitore non affidatario, spetta a quest’ultimo il potere-dovere di attivarsi nei confronti dell’altro genitore per concordare la scelta e, in difetto, ricorrere al giudice (cfr. Cass., Sez. 6, 30/07/2015, n. 16175; Cass., Sez. 1, 26/09/ 2011, n. 19607; 29/05/1999, n. 5262);
che nell’enunciare il predetto principio, applicabile anche a seguito della sostituzione dell’art. 155 cit. conl’art. 337-ter c.c., introdotto dalD.Lgs. n. 154 del 2013, la giurisprudenza di legittimità ha peraltro precisato che esso non ha carattere inderogabile, essendo sempre possibile, ai sensi del secondo e dell’art. 155, comma 3 (oggi sostituiti dal secondo e dell’art. 337-ter, comma 3), che il giudice determini, oltre alla misura, anche le modalità con cui il genitore non affidatario deve contribuire al mantenimento dei figli, in modo difforme da quanto previsto in linea di principio dalla legge (cfr. Cass., Sez. 1, 27/04/2011, n. 9376; 28/01/2009, n. 2182);
che, nella specie, come si evince dalla motivazione del decreto impugnato, l’estensione dell’obbligo di preventiva concertazione a tutte le spese straordinarie, ivi comprese quelle mediche e scolastiche, è stata disposta “a garanzia di entrambi i genitori ed al fine di evitare eventuali fonti di contenzioso tra le parti”, in considerazione dell’elevata conflittualità in atto tra le stesse, la cui sottolineatura, giustificando la deroga apportata al regime legale, comporta l’infondatezza delle censure sollevate dal ricorrente;
che il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell’intimato;
che, trattandosi di procedimento esente dal contributo unificato, non trova applicazione delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1-quater, inserito dallaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Motivazione semplificata.
Così deciso in Roma, il 26 settembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2017

La riduzione del mantenimento decorre dalla pronuncia di modifica

Cass. civ. Sez. VI – 1, 24 ottobre 2017, n. 25166
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
ORDINANZA
sul ricorso 26509/2015 proposto da:
B.N., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FILIPPO CORRIDONI 15, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO BURIGANA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato SVETLANA PERKOVIC;
– ricorrente –
contro
G.L.L.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 3037/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/05/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 26/09/2017 dal Presidente Consigliere Dott. ANDREA SCALDAFERRI.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che B.N. ricorre con due motivi per la cassazione della sentenza in epigrafe con cui la Corte di appello di Roma, nell’ambito del procedimento di separazione personale dei coniugi, ha modificato le condizioni di affido condiviso dei figli avuti dal matrimonio contratto con G.L.L., riducendo la misura dell’assegno di mantenimento della prole dovuto alla odierna ricorrente;
che l’intimato G.L.L. non ha svolto difese;
considerato che con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione degliartt. 444, 445 e 447 c.c., deducendo l’erroneità della sentenza impugnata laddove ha fissato la decorrenza della riduzione dell’assegno di mantenimento a lei dovuto dal padre dei figli avuti in costanza di matrimonio dal (OMISSIS), anziché dalla data di efficacia della sentenza, nonostante l’irripetibilità del contributo per la natura alimentare ad esso attribuibile;
che con il secondo motivo lamenta la violazione e/o falsa applicazione degliartt. 91 e 92 c.p.c., deducendo l’erroneità della sentenza impugnata laddove aveva posto per i 2/3 a carico di essa ricorrente le spese del giudizio di appello, allorquando sussistevano giuste ragioni per l’integrale compensazione delle spese stante il complessivo esito del giudizio;
ritenuto che il primo motivo di ricorso va accolto, avendo questa Corte più volte affermato che, in tema di separazione personale, la riduzione dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge e dei figli decorre dal momento della pronuncia giudiziale che ne modifica la misura, non essendo rimborsabile quanto percepito dal titolare di alimenti o mantenimento (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 15186 del 20/07/2015; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 13609 del 04/07/2016);
che il secondo motivo è assorbito, tenuto conto del dispostodell’art. 336 c.p.c.;
che pertanto si impone la cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto;
che può decidersi nel merito ai sensidell’art. 384 c.p.c., non essendovi necessità di ulteriori accertamenti di fatto, statuendo che la decorrenza della riduzione dell’assegno di mantenimento per i figli va fissata al 18/05/2015, data di pubblicazione della sentenza impugnata;
che la natura della causa e il suo complessivo esito (che vede entrambe le parti soccombenti) consentono la compensazione delle spese di entrambi i giudizi di merito;
che, in assenza di attività difensiva dell’intimato, non si provvede sulle spese di questo giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo; cassa il provvedimento impugnato e, decidendo nel merito, fissa al 18 maggio 2015 la decorrenza della riduzione dell’assegno di mantenimento dovuto dal G. alla B. per il mantenimento dei figli; compensa tra le parti le spese di entrambi i giudizi di merito.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi riportati nella sentenza.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 settembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 24 ottobre 2017

L’autosufficienza economica è il solo parametro da utilizzare ai fini della valutazione del diritto al riconoscimento dell’assegno di divorzio

Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 ottobre 2017, n. 23602
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
ORDINANZA
sul ricorso 28355/2015 proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MARCO FESTELLI;
– ricorrente –
contro
L.P.V., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ENRICO MARIA SINATRA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1254/2015 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 27/08/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 07/07/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO PIETRO LAMORGESE.
Svolgimento del processo

La Corte d’appello di Palermo, con sentenza 27 agosto 2015, in accoglimento del gravame di L.P.V., ha posto a carico di A.A. l’obbligo di versare all’ex coniuge un assegno divorzile di Euro 200,00 mensili, avendo ritenuto che la L.P., benché svolgesse un’attività lavorativa dipendente e le fosse stata assegnata la casa coniugale, non avesse redditi adeguati a conservare il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, tenuto conto del divario tra le retribuzioni delle parti e della necessità di riequilibrare le situazioni economiche degli ex coniugi.
Avverso questa sentenza A. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi; la L.P. ha resistito con controricorso e memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, succ. mod., per avere giustificato l’attribuzione dell’assegno divorzile per la presunta necessità di consentire all’ex coniuge di conservare il tenore di vita matrimoniale, mentre la funzione dell’assegno è esclusivamente assistenziale; la L.P. aveva mezzi e redditi che le consentivano di vivere un’esistenza autonoma e dignitosa, essendo stata assunta a tempo indeterminato, mentre egli aveva subito un peggioramento delle proprie condizioni economiche.
Il motivo è fondato.
La sentenza impugnata ha fatto applicazione di un orientamento interpretativo, in tema di verifica delle condizioni legali per l’attribuzione dell’assegno divorzile, che è stato recentemente superato da questa Corte (Cass. n. 11504 e n. 15481 del 2017), la quale ha enunciato il seguente principio: il giudice del divorzio, richiesto dell’assegno di cui allaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.5, comma 6, come sostituito dallaL. 6 marzo 1987, n. 74,art.10, nel rispetto della distinzione del relativo giudizio in due fasi: a) deve verificare, nella fase dell’an debeatur”, se la domanda dell’ex coniuge richiedente soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di “mezzi adeguati” o, comunque, impossibilità “di procurarseli per ragioni oggettive”), non con riguardo ad un “tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”, ma con esclusivo riferimento all’indipendenza o autosufficienza economica” dello stesso, desunta dai principali “indici” – salvo altri, rilevanti nelle singole fattispecie – del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri “lato sensu” imposti e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), della capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso e al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione; ciò sulla base delle pertinenti allegazioni deduzioni e prove offerte dal richiedente medesimo, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’altro ex coniuge; b) deve tener conto, nella fase del “quantum debeatur”, di tutti gli elementi indicati dalla norma (“condizioni dei coniugi”, “ragioni della decisione”, “contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune”, “reddito di entrambi”) e valutare “tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio” al fine di determinare in concreto la misura dell’assegno divorzile, sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione dell’onere della prova.
La Corte di merito ha accolto la domanda di assegno divorzile sulla base del mero “divario tra le retribuzioni delle parti” e della inadeguatezza dello stipendio percepito dalla L.P. “se raffrontato alla situazione economica in costanza di matrimonio”.
Tuttavia, non è il divario tra le condizioni reddituali delle parti al momento del divorzio né il peggioramento delle condizioni del coniuge richiedente l’assegno rispetto alla situazione (o al tenore) di vita matrimoniale, che possono giustificare di per sé l’attribuzione dell’assegno, ma la mancanza della “indipendenza o autosufficienza economica” del coniuge richiedente l’assegno. Infatti, nella fase del giudizio concernente man debeatur” (con la quale in nessun modo può essere confusa la fase del “quantum debeatur”), il coniuge richiedente l’assegno, per il principio di autoresponsabilità economica, è tenuto quale “persona singola” a dimostrare la propria personale condizione di non indipendenza o autosufficienza economica, sulla base degli indici sopra indicati in via orientativa. Alle condizioni reddituali dell’altro coniuge (unitamente agli altri elementi, di primario rilievo, indicati dalla norma) può aversi riguardo soltanto nell’eventuale fase della quantificazione dell’assegno, alla quale è possibile accedere solo nel caso in cui la fase dellman debeatur” si sia conclusa positivamente per il coniuge richiedente l’assegno.
Gli altri due motivi, riguardanti la valutazione del tenore di vita matrimoniale e del rilievo da attribuire all’assegnazione della casa coniugale, sono assorbiti.
In conclusione, la sentenza impugnata è cassata, in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’appello di Palermo, in diversa composizione, che dovrà fare applicazione dei principi sopra enunciati e provvedere sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri; in relazione al motivo accolto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Palermo, in diversa composizione, anche per le spese.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.
Così deciso in Roma, il 7 luglio 2017.
Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2017

