La riduzione dell’assegno di separazione decorre dalla data della pronuncia che ne modifica l’importo non essendo ripetibile il maggior importo precedentemente corrisposto

Cass. civ. Sez. VI – 1, 6 giugno 2017, n. 14027
ORDINANZA
sul ricorso 27036-2014 proposto da:
V.M.L., elettivamente domiciliata in ROMA, via Salaria n.290 presso lo studio dell’avvocato Carlo Di Marcantonio che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
G.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VAL PASSIRIA 23, presso lo studio dell’avvocato PIERLUIGI ANASTASIO, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO MATTIANGELI;
– controricorrente –
nonchè V.M., domiciliata presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato GIOVANNI POLVANI;
– intervenuta –
avverso la sentenza n. 5060/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 25/07/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 10/03/2017 dal Consigliere Dott. ANDREA SCALDAFERRI. La Corte:
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
rilevato che, con sentenza numero 5060 del 2014, la Corte di appello di Roma ha parzialmente accolto il gravame proposto da G.G. avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Roma aveva determinato la misura dell’assegno mensile di mantenimento dovuto in favore dell’ex coniuge V.M.L., riducendolo a 2.000,00 Euro mensili con decorrenza da ottobre 2005;
che avverso tale pronuncia, V.M.L. ha proposto ricorso per cassazione affidato a un motivo, con il quale deduce la violazione di legge con riguardo alla decorrenza della riduzione dell’assegno, che sostiene erroneamente collocata alla data della domanda di modificazione delle condizioni di separazione;
che G.G. ha resistito con controricorso;
che, fissata con decreto del 14 febbraio 2017 l’adunanza in camera di consiglio non partecipata ex art. 380 bis cod. proc. civ., con comparsa datata 27 febbraio 2017 V.M., nella dichiarata qualità di erede testamentaria con beneficio di inventario della sorella M.L. deceduta il (OMISSIS), come da documentazione allegata, ha inteso costituirsi nel presente giudizio in prosecuzione;
ritenuto, quanto a tale profilo preliminare, che, alla stregua dell’orientamento affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. sentenza n.9692 del 22/04/2013), l’atto di intervento del successore universale nel giudizio di cassazione doveva essere notificato, insieme con la documentazione allegata a dimostrazione della sopravvenuta morte della ricorrente e della qualità di erede della interveniente, al controricorrente ex art. 372 cod. proc. civ. onde assicurare il contraddittorio sulla sopravvenuta innovazione soggettiva, non essendo sufficiente il semplice deposito nella Cancelleria della Corte, cui ha fatto nella specie ricorso l’erede: sì che, non essendo peraltro possibile nel procedimento regolato dal nuovo art. 380 bis (come modificato dal D.L. n. 168 del 2016 convertito in L. n. 197 del 2016) la sanatoria per mancata contestazione della controparte in sede di discussione orale (cfr. S.U. n.9692/13 cit.), l’intervento deve ritenersi inammissibile, restando comunque priva di rilievo nel presente giudizio di cassazione la sopravvenuta morte di una delle parti (da ultimo Cass. n. 1757/16);
ritenuto nel merito che il ricorso merita accoglimento, in continuità con l’orientamento secondo il quale, in tema di separazione personale, la riduzione dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge decorre dal momento della pronuncia giudiziale che ne modifica la misura, non essendo rimborsabile quanto percepito dal titolare di alimenti o di mantenimento (cfr. tra le altre: Cass. n. 15186/15; n.28987/08);
che, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, stabilendo che la nuova misura dell’assegno di mantenimento determinata nella sentenza impugnata decorre dalla data (25 luglio 2014) di deposito della sentenza stessa;
che, quanto alle spese del giudizio – da compensarsi nel rapporto tra il controricorrente e l’interveniente essendo stata rilevata d’ufficio la inammissibilità dell’intervento -, l’accoglimento del ricorso non giustifica, da un lato, una modificazione della compensazione delle spese dei due gradi di merito come disposta dalla sentenza di appello, dall’altro comporta la condanna del G., soccombente in questa sede, al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano come in dispositivo, escluso il raddoppio del contributo a carico del ricorrente previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
dichiarato inammissibile l’atto di intervento nel presente processo di V.M., accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, stabilisce che l’importo dell’assegno mensile determinato dalla impugnata sentenza n.5060/2014 della Corte d’appello di Roma decorre dal 25 luglio 2014, data di deposito della sentenza stessa; condanna altresì G.G. al rimborso in favore della ricorrente V.M.L. delle spese di questo giudizio di cassazione, in Euro 4.100,00 (di cui Euro 100,00 per esborsi), oltre spese generali forfetarie e accessori di legge, fermo restando il regolamento delle spese dei due gradi di merito disposto dalla sentenza di appello qui impugnata; compensa le spese tra l’interveniente e il controricorrente.

Responsabilità civile del genitore

Corte di Cassazione, sez. VI Civile, ordinanza 20 dicembre 2016 – 26 maggio 2017, n. 13412

Fatti di causa
Con atto notificato nel 1995 F. G. e G. C., genitori esercenti la potestà sul figlio minore L., agirono in giudizio nei confronti di C. I. e di R. C., in proprio e in rappresentanza del figlio minore S., esponendo che L. G. era stato ferito all’occhio sinistro con un ceppo dal compagno di giochi S. I. e che aveva riportato lesioni così gravi da essere costretto a lunga degenza ospedaliera e a subire due interventi chirurgici con la definitiva riduzione del visus di un 1/12 con lenti corneali.
Tanto premesso gli attori chiesero al Tribunale di Lanciano di dichiarare la responsabilità dei convenuti per l’infortunio occorso al figlio e di condannare gli stessi al risarcimento dei danni da liquidarsi equitativamente in lire 300.000.000, oltre rivalutazione ed interessi, con vittoria di spese di lite.
I convenuti si costituirono deducendo la genericità della domanda e l’estraneità del figlio S. alla causazione delle lesioni al piccolo L. e chiesero e ottennero di chiamare in causa i genitori di un terzo bambino, G. F., che nella circostanza stava giocando con i già indicati minori.
L. F. e R. S. si costituirono resistendo alle domande proposte nei loro confronti.
II Tribunale adito, con sentenza del 10 maggio 1997, dichiarò che l’infortunio di cui si discute in causa era attribuibile a colpa esclusiva del minore S. I. e per l’effetto condannò C. I. e R. C., quali genitori esercenti la potestà sul figlio minore, in solido tra loro, al pagamento dei danni in favore dell’infortunato, liquidati in lire 188.500.000, oltre rivalutazione ed interessi, rigettò la domanda proposta nei confronti dei coniugi I. in proprio e rigettò la domanda proposta da questi ultimi nei confronti dei genitori di G. F. e regolò tra le parti le spese di lite.
Avverso la decisione di primo grado C. I. e R. C., in proprio e in rappresentanza del figlio minore S., proposero appello cui resistettero da un lato, F. G. e G. C., in proprio e quali esercenti la potestà genitoriale sul minore L. G.., che proposero pure appello incidentale, e, dall’altra, R. S. e L. F., in proprio e in rappresentanza del figlio.
La Corte d’appello di L’Aquila, con sentenza dell’8 giugno 2000, rigettò l’appello incidentale, con il quale F. G. e G. C., in proprio e nella dedotta qualità, avevano chiesto la condanna di C. I. e R. C., in proprio e nella dedotta qualità, al risarcimento dei danni ex art. 2048 cod. civ. nella misura già determinata dal Tribunale, accolse l’appello principale e, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rigettò la domanda proposta da F. G. e G. C., in proprio e nella dedotta qualità, nei confronti di C. I. e R. C., in proprio e nella detta qualità, con compensazione tra le predette parti delle spese di lite di entrambi i gradi del giudizio di merito; condannò, inoltre, F. G. e G. C., in proprio e nella qualità, al pagamento delle spese di quel grado in favore di L. F. e R. S..
I genitori di L. G., in proprio e nella qualità, proposero ricorso per cassazione sulla base di due motivi, cui resistettero soltanto C. I. e R. C., in proprio e nella qualità.
Questa Corte, con sentenza n. 1148 del 2005, accolse il primo motivo di ricorso, rigettò il secondo e rinviò la causa alla Corte di appello di Roma anche per le spese del giudizio di cassazione, affermando, tra l’altro, che: «la Corte di appello, nell’esaminare gli appelli principale e incidentale, ha corretto la qualificazione giuridica dell’azione di danno, riconducendola nell’ambito dell’art. 2047 del codice civile, essendo il fatto eziologicamente riferibile alla condotta di un bambino di sette anni compiuti e cioè, secondo le circostanze accertate, incapace di intendere e volere.
Tale norma prevede la responsabilità diretta del soggetto tenuto alla sorveglianza dell’incapace, salvo che non provi di non aver potuto impedire il fatto.
Orbene, poiché nessuno contesta il punto della accertata incapacità del minore (come si desume dal tenore del ricorso) la fattispecie appare esattamente inquadrata nello ambito dell’art. 2047 del codice civile, che ha una propria autonomia rispetto al successivo art. 2048 (Cfr. Cass. 24 maggio 1997 n.4633).
Ma la censura appare fondata sul punto relativo al cd. affidamento, come fatto traslativo della vigilanza.
Sul punto così motiva la Corte di appello (ff 13 della sentenza) “La presenza del G., padre di L., evidenziata dal primo giudice in riguardo alla condivisibile esclusione della culpa in vigilando della madre del S. (incapace e danneggiante) vale altresì ad impedire che nella specie possa assegnarsi fondamento critico alla censura che detto minore fosse abbandonato a sé stesso nella fase successiva del gioco, vero essendo al contrario che tale sorveglianza, nella consapevolezza materna della presenza di un adulto qualificato, che assisteva al gioco e della iniziale diversità ed innocuità dello stesso, non poteva che ritenersi tacitamente delegata a costui in virtù dell’id quod plerumque accidit, secondo i principi di civile convivenza”.
Questo ragionamento è giuridicamente errato proprio in relazione alla fattispecie normativa sotto cui sussumere il fatto storico lesivo, posto che la prova della traslazione della vigilanza incombeva al genitore dell’incapace danneggiale, ed è una prova particolarmente rigorosa, poiché la legge esige la dimostrazione di un fatto impeditivo assoluto (il non poter impedire un fatto, ad esempio perché determinato da forza maggiore o dal fortuito o dal fatto del terzo) mentre la Corte si affida ad una mera congettura di presunzione semplice (la normalità degli eventi tra persone dotate di buona educazione.) (cfr. Cass. 24 maggio 1997 n. 4633). Deve pertanto accogliersi il primo motivo di censura, sia sotto il profilo dell’error iuris che sotto quello della insufficienza della motivazione.
Infondata è invece la seconda censura in cui si richiede la applicazione in via equitativa della indennità di cui al secondo comma dell’art. 2047, sotto un duplice profilo: vuoi perché tale domanda non è stata mai proposta neppure in via implicita nella fase del merito, sia perché con l’accoglimento del primo motivo il danneggiato è posto in grado di ottenere il risarcimento da chi è tenuto alla sorveglianza.
F. G., G. C. e L. G.. riassunsero quindi la causa dinanzi al giudice del rinvio.
Si costituirono in quella sede C. I., R. C. e S. I..
La Corte di appello di Roma, con sentenza depositata il 31 luglio 2014, rigettò l’appello principale proposto da C. I. e da R. C., in proprio e nella qualità, e, in accoglimento dell’appello incidentale proposto da F. G., G. C. e L. G.., in totale riforma della sentenza impugnata, condannò C. I. e R. C., in solido, quali soggetti tenuti alla sorveglianza del minore S. I., al pagamento, in favore di L. G.., della somma di Euro 172.725,70, oltre interessi, e regolò tra le parti le spese di lite.
Avverso la sentenza della Corte di appello di Roma C. I. e R. C. hanno proposto ricorso per cassazione basato su un unico motivo e illustrato da memoria.
F. G., G. C. e L. G.. hanno resistito con controricorso.
A seguito di deposito di proposta ex art. 380 bis cod. pro. civ. del relatore, il Presidente ha fissato l’adunanza della Corte con decreto comunicato alle parti.

