La cointestazione del conto corrente bancario costituisce donazione indiretta se si accerta lo spirito di liberalità

Cass. civ. Sez. II, 28 febbraio 2018, n. 4682
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 15103/2014 proposto da:
C.M., elettivamente domiciliato in ROMA, viale Giulio Cesare 118, presso lo studio dell’Avvocato GIANFRANCO POLINARI, che lo rappresenta e difende per procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
M.G., rappresentata e difesa dagli Avvocati EDOARDO PONTECORVO e LUCIANO ALBERINI, presso il cui studio a ROMA, viale Carso 77, elettivamente domicilia, per procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1164/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 21/2/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 10/1/2018 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.
Svolgimento del processo
C.M. ha convenuto in giudizio, innanzi al tribunale di Roma, M.G. deducendo che la somma di Euro 50.000,00, da lui prelevata dal conto corrente bancario cointestato con la convenuta presso Banca Intesa, era stata oggetto di donazione da parte della M., la quale aveva cointestato il predetto conto corrente ad entrambe le parti versando sullo stesso la somma di Euro 100.000,00. In forza di tali fatti, l’attore ha chiesto che fosse accertata la contitolarità della somma complessiva di Euro 100.000 e la spettanza in suo favore di metà della somma, per donazione indiretta e per applicazionedell’art. 1298 c.c..
La convenuta, costituendosi in giudizio, ha chiesto il rigetto della domanda ed, in via riconvenzionale, la condanna dell’attore alla restituzione della somma di Euro 50.000,00, deducendo che: la contestazione del conto derivava, in realtà, dalla necessità che le operazioni di versamento e di pagamento fossero effettuate, per suo conto, dall’attore, con il quale aveva rapporti di amicizia da lungo tempo, in ragione dei periodi trascorsi dalla stessa in Francia e della sua età avanzata; non aveva mai manifestato l’animus donandi in relazione alla somma di Euro 50.000,00, prelevata dall’attore di sua iniziativa; la donazione mancava, in ogni caso, della forma previstadall’art. 782 c.c.; nessun rilievo aveva il richiamoall’art. 1298 c.c..
Il tribunale di Roma, con sentenza del 18/9/2009, ha respinto la domanda dell’attore ed, in accoglimento della domanda riconvenzionale, ha condannato C.M. al pagamento della somma di Euro 50.000,00, oltre interessi e spese.
C.M. ha proposto appello, sostenendo, per un verso, la sussistenza dell’animus donandi e, per altro verso, che, trattandosi di donazione indiretta, non era necessaria la forma solenne di cuiall’art. 782 c.c..
L’appellata ha chiesto il rigetto dell’appello.
La corte d’appello di Roma, con sentenza depositata il 21/4/2014, ha rigettato l’appello.
La corte, in particolare, dopo aver premesso, in generale, che, in caso di donazione indiretta, non è necessaria la forma solenne richiestadall’art. 782 c.c., essendo sufficiente il rispetto delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità, dato chel’art. 809 c.c., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previstidall’art. 769 c.c., non richiamal’art. 782 c.c., che prescrive per la donazione l’atto pubblico, ha ritenuto, in fatto, che “è pacifico, considerato che è lo stesso appellante che lo ha affermato nel giudizio di primo grado, che la somma impiegata per l’apertura del c/c cointestato apparteneva a M.G. che ha giustificato la cointestazione con la necessità di consentire al C. di svolgere una serie di operazioni per suo conto” e che “al di là di questo,… la mera cointestazione non costituisce prova della donazione di metà della somma, ma la mera presunzione di titolarità di entrambi, in ragione di metà ciascuno, del saldo attivo del conto (e non certo dell’importo esistente al momento dell’apertura del conto)”. “Né – ha aggiunto la corte – è possibile provare la… volontà della M. di volerlo beneficiare della somma di Euro 50.000,00, attraverso l’assunzione della prova testimoniale riproposta con l’atto di appello (ma non riproposta nelle conclusioni di primo grado)…”: posto che, per la donazione indiretta, non è necessaria la forma solenne dell’atto pubblico, essendo sufficiente, ma necessaria, la forma del negozio utilizzato, ha osservato la corte che, “nella specie, il negozio utilizzato è stato quello di apertura di conto corrente che, in ragione delD.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385,art.117, (T.U. Legge bancaria) deve essere redatto per iscritto”, sicchè “anche la prova dell’animus donandi avrebbe dovuto essere data per iscritto”, ritenendo, dunque, inammissibile la prova testimoniale.
C.M., con ricorso notificato il 30/5.3/6/2014 e depositato il 19/6/2014, ha chiesto, per un motivo, la cassazione della sentenza della corte d’appello.
Ha resistito M.G., con controricorso notificato l’11/7/2014 e depositato in data 24/7/2014.
La controricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1.Con un unico articolato motivo, il ricorrente, lamentando l’erronea o la falsa applicazionedell’art. 809 c.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, dopo aver ammesso che, in caso di donazione indiretta, non è necessaria l’osservanza della forma dell’atto pubblico, ha ritenuto che, trattandosi dell’apertura di un c/c bancario, l’animus donandi doveva risultare per iscritto, laddove, però, così opinando, si realizzerebbe una donazione diretta, mentre invece, in caso di donazione indiretta, è necessario osservare solo la forma del negozio scelto per attuare la liberalità atipica, come è accaduto nel caso di specie, dove si è sottoscritto un contratto di c/c bancario con la cointestazione dello stesso alle parti e senza che la M. abbia stabilito vincoli in ordine all’utilizzo o al prelievo di somme: e l’apertura di un c/c cointestato con denaro proveniente da una sola delle parti contraenti, non può che realizzare, in mancanza di un diverso accordo tra le parti, una forma di donazione indiretta del 50% dell’importo depositato.
2. Il motivo è fondato. Occorre premettere che il regime formale della forma solenne (fuori dai casi di donazione di modico valore di cosa mobile, dove, ai sensidell’art. 783 c.c., la forma è sostituita dalla traditio) è esclusivamente proprio della donazione tipica, e risponde a finalità preventive a tutela del donante, per evitargli scelte affrettate e poco ponderate, volendosi circondare di particolari cautele la determinazione con la quale un soggetto decide di spogliarsi, senza corrispettivo, dei suoi beni. Per la validità delle donazioni indirette, invece, non è richiesta la forma dell’atto pubblico, essendo sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità, dato chel’art. 809 c.c., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previstidall’art. 769 c.c., non richiamal’art. 782 c.c., che prescrive l’atto pubblico per la donazione (Cass. n. 468 del 2010, in motiv.; Cass. n. 14197 del 2013; Cass. SU n. 18725 del 2017 in motiv.). Ora, la cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito, è qualificabile come donazione indiretta qualora detta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari, rilevandosi che, in tal caso, con il mezzo del contratto di deposito bancario, si realizza l’arricchimento senza corrispettivo dell’altro cointestatario: a condizione, però, che sia verificata l’esistenza dell'”animus donandi”, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità. Ed invero, in una fattispecie per molti aspetti analoga alla presente, questa Corte ha affermato che “l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei contestatari – può essere qualificato come donazione indiretta solo quando sia verificata l’esistenza dell’animus donandi, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità” (Cass., n. 26983 del 2008; Cass. n. 468 del 2010) In altri termini, la possibilità che costituisca donazione indiretta la cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito, qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari, è legata all’apprezzamento dell’esistenza dell’animus donandi, consistente nell’accertamento che, al momento della cointestazione, il proprietario del denaro non avesse altro scopo che quello di liberalità (Cass. n. 26991 del 2013, in motiv.; Cass. n. 6784 del 2012). Nel caso di specie, la corte d’appello ha escluso, in fatto, la sussistenza, in capo a M.G., dell’animus donandi, sul rilievo, per un verso, che “… la mera cointestazione non costituisce prova della donazione di metà della somma…”e, per altro verso, che non è possibile provare “la volontà della M. di voler beneficiare il ricorrente della somma di Euro 50.000,00 attraverso l’assunzione della prova testimoniale” a tal fine invocata (sui capi riproposti nelle conclusioni rese: v. p. 2, 3 e 4 della sentenza impugnata) e non ammessa dal tribunale: posto che, per la donazione indiretta, non è necessaria la forma solenne dell’atto pubblico, essendo sufficiente, ma necessaria, la forma del negozio utilizzato, ha osservato la corte che, “nella specie, il negozio utilizzato è stato quello di apertura di conto corrente che, in ragione delD.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385,art.117, (T.U. Legge bancaria) deve essere redatto per iscritto”, sicché “anche la prova dell’animus donandi avrebbe dovuto essere data per iscritto”. Così opinando, però, la corte d’appello ha finito per ritenere che l’animus donandi, anche ai fini della prova della sussistenza della donazione indiretta, dev’essere oggetto di una emergenza diretta dal (diverso) atto scritto da cui tale liberalità risulta (art. 809 c.c.), laddove, al contrario, solo nella donazione diretta l’animus donandi deve emergere direttamente dall’atto (pubblico:art. 782 c.c.) che (con salvezza della donazione di bene mobile di modico valore), sotto pena di nullità, la contiene. Nella donazione indiretta, invece, la liberalità si realizza, anziché attraverso il negozio tipico di donazione, mediante il compimento di uno o più atti che, conservando la forma e la causa che è ad essi propria, realizzano, in via indiretta, l’effetto dell’arricchimento del destinatario, sicché l’intenzione di donare emerge non già, in via diretta, dall’atto o dagli atti utilizzati, ma solo, in via indiretta, dall’esame, necessariamente rigoroso, di tutte le circostanze di fatto del singolo caso, nei limiti in cui risultino tempestivamente e ritualmente dedotte e provate in giudizio da chi ne abbia interesse.
3. Il ricorso dev’essere, quindi, accolto e la sentenza impugnata, per l’effetto, cassata con rinvio, per un nuovo esame, ad altra sezione della corte d’appello di Roma, anche ai fini della regolamentazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
la Corte così provvede: accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Roma, anche ai fini della regolamentazione delle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 10 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2018

Il figlio biologico ha diritto all’accesso ai dati della madre naturale qualora la stessa sia deceduta