Nel giudizio di separazione vale ancora il parametro del tenore di vita

Cass. civ. Sez. VI – 1, 11 settembre 2017, n. 21082
ORDINANZA
sul ricorso 5075-2015 proposto da:
M.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TIEPOLO 21, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO DE BELVIS, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato VITTORIA CUOCO;
– ricorrente –
contro
MA.GR., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARTIRI DE LA STORTA 39, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA GIGLIO, rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONIO BACCARI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 6412/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 20/10/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 05/05/2017 dal Consigliere Dott. MARIA ACIERNO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con sentenza resa in data 16-07-29-09/2010 il Tribunale di Roma, pronunciando sul ricorso per la separazione personale dei coniugi proposto da Ma.Gr. nei confronti di M.S., avendo già dichiarato con sentenza non definitiva la separazione, ha respinto le domande di addebito; ha determinato il contributo per il mantenimento della sig.ra Ma. in Euro 2500 mensili a decorrere dal mese successivo alla pubblicazione della sentenza, fermo quanto previsto per il passato (Euro 3500) con l’ordinanza presidenziale del 09/05/2007; ha revocato l’assegnazione della casa coniugale al marito; ha dichiarato inammissibili le domande restitutorie e risarcitorie.
La Corte d’appello di Roma, investita dell’impugnazione proposta dalla Ma., con sentenza n. 6412/2014 ha accolto parzialmente il gravame, respingendo la domanda di addebito proposta dalla medesima e rideterminando l’assegno di mantenimento posto a carico del M. nella misura di Euro 3500 anche per il periodo successivo alla pubblicazione della sentenza di primo grado. La Corte territoriale, esaminata la complessiva situazione reddituale e patrimoniale delle parti, ha rilevato, per quel che ancora interessa, che la notevole sproporzione esistente tra le rispettive condizioni economiche non consentiva alla Ma. il mantenimento del medesimo tenore di vita reso possibile durante il coniugio grazie all’attività lavorativa del M., il quale gode di una notevole disponibilità finanziaria grazie alle rilevanti entrate e alle proprietà immobiliari.
Avverso suddetta pronuncia propone ricorso per cassazione M.S. sulla base di due motivi, cui resiste con controricorso Ma.Gr..
Con il primo motivo viene lamentata la violazione, ai sensidell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5,dell’art. 116 c.p.c., quanto alla valutazione degli atti delle parti, dei documenti e degli accertamenti relativi alla ricostruzione delle complessive condizioni economiche degli ex coniugi.
Con il secondo motivo viene lamentata la violazione, in relazioneall’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5,dell’art. 156 c.c., in quanto la Ma. non ha mai provato che i propri mezzi economici fossero inidonei a mantenere il medesimo tenore di vita goduto durante il matrimonio. La Corte d’appello non ha peraltro valutato la circostanza che la Ma. ha capacità di produrre reddito, trovandosi nella condizione di poter svolgere un’attività lavorativa retribuita.
Le parti non hanno depositato memorie ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.
Il primo e secondo motivo, che possono esaminarsi congiuntamente in quanto logicamente connessi, sono inammissibili, dal momento che gli accertamenti di fatto posti a base della decisione impugnata sono censurati attraverso pure e semplici censure di merito, senza individuare fatti decisivi, oggetto di discussione tra le parti, il cui esame sarebbe stato omesso dai giudici d’appello ai sensidell’art. 360 c.p.c., n. 5. Va osservato, invero, che il controllo di cuiall’art. 360 c.p.c., n. 5, non riguarda la motivazione della sentenza ma concerne, invece, l’omesso esame di un fatto storico che abbia costituito oggetto di discussione ed abbia carattere decisivo, nel senso che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Ne deriva che l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla predetta norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (Cass. n. 24027/2016), risultando, d’altra parte, del tutto estranea all’ambito del vizi () di motivazione ogni possibilità per la Corte di Cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass. n. 2142/2017).
Nella specie risulta che la Corte d’appello ha motivato in maniera ampia, dettagliata e completa circa la condizione reddituale e patrimoniale delle parti sulla base di molteplici elementi istruttori, concludendo che, considerate le entrate personali della Ma., ella non è in grado di mantenere il tenore di vita goduto durante il coniugio. Invero, come correttamente rilevato dalla Corte territoriale, al fine della determinazione del quantum dell’assegno di mantenimento la valutazione delle condizioni economiche delle parti non richiede necessariamente l’accertamento dei redditi nel loro esatto ammontare, essendo sufficiente un’attendibile ricostruzione delle complessive situazioni patrimoniali e reddituali dei coniugi (Cass. n. 25618 del 07/12/2007, Rv. 600714 – 01).
Il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4000 per compensi e in Euro 100 per esborsi, oltre accessori di legge.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Se costituita una nuova famiglia (ancorchè venuta meno) il diritto all’assegno di divorzio si perde definitivamente

