Ai fini del riconoscimento e della successiva eventuale quantificazione dell’assegno divorzile si deve dare continuità alla recente giurisprudenza della Corte

Cass. civ. Sez. VI – 1, 29 agosto 2017, n. 20525
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
B.M., elettivamente domiciliato in Roma viale Giulio Cesare 78, presso l’avv. Alessandro Orsini, rappresentato e difeso, giusta procura speciale a margine del ricorso, dall’avv. Fabrizio Ferracuti che dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo al fax n. 0734/623607 e alla p.e.c. fabrizio.ferracuti(at)ordineavvocatifermopec.it;
– ricorrente –
nei confronti di:
C.L., domiciliata in Roma, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avv. Francesca Palma (0734/226149 fax, francesca.palma(at)ordineavvocatifermopec.it) giusta delega in margine alla comparsa di costituzione di primo grado e procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 617/15 della Corte di appello di Ancona, emessa il 15 gennaio 2015 e depositata il 26 maggio 2015, n. R.G. 1103/14.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
1. Il Tribunale di Fermo ha statuito sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto da B.M. e C.L. imponendo la corresponsione di un assegno divorzile in favore della C. in ragione della forte sproporzione delle situazioni reddituali e patrimoniali delle parti e al fine di una conservazione, almeno tendenziale, in favore del coniuge economicamente più debole del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
2. Tale decisione è stata confermata dalla Corte di appello di Ancona con sentenza n. 617/2015.
3. Ricorre per cassazione B.M. deducendo, con il primo motivo di impugnazione, la violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 4, e dei parametri legali ivi indicati nonché la contraddittorietà intrinseca della pronuncia. Lamenta il ricorrente che non sia stata adeguatamente valutata la circostanza dell’attribuzione alla C. della somma di Lire 157.000.000 prima della pronuncia relativa al divorzio e che non si sia tenuto conto delle condizioni economiche della C. (stipendio mensile di professoressa di matematica, casa di abitazione di sua proprietà, recenti investimenti immobiliari) che escludono la sussistenza dei presupposti per la attribuzione di un assegno divorzile in suo favore.
4. Si difende con controricorso la C..
Ritenuto che:
5. Il ricorso deve essere accolto dando così continuità alla recente giurisprudenza di questa Corte (Cass. civ. sez. 1^ n. 11504 del 10 maggio 2017) secondo cui il diritto all’assegno di divorzio, di cui allaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, come sostituito dallaL. n. 74 del 1987,art.10, è condizionato dal suo previo riconoscimento in base ad una verifica giudiziale che si articola necessariamente in due fasi, tra loro nettamente distinte e poste in ordine progressivo dalla norma (nel senso che alla seconda può accedersi solo all’esito della prima, ove conclusasi con il riconoscimento del diritto): una prima fase, concernente l’an debeatur, informata al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali persone singole ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o meno, del diritto all’assegno divorzile fatto valere dall’ex coniuge richiedente; una seconda fase, riguardante il quantum debeatur, improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro quale persona economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), che investe soltanto la determinazione dell’importo dell’assegno stesso.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Ancona che in diversa composizione deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 12 giugno 2017.
Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2017

Vista la sentenza n. 11504 del 2017, la trattazione del ricorso per la revoca dell’assegno divorzile, è rimessa alla pubblica udienza della prima sezione civile della Corte

Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 agosto 2017, n. 19920
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso 2105/2015 proposto da:
D.B.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TRIONFALE 21, presso lo studio dell’avvocato FEDERICA CASAGNI, rappresentato e difeso dall’avvocato ANNA MARIA RANALLI;
– ricorrente –
contro
F.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL TRITONE 169, presso lo studio dell’avvocato LILIANA CURTILLI, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
e contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI L’AQUILA;
– intimato –
avverso la sentenza n. 616/2014 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 05/06/2014;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 12/06/2017 dal Consigliere Dott. MARIA ACIERNO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Nel 2010 il sig. D.B., essendo trascorsi tre anni dall’udienza di comparizione dei coniugi dinanzi al Presidente del Tribunale per la separazione personale, chiedeva con ricorso di dichiarare la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con la sig.ra F., di regolare il regime di affidamento della figlia minore C., di dichiarare non dovuto l’assegno divorzile in favore della moglie, di confermare in Euro 600,00 mensili il contributo a titolo di assegno di mantenimento in favore della figlia. La sig.ra F. si costituiva in giudizio e chiedeva l’aumento ad Euro 1.100,00 mensili del contributo a titolo di mantenimento a carico del marito in favore della figlia e la corresponsione di un assegno divorzile nella misura di Euro 750,00 mensili in suo favore. Il giudice di primo grado dichiarava l’inammissibilità delle domande sul rilievo che non fosse provato il titolo dedotto a sostegno della domanda di divorzio in quanto i coniugi non avevano prodotto copia della sentenza di separazione giudiziale munita di attestazione di passaggio in giudicato.
In sede d’appello, il sig. D.B. impugnava la decisione chiedendo la riforma della sentenza e formulando le seguenti conclusioni:
1) dichiarazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto fra le parti;
2) conferma del già disposto affido condiviso della figlia;
3) conferma del contributo di Euro 600,00 mensili a titolo di assegno di mantenimento in favore della figlia;
4) rigetto della richiesta di assegno divorzile in favore della moglie, in ragione della raggiunta autonomia economica della stessa.
La sig.ra F. si costituiva in giudizio e chiedeva la dichiarazione di inammissibilità dell’appello, la corresponsione del contributo di Euro 1.100,00 mensili a titolo di assegno di mantenimento in favore della figlia e la corresponsione del contributo di Euro 1.200,00 mensili a titolo di assegno divorzile in suo favore.
Il giudice d’appello, definitivamente pronunciando, così provvedeva: in primo luogo dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto tra coniugi. Secondo il giudice d’appello la declaratoria d’inammissibilità della domanda formulata in primo grado era infondata. Il Tribunale nella motivazione aveva affermato che non era provato il titolo dedotto a sostegno della domanda di divorzio in quanto i coniugi non avevano prodotto copia della sentenza munita di attestazione di passaggio in giudicato. La Corte, ritenuta la sussistenza del requisito della specificità della censura, ha evidenziato l’avvenuta allegazione della sentenza di separazione in copia comprovante, in assenza di contestazione, il suo passaggio in giudicato per mancata impugnazione della controparte. Inoltre, l’appellante, dopo aver censurato l’unica affermazione contenuta nella sentenza impugnata, ha dedotto la sussistenza delle restanti condizioni per la pronuncia di divorzio, chiedendo dichiararsi la cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché l’adozione dei provvedimenti relativi all’affidamento della figlia ed ai rapporti patrimoniali tra i coniugi, consequenziali alla pronuncia di divorzio, del tutto pretermessi in primo grado. Di conseguenza confermava l’affidamento condiviso della figlia con stabile permanenza della stessa presso l’abitazione materna, in quanto il giudice di secondo grado non ravvisava ragioni per modificare l’affidamento condiviso con stabile collocazione della figlia presso l’abitazione della madre e stabiliva la corresponsione del contributo di Euro 600,00 mensili a titolo di assegno di mantenimento a carico del padre in favore della figlia, dal momento che tale assegno appariva congruo a garantire alla prole un tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della famiglia ed analogo a quello goduto in precedenza in relazione alle risorse ed ai redditi dei genitori; nonché la corresponsione del contributo di Euro 900,00 mensili a titolo di assegno divorzile a carico del sig. D.B. in favore della sig.ra F.. Il giudice d’appello argomentava che i coniugi, in costanza di matrimonio, godevano di un alto tenore di vita assicurato dall’attività lavorativa del marito (all’epoca dirigente dell’Università di L’Aquila) ed in minore misura dalla moglie (all’epoca non occupata, ma proprietaria della casa familiare e di un locale commerciale sito nel centro di L’Aquila). Successivamente la situazione economica dei coniugi era sensibilmente cambiata, in quanto il sig. D.B. era stato promosso all’incarico di dirigente amministrativo presso l’Università di L’Aquila. Inoltre lo stesso aveva acquistato un appartamento in L’Aquila e sosteneva il mantenimento di un’altra figlia nata da una nuova relazione. Al contempo, la sig.ra F. ha trovato occupazione come insegnante di ruolo in una scuola media e come docente collaboratrice in ambito universitario. Inoltre, la stessa aveva perso le potenzialità economiche relative alla proprietà degli immobili sopracitati in quanto inagibili a causa del noto sisma. Pertanto, nonostante le modifiche delle reciproche situazioni economiche e patrimoniali, si confermava la persistenza della disparità di risorse reddituali e patrimoniali in favore del marito.
Avverso tale pronuncia viene proposto ricorso per Cassazione dal sig. D.B. affidato ai seguenti motivi, cui resiste controricorso la sig.ra F..
1) Violazione e falsa applicazionedell’art. 2697 c.c.e dellaL. n. 898 del 1970,art.5, exart. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla debenza ed alla commisurazione dell’assegno divorzile, in assenza di prova da parte della coniuge richiedente in ordine al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, nonché in ordine ai propri redditi attuali ed all’eventuale stato di bisogno: il ricorrente ha evidenziato che il giudice d’appello avrebbe travalicato il generale principio di disponibilità delle parti, ricostruendo esso stesso il tenore di vita goduto dalla coppia in costanza di matrimonio e soprattutto avrebbe operato tale ricostruzione solo sulla base dei redditi annuali del marito ma non su quelli attuali della moglie, la quale avrebbe omesso la produzione delle proprie dichiarazioni dei redditi aggiornate, offrendo al giudice solo quelle più datate e recanti disponibilità inferiori, cioè disponibilità economiche risalenti all’epoca in cui era disoccupata e priva di stabilità lavorativa.
2) Violazione e falsa applicazione degliartt. 115 e 116 c.p.c., exart. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla valutazione degli accresciuti redditi della moglie per il solo assegno di mantenimento della figlia e non per quello divorzile: il ricorrente contestava la decisione della Corte d’Appello, in quanto avrebbe escluso dal quadro probatorio di riferimento per la determinazione dell’obbligo di assegno divorzile e per la sua stessa quantificazione tutte le prove dell’accresciuta disponibilità della moglie e avrebbe utilizzato i soli redditi passati e presenti del marito per stimare la sussistenza dell’obbligo di assegno.
3) Omesso esame del fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, costituito dal tenore di vita della coppia, nonché dalle accresciute capacità reddituali della moglie, in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 5: il ricorrente ha affermato che le violazioni di legge in tema di disponibilità, valutazione e dello stesso onere di prova avrebbero anche condotto ad omettere ogni esame circa l’effettivo tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio, nonché circa l’accrescimento delle capacità reddituali della moglie e quindi la potenzialità di questa di garantirsi un tenore di vita non diverso rispetto a quello goduto durante l’unione.
4) Violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, exart. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’istituzione di un assegno divorzile in favore della moglie, in assenza dei presupposti di sperequazione dei redditi e della necessità di mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio: il ricorrente ha evidenziato che la sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto di alcuno degli elementi previsti dall’art. 5 della sopracitata Legge, ad eccezione dei soli redditi attuali del marito, senza peraltro considerare quale sarebbe stato l’apporto della moglie al loro accrescimento, non avendo dunque valutato tutto quell’insieme di altri elementi (durata del matrimonio, condizioni dei coniugi, apporto di ciascuno alla famiglia) indispensabili al fine di stabilire l’an ed il quantum di un eventuale assegno divorzile.
All’esito della adunanza non partecipata il Collegio, rilevato che non sussistono le condizioni per provvedere in questa sede a norma dell’art. 380 bis c.p.c., alla luce della sentenza n. 11504 del 2017, rimette la trattazione del ricorso alla pubblica udienza della prima sezione civile di questa Corte.
P.Q.M.
Rimette la causa alla pubblica udienza della Prima Sezione Civile di questa Corte.
Motivazione semplificata.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 giugno 2017.
Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2017