Cass. civ. Sez. VI – 1, 7 febbraio 2018, n. 3004
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – rel. Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7870-2017 proposto da:
G.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI
CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato LUCIANA GUERCI;
– ricorrente –
contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI TORINO;
– intimato –
avverso il decreto n. 43/17 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 23/01/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 05/12/2017 dal
Consigliere Dott. ANTONIO PIETRO LAMORGESE.
Svolgimento del processo
G.A., essendo figlio adottivo, ha chiesto al Tribunale per i Minorenni di Torino di accedere alle
informazioni riguardanti l’identità dei propri genitori biologici.
Il Tribunale, avendo accertato, all’esito delle indagini compiute, che il padre era ignoto, che la
madre era deceduta e che, al momento del parto, aveva chiesto di non essere nominata, ha rigettato
il ricorso, rilevando che la morte rendeva per il figlio impossibile accedere all’identità della madre,
il cui l’interpello – previsto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 278 del 2013, al fine di
consentirle di revocare la dichiarazione di non essere nominata – non era più possibile.
Il gravame di G. è stato rigettato dalla Corte d’appello di Torino, con sentenza del 23 gennaio 2017,
la quale ha ritenuto che la presenza di una norma, come il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, comma 2,
che consente l’acquisizione dei dati relativi alla propria nascita decorsi cento anni dalla data del
parto, dimostra che nell’ottica del legislatore la possibilità di acquisire i dati relativi all’identità del
proprio genitore prescinde dalla presenza in vita o dal sopravvenuto decesso dello stesso.
Avverso questa sentenza il G. ha proposto ricorso per cassazione, notificato al PG presso la Corte
d’appello di Torino.
Motivi della decisione
Il ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, art. 28, comma
7, alla luce della citata sentenza della Corte costituzionale, e invocato l’applicazione del principio
enunciato dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 15024 del 2016.
Il ricorso è fondato, essendosi la sentenza impugnata consapevolmente discostata dal principio
condivisibile, al quale si deve dare continuità, secondo cui, nel caso di cd. parto anonimo, sussiste
il diritto del figlio, dopo la morte della madre, di conoscere le proprie origini biologiche
mediante accesso alle informazioni relative all’identità personale della stessa, non potendosi
considerare operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo, il
termine, previsto dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, comma 2, di cento anni dalla formazione
del documento per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della
cartella clinica, comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia
dichiarato di non voler essere nominata. Una diversa soluzione determinerebbe la
cristallizzazione di tale scelta anche dopo la sua morte e la definitiva perdita del diritto
fondamentale del figlio, in evidente contrasto con la necessaria reversibilità del segreto (Corte
cost. n. 278 del 2013), nonché l’affievolimento, se non la scomparsa, di quelle ragioni di
protezione che l’ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della
madre, proprio in ragione della revocabilità di tale scelta (Cass. n. 15024 e 22838 del 2016).
Il ricorso va accolto con decisione nel merito, dovendosi autorizzare il ricorrente ad accedere alle
informazioni relative all’identità della propria madre biologica.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso e, decidendo nel merito, autorizza G.A. ad accedere alle informazioni
relative all’identità della propria madre biologica.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.
Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2018

Non è esperibile l’azione di disconoscimento di paternità nel caso di figlio nato dopo altre 300 giorni dalla separazione, l’azione residuale esperibile è quella di contestazione dello stato di figlio (art. 248 c.c.)