Cass. civ. Sez. VI – 1, 21 luglio 2017, n. 18111
ORDINANZA
sul ricorso 344/2016 proposto da:
F.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE PARIOLI, 55, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI CARTA rappresentata e difesa dall’avvocato SANDRO GRIMALDI;
– ricorrente –
contro
FR.RE.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 596/2015 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, depositata il 02/10/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 07/06/2017 dal Consigliere Dott. ROSA DI VIRGILIO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
Con sentenza del 18/9 – 2/10/2015, la Corte d’appello di Cagliari ha dichiarato insussistente il diritto di F.G. all’assegno divorzile ed ha confermato in Euro 400 mensili l’assegno a carico di Fr.Re. per il mantenimento del figlio M..
Per quanto ancora interessa, nello specifico, la Corte del merito, ritenuto la rilevanza, ai fini del diritto all’assegno di divorzio, della verifica della prosecuzione della convivenza con altro compagno della sig. F., ha evidenziato che nel ricorso introduttivo di primo grado il Fr. aveva fatto riferimento alla convivenza della moglie; questa non aveva sollevato contestazioni e solo in sede di comparizione aveva affermato che detta convivenza era venuta meno nel 2008, ma non aveva provato detta circostanza, come era onerata trattandosi di fatto nuovo allegato “costitutivo del diritto all’assegno divorzile e alla stregua del principio della vicinanza della prova”.
Ne conseguiva la perdita del diritto all’assegno.
Ricorre la F., sulla base di tre motivi.
L’intimato non ha svolto difese.
Considerato che:
Col primo motivo di ricorso, la ricorrente si duole della violazionedell’art. 2697 c.c., degli artt. 115, 116 e 167, in materia di contestazione e valutazione della prova, e degliartt. 183 e 190 c.p.c., in materia di determinazione del thema probandum, sostenendo che nel ricorso introduttivo il sig. Fr. non ha fatto menzione dell’instaurazione o prosecuzione della convivenza more uxorio della sig. F. con altra persona e di avere essa dichiarato, nella comparizione personale del 17/1/2010 avanti al Presidente del Tribunale, che la convivenza extra coniugale era cessata nel 2008 (quindi prima della instaurazione del procedimento di divorzio introdotto col ricorso del 5/10/2010), che il F. aveva fatto valere la mancata prova della cessazione della convivenza solo in comparsa conclusionale, infine che la Corte del merito avrebbe dovuto verificare la stabilità e continuità della eventuale convivenza.
Col secondo motivo, si duole la ricorrente della violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, per avere la Corte del merito omesso di accertare la sussistenza di una nuova famiglia ancorché di fatto, dotata dei caratteri della stabilità e continuità, quale presupposto giustificante l’esclusione dell’assegno. Col terzo motivo, la ricorrente denuncia la nullità della sentenza o del procedimento, per avere la Corte del merito posto a base della decisione una questione rilevata d’ufficio, ovvero l’asserita convivenza more uxorio, senza concedere il termine exart. 101 c.p.c., comma 2, per garantire il contraddittorio.
I tre motivi di ricorso, strettamente collegati, vanno valutati unitariamente e sono da ritenersi manifestamente infondati.
Nel suo nucleo essenziale, la tesi della ricorrente è basata sul rilievo processuale dell’introduzione da parte del Fr. solo in sede di comparsa conclusionale di primo grado della mancata prova della cessazione della convivenza della F., come accertata in sede di modifica delle condizioni di separazione con il decreto del Tribunale del 21/11/2008, da cui, secondo l’odierna ricorrente, la violazione del principio exart. 2697 c.c., l’introduzione da parte della Corte del merito di una questione rilevata d’ufficio (la prosecuzione della convivenza more uxorio), la violazione dell’art. 5 legge divorzile, per la mancata verifica delle caratteristiche dell’assunta convivenza. Di contro a detta pur articolata prospettazione, va in via assorbente rilevato che deve trovare applicazione il principio espresso nella pronuncia 6855/2015, declinato secondo la specificità del caso.
La pronuncia citata, come è noto, ha affermato che l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensidell’art. 2 Cost., come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
Ora, nella specie, il fatto rilevante della convivenza con altri da parte della sig. F. ha fatto parte del giudizio, per quanto dichiarato dalla stessa parte in sede di comparizione personale del 17/1/2010, anche se con l’aggiunta della cessazione della convivenza dal 2008, come poi ribadito anche in sede di costituzione di secondo grado, ma detta ulteriore circostanza non può ritenersi rilevante, volta che si ponga attenzione alla cesura che si è ormai determinata con l’instaurazione della nuova convivenza che non può essere posta nel nulla a seguito della prospettata cessazione della stessa, per il rilievo, già espresso nella pronuncia del 2015, che il diritto all’assegno non entra in fase di quiescenza, ma viene definitivamente eliso, di talché sono irrilevanti le successive evoluzioni del nuovo rapporto.
Ne consegue il rigetto del ricorso, stante la correttezza della decisione impugnata nella sua statuizione finale, pur dovendosi correggere la motivazione nei sensi di cui sopra.
Non v’è luogo alla pronuncia sulle spese, non essendosi costituito l’intimato.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso.
Vista l’ammissione della ricorrente al patrocinio a spese dello Stato, non si applica ilD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nell’ordinanza.

Il coniuge richiedente l’assegno di mantenimento può utilizzare nel giudizio di separazione l’estratto conto richiesto alla banca presso cui l’obbligato ha il conto

Cass. civ. Sez. VI – 1, 31 agosto 2017, n. 20649
ORDINANZA
sul ricorso 7694/2016 proposto da:
B.E., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la Cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE LEVONI;
– ricorrente –
contro
R.L.;
– intimata –
avverso l’ordinanza n. 1958/2015 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 28/12/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 12/06/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO PIETRO LAMORGESE.