L’assegno divorzile deve essere richiesto nel limite massimo di venti giorni prima dell’udienza di comparizione dinanzi al giudice istruttore

Cass. civ. Sez. VI – 1, 27 luglio 2017, n. 18527
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
Q.Q.E., elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso l’avv. Giovanna Gerardo, rappresentato e difeso dall’avv. Dante Venco, giusta delega in margine al ricorso che indica per le comunicazioni relative al processo la p.e.c. avvdantevenco.puntopec.it e il fax n. (OMISSIS);
– ricorrente –
nei confronti di:
M.V.V., elettivamente domiciliata in Roma, piazza Bainsizza 1, presso l’avv. Letizia Salerno, dalla quale è rappresentata e difesa unitamente all’avv. Mauro Mellini, giusta procura speciale in calce al controricorso, e che dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo alle p.e.c. mauromellini.ordineavvocatiroma.org e letiziafrancescaluciasalerno.ordineavvocatiroma.org e al fax n. 06/37351788;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 217/15 della Corte di appello di Brescia, emessa il 6 febbraio 2015 e depositata il 16 marzo 2015, n. R.G. 1259/14.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
1. Il Tribunale di Bergamo, con sentenza n. 2511/14, ha dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio fra Q.Q.E. e M.V.V. e imposto al Q. il versamento a titolo di assegno divorzile della somma mensile di 1.500 Euro respingendo le altre domande riconvenzionali proposte dalla M..
2. Ha proposto appello principale il Q. ribadendo la propria eccezione di decadenza della M. dalla domanda di assegno in quanto la controparte non aveva depositato alcuna memoria per la costituzione davanti al giudice istruttore dopo l’udienza presidenziale. Ha contestato inoltre il diritto della M. a percepire l’assegno divorzile non sussistendone i presupposti e, subordinatamente, ne ha chiesto la riduzione.
3. Ha proposto appello incidentale la M. che:
ha chiesto l’incremento dell’importo dell’assegno divorzile e l’accoglimento della domanda riconvenzionale relativa al riconoscimento del suo diritto all’assegnazione di una quota pari al 40% del T.F.R. già percepito dal Q..
4. La Corte di appello di Brescia con sentenza n. 217/15 ha respinto gli appelli e compensato le spese processuali.
5. Propone ricorso per cassazione Q.Q.E. che si affida a sette motivi di ricorso.
6. M.V.V. si difende con controricorso.
Ritenuto che:
7. Con i primi due motivi di ricorso il ricorrente ribadisce la fondatezza della propria eccezione di decadenza deducendo la violazione degliartt. 166 e 167 c.p.c.in relazione allaL. n. 898 del 1970,art.4, comma 10(primo motivo) e la violazione e falsa applicazione degli artt. 177 e 178 e dell’art. 279 c.p.c., comma 4.
8. I due motivi sono infondati perché in palese contrasto con la giurisprudenza di legittimità secondo cui nel giudizio di divorzio, il termine di venti giorni prima dell’udienza di comparizione dinanzi al giudice istruttore segna il limite massimo per la proposizione della domanda riconvenzionale di riconoscimento dell’assegno divorzile, senza che ciò escluda la ritualità della richiesta di assegno proposta con la comparsa di risposta dinanzi al presidente del tribunale, in tempo antecedente alla udienza di prima comparizione dinanzi al giudice istruttore di cuiall’art. 180 c.p.c.(Cass. civ., sez. 1, n. 18116 del 12 settembre 2005).
9. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente deduce exart. 360 c.p.c., n. 3 la violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6e l’omessa valutazione delle prove documentali.
10. Il motivo è inammissibile perché non specifica in cosa sia consistita la dedotta violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5e si sostanzia in una censura alla valutazione del materiale probatorio compiuta dalla Corte di appello che non può essere sindacata in questo giudizio atteso che la motivazione si sofferma specificamente sull’aggravamento delle condizioni di salute del ricorrente ma non le ritiene impeditive rispetto all’obbligo impostogli già in primo grado di corrispondere un assegno di mantenimento in favore della M..
11. Con il quarto e quinto motivo di ricorso il Q. deduce, exart. 360 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per valutazione delle prove in violazione degliartt. 115 e 116 c.p.c.(quarto motivo) e per omessa motivazione sul quantum (quinto motivo).
12. I due motivi sono inammissibili perché ripropongono censure del tutto apodittiche e generiche intese a ottenere un nuovo giudizio di merito laddove la Corte distrettuale ha tenuto ampiamente conto della documentazione prodotta in giudizio dal ricorrente e ha ritenuto congrua la misura dell’assegno in relazione alle rispettive condizioni economiche delle parti e nella prospettiva di assicurare una vita indipendente e dignitosa alla M. anche dopo il divorzio e, nello stesso tempo, a non incidere in misura eccessivamente gravosa sulle disponibilità economiche del Q. che è già costretto, a causa della propria malattia, a provvedere alle proprie esigenze di cura personale e domestica, tenendo conto dei parametri normativi e giurisprudenziali relativi alla determinazione dell’assegno divorzile.
13. Con il sesto motivo si lamenta, exart. 360 c.p.c., n. 3 la violazione e falsa applicazione degliartt. 91 e 92 c.p.c.per erronea compensazione delle spese di causa.
14. Con il settimo motivo di ricorso si deduce, exart. 360 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per omessa motivazione relativamente alla compensazione delle spese processuali.
15. I due motivi sono infondati perché non tengono conto della consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui la regolazione delle spese di lite può avvenire in base alla soccombenza integrale, che determina la condanna dell’unica parte soccombente al pagamento integrale di tali spese (art. 91 c.p.c.), ovvero in base alla reciproca parziale soccombenza, che si fonda sul principio di causalità degli oneri processuali e comporta la possibile compensazione totale o parziale di essi (art. 92 c.p.c., comma 2); a tale fine, la reciproca soccombenza va ravvisata sia in ipotesi di pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti, sia in ipotesi di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, tanto allorché quest’ultima sia stata articolati in più capi, dei quali siano stati accolti solo alcuni, quanto nel caso in cui sia stata articolata in un unico capo e la parzialità abbia riguardato la misura meramente quantitativa del suo accoglimento (Cass. civ. sez. 3, n. 3438 del 22 febbraio 2016).
16. Il ricorso va pertanto respinto con condanna del ricorrente alle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in 3.600 Euro di cui 100 per spese, oltre accessori di legge e spese forfettarie.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma l bis dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 maggio 2017.
Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2017