Cass. civ. Sez. I, 21 febbraio 2018, n. 4194
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
D.P.M., rappresentato e difeso, come da mandato steso a margine del ricorso, dall’Avv.to Stefania Jetti, del foro di Avellino, ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. Alessandro Sargeni, alla Piazza delle Primule n. 8 in Roma;
– ricorrente –
contro
D.S.A., rappresentata e difesa, in grado di appello dall’Avv. Ezio Di Loreto, del Foro di Brescia;
– resistente –
e contro
D.P.S., rappresentato e difeso, in grado di appello, dall’Avv. Alessia Guandalini, del Foro di Brescia;
– resistente –
avverso la sentenza n. 51, pronunciata dalla Corte d’Appello di Brescia e pubblicata il 19.1.2016;
udita la relazione svolta, nella camera di consiglio del 20.9.2017, dal Cons. Paolo Di Marzio;
la Corte osserva.
Svolgimento del processo
D.P.M., odierno ricorrente, il (OMISSIS) contraeva il c.d. matrimonio concordatario (matrimonio canonico trascritto) con D.S.A.. Quest’ultima, in data (OMISSIS), aveva dato alla luce il figlio S., registrato all’anagrafe come figlio suo e di D.P.M., sebbene fosse nato anni dopo la separazione personale dei coniugi, che avevano però conservato sporadiche frequentazioni. Il ricorrente adiva il competente Tribunale di Brescia ed affermava di aver appreso, solo da qualche mese, di non essere il vero padre di D.P.S. e, dunque, conveniva in giudizio la D.S.A. ed il minore, in persona del curatore all’uopo nominato, per contestare la propria paternità. Il Tribunale reputato, a seguito dell’espletata istruttoria, che D.P.M. fosse stato informato fin dall’epoca della gravidanza che il minore non era figlio proprio, ha ritenuto che parte attrice fosse decaduta dall’azione, ed ha perciò rigettato la domanda, condannando l’attore al pagamento delle spese processuali, anche ai sensidell’art. 96 c.c., D.P.M. ricorreva in appello, D.S.A. e D.P.S. resistevano.
La Corte d’Appello, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Brescia, revocava la statuizione di condanna di D.P.M. exart. 96 cod. civ.Confermava, invece, la decisione di prime cure di rigetto del disconoscimento, sulla base di una pluralità di elementi. In primo luogo la Corte di merito bresciana riteneva che, per quantol’art. 232 c.c., comma 2, preveda che la presunzione di concepimento non opera più decorsi trecento giorni: dalla pronuncia di separazione giudiziale, o dalla omologazione di separazione consensuale, ovvero dalla data della comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi sono stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione, l’attore aveva inequivocabilmente promosso un’azione di disconoscimento di paternità. Solo nel primo termine di cuiall’art. 183 c.p.c., comma 6, aveva proposto (anche) la impugnazione del riconoscimento di figlio nato da genitori non uniti in matrimonio per difetto di veridicità, ai sensidell’art. 263 c.c..Il termine di cui all’art. 186, comma 6, però, non può essere usato per introdurre una domanda totalmente nuova. L’unica domanda ritualmente proposta restava perciò quella di disconoscimento di paternità. Confermava in proposito, la Corte territoriale, la ritenuta attendibilità delle testimonianze rese dai primi figli della coppia e da L.M., deposizioni tutte le quali attestavano che D.P.M. sapeva di non essere il padre già al tempo della nascita di D.P.S.. La Corte d’Appello, in conseguenza, riteneva che, quando l’azione di disconoscimento era stata introdotta, il termine annuale di decadenza, decorrente dalla conoscenza della non paternità, fosse ampiamente decorso, ed in conseguenza rigettava l’impugnazione.
Avverso questa pronuncia ha proposto ricorso per cassazione D.P.M., affidandosi a nove motivi.
Motivi della decisione
1.1. – Con il primo motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, contestando il vizio di motivazione e comunque la violazione e/o falsa applicazionedell’art. 321 c.c., il ricorrente censura la decisione della Corte di merito per avere omesso di considerare il difetto di legittimazione della D.S.A. a proseguire nel giudizio di appello quale rappresentante del figlio D.P.S., che era frattanto divenuto maggiorenne. L’impugnante contesta che la dichiarazione del raggiungimento della maggiore età sia avvenuta nel corso del primo grado del giudizio e sia stata poi rilevata in udienza, il 19.6.2015, dinanzi alla Corte d’Appello.
1.2. – Mediante il secondo motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il ricorrente critica la decisione della Corte territoriale giacché avrebbe omesso di valutare la differente posizione processuale di D.P.S. e di sua madre, D.S.A.. Contesta l’impugnante che D.P.S., nel costituirsi in appello, ha dichiarato di far proprie tutte le deduzioni, eccezioni, allegazioni e conclusioni della madre, e questa condotta processuale non poteva ritenersi ammissibile, stante la diversità della posizione processuale del figlio rispetto a quella della genitrice.
1.3. – Con il terzo motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente censura la decisione della Corte bresciana per non aver applicato il principio del favor veritatis, che impone, in primo luogo nell’interesse del figlio stesso, di assicurargli l’attribuzione di “uno stato di famiglia prevalente corrispondente al rapporto di procreazione”, dovendo assicurarsi tutela al “suo diritto al vero stato filiale”.
1.4 – Mediante il quarto motivo di ricorso l’impugnante contesta, ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, invocando pure il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, la decisione adottata dalla Corte d’Appello per aver trascurato che, ai fini della decorrenza del termine annuale di decadenza dall’azione, occorre che il padre disconoscente abbia la “conoscenza certa” di non essere il genitore, risultando a tal fine insufficiente il mero sospetto, più o meno fondato. La conoscenza certa di non esser il padre, l’odierno ricorrente afferma di averla avuta solo in sede giudiziale, quando la moglie ha confessato che il ragazzo era figlio di altro padre. Nessuna decadenza poteva pertanto essersi verificata anteriormente.
1.5. – Con il quinto motivo d’impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente censura la Corte territoriale per aver ritenuto tardiva la domanda di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, effettuata nel primo termine di cuiall’art. 183 c.c., comma 6, sebbene controparte non avesse proposto alcuna opposizione, accettando pertanto il contraddittorio nel merito.
1.6. – Mediante il sesto motivo, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, il ricorrente critica la violazione del disposto di cuiall’art. 232 c.c., da parte della Corte territoriale, che aveva qualificato come un disconoscimento di paternità l’azione proposta, mentre non sussistevano i presupposti di legge per qualificare il ricorrente come il padre legittimo del figlio.
1.7. – Con il settimo motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per “omessa e/o errata valutazione di circostanze fattuali decisive: motivazione perplessa, carente e contraddittoria”, il ricorrente lamenta che la Corte territoriale ha ritenuto di valorizzare le deposizioni rese dagli altri suoi figli, che hanno cattivi rapporti con lui, ed ha in conseguenza ritenuto accertata la sua conoscenza di non essere padre dell’ultimo figlio, quello per cui è causa, negando pure l’espletamento della prova testimoniale articolata dall’odierno ricorrente.
1.8.- Mediante l’ottavo motivo, il ricorrente ha poi contestato il vizio di nullità della sentenza ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione del diritto di difesa, perché la Corte territoriale non ha ritenuto ammissibile la testimonianza da lui offerta, e raccolta nelle forme di cui al D.P.R. 28 ottobre 2000, n. 445, art. 47, in considerazione dell’età avanzata della deponente.
1.9.- Con il nono motivo di ricorso, proposto per violazione o falsa applicazionedell’art. 92 cod. proc. civ., il ricorrente censura la decisione della Corte di merito per aver fatto gravare su di lui le spese di lite.
2.1. – Con il primo motivo di ricorso l’impugnante contesta il vizio di legittimazione della madre a proseguire nel giudizio quale rappresentante del figlio, a seguito del compimento della maggiore età da parte di quest’ultimo. Il ricorrente non si premura, però, di indicare, dettagliatamente, quando la circostanza sia stata dichiarata e da chi, nonché dove se ne rinvenga annotazione negli atti processuali. Il ricorrente non fornisce neppure elementi da cui desumere la tempestività della sua contestazione. Peraltro, D.P.S. risulta essersi correttamente costituito in proprio innanzi alla Corte d’Appello.
Il motivo di ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile.
2.2. – Mediante il secondo motivo di impugnazione il ricorrente critica che il figlio, nel costituirsi avendo compiuto la maggiore età, non avrebbe potuto dichiarare di far proprie tutte le difese proposte dalla madre, perché le loro posizioni sostanziali e processuali risultano differenti. La censura appare infondata. Evidentemente, nel costituirsi in proprio, il figlio ha inteso fare proprie le difese proposte dalla madre in quanto sua rappresentante, scelta che gli era senz’altro consentita. Inoltre, in generale, non spetta al ricorrente sindacare le scelte difensive adottate da una controparte.
Il motivo di ricorso deve essere pertanto respinto.
2.3. – 2.6. – Il terzo ed il sesto motivo di ricorso possono essere trattati congiuntamente poiché, dalla loro sintesi, emerge la censura della decisione impugnata perché l’azione proposta non avrebbe dovuto essere qualificata come un disconoscimento di paternità, perché non sussisteva alcuna paternità “legittima” e comunque la valutazione della Corte di merito avrebbe dovuto essere orientata dall’applicazione del principio del favor veritatis, nell’interesse dello stesso figlio.
Invero, il favor veritatis è ormai riconosciuto, nella legislazione vigente come nella coscienza sociale, come un principio giuridico essenziale in materia di stati personali. La verità biologica costituisce di regola una componente essenziale del diritto all’identità personale, riconducibile alle previsioni di cuiall’art. 2 Cost., ed all’art. 8 CEDU. L’incertezza su tale status può infatti determinare una condizione di disagio dell’individuo, ed un vulnus allo sviluppo adeguato ed alla formazione della sua personalità (Cass. Sez. 1^ sent. 29.11.2016, n. 24292). Sul punto si è pronunciata anche la Corte Costituzionale, ed ha affermato che non si verifica la violazione di diritti costituzionalmente protetti del minore, in conseguenza dell’impugnazione del riconoscimento. Infatti, non vi può essere conflitto tra favor veritatis e favor minoris, se si considera che l’autenticità del rapporto di filiazione corrisponde all’interesse del minore, quale inviolabile diritto alla sua identità. Gli eventuali pregiudizi conseguenti all’accertamento della falsità del riconoscimento, possono essere eliminati con il ricorso ad altri strumenti predisposti a tutela del minore (Corte Cost., 22 aprile 1997, n. 112).
Tanto premesso, la disposizione invocata dal ricorrente,l’art. 232 cod. civ., prevede effettivamente che la presunzione di concepimento dei figli durante il matrimonio non opera “decorsi trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale” dei genitori, o “dalla omologazione di separazione consensuale, ovvero dalla data della comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi sono stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione”. È proprio quest’ultima la situazione che, pacificamente, si è verificata nel caso di specie. Il figlio è nato, infatti, il (OMISSIS), quasi tre anni dopo che le parti erano comparse innanzi al Presidente del Tribunale, il quale le aveva autorizzate a vivere separate all’udienza del 1.10.1991. Neppure si pone, pertanto, il problema di dover provvedere ad un bilanciamento tra valori entrambi di rilevo fondamentale, risolvendo un contrasto tra il favor legitimitatis ed il favor veritatis. Al bambino, invero, è stato impropriamente attribuito nei registri dell’anagrafe lo status di figlio c. d. legittimo nato nel matrimonio del ricorrente, potendo soltanto, al ricorrere dei presupposti, valutarsi se egli non sia comunque figlio c.d. naturale (nato fuori dal matrimonio) di D.P.M..
Il ricorrente si impegna anche, mediante il quinto motivo di ricorso, a contestare la Corte di merito per aver ritenuto tardiva la sua domanda di impugnazione del riconoscimento del figlio per difetto di veridicità, ma non è questo il punto. L’impugnazione della veridicità del riconoscimento presuppone che un riconoscimento sia stato effettuato ma, nel caso di specie, non risulta che il ricorrente abbia mai provveduto al riconoscimento del figlio.
Discende da quanto osservato – anche a prescindere dai termini di proposizione dell’azione, e dalla possibilità che maturi una decadenza – che nel caso di specie non risulta esperibile l’azione di disconoscimento della paternità, perché il concepimento non è intervenuto nel corso del matrimonio, e neppure l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, perché nessun riconoscimento del figlio è mai stato operato.
Il legislatore ha mostrato di avere ben presente la possibile ricorrenza di simili circostanze ed ha infatti previsto un’azione, che se si vuole può anche definirsi “residuale”, ed è quella di cuiall’art. 248 c.c., disposizione che prevede, al comma 1, “L’azione di contestazione dello stato di figlio spetta a chi dall’atto di nascita risulti suo genitore e a chiunque vi abbia interesse”. E’ allora appena il caso di ricordare che, nel caso di specie, dall’atto di nascita del figlio risulta che il padre è l’odierno ricorrente.
Il rilievo attribuito dal legislatore, anche in questa norma, al favor veritatis, appare ampiamente dimostrato dal riconoscimento del diritto all’azione “a chiunque vi abbia interesse”, ed è poi confermato dalla previsione di cuiall’art. 248 c.c., comma 2, ove si dispone che “l’azione è imprescrittibile”. Anche questa scelta appare agevolmente comprensibile. Nell’ipotesi del disconoscimento di paternità (di cui, ora, all’art. 243 bis c.c. e ss.) opera una presunzione legale, ed è perciò consentito agire per il suo superamento soltanto a soggetti determinati: padre, madre e figlio, imponendosi pure, alle prime due categorie di legittimati, stringenti termini di decadenza. Una valutazione analoga ha compiuto il legislatore in materia di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, di cuiall’art. 263 c.c., limitando nel tempo la possibilità di chi ha operato il riconoscimento (e degli altri legittimati, ma non del figlio) di smentire sé stesso mediante una controdichiarazione. Nessuno dei limiti succintamente indicati sussiste in relazione all’azione di cuiall’art. 248 c.c., perché in questo caso non opera alcuna presunzione legale e non vi è da smentire alcuna dichiarazione precedentemente resa. Ci troviamo, in sostanza, a dover verificare se effettivamente un figlio sia nato da un certo padre, come risulta dall’atto di nascita, ma senza che operi alcuna presunzione legale. Proprio la circostanza che ricorre nel caso di specie.
Non ignora il Collegio il risalente orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la norma di cuiall’art. 248 c.c., “non è concorrente con quelle dettate in tema di disconoscimento della paternità e non può ad esse derogare, configurando una azione con contenuto residuale, esperibile nelle sole ipotesi in cui non ricorrano altre disposizioni che regolino in modo autonomo azioni di contestazione della legittimità”, Cass. sez. 1^, sent. 28.11.1992, n. 12733, ed anzi intende assicurarvi continuità, visto che nell’ipotesi in esame, per le ragioni esposte, non risulta consentita al ricorrente alcun’altra azione per contestare la propria paternità.
Diversamente, non si intende assicurare continuità all’affermazione secondo cui “nell’ipotesi in cui la moglie abbia partorito oltre i trecento giorni dopo l’omologazione della separazione consensuale, il marito, che contesti di aver generato il neonato, non può esercitare l’azione di contestazione di legittimità di cuiall’art. 248 c.c., (che configura una disposizione residuale, diretta a contestare lo “status” di figlio legittimo indipendentemente dalla paternità del marito e, quindi, non escludendo necessariamente che possa trattarsi di figlio naturale, ancorché illegittimo, di questi), ma esercita l’azione di disconoscimento di paternità di cuiall’art. 235 c.c., salve, per la difformità del caso da quello testualmente previsto dal menzionato art. 235 (limitato al “concepimento durante il matrimonio”, secondo le indicazioni fornite al riguardodall’art. 232 c.c., comma 1), le conseguenze sul regime della prova. Infatti, in tal caso a differenza dell’ipotesi di concepimento durante il matrimonio (in cui non è consentito al marito superare la presunzione di paternità, su di lui ricadente a normadell’art. 231 c.c., se non nei casi tassativamente elencati dall’art. 235) non operando detta presunzione, a norma dell’art. 232, comma 2, si ha un ristabilimento delle normali regole sulla ripartizione dell’onere della prova, sicché al marito spetta di provare soltanto lo stato di separazione legale, mentre incombe alla moglie dimostrare la paternità del marito come se agisse al di fuori del matrimonio e, quindi, ai sensidell’art. 269 c.c., con ogni mezzo, con insufficienza, però, della madre” e della “sola esistenza Cass. sez. 1^, sent. 20.2.1998, n. 2098. Qualora non operi la presunzione di paternità, infatti, e non sia intervenuto il riconoscimento del figlio nato da genitori non uniti in matrimonio, l’unica azione a disposizione del padre è proprio la contestazione dello stato di figlio di cuiall’art. 248 c.c., rappresentando un problema diverso quello relativo all’accertamento dell’eventuale paternità naturale del ricorrente.
In definitiva, il giudice di prime cure, nel presente giudizio, ha errato nel qualificare l’azione proposta dall’odierno ricorrente come un disconoscimento paternità di cui non sussistevano i presupposti, essendo il figlio nato anni dopo la separazione della madre e del presunto padre, e la Corte d’Appello, mediante la decisione impugnata è incorsa nel vizio contestato, confermando siffatta qualificazione della domanda.
Nei limiti esposti, pertanto, gli indicati motivi di ricorso devono essere accolti.
I residui motivi di ricorso restano assorbiti.
Occorre pertanto procedere alla cassazione della decisione impugnata, con rinvio alla Corte di appello di Brescia che, in diversa composizione, procederà a rinnovare il giudizio, applicando i principi innanzi richiamati e provvedendo, inoltre, al regolamento delle spese processuali relative al presente grado.
P.Q.M.
La Corte accoglie, nei limiti esposti in motivazione, il terzo ed il sesto motivo di ricorso proposti da D.P.M. e, in relazione ai motivi accolti, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la disciplina delle spese del ricorso per cassazione, alla Corte d’Appello di Brescia in diversa composizione, che provvederà a rinnovare il giudizio nel rispetto dei principi innanzi esposti.
Dispone, ai sensi delD.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196,art.52, comma 5, che, in caso di riproduzione per la diffusione della presente decisione, le generalità e gli altri dati identificativi delle parti e dei soggetti menzionati siano omessi.
Così deciso in Roma, il 20 settembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2018