Svolgimento del processo
Il Tribunale di Modena, con sentenza 7 aprile 2014, ha rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta da B.E. contro R.L., per avere illecitamente chiesto a Unicredit e ottenuto notizie relative al proprio estratto conto, poi utilizzate nella causa di separazione personale nei confronti della B., in violazione della normativa in tema di tutela della privacy e della riservatezza. L’appello è stato dichiarato inammissibile dalla Corte d’appello di Bologna, con ordinanza in data 28 dicembre 2015, perchè privo di una ragionevole probabilità di essere accolto (art. 348 bis c.p.c.).
B. ha proposto ricorso per cassazione, a norma dell’art. 348 ter c.p.c., comma 4; la R. non ha svolto difese.

Motivi della decisione
Con un unico motivo la ricorrente ha denunciato l’errata interpretazione di imprecisate norme delD.Lgs. n. 196 del 2003, in tema di privacy e trattamento dei dati sensibili.
Il ricorso è inammissibile. Con l’ordinanza impugnata la Corte bolognese ha richiamato la motivazione del Tribunale, secondo la quale, nel richiedere informazioni o documenti alla banca, la R. non aveva violato alcuna norma di legge né aveva tenuto un comportamento fraudolento; la Corte ha anche ritenuto che l’attore non avesse offerto alcuna indicazione circa il danno subito.
Tanto premesso, con il ricorso per cassazione, il B. ha censurato soltanto la prima ratio decidendi, lamentando l’illiceità del comportamento della convenuta R., ma non la seconda ratio, distinta ed autonoma, la quale è da sola sufficiente a sorreggere il provvedimento impugnato.
Il ricorso è inammissibile (v. Cass., sez. un., n. 7931/13 e 16602/2005).
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile.

Va revocata l’assegnazione della casa coniugale al genitore non più convivente con il figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente

Cass. civ. Sez. VI – 1, 28 settembre 2017, n. 22746
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
C.A., elettivamente domiciliata in Roma piazza del Fante 8, presso l’avv. Paolo Scipinotti che la rappresenta e difende, giusta procura speciale in calce al ricorso, e dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo al fax n. 06/3222741 e alla p.e.c. paoloscipinotti.ordineavvocatiroma.org;
– ricorrente –
nei confronti di:
G.V., elettivamente domiciliato in Roma, via Ippolito Nievo 61, presso l’avv. Giuseppina Menicucci che lo rappresenta e difende per delega a margine del controricorso e dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo al fax n. 06/89360453 e alla p.e.c. giuseppinamenicucci.ordineavvocatiroma.org;
– controricorrente –
avverso il Decreto n. 13095 del 2014 della Corte di appello di Roma, emesso il 23 ottobre 2013 e depositata il 5 novembre 2013, n. R.G.61732/10.
Svolgimento del processo
che:
1. La controversia concerne la richiesta del G. di modifica delle condizioni di divorzio al fine di ottenere il collocamento della figlia G.S., maggiorenne ma non ancora autosufficiente economicamente, presso di sé, con conseguente assegnazione della casa familiare e imposizione alla madre C.A. di un assegno di mantenimento in favore della figlia.
2. Il Tribunale di Roma ha accolto il ricorso ritenendo fondate le deduzioni del ricorrente circa il rapporto fortemente conflittuale fra madre e figlia e fissato in 150 Euro l’assegno di mantenimento a carico della C..
3. La Corte di appello ha respinto il reclamo della C. che ricorre ora per cassazione deducendo contrasto fra dispositivo e motivazione; illogicità e contraddittorietà della motivazione, nullità del decreto.
4. Si difende con controricorso G.V..
5. La ricorrente deposita memoria difensiva.
Motivi della decisione
che:
6. Con l’unico motivo di ricorso si rileva che la Corte di appello dopo aver affermato la fondatezza della censura della reclamante secondo cui la maggiore età di S. avrebbe dovuto precludere al giudice di primo grado la pronuncia sul collocamento, ha, tuttavia, ritenuto corretta la revoca dell’assegnazione della casa coniugale in favore della madre senza però riversare tali conclusioni nel dispositivo che si limita a rigettare il reclamo.
7. Il ricorso è inammissibile. Infatti esso non coglie né impugna la ratio decidendi della decisione della Corte distrettuale secondo cui “alla cessazione della convivenza tra genitore e figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente, conseguentemente alla scelta del primo di cambiare residenza – rispetto a quella già costituente casa coniugale consegue la revoca dell’assegnazione della casa coniugale per carenza dei relativi presupposti”. Nella specie la Corte di appello ha rilevato che, già dal 2007, la C. soggiornava regolarmente presso il suo nuovo compagno fuori Roma.
8. La Corte di appello ha precisato che il decreto reclamato merita di essere confermato ma ha attribuito, per quanto si è detto al precedente punto, rilevanza alla conferma del decreto reclamato solo per ciò che concerne la revoca dell’assegnazione in favore della C. della casa familiare e le statuizioni relative al contributo economico in favore di G.S..
9. Non vi è pertanto contraddizione fra dispositivo e motivazione perché la Corte di appello ha ritenuto tamquam non esset la previsione di collocamento della figlia maggiorenne presso il padre ma ha ritenuto invece rilevante la volontà di quest’ultima di continuare a vivere nella casa familiare insieme al padre e di conseguenza ha confermato la revoca dell’assegnazione alla madre della casa familiare e l’assegnazione della stessa al padre sino al raggiungimento della indipendenza economica della figlia S. con lui convivente.
10. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile con condanna della ricorrente alle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in Euro 3.600 di cui 100 per spese. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma delLo stesso art. 13, comma 1 bis.