Ragioni della decisione

1. Il Collegio ha disposto la redazione dell’ordinanza con motivazione semplificata.
2. L’unico motivo è così rubricato: «Violazione e falsa applicazione degli art. 384 comma 2 c.p.c. e 2047 c.c.. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione ed omesso esame su di un punto decisivo della controversia (art. 360 nn. 3 e 5 codice di procedura civile)».
I ricorrenti sostengono che la Corte territoriale avrebbe solo in apparenza applicato il principio di diritto enunciato da questa Corte, perché non avrebbe «compiuto, nella sua interezza, l’accertamento che …[le] era stato demandato, volto ad accertare il verificarsi della traslazione della vigilanza di cui in narrativa».
Lamentano in particolare i ricorrenti che non sarebbe stato esaminato e valutato quanto riferito dagli attori nell’atto di citazione datato 21 novembre 1995, da cui emergerebbe che l’evento si sarebbe verificato nella campagna di F. G. e, quindi, nella sua proprietà, e alla presenza dello stesso soltanto quale adulto. Ad avviso dei ricorrenti, se tale circostanza fosse stata accertata avrebbe potuto ritenersi raggiunta la prova della traslazione della vigilanza del piccolo S. dai suoi genitori a F. G. e a tale conclusione dovrebbe pervenirsi tanto più valutando, nella sua interezza, la dichiarazione resa dalla nonna di S., che la Corte di merito avrebbe esaminato solo in parte.
2.1. Il motivo va rigettato.
2.2. Le doglianze proposte sono, infatti, per un verso infondate, non sussistendo la lamentata violazione dell’art. 384 cod. proc. civ. per l’asserita violazione del principio di diritto enunciato da questa Corte con la sentenza n. 1148 del 2005, essendosi a tale principio la Corte territoriale effettivamente – e non solo apparentemente, come lamentato dai ricorrenti – attenuta, né sussistendo la prospettata violazione dell’art. 2047 cod. civ., peraltro neppure sorretta da specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con la indicata norma regolatrice della fattispecie o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 15/01/2015, n. 635; Cass. 12/02/2013, n. 3285; Cass. 16/10/2007, n. 828), né sussistendo il vizio di omessa motivazione e di omesso esame su punti decisivi della controversia, avendo la Corte di merito motivato la sua decisione e avendo la stessa tenuto conto della presenza in loco di F. G. e della deposizione resa dalla teste A. M.. Va poi evidenziato che l’elemento di fatto desumibile dall’atto di citazione e della cui mancata valutazione si dolgono i ricorrenti (verificarsi dell’evento nella campagna di proprietà di F. G.), oltre a non risultare dall’atto di citazione, in cui manca ogni riferimento alla proprietà del fondo in cui si verificò il sinistro, risulta del tutto nuovo, non facendosi ad esso alcun cenno nella sentenza, né avendo i ricorrenti precisato in ricorso quando e in che termini si sia discusso dello stesso tra le parti, con conseguenti profili di inammissibilità della censura sollevata al riguardo. Si osserva infatti a tale ultimo riguardo che, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo a questa Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 3 marzo 2009, n. 5070; Cass. 30 novembre 2006, n. 25546 Cass. 18/10/2013, n. 23675). E comunque, ove sussistente, tale elemento di fatto sarebbe comunque privo di decisività.
2.3. Per altro verso, il motivo risulta inammissibile, nella parte in cui si censura la sentenza impugnata per insufficiente e contraddittoria motivazione.
Si evidenzia che, essendo la sentenza impugnata in questa sede stata pubblicata in data 31 luglio 2014, nella specie trova applicazione l’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c, nella formulazione novellata dal comma 1, lett. b), dell’art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modifiche nella legge 7 agosto 2012, n. 134.
Alla luce del nuovo testo della richiamata norma del codice di rito, non è più configurabile il vizio di insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, non potendo neppure ritenersi che il vizio di contraddittoria motivazione sopravviva come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del n. 4) del medesimo art. 360 c.p.c. (Cass., ord., 6/07/2015, n. 13928; v. pure Cass., ord., 16/07/2014, n. 16300) e va, inoltre, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., ord., 8/10/2014, n. 21257). E ciò in conformità al principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 8053 del 7/04/2014, secondo cui la già richiamata riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia – nella specie all’esame non sussistente, come già sopra evidenziato – si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
2.4. Si rileva, inoltre, che, con le doglianze proposte, i ricorrenti tendono, in sostanza, ad una rivalutazione del merito, non consentita in sede di legittimità (Cass., ord., 4/04/2017, n. 8758; Cass. 10/04/2006, n. 9233 e Cass. 21/10/2015, n. 21439).
Ed invero, con la proposizione del ricorso la parte ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente; l’apprezzamento dei fatti e delle prove, infatti, è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass., ord., 6 aprile 2011, n. 7921; Cass. 23/05/2014, n. 11511; Cass. 13/06/2014, n. 13485).
3. Il ricorso va, pertanto, rigettato.
4. Sussistono i presupposti per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione, tenuto conto della particolarità della vicenda all’esame e alla luce della norma di cui all’art. 92 cod. proc. civ. nel testo ratione temporis applicabile nella specie.
5. Va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma I-bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa per intero tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità; ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma I-bis dello stesso art. 13.

Difetto di giurisdizione del giudice italiano se il minore ha la residenza abituale all’estero