Ripartizione dell’onere della prova nel giudizio di addebito della separazione per infedeltà

Cass. civ. Sez. VI – 1, 19 febbraio 2018, n. 3923
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1765/2017 proposto da:
S.G., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ROSA DI CAPRIO;
– ricorrente –
contro
M.M.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 2346/2016 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 10/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 16/01/2018 dal Consigliere Dott. MARIA GIOVANNA C. SAMBITO.
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Napoli ha pronunciato la separazione personale dei coniugi S.G. e M.M., addebitandola al marito, ha assegnato alla moglie la casa coniugale e previsto un contributo per il mantenimento della figlia minore A., affidata ad entrambi i genitori e con domicilio prevalente presso la madre. La Corte d’appello di Napoli con sentenza del 10.6.2016, ha addebitato la separazione anche alla moglie, che ha proposto ricorso, sulla base di tre motivi, con cui deduce, rispettivamente la violazione degliartt. 2697, 143 e 151 c.c., ed omesso esame di un punto decisivo. Il M. non ha svolto difese.
Motivi della decisione
1. Il Collegio ha deliberato la redazione della motivazione in forma semplificata.
2. I motivi, attinenti tutti alla ricorrenza del nesso eziologico tra violazione del dovere di fedeltà (che si afferma non provato in maniera puntuale) ed intollerabilità della prosecuzione della convivenza, sono inammissibili. Occorre premettere che secondo consolidata giurisprudenza: a) l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, che deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a determinare l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza ed a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempre che non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, mediante un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale (Cass. 7 dicembre 2007, n. 25618; ed ancora, più di recente, Cass., ord. 14 agosto 2015, n. 16859; n. 917 del 2017); b) la relazione di un coniuge con estranei rende addebitabile la separazione ai sensidell’art. 151 c.c.quando, in considerazione degli aspetti esteriori con cui è coltivata e dell’ambiente in cui i coniugi vivono, dia luogo a plausibili sospetti di infedeltà e, quindi, anche se non si sostanzi in un adulterio, comporti offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge. (Cass. n. 15557 del 2008; n. 8929 del 2013; n. 21657 del 2017); c) grava sulla parte che richieda, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’addebito della separazione all’altro coniuge l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre, è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà (Cass. 14 febbraio 2012, n. 2059).
3. Tali principi risultano osservati dalla Corte territoriale laddove, nel valutare le risultanze processuali (puntuali e circostanziate annotazioni contenute nel diario della ricorrente, telefonate e “squilli” durante le giornate) ha ritenuto provata nel senso sub b) la relazione della moglie, ed ha affermato che la separazione non è stata determinata dalla mediocrità della storia coniugale ma da tale relazione – qualificata come un evento recente ed emotivamente duro, intervenuto mentre il marito ancora tentava in modo grossolano approcci con la moglie – oltre che dalle inammissibili aggressioni fisiche del marito, in ragione delle quali la separazione gli era stata, correttamente, addebitata già dal Tribunale.
4. Le censure della ricorrente, volte a negare il nesso causale tra presunto tradimento e crisi del rapporto coniugale ed a sottolineare la gravità della condotta del M., sotto le mentite spoglie di denunce di violazione di legge, attingono, quindi, inammissibilmente, al merito, dovendo, in conclusione, ribadirsi che la condotta violenta di un coniuge non può esser mai giustificata da comportamenti dell’altro, ma che tale condotta (qui non in discussione) non vale, a sua volta, a giustificare la violazione dei doveri che sorgono dal matrimonio.
5. Non va provveduto sulle spese, in assenza di attività difensiva dell’intimato.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, inserito dallaL. n. 228 del 2012,art.1, comma 17, dichiara che sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. In caso di diffusione del presente provvedimento, dispone omettersi le generalità e gli altri dati identificativi delle parti, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2018.

La riconciliazione, quale causa estintiva degli effetti della separazione, è eccezione in senso proprio il cui accertamento è precluso dalla morte del coniuge

Cass. civ. Sez. II, 23 gennaio 2018, n. 1630
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1648-2014 proposto da:
R.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G.MERCALLI 11, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO TAGLIALATELA, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
C.E., S.M.G., S.S.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 9632/2012 del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata il 07/09/2012;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/12/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
R.F. ha proposto ricorso articolato in quattro motivi avverso la sentenza del Tribunale di Napoli n. 9632/2012 del 2 febbraio 2012, essendo stata dichiarata l’inammissibilità dell’appello a normadell’art. 348-bis c.p.c.edell’art. 348-ter c.p.c.con ordinanza della Corte d’Appello di Napoli del 16 ottobre 2013, comunicata in pari data.
Sono rimasti intimati, senza svolgere attività difensive, C.E., S.M.G. e S.S..
Con citazione del 25 marzo 2011, R.F. convenne C.E., S.M.G. e S.S., deducendo di aver contratto matrimonio religioso ad effetti civili in data 25 ottobre 1970 con il de cuius S.C., deceduto il (OMISSIS), e che il rapporto matrimoniale si fosse di fatto protratto nonostante la crisi coniugale determinatasi negli anni novanta. Allegando, pertanto, la propria qualità di erede legittimaria, R.F. domandò la declaratoria di invalidità del testamento olografo del (OMISSIS), con cui S.C. aveva istituito suoi eredi universali i nipoti S.M.G. e S.S., e chiese di accertare la simulazione di una compravendita del (OMISSIS), intercorsa tra lo stesso S.C. ed C.E.. S.M.G., unica convenuta costituitasi, oppose tuttavia che R.F. fosse priva di legittimazione, essendosi separata con reciproco addebito di colpa da S.C. in forza di sentenza n. 6912/1974 del 15 marzo 1974. L’adito Tribunale di Napoli rigettò le domande di R.F., alla lucedell’art. 584 c.c., comma 2, e superò anche la deduzione operata dall’attrice nella memoria scritta del 5 ottobre 2011, depositata ai sensidell’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1, secondo cui la separazione coniugale era il frutto di simulazione. In particolare, osservò il Tribunale che tale dedotta simulazione fosse contrastata dal giudicato formatosi e dalla cessazione della convivenza tra i coniugi che conseguì alla separazione, risultando peraltro inammissibile per genericità e per la novità dell’allegazione di fatto la prova per testi dedotta dalla R. nella memoria del 3 novembre 2011, volta a dimostrare che i coniugi avessero mantenuto, pur dopo la separazione, “ordinari rapporti di natura coniugale nonché una indefessa comunione di intenti e di spirito”.
Il primo motivo del ricorso di R.F., che è rubricato “error in procedendo”, ipotizza poi nella parte espositiva la violazione degliartt. 163 c.p.c.e ss. ed assume la nullità della sentenza per aver il Tribunale ritenuto intempestiva la deduzione dell’avvenuta ricostituzione del vincolo coniugale dopo la separazione, avendo l’attrice già in citazione allegato le circostanze del “protrarsi”, “conservarsi” e “rinnovarsi” del rapporto matrimoniale. Si ribadisce la decisività dei capitoli di prova articolati nella memoria istruttoria.
Anche il secondo motivo di ricorso è rubricato “error in procedendo”, e denuncia la nullità dell’ordinanza istruttoria del 30 gennaio 2012 di rigetto delle deduzioni istruttorie, per mancanza di motivazione.
Il terzo motivo è rubricato “violazione di legge in materia di ammissibilità della prova”, e contesta la valutazione di “genericità” dei capitoli di prova formulati nella memoria exart. 183 c.p.c., comma 6, n. 2, del 3 novembre 2011.
Il quarto motivo del ricorso di R.F. censura, infine, la violazionedell’art. 157 c.c., avendo il Tribunale erroneamente ritenuto che solo la ripresa della coabitazione avrebbe comportato la cessazione degli effetti della separazione.
I quattro motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, in quanto logicamente connessi, e si rivelano infondati.
Come allega la stessa ricorrente, riproducendone pedissequamente il contenuto nel ricorso, la citazione introduttiva non faceva alcun riferimento alla separazione coniugale intervenuta nel (OMISSIS) tra i coniugi R.F. e S.C., con reciproco addebito. L’attrice espose piuttosto in citazione di un rapporto matrimoniale “protratto”, “conservato” e “rinnovato” nonostante la cessazione della coabitazione impostale dal 1995 per i dissapori con la famiglia S., ma non dedusse ancora alcunché nell’ atto introduttivo della lite circa la “cessazione degli effetti civili della separazione”, proprio perché non introdusse nel giudizio in origine il tema della intervenuta separazione coniugale. La questione della riconciliazione fu poi allegata dall’attrice soltanto nel verbale di udienza del 21 luglio 2011 in risposta alle difese della convenuta costituitasi.
L’esistenza di quella sentenza di separazione con addebito reciproco del (OMISSIS), abbondantemente passata in giudicato al momento dell’apertura della successione di S.C., si è rivelata decisiva per negare la sussistenza dei diritti successori del coniuge superstite, tenuto conto dell’incidenza di tale addebitabilità sugli indicati diritti, a norma degliartt. 548 e 585 c.c.La ricorrente assume ora di aver dedotto già appunto all’udienza del 21 luglio 2011 l’inefficacia della separazione determinata da “riconciliazione protratta” e dalla “ricostituzione della comunione familiare”, allegazione confermata nei capitoli della prova per testi respinta, ove si discuteva di “ordinari rapporti di natura coniugale nonché una indefessa comunione di intenti e di spirito”, “ricostituita comunione affettiva, materiale e spirituale”, “frequenti incontri”, e condivisione di luoghi di lavoro e di culto.
Il Tribunale ha affermato che non fosse stata comunque specificamente formulata dall’attrice R. una deduzione dell’avvenuta riconciliazione dei coniugi, successiva alla sentenza di separazione del (OMISSIS), istituto che, invero, sia nel vigore della precedente disciplina degliartt. 157 e 158 c.c., che secondo la formulazione di queste norme risultante a seguito della riforma del diritto di famiglia (L. 19 maggio 1975, n. 151,artt.39e40), determina la cessazione degli effetti della separazione. In forzadell’art. 157 c.c., tuttavia, gli effetti della separazione personale, in mancanza di una dichiarazione espressa di riconciliazione, cessano soltanto col fatto della coabitazione, la quale non può, quindi, ritenersi ripristinata per la sola sussistenza di ripetute occasioni di incontri e di frequentazioni tra i coniugi, ove le stesse non depongano per una reale e concreta ripresa delle relazioni materiali e spirituali costituenti manifestazione ed effetto della rinnovata società coniugale (cfr. Cass. Sez. 3, 26/08/2013, n. 19541; Cass. Sez. 1, 22/08/2006, n. 18220; Cass. Sez. 1, 28/05/1975, n. 2172). Correttamente provvedendo al giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, di interpretazione degli atti processuali e, in particolare, delle istanze e deduzioni delle parti, il Tribunale di Napoli concluse che R.F., in conseguenza delle eccezioni proposte dalla convenuta S.M.G., non avesse specificamente allegato l’avvenuta cessazione degli effetti della separazione, con correlata caducazione della sentenza a far data dal ripristino della convivenza spirituale e materiale, a tanto non valendo, peraltro, le generiche deduzioni inserite nel verbale dell’udienza del 21 luglio 2011. Come da questa Corte già sostenuto in una remota pronuncia, va qui riaffermato che l’avvenuta riconciliazione dei coniugi, quale causa estintiva degli effetti della separazione, concreta un’eccezione in senso proprio, che deve essere perciò formulata mediante una specifica deduzione, non essendo all’uopo sufficiente la generica istanza di rigetto della domanda o delle eccezioni proposte dall’altra parte (Cass. Sez. 1, 10/01/1974, n. 70).
Parimenti, non è sindacabile nel giudizio di cassazione, sotto il profilo della violazione di legge processuale, come dedotto dalla ricorrente, il giudizio sulla superfluità o genericità della prova testimoniale, involgendo esso una valutazione di fatto che può essere censurata soltanto se basata su erronei principi giuridici, ovvero su incongruenze di ordine logico ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (Cass. Sez. 2, 10/09/2004, n. 18222; Cass. Sez. 3, 16/11/1971, n. 3284). E’ coerente allora con l’individuato tema di causa la decisione del Tribunale di Napoli (da valutare in questa sede per come espressa nella sentenza impugnata, e non nell’ordinanza istruttoria del 30 gennaio 2012, la quale non ha contenuto decisorio e non è perciò immediatamente sindacabile con ricorso per cassazione) di ritenere comunque generica, ai fini delle circostanze rilevanti per la riconciliazione exart. 157 c.c., le prove articolate nella memoria del 3 novembre 2011.
Si consideri, da ultimo, che la morte di uno dei coniugi preclude ogni successiva pronuncia giudiziale attinente alla separazione personale, sia pure anche con riferimento alle istanze accessorie circa la regolamentazione dei rapporti patrimoniali attinenti alla cessazione della convivenza, restando salve le sole domande autonome che, ove già proposte nel giudizio di separazione, riguardino diritti e rapporti patrimoniali indipendenti dalla modificazione soggettiva dello status, già acquisiti al patrimonio dei coniugi, e nei quali subentrano gli eredi (cfr. Cass. Sez. 1, 20 novembre 2008, n. 27556; Cass. Sez. 1, 20/02/1984, n. 1199; Cass. Sez. 1, 12/05/1981, n. 3129).
Di tal che, la morte del coniuge S.C., avvenuta prima dell’inizio del presente giudizio, esclude comunque che possa più accertarsi l’avvenuta riconciliazione successiva alla sentenza di separazione con reciproco addebito, sia pure al fine di farne cessare gli effetti nell’interesse dalla coniuge R.F., la quale si professa erede del defunto ed intende far valere nel processo i suoi diritti di natura successoria.
Il ricorso va dunque rigettato. Non occorre regolare le spese del giudizio di legittimità, in quanto gli intimati non hanno svolto attività difensive.
Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dellaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater al testo unico di cui alD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13- dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater, inserito dallaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Dopo la morte della madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, il figlio da diritto di conoscere le proprie origini biologiche