Sentenza dichiarativa di separazione non definitiva non determina violazione costituzionale del coniuge economicamente più debole

Cass. ord. 20666 del 31 agosto 2017
Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 12 giugno – 31 agosto 2017, n. 20666
Presidente Scaldaferri – Relatore Bisogni
Fatto e diritto
Rilevato che:
1. Con ricorso del 23 marzo 2012 il D.d.R.A.P.M. ha adito il Tribunale di Roma per ottenere la separazione giudiziale, con addebito alla moglie R.C.A.M. che si è costituita chiedendo a sua volta la dichiarazione di addebito a carico del marito. Entrambe le parti hanno formulato domande relative al regime di affidamento dei figli e al loro mantenimento. La R.C. ha chiesto altresì la imposizione al mensile di D.d.R. di un assegno mensile di mantenimento in suo favore.
2. Il Tribunale con sentenza non definitiva del 23/24 ottobre 2012 ha pronunciato la separazione giudiziale.
3. Ha proposto appello la R.C. per l’errata valutazione circa la sua adesione alla domanda di separazione e la sua rinuncia ai termini di cui all’art. 109 c.p.c.; per il mancato accertamento circa l’effettiva irreversibilità della crisi coniugale e della intollerabilità della convivenza; per la asserita incostituzionalità della disciplina che consente la pronuncia della separazione con sentenza non definitiva in quanto in contrasto con gli artt. 3, 29 e 111 della Costituzione.
4. D.d.R.A.P.M. si è costituito e ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità per difetto di interesse all’impugnazione e la condanna della R.C. ex art. 96 c.p.c..
5. La Corte di appello ha respinto l’appello rilevando che con la novella introdotta con legge n. 263/2005 dell’art. 709 bis c.p.c. sussiste ormai l’obbligo e non più la sola facoltà per il giudice di pronunciare anche con sentenza non definitiva sullo status e ciò a prescindere dall’impulso di parte (Cass. civ. n. 10484/2012). Ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale e ha ritenuto accertata in base alle prospettazioni delle parti e all’esito del tentativo di conciliazione l’intollerabilità della convivenza. Ha infine condannato la R.C. ex art. 96 comma 3 c.p.c..
6. Ricorre per cassazione la R.C. affidandosi a sei motivi con i quali ribadisce di non aver mai proposto o aderito alla domanda di separazione, rileva la mancata prospettazione delle pretese ragioni di intollerabilità della convivenza, contesta l’omessa valutazione in ordine alla prospettata necessità di prosecuzione del processo prima della sentenza dichiarativa della separazione, contesta infine la sussistenza dei presupposti per la sua condanna ex art. 96 c.p.c. e al pagamento delle spese processuali.
7. Si difende con controricorso il D.d.R. .
Ritenuto che:
8. La disposizione di cui all’art.709 bis cod.proc. civ., come definitivamente modificata dall’art.1, comma 4, della legge 25 dicembre 2005, n. 263, sancisce in maniera esplicita, in materia di pronuncia immediata sullo “status”, la già ritenuta equiparazione fra il procedimento di separazione tra i coniugi e quello di divorzio, volendo evitare condotte processuali dilatorie, tali da incidere negativamente sul diritto di una delle parti ad ottenere una pronuncia sollecita in ordine al proprio “status” (Cass. civ., sez. V1-1, n. 10484 del 22 giugno 2012).
9. Come affermato sin dal 1992 (Cass. civ., sez. I n. 7148 del 10 giugno 1992) e ribadito anche di recente (Cass. civ., sez. I, n. 8713 del 29 aprile 2015) la situazione di intollerabilità della convivenza può dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco spirituale anche di uno solo dei coniugi.
10. Per ciò che concerne la sollevata questione di costituzionalità questa Corte ha già affermato (Cass. civ. sez. I, n. 9614 del 22 aprile 2010) che la sentenza non definitiva di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, che il Tribunale è tenuto a pronunciare d’ufficio quando la causa sia, sul punto, matura per la decisione, ed alla quale faccia seguito la prosecuzione del giudizio per le altre statuizioni, costituisce uno strumento di accelerazione dello svolgimento del processo che non determina un’arbitraria discriminazione nei confronti del coniuge economicamente più debole, sia perché è sempre possibile richiedere provvedimenti temporanei ed urgenti, ai sensi dell’art. 4 della legge n. 898 del 1970, peraltro modificabili e revocabili dal giudice istruttore al mutare delle circostanze, sia per l’effetto retroattivo, fino al momento della domanda, che può essere attribuito in sentenza al riconoscimento dell’assegno di divorzio. Pertanto, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 9, della legge n. 898 del 1970 (nel testo sostituito dell’art. 8, della legge n. 74 del 1987), sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost..
11. Per ciò che concerne gli ultimi due motivi di ricorso attinenti alla contestazione della condanna alle spese del giudizio di appello la Corte ritiene di aderire all’indirizzo giurisprudenziale più recente (Cass. civ. sez. VI-3 n. 9532 del 12 aprile 2017) secondo cui il rigetto, in sede di gravame, della domanda, meramente accessoria, ex art. 96 c.p.c., a fronte dell’integrale accoglimento di quella di merito proposta dalla stessa parte, in riforma della sentenza di primo grado, non configura un’ipotesi di parziale e reciproca soccombenza, né in primo grado né in appello, sicché non può giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell’art. 92 c.p.c..
Conseguentemente anche tali motivi devono ritenersi infondati sebbene non possano ritenersi sussistenti – in ragione dello specifico contrasto giurisprudenziale (Cass. civ. sez. II n. 20838 del 14 ottobre 2016) – i presupposti per una condanna della ricorrente ex art. 96 comma 3 relativamente al presente giudizio.
12. Il ricorso va pertanto respinto con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in 5.100 Euro, di cui 100 per spese, oltre accessori di legge e spese forfettarie. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del decreto legislativo n. 196/2003.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma l bis dello stesso articolo 13.