Il danno da occupazione illegittima della casa coniugale da parte di un coniuge in danno dell’altro è in “re ipsa”

Cass. civ. sez. VI – 3, 6 settembre 2017, n. 20856
ORDINANZA
sul ricorso 16061/2016 proposto da:
V.L., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato LUCA MARCHESE;
– ricorrente –
contro
F.B.M.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA XX SETTEMBRE 3, presso lo studio dell’avvocato BRUNO NICOLA SASSANI, rappresentata e difesa dall’avvocato GIOVANNI IACOMINI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2208/2015 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 30/12/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 18/05/2017 dal Consigliere Dott. DANILO SESTINI. Dato atto che il Collegio ha disposto la motivazione semplificata.
Svolgimento del processo
che:
la sentenza impugnata ha confermato quella di primo grado nella parte in cui aveva condannato il M. a pagare alla V. la somma di 60.000 franchi svizzeri oltre interessi (a fronte dell’importo erogato dalla seconda al primo per la costruzione – su un terreno di proprietà del M. e del fratello – del fabbricato successivamente adibito a casa coniugale), mentre l’ha riformata nella parte in cui aveva rigettato la domanda di indennizzo avanzata dal M. per l’occupazione della ex casa coniugale da parte della medesima V.: su questo secondo punto, la Corte ha ritenuto che il danno fosse in re ipsa (con decorrenza dal passaggio in giudicato della sentenza di separazione, che aveva definitivamente escluso il diritto della moglie all’assegnazione della casa coniugale), fatta salva la necessità di liquidare il risarcimento dovuto in separato giudizio;
ha proposto ricorso per cassazione la V., affidandosi a due motivi che denunciano – rispettivamente – la violazione e/o falsa applicazione egliartt. 1277 e 1813 c.c.e la violazione e/o falsa applicazione degliartt. 1591, 1223 e 2056 c.c.;
ha resistito, con controricorso, F.B.M.C., in proprio e quale esercente la responsabilità genitoriale sulla minore M.M.A., entrambe eredi di M.G..
Motivi della decisione
che:
il primo motivo è inammissibile, in quanto non individua specifiche violazioni in iure relative alle norme richiamate, ma contesta la ricostruzione della vicenda della dazione della somma (di 60.000 franchi svizzeri) in termini di mutuo, sulla base di considerazioni che – senza denunciare violazioni di canoni ermeneutici o l’omesso esame di fatti decisivi – mirano a sostituire all’apprezzamento compiuto dalla Corte quello diverso proposto dalla ricorrente, così sollecitando la Corte ad una non consentita rivalutazione del fatto;
il secondo motivo – che censura la sentenza nella parte in cui ha affermato che il danno da occupazione illegittima di un immobile è in re ipsa e che richiama la giurisprudenza di legittimità di segno contrario – è infondato se si considera che l’affermazione della Corte si sostanzia nel richiamo a Cass. n. 20823/2015 e che tale pronuncia precisa come l’esistenza del danno sia comunque oggetto di una presunzione iuris tantum, superabile con prova contraria; ciò è conforme al più recente e condivisibile orientamento di legittimità secondo cui “nella ipotesi di occupazione “sine titulo” di un cespite immobiliare altrui, il danno subito dal proprietario per l’indisponibilità del medesimo può definirsi “in re ipsa”, purché inteso in senso descrittivo, cioè di normale inerenza del pregiudizio all’impossibilità stessa di disporre del bene, senza comunque far venir meno l’onere per l’attore quanto meno di allegare, e anche di provare, con l’ausilio delle presunzioni, il fatto da cui discende il lamentato pregiudizio, ossia che se egli avesse immediatamente recuperato la disponibilità dell’immobile, l’avrebbe subito impiegato per finalità produttive, quali il suo godimento diretto o la sua locazione” (Cass. n. 25898/2016);
il ricorso va pertanto rigettato;
le spese di lite seguono la soccombenza;
atteso che la ricorrente è ammessa al patrocinio a spese dello Stato, non sussistono le condizioni per l’applicazione delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater (cfr. Cass. n. 18523/2014).
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere alla controricorrente le spese di lite, liquidate in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge.

La prova della mera provenienza di somme da parte del padre dell’opponente non è sufficiente a superare la presunzione di cointestazione di cui all’art. 1854 c.c.