Cass. civ. Sez. VI – 1, 7 febbraio 2018, n. 3004
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7870-2017 proposto da:
G.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato LUCIANA GUERCI;
– ricorrente –
contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI TORINO;
– intimato –
avverso il decreto n. 43/17 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 23/01/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 05/12/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO PIETRO LAMORGESE.
Svolgimento del processo
G.A., essendo figlio adottivo, ha chiesto al Tribunale per i Minorenni di Torino di accedere alle informazioni riguardanti l’identità dei propri genitori biologici.
Il Tribunale, avendo accertato, all’esito delle indagini compiute, che il padre era ignoto, che la madre era deceduta e che, al momento del parto, aveva chiesto di non essere nominata, ha rigettato il ricorso, rilevando che la morte rendeva per il figlio impossibile accedere all’identità della madre, il cui l’interpello – previsto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 278 del 2013, al fine di consentirle di revocare la dichiarazione di non essere nominata – non era più possibile.
Il gravame di G. è stato rigettato dalla Corte d’appello di Torino, con sentenza del 23 gennaio 2017, la quale ha ritenuto che la presenza di una norma, come il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, comma 2, che consente l’acquisizione dei dati relativi alla propria nascita decorsi cento anni dalla data del parto, dimostra che nell’ottica del legislatore la possibilità di acquisire i dati relativi all’identità del proprio genitore prescinde dalla presenza in vita o dal sopravvenuto decesso dello stesso.
Avverso questa sentenza il G. ha proposto ricorso per cassazione, notificato al PG presso la Corte d’appello di Torino.
Motivi della decisione
Il ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, alla luce della citata sentenza della Corte costituzionale, e invocato l’applicazione del principio enunciato dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 15024 del 2016.
Il ricorso è fondato, essendosi la sentenza impugnata consapevolmente discostata dal principio condivisibile, al quale si deve dare continuità, secondo cui, nel caso di cd. parto anonimo, sussiste il diritto del figlio, dopo la morte della madre, di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative all’identità personale della stessa, non potendosi considerare operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo, il termine, previsto dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, comma 2, di cento anni dalla formazione del documento per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata. Una diversa soluzione determinerebbe la cristallizzazione di tale scelta anche dopo la sua morte e la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio, in evidente contrasto con la necessaria reversibilità del segreto (Corte cost. n. 278 del 2013), nonché l’affievolimento, se non la scomparsa, di quelle ragioni di protezione che l’ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della madre, proprio in ragione della revocabilità di tale scelta (Cass. n. 15024 e 22838 del 2016).
Il ricorso va accolto con decisione nel merito, dovendosi autorizzare il ricorrente ad accedere alle informazioni relative all’identità della propria madre biologica.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso e, decidendo nel merito, autorizza G.A. ad accedere alle informazioni relative all’identità della propria madre biologica.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi

Il fondo patrimoniale determina un vincolo di destinazione sui beni in esso confluiti senza incidere sulla titolarità dei beni stessi, né creando diritti soggettivi in favore dei singoli componenti del nucleo familiare

Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2018, n. 3641
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12190/2013 proposto da:
T.U., Z.R.A., elettivamente domiciliati in Roma, Viale Parioli n.47, presso lo studio dell’avvocato Corti Pio, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Granata Sergio, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
Intesa San Paolo S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Pompeo Magno n.3, presso lo studio dell’avvocato Gianni Saverio, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Marelli Fausto, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 345/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 24/01/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29/09/2017 dal cons. FALABELLA MASSIMO;
lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale CAPASSO LUCIO che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. – Con atto di citazione notificato il 27 maggio 2004 San Paolo IMI s.p.a. proponeva, nei confronti di T.U. e Z.R.A., domanda revocatoria, ai sensi dell’art. 2901 c.c., con riguardo alla costituzione, da parte del primo dei nominati convenuti, di un fondo patrimoniale avente ad oggetto l’immobile di sua proprietà sito in (OMISSIS), in provincia di (OMISSIS). T. e Z. si costituivano in giudizio e in questo interveniva pure Italfondiario s.p.a., in qualità di procuratrice di Castello Finance s.r.l., la quale chiedeva che l’atto di costituzione del fondo patrimoniale venisse dichiarato inefficace anche nei confronti della propria mandante.
Il Tribunale di Varese negava che dovesse integrarsi il contraddittorio nei confronti di T.N. e F.M., figli dei convenuti e, nel merito, ritenuto che l’atto dispositivo impugnato costituisse una liberalità e che esso avesse arrecato un pregiudizio alle ragioni di credito dell’attrice, riducendo la garanzia patrimoniale cui questa poteva fare affidamento, accoglieva la domanda San Paolo Imi (non anche quella di Italfondiario, ma tale ultimo profilo in questa sede più non rileva).
2. – In sede di gravame la Corte di appello di Milano, con sentenza del 24 gennaio 2013 rigettava l’impugnazione proposta dai coniugi T.: in particolare il giudice distrettuale escludeva dovesse farsi luogo ad integrazione del contraddittorio nei confronti dei figli degli attori e riteneva suscettibile di revocatoria l’atto costitutivo di beni in fondo patrimoniale.
3. – La pronuncia è oggetto del ricorso per cassazione proposto da T.U. e da Z.R.A., il quale è affidato a due motivi. Resiste con controricorso Intesa Sanpaolo s.p.a., società nata dalla fusione per incorporazione di San Paolo IMI e Banca Intesa.
Il pubblico ministero ha rassegnato conclusioni scritte a norma dell’art. 380 bis c.p.c., comma 1, domandando il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
1. – Il primo motivo lamenta violazione o falsa applicazione dell’art. 101 c.p.c. e conseguente nullità della sentenza o del procedimento. La censura investe la statuizione nella sentenza impugnata che ha escluso l’integrazione del contraddittorio: sul punto, assumono i ricorrenti che ai figli dei soggetti che hanno costituito un fondo patrimoniale sarebbe attribuita legittimazione attiva quantomeno con riguardo alle azioni volte alla salvaguardia dei beni del fondo.
1.1. – Il motivo non merita accoglimento.
Va data continuità al principio per cui la costituzione del fondo patrimoniale determina soltanto un vincolo di destinazione sui beni confluiti nel fondo stesso, affinché, con i loro frutti, sia assicurato il soddisfacimento dei bisogni della famiglia, ma non incide sulla titolarità dei beni in questione, né implica l’insorgere di una posizione di diritto soggettivo in favore dei singoli componenti del nucleo familiare, neppure con riguardo ai vincoli di disponibilità (Cass. 15 maggio 2014, n. 10641; Cass. 29 novembre 2000, n. 15297): in conseguenza, i figli del debitore non sono litisconsorti necessari nel giudizio promosso dal creditore per sentire dichiarare l’inefficacia dell’atto con il quale il primo abbia costituito alcuni beni di sua proprietà in fondo patrimoniale (cfr. sul punto le sentenze citate, con particolare riferimento all’ipotesi dei figli minori; in tema, cfr. pure Cass. 17 marzo 2004, n. 5402, secondo cui i figli dei coniugi che hanno proceduto alla costituzione di un fondo patrimoniale non sono parte necessaria nel giudizio, promosso dal creditore con azione revocatoria, diretto a far valere l’inefficacia di tale costituzione, giacché il fondo patrimoniale non viene costituito a beneficio dei figli, ma per far fronte ai bisogni della famiglia, com’è confermato dal fatto che esso cessa con l’annullamento, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio a norma dell’art. 171 c.c.).
2. – Col secondo motivo è denunciata violazione o falsa applicazione degli artt. 2901 e 167 c.c.. Assumono gli istanti che l’atto tra vivi di costituzione di beni in fondo patrimoniale vada compreso tra gli atti soggetti a revocatoria quando, oltre alla destinazione dei beni al soddisfacimento dei bisogni della famiglia, con la creazione di un patrimonio separato, l’operazione comporti anche il trasferimento dei beni dal terzo ai coniugi o da un coniuge all’altro; insuscettibili di formare oggetto dell’actio pauliana risulterebbe essere, invece, gli atti di destinazione che non si traducano in trasferimenti di beni o ricchezza. Nella fattispecie, mancando un atto di acquisto non sarebbe del resto possibile la qualificazione dell’operazione in termini di onerosità o di gratuità del titolo. Peraltro, la gratuità dell’atto, nel caso in esame, dovrebbe escludersi: infatti il fondo patrimoniale era stato costituito in attuazione del dovere di contribuzione ai bisogni familiari, e più specificamente al bisogno primario essenziale di garantire un’abitazione alla famiglia. In altri termini, il fondo patrimoniale rappresenterebbe, nella presente circostanza, la concreta modalità per garantire il sostentamento familiare e il perseguimento degli obiettivi di crescita morale e culturale della famiglia stessa; la costituzione di esso dovrebbe quindi considerarsi atto solutorio e non già mera liberalità.
2.1. – Nemmeno tale censura è fondata.
Pure sul punto la giurisprudenza di legittimità è consolidata e il Collegio non ha motivo di discostarsene. Infatti, l’atto di costituzione del fondo patrimoniale, anche se compiuto da entrambi i coniugi, è un atto a titolo gratuito, soggetto ad azione revocatoria ai sensi dell’art. 2901 c.c., comma 1, n. 1, (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2530; sempre sulla esperibilità dell’azione revocatoria ordinaria dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale: Cass. 18 ottobre 2011, n. 21492; Cass. 7 ottobre 2008, n. 24757; nel senso che, in tema di revocatoria ordinaria del negozio costitutivo del fondo patrimoniale, la gratuità dell’atto fonda la sua dichiarazione di inefficacia ai sensi dell’art. 2901 c.c. se sussiste la mera conoscenza del pregiudizio arrecato ai creditori: Cass. 8 agosto 2007, n. 17418; in materia di revocatoria fallimentare dell’atto istitutivo del fondo: Cass. 8 agosto 2013, n. 19029; Cass. 23 marzo 2005, n. 6267; Cass. 8 settembre 2004, n. 18065; Cass. 20 giugno 2000, n. 8379). Va qui considerato che la costituzione del fondo patrimoniale per fronteggiare i bisogni della famiglia non integra, di per sé, l’adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatoria per legge, ma configura un atto a titolo gratuito, non trovando contropartita in un’attribuzione in favore dei disponenti.
3. – Il ricorso è quindi respinto.
4. – Segue, in base al principio di soccombenza, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidandole in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Anche nella fase della quantificazione dell’assegno divorzile si farà riferimento al parametro dell’autosufficienza economica

Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2018, n. 3015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 17398-2016 proposto da:
S.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CARONCINI n. 6, presso lo studio dell’avvocato GENNARO CONTARDI, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
P.V.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GASPERINA 188, presso lo studio degli avvocati RENE’ VERRECCHIA, e VALERIA SILLA che unitamente e disgiuntamente lo rappresentano e difendono;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3486/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 05/06/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24/10/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO PIETRO LAMORGESE.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Roma, con sentenza del 5 giugno 2016, ha rigettato il gravame principale di S.A. avverso la sentenza del Tribunale di Roma che aveva revocato l’assegnazione a suo favore della casa coniugale e rigettato la sua domanda di aumentare rassegno divorzile, posto a carico dell’ex coniuge P.V.C., da Euro 800,00 a Euro 3.800,00 o, in caso di mancata assegnazione della casa coniugale, a Euro 5.800,00; ha rigettato il gravame incidentale di P.V. che aveva chiesto l’eliminazione dell’assegno.
La Corte ha rigettato la domanda del P. di eliminazione dell’assegno divorzile; ha poi ritenuto che la S. non avesse diritto all’assegnazione della casa coniugale, poiché l’unico figlio della coppia era maggiorenne e dimorava presso il padre, né all’integrazione dell’assegno, essendo proprietaria di un appartamento, da cui percepiva un canone di locazione, e di un terreno, oltre a beneficiare di un reddito per un’attività lavorativa svolta in una società.
Avverso questa sentenza la S. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi; il P.V. ha resistito con controricorso. Le parti hanno presentato memorie.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, la ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione degli artt. 116 e 187 c.p.c., poiché la Corte di merito non aveva ammesso una prova testimoniale, a suo avviso, rilevante ai fini di una congrua determinazione dell’assegno divorzile.
Il motivo è inammissibile. Esso non contiene la trascrizione dei capitoli di prova né l’indicazione dei testi e delle ragioni per le quali essi sarebbero stati qualificati a testimoniare, né della tempestività e ritualità della relativa istanza di ammissione nel giudizio di merito, elementi necessari al fine di consentire a questa Corte di valutare la decisività del mezzo istruttorio richiesto (Cass. n. 9748/2010).
Con il secondo, la ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Cost. e L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 6 poiché la revoca dell’assegnazione della casa coniugale (assegnata invece alla S. nel giudizio di separazione) potrebbe aggravare le sue condizioni di salute, in quanto affetta da crisi ansioso-depressiva a seguito dell’abbandono del marito.
Il motivo è inammissibile, a norma dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, avendo la sentenza impugnata fatto corretta applicazione del principio – già desumibile, in sede di divorzio, dalla L. n. 898 del 1970, art. 6, comma 6, e, in sede di separazione, dai previgenti artt. 155 e, poi, 155 quater c.c. (introdotto dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54) ed ora 337 sexies c.c. (introdotto dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 55) – secondo cui il provvedimento di assegnazione della casa coniugale è subordinato alla presenza di figli, minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti, conviventi con i genitori: tale ratio protettiva, che tutela l’interesse dei figli a permanere nell’ambiente domestico in cui sono cresciuti, non è configurabile in presenza di figli economicamente autosufficienti, sebbene ancora conviventi, verso cui non sussiste alcuna esigenza di speciale protezione (Cass. n. 25010/2007 in ambito divorzile; Cass. 21334/2013 in sede di separazione).
Con il terzo motivo, è denunciata violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5 e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, non avendo la sentenza impugnata considerato che l’integrazione dell’assegno era necessaria per consentire alla S. di conservare il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Il motivo è infondato.
Si deve premettere che sulla debenza dell’assegno divorzile è calato il giudicato, essendo la sentenza impugnata stata censurata soltanto dalla S., che ha chiesto l’aumento dell’assegno posto dal primo giudice a carico del P.V..
Il giudizio relativo al quantum debeatur, logicamente e giuridicamente successivo a quello positivo sull’an debeatur (Cass. n. 11504 del 2017), è stato compiuto dai giudici di merito con un apprezzamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, che ha fatto applicazione dei principali criteri di quantificazione dell’assegno indicati nel vigente testo della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, (durata del matrimonio, condizioni reddituali delle parti, contributo dato da ciascuno alla conduzione familiare).
La Corte di merito ha confermato l’importo dell’assegno, che il primo giudice aveva determinato, tenendo conto della breve durata della convivenza matrimoniale (circa sei anni) e delle condizioni personali ed economiche della S., persona abilitata all’esercizio della professione forense e proprietaria di un terreno e di un appartamento da cui percepiva (all’epoca della separazione) un canone di locazione. La sentenza impugnata ha riferito delle libere scelte di vita della S. di rinunciare a una carriera promettente, di accettare un posto di lavoro part-time e poi di dimettersi dal lavoro all’età di quarantasei anni, senza che vi fosse prova di alcuna costrizione al riguardo né di tentativi di riprendere l’attività lavorativa, come precisato dai giudici di merito con un apprezzamento di fatto non specificamente censurato. Il criterio del “contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio personale di ciascun coniuge e di quello comune”, indicato nella L. del 1970, art. 5, comma 6, ai fini della quantificazione (e non dell’attribuzione) dell’assegno, costituisce pur sempre oggetto di prova nel giudizio, seppure in via presuntiva, di cui è onerata la parte che richiede l’assegno.
La conservazione del tenore di vita matrimoniale, richiamato dalla ricorrente a sostegno della richiesta di quantificazione dell’assegno in misura superiore a quella riconosciutale, non costituisce più un parametro di riferimento utilizzabile né ai fini del giudizio sull’an debeatur né di quello sul quantum debeatur, la cui determinazione è finalizzata a consentire all’ex coniuge il raggiungimento dell’indipendenza economica (Cass. nn. 11504, 15481, 23602, 20525, 25327 del 2017).
A giustificare l’attribuzione dell’assegno non è, quindi, di per sé, lo squilibrio o il divario tra le condizioni reddituali delle parti, all’epoca del divorzio, né il peggioramento delle condizioni del coniuge richiedente l’assegno rispetto alla situazione (o al tenore) di vita matrimoniale, ma la mancanza della “indipendenza o autosufficienza economica” di uno dei coniugi, intesa come impossibilità di condurre con i propri mezzi un’esistenza economicamente autonoma e dignitosa.
Quest’ultimo parametro va apprezzato con la necessaria elasticità e l’opportuna considerazione dei bisogni del richiedente l’assegno, considerato come persona singola e non come ex coniuge, ma pur sempre inserita nel contesto sociale. Per determinare la soglia dell’indipendenza economica occorrerà avere riguardo alle indicazioni provenienti, nel momento storico determinato, dalla coscienza collettiva e, dunque, né bloccata alla soglia della pura sopravvivenza né eccedente il livello della normalità, quale, nei casi singoli, da questa coscienza configurata e di cui il giudice deve farsi interprete, ad essa rapportando, senza fughe, le proprie scelte valutative, in un ambito necessariamente duttile, ma non arbitrariamente dilatabile. È questa una valutazione di fatto riservata al giudice di merito, censurabile in cassazione nei ristretti limiti in cui lo consente il novellato art. 360 c.p.c., n. 5.
Con il quarto motivo è denunciata violazione e falsa applicazione del D.P.R. 3 maggio 2002, n. 115, poiché la sentenza aveva posto a carico di entrambe le parti soccombenti il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, mentre tale versamento non discende dal mero rigetto dell’impugnazione, ma dalla manifesta infondatezza della domanda e dalla mala fede della parte impugnante.
E’ inammissibile il motivo di ricorso per cassazione, come quello in esame, avverso le statuizioni della sentenza di appello che abbiano dato atto della sussistenza o insussistenza dei presupposti per l’erogazione, da parte del soccombente, di un importo pari a quello corrisposto per il contributo unificato, in quanto tale rilevamento, essendo un atto dovuto collegato al fatto oggettivo delle definizione del giudizio in senso sfavorevole all’impugnante, non ha un contenuto decisorio suscettibile di impugnazione, sicché l’eventuale erroneità dell’indicazione sul punto potrà essere solo segnalata in sede di riscossione (Cass. n. 22867 del 2016).
In conclusione, il ricorso è rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alte spese, liquidate in Euro 2100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi.
Doppio contributo a carico della ricorrente come per legge. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.