Nell’azione volta a far valere l’invalidità del testamento l’intervento del PM non è necessario ed è onere della parte che vi ha interesse (alla validità) a dare la prova della capacità del de cujus a disporre testamento

Cass. civ. Sez. VI – 2, 10 luglio 2017, n. 17024
ORDINANZA
sul ricorso 5899/2016 proposto da:
L.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA CONCILIAZIONE 44, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO BRIZZOLARI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati CRISTINA LAZZARINI, WALTER LAGANA’ giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
P.G., D.R., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA GREGORIO VII 396, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO GIUFFRIDA, che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIAN EUGENIO FERLA in virtù di procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 1252/2015 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 11/11/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/04/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le memorie depositate dalle parti.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
P.G. e D.M.R., assumendo di essere state nominate eredi universali di R.V., deceduta in data (OMISSIS), con testamento olografo del 28/2/2006, convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Savona, L.C. che a sua volta era stata istituita erede universale dalla R. con testamento olografo recante la data successiva del 29/9/2006, assumendo che il testamento a favore della convenuta era annullabile o nullo.
Il Tribunale in primo grado rigettava la domanda attorea, escludendo che la volontà testamentaria fosse affetta da vizi del volere ed escludendo altresì che la de cuius fosse incapace di intendere e di volere alla data della redazione dell’atto di ultima volontà oggetto di impugnativa.
A seguito di appello proposto dalle attrici, la Corte d’Appello di Genova con la sentenza n. 1252/2015 dell’11/11/2015, riformava integralmente la decisione di prime cure, e riteneva che il testamento fosse invalido exart. 591 c.c., in quanto redatto dalla de cuius, allorché era del tutto incapace di intendere e di volere.
Dopo avere osservato che in realtà le attrici avessero proposto anche la domanda di annullamento ai sensi della norma ora citata, dovendosi altresì ritenere che la decisione del Tribunale era comunque scesa nella disamina nel merito della domanda, senza che la questione della sua ammissibilità fosse stata contestata con uno specifico motivo di appello incidentale da parte della L., nel merito riteneva non condivisibile la valutazione delle risultanze istruttorie sì come operata dal giudice di primo grado.
A tal fine valorizzando gli esiti della CTU, e ritenendo invece inattendibili le deposizioni rese dai testi addotti da parte convenuta, reputava che alla data del testamento oggetto di causa, la de cuius già versava in condizioni di salute tali da renderla del tutto incapace di intendere e di volere, non potendosi attribuire rilievo in senso contrario agli episodi riferiti dalle testi in questione.
Opinava che quindi fosse onere della beneficiaria del testamento dimostrare che lo stesso era stato redatto in un momento di lucido intervallo, non risultando nemmeno adeguatamente dimostrata l’esistenza di un rapporto affettivo o di familiarità tra la de cuius e la L. che potesse giustificare la designazione della seconda quale erede universale.
L.C. ha proposto ricorso avverso tale sentenza sulla base di cinque motivi.
P.G. e D.R. hanno resistito con controricorso.
Il ricorso è manifestamente infondato.
Il primo motivo di ricorso, con il quale si denunzia la nullità della sentenza d’appello per la violazione degliartt. 70, 71, 158 e 331 c.p.c., per la mancata partecipazione al giudizio di secondo grado del Pubblico Ministero che pure era intervenuto nel corso del giudizio dinanzi al Tribunale, è evidentemente privo di fondamento.
E’ indubbio che, esulando la fattispecie dalle ipotesi per le quali è obbligatorio l’intervento del Pubblico Ministero a mente dei primi due commidell’art. 70 c.p.c., (non potendosi fare rientrare nell’ambito delle azioni riguardanti lo stato e la capacità delle persone, la controversia concernente la validità del testamento per incapacità naturale della de cuius), l’intervento pur spiegato in primo grado va ricondotto all’ipotesi di intervento facoltativo di cui all’ultimo comma del menzionatoart. 70 c.p.c..
In tal caso, costituisce orientamento più volte ribadito da questa Corte quello per il quale nei giudizi in cui l’intervento del pubblico ministero è facoltativo a normadell’art. 70 c.p.c., u.c., questi non acquista la qualità di parte necessaria, sicché non sussiste, in grado di appello, la necessità di integrare il contraddittorio nei suoi confronti (Cass. n. 12228/2003; Cass. n. 3093/1974).
I motivi dal secondo al quinto possono invece essere congiuntamente esaminati, in quanto gli stessi, sotto vari profili censurano la sentenza impugnata, che non avrebbe fatto corretta applicazione delle previsioni in materia di invalidità del testamento per incapacità della testatrice, procedendo ad un’indebita inversione dell’onere della prova (onerando cioè la L. della dimostrazione dell’effettiva capacità della de cuius al momento del testamento).
Inoltre, la decisione gravata non avrebbe dato adeguata contezza delle critiche mosse all’operato del CTU, nonostante le corpose contestazioni sollevate dal proprio perito di parte, violando, anche quanto alla valutazione degli altri mezzi istruttori, le previsioni di cui agliartt. 115 e 116 c.p.c..
Inoltre si assume che vi sarebbe stata l’omessa disamina di fatti decisivi per il giudizio (quali il rilascio e la revoca della delega bancaria, ovvero le risposte dell’attrice P. in sede di interrogatorio formale, quanto all’utilizzo della delega stessa) nonché, quanto alla verifica circa l’esistenza di un rapporto affettivo tra la ricorrente e la de cuius, l’omessa disamina del fatto decisivo rappresentato dalla indicazione della prima nel testamento, quale amica e collaboratrice.
I motivi nel loro complesso in realtà mirano unicamente ad una non consentita rivalutazione dei fatti di causa ad opera di questa Corte, sollecitando quindi un diverso apprezzamento delle circostanze fattuali così come insindacabilmente operato da parte dei giudici di merito.
Trattasi di conclusione che appare oltre modo impedita alla luce della novellata previsione di cuiall’art. 360 c.p.c., n. 5, applicabile al presente procedimento ratione temporis, che nell’interpretazione che ne è stata offerta dalle Sezioni Unite che (cfr. Cass. 8054/2014), è stata intesa nel senso che “L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie”.
In tal ottica la decisione gravata, con dovizia di argomentazioni, ha chiarito le ragioni in base alle quali riteneva inattendibili alcune deposizioni testimoniali, evidenziando altresì come questa valutazione si riflettesse sull’interpretazione delle deposizioni di altri testi (quale ad esempio quella della dott.ssa C.), portando ad una valutazione diversa da quella invece sostenuta dal Tribunale.
La sentenza ha ampiamente argomentato circa le ragioni in base alle quali era da condividere l’assunto del CTU (cfr. pag. 12 e ss.), al quale erano peraltro state sottoposte le osservazioni critiche del perito di parte ricorrente, non potendosi ritenere che la divergenza di opinioni infici la decisione che invece mostri di preferire le valutazioni espresse dal consulente d’ufficio.
La sentenza si fonda sul convincimento, chiaramente di natura fattuale, e come detto riservato al giudice di merito, circa la totale incapacità della de cuius già all’epoca della redazione del testamento oggetto di causa, avendo altresì fornito giustificazione dell’irrilevanza a tal fine delle condotte riferite dai testi addotti dalla convenuta, e tra queste, in particolare, del rilascio e della revoca della delega bancaria, che non costituiscono quindi affatto circostanze non esaminate.
Ne consegue che non appare in alcun modo configurabile il dedotto vizio di violazione o falsa applicazione di norma di legge exart. 360 c.p.c., n. 3, che consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione della fattispecie astratta di una norma di legge e, perciò, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, con la conseguenza che il ricorrente che presenti la doglianza è tenuto a prospettare quale sia stata l’erronea interpretazione della norma in questione da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, a prescindere dalla motivazione posta a fondamento di questa (Cass. n. 26307/2014). Al contrario, se l’erronea ricognizione riguarda la fattispecie concreta, il gravame inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo ai sensidell’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. n. 8315/2013).
E’ evidente che le doglianze di parte ricorrente presuppongono che sia erronea la valutazione in fatto compiuta dalla Corte distrettuale circa la assoluta incapacità della de cuius, sicchè una volta reputata insindacabile tale valutazione, devono reputarsi anche prive di fondamento le censure con le quali si assume essere stata violata la previsione di cuiall’art. 591 c.c., ovvero che lamentano un’indebita inversione dell’onere della prova.
In particolare quanto a quest’ultimo profilo, deve evidenziarsi che la Corte di merito, anche qui con valutazione in fatto non sindacabile in questa sede, ha ritenuto a monte che la patologia di cui era affetta la de cuius alla data cui risale il testamento fosse tale da determinarne l’assoluta incapacità di intendere e di volere, e con carattere permanente, sicché, proprio alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte, era appunto onere della parte che invoca la validità del testamento, e quindi della ricorrente, dimostrare che lo stesso era stato predisposto in un lucido intervallo, dovendosi quindi escludere che la sentenza gravata abbia indebitamente invertito l’onere della prova.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dellaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 quater, del testo unico di cui alD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115- della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore delle controricorrenti che liquida in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori come per legge;
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, inserito dallaL. n. 228 del 2012,art.1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis.