(Cass. civ., sez. un., 7 febbraio 2017 – 5 giugno 2017, n. 13912)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 28848-2015 proposto da:
L.L.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DOMENICO CHELINI 20, presso lo studio dell’avvocato MARCO CALABRESE, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
B.M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MICHELE MERCATI 17/A, presso lo studio degli avvocati ROBERTA CESCHINI e ARMANDO RESTIGNOLI, che lo rappresentano e difendono;
– controricorrente –
per regolamento di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 5147/2015 del TRIBUNALE di ROMA.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/02/2017 dal Consigliere Dott. PIETRO CAMPANILE;
uditi gli Avvocati Marco CALABRESE e Armando RESTIGNOLI;
lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa CERONI Francesca, che ha chiesto che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, riunite in camera di consiglio, dichiarino il difetto di giurisdizione del giudice interno, con le conseguenze di legge.
FATTI DI CAUSA
1. Con ricorso depositato in data 10 aprile 2015 il signor B.M. chiedeva al Tribunale di Roma la modifica delle condizioni della separazione consensuale dalla moglie sig.ra L.L.C., già omologate dallo stesso Tribunale con decreto in data 18 dicembre 2012, chiedendo che la figlia minore B.A., nata l'(OMISSIS), fosse affidata a lui in via esclusiva, con obbligo a carico della madre di contribuire al suo mantenimento e con conseguente nuova disciplina del diritto di visita.
2. Instauratosi il contraddittorio, la convenuta eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice italiano, facendo presente che la figlia da due anni risiedeva abitualmente con lei a (OMISSIS), nello Stato di (OMISSIS).
3. Con decreto in data 28 ottobre 2015 il Presidente del Tribunale disponeva la comparizione personale delle parti, rilevando che l’eccezione preliminare della convenuta non appariva condivisibile, perchè il provvedimento di modifica delle condizioni della separazione aveva natura “integrativa” di quello di separazione, in relazione al quale la signora L.L.C. aveva accettato la giurisdizione del giudice italiano.
4. La signora L.L.C. ha proposto ricorso ai sensi dell’art. 41 cod. proc. civ. affinchè sia risolta la questione relativa alla giurisdizione.
5. il sig. B. ha resistito con controricorso, eccependo in primo luogo l’inammissibilità del ricorso e sostenendo la giurisdizione del giudice italiano.
5. Il Procuratore Generale, al quale gli atti sono stati trasmessi ai sensi dell’art. 380 ter cod. proc. civ., ha chiesto dichiararsi il difetto di giurisdizione del giudice italiano, rilevando che nella specie la domanda attiene esclusivamente alla responsabilità genitoriale e che, quindi, deve operare il principio della vicinanza, fondato sulla residenza abituale della figlia minore, che pacificamente è inserita nel contesto sociale, scolastico e relazionale della cittadina dello Stato di (OMISSIS) in cui vive con la madre, trattandosi, per altro, di criterio non prorogabile;
6. Le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo si deduce violazione dell’art. 12 del Regolamento U.E. n. 2201 del 27 novembre 2003: l’accettazione della giurisdizione del giudice italiano nel procedimento di separazione sarebbe stato erroneamente riferito – nel corso dello stesso – anche al successivo procedimento di revisione, laddove la norma testè richiamata, al n. 2, lett. b), prevede che “la competenza esercitata ai sensi del paragrafo 1 (domande di divorzio, separazione personale dei coniugi o annullamento del matrimonio”), cessa non appena la decisione che accoglie o respinge la domanda di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio sia passata in giudicato”.
1.1. Sotto altro profilo si denuncia la violazione della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 36, riferibile esclusivamente ai rapporti di natura sostanziale tra genitori e figli.
2. Con il secondo mezzo si denuncia l’omesso esame di un punto decisivo, per non essersi considerato che il padre della minore, indipendentemente dalle risultanze anagrafiche, si era trasferito in (OMISSIS), dove aveva avviato un’attività commerciale.
3. La terza censura riguarda l’interpretazione della citata L. n. 218 del 1995, art. 37, secondo cui la giurisdizione italiana sussiste “anche quando uno dei genitori o il figlio è cittadino italiano o risiede in Italia”, nel senso che dovrebbe in ogni caso riconoscersi la primazia, affermata dalle fonte internazionali, della residenza abituale del minore; in via subordinata, si denuncia l’illegittimità di tale norma per contrasto con gli artt. 10 e 25 Cost..
4. In primo luogo deve disattendersi l’eccezione di inammissibilità del regolamento sollevata nel controricorso e fondata sulla emissione, nell’ambito del procedimento pendente davanti al giudice del merito, di un provvedimento in data 28 ottobre 2015, nel quale si dichiara che la competenza giurisdizionale appartiene al giudice italiano.
Il provvedimento suddetto, emesso all’esito di udienza presidenziale, pur contenendo rilievi in merito alla questione di giurisdizione sollevata dalla convenuta, non è ostativo alla proponibilità del regolamento di giurisdizione in quanto, essendosi concluso con l’ordine di comparizione personale delle parti “al fine di valutare anche la necessità di assunzione di provvedimenti di natura istruttoria”, non esorbita dalla funzione, attribuita ai provvedimenti presidenziali emessi ai sensi dell’art. 708 cod. proc. civ., meramente provvisoria ed interinale, con esclusione del carattere della decisorietà (Cass., 3 luglio 2014, n. 15186; Cass., 27 aprile 2006, n. 9688; Cass. 17 maggio 2002, n. 7299). Deve pertanto ribadirsi che la mera delibazione, in via incidentale, in ordine al tema della giurisdizione, contenuta in un provvedimento che, come chiaramente si desume anche dalla parte dispositiva, ha carattere meramente istruttorio ed è quindi privo di natura decisoria – essendo per altro nella specie ogni pronuncia riservata al collegio e non al presidente del tribunale – non può ritenersi preclusiva della proposizione del ricorso per regolamento di giurisdizione (Cass., Sez. U, 20 febbraio 2013, n. 4218; Cass., Sez. U., 27 novembre 2011, n. 22382).
4.1. Deve per altro affermarsi l’irrilevanza – per i fini che qui interessano – di ogni provvedimento – come quello depositato in data 8 gennaio 2016 e richiamato nel controricorso – emesso in epoca successiva alla proposizione dell’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione: deve invero ribadirsi che qualsiasi decisione di merito pronunciata dopo l’esperimento del regolamento preventivo di giurisdizione, in quanto condizionata alla conferma del potere giurisdizionale, non preclude la decisione sul regolamento medesimo, essendo inidonea a far venire meno l’interesse del ricorrente a coltivarlo (Cass. Sez. U, 16 maggio 2014, n. 10823; Cass., Sez. U, 23 maggio 2005, n. 10703).
4.2. Va infine osservato che tanto per le ragioni indicate, quanto per la stessa volontà manifestata al riguardo dalle parti, non può attribuirsi rilievo al successivo accordo di natura interinale, desumibile dal verbale dell’udienza in data 11 ottobre 2016, con i quali i genitori hanno previsto “in pendenza del regolamento di giurisdizione”, e fino al momento della relativa decisione, l’affidamento temporaneo della figlia al padre.
5. Occorre preliminarmente ribadirsi l’assoluta autonomia fra il giudizio di separazione e il successivo procedimento inerente alla revisione, in presenza di circostanze obiettive sopravvenute, delle relative condizioni: trattandosi di “novum iudicium”, sebbene ricollegato, in base al suo carattere di giudicato “rebus sic stantibus”, al regolamento attuato con la decisione divenuta definitiva o con l’omologa della separazione consensuale non più reclamabile (cfr., in tema di competenza, Cass., 22 marzo 2001, n. 4099; Cass. Sez. U, 16 gennaio 1991, n. 381), non può condividersi la tesi secondo cui l’accettazione della giurisdizione italiana da parte della signora L.L.C. nel giudizio di separazione personale riverbererebbe la sua efficacia anche nel giudizio di revisione. In realtà, indipendentemente dall’evidenziata autonomia dei giudizi, che trova uno specifico riferimento nel pur invocato art. 12, par. 2, lett. a) del citato regolamento n. 2201 del 2003, deve ribadirsi che il criterio di attribuzione della giurisdizione fondato sulla c.d. vicinanza, dettato nell’interesse superiore del minore (Corte giustizia, 5 ottobre 2010, in causa 296/10), assume una pregnanza tale da comportare anche l’esclusione della validità del consenso del genitore alla proroga della giurisdizione (Cass., Sez. U, 30 dicembre 2011, n. 30646).
6. Ai fini della risoluzione della questione di giurisdizione in esame, deve individuarsi in primo luogo l’esatta portata della domanda proposta dal sig. B. al Tribunale di Roma. Sotto tale profilo, come correttamente posto in evidenza dal Procuratore Generale, non è dubitabile che l’azione, sia pure prospettata come modifica delle condizioni della separazione, è unicamente rivolta all’affidamento della figlia minore al padre. Infatti il ricorrente, premesso che nell’ambito delle condizioni della separazione omologate era previsto che la madre e la figlia trasferissero la propria residenza nello Stato di (OMISSIS), e che tale trasferimento era stato attuato sin dall’anno 2013, ha chiesto l’affidamento in via esclusiva della figlia.
Si verte, pertanto, esclusivamente in materia di responsabilità genitoriale, in un caso in cui la figlia minore, che possiede sia la cittadinanza italiana che quella americana, da tempo risiede abitualmente in uno stato non membro dell’Unione Europea.
7. Come già affermato da questa Corte (Cass., Sez, U, 9 gennaio 2001, n. 1), la doppia cittadinanza della minore, italiana e americana, rende applicabile il principio secondo cui ai fini del riparto della giurisdizione e della individuazione della legge applicabile, i provvedimenti in materia di minori devono essere valutati in relazione alla funzione svolta; pertanto quelli che, pur incidendo sulla potestà dei genitori, perseguono una finalità di protezione del minore, rientrano nel campo di applicazione della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 42, il quale rinvia alla Convenzione de L’Aja del 5 ottobre 1961. Invero nel caso di minore con doppia cittadinanza non può applicarsi l’art. 4 della Convenzione, che stabilisce la prevalenza delle misure adottate dal giudice dello Stato di cui il minore è cittadino su quelle adottate nel luogo di residenza abituale.
Mette conto di sottolineare come l’ampiezza dell’ambito di applicazione, sotto il profilo oggettivo, del richiamo della citata L. n. 218 del 1995, art. 42 all’art. 1 della richiamata Convenzione dell’Aja, anche con riferimento alle misure relative ai figli minori che vengono adottate in sede di separazione personale o di divorzio dei genitori, trova giustificazione nella circostanza che l’Italia non si è avvalsa della facoltà, prevista dall’art. 15 della Convenzione stessa, di creare una competenza speciale per le misure attinenti ai minori.
Il riferimento alla residenza abituale del minore, anche con riferimento all’ipotesi in cui la stessa si verifichi in uno Stato terzo, del resto, è stato di recente ribadito, proprio in materia di affidamento di figlio minore, da questa Corte (Cass. Sez. U, 19 gennaio 2017, n. 1310), che ha affermato che il parametro della residenza abituale, posto a salvaguardia della continuità affettivo relazionale del minore, non è in contrasto ma, al contrario, valorizza la preminenza dell’interesse del minore (Cass., 22 luglio 2014, n. 16648 del 2014).
8. Tanto premesso, la circostanza della residenza abituale della minore negli Usa a partire dall’anno 2013 risulta pacificamente dagli atti di causa, ragion per cui deve affermarsi il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
9. Il regolamento delle spese, liquidate come in dispositivo, segue il criterio della soccombenza.
10. Va altresì disposto che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati significativi.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso e dichiara il difetto di giurisdizione del giudice italiano. Condanna il resistente al pagamento delle spese del presente regolamento, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per compensi, oltre agli accessori di legge.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi.

Avvocato: liquidazione degli onorari. Rito applicabile

Cass. civ. Sez. VI – 2, 25 maggio 2017, n. 13272
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso 3644/2016 R.G. proposto da:
Avvocato D.P., – c.f. (OMISSIS) – da se medesimo rappresentato e difeso ed elettivamente domiciliato presso il proprio studio, in (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
L.A., – c.f. (OMISSIS);
– intimata –
Avverso l’ordinanza del 28.12.2015 del tribunale di Civitavecchia;
Udita la relazione all’udienza in camera di consiglio del 5 dicembre 2016 del consigliere dott. Luigi Abete;
Lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale dott. CELENTANO Carmelo, che ha chiesto accogliersi il ricorso per regolamento di competenza.