Cass. civ. Sez. II, 28 agosto 2017, n. 20452
ORDINANZA
sul ricorso 4057-2014 proposto da:
U.G.M. ((OMISSIS)), domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato EMANUELE CONTINO;
– ricorrente –
contro
S.M. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, V. FEDERICO CESI 72, presso lo studio dell’avvocato EGIDIO MARULLO, rappresentato e difeso dall’avvocato EZIO MARCON;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1403/2013 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 26/06/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/06/2017 dal Consigliere Dott. ORILIA LORENZO.
Svolgimento del processo
1 La Corte d’Appello di Torino, con sentenza 26.6.2013, ha confermato la decisione del primo giudice (n. 4223/2011 del locale Tribunale) che aveva respinto l’opposizione proposta da U.G.M. contro un decreto ingiuntivo per Euro 5.490,00 ottenuto dalla moglie S.M. a titolo di restituzione del 50% delle somme da lui prelevate da un conto corrente cointestato ai coniugi (in regime di comunione legale).
Per giungere a tale soluzione la Corte territoriale ha osservato che l’appellante non aveva superato la presunzione di comproprietà del danaro prelevato, ritenendo a tal fine ininfluenti i due capitoli di prova testimoniale articolati dall’opponente in primo grado.
2 U. ricorre per cassazione sulla base di un unico motivo a cui resiste con controricorso la S..
Motivi della decisione
Con l’unica censura si denunzia violazione degli artt. 115 e 167 cpc, nonchéart. 111 Cost., e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione riproponendosi la questione della non contestazione in ordine alla esclusione delle somme dalla comunione, a dire del ricorrente, erroneamente disattesa dai giudici di merito.
Il ricorso è inammissibile nella parte in cui denunzia il vizio di motivazione, che non può essere più dedotto come motivo di ricorso alla luce della nuova formulazionedell’art. 360 c.p.c., n. 5, (applicabile alla fattispecie in esame): oggi è possibile denunziare l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, ipotesi non ricorrente nel caso in esame e neppure dedotta.
In secondo luogo, sotto il profilo della violazione di legge, il ricorso è infondato perché, come la Corte d’Appello ha ben evidenziato, la S. aveva sempre rivendicato l’appartenenza del 50% delle somme e, d’altra parte, proprio su questo presupposto aveva agito in via monitoria.
Contrariamente a quanto si afferma in ricorso, la comparsa di costituzione della S. (peraltro ivi riportata integralmente) evidenzia proprio la volontà di contestare l’esclusiva appartenenza al marito delle somme da lui prelevate.
Ciò chiarito, come ripetutamente affermato da questa Corte, la cointestazione di un conto corrente tra coniugi attribuisce agli stessi, exart. 1854 c.c., la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto, sia nei confronti dei terzi che nei rapporti interni, e fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto; tale presunzione dà luogo ad una inversione dell’onere probatorio che può essere superata attraverso presunzioni semplici purché gravi, precise e concordanti – dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa (tra le varie, Sez. L, Sentenza n. 18777 del 23/09/2015 Rv. 637049; Sez. 3, Sentenza n. 4496 del 24/02/2010;Rv. 611861; Sez. 1, Sentenza n. 28839 del 05/12/2008 Rv. 605716).
Nel caso in esame, la Corte d’Appello ha ritenuto non assolto l’onere probatorio da parte dell’ U., ed ha considerato irrilevante il fatto che l’investimento fosse stato alimentato anche da un accredito proveniente dal padre dell’appellante, essendo ben possibile una elargizione fatta anche a favore della S., all’epoca ancora in buoni rapporti col coniuge (v. pag. 7): tale osservazione appare non solo logicamente coerente, ma anche giuridicamente corretta.
Per il resto, dietro lo schermo della violazione di legge (censura dedotta in assenza di una specifica illustrazione), il ricorso si risolve in realtà in una censura di tipo fattuale contro il ragionamento seguito dai giudici di merito per ritenere non assolto l’onere probatorio gravante sull’opponente – appellante (che aveva dedotto una situazione giuridica diversa da quella derivante dalla cointestazione).
In conclusione, il ricorso va respinto con addebito di spese al ricorrente, soccombente.
Trattandosi di ricorso successivo al 30 gennaio 2013 e deciso sfavorevolmente, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dellaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 -quater, del testo unico di cui alD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115- della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente grado di giudizio che liquida in complessivi Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi. Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1- quater, inserito dallaL. n. 228 del 2012,art.1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.

Nel divorzio e nella separazione, il tribunale quando la causa è matura per la decisione è tenuto a pronunciare (anche in mancanza di istanza di parte) sentenza non definitiva sullo status