La Corte Costituzionale riafferma il principio che l’acquisizione di una nuova identità di genere, in quanto risultato di un processo individuale, non postula la necessità di intervento chirurgico

Corte cost., 14 luglio 1986, n. 185
ORDINANZA
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.1, comma 1, dellaL. 14 aprile 1982, n. 164(Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), promosso dal Tribunale ordinario di Avezzano, nel procedimento vertente tra S. T. e Pubblico ministero presso la Procura della Repubblica del Tribunale ordinario di Avezzano, con ordinanza del 12 gennaio 2017, iscritta al n. 58 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 giugno 2017 il Giudice relatore Giuliano Amato.
Ritenuto che il Tribunale ordinario di Avezzano ha sollevato, in riferimento agliartt. 2 e 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art.1, comma 1, dellaL. 14 aprile 1982, n. 164(Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), nell’interpretazione data dalla sentenza n. 221 del 2015 di questa Corte e dalla sentenza 20 luglio 2015, n. 15138 della Corte di cassazione, in quanto il riconoscimento del diritto alla rettifica dell’attribuzione di sesso, anche in assenza di modifica dei caratteri sessuali primari, finirebbe per prevalere sul diritto della gran parte dei consociati a conservare “il pieno duopolio uomo/donna”, comprimendo irragionevolmente i doveri inderogabili di solidarietà sociale, e imporrebbe alla collettività la necessità di adeguarsi alla sua estrinsecazione anche nei confronti di minori, lavoratori, istituzioni, imponendo loro un mutamento dei tradizionali valori, comunemente accettati;
che il giudice a quo è chiamato a decidere in ordine ad una domanda di rettificazione dell’attribuzione di sesso, da maschile a femminile, in assenza dell’intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali; d’altra parte, la consulenza tecnica d’ufficio, acquisita nel corso del giudizio, ha affermato l’idoneità psicofisica della parte istante al cambiamento di genere;
che, dopo avere illustrato le recenti pronunce della Corte di cassazione (prima sezione civile, sentenza 20 luglio 2015, n. 15138) e di questa Corte (sentenza n. 221 del 2015), con le quali è stata riconosciuta al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare il proprio percorso di transizione, il rimettente deduce che nelle stesse sarebbe mancata la dovuta attenzione verso l’aspetto relazionale, essendo stata trascurata, sia la valutazione dell’entità delle modificazioni ritenute necessarie, sia la rilevanza degli effetti di tale impostazione sulla collettività;
che, ad avviso del giudice a quo, laddove anche nel trattamento ormonale fosse ravvisata una costrizione della propria identità personale, o comunque una violazione del diritto alla salute, si arriverebbe all’accoglimento di qualsiasi istanza di rettifica, ancorché sorretta dal solo elemento volontaristico, ossia dall’esigenza di adeguare la propria identità fisica a quella psichica, a prescindere da qualsiasi intervento;
che, tuttavia, il dato normativo continua a richiedere l’intervenuto mutamento dei caratteri sessuali, poiché l’inciso “quando necessario”, contenuto nell’art.31, comma 4, delD.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150(Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo54dellaL. 18 giugno 2009, n. 69), sarebbe riferibile ai casi nei quali il mutamento sia l’effetto di malformazioni congenite, ovvero di trattamenti chirurgici eseguiti all’estero;
che, a suo avviso, la domanda di rettificazione dovrebbe, quindi, essere respinta laddove essa si fondi esclusivamente “su un desiderio irrefrenabile del soggetto agente, senza che questi appaia conforme, anche esteticamente ed esteriormente, al sesso richiesto”; viceversa, l’accezione del diritto all’identità di genere sostenuta dalle due pronunce in esame varrebbe a configurare l’identità sessuale come oggetto di una mera scelta soggettiva dell’interessato, di cui la consulenza medica si limiterebbe ad accertare la serietà ed univocità;
che, d’altra parte, tale impostazione trascurerebbe la considerazione dei rapporti interpersonali; viceversa, il principio personalista andrebbe declinato anche nelle relazioni sociali, attraverso un bilanciamento dell’interesse del singolo con l’interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici;
che, sotto questo profilo, si osserva che la vita di relazione conterrebbe numerose occasioni di contatto, nelle quali rilevano anche i caratteri sessuali primari della persona; in ciascuna di esse ricorrerebbe l’esigenza di stabilirne con sicurezza il “genere”, al fine di evitare che alcuno, a fortiori se minorenne, possa essere disorientato in ordine all’identità di genere del “mutato di sesso”;
che, viceversa, laddove l’elemento documentale prevalesse su quello fisico, la società non sarebbe più fondata sul “duopolio uomo/donna”, ma su un numero indeterminato di generi; si verificherebbe una “promiscuità fondata sul dato cartolare”, in danno della maggioranza dei cittadini, la quale, essendo ancorata ad altri valori, sarebbe costretta “ad elaborare regole di comportamento certamente molto lontane dalla tradizione secolare”;
che, pertanto, ad avviso del rimettente, sarebbe insufficiente il mutamento dei caratteri secondari, dovendosi attribuire rilievo anche ai caratteri sessuali primari; la scelta meramente personalistica del proprio orientamento sessuale costituirebbe un aspetto sicuramente degno di considerazione, ma dovrebbe essere valutata alla luce di regole di analogo rilievo costituzionale, che devono essere bilanciate con criteri di ragionevolezza e proporzionalità;
che si porrebbe un problema di tutela delle maggioranze ed una questione di parità di trattamento “al contrario”; si dovrebbe, infatti, rendere compatibile la situazione di coloro che abbiano ottenuto la rettifica anagrafica senza intervento chirurgico con il diritto degli altri consociati a ricevere servizi differenziati in ragione della propria appartenenza ad un sesso;
che, ad avviso del rimettente, sarebbe privo di fondamento costituzionale l’adeguamento che la società sarebbe chiamata a compiere al fine di consentire l’integrale esplicazione del diritto in esame;
che, inoltre, nel caso oggetto del giudizio a quo, la consulenza tecnica d’ufficio attesterebbe un'”idoneità alla prosecuzione dell’iter transizionale”, ma non la sua definitiva maturazione; si avrebbe, infatti, la percezione autonoma e soggettiva della condizione femminile, ma non già quella obiettiva, da parte della collettività; tale situazione non sarebbe indicativa di un definitivo ed irreversibile cambiamento di genere ma, anzi, porterebbe al riconoscimento del transgender come tertium genus, rispetto al quale verrebbero in rilievo le sole caratteristiche psichiche del soggetto, restando, viceversa, molto sfumata l’identità sessuale secondaria;