Svolgimento del processo
Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c., al tribunale di Civitavecchia depositato in data 29.12.2014 l’avvocato D.P. esponeva che aveva svolto attività professionale su incarico e per conto di L.A. e nel primo e nel secondo grado del giudizio di separazione personale con addebito che l’aveva opposta al coniuge, A.F.; che aveva altresì svolto attività professionale su incarico e per conto della resistente ai fini del recupero degli importi che il marito non le aveva versato; che nondimeno la L. non aveva provveduto al pagamento del saldo delle competenze professionali a lui spettanti.
Chiedeva che la resistente fosse condannata a corrispondergli la somma di Euro 23.095,55 a titolo di saldo, oltre accessori, nonché di Euro 1.832,92 a titolo di rimborso spese; il tutto con il favore delle spese del procedimento.
Costituitasi, L.A. instava per il rigetto dell’avversa domanda o in subordine per la rideterminazione in minor misura dell’avversa pretesa.
Deduceva, tra l’altro, che aveva “provveduto all’integrale pagamento delle competenze dell’avv. D. per l’attività dallo stesso svolta” (così comparsa di costituzione nel procedimento ex art. 702 bis c.p.c., di L.A., pag. 2) ed eccepiva inoltre che il compenso ex adverso preteso, limitatamente all’attività professionale svolta negli anni 2010 – 2011, “si sarebbe ad oggi (…) prescritto in ossequioall’art. 2956 c.c.” (così comparsa di costituzione nel procedimento ex art. 702 bis c.p.c. di L.A., pag. 4).
Con ordinanza del 28.12.2015 il tribunale di Civitavecchia in composizione monocratica dichiarava l’inammissibilità del ricorso e compensava le spese.
Rilevava – il tribunale – che il ricorrente aveva prestato la propria attività professionale dinanzi al tribunale di Roma, alla corte d’appello di Roma ed al giudice di pace di Roma.
Indi evidenziava che a norma delD.Lgs. n. 150 del 2011,art.14, dovevano reputarsi competenti gli uffici di merito aditi per i processi nell’ambito dei quali il ricorrente aveva prestato la propria opera.
Dava atto infine che la resistente era residente in Roma.
Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per regolamento di competenza l’avvocato D.P.; ha chiesto dichiararsi la competenza del tribunale di Civitavecchia in composizione monocratica con ogni conseguente statuizione anche in ordine alle spese.
L.A. non ha svolto difese.
Il pubblico ministero ai sensi dell’art. 380 ter c.p.c., ha formulato conclusioni scritte.
Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 ter c.p.c., comma 2.
Col ricorso a questa Corte l’avvocato D.P. deduce che l’ordinanza impugnata è errata per violazione dell’art. 702 bis c.p.c. e ss..
Deduce che, contrariamente a quanto opinato dal tribunale, la disciplina di cui al D.Lgs. n. 150 del 2001, ha modificato unicamente il procedimento speciale camerale di cui allaL. n. 794 del 1942,artt.28e 55, ed ha lasciato inalterati il procedimento ordinario di cognizione ed il procedimento sommario di cognizione, procedimento, quest’ultimo, attivato nel caso di specie dinanzi al tribunale di Civitavecchia, nel cui circondario, in Cerveteri, risiede la L..
Deduce del resto che controparte, in virtù delle eccezioni sollevate, ha senz’altro ampliato il thema decidendum.
Deduce infine che il tribunale in composizione monocratica, in considerazione delle eccezioni sollevate dalla resistente, al più avrebbe dovuto ex art. 702 ter c.p.c., comma 3, tramutare il rito da sommario in ordinario.

Motivi della decisione
Il profilo della competenza a decidere le controversie di cui allaL. n. 794 del 1942,art.28, (così come riformulato dalD.Lgs. n. 150 del 2011,art.35, comma 16, lett. a)), ossia le controversie per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti dell’avvocato nei confronti del proprio cliente, controversie ora assoggettateD.Lgs. n. 150 del 2011, ex art. 14, al rito sommario di cognizione (nondimeno con devoluzione della potestas decidendi in unico grado – attesa l’inappellabilità della statuizione finale in forma di ordinanza – all’organo giudiziario competente in ogni caso in composizione collegiale e con possibilità per le parti di stare in giudizio personalmente), è strettamente correlato alla determinazione dell’ambito di operatività del peculiare rito sommario di cui, appunto, all’art. 14 cit..
Più esattamente la competenza, ex art. 14, comma 2, cit., dell'”ufficio giudiziario di merito adito per il processo nel quale l’avvocato ha prestato la propria opera” – nel caso di specie gli uffici giudiziari di Roma e non già di Civitavecchia – non può non “calibrarsi”, dilatandosi ovvero restringendosi, alla stregua ed in simmetria con la proiezione applicativa del rito “sommario” sui generis di cui allo stesso art. 14.
Ebbene, in rapporto alla sfera di operatività del rito ex art. 14 cit., si registrano antitetiche soluzioni esegetiche, differenti dicta in seno all’elaborazione di quest’ Organo della nomofilachia.
Segnatamente si rappresenta quanto segue.
Innanzitutto, che in epoca antecedente all’emanazione delD.Lgs. n. 150 del 2011, questo Giudice del diritto ha spiegato che, in tema di liquidazione degli onorari e diritti di avvocati, non è ammissibile il ricorso alla speciale procedura di cui allaL. n. 794 del 1942,artt.28e29, qualora la controversia non abbia ad oggetto soltanto la semplice determinazione della misura del compenso, ma si estenda inoltre ad altri oggetti d’accertamento e di decisione, quali i presupposti stessi del diritto al compenso, i limiti del mandato, la sussistenza di cause estintive o limitative della pretesa (cfr. Cass. 4.6.2010, n. 13640, ove si soggiungeva che, in tali evenienze, il procedimento ordinario attrae nella sua sfera, per ragioni di connessione, anche la materia propria del procedimento speciale e l’intero giudizio non può non concludersi in primo grado se non con un provvedimento che, quand’anche adottato in forma d’ordinanza, ha valore di sentenza e può essere impugnato con il solo mezzo dell’appello. Cfr., analogamente con riferimento al pregresso assetto normativo, Cass. 13.10.2014, n. 21554, secondo cui la speciale procedura di liquidazione dei compensi per le prestazioni giudiziali degli avvocati in materia civile, regolata dallaL. 13 giugno 1942, n. 794,art.28e ss., (“ratione temporis” vigenti), non è applicabile quando la controversia riguardi non soltanto la semplice determinazione della misura del corrispettivo spettante al professionista, bensì anche altri oggetti di accertamento e decisione, quali i presupposti stessi del diritto al compenso, i limiti del mandato, l’effettiva esecuzione delle prestazioni e la sussistenza di cause estintive o limitative della pretesa azionata, poiché il procedimento ordinario è il solo previsto e consentito per la definizione di tali questioni, sicché, in questo caso, l’intero giudizio deve concludersi con un provvedimento che, seppur adottato in forma di ordinanza, ha valore di sentenza, impugnabile unicamente con l’appello. Cfr. ancora Corte costituzionale 1.4.2014, n. 65, che, nel reputare infondata la questione di legittimità costituzionale delD.Lgs. n. 150 del 2011,art.3, comma 1, art.14, comma 2, impugnati, in riferimentoall’art. 76 Cost., nella parte in cui rispettivamente prevedono, per i procedimenti in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti degli avvocati, la competenza del tribunale in composizione collegiale e l’inconvertibilità nel rito ordinario, ha evidenziato che lo speciale procedimento camerale delineato dal legislatore del 1942 era ritenuto inammissibile nei casi in cui il thema decidendum avesse compreso questioni esulanti dalla mera determinazione del compenso).
Altresì, che il novello quadro normativo si delinea come di seguito.
IlD.Lgs. n. 150 del 2011,art.34, comma 16, merce il disposto della lett. a), ha così riformulato laL. n. 794 del 1942,art.28: “per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti nei confronti del proprio cliente l’avvocato, dopo la decisione della causa o l’estinzione della procura, se non intende seguire il procedimento di cuiall’art. 633 c.p.c.e ss., procede ai sensi delD.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150,art.14”.
IlD.Lgs. n. 150 del 2011,art.34, comma 16, merce il disposto della lett. b), ha espressamente abrogato la medesimaL. n. 794 del 1942,artt.29e30.
IlD.Lgs. n. 150 del 2011,art.14, al comma 1, così statuisce: “le controversie previste dallaL. 13 giugno 1942, n. 794,art.28, e l’opposizione proposta a normadell’art. 645 c.p.c., contro il decreto ingiuntivo riguardante onorari, diritti o spese spettanti ad avvocati per prestazioni giudiziali sono regolate dal rito sommario di cognizione, ove non diversamente disposto dal presente articolo”.
LaL. n. 69 del 2009,art.54, comma 4, lett. a), (recante delega al Governo per la riduzione e semplificazione dei procedimenti civili) dispone: “restano fermi i criteri di competenza, nonché i criteri di composizione dell’organo giudicante, previsti dalla legislazione vigente”.
Ulteriormente, che al cospetto del delineato quadro normativo si sono palesate le seguenti opzioni esegetiche.
Per un verso si è assunto che le controversie per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti dell’avvocato nei confronti del proprio cliente previste dallaL. n. 794 del 1942,art.28, – come risultante all’esito delle modifiche apportate dalD.Lgs. n. 150 del 2011,art.34, e dell’abrogazione della medesimaL. n. 794 del 1942,artt.29e30, – devono essere trattate con la procedura prevista dal suddettoD.Lgs. n. 150 del 2011,art.14, anche nell’ipotesi in cui la domanda riguardi l'”an” della pretesa, senza possibilità per il giudice adito di trasformare il rito sommario in rito ordinario o di dichiarare l’inammissibilità della domanda (cfr. Cass. 29.2.2016, n. 4002).
E nella medesima linea esegetica, “a sostegno dell’assunto della necessaria unicità del rito (quello speciale, disciplinato dalD.Lgs. n. 150 del 2011,art.14) con cui devono essere trattate le controversie aventi ad oggetto il credito per il compenso di prestazioni giudiziali rese da un avvocato in materia civile, involgano esse, o meno, l’accertamento dell’an debeatur” (così in motivazione Cass. 15.2.2017, n. 3993), si è specificato, tra l’altro, che “l’entrata in vigore delD.Lgs. n. 150 del 2011, ha marcato una forte discontinuità nel sistema (…), così da giustificare una revisione profonda dei paradigmi ermeneutici consolidatisi sotto la disciplina previgente” (così in motivazione Cass. 15.2.2017, n. 3993).
Per altro verso si è affermato, in linea di continuità con l’indirizzo giurisprudenziale correlato all’assetto normativo previgente, che “ilD.Lgs. n. 150 del 2011,art.14, ha inciso solo sul rito. Più esattamente devesi opinare nel senso che alla procedura di cui allaL. 13 giugno 1942, n. 794,art.28(…), ora assoggettata al rito sommario di cognizione (…), potrà farsi ricorso allorché si controverta unicamente in ordine al quantum del compenso spettante al professionista e non già allorché si controverta anche in ordine all’an della pretesa” (così in motivazione Cass. (ord.) 24.6.2016, n. 13175. In seno alla giurisprudenza di merito cfr. Trib. Mantova, 16.12.2014, Sito Il caso.it., secondo cui ilD.Lgs. n. 150 del 2011,art.14, ha inciso solo sul rito e deve ritenersi applicabile unicamente nell’ipotesi in cui si contro verta sul quantum del compenso spettante al professionista e non invece ove la vertenza riguardi anche l’an della pretesa, nel qual caso trovano applicazione le ordinarie regole del processo di cognizione che deve, pertanto, svolgersi avanti al giudice monocratico. Si veda anche Cass. 5.10.2015, n. 19873, secondo cui, in tema di liquidazione degli onorari di avvocato, ilD.Lgs. n. 150 del 2011,art.14, comma 4, dichiarando inappellabile l’ordinanza che definisce la proceduraL. n. 794 del 1942, ex art. 28, richiama i presupposti operativi di questa procedura speciale, sicchè l’ordinanza che statuisca sull'”an” del compenso e non solo sul “quantum” è impugnabile con l’appello e non col ricorso per cassazione).
Si giustifica dunque l’appello al Primo Presidente, perché valuti, ai sensidell’art. 374 c.p.c., comma 2, se disporre che questa Corte di legittimità pronunci al riguardo a sezioni unite.