Cass. civ. Sez. VI – 1, 31 agosto 2017, n. 20666
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
R.C.A.M., elettivamente domiciliata in Roma, via Cola di Rienzo 44, presso l’avv. Carla Maria Gentili, che la rappresenta e difende, giusta procura speciale in calce al ricorso, e dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo al fax n. 06/3236612 e alla p.e.c. carlamariagentili(at)ordineavvocatiroma.org;
– ricorrente –
nei confronti di:
D.d.R.A.P.M., elettivamente domiciliato in Roma, via F. Paulucci dè Calboli 1, presso l’avv. Stefania Ciaschi (fax 06/3741211, p.e.c. stefaniaciaschi(at)ordineavvocatiroma.org) che lo rappresenta e difende unitamente all’avv. Giovanna Conciò (p.e.c. giovannacondo(at)milano.pecavvocati.it, fax 02/54090127);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 430/2016 della Corte di appello di Roma, emessa il 10 dicembre 2015 e depositata il 24 gennaio 2016, n. R.G. 7640/2014.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
1. Con ricorso del 23 marzo 2012 il D.d.R.A.P.M. ha adito il Tribunale di Roma per ottenere la separazione giudiziale, con addebito alla moglie R.C.A.M. che si è costituita chiedendo a sua volta la dichiarazione di addebito a carico del marito. Entrambe le parti hanno formulato domande relative al regime di affidamento dei figli e al loro mantenimento. La R.C. ha chiesto altresì la imposizione al mensile di D.d.R. di un assegno mensile di mantenimento in suo favore.
2. Il Tribunale con sentenza non definitiva del 23/24 ottobre 2012 ha pronunciato la separazione giudiziale.
3. Ha proposto appello la R.C. per l’errata valutazione circa la sua adesione alla domanda di separazione e la sua rinuncia ai termini di cuiall’art. 109 c.p.c.; per il mancato accertamento circa l’effettiva irreversibilità della crisi coniugale e della intollerabilità della convivenza; per la asserita incostituzionalità della disciplina che consente la pronuncia della separazione con sentenza non definitiva in quanto in contrasto con gliartt. 3, 29 e 111 Cost..
4. D.d.R.A.P.M. si è costituito e ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità per difetto di interesse all’impugnazione e la condanna della R.C. exart. 96 c.p.c..
5. La Corte di appello ha respinto l’appello rilevando che con la novella introdotta conlegge n. 263/2005dell’art. 709 bis c.p.c., sussiste ormai l’obbligo e non più la sola facoltà per il giudice di pronunciare anche con sentenza non definitiva sullo status e ciò a prescindere dall’impulso di parte (Cass. civ. n. 10484/2012). Ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale e ha ritenuto accertata in base alle prospettazioni delle parti e all’esito del tentativo di conciliazione l’intollerabilità della convivenza. Ha infine condannato la R.C. exart. 96 c.p.c., comma 3.
6. Ricorre per cassazione la R.C. affidandosi a sei motivi con i quali ribadisce di non aver mai proposto o aderito alla domanda di separazione, rileva la mancata prospettazione delle pretese ragioni di intollerabilità della convivenza, contesta l’omessa valutazione in ordine alla prospettata necessità di prosecuzione del processo prima della sentenza dichiarativa della separazione, contesta infine la sussistenza dei presupposti per la sua condanna exart. 96 c.p.c., e al pagamento delle spese processuali.
7. Si difende con controricorso il D.d.R..
Ritenuto che:
8. La disposizione di cui all’art. 709 bis c.p.c., come definitivamente modificata dalla L. 25 dicembre 2005, n. 263, art. 1, comma 4, sancisce in maniera esplicita, in materia di pronuncia immediata sullo “status”, la già ritenuta equiparazione fra il procedimento di separazione tra i coniugi e quello di divorzio, volendo evitare condotte processuali dilatorie, tali da incidere negativamente sul diritto di una delle parti ad ottenere una pronuncia sollecita in ordine al proprio “status” (Cass. civ., sez. 6^-1, n. 10484 del 22 giugno 2012).
9. Come affermato sin dal 1992 (Cass. civ., sez. 1^ n. 7148 del 10 giugno 1992) e ribadito anche di recente (Cass. civ., sez. 1^, n. 8713 del 29 aprile 2015) la situazione di intollerabilità della convivenza può dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco spirituale anche di uno solo dei coniugi.
10. Per ciò che concerne la sollevata questione di costituzionalità questa Corte ha già affermato (Cass. civ. sez. 1^, n. 9614 del 22 aprile 2010) che la sentenza non definitiva di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, che il Tribunale è tenuto a pronunciare d’ufficio quando la causa sia, sul punto, matura per la decisione, ed alla quale faccia seguito la prosecuzione del giudizio per le altre statuizioni, costituisce uno strumento di accelerazione dello svolgimento del processo che non determina un’arbitraria discriminazione nei confronti del coniuge economicamente più debole, sia perché è sempre possibile richiedere provvedimenti temporanei ed urgenti, ai sensi dellaL. n. 898 del 1970,art.4, peraltro modificabili e revocabili dal giudice istruttore al mutare delle circostanze, sia per l’effetto retroattivo, fino al momento della domanda, che può essere attribuito in sentenza al riconoscimento dell’assegno di divorzio. Pertanto, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dellaL. n. 898 del 1970,art.4, comma 9, (nel testo sostituito dellaL. n. 74 del 1987,art.8), sollevata in riferimento agliartt. 2, 3 e 29 Cost..
11. Per ciò che concerne gli ultimi due motivi di ricorso attinenti alla contestazione della condanna alle spese del giudizio di appello la Corte ritiene di aderire all’indirizzo giurisprudenziale più recente (Cass. civ. sez. 6^-3 n. 9532 del 12 aprile 2017) secondo cui il rigetto, in sede di gravame, della domanda, meramente accessoria, exart. 96 c.p.c., a fronte dell’integrale accoglimento di quella di merito proposta dalla stessa parte, in riforma della sentenza di primo grado, non configura un’ipotesi di parziale e reciproca soccombenza, né in primo grado né in appello, sicché non può giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensidell’art. 92 c.p.c..
Conseguentemente anche tali motivi devono ritenersi infondati sebbene non possano ritenersi sussistenti – in ragione dello specifico contrasto giurisprudenziale (Cass. civ. sez. 2^ n. 20838 del 14 ottobre 2016) – i presupposti per una condanna della ricorrente ex art. 96, comma 3, relativamente al presente giudizio.
12. Il ricorso va pertanto respinto con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in 5.100 Euro, di cui 100 per spese, oltre accessori di legge e spese forfettarie. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 12 giugno 2017.
Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2017