che viceversa, laddove si escludesse la rilevanza dei soli aspetti psicologici, ovvero del trattamento ormonale, il test sui caratteri sessuali secondari non sarebbe così evanescente e, pertanto, inidoneo a dimostrare la definitiva trasmigrazione all’altro genere;
che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.
Considerato che il Tribunale ordinario di Avezzano ha sollevato, in riferimento agliartt. 2 e 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art.1, comma 1, dellaL. 14 aprile 1982, n. 164(Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso);
che il giudice a quo ritiene che la disposizione censurata – nell’interpretazione adottata dalla sentenza n. 221 del 2015 di questa Corte e da quella della Corte di cassazione, sezione prima civile, 20 luglio 2015, n. 15138 – contrasti con gliartt. 2 e 3 Cost., perché il riconoscimento del diritto alla rettifica dell’attribuzione di sesso, anche in assenza di intervento chirurgico, finirebbe per prevalere sul diritto della gran parte dei consociati a conservare il pieno “duopolio uomo/donna” ed implicherebbe che la società debba adeguarsi all’estrinsecazione delle sue conseguenze anche verso minori, lavoratori, istituzioni, imponendo loro un mutamento dei tradizionali valori, comunemente accettati;
che il giudice a quo ritiene che nella scelta ermeneutica compiuta nelle due pronunce in esame sia mancata la dovuta considerazione dei suoi effetti sulla collettività; egli paventa il rischio che, nonostante il dato normativo continui a richiedere l’intervenuto mutamento dei caratteri sessuali ai fini della rettifica anagrafica, questa linea interpretativa porti ad accogliere qualsiasi istanza in tal senso, purché sorretta dal solo elemento volontaristico, a prescindere da ogni intervento;
che, tuttavia, l’analisi e le osservazioni del giudice a quo non tengono adeguatamente conto dei principi affermati dalle decisioni richiamate, le quali hanno indicato un’interpretazione della disposizione censurata, rispettosa dei valori costituzionali e posta “nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie ed anomale”, come già affermato da questa Corte sin dalla sentenza n. 161 del 1985;
che, in particolare, la Corte di cassazione ha ritenuto non obbligatorio l’intervento chirurgico demolitorio o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari, affermando che l’acquisizione di una nuova identità di genere, in quanto risultato di un processo individuale, non ne postula la necessità, purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell’approdo finale siano oggetto di accertamento tecnico in sede giudiziale;
che, nello stesso senso, la successiva sentenza n. 221 del 2015 di questa Corte ha affermato che un’interpretazione costituzionalmente adeguata della L. n. 164 del 1982consenta di escludere la necessità del ricorso all’intervento chirurgico di normoconformazione, ai fini della rettifica anagrafica dell’attribuzione di sesso;
che, in particolare, l’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata, pur escludendo la necessità di modificazioni chirurgiche dei caratteri sessuali, ha mantenuto fermo il dato testuale dell’art. 1, comma 1, il quale prevede, comunque, le “intervenute modificazioni dei caratteri sessuali”;
che, d’altra parte, tale pronuncia non ha sottovalutato, né tanto meno escluso, la necessità di un accertamento rigoroso non solo della serietà e univocità dell’intento, ma anche dell’intervenuta transizione dell’identità di genere, emersa nel percorso seguito dalla persona interessata, il quale corrobora e rafforza l’intento così manifestato;
che la linea interpretativa adottata nelle pronunce sopra richiamate mostra di tenere nella dovuta considerazione proprio le esigenze evidenziate dallo stesso rimettente, in particolare laddove si riconosce che nellaL. n. 164 del 1982la realizzazione del diritto del singolo al riconoscimento del proprio diritto all’identità personale, di cui è parte l’identità di genere, trova la sua realizzazione attraverso un procedimento giudiziale che garantisce, al contempo, sia il diritto del singolo individuo, sia quelle esigenze pubblicistiche di certezza delle relazioni giuridiche, sulle quali si fonda il rilievo dei registri anagrafici;
che, sebbene l’aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici con quello soggettivamente percepito e “vissuto” costituisca espressione del diritto al riconoscimento dell’identità di genere, il ragionevole punto di equilibrio tra le molteplici istanze di garanzia – in un quadro di “irriducibile varietà delle situazioni soggettive” (sentenza n. 221 del 2015) – è stato individuato affidando al giudice, nell’ambito di un giudizio cui partecipa anche il pubblico ministero, l’accertamento delle modalità attraverso le quali le modificazioni siano intervenute, tenendo conto di tutte le componenti, compresi i caratteri sessuali, che concorrono a determinare l’identità personale e di genere;
che, pertanto, risulta del tutto privo di fondamento l’assunto del rimettente circa la possibilità che, ai fini dell’accertamento della transizione, rivesta esclusivo o comunque prioritario rilievo il solo elemento volontaristico;
che, d’altra parte, va rilevato che la denunciata imposizione di un onere di adeguamento da parte della collettività non costituisce affatto una violazione dei doveri inderogabili di solidarietà, ma anzi ne riafferma la perdurante e generale valenza, la quale si manifesta proprio nell’accettazione e nella tutela di situazioni di diversità, anche “minoritarie ed anomale” (sentenza n. 161 del 1985);
che, a questo riguardo, va rilevato che le preoccupazioni del rimettente attengono a situazioni di fatto destinate a verificarsi a prescindere dalla disciplina della rettificazione anagrafica, la quale è volta a regolare una realtà che, prima ancora che nel diritto, esiste nella natura;
che, pertanto, le censure del rimettente in ordine alla prospettata lesione dei principi di cui agli artt. 2 e 3 Cost. si rivelano manifestamente infondate.
Visti gli artt.26, secondo comma, della L. 11 marzo 1953, n. 87e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.1, comma 1, dellaL. 14 aprile 1982, n. 164(Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), sollevata, in riferimento agliartt. 2 e 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Avezzano, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

La condotta di un genitore “non consona dal punto di vista morale” ove non pregiudichi l’interesse del minore non esclude l’affidamento condiviso