P.Q.M.
si rimettono gli atti al Primo Presidente di questa Corte perché disponga – se reputa – che questo medesimo Giudice di legittimità pronunci a sezioni unite in ordine al presente ricorso.

Divorzio: convivenza more uxorio e perdita dell’assegno

Cass. civ. Sez. VI – 1, 22 maggio 2017, n. 12879
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
B.M., elettivamente domiciliato in Roma via Monte Zebio 30, presso l’avv. Gianmaria Cameici che lo rappresenta e difende, unitamente all’avv. Alberto Figone, giusta procura speciale in calce al ricorso, e dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo al fax n. 06/32600464 e alle p.e.c. giammariacammici(at)ordineavvocatiroma.org e alberto.figone(at)ordineavvgenova.it;
– ricorrente –
nei confronti di:
N.M., domiciliata in Roma, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avv. Nazzareno Siccardi, giusta procura speciale a margine del controricorso, che dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo presso la p.e.c. nazzareno.siccardi(at)ordineavvocatisv.it e il telefax n. 0182542205;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1/2014 della Corte di appello di Genova, emessa il 13 dicembre 2013 e depositata l’8 gennaio 2014, n. R.G. 515/2013.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
1. La controversia ha ad oggetto il diritto della N. a percepire l’assegno divorzile di 250 Euro mensili. Ritiene infatti il ricorrente che è illogica e contrastante con la giurisprudenza l’affermazione della Corte di appello che, nel disporre la corresponsione dell’assegno a carico del B., ha rilevato che la possibilità per la N. di ricevere assistenza materiale dal compagno P.R. è resa difficile dalla sua dichiarazione di fallimento pronunciata dal Tribunale di Savona nel maggio 2013. Ritiene infatti il ricorrente che, secondo una corretta e aggiornata interpretazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, deve ritenersi che l’instaurazione di una convivenza more uxorio elide ogni possibile connessione con il modello di vita precedente e fa venir meno i presupposti per il riconoscimento dell’assegno divorzile. Rileva inoltre il ricorrente che la sentenza della Corte di appello è censurabile anche sotto il profilo della ricognizione dei presupposti di cui all’art. 5 citato ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno come pure per ciò che concerne la regolamentazione delle spese processuali compensate per metà quanto ai due gradi del giudizio di merito e poste a carico dell’odierno ricorrente per la quota residua.
2. Si difende con controricorso N.M..
3. Il ricorrente deposita memoria difensiva.
Ritenuto che:
4. Il ricorso è manifestamente fondato alla luce della giurisprudenza di questa Corte (Cass. civ. sez. 1^ n. 6885/2015 e sez. 6^-1 n. 2466/2016) che ritiene cessata con l’instaurazione di una convivenza stabile e caratterizzata dalla relazione affettiva fra i conviventi la obbligazione di cui all’art. 5, per effetto della cessazione della solidarietà che caratterizza i rapporti fra gli ex coniugi dopo il divorzio.
5. Va pertanto accolto il primo motivo di ricorso con assorbimento del secondo relativo alla sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno divorzile. Alla cassazione della sentenza della Corte di appello può seguire la decisione nel merito di rigetto della domanda di assegno divorzile proposta dalla N..
6. Va invece respinto il terzo motivo di ricorso essendo la decisione sulle spese del giudizio di merito basata sulla parziale soccombenza del B. quanto alle domande relative al riconoscimento e alla quantificazione del contributo al mantenimento dei figli.
7. In relazione all’esito del giudizio e al recente mutamento della giurisprudenza di legittimità quanto alla questione controversa che ha costituito l’oggetto del primo motivo si ritiene di compensare interamente le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo motivo, e respinge il terzo motivo. Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda di assegno divorzile proposta da N.M.. Compensa le spese del giudizio di cassazione. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.

Pensione di reversibilità (una tantum divorzile)

Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11453
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La Corte d’appello di Messina, confermando la pronuncia di primo grado, ha rigettato la domanda avanzata da C.A., dopo il decesso di B.C. suo ex coniuge divorziato, ed avente ad oggetto il diritto di ottenere una quota della pensione di reversibilità spettante alla vedova del B., P.M.S..
A sostegno della decisione ha osservato che la C. aveva ottenuto di percepire l’assegno divorzile in un’unica soluzione avendo così perso il requisito della titolarità attuale del diritto all’assegno previsto dalla legge (L. n. 898 del 1970,art.5, commi 8 e 9e art.9, commi 2 e 3).
La Corte ha evidenziato che vi sono due orientamenti contrapposti: uno che sottolinea il profilo previdenziale del diritto in questione, tanto che soggetto destinatario della domanda è l’ente erogatore. In questo quadro la precedente corresponsione dell’assegno una tantum non esclude il diritto a richiedere la pensione di reversibilità, in quanto tale avvenuta corresponsione evidenzia la titolarità del diritto e, di conseguenza, la sussistenza del requisito di legge per il riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità.
L’orientamento contrario, invece, individua la condicio legis nella titolarità attuale del diritto all’assegno da ritenersi insussistente in quanto consumatasi con la corresponsione dell’una tantum. Secondo questo orientamento deve essere in atto un’erogazione economica periodica in favore del richiedente da sostituire con la quota di pensione di reversibilità.
La Corte d’Appello, nel condividere quest’ultimo orientamento, ha osservato che la previsione, contenuta nellaL. n. 898 del 1970,art.9 bisdi un assegno a carico dell’eredità, non indebolisce la soluzione adottata, dal momento che la titolarità attuale del diritto, comprovata dalla corresponsione periodica del contributo, costituisce una delle condizioni anche dell’assegno a carico dell’eredità. L’art. 5, comma 8, stabilisce, infatti, espressamente che la corresponsione in unica soluzione esclude che possa essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico. L’interpretazione preferita non si pone in contrasto conl’art. 3 Cost.nè con gli artt. 27 e 38 attesa la sostanziale differenza che corre tra corresponsione periodica e corresponsione una tantum la quale garantisce anche per il futuro i mezzi adeguati al sostentamento del coniuge così realizzando una condizione del tutto diversa da quella della corresponsione periodica. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione C.A. affidandosi a cinque motivi accompagnati da memoria.
Ha resistito con controricorso P.M.S..
Nel primo, secondo e quarto motivo di ricorso viene dedotta la violazione dellaL. n. 898 del 1970,artt.5e9per non essere stata ritenuta la natura previdenziale e non assistenziale del diritto ad una quota della pensione di reversibilità. Tale peculiare natura giuridica ha avuto origine dalla modifica normativa dell’art. 9, intervenuta con laL. n. 74 del 1987,art.13. Le S.U. con la sentenza n. 159 del 1998 hanno sottolineato la radicale diversità del regime giuridico all’esito della novella e l’incontestabile natura previdenziale del diritto desumibile dalla predeterminazione normativa dei requisiti e dalla conseguente esclusione del potere discrezionale del giudice in ordine all’an debeatur che caratterizzava il precedente sistema.
Deve in conclusione ritenersi, secondo la parte ricorrente, che il nuovo art. 9, comma 3 intende soddisfare l’interesse del soggetto assicurato exart. 38 Cost., comma 2 a che siano garantiti mezzi adeguati alle sue esigenze di vita nel momento in cui si realizza la situazione di stato di bisogno tipizzata in astratto dal legislatore.
Così delineato il diritto anche dalle S.U., non ha alcuna importanza l’assetto d’interessi realizzato o realizzabile dall’assegno divorzile, in quanto il diritto alla pensione di reversibilità o ad una quota di esso ha natura autonoma rispetto all’assegno divorzile. Per queste ragioni non è condivisibile l’orientamento seguito nella sentenza impugnata che ritiene necessaria la titolarità attuale dell’assegno divorzile e la esclude nel caso di avvenuta corresponsione una tantum, peraltro in contrasto con quanto ripetutamente affermato dalla Corte Costituzionale in tema di reversibilità nelle sentenze n. 777 del 1988 e n. 87 del 1995.
Infine la previsione normativa contenuta nellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 9secondo la quale in caso di corresponsione in unica soluzione dell’assegno di divorzio “non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico” non può essere interpretata nel senso di ricomprendere qualsiasi domanda che trova nel divorzio la sua giustificazione ma soltanto quelle dirette ad influire sull’attribuzione e determinazione dell’assegno.
Nel terzo motivo viene dedotta la violazione dellaL. n. 898 del 1970,artt.9e9 bisper avere la Corte d’Appello ritenuto di poter equiparare le condizioni di riconoscimento dell’assegno a carico dell’eredità, consistenti nella attuale titolarità di un assegno periodico, con quelle relative al diritto ad una quota della pensione di reversibilità, negandone la natura esclusivamente previdenziale.
Nel quinto motivo si prospetta l’eccezione d’illegittimità costituzionale dellaL. n. 898 del 1970,artt.5e9con riferimento ai parametri stabiliti negliartt. 3, 27 e 38 Cost.con riferimento alla lettura delle norme eseguita dalla Corte d’Appello in quanto fondata sull’esclusione della natura previdenziale del diritto la cui maturazione è svincolata dall’assetto d’interessi realizzato con l’assegno divorzile.
La prospettata eccezione d’illegittimità costituzionale deve ritenersi inammissibile dal momento che l’interpretazione adottata dalla Corte d’Appello non è l’unica che concorre a formare gli orientamenti giurisprudenziali anche in sede di giudizio di legittimità.
Deve infatti evidenziarsi che in ordine alla natura giuridica del diritto oggetto di esame nel presente giudizio ed in particolare in ordine all’interpretazione della condicio legis per l’esercizio del diritto consistente nell’essere il richiedente “titolare dell’assegno di cui all’art. 5” (L. n. 898 del 1970,art.9, comma 3) si registra un contrasto netto intersezionale negli orientamenti di questa Corte.
Le S.U. con la sentenza n. 159 del 1998 hanno stabilito che:
“il diritto del coniuge divorziato ad una quota del trattamento di reversibilità (art.9, comma 3, dellaL. n. 898 del 1970, art. 9, nel testo novellato dallaL. n. 74 del 1987,art.13) dello ex coniuge deceduto, non costituisce soltanto un diritto vantato nei confronti del coniuge superstite avente – in quanto tale – natura e funzione di prosecuzione del precedente assegno di divorzio, ma costituisce un autonomo diritto (avente natura previdenziale al pari di quel diritto che si configura invece – ai sensi del secondo comma dell’art. 9 cit. – allorché manchi un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità) al trattamento di reversibilità, che l’ordinamento attribuisce al coniuge superstite, con la sola peculiarità per cui un tale diritto è limitato – quantitativamente – dall’omologo diritto spettante al coniuge superstite”.
Nella successiva sentenza n. 12540 del 1998 hanno ribadito la natura previdenziale del diritto dopo la novella legislativa introdotta dallaL. n. 74 del 1987,art.13e la sua autonomia culminante nell’esclusione di qualsiasi discrezionalità del giudice nella decisione sull’an debeatur, – contrariamente a ciò che accadeva nel regime ante vigente – essendo i requisiti per il riconoscimento del diritto predeterminati dalla legge. Da questa impostazione scaturiscono, secondo questa pronuncia, effetti processuali (litisconsorzio con l’ente previdenziale) e di radicamento della competenza giurisdizionale quando non vi sia, come invece si riscontra nel caso di specie, conflitto tra coniuge superstite e coniuge divorziato.
La natura previdenziale del diritto è stata confermata anche dalla giurisprudenza lavoristica coeva o di poco successiva alle pronunce sopracitate delle S.U. ma traendone la conseguenza dell’insussistenza del diritto quando la corresponsione periodica dell’assegno di divorzio all’ex coniuge divorziato non sia in atto al momento della domanda. Fin dalla sentenza n. 10458 del 2002 si è affermato che, in considerazione della precondizione costituita dalla titolarità attuale del diritto all’assegno di divorzio la pensione di reversibilità (o una quota di essa) può essere riconosciuta “solo nei casi in cui, in sede di regolamentazione dei rapporti economici al momento del divorzio, le parti non abbiano convenuto la corresponsione di un capitale una tantum. Così interpretata, la previsione normativa di cui allaL. n. 898 del 1970,art.9, comma 3, e art. 5, comma 6, manifestamente non si pone in contrasto conl’art. 3 Cost.”.
Questa limitazione è stata seguita, anche dalla prima sezione di questa Corte, con la sentenza n. 17018 del 2003 nella quale è stato affermato, ancorché al fine d’indicare i criteri di quantificazione della quota di pensione di reversibilità spettante al coniuge divorziato in concorso con il superstite, che il diritto in questione, in quanto eziologicamente collegato alla titolarità attuale dell’assegno di divorzio, si fonda sulla precondizione della corresponsione periodica dell’assegno medesimo.
L’orientamento è, tuttavia, cambiato all’interno della medesima sezione, a partire dalla sentenza n. 13108 del 2010 nella quale si afferma che “l’accordo intervenuto tra i coniugi in ordine all’attribuzione dell’usufrutto sulla casa coniugale a titolo di corresponsione dell’assegno di divorzio in unica soluzione, a norma dellaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.5, comma 8, è idoneo a configurare la titolarità di detto assegno, alla stregua del principio della riconduzione ad assegno divorzile di tutte le attribuzioni operate in sede od a seguito di scioglimento del vincolo coniugale, dalle quali il beneficiario ritrae utilità espressive della natura solidaristico-assistenziale dell’istituto; ne consegue che tale costituzione di usufrutto soddisfa il requisito della previa titolarità di assegno prescritto dall’art. 5 della legge ai fini dell’accesso alla pensione di reversibilità, o, in concorso con il coniuge superstite, alla sua ripartizione”.
L’orientamento è confermato nella sentenza n. 16744 del 2011 con la seguente puntualizzazione: “resta irrilevante la modalità solutoria del debito, pattuita fra le parti – come nella specie – in forma “una tantum”, come espressamente consentito dallaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.5, comma 8, in via alternativa all’ordinaria corresponsione periodica”.
Il principio affermato da questo orientamento è, in conclusione il seguente: ferma la natura previdenziale e l’autonomia del diritto alla pensione di reversibilità (od ad una quota di essa) in capo al coniuge divorziato, il requisito indicato nellaL. n. 898 del 1970,art.9, comma 2consistente nella “titolarità dell’assegno” deve essere interpretato nel senso che vi deve essere stato un accertamento giudiziale relativo all’esistenza delle condizioni solidaristico-assistenziali che sottendono ad esso, risultando irrilevante che il diritto sia stato già riconosciuto e definitivamente quantificato con pagamento in un’unica soluzioneL. n. 898 del 1970, ex art. 5, comma 9 e nonostante la norma preveda che “in tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico”. (art. 5, comma 9 ultima parte).
La natura previdenziale del diritto determina, in conclusione, secondo tale opzione, la funzione dell’erogazione sganciandola dall’attualità della titolarità del diritto all’assegno di divorzio.
Nella sezione lavoro si è, invece, data continuità all’orientamento contenuto nella sentenza n. 10458 del 2002 e si è costantemente sostenuto che:
La corresponsione dell’assegno divorzile in unica soluzione su accordo tra le parti, soggetto a verifica giudiziale, è satisfattivo di qualsiasi obbligo di sostentamento nei confronti del beneficiario, il quale, quindi, non può avanzare successivamente ulteriori pretese di contenuto economico, né può essere considerato, all’atto del decesso dell’ex coniuge, titolare dell’assegno di divorzio, avente, come tale, diritto di accedere alla pensione di reversibilità o, in concorso con il coniuge superstite, a una sua quota (Cass. 9054 del 2016 nella quale è ampiamente ed efficacemente riportato il dibattito ed il contrasto giurisprudenziale sopraindicato; in precedenza cfr. le conformi n. 3635 del 2012; 26128 del 2015).
Deve evidenziarsi come nelle pronunce della sezione lavoro il rapporto processuale si è sviluppato tra il richiedente e l’Inps. Nelle sentenze della prima sezione il rapporto processuale si è sviluppato oltre che con l’ente erogatore la pensione di reversibilità anche con il coniuge superstite.
I richiami alle pronunce della Corte Costituzionale (n. 87 del 1995; 419 del 1999) non sembrano offrire una soluzione unitaria al contrasto che si è aperto riguardando la prima la necessità che il requisito della titolarità dell’assegno di divorzio derivi da una statuizione giudiziale e l’altra la non automaticità del criterio determinativo del quantum costituito dalla durata del matrimonio tra i coniugi divorziati.
Sussiste, pertanto, un netto contrasto intersezionale in ordine al diritto alla pensione di reversibilità (od ad una quota di essa) in capo al coniuge divorziato in caso di decesso dell’altro coniuge nell’ipotesi in cui sia stata stabilita la corresponsione in un’unica soluzione dell’assegno di divorzio.
In conclusione, il Collegio ritiene di rimettere la causa al Primo presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite di questa Corte.

P.Q.M.
dispone la trasmissione del procedimento al Primo presidente per l’eventuale rimessione alle Sezioni Unite civili.
In caso di diffusione omettere le generalità e i riferimenti geografici.

La riduzione dell’assegno divorzile decorre dalla data della domanda di modifica

Cass. civ. Sez. VI – 1, 3 maggio 2017, n. 10787
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
L.A., elettivamente domiciliato in Roma via della Balduina 289, presso lo studio dell’avv. Maria Gloria Di Loreto, rappresentato e difeso dall’avv. Doriana Buccarello, giusta procura speciale in calce al ricorso che dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo al fax n. 0871/330939 e alla p.e.c. avvdorianabuccarella-pec.ordineavvocatichieti; (AMMESSO G.P. Delib. CONS ORD. AVV. C/0 C.A. L’AQUILA 1/2/2010);
– ricorrente –
nei confronti di:
S.G., elettivamente domiciliata in Roma, via Bergamo 43, presso l’avv. Rosa Maria Ciancaglini, rappresentata e difesa dall’avv. Luciano Carinci, giusta procura speciale in calce al controricorso, che dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo al fax n.0871/349643 e alla p.e.c. avvlucianocarinci-pec.ordineavvocatichieti.it;
(ammessa G.P. CONS. ORD. AVV. C/O C.A. L’AQUILA 1/4/16);
– controricorrente – avverso il decreto n. 700/2015 della Corte di appello di L’Aquila, emesso il 21 luglio 2015 e depositato il 17 agosto 2015, n. R.G. 78/2015.
Svolgimento del processo
Che:
1. Il Tribunale di Chieti, con ordinanza 27 settembre – 4 ottobre 2011, ha respinto il ricorso, proposto da L.A.L. n. 898 del 1970, ex art. 9 inteso alla revoca dell’obbligo di corrispondere un assegno divorzile in favore di S.G., determinato in 550 Euro mensili nella sentenza di divorzio n. 836/06 del Tribunale di Chieti.
2. La Corte di appello di L’Aquila, con decreto del 25 giugno 2012, ha dichiarato l’improcedibilità del reclamo perché notificato oltre il termine assegnato dal giudice.
3. La Corte di Cassazione con ordinanza n. 21669/2014 ha cassato il decreto impugnato dal L. e ha rinviato alla Corte di appello di L’Aquila che con decreto n. 700/2015 ha accolto parzialmente il reclamo riducendo l’importo dell’assegno a 350 Euro mensili con decorrenza dal deposito della decisione. Ha ritenuto che il peggioramento delle condizioni economiche del ricorrente giustificasse tale rideterminazione.
4. Ricorre per cassazione L.A. che si affida a due motivi di impugnazione: a) violazione ed errata applicazione delle norme di diritto ovvero dellaL. n. 898 del 1970,art.4, comma 10e art.9in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 3; b) violazione ed errata applicazione delle norme di diritto ovvero degliartt. 91 e 92 c.p.c., in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 3.
5. Si difende con controricorso S.G..
6. Con il primo motivo di ricorso il L. lamenta la decorrenza della riduzione dell’assegno dalla data del deposito della sentenza della Corte di appello nel giudizio di rinvio nonostante fosse stato accertato che al momento della proposizione del ricorso era già intervenuta la perdita del lavoro.
7. Con il secondo motivo si lamenta la decisione di compensazione delle spese del giudizio di cassazione e di rinvio nonostante la soccombenza della S. in entrambi i gradi.