Solo la convivenza more uxorio stabile e duratura e non anche la “relazione” rileva ai fini dell’esclusione dell’assegno di divorzio

Cass. civ. Sez. VI – 1, 5 febbraio 2018, n. 2732
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23567-2014 proposto da:
V.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO 12, presso lo studio dell’avvocato FRANCO DI LORENZO, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO PASINETTI;
– ricorrente –
C.B., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 268-A, presso lo studio dell’avvocato ALESSIO PETRETTI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati NUNZIA COPPOLA LODI, PAOLO LODI;
– contro ricorrente e ricorrente incidentale –
e contro
V.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO 12, presso lo studio dell’avvocato FRANCO LORENZO, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO PASINETTI;
avverso il decreto n. 222/2014 V.G. della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, emesso il 18/06/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/10/2017 dal Presidente Relatore Dott. MASSIMO DOGLIOTTI.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
In un procedimento di modifica di condizioni di divorzio, tra V.G. e C.B., la Corte d’Appello di Brescia, riformava la pronuncia di primo grado, escludendo che la convivenza more uxorio dell’ex coniuge, beneficiario di assegno facesse venir meno il diritto all’assegno stesso.
Ricorre per cassazione il V..
Resiste con controricorso la C.,che pure propone ricorso incidentale.
Richiesta dalla controricorrente la trattazione davanti alle Sezioni Unite, il fascicolo è stato restituito a questa sezione 6.
Va preliminarmente osservato che il decreto impugnato, pur privo della data di emissione e di quella di deposito, risulta comunque sottoscritto dal Presidente e sono indicati i componenti del collegio. E’ da presumere che la data di deposito coincida con quella di comunicazione alle parti.
Il ricorso principale va accolto, in quanto manifestamente fondato.
Giurisprudenza di questa Corte, ampiamente consolidata da alcuni anni (tra le altre, Cass. N. 17195 del 2011; Cass. 6855 del 2015; Cass. 18111 del 2017), afferma che la scelta dell’ex coniuge di costituire una convivenza more uxorio stabile e duratura, che all’evidenza, ben diversa da una mera coabitazione tra soggetti estranei, fa venir meno il diritto all’assegno. Ciò del tutto indipendentemente dalla posizione economica di ciascun convivente. Del resto è la stessa controricorrente che, anche nel giudizio di appello, ammetteva tale convivenza more uxorio.
Anche il ricorso incidentale appare manifestamente fondato, nei limiti che si indicheranno. Afferma la C. che la convivenza more uxorio predetta già esisteva durante la procedura di divorzio (se così fosse, il marito avrebbe dovuto proporre la questione in tale ambito). Sostiene altresì che il V. aveva ammesso tale situazione; richiama in tal senso il verbale presidenziale, nel quale peraltro l’odierno ricorrente principale si era limitato a precisare che esisteva una relazione della moglie con altra persona, ciò che è ovviamente altra cosa rispetto alla convivenza more uxorio, ed è ben possibile che la relazione si sia poi trasformata, successivamente, alla pronuncia di divorzio. in convivenza. D’altra parte, la questione costituiva oggetto di un motivo di reclamo, sul quale la Corte di merito non si è per nulla pronunciata. Rimane evidentemente assorbita la richiesta di condanna ex art. 96 c.p.c..
Va cassato il provvedimento impugnato, con rinvio alla Corte di Appello di Brescia, in diversa composizione, che, fermo il principio per cui la convivenza more uxorio, stabile e duratura, dell’ex coniuge esclude il suo diritto all’assegno, ferma altresì la sussistenza di tale convivenza, dovrà accertare il momento in cui questa si è costituita. Il giudice del rinvio si pronuncerà pure sulle spese del presente procedimento.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale, e, nei limiti di cui in motivazione, quello incidentale; cassa il provvedimento impugnato, con rinvio alla Corte di Appello di Brescia che pure si pronuncerà sulle spese del presente giudizio.
In caso di diffusione del presente provvedimento. omettere generalità ed atti identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