Cass. civ. Sez. VI – 1, 11 luglio 2017, n. 17137
ORDINANZA
sul ricorso 17689-2016 proposto da:
S.E., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato EUGENIA PERRI;
– ricorrente –
contro
G.N.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1720/2016 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata l’11/05/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 20/06/2017 dal Consigliere Dott. SAMBITO MARIA GIOVANNA C..
Svolgimento del processo
Con Decreto in data 11.5.2016, la Corte d’Appello di Catanzaro ha confermato il provvedimento col quale, a modifica delle condizioni della separazione consensuale dei coniugi S.E. e G.N. è stato disposto l’affidamento esclusivo al padre delle figlie minori A. e N.. Per la cassazione del decreto, ha proposto ricorso la S. sulla base di due motivi, con cui deduce le illegittime modalità di audizione della figlia A. e l’erronea valutazione delle sue dichiarazioni, nonché l’insussistenza dei presupposti per l’affidamento esclusivo. L’intimato non ha svolto difese.
Motivi della decisione
1. Il Collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente in data 14 settembre 2016, la redazione della motivazione in forma semplificata.
2. Affermata l’ammissibilità del ricorso (cfr. Cass. n. 6132 del 2015; n. 18559 del 2016) per avere il decreto carattere di decisorietà, in quanto risolve contrapposte pretese di diritto soggettivo, e di definitività, perché ha un’efficacia assimilabile rebus sic stantibus a quella del giudicato, il secondo motivo, che va esaminato con priorità, è fondato.
3. La regola dell’affidamento condiviso dei figli minori ad entrambi i genitori, posta dall’art. 337 ter c.c. (applicabile ratione temporis) in funzione del diritto dei figli al mantenimento della bigenitorialità, è derogabile, a norma del successivo art. 337 quater c.c., solo, ove la sua applicazione risulti pregiudizievole per l’interesse del minore. Tale disciplina è stata falsamente applicata dalla Corte territoriale, che ha focalizzato la sua attenzione non già, come avrebbe dovuto, sulla sussistenza di un pregiudizio delle minori, che la norma impone dover esser specificamente esplicitato, ma direttamente sullo stile di vita della madre ritenuto “non consono dal punto di vista morale” in riferimento ad imprecisate vicende relative al contesto familiare di appartenenza della stessa, e senza neppure considerare che le bambine sono collocate presso il padre.
4. Il decreto va, in conclusione, cassato, restando assorbito il primo motivo, con rinvio alla Corte d’Appello di Catanzaro, in diversa composizione, che provvederà, anche, a regolare le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo, assorbito il primo, cassa e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Catanzaro, in diversa composizione. Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.

La nuova convivenza elide completamente il diritto all’assegno divorzile, anche se è cessata.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile- 1, ordinanza 21 luglio 2017, n. 18111
Fatto e diritto
Rilevato che:
Con sentenza del 18/9 – 2/10/2015, la Corte d’appello di Cagliari ha dichiarato insussistente il diritto di F.G. all’assegno divorzile ed ha confermato in Euro 400 mensili l’assegno a carico di Fr.Re. per il mantenimento del figlio M. .
Per quanto ancora interessa, nello specifico, la Corte del merito, ritenuto la rilevanza, ai fini del diritto all’assegno di divorzio, della verifica della prosecuzione della convivenza con altro compagno della sig. F. , ha evidenziato che nel ricorso introduttivo di primo grado il Fr. aveva fatto riferimento alla convivenza della moglie; questa non aveva sollevato contestazioni e solo in sede di comparizione aveva affermato che detta convivenza era venuta meno nel 2008, ma non aveva provato detta circostanza, come era onerata trattandosi di fatto nuovo allegato “costitutivo del diritto all’assegno divorzile e alla stregua del principio della vicinanza della prova”.
Ne conseguiva la perdita del diritto all’assegno.
Ricorre la F. , sulla base di tre motivi.
L’intimato non ha svolto difese.
Considerato che:
Col primo motivo di ricorso, la ricorrente si duole della violazione dell’art. 2697 cod. civ., degli artt. 115,116, 167 in materia di contestazione e valutazione della prova, e degli artt.183 e 190 cod. proc. civ., in materia di determinazione del thema probandum, sostenendo che nel ricorso introduttivo il sig.Fr. non ha fatto menzione dell’instaurazione o prosecuzione della convivenza more uxorio della sig.F. con altra persona e di avere essa dichiarato, nella comparizione personale del 17/1/2010 avanti al Presidente del Tribunale, che la convivenza extra coniugale era cessata nel 2008 (quindi prima della instaurazione del procedimento di divorzio introdotto col ricorso del 5/10/2010), che il F. aveva fatto valere la mancata prova della cessazione della convivenza solo in comparsa conclusionale, infine che la Corte del merito avrebbe dovuto verificare la stabilità e continuità della eventuale convivenza.
Col secondo motivo, si duole la ricorrente della violazione e falsa applicazione dell’art.5 della 1.898/1970, per avere la Corte del merito omesso di accertare la sussistenza di una nuova famiglia ancorché di fatto, dotata dei caratteri della stabilità e continuità, quale presupposto giustificante l’esclusione dell’assegno. Col terzo motivo, la ricorrente denuncia la nullità della sentenza o del procedimento, per avere la Corte del merito posto a base della decisione una questione rilevata d’ufficio, ovvero l’asserita convivenza more uxorio, senza concedere il termine ex art.101, comma 2, cod. proc. civ., per garantire il contraddittorio.
I tre motivi di ricorso, strettamente collegati, vanno valutati unitariamente e sono da ritenersi manifestamente infondati.
Nel suo nucleo essenziale, la tesi della ricorrente è basata sul rilievo processuale dell’introduzione da parte del Fr. solo in sede di comparsa conclusionale di primo grado della mancata prova della cessazione della convivenza della F. , come accertata in sede di modifica delle condizioni di separazione con il decreto del Tribunale del 21/11/2008, da cui, secondo l’odierna ricorrente, la violazione del principio ex art. 2697 cod. civ., l’introduzione da parte della Corte del merito di una questione rilevata d’ufficio (la prosecuzione della convivenza more uxorio), la violazione dell’art. 5 legge divorzile, per la mancata verifica delle caratteristiche dell’assunta convivenza. Di contro a detta pur articolata prospettazione, va in via assorbente rilevato che deve trovare applicazione il principio espresso nella pronuncia 6855/2015, declinato secondo la specificità del caso.
La pronuncia citata, come è noto, ha affermato che l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
Ora, nella specie, il fatto rilevante della convivenza con altri da parte della sig.F. ha fatto parte del giudizio, per quanto dichiarato dalla stessa parte in sede di comparizione personale del 17/1/2010, anche se con l’aggiunta della cessazione della convivenza dal 2008, come poi ribadito anche in sede di costituzione di secondo grado, ma detta ulteriore circostanza non può ritenersi rilevante, volta che si ponga attenzione alla cesura che si è ormai determinata con l’instaurazione della nuova convivenza che non può essere posta nel nulla a seguito della prospettata cessazione della stessa, per il rilievo, già espresso nella pronuncia del 2015, che il diritto all’assegno non entra in fase di quiescenza, ma viene definitivamente eliso, di talché sono irrilevanti le successive evoluzioni del nuovo rapporto.
Ne consegue il rigetto del ricorso, stante la correttezza della decisione impugnata nella sua statuizione finale, pur dovendosi correggere la motivazione nei sensi di cui sopra.
Non v’è luogo alla pronuncia sulle spese, non essendosi costituito l’intimato.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso.
Vista l’ammissione della ricorrente al patrocinio a spese dello Stato, non si applica l’art.13, comma 1 quater del d.P.R. 115 del 2002.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nell’ordinanza.

In sede di separazione l’attitudine al lavoro del beneficiario dell’assegno assume rilievo solo se si sostanzia in un’effettiva impossibilità di un’attività lavorativa retribuita

Cass. civ. Sez. VI – 1, 20 luglio 2017, n. 17971:
ORDINANZA
sul ricorso 14206-2016 proposto da:
N.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE LIEGI 35/B, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO COLAGRANDE, rappresentato e difeso dagli avvocati CINZIA MELLA, LUCIA TEDESCHI;
– ricorrente –
contro
ìS.S. elettivamente domiciliata in LARGO GEN. GONZAGA DEL VODICE 2, presso dell’avvocato ALESSANDRO PAZZAGLIA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FULVIA BACCOS;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2778/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 03/12/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 19/05/2017 dal Consigliere Dott. CARLO DE CHIARA.
Svolgimento del processo
1. La Corte d’appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale di Padova sulla separazione dei coniugi sig. N.M. e sig.ra S.S., ha determinato in Euro 650,00, comprensivi della rata del mutuo contratto per l’acquisto della casa coniugale, l’assegno mensile dovuto dal marito in favore della moglie, e ha condannato l’appellato alle spese processuali in considerazione della sua prevalente soccombenza.
Accertato che la sig.ra S. era disoccupata, la Corte ha valutato che sussisteva tra i coniugi una consistente disparità economica. In particolare, quanto al primo profilo, ha chiarito che la signora, a partire dall’8 agosto 2014, non aveva più svolto attività lavorative retribuite di carattere continuativo, e che quindi non rilevava la sua astratta attitudine al lavoro proficuo, difettando comunque qualunque concreta capacità di guadagno; quanto, poi, al profilo della disparità economica tra i coniugi, ha evidenziato che, a differenza della moglie, il sig. N. poteva contare su una fonte di reddito stabile e continuativa, esercitando la professione di promotore finanziario, ed ha disatteso le dichiarazioni dei redditi da lui prodotte, tra cui quella del 2014, dalla quale risultava un reddito mensile nello di Euro 1.375,08. Tale somma, infatti, non era neppure sufficiente a far fronte agli esborsi mensili accertati, quali il pagamento dell’assegno di Euro 837,60 per le due figlie e altre spese fisse su di lui gravanti; le rate del mutuo ipotecario pari a Euro 550,00; i canoni di locazione di Euro 430,00 e di Euro 110,00 rispettivamente per l’abitazione e l’ufficio e gli ulteriori costi di quest’ultimo.
In mancanza di elementi attendibili per la ricostruzione delle effettive disponibilità economiche dell’obbligato, per determinare l’entità dell’assegno la Corte si è quindi basata sull’accordo stipulato dai coniugi il 16 febbraio 2010, con il quale il marito si era impegnato a versare alla moglie, per il mantenimento di lei e delle figlie, la somma di Euro 1.500,00 mensili, comprensiva della rata di mutuo e delle spese per utenze domestiche.
2. Il sig. N. ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi, cui l’intimata ha resistito con controricorso.
Il ricorrente ha anche presentato memoria.
Il Collegio ha deliberato che la motivazione della presente ordinanza sia redatta in forma semplificata, non ponendosi questioni rilevanti ai fini della funzione nomofilattica di questa Corte.
Motivi della decisione
1. Con il primo e il secondo motivo di ricorso, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione, il ricorrente censura le statuizioni relative all’an e al quantum dell’assegno di mantenimento riconosciuto in favore della moglie.
1.1. La censura riguardante la capacità lavorativa della sig.ra S. è infondata, poiché l’attitudine del coniuge al lavoro assume rilievo solo se venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, e non già di mere valutazioni astratte ed ipotetiche (Cass. 3502/2013, 18547/2006, 6427/2016). Per il resto le censure sono inammissibili in quanto, a dispetto della loro rubrica, si sostanziano in critiche di merito.
2. Con il terzo motivo, denunciando vizio di motivazione, si censura la condanna del ricorrente alle spese processuali, contestando la valutazione di sua prevalente soccombenza.
2.1. Il motivo è inammissibile perché la valutazione in questione è tipicamente di merito, dunque è censurabile soltanto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 mediante indicazione – nella specie del tutto mancante – di un fatto decisivo di cui si sia discusso in causa e del quale il giudice abbia omesso l’esame.
3. Il ricorso va in conclusione rigettato.
Quanto alle spese processuali, data l’ammissione della controricorrente vittoriosa al patrocinio a spese dello Stato, questa Corte deve limitarsi a condannare il ricorrente soccombente a versare il relativo importo, sia per il giudizio di legittimità che per quello di merito (art. 385 c.p.c., comma 2), all’Amministrazione Finanziaria dello Stato, ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.113senza procedere ad alcuna liquidazione, spettante invece, ai sensi della corretta lettura degli artt. 82 e 83 D.P.R. cit., al giudice di merito (cfr., da ult., Cass. Sez. Un. 22792/2012), individuato nel giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (cfr. Cass. 23007/2010).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore dell’Amministrazione Finanziaria dello Stato, delle spese del giudizio di legittimità, da liquidarsi a cura della Corte d’appello di Venezia.
Ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater, inserito dallaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.

Il giudice d’ufficio decide sul mantenimento dei figli senza incorrere nel vizio di ultra petizione

Cass. civ. Sez. IV – 1, 14 giugno 2017, n. 14830
ORDINANZA
sul ricorso 13579/2016 proposto da:
C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA F. CESI 30, presso lo studio dell’avvocato PIERLUIGI MANCUSO, rappresentato e difeso dall’avvocato RINALDO OCCHIPINTI;
– ricorrente –
contro
V.A.;
– intimata –
avverso il decreto n. 182/2015 D’APPELLO di CATANIA depositato il 17/11/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 19/05/2017 dal Consigliere Dott. LOREDANA NAZZICONE.
Svolgimento del processo
– che il ricorrente ha proposto ricorso, per due motivi, avverso il decreto della Corte d’appello di Catania del 16.11.2015 il quale, in accoglimento del reclamo del medesimo ricorrente, ha escluso l’obbligo del padre di pagare il canone di locazione, relativamente all’immobile in cui vive la moglie con i figli minori, ma ha, nel contempo, aumentato l’assegno di mantenimento in favore dei figli da Euro 600,00 ad Euro 800,00 mensili, nonostante la contumacia della reclamata;
– che è stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti.
Motivi della decisione
– che il primo motivo è manifestamente inammissibile, perchè deduce il vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e mira ad una riconsiderazione degli elementi di fatto, censure che tuttavia non possono essere fatte valere, non appartenendo al catalogo dei vizi deducibili in Cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto (quindi, dall’11 settembre 2012);
– che il secondo motivo è manifestamente infondato, censurando esso il vizio di ultrapetizione ai sensi dell’art. 112 c.p.c., mentre, secondo giurisprudenza costante di questa S.C., i provvedimenti necessari alla tutela degli interessi morali e materiali della prole, qual è l’attribuzione e la determinazione dell’assegno di mantenimento a carico del genitore non affidatario, possono essere adottati d’ufficio, essendo rivolti a soddisfare esigenze e finalità pubblicistiche sottratte all’iniziativa ed alla disponibilità delle parti (e multis, Cass. 27 gennaio 2012, n. 1243, in motivazione; Cass. 3 agosto 2007, n. 17043; Cass. 13 gennaio 2004, n. 270);
– che non si dà condanna alle spese, non svolgendo difese l’intimata;
– che si tratta di procedimento esente dal contributo, onde non si provvede alla dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 (art. 10 del citato decreto).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.