Motivi della decisione
che:
8. Il primo motivo è fondato alla luce della giurisprudenza che fa decorrere dalla domanda di modificazione l’efficacia della revisione in presenza di un accadimento che la giustifichi anche se antecedente ad essa (Cass. civ. sez. 1, n. 11913 del 22 maggio 2009 e sez. 6-1 n. 16173 del 30 luglio 2015). Nella specie la perdita del lavoro, che ha costituito l’evento dedotto dal ricorrente come ragione giustificativa della domanda di revisione, si era già verificata al momento del ricorso introduttivo del giudizio (1 giugno 2011). Il riferimento da parte della Corte di appello alle condizioni economiche anche attuali della S. risulta finalizzato a escludere che la ragione della riduzione dell’assegno dipendente dalla perdita del lavoro del L. potesse essere neutralizzata dall’intervenuto peggioramento delle condizioni della beneficiaria che la Corte ha escluso ipotizzando anche un miglioramento in seguito al suo attuale trasferimento presso la famiglia di origine.
9. Il secondo motivo è parzialmente fondato perché la compensazione delle spese del giudizio di cassazione può giustificarsi in relazione alla natura meramente processuale della controversia decisa con il giudizio di cassazione e in relazione alla giurisprudenza sulla questione della possibilità di concedere un nuovo termine per la rinnovazione della notifica che si è consolidata solo in seguito all’intervento delle Sezioni Unita (Cass. civ. S.U. n. 5700/2014). L’accoglimento solo parziale della domanda di revisione può giustificare la compensazione parziale delle spese del giudizio di rinvio che può essere determinata nella misura del 50%.
10. Va pertanto accolto il primo motivo di ricorso con conseguente cassazione del decreto impugnato e decisione nel merito di rideterminazione della decorrenza della revisione dell’assegno dalla domanda introduttiva del giudizio (giugno 2011).
11. Quanto alle spese del giudizio di rinvio vanno poste a carico della S. nella misura del 50% restando invece compensate quelle del precedente giudizio di cassazione. Le spese del presente giudizio fanno carico interamente alla contro ricorrente.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa il decreto impugnato e decidendo nel merito fissa la decorrenza della riduzione dell’assegno dalla domandaL. n. 898 del 1970, ex art. 9. Conferma la compensazione delle spese del precedente giudizio di cassazione. Compensa per metà le spese del giudizio di rinvio e condanna la ricorrente al pagamento della residua quota liquidata in 1.050 Euro. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in 2.100 Euro di cui 100 per spese, oltre accessori di legge e spese forfettarie. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.

All’acquirente della casa non è opponibile il contratto di comodato, ma solo l’assegnazione previamente trascritta

Corte di Cassazione civ. sez. VI – 3, 17 marzo 2017, n. 7007

Presidente Amendola – Relatore Dott. Barreca Giuseppina Luciana
Ordinanza
Svolgimento del processo
– con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Catania ha accolto l’appello proposto da C.V.
nei confronti di L.P.M.A. avverso la sentenza del Tribunale di Catania, sezione distaccata di
Acireale, il 9 dicembre 2009 e, per quanto ancora qui rileva, in riforma della sentenza di primo
grado, ha rigettato la domanda di rilascio avanzata dalla L.P. nei confronti della C. con citazione
notificata il 18 luglio 2007 (sancendo il diritto della C. di abitare l’immobile, insieme alla figlia,
fino al (OMISSIS); ha rigettato l’appello incidentale (riguardante la compensazione delle spese
del primo grado); ha confermato nel resto la sentenza del Tribunale (relativamente alle
domande riconvenzionali rivolte dalla convenuta nei confronti dei terzi chiamati, i suoceri V.G. e
S.C., nonchè il marito V.O., rigettate dal Tribunale, con decisione non impugnata dalla C.); ha
compensato le spese del grado;
– C.V. propone ricorso con un motivo;
– L.P.M.A. si difende con controricorso;
ricorrendo uno dei casi previsti dall’art. 375, comma 1, su proposta del relatore della sezione
sesta, il presidente ha fissato con decreto l’adunanza della Corte, ai sensi dell’art. 380 bis
c.p.c.;
– il decreto è stato notificato come per legge;
– parte ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
– con l’unico motivo si deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della Carta
Costituzionale e degli artt. 1175, 833 e 2644 c.c., dell’art. 134 c.p.c., comma 4.
Omessa motivazione, in relazione al primo motivo di gravame dedotto dalla C.: la Corte di
Appello non ha motivato, sotto l’aspetto materiale e grafico, per il periodo di godimento
successivo al novennio, in merito all’inopponibilità e/o all’inapplicabilità della norma di cui
all’art. 2644 c.c., per violazione da parte della L.P. del principio della buona fede, sotto
l’aspetto dell’abuso del diritto, e dell’exceptio doli generalis, in violazione dell’art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 59”; la ricorrente, pur avendo visto accolto il proprio gravame, con
accoglimento della domanda subordinata di riconoscimento del diritto ad abitare
l’immobile nei limiti del novennio dalla data del provvedimento di assegnazione della
casa coniugale, sostanzialmente addebita al giudice di non aver motivato in merito al
mancato accoglimento della domanda principale, volta ad ottenere il riconoscimento
del diritto fino al raggiungimento dell’indipendenza economica della figlia e,
comunque, non oltre il suo 25^ anno di età; aggiunge ampie considerazioni in merito
all’abuso del diritto ed alle sue applicazioni normative e giurisprudenziali, nonché in merito
all’exceptio doli generalis, sostenendo che l’uno o l’altro di questi rimedi avrebbe dovuto
esserle riconosciuto nel caso di specie, con la conseguenza che “la norma invocata dalla L.P.
andava disapplicata e/o l’effetto della sua trascrizione andava dichiarato inopponibile alla C.”;
– il motivo è in parte manifestamente infondato, in parte inammissibile;
– contrariamente a quanto si assume in ricorso, la Corte d’appello, non solo si è pronunciata sul
rigetto della domanda principale dell’appellante, ma ha adeguatamente motivato la propria
decisione, attribuendo rilevanza, per un verso, all’ordine delle trascrizioni del
provvedimento di assegnazione della casa coniugale e dell’atto di compravendita di
quest’ultima (tale che, ai sensi degli artt. 155 quater e 2644 c.c., il primo
provvedimento, in quanto trascritto dopo l’atto di compravendita, è risultato non
opponibile al terzo acquirente ai sensi del detto art. 155 quater) e, per altro verso, al
rapporto di comodato della casa coniugale esistente prima della separazione tra i
coniugi, con un’applicazione delle sentenze a S.U. n. 11096/02 e n. 20448/14,
favorevole al coniuge assegnatario della casa coniugale, già comodatario, anche nei
rapporti con i terzi, in deroga alla regola generale dell’inopponibilità del comodato ai
terzi (cfr. Cass. n. 664/16, secondo cui “il contratto di comodato di immobile,
stipulato dall’alienante di esso in epoca anteriore al suo trasferimento, non è
opponibile all’acquirente del bene, non estendendosi a rapporti diversi dalla
locazione le disposizioni, di natura eccezionale, di cui all’art. 1599 c.c., sicché
l’acquirente non può risentire alcun pregiudizio dall’esistenza del rapporto di
comodato, atteso il suo diritto di far cessare in qualsiasi momento, “ad libitum”, il
godimento del bene da parte del comodatario e di ottenere la piena disponibilità
della cosa”); malgrado la C., secondo un’altra possibile interpretazione (per la quale
cfr. Cass. n. 7776/16), nei rapporti con l’acquirente del bene, successore del
comodante, avrebbe dovuto essere soccombente. Quest’ultima è stata peraltro la tesi
seguita, nel caso di specie, dal Tribunale (che aveva dato ragione alla L.P.),
ritenendo che l’introduzione dell’art. 155 quater c.c., con la L. n. 54 del 2006,
avrebbe fatto venire meno le ragioni poste a fondamento della sentenza a S.U. n.
11096/02 e quindi il coniuge che non abbia trascritto il provvedimento di
assegnazione della casa coniugale, sarebbe equiparabile al comodatario nei rapporti
con i terzi acquirenti del bene oggetto di comodato;
Il giudice a quo ha disatteso siffatto orientamento interpretativo e, come detto, ha
dato prevalenza alle ragioni del coniuge su quelle del terzo acquirente, sia pure nei
limiti del novennio;
– poiché la Corte di merito ha fondato questa scelta interpretativa sugli argomenti sistematici di
cui sopra, non sussiste alcun vizio di motivazione;
– la mancata considerazione dei dati di fatto che, a detta della ricorrente, avrebbero dovuto
portare il giudice ad affermare l’abuso del diritto od il dolo ai suoi danni (su cui si insiste anche
nella memoria), non può dare luogo al vizio di motivazione denunciato con l’unico motivo di
ricorso, potendo, tutt’al più, rilevare come vizio di violazione di legge;
– tuttavia, rispetto a questo vizio, il ricorso è del tutto carente dell’indicazione delle norme di
legge violate, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4, nonché come nota la resistente, fondato su
presupposti fattuali che non risultano affatto accertati in sede di merito;
– per di più, le questioni giuridiche dell’abuso del diritto e dell’exceptio doli generalis, nei
termini in cui sono esposte in ricorso, appaiono essere inammissibili anche perché nuove, dato
che la ricorrente non dimostra se e quando le abbia poste, negli stessi termini, in sede di
merito;
in ogni caso, ove fossero state ammissibili, non avrebbero condotto alle conseguenze giuridiche
auspicate dalla ricorrente (vale a dire a paralizzare anche per il periodo successivo al novennio
gli effetti della trascrizione dell’atto di acquisto fatto dalla L.P.), ma tutt’al più alla tutela
risarcitoria (cfr. Cass. n. 20118/13); questa tutela non risulta essere stata invocata dalla C. nei
confronti della L.P., ma soltanto nei confronti dei suoceri e del marito, con domanda rigettata in
primo grado e non riproposta in appello (così come quella di revocatoria dell’atto di
compravendita, per come detto in sentenza e ricorso);
in conclusione, il ricorso va rigettato;
– le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo;
NON sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo
a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso
art. 13, comma 1 bis, poiché la ricorrente è stata ammessa al gratuito patrocinio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della
controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.800,00, per
compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro
200,00 ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 3, della Corte
Suprema di Cassazione, il 2 febbraio 2017.
Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2017.