La sospensione della prescrizione non si applica ai coniugi separati

Cass. civ. Sez. III, 23 novembre 2017, n. 27889
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ORDINANZA
sul ricorso 1739/2016 proposto da:
P.G., elettivamente domiciliata in ROMA, P.ZA ADRIANA 20, presso lo studio dell’avvocato ANTONELLA LO CONTE, che la rappresenta e difende giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
A.O., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA EIANINA, 21, presso lo studio dell’avvocato ANNA CASTAGNA, che lo rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 6082/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 03/11/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/10/2017 dal Consigliere Dott. GIOVANNI FANTICINI;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. ANNA MARIA SOLDI che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso perchè infondato.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
RILEVATO CHE:
– A.O. proponeva opposizione all’esecuzione exart. 615 c.p.c., comma 1, contestando il diritto di P.G. di procedere all’esecuzione forzata minacciata con l’atto di precetto notificato il 5 agosto 2009;
– per quanto ancora rileva in questa sede, l’opponente eccepiva (tra l’altro) la prescrizione del credito azionato, relativo al mancato pagamento di assegni di mantenimento della prole dovuti dal gennaio 1998 (in forza del verbale di separazione consensuale omologato il 29 dicembre 1997) al febbraio 2001 (stante il passaggio in giudicato – il 2 marzo 2001 – della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio);
– si costituiva in giudizio P.G., la quale chiedeva il rigetto dell’opposizione;
– con sentenza n. 6270 del 25 marzo 2011, il Tribunale di Roma accoglieva l’opposizione, ritenendo fondata l’eccezione di prescrizione;
– l’opposta proponeva appello avverso tale decisione;
– la Corte d’appello di Roma, con la sentenza n. 6082 del 3 novembre 2015, respingeva il gravame e condannava l’appellante a rifondere le spese del grado;
– P.G. impugna la predetta sentenza con ricorso per cassazione affidato a tre motivi;
– resiste con controricorso A.O.;
– il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte exart. 380-bis c.p.c., comma 1 e ha chiesto il rigetto del ricorso;
– anche la ricorrente ha depositato memoria exart. 380-bis c.p.c., comma 1.
CONSIDERATO CHE:
1. Col primo motivo la ricorrente censura la decisione per violazione (exart. 360 c.p.c., n. 3) degliartt. 160, 147, 148, 316-bis e 2934 c.c., nonché per vizio della motivazione exart. 360 c.p.c., n. 5, per avere la Corte di merito ritenuto soggetti a prescrizione i crediti inerenti al mantenimento della prole da corrispondere attraverso il pagamento di assegni in ratei mensili; afferma la P. che dalle caratteristiche di inderogabilità dell’obbligo di mantenimento e di irrinunciabilità e indisponibilità del relativo diritto il giudice del merito avrebbe dovuto desumere l’imprescrittibilità dei crediti azionati.
2. Il motivo è inammissibile.
Nel ricorso introduttivo la P. dichiara di avere impugnato con l’appello la decisione di primo grado “censurando l’accoglimento dell’eccezione di prescrizione ex adverso proposta, in quanto inammissibile – stante la genericità della proposizione da parte dell’opponente… – ed in quanto infondata, stante sia la sospensione ex lege per tutta la durata del vincolo coniugale (02.03.2001), sia l’interruzione ad opera della notifica dell’atto di precetto (03.02.2006).
Dalla sentenza della Corte d’appello (a cui la ricorrente non imputa un vizio di minuspetizione exart. 112 c.p.c.) si trae conferma che le censure formulate con l’appello erano limitate a “1) l’inammissibilità dell’eccezione di prescrizione, perché proposta in maniera generica” e “2) l’infondatezza dell’eccezione di prescrizione, non avendo il giudice di prima istanza dato rilievo all’atto di precetto notificato in data 3.2.2006”.
Questa Corte ha già statuito che “i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito né rilevabili d’ufficio” (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 7981 del 30/03/2007, Rv. 597111-01; analogamente, Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 17041 del 09/07/2013, Rv. 627045-01: “Non sono prospettabili, per la prima volta, in sede di legittimità le questioni non appartenenti al tema del decidere dei precedenti gradi del giudizio di merito, né rilevabili di ufficio”).
3. Col secondo motivo la ricorrente deduce – richiamandol’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 – violazionedell’art. 2938 c.c., poiché, nel confermare la decisione di primo grado, la Corte d’appello avrebbe accolto un’eccezione di prescrizione formulata in modo generico e senza l’allegazione del fatto che ne determina la decorrenza, arrivando così ad individuare ex officio gli elementi costitutivi dell’eccezione.
4. Il motivo è inammissibile.
Per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (art. 366 c.p.c.) la parte ricorrente è onerata di indicare nell’atto gli elementi fattuali condizionanti l’ambito di operatività di detta violazione; conseguentemente, qualora si affermi – come fa la ricorrente – che una difesa è stata formulata in maniera generica o inidonea negli atti della controparte, è necessario procedere alla trascrizione integrale dei medesimi o del loro essenziale contenuto al fine di consentire il controllo della Corte di legittimità sulla base del solo ricorso, senza necessità di ulteriori indagini integrative.
In altri termini, al fine di permettere a questa Corte l’esame della sua censura (segnatamente, la mancata deduzione degli elementi fondanti la prescrizione estintiva), la P. avrebbe dovuto riportare il testo dell’atto di citazione in opposizione con cui l’ A. ha sollevato l’eccezione.
Al contrario, l’odierna ricorrente si limita ad asserire che la controparte non aveva specificato alcunché e che solo nelle conclusioni aveva chiesto apoditticamente di “dichiarare, comunque, l’avvenuta prescrizione del credito azionato”.
Anche a voler prescindere dalla lacunosità del ricorso, il motivo non può trovare accoglimento: infatti, “grava sulla parte che eccepisce la prescrizione estintiva solamente l’onere di allegare l’inerzia del titolare del diritto dedotto in giudizio e di manifestare la volontà di avvalersene, non anche di tipizzare l’eccezione specificando a quale tra le previste prescrizioni, diverse per durata, intenda riferirsi, spettando al giudice stabilire se, in relazione al diritto applicabile al caso, l’eccepita estinzione si sia verificata” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 15790 del 29/07/2016, Rv. 641583-01; analogamente, Cass., Sez. 3, Sentenza n. 24037 del 13/11/2009, Rv. 610673-01, e Cass., Sez. 3, Sentenza n. 14576 del 22/06/2007, Rv. 598981-01).
5. Col terzo motivo la ricorrente censura la sentenza di merito richiamandol’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – per violazione degliartt. 2943 e 2697 c.c., per non essere stata attribuita efficacia interruttiva della prescrizione all’atto di precetto precedentemente notificato in data 3 febbraio 2006, la cui ricezione era stata affermata dallo stesso opponente, indipendentemente da una materiale produzione del documento nel giudizio; inoltre, la P. afferma che non è stata considerata dai giudici di merito la sospensione del termine di prescrizione exart. 2941 c.c., n. 1, la cui applicabilità ai coniugi separati è controversa in giurisprudenza.
6. Il motivo contiene due distinte censure.
Nella sentenza impugnata si legge: “Ha sostenuto il giudice di prime cure… (che) l’opposizione doveva ritenersi fondata senza che alcun effetto interruttivo potesse riconoscersi al precedente precetto che la convenuta assume essere stato notificato all’ex coniuge in data 3.2.2006 in quanto non prodotto agli atti… Anche considerando il precetto notificato nel febbraio 2006, il diritto dell’appellante risulterebbe comunque pressoché totalmente prescritto. A fronte dell’eccezione di prescrizione sollevata dall’opponente, l’opposta avrebbe dovuto dedurre in primo luogo e poi provare il fatto interruttivo della prescrizione. Non essendo stata dedotta l’efficacia interruttiva della notifica del precetto di cui si discute, siffatta interruzione non può essere presa in considerazione in questa sede”.
Col ricorso per cassazione la P. ribatte che nell’atto di citazione introduttivo della causa (di cui è parzialmente riportato il testo) l’ A. aveva più volte ammesso che l’intimazione era stata preceduta da un precetto in data 3 febbraio 2006 e che la convenuta aveva avanzato istanza di riunione della presente controversia all’opposizione avente ad oggetto quell’atto; pertanto, “la circostanza relativa all’avvenuta notifica in data 3 febbraio 2006 di un atto di precetto avente ad oggetto le medesime somme portate dall’atto di precetto notificato in data 5 agosto 2009 era da ritenersi pacifica tra le parti, in quanto allegata dal medesimo opponente, ed acquisita al giudizio dal primo grado, senza onere alcuno a carico della parte opposta di provare un patto già allegato e prodotto dalla controparte”.
Il controricorrente conferma che “di tale precetto è stata fatta menzione nell’atto di citazione in opposizione al precetto” (pur non essendo prodotto) e che, tuttavia, l'”eccezione di interruzione viene ancorata al precetto notificato in data 3 febbraio 2006 solo in sede di atto d’appello”.
La Corte di merito non ha motivato la propria decisione fondandola sulla mancata prova di un atto interruttivo della prescrizione o sulla necessità di una sua dimostrazione per iscritto, ma ha invece affermato che la parte non aveva tempestivamente allegato l’efficacia interruttiva di quello specifico atto.
In proposito, si osserva che la giurisprudenza di legittimità ha più volte statuito che “l’eccezione di interruzione della prescrizione integra un’eccezione in senso lato e non in senso stretto e, pertanto, può essere rilevata d’ufficio dal giudice sulla base di elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti” (Cass., Sez. U., Sentenza n. 15661 del 27/07/2005, Rv. 583491-01), e che “il giudice, chiamato a decidere sulla questione di prescrizione introdotta dal convenuto attraverso l’eccezione di cuiall’art. 2938 c.c., può tener conto anche del fatto interruttivo di essa, anche se non dedotto formalmente dall’attore come controeccezione” (Cass., Sez. L., Sentenza n. 2035 del 30/01/2006, Rv. 587230-01), fermo restando che “l’interruzione della prescrizione può essere dedotta per la prima volta in sede di appello” (Cass., Sez. L., Sentenza n. 25213 del 30/11/2009, Rv. 611076-01).
In base a tale orientamento di legittimità, è fondato il motivo della ricorrente nella parte in cui censura la pretesa di una espressa e tempestiva formulazione della controeccezione di interruzione della prescrizione.
Al contrario, il giudice dell’appello avrebbe dovuto – anche d’ufficio, ma soprattutto a seguito della formulazione di uno specifico motivo di impugnazione – esaminare il materiale probatorio già acquisito in primo grado (considerando, peraltro, che la prova della richiesta scritta di adempimento può essere ricavata anche in via presuntiva; v. Cass., Sez. 1, Sentenza n. 17018 del 23/06/2008, Rv. 60403901, e Cass., Sez. L., Sentenza n. 7181 del 06/08/1996, Rv. 498980-01) al fine di individuare, se esistente, un fatto interruttivo dell’eccepita prescrizione.
Illogica e contraddittoria è la sentenza laddove respinge l’appello perché il diritto di credito sarebbe “comunque pressoché totalmente prescritto”, dato che un accoglimento parziale dell’eccezione giustificherebbe il diritto della P. di agire in executivis per il residuo credito non estinto.
Il motivo deve essere accolto limitatamente alla denunciata violazionedell’art. 2943 c.c., mentre è inammissibile per il resto.
Infatti, la questione inerente all’applicabilità ai coniugi separati della sospensione del termine di prescrizione exart. 2941 c.c., n. 1, non era stata introdotta come motivo di appello e, perciò, non è prospettabile in sede di legittimità (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 7981 del 30/03/2007, Rv. 597111-01; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 17041 del 09/07/2013, Rv. 627045-01).
Ad ogni buon conto, secondo un ormai univoco orientamento giurisprudenziale, “La sospensione della prescrizione tra coniugi di cuiall’art. 2941 c.c., n. 1, non trova applicazione al credito dovuto per l’assegno di mantenimento previsto nel caso di separazione personale, dovendo prevalere sul criterio ermeneutico letterale un’interpretazione conforme alla ratio legis, da individuarsi tenuto conto dell’evoluzione della normativa e della coscienza sociale e, quindi, della valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto alla conservazione dell’unità familiare e della tendenziale equiparazione del regime di prescrizione dei diritti post-matrimoniali e delle azioni esercitate tra coniugi separati. Nel regime di separazione, infatti, non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turbare l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state esperite le relative azioni giudiziarie, con la conseguente cessazione della convivenza, il venir meno della presunzione di paternità di cuiall’art. 232 c.c.e la sospensione degli obblighi di fedeltà e collaborazione”. (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 7981 del 04/04/2014, Rv. 630120-01; conformi Cass., Sez. 1, Sentenza n. 18078 del 20/08/2014, Rv. 632052-01, e Cass., Sez. 61, Ordinanza n. 8987 del 05/05/2016, Rv. 639566-01).
7. In conclusione, dichiarati inammissibili il primo e il secondo motivo, la sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, la quale esaminerà la fattispecie dedotta col terzo motivo alla luce delle indicazioni fornite da questa Corte di legittimità.
La liquidazione delle spese è rimessa al giudice del rinvio.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibili il primo e il secondo motivo;
accoglie, per quanto di ragione, il terzo motivo;
cassa la decisione impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per la statuizione sulle spese.