Il coniuge anche se contumace nel giudizio di divorzio può sempre richiedere l’assegno divorzile nel giudizio di modifica

Cass. civ. Sez. VI – 1, 12 gennaio 2017, n. 683
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAGONESI Vittorio – Presidente –
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –
Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –
Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 25054-2015 proposto da:
K.V.O., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA QUINTILIO VARO 133, presso lo studio dell’avvocato ANGELO GIULIANI, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANTONIO GRAMSCI 9, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO MARTINO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLA RESTAINO giusta procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso il decreto n. R.V.G. 51354/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA del 22/07/2015, depositato il 05/08/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dell’11/11/2016 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO PIETRO LAMORGESE.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Relatore ha depositato la seguente proposta di definizione del giudizio, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..
La Corte d’appello di Roma, condecreto 5 agosto 2015, ha rigettato il reclamo proposto dalla K.V.O. avverso il decreto del Tribunale della stessa città che aveva rigettato la sua domanda di revisione delle condizioni di divorzio dal coniuge C.G., al fine di ottenere il riconoscimento di un assegno sul quale la sentenza di scioglimento del matrimonio, emessa nella sua contumacia, non si era pronunciata.
La Corte ha ritenuto che l’interessata non avesse dedotto né provato la sopravvenienza di fatti idonei a giustificare la revisione delle condizioni di divorzio.
La K.V. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un motivo, cui si è opposto il C. che ne ha eccepito la improcedibilità e infondatezza.
L’eccezione di improcedibilità del ricorso è infondata: il ricorso è stato notificato il 6 ottobre 2015 e depositato il 26 ottobre 2015, cioè nel rispetto del termine di venti giorni previstodall’art. 369 c.p.c..
Con il motivo proposto, la ricorrente lamenta l’aggravamento delle sue condizioni economiche, a seguito del venir meno dell’assegno di separazione, e la mancata valutazione delle favorevoli condizioni del C., dimostrate dal fatto di avere continuato a corrispondere l’assegno di separazione per un certo periodo anche dopo la sentenza di divorzio.
Il motivo è inammissibile.
Nel procedimento per la modifica delle condizioni di divorzio, la richiesta dell’assegno divorzile (previsto dallaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, come modificato dallaL. n. 74 del 1987,art.10) è ammissibile anche ove esso non sia stato precedentemente chiesto, ma è pur sempre necessario che siano dedotte e dimostrate – evidentemente nel giudizio di merito – circostanze sopravvenute, rispetto alle statuizioni del divorzio operanti rebus sic stantibus, concernenti la indisponibilità di mezzi adeguati e la impossibilità oggettiva di procurarseli (v. Cass. n. 30033/2011). La rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio di divorzio rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il principio trova ipotesi in cui chiede per la rimasto contumace nel non potendo essere a volta l’assegno sia giudizio di divorzio, lui riconosciuta una posizione diversa da quella del coniuge che, essendosi costituito, non abbia chiesto l’attribuzione di detto assegno (v. Cass. n. 17320/2005).
Tanto premesso, la ricorrente si è limitata, in sostanza, a chiedere la conferma dell’assegno attribuitole in sede di separazione, senza però considerare che la sentenza di divorzio ha determinato il venir meno del vincolo matrimoniale e, quindi, del titolo di quell’attribuzione patrimoniale e senza avere addotto, nel giudizio di merito, fatti sopravvenuti idonei a giustificare la revisione delle condizioni della sentenza di divorzio (infatti, la determinazione dell’assegno divorzile costituisce un effetto diretto della pronuncia di divorzio e prescinde dalle statuizioni patrimoniali pronunciate in sede di separazione, v. Cass. n. 398/2010, n. 25010/2007). Il giudizio di legittimità non è la sede nella quale l’ex coniuge possa dimostrare il peggioramento delle condizioni economiche e le ragioni in fatto della richiesta di attribuzione dell’assegno divorzile.
Le parti non hanno presentato memorie.
Il Collegio condivide la predetta relazione.
Il ricorso è inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile; condanna la ricorrente alle spese, liquidate in Euro 3100,00, di cui Euro 200,00 per esborsi.
Sussistono i presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore contributo previsto dalla legge.

Dice addio a un contratto a tempo indeterminato: niente mantenimento da parte del padre

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 24 febbraio – 14 marzo 2017, n. 6509
Presidente/Relatore Di Virgilio
Fatto e diritto
La Corte:
Premesso che:
Con la sentenza impugnata, la Corte d’appello di Firenze, premessa la mancata costituzione della B., e
precisato che era stata a questa regolarmente notificato il decreto di fissazione dell’udienza, a valere sia
per l’inibitoria che per il merito, ha rilevato che la figlia non solo era di età da escludere di per sé ogni
ipotesi di mantenimento, ma che risultava, sulla base delle dichiarazioni rese dalla madre, avere lasciato
il lavoro, da ritenersi a tempo indeterminato, per lavorare come magazziniera a tempo determinato, e che
i problemi psichici della stessa, peraltro irrilevanti ai fini del mantenimento, non erano stati provati,
mancando il fascicolo di parte della B..
Ricorre la B. sulla base di cinque motivi, illustrati con memoria.
Si difende con controricorso il L..
Rileva quanto segue.
1.1.- E’ infondato il primo motivo, inteso a far valere il vizio processuale per la fissazione della medesima
udienza per l’inibitoria e la presa in decisione, atteso che si applica il rito camerale ex art.4, L. 898/1970
e che la Corte d’appello ha evidenziato come fosse stata fissata udienza a valere sia per la sospensiva che
per il merito, né evidentemente la ricorrente potrebbe dolersi della mancata assegnazione alla
controparte del termine per gli scritti conclusivi, a cui questa aveva rinunciato chiedendo l’immediata
presa in decisione.
1.2.- Il secondo mezzo è in parte inammissibile, in parte infondato.
E’ incongruo il richiamo al principio della vicinanza della prova, atteso che, molto semplicemente, la Corte
d’appello ha dato atto della carenza probatoria in relazione alle condizioni psichiche della figlia, ma ha
altresì ritenuto in ogni caso l’irrilevanza della questione, e tale rilievo non è stato censurato dalla B..
1.3.- Il terzo mezzo è sostanzialmente inammissibile.
Posto il principio, tra le ultime affermato nella pronuncia di questa Corte del 9/5/2013, n. 11020, va
osservato che la Corte d’appello, dopo avere considerato l’età in sé della figlia, ha argomentato in ogni
caso rilevando che, interpretando quanto dichiarato dalla B. in sede di audizione presidenziale, si doveva
ritenere che la figlia avesse lasciato il precedente lavoro a tempo indeterminato, per trovare poi
un’occupazione a tempo determinato, da cui l’applicazione del principio secondo cui, una volta raggiunta
la capacità lavorativa, e quindi l’indipendenza economica, la successiva perdita dell’occupazione non
comporta la reviviscenza dell’obbligo del genitore al mantenimento (così le pronunce di questa Corte del
28/1/2008, n. 1761 e del 2/12/2005, n. 26259).
E detta motivazione non è suscettibile di censura motivazionale, atteso che nella specie si applica ratione
temporis l’art.360 n.5 c.p.c. nel testo modificato dal D.L. 22/6/2012, n.83, convertito nella legge
7/8/2012, n.134/2012, atteso che, come ritenuto nella pronuncia delle Sez.U. del 2/4/2014, n.8053, è
oggi denunciabile soltanto l’omesso esame di un fatto decisivo, che sia stato oggetto di discussione tra le
parti, nei limiti in cui l’anomalia motivazionale si tramuti in violazione di legge costituzionalmente
rilevante, in quanto attinente alla esistenza in sé della motivazione, purché il vizio risulti dal testo della
sentenza impugnata, a prescindere dal confronto delle altre risultanze processuali (nelle ipotesi quindi di
“mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, “motivazione apparente”, “contrasto
irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e” motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”,
esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” di motivazione).
1.4.- Il quarto mezzo è infondato, atteso che la difformità dalle conclusioni del P.G. non configura alcun
vizio ex art.360 cod. proc. civ.
1.5.- Il quinto motivo è infondato.
La ricorrente si duole della conferma dell’assegno di mantenimento determinato dal Tribunale in Euro
400,00 mensili, senza considerare che tale determinazione era conseguente all’assegnazione della casa
coniugale, revocata dalla sentenza impugnata: è agevole rilevare che, per potere elevare a proprio favore
l’assegno di mantenimento, la parte avrebbe dovuto proporre appello incidentale condizionato.
3.1.- Conclusivamente, va respinto il ricorso; le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alle spese, liquidate in Euro 2100,00, di cui Euro 100,00
per esborsi, oltre spese forfettarie ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del D.P.R. 115 del 30/5/2002, dà atto della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi.