In caso di mutamento del rito ex art. 426 c.p.c., gli effetti della domanda si valutano in base alla forma che l’atto introduttivo avrebbe dovuto avere

Corte cost., 2 marzo 2018, n. 45
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 426 del codice di procedura civile, promosso dal Tribunale ordinario di Verona, nel procedimento civile vertente tra M.B. in proprio e nella qualità di legale rappresentante della A.B.L. snc e D.C., con ordinanza del 16 gennaio 2017, iscritta al n. 90 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Udito nella camera di consiglio del 7 febbraio 2018 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli.
1.− Nel corso di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo − proposto “nelle forme ordinarie”, con atto di citazione notificato alla controparte, in relazione al quale era stato però disposto il mutamento del rito, per inerenza del credito azionato a rapporto di locazione ricadente (ex art. 447-bis del codice di procedura civile) nell’ambito delle controversie per le quali è prescritto il rito speciale del lavoro (da introdursi con deposito del ricorso in cancelleria ai sensi degli articoli 409 e seguenti dello stesso codice) – l’adito Tribunale ordinario di Verona, in composizione monocratica, chiamato a pronunciarsi sull’eccezione avversaria di tardività dell’opposizione, risultandone il deposito effettuato oltre il termine perentorio (di 40 giorni dalla notificazione del decreto ingiuntivo) di cui all’art. 641 cod. proc. civ., ha ritenuto di conseguenza rilevante, e non manifestamente infondata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, ed ha perciò sollevato, con l’ordinanza in epigrafe, questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 426 cod. proc. civ., nella parte, appunto, in cui, secondo l’interpretazione giurisprudenziale consolidatasi in termini di diritto vivente, “non prevede che, in caso di introduzione con rito ordinario di una causa soggetta al rito previsto dagli art. 409 e ss. c.p.c. e di conseguente mutamento del rito, gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producano secondo le norme del rito ordinario, seguito fino al mutamento”.
Ad avviso del rimettente, la disposizione censurata, così interpretata, violerebbe l’art. 3 Cost., per irragionevolezza, e gli artt. 24 e 111 Cost., per il vulnus, che ne conseguirebbe, al diritto all’effettività della tutela giurisdizionale e ad un giusto processo.
In relazione al primo profilo, verrebbero, infatti, in rilievo, sia la sopravvenuta previsione normativa di cui all’art. 4, comma 5, del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della L. 18 giugno 2009, n. 69), sia i principi rinvenibili nella giurisprudenza costituzionale in tema di “translatio iudicii” (sentenze n. 77 del 2007 e n. 223 del 2013), alla cui stregua gli effetti processuali dell’originaria domanda si conservano, rispettivamente, anche nell’ipotesi di erronea scelta del rito o di proposizione ab origine della domanda stessa dinanzi a giudice incompetente o sprovvisto di giurisdizione.
Quanto al secondo profilo, “l’applicazione riduttiva del principio di strumentalità della forma … ed in particolare il condizionamento dell’operatività del principio della sanatoria per raggiungimento dello scopo alla tempestiva realizzazione degli effetti tipici dell’atto introduttivo del rito corretto” – quali, appunto, si rifletterebbero nella disposizione denunciata – la renderebbero, appunto, ingiustificata e lesiva del diritto alla effettività della tutela giurisdizionale dell’attore.
2.- Nessuna delle parti del giudizio a quo si è costituita nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale né è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri.
Motivi della decisione
1.- L’art. 426 del codice di procedura civile, sotto la rubrica “Passaggio dal rito ordinario al rito speciale”, testualmente dispone, al primo comma, che “il giudice, quando rileva che una causa promossa nelle forme ordinarie riguarda uno dei rapporti di lavoro previsti dall’articolo 409, fissa con ordinanza l’udienza di cui all’articolo 420 e il termine perentorio entro il quale le parti dovranno provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti di cancelleria”.
2.- Con riferimento, in particolare, all’ipotesi in cui una causa di opposizione a decreto ingiuntivo concesso per crediti relativi a un rapporto di locazione – e per ciò, soggetta al rito speciale previsto per i rapporti di lavoro (in virtù del rinvio a questo operato dall’art. 447-bis cod. proc. civ.) – sia stata erroneamente, invece, promossa con atto di citazione, “nelle forme ordinarie”, la Corte di cassazione, in sede di esegesi del predetto art. 426, è, da data risalente, ferma nel ritenere che la citazione può produrre gli effetti del ricorso solo se sia depositata in cancelleria entro il termine di cui all’art. 641 cod. proc. civ., non essendo sufficiente che, entro tale data, sia stata notificata alla controparte (da ultimo, sezione sesta civile, ordinanze 19 settembre 2017, n. 21671 e 29 dicembre 2016, n. 27343; sezioni unite civili, sentenza 23 settembre 2013, n. 21675; in precedenza, ex plurimis, terza sezione civile, sentenza 2 aprile 2009, n. 8014; e sezione lavoro, sentenza 26 marzo 1991, n. 3258).
In tal senso l’esegesi dell’art. 426 cod. proc. civ. si è ormai consolidata come “diritto vivente”.
3.- Il Tribunale ordinario di Verona – nel corso, appunto, di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo relativo a crediti in materia di locazione, irritualmente introdotto con atto di citazione poi tardivamente depositato in cancelleria di cui la controparte aveva per tal profilo, però, eccepito l’inammissibilità – ha ritenuto, di conseguenza, rilevante, e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, ed ha quindi sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 426 c.p.c. come interpretato dal giudice della nomofilachia, “nella parte in cui non prevede che, in caso di introduzione con rito ordinario di una causa soggetta al rito previsto dagli artt. 409 e ss. c.p.c. e di conseguente mutamento del rito, gli effetti sostanziali e processuali si producano secondo le norme del rito ordinario, seguito fino al mutamento”.
4.- L’irrilevanza della data di non rituale introduzione del giudizio, ai fini del rispetto del termine di decadenza cui sia sottoposta la causa, corollario pacifico della riferita giurisprudenza, sarebbe conseguente, secondo il rimettente, alla “mancanza, nella disciplina del processo in caso di erronea scelta del rito …, di una previsione che ricolleghi tutti gli effetti processuali della domanda (e quindi anche quello della litispendenza) all’atto introduttivo del rito erroneamente scelto, secondo le forme proprie di quest’ultimo”.
Ma, proprio in ragione di tale “vuoto normativo” (che il giudice a quo sostanzialmente chiede a questa Corte di colmare con una pronunzia additiva), il censurato art. 426 cod. proc. civ., violerebbe, a suo avviso, l’art. 3 Cost., per irragionevolezza, e gli artt. 24 e 111 Cost., per il vulnus, che ne conseguirebbe, al diritto dell’effettività della tutela giurisdizionale e ad un giusto processo.
La sanatoria dimidiata, e non piena, dell’atto non ritualmente introdotto “nelle forme ordinarie” (in luogo di quelle del rito speciale per esso previste) – quale unicamente consentita dalla disposizione impugnata – non sarebbe, infatti, più coerente alla sopravvenuta previsione normativa di cui all’art. 4, comma 5, del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della L. 18 giugno 2009, n. 69), a tenore della quale gli effetti della domanda si producono facendo riferimento alla forma e quindi alla data dell’atto (sia pur erroneamente) in concreto prescelto e non a quella che l’atto avrebbe dovuto avere, e che assuma a seguito della conversione del rito.
E ciò in linea con una “inversione di tendenza” (cui fa riferimento il legislatore del 2011, e che rimanda, peraltro, al principio generale di sanatoria dell’atto per raggiungimento dello scopo, di cui all’art. 156 cod. proc. civ.), nel solco della quale si inserisce anche la cosiddetta translatio iudicii ex art. 59, comma 2, della L. 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), in termini di salvezza degli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dalla instaurazione del primo giudizio, oltre ad una, sia pur eccentrica, pronuncia delle stesse sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 14 aprile 2011, n. 8491), sulla ritenuta sostanziale equipollenza delle forme del ricorso e della citazione ai fini dalla introduzione della impugnazione delle delibere condominiali.
5.- Le argomentazioni e i rilievi spesi dal giudice rimettente (anche in sintonia con la posizione di parte della dottrina processualcivilistica) muovono nella direzione di una ridefinizione del “passaggio dal rito ordinario al rito speciale” – quale ora recata dall’art. 426 cod. proc. civ., in termini di “diritto vivente” – su una linea di maggior coerenza con la disciplina dei nuovi riti speciali, nel senso che il mutamento del rito (rispondente ad un principio di conservazione dell’atto proposto in forma erronea) operi, in ogni caso, solo pro futuro, ossia ai fini del rito da seguire all’esito della conversione, senza penalizzanti effetti retroattivi, restando – in altri termini – fermi quelli, sostanziali e processuali, riconducibili all’atto introduttivo, sulla scorta della forma da questo in concreto assunta (e, cioè, nel caso in esame, sulla base di un atto di citazione tempestivamente comunque notificato alla controparte).
6.- Una tale auspicata riformulazione del meccanismo di conversione del rito sub art. 426 cod. proc. civ. riflette, appunto, una valutazione di opportunità, e di maggior coerenza di sistema, di una sanatoria piena, e non dimidiata, dell’atto irrituale, per raggiungimento dello scopo. Ma non per questo risponde ad una esigenza di reductio ad legitimitatem della disciplina attuale, posto che tale disciplina (a sua volta coerente ad un principio di tipicità e non fungibilità delle forme degli atti) non raggiunge quella soglia di manifesta irragionevolezza che consente il sindacato di legittimità costituzionale sulle norme processuali.
Con riguardo alla fattispecie in esame, questa Corte ha già avuto, peraltro, anche occasione di affermare che la diversa disciplina dell’opposizione a decreto ingiuntivo nel rito ordinario e in quello del lavoro (applicabile anche alle controversie in materia di locazione) “è giustificata …, essendo finalizzata alla concentrazione della trattazione ed alla immediatezza della pronuncia” (ordinanza n. 152 del 2000, che richiama la precedente ordinanza n. 936 del 1988) e che “il principio della legale conoscenza delle norme … non può non valere quando la parte si avvalga, come nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo, del necessario patrocinio del difensore, ben in grado di desumere la causa petendi dagli atti notificati alla parte” (ordinanza n. 152 del 2000, che richiama le sentenze n. 347 del 1987 e n. 61 del 1980).
7.- A fronte, dunque, di un petitum implicante l’opzione per la modifica di una regola processuale – opzione di per sé meritevole di considerazione, ma comunque rientrante nell’ambito delle scelte riservate alla discrezionalità del legislatore – la questione in esame va, pertanto, dichiarata inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della L. 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 426 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Verona, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 febbraio 2018.
Depositata in Cancelleria il 2 marzo 2018.

La stabile convivenza more uxorio esclude il diritto all’assegno di mantenimento

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 16 novembre 2017 – 29 gennaio 2018, n. 2106
Presidente Mazzacane – Relatore Cavallari
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 2 marzo 2008 M.L.D. ha adito il Tribunale di Viterbo al fine di sentire
dichiarare la revoca della donazione effettuata in favore di G.R. con atto rogato dal Notaio D. in data
(omissis) , rep. omissis, racc. omissis, avente ad oggetto la proprietà dell’appartamento sito in (omissis) ,
nonché gli immobili in (omissis) (locali di servizio e cantine).
L’attore ha chiesto la revoca della donazione per ingratitudine ex art. 801 c.c. e per sopravvenienza della
minore M.N. , nata dalla sua unione con B.D. .
In particolare, l’attore ha esposto di avere contratto matrimonio con la convenuta il 20 luglio 1996 e di
avere acquistato l’unità immobiliare oggetto di causa il 14 maggio 1997, adibendola a casa coniugale.
Il Tribunale di Viterbo, con sentenza n. 904/2010, ha respinto la domanda di revocazione per
ingratitudine ex art. 801 c.c., ma ha ritenuto fondata la richiesta di revocazione per sopravvenienza dei
figli.
G.R. ha proposto appello contro la suddetta sentenza, chiedendone la riforma.
La Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 5168/2013, ha respinto il gravame.
G.R. ha proposto ricorso per cassazione contro la sopraindicata sentenza, articolandolo su otto motivi,
chiedendo la cassazione della decisione.
M.L.D. ha resistito con controricorso affinché fosse dichiarato inammissibile o infondato il ricorso.
La sola ricorrente ha depositato memoria ex articolo 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo G.R. contesta la violazione degli articoli 770, 805 e 2034 c.c., in quanto la corte
territoriale avrebbe errato nell’escludere la natura remuneratoria della donazione in esame.
In particolare, ad avviso della ricorrente M.L.D. avrebbe ammesso tale natura, avendo egli riconosciuto
che la liberalità era stata posta in essere a fronte dell’impegno della moglie a rinunciare all’assegno di
mantenimento. Inoltre, G.R. ha sottolineato che il carattere remuneratorio dell’atto di trasferimento si
sarebbe dovuto desumere, in ogni caso, dal fatto che, in questo modo, il marito avrebbe inteso
ricompensarla per le cure e l’assistenza prestate in suo favore in relazione alla sua attività di giocatore
professionista di basket.
La doglianza è infondata.
La donazione remuneratoria, contratto che soggiace alle condizioni di forma previste dall’articolo 782 c.c.,
consiste in un’attribuzione gratuita, compiuta spontaneamente e nella consapevolezza di non dovere
adempiere alcun obbligo giuridico, morale, sociale, volta a compensare i servizi resi dal donatario (Cass.,
Sez. 2, n. 10262 del 18 maggio 2016).
In particolare, questa ricorre, ai sensi dell’articolo 770, comma 1, c.c., qualora l’attribuzione patrimoniale
rappresenti un segno tangibile di speciale apprezzamento di servizi in precedenza ricevuti o promessi
(Cass., Sez. 2, n. 1989 del 22 febbraio 1995), senza, però, rappresentarne il corrispettivo (Cass., Sez. 2,
n. 2452 del 28 giugno 1976).
Nella specie, con riferimento alla dedotta correlazione con la rinuncia ad opera della ricorrente al proprio
diritto ad ottenere un assegno in sede di separazione, la corte territoriale ha correttamente osservato che
detta circostanza avrebbe escluso l’esistenza di una simile donazione, poiché avrebbe contraddetto la
causa sottesa alla donazione medesima.
Sulla base della stessa prospettazione di G.R. deve negarsi, perciò, la spontaneità dell’elargizione,
divenendo essa il corrispettivo dovuto in virtù di un accordo raggiunto con riferimento alla gestione della
crisi matrimoniale.
La natura remuneratoria del trasferimento, inoltre, va esclusa con riguardo all’impegno profuso della
ricorrente per consentire al controricorrente di prepararsi al meglio per la sua attività di giocatore di
basket, avendo la corte territoriale ben chiarito che si sarebbe eventualmente trattato di condotte in parte
riconducibili ai doveri di cui all’articolo 143 c.c., alla luce del fatto che il marito sosteneva, in via esclusiva,
1
gli oneri economici e patrimoniali della vita familiare, in parte non dimostrate.
2. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la falsa applicazione degli articoli 143 e 770 c.c. poiché la
Corte di Appello di Roma avrebbe erroneamente disposto la revoca della donazione in questione
nonostante avesse ricondotto la vicenda de qua nell’ambito delle obbligazioni naturali, le quali sono
irripetibili.
La doglianza è inammissibile, non avendo G.R. colto la ratio della decisione.
Infatti, la corte territoriale non ha affermato che la donazione sarebbe avvenuta in adempimento di una
obbligazione naturale, come sembra sostenere la ricorrente, ma, al contrario, ha escluso ogni dipendenza
del trasferimento immobiliare dalle azioni di G.R. , giacché queste erano avvenute in correlazione con i
doveri previsti dall’articolo 143 c.c..
3. Con il terzo ed il quarto motivo, che possono essere trattati congiuntamente, stante la stretta
correlazione, la ricorrente lamenta la violazione degli articoli 143 e 770 c.c., poiché la corte territoriale
non avrebbe dovuto ricondurre le sue azioni nell’ambito degli ordinari doveri coniugali di assistenza,
essendo queste finalizzate ad agevolare la carriera sportiva del marito, tanto che essa aveva abbandonato
il proprio precedente lavoro, così perdendo la propria autonomia economica.
G.R. si duole, altresì, della circostanza che non sia stata data la giusta rilevanza al motivo soggettivo
sotteso alla donazione stessa, riconosciuto da entrambe le parti.
La doglianza è inammissibile per difetto di specificità e perché volta a sindacare delle valutazioni di merito
della Corte di Appello di Roma.
Infatti, la ricorrente ha del tutto omesso di indicare nel dettaglio quali condotte, eccedenti l’ordinario
adempimento degli obblighi derivanti dal matrimonio, sarebbero state ad essa riferibili, in tal modo
precludendo a questa corte ogni sindacato della decisione gravata.
Inoltre, la qualificazione di dette condotte come rientranti nell’ambito dell’attuazione del rapporto
familiare rappresenta un tipico giudizio di merito che non può essere contestato davanti al giudice della
legittimità, se non, dopo la recente riforma dell’articolo 360, n. 5, c.p.c., nei limiti in cui la motivazione
della sentenza sul punto sia del tutto assente o meramente apparente.
Peraltro, la corte territoriale ha giustificato la sua conclusione, avendo valorizzato, soprattutto, il fatto che
il controricorrente si fosse assunto in via esclusiva gli oneri economici e patrimoniali della vita familiare.
La Corte di Appello di Roma ha, poi, tenuto conto delle motivazioni addotte dalle parti, ma ha escluso,
ancora con un giudizio di merito espressamente motivato (con riferimento alla natura di corrispettivo
dell’attribuzione per ciò che riguarda la rinuncia al mantenimento e con un richiamo all’adempimento dei
doveri coniugali ed al difetto di prova in relazione alla dedotta agevolazione della carriera del
controricorrente), che vi fosse certezza della “riconducibilità dell’attribuzione patrimoniale ad un
comportamento della signora G. verso il quale il sig. M. si sentiva riconoscente, fiero o comunque
desideroso di dare una ricompensa”.
4. Con il quinto motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’articolo 115 c.p.c., poiché la corte
territoriale avrebbe negato l’intervenuta acquisizione della prova sulla natura remuneratoria della
donazione per effetto del meccanismo della non contestazione.
La doglianza è infondata.
La Corte di Appello di Roma, infatti, ha esaminato le circostanze che, ad avviso della ricorrente,
avrebbero dovuto portare a considerare ammessa la qualificazione come remuneratoria della liberalità,
ma ha ritenuto che proprio questi elementi dimostrassero l’assenza dei presupposti per ritenere integrata
l’ipotesi di cui all’articolo 770, comma 1, c.c.
5. Con il sesto motivo la ricorrente lamenta la violazione degli articoli 112 e 116 c.p.c., nonché 24,
comma 2, e 111, comma 2, Cost., in quanto la corte territoriale non avrebbe ammesso i mezzi di prova
da essa articolati.
La doglianza è infondata.
Il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci la mancata ammissione di mezzi istruttori e vizi della
sentenza derivanti dal rifiuto del giudice di merito di dare ingresso a mezzi istruttori ritualmente richiesti
ha l’onere non solo di indicare specificamente i mezzi istruttori in questione, ma anche di dimostrare sia
l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza.e l’errore addebitato al giudice,
sia che la pronuncia, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità
2
un controllo sulla decisività delle prove (Cass., Sez. 6 – 1, n. 23194 del 4 ottobre 2017; Cass., Sez. 1, n.
4178 del 22 febbraio 2007).
Nella specie, la corte territoriale ha reputato irrilevanti le suddette prove e generica, in particolare, quella
concernente l’attività lavorativa della ricorrente antecedente al matrimonio, per poi ricondurre le condotte
in questione nell’ambito dell’adempimento dei doveri ex articolo 143 c.c.
G.R. , invece, non ha chiarito come le prove de quibus avrebbero potuto condurre ad un esito diverso del
giudizio e, soprattutto, dimostrare con certezza che le azioni della stessa non costituivano attuazione
degli obblighi coniugali, nell’ambito di una più ampia intesa che poneva a carico del solo marito i costi del
menage familiare.
6. Con il settimo motivo la ricorrente lamenta l’omesso esame di fatti decisivi del processo, poiché la
corte territoriale non avrebbe tenuto conto di ulteriori circostanze dedotte, quali il conferimento di
procura speciale irrevocabile per una quota pari al 50% per l’immobile in esame avvenuto nel 1997 e
l’intervista resa lo stesso anno dal controricorrente alla Gazzetta dello Sport nella quale aveva richiamato
espressamente i benefici ottenuti dal matrimonio.
La doglianza è inammissibile.
Infatti, l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei
documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità
di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee
a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel
porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro
limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni
singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi
tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili
con la decisione adottata (Cass., Sez. 1, n. 16056 del 2 agosto 2016).
7. Con l’ottavo motivo la ricorrente lamenta la violazione degli articoli 803 c.c. e 3 Cost., poiché la corte
territoriale avrebbe errato nel non escludere la revocabilità della donazione in favore del coniuge, sulla
base del principio enunciato dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 1112 del 1965, la quale
aveva sancito l’irrevocabilità delle liberalità a vantaggio dei figli naturali riconosciuti.
La doglianza è infondata.
L’articolo 803 c.c. stabilisce, nel testo vigente all’epoca di instaurazione del giudizio di primo grado, che
“Le donazioni, fatte da chi non aveva o ignorava di avere figli o discendenti al tempo della donazione,
possono essere revocate per la sopravvenienza o l’esistenza di un figlio o discendente legittimo del
donante. Possono inoltre essere revocate per il riconoscimento di un figlio naturale, salvo che si provi che
al tempo della donazione il donante aveva notizia dell’esistenza del figlio.
La revocazione può essere domandata anche se il figlio del donante era già concepito al tempo della
donazione”.
Questa disposizione mira espressamente a favorire i discendenti del donante, a condizione che non siano
ancora nati o che la loro esistenza sia ignota al genitore.
La decisione della Suprema Corte di Cassazione menzionata dalla ricorrente, nell’affermare che “Sono
revocabili, per sopravvenienza di figli legittimi, le donazioni fatte a favore di estranei, non quelle fatte a
favore di figli naturali riconosciuti” (Cass., Sez. 2, n. 1112 del 4 giugno 1965), conferma la suddetta ratio
poiché, nel chiarire che non possono essere interessati dalla revocazione altri figli (nella specie, quelli
naturali riconosciuti), ammette che la revocazione riguarda tutti i soggetti qualificabili come estranei,
termine da intendere come riferito a coloro che non rientrano nella discendenza.
D’altronde, l’esclusione, operata dalla suddetta giurisprudenza, dell’applicabilità dell’articolo 803 c.c. con
riferimento ai figli naturali riconosciuti trova fondamento proprio nel fatto che il beneficiante aveva,
all’epoca della donazione, dei discendenti.
Pertanto, è priva di pregio l’affermazione della ricorrente, secondo cui la non estensione dell’irrevocabilità
delle donazioni per sopravvenienza dei figli al coniuge si porrebbe in contrasto con l’articolo 3 Cost.,
poiché differenzierebbe la posizione di soggetti che compongono il nucleo fondamentale familiare (nella
specie, moglie e discendenti).
Infatti, la situazione del coniuge e quella del figlio non sono del tutto equiparabili, nonostante entrambi
3
siano elementi del gruppo familiare, considerato che il legame fra genitore e discendente è espressione di
una relazione giuridica diretta destinata a non venire meno, mentre il rapporto fra i coniugi ha natura
diversa ed è soggetto a modificazioni nel corso della Loro vita.
8. Il ricorso va, quindi, rigettato.
9. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Se ne dispone la distrazione in favore del difensore del controricorrente dichiaratosi antistatario.
Sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’articolo 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n.
228, che ha aggiunto il comma 1-quater all’articolo 13 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dell’obbligo di
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata, trattandosi di ricorso per cassazione la cui notifica si è
perfezionata successivamente alla data del 30 gennaio 2013 (Cass., Sez. 6 – 3, sentenza n. 14515 del 10
luglio 2015).
P.Q.M.
La Corte:
– rigetta il ricorso;
– condanna la ricorrente a rifondere al controricorrente le spese di lite, da distrarsi in favore del difensore
dichiaratosi antistatario, che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre
accessori come per legge e spese generali nella misura del 15%;
– ai sensi dell’articolo 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’articolo 1, comma 17,
legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

La continuità transnazionale degli status acquisiti prevale sui principi di ordine pubblico interno

Tribunale per i minorenni di Genova 8 settembre 2017 – Pres. e Rel. Miniotti
Omissis
Visto il ricorso depositato il 25.07.2016 da ___ nata il ___ residente ___ ai fini della
presente procedura domiciliata in Genova, Vìa ____, presso lo studio dell’avv. prof.
Chiara Enrica Tuo, che la rappresenta e difende come da mandato in calce al ricorso,
con cui si chiede, ai sensi dell’art. 36, comma 4, legge n. 184/83 ovvero degli artt. 64
ss. della legge n. 218/1995, di dichiarare il riconoscimento ad ogni effetto
dell’adozione piena del minore …pronunciata in suo favore dal Tribunal de Première
Instance de Première Classe de Cotonou, Benin, in data 8 luglio 2016;
Rilevato che:
con istanza depositata il 10.08.2015, rivolta a questo Tribunale per i Minorenni (proc.
203/15 ADN), la … chiedeva di essere autorizzata all’adozione internazionale del
minore di sesso maschile di nome … (…) nato a … il … a sostegno della richiesta
esponeva: – di essere cittadina italiana, non coniugata e senza figli, residente a … ove
soggiornava continuativamente dal gennaio 2013; al momento del suo trasferimento
all’estero e della sua iscrizione all’AIRE, ella risiedeva in …; – di essere impiegata dallo
stesso anno, in virtù di un contratto di lavoro regolato dal diritto beninese, a …, come
responsabile del dipartimento … – di essersi presa stabilmente cura, dal mese di luglio
2013 del minore di sesso maschile di nome … abbandonato dalla madre, di padre
ignoto e dell’età (in allora) di circa due anni; il minore era stato affidato … e da allora
la … si era occupata del bambino, che aveva stabilito con lei un intenso legame
affettivo e per cui ella rappresentava l’unico punto di riferimento affettivo, educativo,
accuditivo; di aver avviato la procedura per l’adozione piena di … davanti al Tribunal
de Première Instance de Première Classe de Cotonou, Benin; che, conformemente alla
procedura locale di adozione piena di minore: in data 16.01.2015 il predetto Tribunale
ha dichiarato … in stato di abbandono, con delega dell’autorità parentale alla … in
data 7 aprile 2015, la … formalizzato con atto notarile il proprio impegno a offrire al
minore “un ambiente familiare ottimale e ad assicurarne l’educazione, istruzione,
mantenimento e ogni altra esigenza”; in data 22 aprile 2015 il predetto Tribunale ha
disposto l’affidamento provvisorio in vista dell’adozione piena di … alla …; su tali
premesse di fatto, la ricorrente osservava che, in base alla disciplina beninese,
l’adozione dì … da parte della … si configurava quale adozione internazionale di
minore, in ragione della nazionalità straniera dell’aspirante genitore adottivo e che
pertanto, ai fini del suo perfezionamento, le Autorità beninesi richiedevano che la
competente autorità dello Stato di cittadinanza della … emettesse in suo favore una
“autorizzazione ad adottare”; con decreto 25.01/15.02.2016 questo TM dichiarava …
specificamente idonea all’adozione del minore … in virtù del valido rapporto già
consolidato tra lei ed il bimbo, accertato e sancito dal Giudice Beninese; l’iter
dell’adozione in Benin si è perfezionato e, con decisione 8 luglio 2016 il Tribunale di
Cotonou ha dichiarato l’adozione del minore … in capo a … dal tenore dell’atto si
evince che tale decisione ha gli effetti dell’adozione “piena” (in passato:
1
“legittimante”), secondo la terminologia corrente nel nostro ordinamento; il minore ha
da tempo fatto ingresso in Italia con la … in forza di visti a tutt’oggi rinnovati;
Considerato in diritto
Nell’ordinamento italiano la materia dell’adozione internazionale è regolata dagli artt.
da 29 a 43 della legge 4.05.1983, n. 184 come modificata dalla legge 31.12.1998, n.
476, in attuazione della Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993 in materia di
adozione internazionale, che prevedono situazioni distinte per le adozioni estere
pronunciate da paesi che hanno aderito alla Convenzione e da paesi che non vi hanno
aderito, né hanno stipulato accordi bilaterali (come il Benin); in particolare, con
riferimento ad adozioni pronunciate in Stati non aderenti, l’art. 36, quarto comma
della legge 4 maggio 1993, n. 184 (nel testo sostituito ad opera dell’art. 3 della legge
31 dicembre 1998, n. 476) prevede che l’adozione pronunciata all’estero su istanza di
cittadini italiani che dimostrino, al momento della pronuncia, di aver soggiornato
continuativamente nel Paese straniero e di avervi avuto la residenza da almeno due
anni, viene riconosciuta ad ogni effetto in Italia con provvedimento del Tribunale per i
minorenni, purché conforme ai principi della Convenzione; la Corte di Cassazione, con
sentenza n. 3572 del 14.02.2011 ha ritenuto che la norma citata non abbia introdotto
alcuna deroga al principio generale enunciato nell’art. 35, terzo comma della legge n.
184 del 1983 citata, secondo il quale la trascrizione nei registri dello stato civile
italiano dell’adozione di un minore pronunciata all’estero con effetti legittimanti non
può avere mai luogo ove “contraria ai principi fondamentali che regolano nello Stato il
diritto di famiglia e dei minori”, tra i quali, secondo la Corte, vi è quello secondo cui
l’adozione legittimante è consentita solo “a coniugi uniti in matrimonio”, ai sensi
dell’art. 6 della legge n. 184 del 1983, fermo restando che il legislatore nazionale,
coerentemente con il disposto dell’art. 6 della Convenzione europea in materia di
adozione di minori, firmata a Strasburgo il 24 aprile 1967 e ratificata dall’Italia con la
legge 22 maggio 1974, n. 357, ben potrebbe provvedere, nel concorso di particolari
circostanze, ad un ampliamento dell’ambito di ammissibilità dell’adozione legittimante
di minore da parte dì una singola persona; l’art. 41 della legge n. 218/95 dispone che
i provvedimenti stranieri in materia di adozione sono riconoscibili in Italia ai sensi
degli artt. 64, 65 e 66 facendo però ferme le disposizioni delle leggi speciali in materia
di adozione dei minori; pertanto, in forza del principio di specialità, nel caso di cui
all’art. 36, comma 4, le pronunce straniere debbono essere dichiarate efficaci dal TM
competente, dovendosi escludere la configurabilità di un riconoscimento automatico
secondo la regola generale di diritto internazionale privato stabilita dall’art. 64 della
legge n. 218/95 contenente norme di diritto internazionale privato (d.i.p): v. Corte
Cass. sent. n. 6079 del 18.03.2006;
Ciò premesso, ritiene il Collegio che:
– il caso di specie è riconducibile alla norma di cui all’art. 36, comma 4, L. n. 184/83;
in forza del principio di specialità, non è applicabile il riconoscimento automatico
previsto dall’art. 64 della legge di d.i.p;
2
– la Convenzione dell’Aja del 29.05.1993, recepita dalla legge n. 476/98 che ha
innovato la legge n. 184/83, non contiene il principio della riserva assoluta di adozione
in favore delle sole coppie coniugate (come anche esplicitato nella citata sentenza
Cass. n. 3572/2011), di tal che il riconoscimento della sentenza straniera che ha
pronunciato l’adozione piena di un minore da parte di persona non coniugata non è di
per sé in contrasto con i principi della Convenzione, secondo quanto richiesto dall’art.
36, comma 4;
– la clausola generale dell’art. 35 – secondo cui la trascrizione nei registri dello Stato
civile non potrebbe aver luogo se in contrasto con i princìpi fondamentali che regolano
nello stato il diritto di famiglia e dei minori – va interpretata in una prospettiva
conforme all’ormai consolidata giurisprudenza europea della Corte Europea dei diritti
dell’Uomo (nel seguito: Corte EDU o di Strasburgo); – in particolare, deve tenersi
conto del principio enunciato dalla Corte EDU secondo cui il diritto fondamentale al
rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU) impone la continuità transnazionale
degli status familiari, principio tanto più cogente allorché lo status familiare sia stato
validamente e stabilmente costituito all’estero, in conformità all’ordinamento di
origine. L’Autorità nazionale, cui si richiede il riconoscimento dello status, può
rifiutarlo solo invocando il limite dell’ordine pubblico in funzione della tutela, con
misure proporzionate allo scopo, di valori considerati talmente essenziali da risultare
irrinunciabili, in quanto fondanti la propria identità giuridico-costituzionale.
In altri termini, secondo la giurisprudenza CEDU, la continuità transnazionale degli
status può essere soggetta a restrizioni solo in virtù di principi e valori di ordine
pubblico che, nel patrimonio giuridico comune agli Stati aderenti alla CEDU sono
ampiamente condivisi e generalmente considerati meritevoli di tutela. Orbene, è
indubbio che tra tali principi e valori non rientra la riserva di adozione piena alle sole
coppie coniugate, posto che numerosi Stati dei Consiglio di Europa consentono
l’adozione piena da parte di single. – tale ricostruzione trova altresì conforto
nell’ulteriore principio cui fa riferimento la giurisprudenza di Strasburgo, dell’assoluta
preminenza dell’interesse del minore, sul quale deve plasmarsi la soluzione della
questione insorta nel caso concreto. E non vi è dubbio che la pronuncia dell’Autorità
Giudiziaria Beninese abbia dato riconoscimento formale, all’esito di un complesso iter
procedimentale conforme alle norme di quel Paese, ad un rapporto affettivo
continuativamente esistente tra l’odierna ricorrente ed il minore … dal luglio 2013,
talmente intenso da identificare un vero e proprio rapporto genitoriale, rispetto al
quale non sussistono ragioni per imporre restrizioni;
P.Q.M.
visto l’art. 36, comma 4 della L. n. 184/83, come modificata dalla L. n. 476/1998; con
il parere favorevole del Pubblico Ministero;
DICHIARA
efficace in Italia, con gli effetti dell’adozione, il provvedimento del Tribunal de
Première Instance de Première Classe de Cotonou, Benin, in data giugno 2016 che ha
3
pronunciato l’adozione piena (adoption pionière) del minore … nato a … da parte …
nata a…;
DISPONE
che il predetto decreto venga trasmesso all’Ufficiale dello Stato Civile di Genova, per
la trascrizione nei registri dello stato civile;
DISPONE
che il Servizio Sociale territorialmente competente vigili, per almeno un anno,
sull’andamento della situazione del minore, segnalando al TM eventuali difficoltà per
gli opportuni interventi;
MANDA
alla Cancelleria per gli adempimenti di rito e per la notificazione e comunicazione del
presente provvedimento: – al PM; – alla richiedente; – al servizio Sociale
territorialmente competente.

COMPETENZA E CONFLITTI DI COMPETENZA

di Gianfranco Dosi
I. I problemi generali in tema di competenza nel diritto di famiglia
II. La competenza per materia
III. I conflitti di competenza per materia tra tribunale ordinario e tribunale per i mino¬renni relativamente ai provvedimenti de potestate
IV. La competenza per territorio
V. Cumulo soggettivo e inammissibilità della connessione tra domande aventi riti diversi
VI. Come e quando può essere eccepita o rilevata d’ufficio l’incompetenza?
VII. Come sono decise dal giudice le questioni relative alla competenza e come può essere impugnata la decisione?
VIII. Il regolamento di competenza
I
I problemi generali in tema di competenza nel diritto di famiglia
Un giudice è competente se sono rispettate le regole (relative alla materia, al valore e al territorio) in base alle quali è distribuito tra i diversi giudici il potere di decisione. Queste regole definiscono esattamente le attribuzioni di ogni giudice e al tempo stesso disciplinano i conflitti di competenza.
Non danno luogo a conflitti di competenza ma a semplici problemi di organizzazione giudiziaria, la ripartizione degli affari tra sede principale e sezioni distaccate del medesimo tribunale, o tra diverse sezioni distaccate (Cass. civ. Sez. III, 21 maggio 2013, n. 12388), né le questioni concernenti la composizione del giudice (monocratico o collegiale) – tutte questioni che vanno rilevate entro la prima udienza e risolte dal presidente del tribunale al quale il giudice deve invia¬re il fascicolo (art. 83-ter disp. att. c.p.c.) (Cass. civ. Sez. I, 18 settembre 2003, n. 13751; Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2001, n. 8025) – e neppure eventuali conflitti tra giudice tutelare e altri giudici del medesimo tribunale, dal momento che quella di giudice tutelare è una semplice funzione (come la definiva, elencando le funzioni esercitate dal pretore, l’art. 33 dell’ordinamento giudiziario – R.D. L. 30 gennaio 1941, n. 12). Prima che la figura del pretore venisse abolita dal D. Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 istitutivo del giudice unico di primo grado, erano naturalmente possi¬bili conflitti di competenza tra il pretore (in funzione di giudice tutelare) e il tribunale (Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2000, n. 14360). Successivamente a questa riforma non si può più parlare di conflitti di competenza tra giudici con funzioni diverse all’interno del tribunale (Cass. civ. Sez. VI, 25 marzo 2013, n. 7462; App. Potenza, 11 novembre 2008).
Secondo l’orientamento consolidato in giurisprudenza le questioni relative alla distribuzione di competenza tra giudici dei diversi stati dell’Unione europea sono questioni di giurisdizione e non di competenza, anche se i testi normativi (Regolamento europeo 2201/2003 relativo alla compe¬tenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale; Regolamento europeo n. 4/2009 relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari) utilizzano, dal corretto angolo visuale sovranazionale, il termine “com¬petenza” (Cass. civ. Sez. Unite, 30 dicembre 2011, n. 30646; Cass. civ. Sez. Unite, 17 febbraio 2010, n. 3680; Cass. civ. Sez. Unite, 21 ottobre 2009, n. 22238). Pertanto il difetto di giurisdizione (competenza giurisdizionale) “può essere rilevato, in qualunque stato e grado del processo, soltanto dal convenuto costituito che non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana. È rilevato dal giudice d’ufficio, sempre in qualunque stato e grado del processo, se il convenuto è contumace, se ricorre l’ipotesi di cui all’art. 5 [momento determinante della giurisdizione e della competenza] ovvero se la giurisdizione italiana è esclusa per effetto di una norma internazionale” (art.11, rubricato “rilevabilità del difetto di giurisdizio¬ne”, della legge 31 maggio 1995, n. 218 che ha sostituito il secondo comma abrogato dell’art. 37 c.p.c.). La questione di giurisdizione può essere risolta in via preventiva con il regolamento di giurisdizione dalla Sezioni Unite (articoli 41, 360, n. 1 e 374 c.p.c.) mentre trova applicazione in campo sovranazionale il regolamento di competenza solamente per impugnare il provvedimento di sospensione del procedimento.

La competenza si determina in riferimento alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al mo¬mento della proposizione della domanda senza che abbiano rilevanza i mutamenti successivi (art. 5 c.p.c.) (Cass. civ. sez. I, 18 aprile 2001, n. 5729; Cass. civ. Sez. I, 23 ottobre 1989, n. 4317; Cass. civ. Sez. I, 14 novembre 1986, n. 6695) anche se si tratta di mutamenti di diritto che privano il giudice della competenza (Cass. civ. Sez. I, 13 marzo 1990, n. 2032), mentre certamente hanno rilevanza i mutamenti normativi che attribuiscono nuove competenze (Cass. civ. Sez. Unite, 19 febbraio 2002, n. 2415; Cass. civ. Sez. I, 18 maggio 2000, n. 6473; Trib. Bologna, 25 ottobre 2007). Per determinare il momento della proposizione della domanda si fa pacificamente riferimento alla data di notifica della citazione introduttiva o alla data del deposito del ricorso (Cass. civ. Sez. I, 30 marzo 2001, n. 4686) anche se, in caso di trasferimento di residenza Trib. Rimini, 25 gennaio 2010 ha ritenuto, applicando per analogia la normativa dei regolamenti europei, che dovrebbe farsi riferimento al luogo della residenza pre¬cedente ove il trasferimento sia avvenuto entro l’anno; non vi è però un fondamento normativo a questa opinione.
Specifiche questioni di competenza per valore non si pongono nel diritto di famiglia dal momento che il tribunale ha in questo ambito competenza per materia esclusiva e quindi assorbe anche le cause di natura “familiare” (per esempio in tema di mantenimento) che, essendo di valore inferiore ai 5.000 euro (dopo la riforma operata con la legge 18 giugno 2009, n. 69), sarebbero di com¬petenza del giudice di pace. La giurisprudenza tuttavia ha chiarito (sia pure irragionevolmente) che la competenza in ordine alle controversie aventi ad oggetto l’adempimento delle obbligazioni assunte dal coniuge in sede di separazione o divorzio circa il pagamento delle spese straordinarie relative ai figli, va determinata in ragione del valore della causa secondo i criteri ordinari, trattan¬dosi di controversia diversa da quelle concernenti la modifica delle condizioni di separazione o di divorzio, rientranti nella competenza funzionale del tribunale (Cass. civ. Sez. I, 22 agosto 2006, n. 18240). Pertanto residua la competenza del giudice di pace (si ripete, irragionevolmente) nei limiti del valore riservato a tale organo giudiziario per le controversie relative all’adempimento delle obbligazioni di natura economica connesse alle spese straordinarie per i figli scaturenti dalla separazione o dal divorzio.
II La competenza per materia
Per quanto riguarda la competenza per materia (competenza funzionale) il codice di procedura civile (da prima del D. Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 che ha abolito il pretore e istituito il giudice unico di primo grado) ha sempre attribuito espressamente, anche in via generale residuale, le cause di diritto di famiglia al tribunale (art. 9, comma 2, c.p.c. dove si prevede che “il tribunale è altresì esclusivamente competente per tutte le cause che non sono di competenza di altro giudice… è altresì competente per le cause… in materia di stato e capacità delle persone”).
Il tribunale ordinario si occupa quindi in via esclusiva di separazione, divorzio, nullità del matrimo¬nio, azioni sullo status filiationis, interdizione, inabilitazione, adozione dei maggiorenni, dichiara¬zione di assenza e di morte presunta (art. 48 c.c. e 721 c.p.c.) ed anche di cause alimentari (art. 433 ss c.c.), tutte materie regolate nel primo libro del codice civile e ulteriormente richiamate, quanto alla competenza per materia del tribunale ordinario, dal secondo comma dell’art. 38 delle disposizioni di attuazione del [primo libro del] codice civile che attribuisce al tribunale ordinario nel settore minorile tutto ciò che non è specificamente attribuito, nel primo comma, alla competenza del tribunale per i minorenni.
Con la legge 5 aprile 2001, n. 154 la competenza per materia del tribunale (ordinario) si è este¬sa agli ordini di protezione. Con la legge 9 gennaio 2004, n. 6 si è estesa all’amministrazione di sostegno. Infine con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 si è estesa ai procedimenti relativi all’af¬fidamento e al mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio oltre che a tutte le azioni di status filiationis, ivi compresa l’azione di paternità naturale nell’interesse dei minori di età (che prima della riforma del 2012 era di competenza del tribunale per i minorenni).
In Cass. civ. Sez. VI – 1, 12 luglio 2017, n. 17190 si afferma il principio che anche la contro-versia relativa alla modifica delle condizioni della separazione e del divorzio o dell’affidamento dei figli minori appartiene all’esclusiva competenza del tribunale ordinario (del luogo di residenza abituale dei figli), anche quando la domanda sia giustificata dall’esistenza di un grave pregiudizio per i figli minori , non essendo tale circostanza idonea a spostarne la competenza al tribunale per i minorenni.
In Cass. civ. Sez. VI – 1, 31 marzo 2016, n. 6249 si afferma che il procedimento di cui all’art. 337 quater c.c. è devoluto alla competenza del tribunale ordinario del luogo di residenza abituale del minore, non potendo subire la “vis actractiva” del tribunale per i minorenni, che ha competenze tassativamente individuate dalla legge tra le quali non figura detto procedimento.
La competenza esclusiva per materia del tribunale comporta anche l’inesistenza di una compe¬tenza cautelare ex art. 700 c.p.c. (Cass. civ. Sez. I, 8 settembre 1992, n. 10292) in tutti i casi in cui, come per esempio nei procedimenti di separazione e di divorzio, sia prevista una tipica procedura di carattere urgente (nella specie di attribuzione presidenziale).
Poiché, come detto, nelle cause sopra indicate (salvo che in quelle relative agli “alimenti”) è ob¬bligatorio l’intervento del pubblico ministero, le cause in questione – ivi comprese s’intende tutte quelle camerali – sono decise dal tribunale in composizione collegiale (art. 50-bis n. 1, c.p.c.).
Sul versante della competenza per materia del tribunale per i minorenni, dopo la legge 8 febbraio 2006, n. 54 sull’affidamento condiviso, la Cassazione attribuì al giudice minorile la competenza sui procedimenti relativi all’affidamento (e alle domande contestuali di mantenimento) dei figli nati fuori dal matrimonio (Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2007, n. 8362) sulla base dell’inequivoco testo dell’art. 38 disp. att. c.c. che allora prevedeva specificamente la competenza del tribunale per i minorenni nei procedimenti in questione (abrogato art. 317-bis c.c.) e nonostante la presa di po¬sizione contraria di parte della stessa magistratura minorile (Tribunale per minorenni Milano, 12 maggio 2006). La soluzione della Cassazione non era del tutto scontata – dal momento che l’art. 4 della legge 14 febbraio 2006, n. 54 sull’affidamento condiviso secondo molti avrebbe potuto portare ad una interpretazione diversa – ma fu poi ribadita da altre sentenze (Cass. civ. sez. VI, 5 ottobre 2011, n. 20352; Cass. civ. Sez. I, 3 dicembre 2012, n. 21655).
Con la riforma sulla filiazione del 2012 (legge 10 dicembre 2012, n. 219 e Decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 di attuazione) la situazione è radicalmente mutata. Al tribunale per i mino¬renni sono rimaste, in sostanza, oltre alle attribuzioni penali sui reati commessi dai minorenni, le competenze civili in ordine alla dichiarazione di adottabilità e all’adozione dei minori, nonché le at¬tribuzioni relative ai provvedimenti de potestate (art. 336 c.c.) con la precisazione importante – su cui si tornerà più oltre – che, ove tra le stesse parti sia in corso procedimento davanti al tribunale ordinario, quest’ultimo ha anche competenza sui provvedimenti de potestate. Sono state altresì attribuite al tribunale ordinario (con la riforma dell’art. 38 disp. att. c.c.) le competenze relative alle procedure di affidamento e mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio e alla dichiarazio¬ne giudiziale di paternità naturale promossa nell’interesse del figlio minore (entrambe in passato di competenza del tribunale per i minorenni).
In seguito alla riforma dell’art. 38 disp. att. c.c. oltre a quanto si è già detto, sono anche diventati di competenza del tribunale ordinario (oltre a tutti i provvedimenti per i quali non sia stabilita una autorità diversa) i provvedimenti – prima di competenza del tribunale per i minorenni – contem¬plati nei seguenti articoli del codice civile: art. 171 c.c. (intervento del giudice per l’amministrazio¬ne del fondo patrimoniale alla sua cessazione se vi sono figli minori), art. 194, comma secondo, c.c. (usufrutto disposto dal giudice in caso di divisione di beni della comunione legale se vi sono minori), art. 250 c.c. (riconoscimento tardivo di figlio nato fuori dal matrimonio), art. 252 c.c. (autorizzazione del giudice all’inserimento del figlio nella famiglia naturale di uno dei coniugi), art. 262 c.c. (cognome del figlio in caso di riconoscimento tardivo da parte del padre), art. 264 (au¬torizzazione all’impugnazione del riconoscimento e contestuale nomina di un curatore speciale), art. 316 (intervento del giudice in caso di contrasto sull’esercizio della responsabilità genitoriale di genitori non separati). A questi va aggiunto anche l’art. 279 c.c. (nomina di un curatore per ottenere il mantenimento o gli alimenti nei casi in cui non può proporsi l’azione per la dichiarazio¬ne giudiziale di paternità naturale) per espressa abrogazione (operata dall’art. 105 del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154) dell’art. 34 delle disposizioni di attuazione del codice civile che prevedeva in materia la competenza del tribunale per i minorenni.
Il riformato art. 38 disp. att. c.c. conserva al tribunale per i minorenni anche la competenza ad autorizzare il matrimonio di minori (art. 84 c.c.) mentre l’art. 96 del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 (che ha ulteriormente modificato l’art. 38 disp. att. c.c.) ha attribuito al tribunale per i minorenni anche la competenza sui procedimenti azionati dagli ascendenti per regolamentare i rapporti con i nipoti minorenni (nuovo art. 317-bis c.c.) e la competenza ad autorizzare il ricono¬scimento dei figli nati da relazione incestuosa (nuovo art. 251 c.c.). Nessuna riforma ha toccato l’art. 40 delle disposizioni di attuazione del codice civile che prevede la competenza del tribunale per i minorenni sulle domande di interdizione o inabilitazione del minore nell’ultimo anno della minore età.
Va infine ricordato che la regolamentazione dell’affidamento dei figli successivamente alla dichia¬razione di nullità del matrimonio è sempre stata considerata di competenza del tribunale ordinario (Cass. civ. Sez. I, 6 luglio 2000, n. 9011; Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2000, n. 1213; Cass. civ. Sez. I, 27 marzo 1998, n. 3222; Cass. civ. Sez. I, 17 maggio 1984, n. 3050).
III I conflitti di competenza per materia tra tribunale ordinario e tribunale per i minorenni relativamente ai provvedimenti de potestate
Conflitti di competenza per materia nel diritto di famiglia si sono sempre posti non tanto tra tribu¬nale ed altri giudici (pretore o – dopo la legge 51/1998 – giudice di pace) ma soprattutto nei rap¬porti tra tribunale ordinario e tribunale per i minorenni (le cui rispettive attribuzioni, sono indicate nell’art. 38, primo comma, delle disposizioni di attuazione del codice civile).
L’oggetto più ricorrente dei conflitti di competenza tra giudice ordinario e giudice minorile sono sta¬ti sempre soprattutto i provvedimenti de potestate – cioè i provvedimenti ablativi (art. 330 c.c.) o limitativi della responsabilità genitoriale (art. 333 c.c.) – diretti alla protezione dei soggetti minori di età rispetto agli abusi della genitorialità che l’art. 38 disp. att. c.c. attribuisce alla competenza per materia del tribunale per i minorenni. Il problema è sempre stato costituito dall’individuazione del tribunale competente allorché una esigenza di tutela del minore si presenta nel corso della causa di separazione o di divorzio o successivamente in sede di procedimento di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. E’ opportuno in questi casi lasciare al giudice della separa¬zione e del divorzio l’intervento di protezione o è necessario e inevitabile l’intervento del tribunale per i minorenni? Naturalmente un problema del genere non si porrebbe se non vi fosse una duplicazione dei giudici. Ed in effetti fortunatamente i progetti di riforma dell’ordinamento giudiziario nel settore del diritto di famiglia e dei minori prevedono l’accorpamento di tutte le funzioni in questo settore davanti a sezioni specializzate dei tribunali con la conseguente scomparsa degli attuali tribunali per i mino¬renni. Provvedimenti de potestate e provvedimenti sul conflitto familiare (separazione e divorzio) saranno di competenza del medesimo giudice.
a) La tesi prevalente negli anni Novanta sulle competenze de potestate sempre del tri-bunale per i minorenni
In passato, fino gli anni Novanta, si è sempre considerato competente il tribunale per i minorenni (individuato, quasi sacralmente, come unico organo legittimato agli interventi de potestate), an¬che per la modifica dei provvedimenti relativi all’affidamento dei figli in corso di separazione o dopo la separazione, allorché come petitum il ricorrente richiedesse un intervento ablativo o limitativo della responsabilità genitoriale a norma degli articoli 330 e 333 c.c.
In queste ipotesi, pur in pendenza di un procedimento di separazione, quindi, la competenza ad emettere provvedimenti de potestate è stata sempre attribuita al tribunale per i minorenni (Cass. civ. sez. I, 16 febbraio 1982, n. 9619; Cass. civ. Sez. I, 18 ottobre 1985, n. 5137; Cass. civ. Sez. I, 4 giugno 1994, n. 5431; Cass. civ. Sez. I, 11 aprile 1997, n. 3159; App. Napoli, 12 febbraio 1998; App. Bologna 18 gennaio 1992). La delimitazione delle competenze, per quanto in taluni casi potesse creare qualche discussione, era sostanzialmente molto chiara.
b) La prassi emersa negli anni Duemila sulla competenza del giudice della separazione in materia di provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale
Nel corso dell’ultimo decennio si è andata affermando, invece, gradualmente una prassi giudizia¬ria tendente a circoscrivere, in pendenza di un procedimento di separazione tra le stesse parti, la competenza del tribunale per i minorenni ai soli provvedimenti di decadenza della responsabilità genitoriale (art. 330 c.c.).
La prassi si è diffusa in virtù della constatazione che i provvedimenti limitativi cui fa riferimento l’art. 333 del codice civile, tesi a contrastare comportamenti dei genitori pregiudizievoli ai minori, costituiscono nella sostanza spesso l’oggetto anche di provvedimenti del tutto consueti del giudice della separazione (si pensi alla sospensione degli incontri tra il figlio minore e i genitori, all’affida¬mento ai servizi sociali, all’affidamento a terzi, agli incontri protetti).
L’affermarsi di questa prassi è stata facilitata da una rapida evoluzione della giurisprudenza che agli inizi degli anni Duemila cominciò ad esprimere, sul tema della delimitazione di competenze tra tribunale ordinario e tribunale per i minorenni, posizioni meno rigide rispetto al passato.
Importanti in questo contesto sono state per esempio alcune decisioni con le quali la Corte di cas¬sazione ha dato il via libera alla revisione dell’impostazione tradizionale che faceva leva, come si è sopra detto, sul discrimine molto netto fra la competenza del tribunale ordinario e la competenza del tribunale per i minorenni. L’impostazione tradizionale venne considerata “angusta e forma¬listica” una prima volta da Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2008, n. 24907 e successivamente da Cass. civ. Sez. VI, 5 ottobre 2011, n. 20352 dove si prendeva atto che nella legislazione “non esiste alcun limite all’intervento del giudice ordinario” e che “tanto il giudice specializzato (nel caso di coppie non coniugate o, se coniugate, quando non pende separazione) che il giudice della separazione o del divorzio in presenza di una situazione di pregiudizio per i minori, possono assumere provvedimenti volti alla tutela dei figli”. Successivamente la posizione era ulteriormente ribadita anche da Cass. civ. Sez. I, 8 marzo 2013, n. 5847 che ha ritenuto i provvedimenti del giudice minorile e del giudice ordinario del tutto autonomi, stante la reciproca autonomia delle attribuzioni del tribunale per i minorenni, competente ad assumere i provvedimenti incidenti sulla spettanza della potestà genitoriale e del tribunale ordinario quale giudice della separazione, com¬petente altresì sulle modalità di esercizio della potestà medesima, anche quando l’affidamento dei figli sia richiesto in ragione dell’esistenza di un grave pregiudizio per i figli minori. Nella giuri-sprudenza di merito, su questa linea, molto chiaro in proposito è stato Trib. Minorenni Brescia, 9 febbraio 2010.
La giurisprudenza prevalente – soprattutto negli anni più recenti – ha preso quindi atto che in pen¬denza di separazione o divorzio la competenza del tribunale per i minorenni debba ammettersi in sostanza solo ove venga richiesto e considerato plausibile un provvedimento di decadenza ex art. 330 c.c. mentre i provvedimenti di protezione atipici di limitazione cui fa riferimento l’art. 333 c.c. restano, in pendenza di separazione/divorzio, di competenza dello stesso giudice della separazio¬ne/divorzio (Cass. civ. Sez. I, 27 febbraio 2013, n. 4945 in una vicenda in cui è stato applicato l’art. 38 disp. att. c.c. nel testo precedente alla riforma del 2012 sulla filiazione; Cass. civ. Sez. I, 24 marzo 2011, n. 6841; Cass. civ. Sez. VI, 5 ottobre 2011, n. 20352). Come si dirà tra bre¬ve questa tendenza è stata successivamente recepita nella riforma sulla filiazione del 2012 e 2013.
c) La riforma del 2012 e del 2013 e i nuovi criteri di distribuzione delle competenze de potestate
L’ultima tappa coincide con la riforma del 2012 e del 2013 sulla parificazione dello stato giuridi¬co dei figli (bene riassunta nel nuovo articolo art. 315 c.c. in base al quale “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”), la quale ha previsto espressamente nel nuovo art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile che se è in corso tra le stesse parti una causa per la regolamentazione dell’affidamento dei figli davanti al tribunale ordinario (separazione, divorzio o altro procedimento relativo all’affidamento di un figlio) il giudice di tale causa acquisisce anche il potere di adottare i provvedimenti de potestate che altrimenti sarebbero di competenza del tribunale per i minorenni.
Il testo del nuovo art. 38 non è purtroppo di scorrevole interpretazione ed è ancora dibattuto in dottrina se la competenza del tribunale ordinario in questi casi resti confinata ai soli provvedimenti limitativi della potestà/responsabilità (che negli ultimi anni, come detto, la giurisprudenza ha già di fatto attribuito al giudice della separazione) oppure se si estenda anche all’adozione di provve¬dimenti di decadenza. L’interpretazione letterale della norma (collegata soprattutto al principio di necessaria concentrazione del contenzioso e di effettività della tutela) depone per ritenere che la competenza del giudice della separazione debba estendersi anche alla decadenza.
È stata la giurisprudenza della Corte di cassazione – nell’interpretazione del nuovo testo dell’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile – ad imporre negli anni recenti una inversione di tendenza che ormai appare coerentemente seguita nelle molte pronunce ormai disponibili.
Per meglio inquadrare questa interpretazione è necessario ricordare il nuovo testo dell’art. 38 del¬le disposizioni di attuazione del codice civile come modificato dalla riforma sulla filiazione (legge 10 dicembre 2012, n. 219 e Decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 di attuazione) il quale prevede che “Sono di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma del codice civile. Per i procedimenti di cui all’art. 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell’ipotesi in cui sia in corso tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’art. 316 del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario”.
La norma, quindi, dopo aver ribadito il principio generale della competenza del tribunale per i mi¬norenni in materia de potestate, ha introdotto una inedita ipotesi di “connessione per attrazione”, attribuendo la competenza sui provvedimenti de potestate al giudice ordinario in pendenza di un procedimento di separazione, di divorzio o di regolamentazione dell’affidamento del figlio nato fuori dal matrimonio.
Nonostante la infelice formulazione della norma si può convenire sul fatto che con l’espressione “procedimento in corso” il legislatore ha fatto riferimento alla nozione tradizionale di “pendenza” (Cass. civ. Sez. VI, 26 gennaio 2015, n. 1349 ha così interpretato la norma: “…in pendenza di separazione le domande dirette ad ottenere provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale spettano al giudice del conflitto familiare, individuabile nel tribunale ordinario, se sia ancora in corso il giudizio di primo grado, ovvero nella corte d’appello in composizione ordinaria, se penda il termine per l’impugnazione o sia stato interposto appello).
Inoltre si può anche convenire sul fatto che l’espressione procedimento in corso “tra le stesse parti” porta ad escludere il meccanismo della attrazione allorché il procedimento de potestate sia stato azionato davanti al tribunale per i minorenni dai parenti del minore (che non sono parti del giudizio di separazione).
Viceversa – come si vedrà – si ritiene in giurisprudenza che la competenza appartiene al giudice ordinario del conflitto familiare anche nel caso in cui l’iniziativa sia stata presa in sede minorile dal pubblico ministero, in quanto pur sempre l’ufficio del pubblico ministero (ordinario) ha la possibilità di intervenire e di interloquire anche nel procedimento di separazione e divorzio, pur non essen¬done tecnicamente parte (da ultimo Cass. Civ. Sez. VI, 14 gennaio 2016, n. 432¸contra Trib. Minorenni Brescia, 1 agosto 2013).
Infine si può dare per acquisito anche che per “procedimento” si intende non soltanto un procedi¬mento di separazione (o divorzio o affidamento di figlio nato fuori dal matrimonio) ma anche un procedimento di modifica delle condizioni di affidamento o un procedimento ex art. 709-ter del codice di procedura civile.
Tanto premesso – ed entrando nell’esame della giurisprudenza di legittimità – possano verificarsi le seguenti situazioni:
1. La competenza sui provvedimenti de potestate appartiene al tribunale per i minorenni (chiun¬que ne sia il ricorrente: PM, genitori, parenti) ma se già è stata instaurata una causa sul conflitto familiare (separazione, divorzio, affidamento, modifica, 709 ter c.p.c.) la competenza ad adottare provvedimenti de potestate è del giudice ordinario che si sta occupando del conflitto familiare. Nel caso in cui il processo di separazione venga instaurato successivamente la competenza del tribu¬nale per i minorenni rimane piena.
Quindi se è in corso davanti al tribunale per i minorenni un procedimento de potestate ed uno dei genitori (parti di quel procedimento) dovesse depositare in tribunale ordinario un ricorso di separazione (o di divorzio o di affidamento del figlio nato fuori dal matrimonio) la competenza de potestate resta del giudice minorile.
Questa soluzione è stata avvalorata da Cass. civ. Sez. VI, 26 gennaio 2015, n. 1349 secondo cui l’art. 38, primo comma, disp. att. cod. civ. (come modificato dall’art. 3, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219, applicabile ai giudizi instaurati a decorrere dall’1 gennaio 2013), si interpreta nel senso che, per i procedimenti di cui agli artt. 330 e 333 cod. civ., la competenza è attribuita in via generale al tribunale dei minorenni, ma, quando sia pendente un giudizio di separazione, di divorzio o ex art. 316 cod. civ., e fino alla sua definitiva conclusione, in deroga a questa attribuzione, le azioni dirette ad ottenere provvedimenti limitativi o ablativi della responsa¬bilità genitoriale, proposte successivamente e richieste con unico atto introduttivo dalle parti (così determinandosi un’ipotesi di connessione oggettiva e soggettiva), spettano al giudice del conflitto familiare, individuabile nel tribunale ordinario, se sia ancora in corso il giudizio di primo grado, ovvero nella corte d’appello in composizione ordinaria, se penda il termine per l’impugnazione o sia stato interposto appello.
Non è chiaro in questo passaggio della decisione il riferimento al fatto che i provvedimenti debbano essere stati richiesti “con unico atto introduttivo” dal momento che del tutto ragionevolmente la competenza del giudice della separazione sussiste anche se i provvedimenti de potestate vengono richiesti in corso di causa e quindi successivamente agli atti introduttivi.
Gli stessi principi sono stati seguiti anche da Cass. civ. Sez. VI, 14 ottobre 2014, n. 21633; Cass. civ. Sez. VI, 12 febbraio 2015, n. 2833 e Cass. civ. Sez. VI, 14 gennaio 2016, n. 432 secondo cui ai sensi dell’art. 38 disp. att. cod. civ. come novellato dall’art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219, il tribunale per i minorenni resta sempre competente, una volta iniziato il procedimento in quella sede, a conoscere della domanda diretta ad ottenere la declaratoria di decadenza o la limitazione della responsabilità genitoriale – a nulla rilevando la successiva in¬troduzione in sede ordinaria di un giudizio sul conflitto familiare – trattandosi di interpretazione aderente al dato letterale della norma, rispettosa del principio della “perpetuatio jurisdictionis” di cui all’art. 5 cod. proc. civ., nonché coerente con ragioni di economia processuale e di tutela dell’interesse superiore del minore, che trovano fondamento nell’art. 111 Cost., nell’art. 8 CEDU e nell’art. 24 della Carta di Nizza.
2. Il giudice del conflitto familiare (separazione, divorzio, affidamento) e cioè il tribunale o la Corte d’appello, ha sempre il potere – anche d’ufficio (Cass. civ. Sez. VI, 26 gennaio 2015, n. 1349; Cass. civ. Sez. VI, 14 gennaio 2016, n. 432) – di adottare provvedimenti de potestate e pertanto chi agisce o è convenuto in un procedimento sul conflitto familiare può sempre chiedere un provvedimento de potestate con la domanda introduttiva o nel corso del procedimento (anche formulando la domanda in corso di causa e naturalmente anche oltre gli sbarramenti determi¬nati dalle preclusioni processuali, se i presupposti dovessero maturare in corso di causa). Se il procedimento pende davanti alla Corte di cassazione la domanda de potestate dovrebbe essere presentata il tribunale.
3. Se è in corso davanti al tribunale ordinario procedimento di separazione (o di divorzio o di affi¬damento del figlio nato fuori dal matrimonio) e una delle parti ovvero il pubblico ministero dovesse richiedere non al giudice della causa in corso ma al tribunale per i minorenni un provvedimento de potestate il giudice minorile – evidentemente su istanza di parte e, ove informato, anche d’ufficio ed anche oltre i termini indicati nell’art. 38, comma 3, c.p.c. se già superati – dovrebbe dichiarare con ordinanza ai sensi dell’art. 38 c.p.c. la propria incompetenza per materia (determinata dall’at¬trazione della competenza al giudice ordinario) indicando alle parti un termine per la riassunzione davanti al giudice della separazione per l’eventuale adozione del provvedimento de potestate. Nella prassi i tribunali per i minorenni (poco propensi alle formalità processuali del rito ordinario) preferiscono più informalmente dichiarare la domanda inammissibile e trasmettere il fascicolo al tribunale ordinario (prassi ritenuta legittima da Cass. civ. Sez. VI – 1, 12 aprile 2016, n. 7160).
4. Se è in corso davanti al tribunale ordinario un procedimento di separazione o divorzio, l’inizia¬tiva de potestate dei parenti davanti al tribunale per i minorenni dà luogo ad un procedimento autonomo che legittimamente continua davanti al tribunale per i minorenni.
Ugualmente se è in corso davanti al tribunale per i minorenni un procedimento de potestate a se¬guito di iniziativa di un parente, la causa di separazione eventualmente successivamente introdot¬ta non incide sul procedimento davanti al giudice minorile che continua autonomamente secondo quanto affermato da Cass. civ. Sez. VI, 12 febbraio 2015, n. 2833 sopra riportata.
5. Se in pendenza di un procedimento di separazione o divorzio viene azionato dal pubblico mini¬stero minorile un procedimento de potestate il tribunale per i minorenni – come si è già detto – non può procedere e deve declinare la propria competenza (salvo, naturalmente, che l’iniziativa del pubblico ministero concerna provvedimenti previsti in materia di adozione come testualmente pre¬cisato da Cass. civ. Sez. VI, 14 gennaio 2016, n. 432). Trova applicazione in proposito quanto affermato da Cass. civ. Sez. VI, 26 gennaio 2015, n. 1349 e precisato anche da Cass. civ. Sez. VI, 14 gennaio 2016, n. 432 dove si afferma testualmente che “sia nell’uno che nell’altro giudizio le parti in senso formale e sostanziale (i genitori) sono le stesse, dal momento che nella loro sfera personale e giuridica ricadranno gli effetti dei provvedimenti adottati e quindi il pubblico ministero presso il tribunale per i minorenni, organo d’impulso, può trovare, ove interessato un sistema di raccordo con l’omologo ufficio del tribunale ordinario, ma non può essere vanificata l’applicabilità della vis attractiva dall’iniziativa processuale del pubblico ministero in ordine all’a¬zione ex artt. 330 e/o 333 c.c.. Se, infatti, si accedesse a tale interpretazione restrittiva, sarebbe sufficiente alla parte che voglia aggirare la prescrizione normativa di sollecitare con un esposto od un’istanza l’iniziativa dell’organo pubblico per non rivolgersi al giudice che già conosce e presso il quale è in corso un giudizio sull’affidamento dei minori, a cognizione estesa ove necessario anche ex officio ai provvedimenti sulla responsabilità genitoriale.
d) La riaffermazione dei principi in Cass. civ. Sez. VI, 14 gennaio 2016, n. 432
I principi sopra indicati sono stati riaffermati e riepilogati testualmente da Cass. civ. Sez. VI, 14 gennaio 2016, n. 432 nella quale si afferma che il nuovo art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile si inscrive in un’ampia riflessione affrontata dalla dottrina e dalla giurisprudenza in ordine alla relazione e alla sovrapponibilità tra i provvedimenti relativi all’affidamento dei figli minori, quando incidano sulla titolarità e l’esercizio della responsabilità genitoriale, come nelle ipotesi di affidamento ai servizi sociali o di affidamento monogenitoriale, con rilevante o totale compressione del diritto di visita, e quelli previsti degli artt. 330 e 333 c.c..
Le norme in materia di separazione e divorzio – ricorda la sentenza – consentono al giudice della separazione di adottare provvedimenti incidenti sulla responsabilità genitoriale, andando anche ultra petitum, avendo riguardo esclusivamente all’interesse morale e materiale della prole. Per esempio può essere disposto in sede di divorzio l’affidamento a terzi così come l’art. 709 ter c.p.c., precisa che il giudice della separazione può emettere i provvedimenti opportuni quando emergano gravi inadempienze od atti che arrechino pregiudizio al minore. Secondo questa linea interpreta¬tiva, la domanda di affidamento esclusivo per comportamento pregiudizievole dell’altro genitore e la richiesta di un provvedimento limitativo della responsabilità genitoriale svolta in pendenza di un conflitto familiare sono sostanzialmente indistinguibili. Nella interconnessione tra tali domande risiede la necessità che sia un unico giudice, il tribunale ordinario, a decidere per entrambi i profili. A sostegno della conclusione prescelta la giurisprudenza ha adottato il principio di concentrazione delle tutele, evidenziando che le soluzioni processuali devono essere ispirate a principi di coerenza logica e ancorate alla valutazione concreta del loro impatto operativo.
Delineato il quadro sistematico all’interno del quale è stata affrontata l’interpretazione della norma novellata, non risulta disagevole – continua la sentenza – indicare i seguenti principi:
a) la richiesta di provvedimenti ablativi della responsabilità genitoriale determina in via officiosa l’estensione dell’accertamento anche a provvedimenti limitativi o conformativi di essa nel conte¬nuto o nel tempo (Cass. 1349 del 2015);
b) Il giudice del conflitto familiare può assumere provvedimenti anche fortemente incidenti sulla responsabilità genitoriale, comprensivi dell’affidamento a terzi, (principio già contenuto in Cass. 20352 del 2011 e ribadito da Cass. 11412 del 2014 e 2833 del 2015) ovvero dell’ablazione della responsabilità genitoriale;
c) L’art. 38 disp. att. c.c., pur rivelando un netto favor legislativo per la concentrazione delle tutele, presso un unico giudice, quando vi sia in corso un procedimento relativo al conflitto coniugale o familiare, non afferma l’applicabilità di questo principio in forma assoluta, stabilendo, come affer¬mato da Cass. 2833 del 2015, che la vis attractiva verso il giudice ordinario operi soltanto quando il giudizio relativo al predetto conflitto sia stato instaurato anteriormente all’azione rivolta in via principale all’ablazione e/o limitazione della responsabilità genitoriale, dovendo, nell’ipotesi con¬traria, essere prescelta una interpretazione testuale della disposizione e mantenere la competenza del tribunale per i minorenni, presso il quale è già stato incardinato il procedimento relativo alla responsabilità genitoriale, tenuto conto dell’esigenza di non disperdere l’efficacia degli accerta¬menti già svolti e la conoscenza già acquisita dal giudice specializzato della concreta situazione fattuale sottesa all’azione.
d) Il perimetro applicativo del nuovo criterio di ripartizione di competenza si completa con la pronuncia n. 21633 del 2014 che ha stabilito l’inoperatività della vis attractiva per i procedimenti riguardanti la responsabilità genitoriale instaurati prima della sua entrata in vigore (1/1/2013).
e) Per quanto attiene all’ostacolo relativo alla non perfetta identità delle parti nei due procedi¬menti deve osservarsi che questa Corte, nella pronuncia n. 1349 del 2015 ha dato adeguata e condivisibile risposta all’interrogativo evidenziando che sia nell’uno che nell’altro giudizio le parti in senso formale e sostanziale (i genitori) sono le stesse, dal momento che nella loro sfera per¬sonale e giuridica ricadranno gli effetti dei provvedimenti adottati. Il pubblico ministero presso il tribunale per i minorenni, organo d’impulso, può trovare, ove interessato un sistema di raccordo con l’omologo ufficio del tribunale ordinario, nei limiti in cui quest’ultimo debba partecipare al procedimento, ma non può essere vanificata l’applicabilità della vis attractiva, dall’iniziativa pro¬cessuale del p.m. in ordine all’azione ex artt. 330 e/o 333 c.c.. Residua, peraltro, la competenza del tribunale per i minorenni in ordine “alle situazioni di criticità segnalate (L. n. 184 del 1983, art. 9) o rilevate dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni che possono de-terminare l’apertura di un procedimento volto alla dichiarazione di adottabilità o a misure minori quali l’affido etero familiare (L. n. 184 del 1983, artt. 2 e 5). L’accertamento di questa tipologia di situazioni può determinare l’avvio di procedimenti limitativi od ablativi della responsabilità geni¬toriale, non dettati da un conflitto genitoriale e saldamente ancorati alla competenza del giudice specializzato”. (Cass. 1349 del 2015).
e) La distinzione tra procedimenti de potestate e provvedimenti de potestate
In tutti i casi in cui la competenza sui “provvedimenti” de potestate spetta al tribunale ordinario troveranno applicazione le norme e il rito del processo in corso davanti al giudice ordinario, non applicandosi le norme procedimentali del rito camerale stabilite per i “procedimenti” de potestate.
In altre parole l’attrazione al tribunale ordinario della competenza riguarda il “provvedimento” e non il “procedimento”. In talune ipotesi (in particolare ove si tratti di procedimento davanti al giu¬dice ordinario di regolamentazione dell’affidamento di un figlio nato fuori dal matrimonio) i due riti coincideranno (in base all’applicazione del rito camerale prescritto per tali procedure dal rinnovato art. 38 disp. att. c.c.).
La tutela del minore sarà garantita però non dalla nomina di un difensore (come prevede l’art. 336 c.c. nei procedimenti de potestate in cui il minore assume la qualità di parte processuale) ma soprattutto dalla sua audizione che garantisce quella posizione di protagonismo nel processo che la giurisprudenza sintetizza da tempo con l’attribuzione al minore della qualifica di “parte sostan¬ziale” (da ultimo Cass. civ., Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7478).
IV La competenza per territorio
Particolarmente articolate sono le questioni legate alla competenza per territorio nelle cause di diritto di famiglia.
La premessa indispensabile è che nell’ambito del diritto di famiglia la competenza territoriale è inderogabile. Lo prevede l’art. 28 del codice di procedura civile. La conseguenza principale è che l’incompetenza territoriale può essere rilevata anche d’ufficio dal giudice.
a) L’inderogabilità riguarda innanzitutto, secondo il testo dell’art. 28 c.p.c., “le cause previste nei numeri 1, 2, 3 e 5 dell’art. 70” – cioè, in sostanza, tutte le ipotesi in cui il pubblico ministero ha potere di azione e dovere di intervento. La finalità è quella di consentire al pubblico ministero naturale precostituito per legge l’adempimento dei suoi doveri d’ufficio. Tra le ipotesi richiamate dall’art. 70 c.p.c. vi sono sia i procedimenti in cui il pubblico ministero ha potere di azione, sia quel¬li in cui ha soltanto un dovere di intervento (art. 70 n. 1 che richiama l’art. 69: tra cui – quanto al potere di azione – i procedimenti de potestate e quelli per la dichiarazione di adottabilità e – quanto al dovere di intervento – quasi tutte le altre cause, soprattutto con figli minori). Vi rientrano tutte le “cause matrimoniali comprese quelle di separazione personale” oltre ai procedimenti tra genitori non coniugati che comportano provvedimenti relativi ai figli (Corte cost. 25 giugno 1996, n. 214), nonché le “cause riguardanti lo stato [status filiationis, divorzio, nullità] e la capacità delle persone” (interdizione, inabilitazione, amministrazione di sostegno).
b) L’altra area nel diritto di famiglia contrassegnata dalla competenza territoriale inderogabile – sempre richiamata dall’art. 28 c.p.c. – concerne tutti i “procedimenti in camera di consiglio”.
c) Infine l’art. 28 c.p.c. richiama nell’area dell’inderogabilità della competenza territoriale “ogni altro caso in cui l’inderogabilità sia disposta espressamente dalle legge” come per esempio, in materia di scomparsa, assenza e dichiarazione di morte presunta (art. 48 ss c.c. in cui la compe¬tenza appartiene al tribunale dell’ultima residenza o domicilio dello scomparso), di opposizione al matrimonio (art. 102 ss c.c. in cui la competenza è del tribunale del luogo ove il matrimonio deve essere celebrato).
Si sottrae all’inderogabilità la competenza all’emissione di decreto ingiuntivo per spese di man¬tenimento straordinario per i figli che si determina secondo i criteri di competenza per valore e territoriale consueti (art. 637 c.p.c.) e non sembra neanche escluso, quindi, che in questo settore i genitori possano previamente individuare in un loro accordo scritto (ex art. 29 c.p.c.) un criterio derogatorio della competenza territoriale. L’individuazione del giudice competente per le cause di opposizione al medesimo decreto ingiuntivo è esclusivamente del giudice che ha emesso il prov¬vedimento (art.645 c.p.c.).
La competenza territoriale è determinata in tutte le ipotesi sopra richiamate espressamente dalla legge.
1) Separazione
Per la separazione giudiziale (ex art. 706 c.p.c. come modificato dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35 convertito nella legge 14 maggio 2005, n. 80) la competenza territoriale è quella del tribunale dell’ultima residenza comune dei coniugi (Cass. civ. Sez. VI, 19 luglio 2013, n. 17744; Cass. civ. Sez. VI, 4 agosto 2011, n. 16957 ha escluso che si possa estendere alla separazione la pronuncia della Corte cost. 23 maggio 2008, n. 169 che, dichiarando incostituzionale la previ¬sione analoga che era stata prevista per il divorzio sempre dalla riforma del 2005, ha fatto rivivere per l’introduzione del giudizio di divorzio il criterio della residenza del coniuge convenuto). Alcune pronunce di merito si sono occupate di dare qualche specificazione ulteriore relativamente all’in¬dividuazione dell’ultima residenza comune (Trib. Bologna, sez. I, 18 luglio 2011 in un caso di separazione di poco successiva alle nozze ha dichiarato competente il giudice del luogo in cui era collocata l’abitazione destinata alla madre e al bambino; Trib. Napoli 29 ottobre 2009 ha precisato che il foro territoriale è quello dell’ultima residenza comune a condizione che ancora uno dei coniugi vi abiti; Trib. Napoli 4 giugno 2008 e Trib. Trento 18 aprile 2008 hanno fatto riferimento all’ultima residenza comune effettiva e non a quella anagrafica).
In mancanza di un’ultima residenza comune (in casi che dovrebbero essere rari) la competenza è quella del tribunale del luogo in cui il coniuge convenuto ha la residenza o il domicilio. A tale proposito la giurisprudenza ha sempre precisato che, salvo prova contraria, trattasi del luogo in cui è collocata la casa coniugale (Cass. civ. Sez. I, 12 ottobre 2006, n. 21916; Cass. civ. Sez. I, 28 giugno 2006, n. 15017; Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 2004, n. 19595; Cass. civ. Sez. I, 24 aprile 2001, n. 6012; Cass. civ. Sez. I, 18 aprile 2001, n. 5729, Cass. civ. Sez. I, 5 maggio 1999, n. 4492; Cass. civ. Sez. I, 26 giugno 1992, n. 8019). Ai fini dell’in-dividuazione della residenza si può fare riferimento alle risultanze anagrafiche (Cass. civ. Sez. I, 18 gennaio 1990, n. 224; Cass. civ. Sez. I, 23 ottobre 1989, n. 4317) sia pure considerate presunzione semplice e quindi contrastabile con la prova contraria (Cass. civ. Sez. I, 12 ottobre 2006, n. 21916; Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 1995, n. 8049). In caso di residenza all’estero del coniuge convenuto o di sua irreperibilità (considerata come impossibilità di conoscere la residenza o il domicilio) la domanda va proposta al tribunale del luogo di residenza o domicilio del coniuge ricorrente oppure, se anche il coniuge ricorrente risiede all’estero a qualunque tribunale italiano.
Per la separazione consensuale nessuna norma individua espressamente la competenza territo¬riale. L’art. 711 c.p.c. si limita a regolamentare il procedimento. L’opinione pertanto più ragio¬nevole è che si debba fare riferimento alla stessa regola prevista per la separazione giudiziale e cioè considerare competente il tribunale del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi. Ed in effetti non sembra che vi siano controindicazioni rispetto a questa conclusione, neanche quella – francamente superabile – del disagio che questa soluzione potrebbe provocare per il coniuge che si fosse già allontanato dalla casa familiare trasferendosi in atro luogo. Ove – per ipotesi – non vi fosse mai stata una ultima residenza comune si potrebbe fare riferimento (ma anche in questo caso nessuna norma lo chiarisce) alla residenza o al domicilio dell’uno o dell’altro coniuge. La consensualità della separazione dovrebbe in ogni caso consentire ai coniugi di trovare la soluzione meno faticosa. Secondo un orientamento (ragionevole) la domanda di separazione consensuale potrebbe essere proposta indifferentemente al tribunale del luogo di residenza o domicilio dell’u¬no o dell’altro coniuge (come previsto per il divorzio a domanda congiunta nell’art. 4 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, applicabile alla separazione ex art. 23 legge 6 marzo 1987, n. 74 che estende alla separazione le norme processuali sul divorzio). In dottrina si discute, però, se l’art. 23 della legge 74/1987 – la cui applicazione è espressamente stabilita “fino all’entrata in vigore del nuovo testo del codice di procedura civile” – possa essere considerato ancora in vigore dopo le riforme processuali sulla separazione e sul divorzio degli ultimi anni (che hanno ristrutturato autonomamente i due procedimenti); nella giurisprudenza di legittimità la norma è stata ritenuta ancora operante sul presupposto che le pur numerose modifiche legislative non hanno realizzato una organica riforma processuale (Cass. civ. Sez. I, 27 aprile 2011, n. 9373; Cass. civ. Sez. I, 28 giugno 2006, n. 15017).
Naturalmente in caso di matrimoni misti (o meglio di cause transfrontaliere) sia per la separa¬zione giudiziale che per quella consensuale, va considerata sempre salva l’applicazione dei criteri di competenza generale previsti dalla normativa europea sulle cause matrimoniali (art. 3 del Re¬golamento 2201/2003) o determinati secondo la legge 31 maggio 1995, n. 218 (articoli 3 e 32).
2) Divorzio
Per il divorzio è competente il tribunale del luogo in cui il coniuge convenuto ha residenza o domi¬cilio (art. 4, comma 1, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 come modificata dalla legge 6 marzo 1987, n. 74 e dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35 convertito nella legge 14 maggio 2005, n. 80) dopo l’intervento della Corte cost. 23 maggio 2008, n. 169 che, limitatamente al giudizio di divor¬zio, ha dichiarato incostituzionali le modifiche del 2005 che avevano previsto per la separazione e il divorzio la competenza territoriale del giudice dell’ultima residenza comune dei coniugi). In caso di residenza all’estero del coniuge convenuto o di sua irreperibilità la domanda va proposta al tribunale del luogo di residenza o domicilio del, coniuge ricorrente oppure, se anche il coniuge ricorrente risiede all’estero a qualunque tribunale italiano e sempre che esista, naturalmente, la giurisdizione del giudice italiano.
Il principio che la competenza è del tribunale del luogo di residenza del convenuto è stato ribadito da Cass. civ. Sez. VI – 1, 25 novembre 2015, n. 24099.
In caso di domanda congiunta di divorzio il ricorso può essere presentato al tribunale del luogo di residenza o domicilio dell’uno o dell’altro coniuge (art. 4, comma 1, ultima parte, legge divorzio).
3) Nullità del matrimonio
La competenza territoriale per l’azione di nullità civile è determinata dal foro generale delle per¬sone fisiche (art. 18 c.p.c.). Non trova applicazione il criterio dell’ultima residenza comune dei coniugi.
La competenza, invece, della Corte d’appello a pronunciare sulla domanda di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario si de¬termina con riferimento alla circoscrizione del tribunale cui appartiene il comune presso il quale fu trascritto l’atto di matrimonio (art. 17 legge 27 maggio 1929 n. 847), che si identifica, ai sensi dell’art. 8 n. 1 della legge 25 marzo 1985 n. 121 nel comune in cui il matrimonio stesso è stato celebrato (Cass. civ. Sez. I, 19 maggio 1995, n. 5562; Cass. civ. Sez. I, 9 marzo 1995, n. 2734; Cass. civ. Sez. I, 27 giugno 1990, n. 6551; App. Napoli Sez. II, 23 maggio 2006; App. Genova Sez. III, 14 marzo 2006; App. Napoli Sez. I, 7 febbraio 2006; App. Napoli Sez. I, 11 novembre 2005; App. Roma, 26 gennaio 2005).
4) Procedimenti di modifica delle condizioni economiche (per i coniugi e per i figli) sta-bilite nella separazione e nel divorzio
Per i ricorsi di modifica delle condizioni economiche stabilite nella separazione (art. 710 c.p.c.) già dalla prima decisione delle sezioni unite sull’argomento (Cass. civ. Sez. Unite, 16 gennaio 1991, n. 381 che risolse il contrasto fino ad allora esistente in giurisprudenza dichiarando che la domanda di modifica dell’assegno di mantenimento, proposta da uno dei coniugi separati è sogget¬ta ai normali criteri di competenza per territorio di cui agli art. 18 e 20 c. p.c.) non si considerano applicabili le regole della competenza dell’ultima residenza comune previste per la separazione ma trovano applicazione le regole generali.
L’orientamento si è poi consolidato nel tempo. È quindi competente secondo la giurisprudenza oltre al tribunale del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio (foro generale delle persone fisiche ex art. 18 c.p.c.), anche in via alternativa e facoltativa innanzitutto il tribunale del luogo in cui è sorta l’obbligazione e cioè il tribunale dove è stata omologata o decisa la separazione. Invece è stato escluso decisamente che sia competente il tribunale del luogo in cui è stato celebrato il matrimonio in quanto le obbligazioni connesse alla separazione non nascono con il matrimonio ma con la sentenza o con l’omologa della separazione (Cass. civ. Sez. I, 22 marzo 2001, n. 4099). In secondo luogo e in via facoltativa è anche competente il tribunale del luogo in cui deve essere eseguita l’obbligazione dedotta in giudizio (art. 20 c.p.c.) (Cass. civ. Sez. VI, 2 aprile 2013, n. 8016; Cass. civ. Sez. I, 5 settembre 2008, n. 22394; Cass. civ. Sez. I, 22 marzo 2001, n. 4099 e per la giurisprudenza di merito Trib. Genova Sez. IV, 7 marzo 2013 (nello specifico per il mantenimento di figli minori), Trib. Trieste 26 gennaio 2010, Trib. Santa Maria Capua Vetere, 25 giugno 1996; Trib. Mantova, 17 luglio 1995) e quindi il tribunale del luogo in cui, in sostanza, risiede la parte creditrice del mantenimento (art. 1182, comma 3, c.c. che indica il domicilio del creditore quale luogo dell’adempimento di obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro).
Queste conclusioni valgono sia per le obbligazioni economiche connesse al mantenimento coniu¬gale che per quelle connesse al mantenimento dei figli.
Non vi sono ragioni per non applicare sostanzialmente gli stessi principi alle modifiche delle con¬dizioni economiche stabilite in sede divorzile con la precisazione che i criteri di competenza terri¬toriale indicati nell’art. 4 della legge sul divorzio per la domanda introduttiva (così come risultanti a seguito della sentenza Corte cost. 23 maggio 2008, n. 169 che ha escluso il foro dell’ultima residenza comune) coincidono con i criteri del foro generale delle persone fisiche e sono validi per¬tanto anche per i procedimenti di revisione delle condizioni economiche (art. 9, comma 1, legge divorzio), a differenza di quanto si è sopra detto per la separazione (in cui i criteri previsti per la domanda introduttiva dall’art. 706 c.p.c. non valgono per le domande di modifica).
Proprio per i procedimenti di revisione delle condizioni economiche stabilite in sede di divorzio (relative all’assegno divorzile e a quello per i figli) il legislatore ha sentito il bisogno di ribadire (introducendo con la riforma di cui alla legge 74/1987 un apposito art. 12-quater nella legge sul divorzio) la validità del criterio generale del foro delle persone fisiche. L’art. 12-quater prevede, infatti, espressamente che “per le cause relative ai diritti di obbligazione di cui alla presente legge [quindi anche per le domande di revisione] è competente anche il giudice del luogo in cui deve essere eseguita l’obbligazione dedotta in giudizio”.
Benché qualche pronuncia di legittimità abbia dato adito a dubbi in proposito (Cass. civ. Sez. I, 22 marzo 2001, n. 4099; Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2004, n. 336) la soluzione adottata dalla giurisprudenza successiva ammette insieme al foro generale delle persone fisiche, la possibi¬lità di ricorso ad entrambi i fori alternativi previsti dall’art. 20 c.p.c. (Cass. civ. Sez. VI, 2 aprile 2013, n. 8016 dove si afferma che la competenza territoriale a conoscere dei procedimenti di revisione delle disposizioni economiche contenute nella sentenza di divorzio è devoluta al giudice del luogo in cui è sorta l’obbligazione controversa, dovendo applicarsi a tali procedimenti i criteri ordinari di competenza per territorio stabiliti dagli articoli da 18 a 20 del codice di procedura civile. Nella sentenza si afferma – confermando quindi che la soluzione concerne anche le domande di revisione del mantenimento dei figli – che l’art. 12-quater della legge sul divorzio fa chiaro rife¬rimento alla disponibilità dei generali criteri alternativi di determinazione della competenza per le cause relative ai diritti di obbligazione di cui alla legge stessa, tra le quali non vi è ragione per non includere le controversie concernenti l’obbligo dei coniugi di contribuire al mantenimento dei figli. Anche la giurisprudenza di merito si è orientata in questo senso (Trib. Genova Sez. IV, 7 marzo 2013).
5) Procedimenti di affidamento e mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio.
Per i procedimenti relativi all’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio – che in base al terzo comma seconda parte dell’art. 38 disp. att. c.c. seguono il rito camerale – è competente il tribunale ordinario del luogo di residenza del figli (principio ribadito da Cass. civ. Sez. VI – 1, 22 novem¬bre 2016, n. 23768 e Cass. civ. Sez. VI – 1, 22 novembre 2016, n. 23768).
La regola non è indicata espressamente ma è desunta dai principi generali che saranno tra breve ricapitolati in materia di procedimenti de potestate dove – anche in relazione alle indicazioni pro¬venienti dalla normativa sovranazionale (in particolare il Regolamento europeo 2201/2003 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale) – trova pacifica applicazione in relazione alle cause concer¬nenti la responsabilità genitoriale il principio di prossimità (giudice della residenza abituale del minore, secondo l’art. 8 del regolamento e art. 29 in caso di istanza di esecutività delle decisioni che lo riguardano).
Non risulta affrontato in giurisprudenza il problema se anche per le modifiche del contributo di mantenimento per i figli nati fuori dal matrimonio (che, come detto, sono devoluti al giudice del luogo di residenza del minore) possano essere seguiti gli stessi criteri ordinari di competenza per territorio stabiliti dagli articoli da 18 a 20 del codice di procedura civile. Le regole della necessaria prossimità del giudice nelle questioni concernenti l’affidamento dovrebbero però essere seguite anche nell’ipotesi in cui insieme all’affidamento si discuta del mantenimento.
La questione del collegamento tra affidamento e mantenimento – come si è accennato trattando della competenza per materia – era stata oggetto di dibattito in giurisprudenza dopo la legge 8 febbraio 2006, n. 54 sull’affidamento condiviso. La Cassazione aveva allora attribuito al tribunale per i minorenni la competenza sui procedimenti relativi all’affidamento e alle domande contestuali di mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio (Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2007, n. 8362) sulla base dell’inequivoco testo dell’art. 38 disp. att. c.c. che allora prevedeva specificamente la competenza del tribunale per i minorenni nei procedimenti in questione (abrogato art. 317-bis c.c.). La soluzione fu poi ribadita da altre sentenze (Cass. civ. sez. VI, 5 ottobre 2011, n. 20352; Cass. civ. Sez. I, 3 dicembre 2012, n. 21655). La soluzione faceva leva allora sul previgente testo dell’art. 38 disp. att. c.c. che attribuiva al giudice minorile le competenze sui pro¬cedimenti in materia di affidamento. Ebbene la stessa soluzione non può che applicarsi oggi anche dopo l’avvenuta attribuzione delle competenze al tribunale ordinario (con il nuovo testo dell’art. 38 disp. att. c.c.).
Per i procedimenti, quindi, di regolamentazione dell’affidamento e del contestuale mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio la competenza territoriale è del tribunale (ordinario ex nuovo testo dell’art. 38 disp. att. c.c. dopo la riforma operata con la legge 10 dicembre 2012, n. 219) del luogo di residenza abituale del figlio minore (e non una eventuale residenza transitoria: Cass. civ. Sez. VI – 1, 20 luglio 2017, n. 17969).
6) Procedimenti di modifica dell’affidamento di figli minori in separazione o divorzio e di risoluzione di contrasti sulla responsabilità genitoriale ex art. 709-ter c.p.c.
La competenza territoriale del luogo di residenza del minore nei procedimenti relativi alle mo¬difiche del solo affidamento di minori di genitori separati o divorziati ex art. 710 appartiene al tribunale del luogo di residenza del minore (Cass. civ. Sez. VI – 1, 12 luglio 2017, n. 17190; Cass. civ. Sez. VI – 1, 14 dicembre 2016, n. 25636; Cass. civ. Sez. VI – 1, 22 novembre 2016, n. 23768).
Per i procedimenti concernenti la risoluzione di contrasti sulla responsabilità genitoriale (art. 709- ter c.p.c.), è competente, secondo quanto espressamente prevede la norma in questione, il giu¬dice del procedimento in corso o, se non vi è procedimento pendente, del tribunale del luogo di residenza del minore.
L’art. 709-ter c.p.c. (soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze e vio¬lazioni) introdotto dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54 sull’affidamento condiviso, fa riferimento per le modifiche delle condizioni di affidamento al luogo di residenza dei figli (“Per i procedimenti di cui all’art. 710 c.p.c. è competente il tribunale del luogo di residenza del minore”) ma la giurispru¬denza più recente tende ad escludere che l’indicazione contenuta nell’art. 709-ter sia di carattere generale (e quindi le modifiche ex art. 710 c.p.c. rimangono soggette all’art. 18 e 20 del codice di procedura civile) e ad interpretare quella norma nel senso che essa regola la competenza per tale procedimento ove, essendosi concluso il giudizio di separazione o di divorzio, non sia più operante la competenza attribuita al giudice della separazione o del divorzio (Cass. civ. Sez. VI, 2 aprile 2013, n. 8016). Pertanto la disposizione inserita nell’art. 709-ter c.p.c. (“Per i procedimenti di cui all’art. 710 c.p.c. è competente il tribunale del luogo di residenza del minore”) attribuisce con le forme del procedimento di cui all’art. 710 c.p.c. al giudice della residenza abituale del minore le sole controversie indicate nello stesso art. 709-ter che insorgono allorché è esaurita la causa di separazione o di divorzio.
7) Procedimenti de potestate
Per i procedimenti de potestate (art. 336 c.c.) è competente territorialmente il tribunale per i mi¬norenni del luogo di residenza del minore (esclusi i casi di attrazione al giudice ordinario di cui si è parlato). L’affermazione del principio che la competenza territoriale del tribunale per i minorenni nei procedimenti de potestate si sottrae al criterio generale di competenza del foro generale delle persone fisiche (art. 18 c.p.c.) ed appartiene al giudice del luogo di abituale dimora del figlio mino¬re è stata ribadita più volte in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. VI, 4 dicembre 2012, n. 21750; Cass. civ. Sezioni unite, 2 agosto 2011, n. 16864; Cass. civ. Sez. Unite, 9 dicembre 2008, n. 28875; Cass. civ. Sez. I, 31 gennaio 2006, n. 2171; Cass. civ. Sez. I, 23 gennaio 2003, n. 1058; Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2001, n. 9266; Cass. civ. Sez. I, 15 marzo 1996, n. 2184; Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 1995, n. 4143). Le decisioni in questione hanno precisato che in tema di controversie relative a minori, ai fini dell’individuazione del tribunale per i minorenni ter¬ritorialmente competente in ordine ai provvedimenti diretti ad intervenire sulla potestà genitoriale e sulle modalità del suo esercizio secondo le previsioni degli artt. 330 e seguenti cod. civ., deve aversi riguardo alla residenza di fatto del minore e, quindi, al luogo di abituale dimora alla data della domanda o, in ipotesi di procedimento iniziato d’ufficio, alla data di inizio del procedimento stesso. a prescindere dagli eventuali trasferimenti di carattere contingente e transitori.
La giurisprudenza ha più volte chiarito che il principio della perpetuatio iurisdictionis – indicato nell’art. 5 c.p.c. secondo cui si deve aver riguardo allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda senza che possano avere rilevanza eventuali mutamenti successivi – vale anche nelle procedure camerali minorili (Cass. civ. Sez. VI – 1, 12 aprile 2016, n. 7161; Cass. civ. 29 gennaio 2008, n. 1998; Cass civ. Sez. I, 11 febbraio 2005, n. 2877; Cass. civ. Sez. I, 11 marzo 2003, n. 3587).
Risolvendo un conflitto di competenze sollevato d’ufficio dal tribunale per i minorenni di Napoli, Cass. civ. Sez. Unite, 9 dicembre 2008, n. 28875 ha precisato che l’eventuale modificazione della dimora abituale del minore intervenuta nella vigenza di un affidamento a lungo termine del minore determina la competenza del giudice del luogo in cui l’affidamento si svolge a emettere ogni provvedimento nell’interesse del minore.
8) I procedimenti ex art 316-bis c.c. (ex art. 148 c.c.)
Lo speciale procedimento monitorio previsto nell’art. 316-bis del codice civile – già art. 148 c.c. riformulato con la riforma sulla filiazione del 2012 (legge 10 dicembre 2012, n. 219 e D.Lgs. 28 di¬cembre 2013, n. 154 di attuazione) – appartiene alla competenza del giudice ordinario (Cass. civ.
Sez. VI, 12 dicembre 2011, n. 26814) e contempla la possibilità per chiunque vi ha interesse di azionare la pretesa all’adempimento degli obblighi di mantenimento verso i figli (minori o maggio¬renni, nati nel matrimonio o fuori dal matrimonio). Il Presidente del tribunale – precisa la norma – sentito l’inadempiente può disporre quanto necessario per assicurare l’adempimento dell’obbli¬gazione anche disponendo il pagamento a carico dei terzi a loro volta debitori dell’obbligato. La norma ha nella prassi una applicazione piuttosto residuale, essendo di solito il mantenimento ga¬rantito attraverso le procedure di separazione, divorzio o affidamento dei figli nati fuori dal matri¬monio. In questa sede interessa precisare che la competenza territoriale è del giudice (presidente o giudice da lui delegato) del luogo di residenza o di domicilio dell’inadempiente secondo la regola generale (art. 18 c.p.c.). Non risultano precedenti ma, trattandosi di obbligazioni, dovrebbe poter essere competente anche il giudice del luogo dove l’obbligazione deve essere adempiuta (art. 20 c.p.c.) e quindi del luogo in cui il creditore risiede (art. 1182, comma 2, c.c.).
9) Le domande di mantenimento da parte del figlio maggiorenne
Non necessariamente il mantenimento del figlio maggiorenne è collegato alla separazione o al divorzio dei suoi genitori (potendo il figlio maggiorenne trovarsi ad avere diritto al mantenimento a prescindere dalla condizione personale dei suoi genitori, coniugati o meno che siano, conviventi, separati o divorziati) ed inoltre, ove anche il mantenimento del figlio fosse stato stabilito o concor¬dato in sede giudiziaria (separazione, divorzio o altro procedimento anche tra genitori non coniu¬gati) quel titolo non attribuisce in via esclusiva ai genitori la legittimazione per richiedere la revi¬sione dell’importo. Il figlio maggiorenne, infatti, non soltanto può sempre promuovere un’azione autonoma se si trova nelle condizioni per aver diritto al mantenimento, ma anche, essendo sempre titolare di legittimazione concorrente con il genitore, potrebbe chiedere la revisione dell’eventuale contributo previsto in sede di separazione o divorzio. Ove poi in sede giudiziaria la parte creditrice – e titolare quindi di mantenimento diretto – sia stata individuata direttamente nel figlio maggio¬renne (e quindi resti esclusa la legittimazione del genitore) la domanda di revisione non potrà che essere proposta dal figlio maggiorenne, unico legittimato a pretendere la modifica dell’importo.
La competenza territoriale non è inderogabile (art. 28 c.p.c.) non essendo previsto per le cause di figli maggiorenni l’intervento obbligatorio del pubblico ministero. E quindi il tribunale giudica in composizione monocratica (art. 50-ter c.p.c.).
In tutti questi casi il procedimento segue le regole del rito a cognizione ordinaria (ovvero del rito sommario di cognizione) con applicazione delle norme generali per l’individuazione del giudice per valore e per territorio competente che sarà quello del luogo in cui i genitori (entrambi titolari del dovere di mantenimento) hanno la residenza o il domicilio (art. 18 c.p.c.). In caso di residenze difformi saranno applicabili i principi del cumulo soggettivo di cause (art. 33 c.p.c.).
10) Procedimenti di adottabilità
Per i procedimenti di adottabilità è competente il tribunale per i minorenni del distretto in cui il minore si trova in stato di abbandono (art. 8 legge 4 maggio 1983, n. 184).
11) Ordini di protezione
Per l’emissione di ordini di protezione la competenza è del tribunale del luogo di residenza o domi¬cilio dell’istante (art. 736 bis c.p.c.).
12) Cause sulla capacità delle persone
Per le procedure di interdizione, inabilitazione o amministrazione di sostegno la competenza è del tribunale del luogo di residenza dell’interessato, con la precisazione, però, che per il beneficiario dell’amministrazione di sostegno (art. 712 c.p.c.) il luogo è quello del giudice della dimora abituale (Cass. civ. Sez. VI, 17 aprile 2013, n. 9389 in considerazione della necessità che il beneficiario possa interloquire con il giudice tutelare, il quale deve tener conto, nella maniera più efficace e diretta, dei suoi bisogni e richieste). Nell’ipotesi di istanza di sostituzione dell’amministratore di sostegno, la competenza in caso di trasferimento di residenza è del giudice della nuova residenza senza che assuma rilievo il fatto che sia diverso da quello che originariamente aveva deliberato la nomina (Cass. civ. Sez. I, 7 maggio 2012, n. 6880) ma non nel caso in cui il trasferimento di residenza non sia stato volontario (Cass. civ. Sez. VI, 16 settembre 2011, n. 19017).
13) Cause di stato
Per le azioni di status filiationis la competenza territoriale è sempre quella del tribunale ordinario del luogo di residenza o domicilio del convenuto (art. 18 c.p.c.).
14) Riconoscimento di sentenze straniere
Il riconoscimento delle sentenze straniere e di altri provvedimenti stranieri concernenti il diritto di famiglia da effettuare sulla base della legge 31 maggio 1995, n. 218 in caso di mancata ottempe¬ranza o di contestazione del riconoscimento o per procedere all’esecuzione forzata è regolato dal rito sommario di cognizione e la competenza è attribuita alla corte d’appello del luogo di attuazione secondo quanto precisato dall’art. 30, primo e secondo comma, del D. Lgs. 1 settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplifi¬cazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69) applicabile ai procedimenti instaurati dopo il 6 ottobre 2011. Se la residenza di entrambi i coniugi è all’estero è competente il giudice del luogo in cui è stato celebrato il matrimonio (Cass. civ. Sez. I, 25 ottobre 1984, n. 5448).
Per il riconoscimento delle decisioni straniere disciplinate dal Regolamento europeo n. 2201/2003 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimo¬niale e in materia di responsabilità genitoriale, la competenza per il procedimento (eventuale) teso alla dichiarazione di esecutività appartiene anche in questo caso alla competenza per materia della Corte d’appello mentre la competenza territoriale “è determinata dalla residenza abituale della parte contro cui è chiesta l’esecuzione oppure dalla residenza abituale del minore cui l’istanza si riferisce. Altrimenti è determinata dal luogo dell’esecuzione (art. 29 reg. 2201/2003).
Per le obbligazioni alimentari (e quindi anche di mantenimento secondo l’interpretazione sovrana¬zionale dell’espressione “obbligazioni alimentari”) la competenza territoriale della Corte d’appello è determinata dalla residenza abituale della parte contro cui viene chiesta l’esecuzione o del luo¬go dell’esecuzione (art. 27 Regolamento europeo n. 4/2009 relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari).
15) Cause ereditarie
Non derogabile dalle parti ed esclusivo è anche il foro territoriale per le cause ereditarie, cioè quel¬lo del luogo dell’apertura della successione (art. 22 e 747 c.p.c.). La competenza territoriale nelle cause ereditarie va stabilita ai sensi dell’art. 22 c.p.c. (giudice del luogo dell’apertura della succes¬sione) e dell’art. 456 c.c. (apertura della successione). Sulla base di quest’ultima norma la suc¬cessione si apre al momento della morte nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto, intendendosi con tale locuzione il luogo ove la persona concentra la generalità dei suoi interessi sia materiali ed economici, sia morali, sociali e familiari, prescindendosi dalla dimora o dalla presenza effettiva del medesimo in detto luogo (Cass. civ. Sez. VI, 2 agosto 2013, n. 18560; Cass. civ. Sez. II, 8 febbraio 2005, n. 2557; Cass. civ. Sez. II, 20 luglio 1999, n. 7750; Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 1996, n. 2875; Trib. Nocera Inferiore Sez. II, 21 luglio 2011; Trib. Salerno Sez. II, 11 febbraio 2010; Trib. Bari Sez. II, 6 maggio 2009).
V Cumulo soggettivo e inammissibilità della connessione tra domande aventi riti diversi
Un problema molto dibattuto nell’ambito delle cause di diritto di famiglia è quello della possibilità di connessione tra domande aventi riti diversi. Infatti come è noto il rito in appello della separazione (e del divorzio) è quello camerale e questo fatto connota in senso camerale tutto il processo, fer¬mo il rito a cognizione ordinaria del primo grado. A quest’ultima fattispecie fa riferimento il terzo comma dell’art. 40 c.p.c. (cosiddetta connessione qualificata) il quale prevede che le domande che dovrebbero essere trattate con riti diversi possono essere proposte cumulativamente davanti allo stesso giudice solo “nei casi previsti negli articoli 31, 32, 34, 35 e 36” e cioè quando le domande siano connesse per le ragioni previste in tali articoli (accessorietà, garanzia, pregiudizialità, com¬pensazione, riconvenzionale) e non allorché le domande siano dirette contro la stessa persona (cumulo soggettivo). E così non è possibile – si afferma gin giurisprudenza- il cumulo nello stesso processo di separazione o divorzio (soggetto per quello che si è detto al rito camerale) di una do¬manda di divisione o di accertamento della proprietà (Cass. Sez. II, 27 gennaio 2005, n. 1705; Cass. civ. Sez. I, 19 gennaio 2005, n. 1084; Cass. civ. Sez. I, 12 gennaio 2000, n. 266; Trib. Torre Annunziata, 18 settembre 2013; Trib. Salerno, Sez. I, 9 febbraio 2012; Trib. Cassino, 19 aprile 2010; App. Napoli, 10 marzo 2010; Trib. Roma, Sez. I, 15 settembre 2009; Trib. Cassino 21 ottobre 2008; Trib. Cassino, 24 luglio 2008; Trib. Modena, 15 maggio 2007; Trib. Genova, Sez. IV, 28 febbraio 2006).
VI Come e quando può essere eccepita o rilevata d’ufficio l’incompetenza?
Per impedire che le questioni di competenza si trascinino senza fine nel processo e con l’obiettivo di accelerarne al massimo la decisione, una disciplina molto specifica è prevista nell’art. 38 c.p.c. nel testo sostituito una prima volta con la riforma di cui alla legge 353/1990 che aveva eliminato la possibilità di rilevare d’ufficio in ogni momento l’incompetenza e da ultimo con la legge 18 giugno 2009, n. 69 che ha equiparato le modalità di rilievo dell’incompetenza.
L’art. 38 c.p.c. prevede che l’incompetenza (ogni tipo di incompetenza) debba essere sempre eccepita dal convenuto a pena di inammissibilità con la comparsa di risposta “tempestivamente depositata”. Quindi – così viene interpretata la locuzione – nel rispetto del termine di preclusione indicato nel secondo comma dell’art. 167 c.p.c. (venti giorni prima dell’udienza di comparizione delle parti di cui all’art. 183 c.p.c.) anche se, a stretto rigore, l’art. 38 c.p.c. prevede che la deca¬denza si verifichi, in difetto di rilievo di parte, per le sole eccezioni “non rilevabili d’ufficio” mentre invece l’incompetenza per materia, per valore e territoriale inderogabile possono essere sempre rilevate dal giudice, sia pure entro la prima udienza (art. 38, comma 3, c.p.c.). Pertanto la sola incompetenza che ragionevolmente sarebbe soggetta alla preclusione e alla decadenza dovrebbe essere quella territoriale derogabile. L’incompetenza territoriale inderogabile (che, come si è visto, è tipica delle cause di diritto di famiglia), potendo essere rilevata d’ufficio dal giudice entro la prima udienza, non dovrebbe essere soggetta alla preclusione. Esigenze di concentrazione e di imme¬diatezza hanno fatto prevalere, tuttavia, la tesi rigorosa della necessità del rispetto dei termini di decadenza (Cass. civ. Sez. Unite, 12 maggio 2008, n. 11657). Peraltro lo stesso legislatore ha previsto che l’avvertimento al convenuto debba contenere il riferimento non solo alle decadenze di cui all’art. 167 c.p.c. ma, per l’appunto, anche a quelle di cui all’art. 38 c.p.c.
Il giudice può rilevare l’incompetenza non oltre la prima udienza di cui all’art. 183 c.p.c. (Cass. civ. Sez. VI, 5 luglio 2013, n. 16888; Cass. civ. Sez. Unite, 24 maggio 2013, n. 12900).
Naturalmente il giudice potrebbe non rilevare l’incompetenza. Pertanto il convenuto che non la eccepisca, in caso di mancato rilievo d’ufficio da parte del giudice, non potrebbe più far valere la questione di competenza in seguito o in appello (Cass. civ. Sez. III, 2 marzo 2012, n. 3251).
Se il convenuto o il giudice non dovessero rilevare l’incompetenza nei termini per loro previsti – o comunque entro la prima udienza in caso di rito a cognizione diversa da quello ordinario – il proces¬so continuerà regolarmente e la decisione sarà pienamente legittima nonostante l’incompetenza (Cass. civ. Sez. I, 17 aprile 2013, n. 9323).
VII Come sono decise dal giudice le questioni relative alla competenza e come può essere impugnata la decisione?
In seguito alla riforma operata con la legge 18 giugno 2009, n. 69 (applicabile ai giudizi instaurati dopo l’entrata in vigore avvenuta il 4 luglio 2009), tutte le questioni relative alla competenza sono decise dal giudice della causa con ordinanza “in base a quello che risulta dagli atti e, quando sia reso necessario dall’eccezione del convenuto o dal rilievo del giudice, assunte sommarie informazioni”.
Quindi si tratta di una ordinanza e non più di una sentenza. Tuttavia il giudice ha il dovere di far previamente precisare alle parti le conclusioni (Cass. civ. Sez. VI, 30 ottobre 2013, n. 24509; Cass. civ. Sez. VI, 10 ottobre 2013, n. 23095; Cass. civ. Sez. VI, 26 giugno 2013, n. 16051; Cass. civ. Sez. VI, 11 dicembre 2012, n. 22737; Cass. civ. Sez. VI, 6 dicembre 2012, n. 22002).
L’ordinanza che accoglie l’eccezione di incompetenza senza decidere nel merito è impugnabile esclusivamente con istanza di regolamento (necessario) di competenza (art. 42 c.p.c.) – sul quale è competente a decidere la Corte di cassazione – mentre se la questione di competenza viene decisa insieme al merito, la parte interessata oltre a poter proporre regolamento (facoltativo) di competenza (che determina in tal caso la sospensione dei termini per l’impugnazione fino alla comunicazione della decisione della Corte di cassazione) può scegliere di impugnare nei modi oridnari la decisione (art. 43 c.p.c.).
Quanto al contenuto della decisione sulla competenza, se di fronte a giudici diversi sono proposte cause che per ragioni di connessione possono essere decise in un solo processo, il giudice fissa alle parti un termine per riassumere la causa accessoria davanti al giudice della causa principale e negli altri casi di connessione davanti al giudice preventivamente adito (art. 40, primo comma, c.p.c.). Per le medesime esigenze di speditezza è previsto (art. 40, comma 2, c.p.c.) che la connessione non possa essere eccepita dalle parti o rilevata d’ufficio dopo la prima udienza e che comunque la rimessione non possa essere ordinata “quando lo stato della causa principale o preventivamente proposta non consente l’esauriente trattazione e decisione delle cause connesse”.
VIII Il regolamento di competenza
Il regolamento di competenza ha una disciplina piuttosto semplificata.
La parte (anche assistita dal procuratore della causa sia pure non iscritto all’albo speciale degli avvocati cassazionisti: Cass. civ. Sez. VI, 19 marzo 2012, n. 4345; Cass. civ. Sez. III, 27 ottobre 2011, n. 22485; Cass. civ. Sez. III, 7 luglio 2011, n. 15061; Cass. civ. Sez. III, 18 dicembre 2008, n. 29577) ed anche senza ulteriore procura ad hoc (Cass. civ. Sez. I, 9 settembre 2004, n. 18199; Cass. civ. Sez. III, 3 marzo 1998, n. 2333) promuove l’impu-gnazione con ricorso diretto alla Corte di cassazione e notificato alla controparte entro trenta giorni dalla comunicazione da parte della cancelleria dell’ordinanza con cui il giudice ha deciso sull’ec¬cezione di incompetenza o con cui ha sollevato egli stesso la questione ovvero entro trenta giorni dalla notifica a cura dell’altra parte se la cancelleria ha omesso la comunicazione o questa non è stata eseguita regolarmente (Cass. civ. Sez. VI, 16 luglio 2013, n. 17386; Cass. civ. Sez. I, 8 gennaio 2009, n. 135). Nei successivi cinque giorni deve chiedere alla cancelleria del giudice la trasmissione degli atti alla cancelleria della corte di cassazione ed entro venti giorni dalla notifica deve depositare il ricorso notificato.
La controparte può depositare le sue considerazioni difensive entro venti giorni dalla notifica del ricorso.
Nonostante la semplicità del procedimento la Cassazione pretende però che il ricorso abbia le stesse caratteristiche intrinseche di ammissibilità dei normali ricorsi per cassazione e in particolare quello dell’autosufficienza (Cass. civ. Sez. III, 21 luglio 2006, n. 16752; Cass. civ. Sez. III, 13 novembre 2000, n. 14699).
In assenza di regole per il rilievo d’ufficio la giurisprudenza ha chiarito che il regolamento di com¬petenza può essere azionato d’ufficio direttamente dal giudice con ordinanza con cui dispone che la cancelleria trasmetta gli atti alla Corte di cassazione, dandone comunicazione alle parti costitu¬ite (Cass. civ. Sez. Unite, 5 ottobre 2012, n. 16956) e che l’ordinanza deve essere motivata (Cass. civ. Sez. III, 6 settembre 2007, n. 18795).
Il Pubblico ministero non ha legittimazione all’istanza di regolamento di competenza (Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 1997, n. 10779).
Per la stretta connessione che ha nel diritto di famiglia va precisato che la giurisprudenza ritiene inammissibile il regolamento di competenza avverso provvedimenti che non abbiano natura defi¬nitiva e decisoria come tutti quelli adottati dal tribunale per i minorenni o dal tribunale ordinario per regolamentare l’affidamento dei figli minori (Cass. civ. Sez. I, 7 maggio 2015, n. 9203; Cass. civ. Sez. VI, 14 maggio 2013, n. 11463; Cass. civ. Sez. VI, 3 gennaio 2013, n. 49; Cass. civ. Sez. I, 5 febbraio 2008, n. 2756 in un caso di affidamento del minore al servizio sociale da parte del tribunale per i minorenni; Cass. civ. Sez. I, 28 luglio 2006, n. 17234 in un procedimento davanti al tribunale su reclamo al giudice tutelare; Cass. civ. Sez. I, 20 ot¬tobre 2004, n. 20498 in un procedimento di volontaria giurisdizione; Cass. civ. Sez. Unite, 4 novembre 2003, n. 16568 avverso un decreto del tribunale per i minorenni in procedimento de potestate; Cass. civ. Sez. Unite, 10 ottobre 2003, n. 14671 in un procedimento di volonta¬ria giurisdizione; Cass. civ. Sez. I, 18 gennaio 2003, n. 586 in un procedimento di modifica relativa all’affidamento di un figlio; Cass. civ. Sez. I, 8 gennaio 1998, n. 93 concernente un provvedimento della corte d’appello su rapporti tra genitori e figli) salvo che il procedimento sia utilizzato dal legislatore per la tutela giurisdizionale di diritti (Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 2012, n. 5257). Una non vicina decisione, però, dichiarò ammissibile il regolamento di competenza in un caso di decadenza della potestà (Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 1997, n. 2797) ma si è trattato di una decisione assolutamente isolata.

Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI – 1, 20 luglio 2017, n. 17969 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con riferimento ai soggetti minori di età, ai fini della determinazione della competenza territoriale del giudice e, quindi dell’accertamento della cd. residenza abituale, non si deve tener conto della permanenza transitoria, in occasione delle vacanze estive, nella città dove risiedono i nonni, ossia che i minori si trovavano in tale città, alla data della domanda, solo a causa della omissione, per decisione unilaterale della madre, del programmato rientro nel luogo di residenza abituale dalle vacanze estive (fattispecie in tema di regolamentazione dell’affida¬mento di figli nati fuori dal matrimonio)
Cass. civ. Sez. VI – 1, 12 luglio 2017, n. 17190 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La controversia relativa alla modifica delle condizioni della separazione e del divorzio o dell’affidamento dei figli minori appartiene all’esclusiva competenza del tribunale ordinario, anche quando la domanda sia giustificata dall’esistenza di un grave pregiudizio per i figli minori, non essendo tale circostanza idonea a spostarne la com¬petenza presso il tribunale per i minorenni.
L’istanza per provvedimenti limitativi della capacità genitoriale depositata dopo il giudizio di separazione, ma antecedentemente a quello di divorzio, presso il Tribunale per i Minorenni, seppur comporti una modifica delle disposizioni stabilite del tribunale ordinario, va qualificata come richiesta di modifica delle condizioni di separa¬zione, anche se concerne l’esistenza di un pregiudizio per i figli minori e pertanto non è idonea a modificare la competenza presso il tribunale minorile.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 14 dicembre 2016, n. 25636 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di regolamento necessario di competenza, la controversia relativa alla modifica delle disposizioni con¬cernenti l’affidamento dei figli, ai sensi dell’art. 337 quinquies c.c., appartiene all’esclusiva competenza del tribunale ordinario territorialmente individuato in base alla residenza dei figli minori, così come determinata dal provvedimento giudiziale di cui si chiede la modifica.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 22 novembre 2016, n. 23768 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il procedimento per la regolamentazione dell’affidamento di un figlio nato fuori dal matrimonio di cui all’art. 337-ter c.c. è devoluto alla competenza del tribunale ordinario del luogo di residenza abituale del minore, non potendo subire la “vis actractiva” del tribunale per i minorenni, al quale l’art. 38 disp. att. c.c. attribuisce com¬petenze tassativamente individuate, tra le quali non figura il predetto procedimento.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 12 aprile 2016, n. 7160 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei procedimenti che tendono all’ablazione o alla limitazione della potestà genitoriale, ai sensi degli artt. 330 e ss. c.c., siano essi promossi d’ufficio o ad istanza di parte, la mera trasmissione del fascicolo processuale da un ufficio giudiziario ad un altro, con finalità di dismissione della propria competenza ed attribuzione della stessa al destinatario, è di per sé sufficiente a legittimare quest’ultimo, ove si ritenga a sua volta incompetente, a sollevare il conflitto di competenza ed a chiedere il regolamento d’ufficio, indipendentemente dall’intervenuta riassunzione del processo, nei modi e nei tempi previsti dall’art. 50 c.p.c., vertendosi in una materia nella quale il giudice competente dispone di poteri officiosi d’iniziativa ai fini tanto dell’instaurazione e della prosecuzione del procedimento quanto della pronuncia di merito.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 12 aprile 2016, n. 7161 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei procedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.c., il principio della “perpetuatio iurisdictionis”, in forza del quale la competenza territoriale del giudice adito rimane ferma, nonostante lo spostamento in corso di causa della residenza anagrafica o del domicilio del minore, a seguito del trasferimento del genitore con cui egli convive, prevale, per esigenze di certezza e di garanzia di effettività della tutela giurisdizionale, su quello di “prossimità”, ove il provvedimento in relazione al quale deve individuarsi il giudice competente sia quello stesso richiesto con l’istanza introduttiva o con altra che si inserisca incidentalmente nella medesima procedura. (Nella specie, la S.C. ha accolto il regolamento di competenza d’ufficio sollevato dal Tribunale per i minorenni di Brescia, dinanzi al quale era stato riattivato, nei medesimi termini originari, il procedimento “de potestate” dopo la pronuncia di incompetenza del Tribunale per i minorenni di Bologna, adito dal P.M., motivata sul trasferimento, in corso di causa, della madre, insieme alle minori, in un comune in provincia di Brescia).
Cass. civ. Sez. VI – 1, 31 marzo 2016, n. 6249 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il procedimento di cui all’art. 337 quater c.c. è devoluto alla competenza del tribunale ordinario del luogo di residenza abituale del minore, non potendo subire la “vis actractiva” del tribunale per i minorenni, che ha com¬petenze tassativamente individuate dalla legge tra le quali non figura detto procedimento.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 25 novembre 2015, n. 24099 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per la decisione sulla domanda di divorzio, ai sensi dell’art. 4, L. n. 898/1970, è competente il Tribunale del luo¬go di residenza del convenuto, anche in presenza di figli minori, senza che ciò comporti alcuna violazione della normativa europea né alcun sospetto di incostituzionalità.
Cass. civ. sez. VI – 1 Ordinanza, 23 ottobre 2015, n. 21667 (rv. 637305)
È inammissibile il regolamento di competenza proposto nei confronti dell›ordinanza del tribunale che, pronunciando in sede di reclamo avverso il decreto con cui il giudice tutelare ha autorizzato il rilascio del passaporto e della carta di identità, valida per l›espatrio, in favore del genitore presso il quale è collocato il minore, ha escluso la propria competenza in favore di quella del tribunale per i minorenni, atteso che l›erronea individuazione del giudice titolare del potere di decidere sulla impugnazione non dà luogo ad una questione di competenza, ma concerne esclusivamente la sussistenza delle condizioni di proponibilità o ammissibilità del gravame, la cui valu¬tazione non è censurabile in sede di legittimità con il mezzo di impugnazione previsto dall’art. 42 c.p.c.
Cass. civ. Sez. I, 7 maggio 2015, n. 9203 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In relazione ai provvedimenti de potestate, devoluti alla competenza del tribunale per i minorenni, che limitano od escludono la potestà (art. 317 bis c.c. vecchio testo) o ne pronunciano la decadenza (artt. 330 e 332 c.c.), non è ammissibile il ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost., nonostante il carattere contenzioso e la ricorribilità dei provvedimenti assunti in materia di affidamento dei figli naturali, permanendo in essi il carattere della non definitività, nella ricerca della più ampia garanzia per i minori, derivante dall’attuale ampiezza della revisione dei provvedimenti adottati. Conseguentemente, nella fattispecie, avente ad oggetto provvedimenti correlati e legittimati dall’art. 333 c.c. e, dunque, non destinati a regolare l’affidamento dei figli, il ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost. veniva dichiarato inammissibile.
Cass. civ. Sez. VI, 12 febbraio 2015, n. 2833 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 38 disp. att. cod. civ. come novellato dall’art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219, il tribunale per i minorenni resta competente a conoscere della domanda diretta ad ottenere la declaratoria di decadenza o la limitazione della potestà dei genitori ancorché, nel corso del giudizio, sia stata proposta, innanzi al tribunale ordinario, domanda di separazione personale dei coniugi o di divorzio, trattandosi di interpretazione aderente al dato letterale della norma, rispettosa del principio della “perpetuatio jurisdictionis” di cui all’art. 5 cod. proc. civ., nonché coerente con ragioni di economia processuale e di tutela dell’interesse superiore del minore, che trovano fondamento nell’art. 111 Cost., nell’art. 8 CEDU e nell’art. 24 della Carta di Nizza.
Cass. civ. Sez. VI, 26 gennaio 2015, n. 1349 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 38, primo comma, disp. att. cod. civ. (come modificato dall’art. 3, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219, applicabile ai giudizi instaurati a decorrere dall’1 gennaio 2013), si interpreta nel senso che, per i proce¬dimenti di cui agli artt. 330 e 333 cod. civ., la competenza è attribuita in via generale al tribunale dei minorenni, ma, quando sia pendente un giudizio di separazione, di divorzio o ex art. 316 cod. civ., e fino alla sua definitiva conclusione, in deroga a questa attribuzione, le azioni dirette ad ottenere provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale, proposte successivamente e richieste con unico atto introduttivo dalle parti (così determinandosi un’ipotesi di connessione oggettiva e soggettiva), spettano al giudice del conflitto familiare, in¬dividuabile nel tribunale ordinario, se sia ancora in corso il giudizio di primo grado, ovvero nella corte d’appello in composizione ordinaria, se penda il termine per l’impugnazione o sia stato interposto appello.
L’art. 38, primo comma, primo periodo, disp. att. cod. civ. — nel testo sostituito dall’art. 3, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219, applicabile ai giudizi instaurati a decorrere dal 1° gennaio 2013 (art. 4, comma 1, della stessa legge n. 219 del 2012), come nella specie — attribuisce tra l’altro, in via generale, al tribunale per i minorenni la competenza per i provvedimenti previsti dagli artt. 330 e 333 cod. civ. In deroga a tale attribu¬zione di competenza, quando sia in corso un giudizio di separazione, divorzio o un giudizio ai sensi dell’art. 316 cod. civ., anche in pendenza dei termini per le impugnazioni e nelle altre fasi di quiescenza, fino al passaggio in giudicato, la competenza in ordine alle azioni dirette ad ottenere provvedimenti limitativi od ablativi della responsabilità genitoriale, proposte successivamente e richieste con unico atto introduttivo dalle parti (così de¬terminandosi un’ipotesi di connessione oggettiva e soggettiva) deve attribuirsi al giudice del conflitto familiare (Tribunale ordinario e Corte d’Appello). L’identità delle parti dei due giudizi non è esclusa dalla partecipazione del p.m. Ne consegue che nel caso, quale quello di specie, in cui — successivamente all’instaurazione di un giudizio di separazione o di divorzio, o del giudizio di cui all’art. 316 cod. civ. — siano state proposte azioni dirette ad ottenere provvedimenti limitativi od ablativi della responsabilità genitoriale quando sia pendente il termine per l’impugnazione o sia stato interposto appello avverso la decisione di primo grado, la competenza a conoscere tali azioni è attribuita alla corte d’appello in composizione ordinaria.
Cass. civ. Sez. VI, 14 ottobre 2014, n. 21633 (Famiglia e Diritto, 2015, 2, 105 nota di LIUZZI)
La competenza a conoscere della domanda di limitazione o decadenza dalla potestà dei genitori, introdotta prima della modifica del testo dell’art. 38 disp. att. cod. civ. disposta dall’art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219, rimane radicata presso il tribunale per i minorenni anche se nel corso del giudizio sia stata proposta, innanzi al tribunale ordinario, domanda di separazione personale dei coniugi o di divorzio, in ossequio al principio della “perpetuatio jurisdictionis” ed a ragioni di economia processuale che trovano fondamento anche nelle dispo¬sizioni costituzionali (art. 111 Cost.) e sovranazionali (art. 8 C.E.D.U. e art. 24 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea). (Regola competenza)
Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7478 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 336, ultimo comma, c.c. trova applicazione soltanto per i provvedimenti limitativi ed eliminativi della pote¬stà genitoriale, ove si pone in concreto un profilo di conflitto di interessi tra genitori e minore e non in una con¬troversia relativa al regime di affidamento e di visita del minore, figlio di una coppia che ha deciso di cessare la propria comunione di vita. In tale ipotesi, la partecipazione del minore nel conflitto genitoriale deve esprimersi, ove ne ricorrano le condizioni di legge, solo se ne ravvisi la corrispondenza agli interessi del minore medesimo e si riscontri un grado di discernimento adeguato, mediante il suo ascolto, oltre che mediante l’esercizio dei poteri istruttori officiosi di cui il giudice può usufruire in virtù della natura e della preminenza dell’interesse da tutelare.
Cass. civ. Sez. VI, 30 ottobre 2013, n. 24509 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche dopo il mutamento della forma della decisione sulla competenza per effetto dell’art. 45 della legge 18 giu¬gno 2009, n. 69, la decisione affermativa della competenza presuppone sempre la rimessione in decisione della causa ai sensi degli artt. 189 e 275 cod. proc. civ.(ed ai sensi dello stesso art. 189 cod. proc. civ. in relazione all’art. 281-quinquies cod. proc. civ. per il procedimento di decisione del giudice monocratico) preceduta dall’in¬vito a precisare le conclusioni. Ne discende che, ove nel procedimento davanti al giudice monocratico quest’ul¬timo esterni espressamente od implicitamente in un’ordinanza, senza aver provveduto agli adempimenti sopra indicati, un convincimento sulla competenza e dia provvedimenti sulla prosecuzione del giudizio, tale ordinanza non ha natura di decisione affermativa sulla competenza impugnabile ai sensi dell’art. 42 cod. proc. civ., sicché il ricorso per regolamento di competenza avverso detto atto deve ritenersi inammissibile. (Nel caso di specie, la S.C. ha ritenuto che non avesse natura di decisione sulla competenza l’ordinanza con cui il tribunale in com¬posizione monocratica, sciogliendo la riserva assunta all’udienza di prima comparizione e assumendo una serie di provvedimenti di carattere ordinatorio, aveva delibato sulla questione di competenza con un provvedimento funzionale all’ulteriore “iter” processuale e non ultimativo – sebbene risoltasi con una statuizione di “rigetto dell’eccezione” – non essendo stata preceduto dall’invito alle parti a precisare le conclusioni).
Cass. civ. Sez. VI, 10 ottobre 2013, n. 23095 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In una controversia instaurata dopo l’entrata in vigore della legge 18 giugno 2009, n. 69, l’ordinanza declina¬toria della competenza suppone il previo invito alle parti alla precisazione delle conclusioni, cosicché, ove la decisione sia emessa senza il rispetto di tale formalità, la stessa è impugnabile con il regolamento di compe¬tenza necessario.
Trib. Torre Annunziata, 18 settembre 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La trattazione congiunta di cause soggette a riti differenti può attuarsi, secondo le regole di cui all’art. 40 c.p.c. nel testo modificato dalla legge n. 353 del 1990 soltanto se tali cause siano connesse ai sensi degli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c.. Pertanto, non è possibile il cumulo in un unico processo della domanda di divorzio, soggetta al rito camerale, e di quella di divisione dei beni comuni, soggetta a rito ordinario, trattandosi di domande non legate da vincoli di connessione, ma autonome e distinte l’una dall’altra.
Cass. civ. Sez. VI, 2 agosto 2013, n. 18560 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La determinazione della competenza per territorio nelle cause ereditarie va stabilita ai sensi degli artt. 22 cod. proc. civ. e 456 cod. civ., con riferimento al luogo in cui il “de cuius” aveva al momento della morte l’ultimo domicilio, intendendosi con tale locuzione il luogo ove la persona concentra la generalità dei suoi interessi sia materiali ed economici, sia morali, sociali e familiari, prescindendosi dalla dimora o dalla presenza effettiva del medesimo in detto luogo.
Trib. Minorenni Brescia, 1 agosto 2013 (Famiglia e Diritto, 2014, 1, 60, nota di RUSSO)
Nei procedimenti ai quali, ratione temporis, è applicabile l’art. 38 disp. att. come modificato dalla legge n. 219/2012, sussiste la competenza del tribunale per i minorenni sulla domanda ex art. 333 c.c., nonostante la contemporanea pendenza di un giudizio di separazione o divorzio, solo se la domanda è proposta da chi non può essere parte in quel giudizio e cioè il pubblico ministero minorile ovvero i parenti legittimati ex art. 336 c.c.
Cass. civ. Sez. VI, 19 luglio 2013, n. 17744 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’individuazione del tribunale competente per territorio sulla domanda di separazione personale dei coniugi, tale luogo deve essere identificato con l’ultima residenza comune, non potendosi ricorrere al foro subor¬dinato della residenza o del domicilio della parte convenuta.
L’art. 42 cod. proc. civ. là dove estende l’impugnazione con il regolamento di competenza ai provvedimenti, aventi natura ordinatoria, che dichiarano la sospensione del processo ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., è norma di stretta interpretazione, la cui portata non può essere estesa fino a ritenere detto rimedio esperibile avverso il diverso provvedimento, che sia meramente confermativo di una precedente sospensione non tempe¬stivamente impugnata, non potendo esso produrre l’effetto di riaprire il termine perentorio di trenta giorni per proporre il regolamento.
Cass. civ. Sez. VI, 16 luglio 2013, n. 17386 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il regolamento di competenza ad istanza di parte va proposto, laddove la comunicazione di cancelleria al difenso¬re del ricorrente, ex art. 47, secondo comma, cod. proc. civ. non risulti effettuata nel domicilio da lui eletto, nel termine di trenta giorni dalla notificazione del provvedimento impugnato, se avvenuta, altrimenti applicandosi quello di decadenza di cui all’art. 327 cod. proc. civ. dalla data del suo deposito.
Cass. civ. Sez. VI, 5 luglio 2013, n. 16888 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È inammissibile il conflitto di competenza elevato dal giudice dopo la prima udienza di trattazione, quando egli ha già concesso alle parti i termini di cui all’art. 183, sesto comma, cod. proc. civ.
Cass. civ. Sez. VI, 3 luglio 2013, n. 16544 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di nomina dell’amministratore di sostegno, la competenza per territorio spetta al giudice tutelare del luogo in cui la persona interessata abbia stabile residenza o domicilio; pertanto le risultanze anagrafiche non as¬surgono a dato preminente, se vengono superate da evenienze di fatto conclamanti un diverso effettivo domicilio della persona, nel cui interesse si chiede l’apertura del procedimento.
Cass. civ. Sez. VI, 26 giugno 2013, n. 16051 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche dopo il mutamento della forma della decisione sulla sola competenza, per effetto della legge 18 giugno 2009, n. 69, presuppone sempre la rimessione in decisione della causa preceduta dall’invito a precisare le conclusioni. Ne discende che, ove il giudice unico, che nelle cause attribuite al tribunale in composizione mono¬cratica assomma in sé le funzioni di istruzione e decisione, si limiti a dare provvedimenti sulla prosecuzione del giudizio pur a fronte d’una eccezione di incompetenza (nella specie, ammettendo le prove richieste e fissando apposita udienza per la relativa assunzione e successiva udienza di precisazione delle conclusioni), l’ordinanza così pronunciata non riveste natura di decisione affermativa sulla competenza, impugnabile ai sensi dell’art. 42 cod. proc. civ., sicché il ricorso per regolamento di competenza avverso detto atto deve ritenersi inammissibile.
Cass. civ. Sez. Unite, 24 maggio 2013, n. 12900 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’incompetenza per materia, al pari di quella per valore e per territorio nei casi previsti dall’art. 28 del codice di rito, è rilevata, anche d’ufficio, non oltre la prima udienza di trattazione, la quale, nel rito ordinario, si identifica con l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., e, nel processo del lavoro, corrisponde alla (prima) udienza di discussione fissata con il decreto giudiziale disciplinato dall’art. 415 c.p.c Pertanto, alla stregua del nuovo assetto attri¬buito dal riformato art. 38 c.p.c. al rilievo dell’incompetenza, anche la disposizione dell’art. 428 c.p.c. comma 1 (secondo la quale nei processi davanti ai giudice del lavoro l’incompetenza territoriale può essere rilevata d’ufficio non oltre l’udienza di cui all’art. 420 c.p.c.) va intesa nel significato che detta incompetenza può essere rilevata non oltre il termine dell’udienza fissata con il predetto decreto contemplato dal citato art. 415, con la conseguente inammissibilità del regolamento di competenza d’ufficio che dovesse essere sollevato superandosi tale preclusione.
Cass. civ. Sez. III, 21 maggio 2013, n. 12388 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La ripartizione degli affari tra le sezioni distaccate di un medesimo ufficio del giudice di pace, sito presso taluno dei capoluoghi dei mandamenti ove avevano sede le preture, ha carattere interno, sicché la sentenza con cui il giudice di una sezione distaccata dichiari la propria “competenza” non integra una decisione sulla competenza, avverso la quale sia esperibile il regolamento di competenza, ma va interpretata come provvedimento ordinato¬rio ex art. 83-ter disp. att. cod. proc. civ., introdotto dall’art. 128 del d.lgs. del 19 febbraio 1998, n. 51.
Cass. civ. Sez. VI, 14 maggio 2013, n. 11463 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La pronuncia sulla competenza contenuta in un provvedimento camerale privo di decisorietà e definitività non è impugnabile con il regolamento di competenza ad istanza di parte, atteso che la affermazione o la negazione della competenza è preliminare e strumentale alla decisione di merito e non ha una sua natura specifica, diversa da quest’ultima, tale da giustificare un diverso regime di impugnazione e da rendere ipotizzabile un interesse all’individuazione definitiva ed incontestabile del giudice chiamato ad emettere un provvedimento privo di deci¬sorietà e definitività,
Cass. civ. Sez. VI, 17 aprile 2013, n. 9389 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di amministrazione di sostegno, la competenza territoriale si radica con riferimento alla dimora abituale del beneficiario e non alla sua residenza, in considerazione della necessità che egli interloquisca con il giudice tutelare, il quale deve tener conto, nella maniera più efficace e diretta, dei suoi bisogni e richieste, anche suc¬cessivamente alla nomina dell’amministratore; né opera, in tal caso, il principio della “perpetuatio iurisdictionis”, trattandosi di giurisdizione volontaria non contenziosa, onde rileva la competenza del giudice nel momento in cui debbono essere adottati determinati provvedimenti sulla base di una serie di sopravvenienze.
Cass. civ. Sez. I, 17 aprile 2013, n. 9323 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ove la sentenza che dichiara l’incompetenza del giudice adito, non è impugnata con l’istanza di regolamentodi competenza ed il giudice indicato come competente non solleva conflitto, ai sensi dell’art. 45 c.p.c., non sono più contestabili l’incompetenza del giudice che l’ha pronunciata e la competenza del giudice davanti al quale la causa sia stata riassunta, con la conseguenza che nei successivi gradi del giudizio, né le parti, né il giudice possono rimettere in discussione l’incompetenza dichiarata dal giudice originariamente adito.
Cass. civ. Sez. VI, 2 aprile 2013, n. 8016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza territoriale a conoscere dei procedimenti di revisione delle disposizioni economiche contenute nella sentenza di divorzio è devoluta al giudice del luogo in cui è sorta l’obbligazione controversa, dovendo applicarsi a tali procedimenti i criteri ordinari di competenza per territorio stabiliti dagli articoli da 18 a 20 del codice di procedura civile e non il disposto dell’art. 709 ter, ultimo comma, cod. proc. civ., introdotto dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54, destinato alla soluzione di controversie insorte tra genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o alle modalità di affidamento e, in tale ambito, all’adozione, in caso di gravi inadempienze dei genitori o di atti che arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, dei provvedimenti sanzionatori previsti dalla norma stessa, anche in unione con la modifica dei provvedimenti in vigore relativamente a tali modalità . L’art. 12 quater della legge sul divorzio, introdotto dalla L. n. 74 del 1987 fa chiaro riferimento alla disponibilità dei generali criteri alternativi di determinazione della competenza per le cause relative ai diritti di obbligazione di cui alla legge stessa, tra le quali non vi è ragione per non includere le controversie concernenti l’obbligo dei coniugi di contribuire al mantenimento dei figli.
Cass. civ. Sez. VI, 25 marzo 2013, n. 7462 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché le regole di distribuzione del potere di provvedere interne allo stesso ufficio giudiziario, e, a maggior ra¬gione, quelle di ripartizione del potere su di uno specifico affare all’interno dell’organo cui quest’ultimo è attribu¬ito, non integrano questioni di competenza ai sensi degli articoli 42 e 43 cod. proc. civ., è inammissibile l’istanza di regolament di competenza proposta avverso il decreto con cui il presidente della corte di appello, adito ai sensi degli articoli 283 e 351 cod. proc. civ., fissi l’udienza di comparizione delle parti in camera di consiglio ai fini della decisione della richiesta di sospensione della esecutività della sentenza di primo grado.
Cass. civ. Sez. I, 8 marzo 2013, n. 5847 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non ha luogo violazione di legge nell’ipotesi in cui il Giudice di merito assuma una decisione sull’affidamento della prole minore di età e sul divieto del padre di avere contatti con essi, in pendenza del procedimento, attivato dalla madre dinanzi al Tribunale per i Minorenni ex art. 330 c.c. per la decadenza del padre dalla potestà genitoriale. I due procedimenti, invero, sono del tutto autonomi, stante la reciproca autonomia delle attribuzioni del Tribunale per i Minorenni, competente ad assumere i provvedimenti incidenti sulla spettanza della potestà genitoriale e del Tribunale ordinario quale giudice della separazione, competente altresì sulle modalità di esercizio della potestà medesima, anche quando l’affidamento dei figli sia richiesto in ragione dell’esistenza di un grave pregiudizio per i figli minori.
Trib. Genova Sez. IV, 7 marzo 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La domanda di modifica dell’assegno di mantenimento dovuto per la prole, che investe rapporti obbligatori, non è equiparabile alla domanda di separazione e si sottrae alle speciali regole di competenza stabilite sia per il giu¬dizio di separazione, che per il giudizio di divorzio, nell’ambito del quale è invocabile anche il criterio alternativo previsto dall’art. 12 quater della legge n. 898 del 1970 (Divorzio), ossia il luogo ove l’obbligazione deve essere eseguita. Nel giudizio avente ad oggetto la modifica dell’assegno di mantenimento dovuto per i figli, in partico¬lare, in virtù degli artt. 148 e 155 c.c., è pacifica la sussistenza in capo al genitore dell’obbligo di contribuire al mantenimento del minore, obbligo che va specificato nel suo ammontare in ragione dei criteri facoltativi stabiliti dalla norma. Alla luce del criterio generale di cui all’art. 18 c.p.c. o dei criteri facoltativi di cui agli artt. 20 c.p.c. e 12 quater della legge n. 898 del 1970, competente è il Giudice del luogo ove il convenuto ha la residenza o il domicilio, oppure ove è sorta o deve essere eseguita l’obbligazione dedotta in giudizio.
Trib. Milano Sez. IX, 4 marzo 2013 (Corriere del Merito, 2013, 8-9, 835, nota di IANNELLI)
Nel procedimento instaurato per la modifica dell’assegno di mantenimento ai sensi dell’art. 710 c.p.c. è esclusa la competenza del tribunale innanzi al quale sia stata definita la separazione, quale giudice del luogo in cui è sorta l’obbligazione dedotta in giudizio ex art. 20 c.p.c. allorquando nel suo circondario non risieda la parte convenuta.
Cass. civ. Sez. I, 27 febbraio 2013, n. 4945 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di affidamento di minori e di provvedimenti di decadenza dalla potestà genitoriale, il discrimine tra la competenza del Tribunale ordinario e quella del Tribunale per i Minorenni deve essere individuato con riferimento al “petitum” ed alla “causa petendi” in concreto dedotti. Rientrano pertanto nella competenza del giudice specia¬lizzato, ai sensi del combinato disposto dell’art. 330 c.c. e art. 38 disp. att. c.c., soltanto le domande finalizzate ad ottenere i provvedimenti di decadenza dalla potestà genitoriale, mentre rientrano nella competenza del Tribunale ordinario, in sede di separazione personale dei coniugi, le pronunzie di affidamento del minori nonchè le modalità dell’affidamento; nè vale a spostare la competenza presso il Tribunale per i Minorenni l’allegazione di un grave pregiudizio per i figli minori, se tale deduzione non è intesa ad ottenere un provvedimento ablativo della suddetta potestà (cfr., da ultime, Cass. n. 6841 e 20352 del 2011). Sotto altro profilo, l’art. 709 ter c.p.c., stabilisce che competente a decidere in ordine alla soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale è “il giudice del procedimento in corso”, ossia il giudice della separazione giacchè la norma si inserisce tra quelle che disciplinano il procedimento di separazione personale dei coniugi. Analogamente l’art. 755 c.c., sancisce che, in caso di separazione, la potestà genitoriale è affidata ad entrambi i genitori e rimette al giudice della separazione la decisione in caso di disaccordo.Tali norme sono da considerarsi speciali e quindi pre¬valenti rispetto a quella dell’art. 316 c.c., che – attraverso il richiamo contenuto nell’art. 38 disp. att. c.c. – affida al Tribunale per i Minorenni di risolvere le questioni di contrasto di particolare importanza insorte tra i genitori in ordine all’esercizio comune della potestà genitoriale, norma che trova quindi applicazione per le controversie tra coniugi non separati o tra i quali non sia in corso procedimento di separazione. (Cass. 9339/97).
Cass. civ. Sez. VI, 3 gennaio 2013, n. 49 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È inammissibile il regolamento di competenza, ad istanza di parte o d’ufficio, proposto avverso provvedimenti che non abbiano carattere definitivo e decisorio, quali devono ritenersi quelli emessi in sede di volontaria giurisdizione, aventi ad oggetto la limitazione o l’esclusione della potestà genitoriale ex art. 317 bis cod. civ., pure ove pronuncino solo sulla competenza.
Cass. civ. Sez. VI, 11 dicembre 2012, n. 22737 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’ammissibilità del regolamento di competenza, il principio secondo il quale, nelle cause attribuite al tribunale in composizione monocratica, il giudice unico, assommando le funzioni di istruzione e decisione, ove ritenga di emettere una pronuncia definitiva sulla competenza, è tenuto, ai sensi degli artt. 187 e 281-bis cod. proc. civ., ad invitare le parti a precisare le conclusioni, in tal modo scandendo la separazione fra la fase istrut¬toria e quella decisoria, trova applicazione anche quando egli intenda pronunciare sulla litispendenza, sicché, in mancanza dell’invito alla precisazione delle conclusioni, l’ordinanza assunta in tema di litispendenza non esauri¬sce la “potestas iudicandi” sul punto e non è impugnabile con regolamento di competenza.
Cass. civ. Sez. VI, 6 dicembre 2012, n. 22002 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche dopo la L. n. 69 del 2009, che ha introdotto come forma decisionale della sola questione di competenza, l’ordinanza, il coordinamento fra il novellato art. 279 e l’art. 187 c.p.c., comma 3, esige che la decisione sulla sola competenza sia preceduta dall’invito a precisare le conclusioni e se la decisione declinatoria della compe¬tenza viene adottata senza quell’invito si configura come impugnabile con il regolamento (da ultimo Cass. (ord.) n. 10594 del 2012); le parti che si siano viste decidere la questione, già insorta nel processo ai sensi dell’art. 38 c.p.c. senza essere state invitate a precisare le conclusioni, ricevono sicuramente una lesione del diritto di difesa quanto alla possibilità di argomentazione riguardo alla relativa questione in aggiunta a quanto avevano già detto, ma, ove tale pregiudizio non abbia riguardato l’istruzione possibile sulla competenza ai sensi dell’art. 38 c.p.c., u.c., la possibilità di impugnare con il regolamento di competenza, cioè con un apposito rimedio, costitui¬sce garanzia che assolve alla funzione di assicurare l’espletamento della difesa e non giustifica che la violazione della norma del procedimento comporti di per sè l’illegittimità della decisione sulla competenza. Ciò, perchè la statuizione sulla competenza che la Corte di cassazione rende sul regolamento, in quanto avviene previo lo svolgimento della difesa delle parti, sopperisce essa stessa a quanto avrebbe dovuto assolvere la garanzia della precisazione delle conclusioni.
Cass. civ. Sez. VI, 4 dicembre 2012, n. 21750 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di affidamento del figlio naturale, è competente il tribunale per i minorenni del luogo dove si trova la dimora abituale del minore nel momento in cui è stato proposto il ricorso, senza che assuma rilievo la mera residenza anagrafica o eventuali trasferimenti contingenti o temporanei; invero, nella individuazione in concreto del luogo di abituale dimora non può farsi riferimento ad un dato meramente quantitativo, rappresentato dalla prossimità temporale del trasferimento di residenza e dalla maggiore durata del soggiorno in altra città,essendo, invece, necessaria una prognosi sulla probabilità che la “nuova” dimora diventi l’effettivo e stabile centro d’in¬teressi del minore ovvero resti su un piano di verosimile precarietà o sia un mero espediente per sottrarsi alla disciplina della competenza territoriale.
Cass. civ. Sez. VI, 3 dicembre 2012, n. 21655 (Foro It., 2013, 7-8, 1, 2176)
La competenza sulla domanda diretta a determinare il contributo al mantenimento in favore dei figli minori spet¬ta al tribunale ordinario se non è contestuale alla domanda avente ad oggetto l’affidamento promossa innanzi al tribunale per i minorenni.
In tema di affidamento di minori e di provvedimenti di decadenza dalla potestà genitoriale, il discrimine tra la competenza del Tribunale ordinario e quella del Tribunale per i Minorenni deve essere individuato con riferimento al “petitum” ed alla “causa petendi” in concreto dedotti. Rientrano pertanto nella competenza del giudice spe¬cializzato, ai sensi del combinato disposto degli art. 330 c.c. e 38 disp.att.cod.civ., soltanto le domande finaliz¬zate ad ottenere i provvedimenti di decadenza dalla potestà genitoriale, mentre rientrano nella competenza del Tribunale ordinario, in sede di separazione personale dei coniugi, le pronunzie di affidamento del minori nonché le modalità dell’affidamento; né vale a spostare la competenza presso il Tribunale per i Minorenni l’allegazione di un grave pregiudizio per i figli minori, se tale deduzione non è intesa ad ottenere un provvedimento ablativo della suddetta potestà (cfr., da ultime, Cass. n. 6841 e 20352 del 2011). Sotto altro profilo, l’art. 709-ter c.p.c. stabilisce che competente a decidere in ordine alla soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale è “il giudice del procedimento in corso”, ossia il giudice della separazione giacché la norma si inserisce tra quelle che disciplinano il procedimento di separazione personale dei coniugi. Analogamente l’art. 155 c.c. sancisce che, in caso di separazione, la potestà genitoriale è affidata ad entrambi i genitori e rimette al giudice della separazione la decisione in caso di disaccordo. Tali norme sono da considerarsi speciali e quindi prevalenti rispetto a quella dell’art. 316 c.c. che – attraverso il richiamo contenuto nell’art. 38 delle disp.att.c.c – affida al Tribunale per i Minorenni di risolvere le questioni di contrasto di particolare impor¬tanza insorte tra i genitori in ordine all’esercizio comune della potestà genitoriale, norma che trova quindi appli¬cazione per le controversie tra coniugi non separati o tra i quali non sia in corso procedimento di separazione.
Cass. civ. Sez. Unite, 5 ottobre 2012, n. 16956 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 59 della legge n. 69/2009, pur configurando l’istituto della proposizione d’ufficio del conflitto di giurisdizio¬ne, non detta le regole procedurali relative; tale lacuna è colmabile applicando in via analogica la disciplina del conflitto di competenza di cui all’art. 45 c.p.c. e, in particolare, l’art. 47, quarto comma, c.p.c. che dispone la rimessione del fascicolo d’ufficio alla cancelleria della Corte di cassazione con ordinanza che, se pronunciata fuori udienza, dev’essere prima comunicata alle parti a cura del cancelliere del medesimo giudice ai fini della rituale instaurazione del contraddittorio.
Cass. civ. Sez. VI, 7 maggio 2012, n. 6880 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Competente a provvedere sull’istanza di sostituzione dell’amministratore di sostegno è il giudice tutelare del luogo di residenza del beneficiario, ancorché si tratti di luogo diverso da quello che ha radicato la competenza del giudice che ha adottato il decreto di nomina dell’amministratore.
Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 2012, n. 5257 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La disposizione di cui all’art. 38 cod. proc. civ. nel testo di cui all’art. 4 della legge 26 novembre 1990, n. 353 (ed ora nel nuovo testo modificato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 applicabile “ratione temporis”), che ha introdotto una generale barriera temporale alla possibilità di rilevare tutti i tipi di incompetenza, fissandola nella prima udienza di trattazione, deve ritenersi applicabile non soltanto ai processi di cognizione ordinaria, ma anche ai processi di tipo camerale, qualora questi siano utilizzati dal legislatore per la tutela giurisdizionale di diritti.
Cass. civ. Sez. VI, 19 marzo 2012, n. 4345 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La procura conferita per un determinato grado del giudizio di merito, ove non escluda espressamente, o comun¬que in modo inequivocabile, la facoltà di proporre eventualmente istanza di regolamento di competenza, abilita il difensore alla proposizione di detta istanza, prevalendo, sulla presunzione di conferimento della procura per un determinato grado di giudizio, stabilita dall’ultimo comma dell’art. 83 cod. proc. civ. la norma speciale di cui all’art. 47, primo comma, dello stesso codice, con la conseguenza che questa può essere validamente sotto¬scritta dal difensore che rappresenti la parte nel giudizio di merito, ancorchè non iscritto all’albo degli avvocati abilitati al patrocinio davanti alle Magistrature Superiori.
Cass. civ. Sez. III, 2 marzo 2012, n. 3251 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei giudizi promossi successivamente al 1 maggio 1995 trova applicazione il disposto normativo di cui all’art. 38 c.p.c. come risultante per effetto dell’art. 4 della legge n. 353 del 1990. con la conseguenza che l’incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio, nei casi previsti dall’art. 28 c.p.c., sono rilevate anche d’uf¬ficio non oltre la prima udienza di trattazione. Qualora, dunque, non sia stata sollevata entro il predetto termine l’eccezione di incompetenza per materia del tribunale in composizione ordinaria a conoscere della controversia, per essere competente la sezione specializzata agraria, risulta preclusa ogni successiva indagine sul punto.
Cass. civ. Sez. Unite, 13 febbraio 2012, n. 1984 (Riv. Dir. Internaz. Priv. e Proc., 2013, 1, 140)
Secondo l’art. 8 del Regolamento n. 2201/2003, l’unico criterio per stabilire la competenza giurisdizionale di uno Stato membro per le domande relative alla responsabilità genitoriale su un minore è quello della residenza abituale del minore al momento della proposizione della domanda, intendendo come luogo di residenza quello del concreto e continuativo svolgimento della vita personale; non sussiste perciò la giurisdizione italiana qualora il minore risieda all’estero.
In tema di giurisdizione sui provvedimenti “de potestate”, l’art. 8 del Regolamento (CE) del 27 novembre 2003, n. 2201 dà rilievo, al fine di stabilire la competenza giurisdizionale di uno stato membro, unicamente al criterio della residenza abituale del minore al momento della proposizione della domanda, intendendo come tale il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale e non quello risultante da un calcolo puramente aritmetico del vissuto.
Trib. Salerno Sez. I, 9 febbraio 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Tra la domanda di separazione personale dei coniugi e le domande di divisione di beni, che non consistono nella previsione di un assegno di mantenimento del coniuge ex art. 156 c.c. o per i figli ex art. 155 c.c. non è configu¬rabile una connessione qualificata ex art. 40, comma 3, c.p.c. e dunque va esclusa la possibilità del simultaneus processus e va dichiarata di conseguenza l”inammissibilità delle domande a rito ordinario.
Cass. civ. Sez. Unite, 30 dicembre 2011, n. 30646 (Riv. Dir. Internaz. Priv. e Proc., 2013, 1, 126)
La giurisdizione sulle domande relative all’affidamento dei figli ed al loro mantenimento, ove pure proposte congiuntamente a quella di separazione giudiziale, appartiene al giudice del luogo in cui il minore risiede abi¬tualmente, a norma dell’art. 8 del Regolamento n. 2201/2003 del Consiglio del 27 novembre 2003. Tale crite¬rio, informato all’interesse superiore del minore e, segnatamente, al criterio della vicinanza, riveste una tale pregnanza, da condurre ad escludere che il consenso del genitore alla proroga della giurisdizione quanto alle domande concernenti i minori – pur ammessa dall’art. 12 del citato regolamento, in presenza del consenso di entrambi i coniugi – sia ravvisabile dalla mancata contestazione giurisdizione da parte di un coniuge con riguardo alla domanda di separazione.
Ai sensi degli artt. 3 comma 1 lett. b e 8 del Regolamento n. 2201 del 2003 in una controversia di separazione personale sussiste la giurisdizione italiana in base alla comune cittadinanza dei coniugi, mentre essa non sussiste – bensì sussista quella inglese – riguardo all’affidamento dei figli, in quanto questi ultimi sono residenti nel Regno Unito né è stata accettata la giurisdizione italiana ex art. 12, comma 1.
Cass. civ. Sez. VI, 13 dicembre 2011, n. 26814 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La domanda proposta da uno dei due genitori coniugati nei confronti dell’altro, ai sensi dell’art. 148, secondo comma, cod. civ. avente ad oggetto la condanna alla corresponsione di un assegno di mantenimento per la figlia minore, è di competenza esclusiva del tribunale ordinario, ai sensi dell’art. 38 disp. att. cod. civ., anche quando sia connessa a quella di affidamento, essendo dirimente, ai fini del radicamento della competenza, lo “status” di figlia legittima della minore e il rapporto di “coniugio” tra le parti, dovendo peraltro nella specie farsi applicazione dell’art. 155 cod. civ., pur in assenza di un provvedimento di separazione giudiziale, non essendo ipotizzabile alcuna carenza di tutela nelle situazioni di conflitto proprie di una separazione di mero fatto. (Regola competenza d’ufficio)
Cass. civ. Sez. III, 27 ottobre 2011, n. 22485 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il d.m. di approvazione della tariffa forense, avendo natura di fonte regolamentare così come desumibile dalla legge 7 novembre 1957, n. 1051 di attribuzione della competenza al Consiglio Nazionale Forense, deve essere interpretato alla luce dei parametri e all’interno dei limiti stabiliti dalla legge 13 giugno 1942, n. 794 che esclu¬dono il riconoscimento dei diritti di procuratore per qualsiasi giudizio di cassazione compreso il regolamento di competenza, nonostante l’istanza possa essere proposta anche da un avvocato non iscritto nell’albo speciale dei cassazionisti.
Cass. civ. Sez. VI, 5 ottobre 2011, n. 20352 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La controversia relativa alla modifica delle condizioni della separazione (e del divorzio), nel cui giudizio sia chie¬sto l’affidamento esclusivo dei figli minori, appartiene all’esclusiva competenza del tribunale ordinario, anche quando la domanda, come nella specie, sia giustificata dall’esistenza di un grave pregiudizio per i figli minori, non essendo tale allegazione idonea a spostarne la competenza presso il tribunale dei minorenni.
Cass. civ. Sez. VI, 16 settembre 2011, n. 19017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Qualora non ricorra il requisito della volontarietà dello spostamento della dimora abituale o del domicilio del soggetto destinatario dell’amministrazione di sostegno, la competenza a decidere della revoca e della nomina di un nuovo amministratore di sostegno, ai sensi dell’art. 404 cod. civ., spetta al giudice della circoscrizione nella quale l’amministrazione era stata aperta e la prima nomina effettuata, non rilevando il luogo ove il beneficiario sia stato di fatto trasferito. (Nella specie la S.C. ha rilevato che nessun mutamento di residenza o domicilio, effetto di volontaria scelta del sostenuto, poteva ritenersi sussistente a seguito dell’acclarata sottrazione dello stesso dall’istituto nel quale era ricoverato).
Cass. civ. Sez. VI, 4 agosto 2011, n. 16957 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’individuazione del tribunale competente per territorio sulla domanda di separazione personale dei coniugi, tale luogo deve essere identificato con l’ultima residenza comune dei coniugi, non potendosi ricorrere al foro subordinato della residenza o del domicilio della parte convenuta, sulla base di una applicazione estensiva della sentenza 23 maggio 2008, n.169 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.4, primo comma, della legge 1 dicembre 1970, n.898 – nel testo sostituito dall’art.2, comma 3-bis, d.l. 14 marzo 2005, n.35, convertito con emendamenti, in legge 14 maggio 2005, n.80 – limitatamente alle parole “del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi ovvero in mancanza”, per manifesta irragionevolezza, data la normale cessazione della convivenza, secondo l’”id quod plerumque accidit”; non è invero ammissibile esten¬dere ad altre norme una pronunzia di illegittimità costituzionale riferita ad una specifica disposizione, essendo semmai necessario sollevare questione di costituzionalità dell’art.706 cod.proc.civ., nella parte in cui impone come criterio principale di collegamento l’ultima residenza comune dei coniugi e, solo nell’ipotesi in cui mai vi sia stata convivenza, il foro subordinato della residenza o del domicilio della parte convenuta; nè peraltro sembra sussistere il predetto dubbio di legittimità, stante la diversità di situazioni, dei coniugi in procinto di separarsi, rispetto a coniugi già separati da tempo e parti nel giudizio di cessazione degli effetti civili nel matrimonio.
Cass. civ. Sez. Unite, 2 agosto 2011, n. 16864 (Famiglia e Diritto, 2012, 1, 29, nota di LIUZZI)
In tema di giurisdizione sui provvedimenti “de potestate”, l’art. 1 della Convenzione dell’Aja dà rilievo unica¬mente al criterio della residenza abituale del minore, quale determinata in base alla situazione di fatto esistente all’atto dell’introduzione del giudizio, non consentendo, quindi il mutamento della competenza, in ossequio al diverso principio di “prossimità”, poiché questo è evocabile solo in tema di competenza interna; pertanto, in caso di trasferimento di un minore (nella specie dalla Svizzera all’Italia) permane la giurisdizione del giudice di residenza abituale, ancorché l’autorità giudiziaria adita a seguito del trasferimento abbia emesso provvedimenti interinali per ragioni d’urgenza.
Trib. Nocera Inferiore Sez. II, 21 luglio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza per territorio nelle cause ereditarie va stabilita ex art. 22 c.p.c. e art. 455 c.p.c. con riferi¬mento al luogo di apertura della successione, che coincide con quello in cui il “de cuius” aveva al momento della morte l’ultimo domicilio, intendendosi con tale locuzione la relazione tra la persona ed il luogo che essa ha scelto come centro dei propri affari ed interessi, indipendentemente dalla dimora o dalla presenza effettiva del de cuius in detto luogo.
Trib. Bologna Sez. I, 18 luglio 2011 (Fam. Pers. Succ., 2012, 2, 150)
La residenza comune della famiglia, idonea a radicare la competenza territoriale nel giudizio di separazione (art. 706, co. 1, c.p.c.), va individuata nel luogo in cui i coniugi, residenti in regioni diverse per motivi di lavoro, di comune accordo e in previsione della nascita del figlio hanno allestito un’abitazione destinata alla madre e al bambino e in cui il marito si è recato a visitare moglie e figlio, trattandosi del luogo in cui, sia pure per pochi mesi, si è realizzato il progetto di vita familiare.
Cass. civ. Sez. III, 7 luglio 2011, n. 15061 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il d.m. di approvazione della tariffa forense, avendo natura di fonte regolamentare, così come desumibile dalla legge n. 1051 del 1957 di attribuzione della relativa competenza al Consiglio Nazionale Forense, deve essere interpretato alla luce dei parametri e all’interno dei limiti stabiliti dalla legge n. 794 del 1942 che escludono il riconoscimento dei diritti di procuratore per qualsiasi giudizio di Cassazione compreso il regolamento di com¬petenza, nonostante l’istanza possa essere proposta anche da un avvocato non iscritto nell’albo speciale dei cassazionisti.Cass. civ. Sez. VI, 16 giugno 2011, n. 13202
La formulazione dell’eccezione d’incompetenza territoriale derogabile, ai fini della sua ammissibilità, deve esse¬re svolta, con l’indicazione di tutti i fori concorrenti, ovvero per le persone fisiche, con riferimento, oltre ai fori speciali ai sensi dell’art. 20 cod. proc. civ., anche a quelli generali, stabiliti nell’art. 18 cod. proc. civ. e, per le persone giuridiche, con riferimento ai criteri di collegamento indicati nell’art. 19, primo comma, cod. proc. civ. L’incompletezza della formulazione dell’eccezione è controllabile anche d’ufficio dalla corte di Cassazione in sede di regolamento di competenza.
Cass. civ. Sez. I, 27 aprile 2011, n. 9373 (Famiglia e Diritto, 2011, 10, 877, nota di TOMMASEO)
L’art. 23 della legge n. 74/1987 estende ai giudizi di separazione personale, in quanto compatibili, le norme dell’art. 4 della legge sul divorzio che regolano i relativi giudizi: rimangono pertanto estranei dall’àmbito di appli¬cazione dell’art. 23 la disciplina dei procedimenti di revisione sia del regime del divorzio sia delle condizioni della separazione, sicché è da ritenersi che i decreti camerali pronunciati nei giudizi di revisione non siano immediata¬mente esecutivi poiché acquistano efficacia secondo le speciali regole di cui all’art. 741 c.p.c.
Cass. civ. Sez. I, 24 marzo 2011, n. 6841 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di affidamento di minori e di provvedimenti di decadenza dalla potestà genitoriale, dovendo il discrimine tra la competenza del tribunale ordinario e quella del tribunale per i minorenni essere individuato in riferimento al “petitum” ed alla “causa petendi”, rientrano nella competenza del tribunale per i minorenni, ai sensi del combi¬nato disposto degli art. 330 cod. civ. e 38 disp. att. cod. civ., le domande finalizzate ad ottenere i provvedimenti di decadenza dalla potestà genitoriale, mentre rientrano nella competenza del tribunale ordinario, in sede di separazione personale dei coniugi, le pronunzie di affidamento dei minori che mirino solo ad individuare quale dei due genitori sia più idoneo a prendersi cura del figlio, senza che in relazione a tale ripartizione abbia rilevanza il nuovo disposto dell’art. 155 cod. civ. sull’affido condiviso, in quanto l’affidamento della prole di minore età, in ordine al quale è competente il tribunale ordinario quale giudice della separazione sulla base di detto articolo, non incide sulla spettanza della potestà ad entrambi i genitori, ma, secondo l’espressa disposizione di cui all’art. 317, comma 2, cod. civ. interferisce soltanto sulle modalità di esercizio della potestà medesima.
App. Napoli, 10 marzo 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio di separazione tra i coniugi non possono essere proposte né la domanda di divisione né quella di ac¬certamento di proprietà comune, trattandosi di domande che non hanno alcuna connessione tra loro e che sono soggette a rito differente. Ne consegue l’inammissibilità delle predette domande per diversità del rito da quello esperito per la separazione coniugale.
Trib. Cassino, 19 aprile 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La trattazione congiunta di cause soggette a riti differenti può attuarsi, soltanto se tra tali cause sussista un vincolo di connessione, ai sensi degli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c. Ne consegue che non è possibile il cumulo in un unico processo della domanda di separazione, soggetta al rito camerale, e di quelle di accertamento della comproprietà della casa coniugale e di divisione della casa coniugale, soggette a rito ordinario, trattandosi di domande non legate da vincoli di connessione, ma autonome e distinte l’una dall’altra.
Cass. civ. Sez. Unite, 17 febbraio 2010, n. 3680 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudizio di separazione personale tra coniugi, cittadini di due diversi Stati membri dell’Unione Europea, può es¬sere validamente instaurato nella residenza abituale della parte attrice, così come previsto nell’art. 3, n. 1, lett. a), del Regolamento CE n. 2201 del 2003, anche se la domanda non sia proposta congiuntamente da entrambi i coniugi, in quanto tale criterio di collegamento è previsto in via alternativa sia in caso di domanda congiunta sia in caso di domanda proposta da una sola parte, in presenza (come nella specie) di una durata almeno annuale della residenza abituale dell’attore prima della proposizione della domanda. (Regola giurisdizione)
Trib. Salerno Sez. II, 11 febbraio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La causa avente ad oggetto la domanda di riduzione per lesione di legittima rientra tra quelle ereditarie giacché, in tema di competenza territoriale, per cause tra coeredi, che l’art. 22, co. l n. l, c.p.c. devolve al giudice del luo¬go in cui si è aperta la successione, debbono intendersi non soltanto le controversie che riguardino diritti caduti in successione, ma ogni causa avente un oggetto attinente alla qualità di erede, per la quale la legittimazione attiva o passiva delle parti discenda necessariamente da tale condizione.
Trib. Minorenni Brescia, 9 febbraio 2010 (Famiglia e Diritto, 2010, 7, 719, nota di SPACCAPELO)
La tutela della prole rispetto a condotte pregiudizievoli dei genitori non costituisce ragione esclusiva per la necessaria applicabilità del disposto di cui all’art. 333 c.c. e ss. e, conseguentemente, per la sussistenza della competenza del tribunale dei minori; infatti, l’obiettivo di realizzare l’interesse materiale e morale della prole ha valenza prioritaria in tutti gli interventi che il giudice è chiamato nelle diverse sedi a disporre, interventi che ben possono, se necessario, incidere anche sulle modalità dell’esercizio della potestà parentale (nel caso di specie gli atti venivano trasmessi d’ufficio dal tribunale ordinario, ritenutosi incompetente in relazione alla modifica delle condizioni previste in sede di separazione riguardanti il minore, al tribunale dei minorenni, il quale, reputatosi a sua volta incompetente, sollevava conflitto di competenza e chiedeva il relativo regolamento d’ufficio, asserendo che quest’ultimo può essere proposto anche quanto il provvedimento con cui è stata declinata la competenza non è seguito da riassunzione ai sensi ell’art. 50 c.p.c.
Trib. Trieste, 26 gennaio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La domanda di modificazione dell’assegno alimentare o di mantenimento, che venga proposta, ai sensi degli artt. 710 e 711 cod. proc. civ. da uno dei coniugi separati in base a sentenza o verbale di separazione consensuale omologato, è soggetta ai normali criteri di competenza per valore e per territorio e, quindi, con riguardo alla competenza per territorio, anche al foro concorrente del luogo dell’esecuzione dell’obbligazione, da identificarsi con il domicilio dell’avente diritto.
Trib. Rimini, 25 gennaio 2010 (Fam. Pers. Succ., 2010, 4, 311)
In caso di trasferimento della residenza del minore attuato da uno solo dei genitori coaffidatari nonostante il dissenso, espresso o tacito, dell’altro, ai sensi del combinato disposto degli artt. 710 e 709-ter, co. 1, c.p.c., la competenza territoriale inderogabile spetta al tribunale del luogo della pregressa residenza abituale del minore (ossia a quello che avrebbe dovuto risolvere in via preventiva il conflitto), qualora il ricorso per la modifica delle condizioni di separazione sia presentato entro un arco temporale variabile ma orientativamente compreso tra un minimo di tre mesi ed un massimo di un anno, considerati i criteri di cui agli artt. 9 e 10,Regolamento n. 2201/2003/CE (nel caso di specie, il tribunale, sul ricorso della madre, ha dichiarato la propria incompetenza territoriale nonché la litispendenza, in relazione al giudizio già promosso dal padre davanti al tribunale di Bologna subito dopo il mutamento di residenza attuato in via di fatto dall’altro genitore).
Trib. Napoli, 29 ottobre 2009 (Corriere del Merito, 2009, 12, 1187)
Nei giudizi di separazione giudiziale dei coniugi deve escludersi la competenza per territorio del Tribunale ove i coniugi hanno avuto l’ultima residenza comune, qualora- al momento della proposizione della domanda – non convivono già più, e risiedono nei circondari di diversi tribunali, trovando in tal caso applicazione la generale prescrizione della competenza dell’ufficio giudiziario del luogo di residenza del convenuto (nella specie questi risiedeva ormai in Comune nel circondario del Tribunale di Torre Annunziata).
Cass. civ. Sez. Unite, 21 ottobre 2009, n. 22238 (Foro It., 2010, 3, 1, 903)
È ammissibile il ricorso per cassazione avverso il decreto emesso dalla corte d’appello sui reclami contro i provvedimenti del tribunale sulle istanze di modifica di disposizioni accessorie della separazione.
In tema di riparto di giurisdizione tra autorità di stati diversi in ambito Ue, le controversie in materia di affida¬mento e di determinazione delle modalità di visita sono devolute al giudice del luogo di residenza abituale del minore e, in caso di lecito trasferimento del minore e per un periodo di tre mesi dal momento in cui quest’ultimo è avvenuto, al giudice del luogo nel quale il minore aveva la residenza abituale prima del trasferimento stesso.
Trib. Roma Sez. I, 15 settembre 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito di un giudizio di separazione giudiziale, la domanda di divisione della casa è inammissibile non es¬sendo configurabile tra tale domanda e quella di cessazione degli effetti civili del matrimonio alcuna forma di connessione, essendo le rispettive causae petendi del tutto diverse, autonome e distinte, così come parimenti diverso ne è l’oggetto.
Trib. Bari Sez. II, 6 maggio 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La determinazione della competenza per territorio nelle cause ereditarie va stabilita (artt. 22 c.p.c. e art. 456 c.c.) con riferimento al luogo in cui il de cuius aveva al momento della morte l’ultimo domicilio, intendendosi con tate locuzione il luogo ove la persona, alla cui volontà occorre avere principalmente riguardo, concentra la generalità dei suoi interessi sia materiali ed economici, sia morali, sociali e familiari. Dunque in tema di eccezione di incompetenza per territorio, il principio della necessità di contestazione di tutti i fori alternativamente concor¬renti non opera in presenza di un foro esclusivo, quale è quello stabilito dall’art. 22 c.p.c. per le cause ereditarie.
Trib. Napoli, 23 febbraio 2009 (Famiglia e Diritto, 2009, 6, 642)
Posto che per i procedimenti di cui all’art. 710 c.p.c. è competente il Tribunale del luogo di residenza dei minori, quest’ultimo non va inteso in senso meramente anagrafico, quanto, piuttosto come il luogo ove concretamente e stabilmente si svolge la vita del minore (nella specie il Tribunale ha dichiarato la propria incompetenza, in quanto al momento della proposizione della domanda di modifica dell’affidamento di un minore proposta dal padre, la madre si era già trasferita per lavoro a Roma, con il minore, che ivi aveva iscritto a scuola, con ciò dovendosi ritenere provato il carattere non provvisorio del trasferimento).
Cass. civ. Sez. I, 8 gennaio 2009, n. 135 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché, a norma dell’art. 47, secondo comma, cod. proc. civ. il ricorso per regolamento di competenza deve essere proposto entro trenta giorni dalla comunicazione della sentenza che abbia deciso sulla competenza, qua¬lora dagli atti non risulti che tale comunicazione sia avvenuta, il predetto termine per impugnare decorre dalla notificazione della sentenza. (Fattispecie relativa ad un ricorso per cassazione di cui si era postulata, in astratto, la convertibilità in regolamento di competenza, di cui però non possedeva i necessari requisiti).
Cass. civ. Sez. III, 18 dicembre 2008, n. 29577 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il d.m. di approvazione della tariffa forense, avendo natura di fonte regolamentare così come desumibile dalla legge di attribuzione della competenza al Consiglio Nazionale Forense, n. 1051 del 1957, deve essere interpre¬tata alla luce dei parametri e all’interno dei limiti stabiliti dalla legge n. 794 del 1942 che escludono il ricono¬scimento dei diritti di procuratore per qualsiasi giudizio di Cassazione compreso il regolamento di competenza, nonostante l’istanza possa essere proposta anche da un avvocato non iscritto nell’albo speciale dei cassazionisti.
Cass. civ. Sez. Unite, 9 dicembre 2008, n. 28875 (Famiglia e Diritto, 2009, 7, 701, nota di SALVANESCHI)
In tema di competenza territoriale nei procedimenti di affidamento eterofamiliare di minori, qualora il provvedi¬mento iniziale di affidamento, di regola soggetto a durata non superiore ai ventiquattro mesi, necessiti di essere seguito da un’ulteriore proroga o, viceversa, da una cessazione anticipata, queste ultime vicende integrano provvedimenti camerali nuovi, per i quali il principio della “perpetuatio” deve essere temperato con quello di prossimità, sicché il giudice competente per territorio deve essere individuato nel tribunale per i minorenni del luogo in cui il minore legittimamente si trova, in tal modo dando rilievo ad eventuali sopravvenuti cambiamenti di residenza (nella specie, le S.U. hanno dichiarato la competenza del tribunale per i minorenni del distretto ove risiedeva la famiglia cui il minore era stato affidato con provvedimento di un altro tribunale per i minorenni, nel cui distretto originariamente il minore risiedeva con la propria madre).
App. Potenza, 11 novembre 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In ragione dell’avvenuta soppressione dell’ufficio del pretore, con la conseguente abrogazione dell’art. 8 c.p.c. ad opera dell’art. 49 del D.Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, e l’istituzione del giudice unico di primo grado, la ripartizio¬ne degli affari tra il Giudice del Lavoro ed altro Giudice del medesimo Tribunale non configura più una questione di competenza per materia, bensì di ripartizione di affari all’interno dello stesso ufficio, rilevante sotto il profilo squisitamente tabellare. L’adozione del rito delle controversie di lavoro, in luogo di quello ordinario, non pone un problema di competenza, ma solo di, eventuale, violazione di altre norme processuali che abbia inciso sul con¬traddittorio o sull’esercizio del diritto di difesa o cagionato, in generale, un qualsivoglia altro specifico pregiudizio processuale alla parte, violazione, nel caso in questione, non denunciata.
Trib. Cassino, 21 ottobre 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La trattazione congiunta di cause soggette a riti differenti può attuarsi, secondo le regole di cui all’ art. 40 c.p.c. nel testo modificato dalla legge n. 353 del 1990 soltanto se tali cause siano connesse ai sensi degli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c. Ciò posto, non è possibile il cumulo in un unico processo della domanda di divorzio, soggetta al rito camerale, e di quella di divisione dei beni comuni, soggetta a rito ordinario, trattandosi di domande non lega¬te da vincoli di connessione, ma autonome e distinte l’una dall’altra. Nel caso in oggetto, pertanto, pronunciatasi la separazione personale tra i coniugi, non può darsi seguito alla domanda di scioglimento della comunione legale dei beni comuni proposta dal ricorrente, in quanto domanda in questa sede inammissibile.
Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2008, n. 24907 (Foro It., 2009, 3, 1, 836)
In sede di separazione dei coniugi, il tribunale ordinario – qualora sia accertata l’inidoneità di entrambi i genitori – può affidare i figli minori, nell’interesse degli stessi, ai servizi sociali territorialmente competenti (nella specie, i minori sono stati collocati presso l’abitazione coniugale assegnata alla moglie).
Cass. civ. Sez. I, 5 settembre 2008, n. 22394 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai giudizi di modifica delle condizioni economiche stabilite nella separazione, si applicano gli ordinari criteri di competenza e, quindi, oltre al foro generale delle persone fisiche, è competente anche il foro concorrente relativo alle obbligazioni; pertanto, sussiste la competenza del tribunale che ha pronunziato o ha omologato la separa¬zione, nel cui circondario sono sorte le obbligazioni di cui si tratta.
Trib. Cassino, 24 lugllio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di connessione, posto che secondo le regole dettate dall’art. 40 c.p.c. – come modificato dalla legge n. 353/1990 – la trattazione congiunte di cause soggette a riti diversi è ammissibile solo in presenza di ipotesi qualificate di connessione e dunque solo se tali cause siano connesse ai sensi degli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c., ne deriva che non è possibile procedere alla trattazione congiunta della domanda di divorzio, soggetta al rito camerale, e della domanda di divisione dei beni comuni, soggetta a rito ordinario, in quanto trattasi di domande non connesse, bensì distinte ed autonome l’una dall’altra.
Trib. Napoli, 4 giugno 2008 (Corriere del Merito, 2008, 8-9, 898)
In tema di separazione giudiziale dei coniugi, la competenza per territorio è determinata dal luogo ove i coniugi avevano l’ultima residenza comune, da intendersi non come residenza meramente anagrafica, ma effettiva, come luogo (la casa coniugale) ove i coniugi hanno effettivamente vissuto.
Corte cost. 23 maggio 2008, n. 169 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 4, comma 1, della legge n. 898 del 1970, nel testo sostituito dall’art. 2, comma 3-bis, del D.L. n. 35 del 2005, inserito dalla legge di conversione, L. n. 80 del 2005, limitatamente alle parole “del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza”. La previsione, tra i criteri di competenza per territorio applicabili ai procedimenti concernenti lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, di quello del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi, è manifestamente irragionevole ove si consideri che negli indicati procedimenti, nella maggioranza delle ipotesi, la residenza comune è cessata, quanto meno dal momento in cui i coniugi, in occasione della domanda di separazione – giudiziale consensua¬le – sono stati autorizzati a vivere separatamente, sicché non è ravvisabile alcun collegamento fra i coniugi e il tribunale individuato dalla norma.
Cass. civ. Sez. Unite , 12 maggio 2008, n. 11657 (Corriere Giur., 2008, 9, 1218, nota di GRECO DE PASCALIS)
In applicazione degli artt. 38, secondo comma, 166, 171, secondo comma e 167, secondo comma, cod.proc. civ. (quest’ultimo nel testo vigente a decorrere dal 22 giugno 1995 e fino all’entrata in vigore, in data 1 mar¬zo 2006, delle modifiche introdotte con il decreto legge n. 35 del 14 marzo 2005, conv. con mod. nella legge 14 maggio 2005, n. 80), l’eccezione di incompetenza per territorio derogabile è formulata tempestivamente nella comparsa di costituzione, anche se essa è depositata con la costituzione del convenuto “fino alla prima udienza”, mentre, successivamente alla entrata in vigore del decreto legge n. 35 del 2005, l’eccezione è tem¬pestivamente proposta soltanto se contenuta nella comparsa di risposta depositata almeno venti giorni prima dell’udienza di comparizione.
Trib. Trento, 18 aprile 2008 (Fam. Pers. Succ., 2008, 6, 556)
Il luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi, costituente il foro principale nelle cause di separazione exart. 706 c.p.c., si individua in base alle risultanze anagrafiche che però assumono un valore meramente presuntivo e possono essere superate da elementi effettivi comprovanti in modo univoco una diversa collocazione del centro vitale del nucleo familiare (nella specie, l’eccezione di incompetenza territoriale è stata respinta: ad avviso del Tribunale è mancata la prova che il ricorrente, padre di un figlio minorenne, avesse seguito il resto della famiglia trasferitosi in altra regione anni prima della proposizione della domanda).
Cass. civ. Sez. I, 5 febbraio 2008, n. 2756 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il decreto emesso dalla Corte d’appello, in sede di reclamo, avverso il decreto del tribunale per i minorenni che ha disposto l’affido di un figlio minore ai servizi sociali, non è impugnabile col ricorso ordinario per cassazione ai sensi dell’art. 739 cod. proc. civ. e, non essendo stato adottato per decidere un contrasto tra contrapposti diritti soggettivi, bensì allo scopo esclusivo di tutelare l’interesse del minore, neppure col ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost. in quanto privo dei caratteri di decisorietà e definitività; né assume alcun rilievo il fatto che col ricorso sia stata denunciata anche la violazione di una norma sulla competenza, poiché la pronuncia sull’osservanza delle norme processuali ha necessariamente la medesima natura dell’atto giurisdizionale cui il processo è preordinato.
Trib. Bologna, 25 ottobre 2007 (Fam. Pers. Succ., 2008, 2, 172)
Va respinta l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata nel giudizio di separazione personale dei coniugi quando la nuova disciplina processuale vigente al tempo della decisione radichi la competenza del giudice adito (nella specie, la domanda di separazione era stata proposta non al tribunale del luogo in cui il coniuge convenuto ha la residenza o il domicilio, ma a quello del luogo dell’ultimaresidenza comune dei coniugi: la competenza è stata affermata in base al novellato art. 706, co. 1, c.p.c., pur trattandosi di causa già pendente alla data del 1.3.2006).
Cass. civ. Sez. III, 6 settembre 2007, n. 18795 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 47, comma quarto, cod. proc. civ. dispone che il regolamento di competenza d’ufficio sia richiesto con ordinanza, senza dettare alcuna precisazione sui requisiti di contenuto che tale provvedimento deve avere. Ne discende che tali requisiti vanno mutuati dall’art. 134 cod. proc. civ. e, pertanto, ai sensi del primo inciso di tale norma, è da ritenere che l’ordinanza debba essere motivata. In mancanza della motivazione, che – giusta la previsione dell’art. 45 cod. proc. civ., che indica come presupposto dell’elevazione del conflitto che il giudice della riassunzione ritenga a sua volta di essere incompetente, comporta l’indicazione delle ragioni di dissenso dall’altro giudice – l’ordinanza deve reputarsi inidonea ad assolvere allo scopo cui è diretta, cioè quello di inve¬stire la Corte di Cassazione delle ragioni giustificative dell’elevato conflitto. In analogia con quanto l’ordinamento prevede rispetto al ricorso per cassazione ( art. 366 cod. proc. civ.) e, di riflesso, con gli opportuni adattamenti, anche rispetto al regolamento di competenza su istanza di parte, la mancanza dei requisiti di contenuto ridonda in ragione di inammissibilità dell’istanza, dovendosi escludere che, per la forza di tale analogia, sia possibile disporre una rinnovazione dell’istanza ai sensi dell’art. 162, primo comma, cod. proc. civ.
Trib. Modena, 15 maggio 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio di divorzio, la domanda riconvenzionale con cui il coniuge convenuto chieda l’accertamento della esistenza della azienda o dell’impresa coniugale (con conseguente divisione della comunione o rimessione della causa al giudice del lavoro), determina un insieme di causae petendi autonome, eterogenee e configgenti con il rito speciale e ad oggetto vincolato instaurato, dando luogo ad un cumulo di domande che, prescindendo da qualunque forma di connessione qualificata – e rappresentandone invece una di natura esclusivamente sogget¬tiva e semplice -, non può che condurre alla reiezione, in forma di pronunzia di improponibilità, della domanda riconvenzionale stessa.
Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2007, n. 8362 (Famiglia e Diritto, 2007, 5, 446, nota di TOMMASEO)
La legge n. 54 del 2006 in materia di separazione dei genitori e affido condiviso della prole, applicabile anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, ha riplasmato l’art. 317-bis c.c., il quale, innovato nel suo contenuto precettivo, continua tuttavia a rappresentare lo statuto normativo della potestà del genitore naturale e dell’affidamento del figlio nella crisi dell’unione di fatto, sicché la competenza ad adottare i provvedimenti nell’interesse del figlio naturale spetta al tribunale per i minorenni, in forza dell’art. 38, comma 1, disp. att. c.c. La contestualità delle misure relative all’esercizio della potestà e all’affido del figlio, da un lato, e di quelle economiche inerenti al loro mantenimento, dall’altro, prefigurata dai novellati artt. 155 c.c. e ss., ha peraltro determinato un’attrazione, in capo allo stesso giudice specializzato, della competenza a provvedere, altresì, sulla misura e sul modo con cui ciascuno dei genitori naturali deve contribuire al mantenimento del figlio.
Cass. civ. Sez. I, 12 ottobre 2006, n. 21916 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In base al combinato disposto degli artt. 31 disp. att. cod. civ. e 44 cod. civ., ai fini dell’opponibilità ai terzi di buona fede del trasferimento di residenza di una persona fisica è necessaria la denuncia di quest’ultima sia al comune di provenienza che a quello di arrivo, ma non è prescritto che tale doppia dichiarazione debba essere effettuata con distinti atti, poiché, al contrario, gli artt. 13, comma 2, e 18, comma 1, d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 (recante approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente) – con i quali le predet¬te norme codicistiche devono essere coordinate – stabiliscono che siffatte dichiarazioni, da redigersi utilizzando un “modello conforme all’apposito esemplare predisposto dall’Istituto centrale di statistica”, devono essere tra¬smesse, entro venti giorni, dall’ufficiale di anagrafe che le ha ricevute “al comune di precedente iscrizione ana¬grafica per la corrispondente cancellazione”, restando così previsto che la doppia dichiarazione di trasferimento di residenza sia effettuata mediante un unico documento destinato sia al comune che si abbandona che a quello di nuova residenza, il quale è specificamente incaricato di trasmettere il documento stesso anche al comune della precedente residenza. (Nella fattispecie la S.C. ha quindi ritenuto, ai fini della competenza territoriale in causa di separazione tra coniugi, opponibile all’attore il cambio di residenza del convenuto eseguito in base a rituale dichiarazione consegnata al solo comune di nuova residenza)
Cass. civ. Sez. I, 22 agosto 2006, n. 18240 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza in ordine alla controversia avente ad oggetto l’adempimento delle obbligazioni assunte dal co¬niuge in sede di separazione consensuale circa il pagamento delle spese straordinarie relative ai figli sostenute dal coniuge affidatario, va determinata in ragione del valore della causa secondo i criteri ordinari, trattandosi di controversia diversa da quella concernente la modifica delle condizioni della separazione, rientrante nella com-petenza funzionale del tribunale.
Cass. civ. Sez. I., 28 luglio 2006, n. 17234 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il provvedimento adottato, in esito a procedimento camerale, ai sensi dell’art. 739 cod. proc. civ. dal Tribunale, a seguito di reclamo, in materia di richiesta di compenso e di rimborso spese avanzata da un tutore, ha natura decisoria, in quanto, riguardando pretesi crediti discendenti dalla funzione tutoria, statuisce su diritti soggettivi, ed ha attitudine ad acquistare autorità di cosa giudicata nel rapporto tra l’interdetto e il tutore. Ne consegue che nei confronti di detto provvedimento è ammissibile il regolamento di competenza.
Cass. civ. Sez. III, 21 luglio 2006, n. 16752 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche al regolamento di competenza è applicabile il principio della cosiddetta “autosufficienza” del ricorso per cassazione, avendo la parte istante l’onere di indicare, in tale sede, in modo adeguato e specifico le ra¬gioni del proprio dissenso rispetto alla decisione impugnata, non potendo invero limitarsi a fare riferimento alle stesse difese svolte in sede di merito, asseritamente non valutate o scorrettamente valutate dal giudice “a quo”, ma dovendo eventualmente trascrivere in ricorso il loro contenuto, allo scopo di porre la Corte di cassazione nelle condizioni di apprezzarne la rilevanza e pertinenza ai fini del decidere, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti estranee allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito.
Cass. civ. Sez. I, 28 giugno 2006, n. 15017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al fine della determinazione del tribunale competente per territorio sulla domanda di separazione personale dei coniugi alla stregua del criterio “del luogo di residenza del coniuge convenuto al momento della proposizione della domanda” (art. 8 della legge n. 74 del 1987, applicabile alle separazioni ex art. 23 della stessa legge, e già art. 706 cod. proc. civ.) – da ritenersi coincidente con il momento del deposito del ricorso – , tale luogo deve essere identificato, in via presuntiva, nella casa coniugale. La presunzione può essere vinta dal convenuto mediante la prova, a suo carico, dell’avvenuto trasferimento in altro luogo della residenza effettiva e della co¬noscibilità legale di tale trasferimento dalla parte attrice in forza delle risultanze anagrafiche, ovvero della sua conoscenza di fatto.
App. Napoli Sez. II, 23 maggio 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza della Corte di Appello a pronunciare sulla domanda di delibazione della sentenza del Tribunale Ecclesiastico dichiarativa della nullità di un matrimonio concordatario, si determina con riferimento alla circoscri¬zione del Tribunale cui appartiene il Comune presso il quale fu trascritto l’atto di matrimonio che si identifica, ai sensi dell’art. 8 della L. n. 121/1985 nel Comune in cui il matrimonio stesso fu celebrato.
Trib. Minorenni Milano, 12 maggio 2006 (Fam. Pers. Succ., 2006, 10, 847)
Dopo la riforma del c.d. affidamento condiviso (legge 8 febbraio 2006, n. 54), la competenza sui procedimenti relativi a figli di genitori non coniugati, promossi su istanza di uno dei genitori non più conviventi ed aventi ad oggetto la regolamentazione giudiziaria dell’esercizio della potestà in tutti i suoi aspetti (personali ed economici), appartiene integralmente al Tribunale ordinario che procede nelle forme di cui agli artt. 706 c.p.c. e ss.
Trib. Firenze, 3 maggio 2006 (Famiglia e Diritto, 2006, 6, 646, nota di DORONZO)
La domanda di revisione dell’assegno di divorzio per l’ex coniuge può essere proposta al giudice del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio, oppure al giudice del luogo in cui deve essere eseguita l’obbligazione, ma non anche al giudice del foro in cui l’obbligazione è sorta (nella specie, è stata dichiarata l’incompetenza per territorio del Tribunale di Firenze, adito quale giudice del luogo in cui, essendo stata emessa la sentenza di divorzio, era sorto l’obbligo di somministrazione periodica dell’assegno divorzile).
App. Genova Sez. III, 14 marzo 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza della Corte d’Appello si determina con riferimento alla circoscrizione del Tribunale cui appartiene il Comune presso il quale fu trascritto l’atto di matrimonio ex art. 17 della L. 27 maggio 1929, n. 847, che si identifica, ai sensi dell’art. 8, n. 1, della L. 25 marzo 1985, n. 121, nel Comune in cui il matrimonio stesso è stato celebrato.
Trib. Genova Sez. IV, 28 febbraio 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio per la separazione personale dei coniugi, deve dichiararsi inammissibile la domanda di divisione della casa ex-coniugale, non essendovi connessione per l’oggetto o per il titolo con il detto giudizio di separazione dei coniugi.
App. Napoli Sez. I, 7 febbraio 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza della Corte di Appello a pronunciare sulla domanda di delibazione della sentenza del Tribunale Ecclesiastico dichiarativa della nullità di un matrimonio concordatario, si determina con riferimento alla circoscri¬zione del Tribunale cui appartiene il Comune presso il quale fu trascritto l’atto di matrimonio che si identifica, ai sensi dell’art. 8 della L. n. 121/1985 nel Comune in cui il matrimonio stesso fu celebrato
Cass. civ. Sez. I, 31 gennaio 2006, n. 2171 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di controversie relative a minori, ai fini dell’individuazione del tribunale per i minorenni territorialmente competente in ordine ai provvedimenti diretti ad intervenire sulla potestà genitoriale e sulle modalità del suo esercizio secondo le previsioni degli artt. 330 e seguenti cod. civ., deve aversi riguardo alla residenza di fatto del minore e, quindi, al luogo di abituale dimora alla data della domanda o, in ipotesi di procedimento iniziato d’ufficio, alla data di inizio del procedimento stesso. a prescindere dagli eventuali trasferimenti di carattere con¬tingente e transitori.
App. Napoli Sez. I, 11 novembre 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza della Corte di Appello a pronunciare sulla domanda di delibazione della sentenza del Tribunale Ecclesiastico dichiarativa della nullità di un matrimonio concordatario, si determina con riferimento alla circoscri¬zione del Tribunale cui appartiene il Comune presso il quale fu trascritto l’atto di matrimonio che si identifica, ai sensi dell’art. 8 della L. n. 121/1985 nel Comune in cui il matrimonio stesso fu celebrato
Cass. civ. Sez. I, 11 febbraio 2005, n. 2877 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei procedimenti che tendono all’ablazione o alla limitazione della potestà genitoriale, ai sensi degli artt. 330 e ss. cod. civ., siano essi promossi d’ufficio o ad istanza di parte, la mera trasmissione del fascicolo processuale da un Ufficio giudiziario ad un altro, con finalità dismissive della propria ed attributive ad altri della competenza giurisdizionale, legittima l’Ufficio che abbia ricevuto gli atti, e che si ritenga a sua volta incompetente, a solle¬vare conflitto di competenza ed a chiedere il relativo regolamento d’ufficio, quand’anche il provvedimento con cui sia stata declinata la competenza non sia seguito da riassunzione del processo, nei modi e nei tempi previsti dall’art. 50 cod. proc. civ.
Cass. civ. Sez. II, 8 febbraio 2005, n. 2557 (Guida al Diritto, 2005, 9, 81, nota di MATTIELLI)
L’azione di annullamento di un testamento pubblico rientra tra le cause ereditarie previste dall’art. 22 c.p.c. atte¬so che con tale impugnazione la parte intende far valere la validità di un testamento preesistente e, quindi, la sua qualità di erede. In senso contrario non vale osservare che l’azione diretta a conseguire la nullità del testamento può essere proposta da chiunque abbia un interesse meritevole di tutela e a prescindere dalla qualità di erede dell’attore, perchè, in tema di competenza territoriale, ai fini dell’applicabilità della disciplina dell’art. 22 c.p.c., che demanda alla competenza del giudice del luogo dell’apertura della successione qualunque altra causa tra i coeredi, fino alla divisione, deve intendersi per causa tra coeredi quella che, non solo si riferisca ai beni caduti in successione, ma comprenda, altresì, ogni controversia comunque attinente alla qualità di erede.
Cass. civ. Sez. II, 27 gennaio 2005, n. 1705 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 40 c.p.c., terzo comma, le cause, che siano state cumulativamente proposte o vengano succes¬sivamente riunite, per le ragioni di connessione di cui agli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c. stesso debbono essere trattate e decise col rito ordinario, salva l’applicazione del rito speciale quando una di esse rientri tra quelle di cui agli artt. 409 e 442 c.p.c..
App. Roma, Sez. I, 26 gennaio 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza territoriale della Corte d’appello a pronunciare sulla domanda di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità di un matrimonio concordatario si determina con riferimento alla circoscrizione del tribunale cui appartiene il comune presso il quale è stato trascritto l’atto di matrimonio. Si tratta di competenza per territorio inderogabile e come tale rilevabile d’ufficio.
Cass. civ. Sez. I, 19 gennaio 2005, n. 1084 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La trattazione congiunta di cause soggette a riti differenti può attuarsi, secondo le regole di cui all’art. 40 cod. proc. civ. nel testo modificato dalla legge n. 353 del 1990 soltanto se tali cause siano connesse ai sensi degli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 cod. proc. civ. Pertanto, non è possibile il cumulo in un unico processo della domanda di separazione giudiziale di coniugi, soggetta al rito camerale, e di quella di accertamento della proprietà della casa coniugale, soggetta a rito ordinario, trattandosi di domande non legate da vincoli di connessione, ma autonome e distinte l’una dall’altra.
Cass. civ. Sez. I, 20 ottobre 2004, n. 20498 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La pronuncia sulla competenza contenuta in un provvedimento camerale privo di decisorietà e definitività non è impugnabile con il regolamento di competenza ad istanza di parte, atteso che la affermazione o la negazione della competenza è preliminare e strumentale alla decisione di merito e non ha una sua natura specifica, diversa da quest’ultima, tale da giustificare un diverso regime di impugnazione e da rendere ipotizzabile un interesse all’individuazione definitiva ed incontestabile del giudice chiamato ad emettere un provvedimento privo di deci¬sorietà e definitività. Ne consegue che, estendendosi una simile connotazione alla definizione di una questione pregiudiziale, priva di effetti vincolanti all’infuori del procedimento nel quale viene resa, non è impugnabile con il regolamento di competenza un siffatto decreto camerale neppure per la parte in cui abbia implicitamente af¬fermato la competenza stessa per territorio del giudice adito.
Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 2004, n. 19595 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’individuazione del tribunale competente per territorio sulla domanda di separazione personale dei co¬niugi alla stregua del criterio del luogo di residenza del convenuto al momento della proposizione della domanda (art. 706 cod. proc. civ.), tale luogo deve essere identificato con la casa familiare, la quale individua presunti¬vamente il luogo di dimora abituale della coppia, salvo che detta presunzione venga legittimamente superata fornendo la prova, il cui onere grava sul coniuge che contesti una simile circostanza, dello spostamento, da parte del medesimo convenuto, della propria abituale dimora di fatto in un altro luogo, nel qual caso la competenza territoriale spetta al giudice di quest’ultimo luogo. A tal riguardo, le risultanze anagrafiche rivestono mero valore presuntivo e possono essere superate, in quanto tali, da una prova contraria desumibile da qualsiasi fonte di convincimento affidata all’apprezzamento del giudice di merito, onde, allorchè si provi o risulti in concreto che il terzo di buona fede (che può anche essere il coniuge separato di fatto) fosse a conoscenza della mancata corri¬spondenza tra residenza anagrafica e residenza effettiva, non può operare, rispetto a detto terzo, la più rigorosa disciplina prevista dall’art. 44 cod. civ. in ordine all’opponibilità del trasferimento di residenza.
Cass. civ. Sez. I, 9 settembre 2004, n. 18199 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La procura conferita per un determinato grado del giudizio di merito, ove non escluda espressamente, o comun¬que in modo inequivocabile, la facoltà di proporre eventualmente istanza di regolamento di competenza, abilita il difensore alla proposizione di detta istanza, prevalendo, sulla presunzione di conferimento della procura per un determinato grado di giudizio, stabilita dall’ultimo comma dell’art. 83 cod. proc. civ. la norma speciale di cui all’art. 47, primo comma, dello stesso codice.
Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2004, n. 336 (Foro It., 2004, 1, 1089)
Il soggetto che, al fine di ottenere la quota di pensione dell’ex coniuge deceduto, agisce nei confronti del coniuge superstite e dell’ente pensionistico, può avvalersi del foro del luogo in cui l’obbligazione deve essere adempiuta, ossia del luogo in cui l’ente erogatore ha la propria sede.
Cass. civ. Sez. Unite, 4 novembre 2003, n. 16568 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La pronuncia sulla competenza contenuta in un provvedimento camerale privo di decisorietà e definitività non è impugnabile con il regolamento di competenza ad istanza di parte, atteso che l’affermazione o la negazione della competenza stessa, preliminare e strumentale alla decisione di merito, non ha una sua natura specifica, diversa da quest’ultima, tale da giustificare un diverso regime di impugnazione e da rendere ipotizzabile un interesse all’individuazione definitiva ed incontestabile del giudice chiamato ad emettere un provvedimento privo di deci¬sorietà e definitività. (Nella specie era stato impugnato con regolamento di competenza il decreto con il quale l’adito tribunale per i minorenni aveva dichiarato la propria incompetenza per materia, indicando quale giudice competente il tribunale ordinario, su un’istanza dell’”ex” coniuge affidatario volta ad ottenere la sospensione del diritto dell’altro coniuge di incontrare e prendere con sè il figlio minorenne, secondo le modalità fissate nella sentenza di divorzio).
Cass. civ. Sez. Unite, 10 ottobre 2003, n. 14671 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La pronuncia sulla competenza contenuta in un provvedimento camerale privo di decisorietà e definitività non è impugnabile con il regolamento di competenza ad istanza di parte, atteso che l’affermazione o la negazione della competenza stessa, preliminare e strumentale alla decisione di merito, non ha una sua natura specifica, diversa da quest’ultima, tale da giustificare un diverso regime di impugnazione e da rendere ipotizzabile un in¬teresse all’individuazione definitiva ed incontestabile del giudice chiamato ad emettere un provvedimento privo di decisorietà e definitività.
Cass. civ. Sez. I, 18 settembre 2003, n. 13751 (Arch. Civ., 2004, 961)
Le sezioni distaccate di tribunale costituiscono articolazioni interne del medesimo ufficio giudiziario di tribunale e, in quanto tali, prive di rilevanza esterna, con la conseguenza che i rapporti tra sede principale e sezione di¬staccata non possono mai dare luogo a questioni di competenza.
Cass. civ. Sez. I, 11 marzo 2003, n. 3587 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il principio della “perpetuatio iurisdictionis” – in forza del quale la competenza territoriale del giudice adito rima¬ne ferma, nonostante lo spostamento in corso di causa della residenza anagrafica o del domicilio del minore, a seguito del trasferimento del genitore con il quale egli convive – è applicabile anche ai procedimenti di decadenza dalla potestà genitoriale, e prevale su quello cosiddetto “della prossimità” – secondo il quale è giudice territorial¬mente competente quello del luogo in cui il minore abitualmente vive o si trova di fatto (art. 8 della legge n. 149 del 2001) -, per ineliminabili esigenze di certezza e di garanzia di effettività della tutela giurisdizionale, tutte le volte in cui il provvedimento in relazione al quale deve individuarsi il giudice competente sia quello stesso richie¬sto con l’istanza introduttiva o con altra che si inserisca incidentalmente nella medesima procedura (applicando¬si, per converso, il criterio della prossimità quante volte sia richiesto, dopo l’avvenuto trasferimento di residenza, un provvedimento nuovo ed autonomo rispetto a quello pronunziato dal giudice originariamente competente).
Cass. civ. Sez. I, 23 gennaio 2003, n. 1058 (Famiglia e Diritto, 2003, 3, 273)
In tema di controversie relative a minori, ai fini dell’individuazione del tribunale per i minorenni territorialmente competente in ordine ai provvedimenti diretti ad intervenire sulla potestà genitoriale e sulle modalità del suo esercizio secondo le previsioni degli artt. 330 c.c. e segg., deve aversi riguardo alla residenza di fatto del minore e, quindi, al luogo di abituale dimora alla data della domanda o, in ipotesi di procedimento iniziato d’ufficio, alla data di inizio del procedimento stesso.
Cass. civ. Sez. I, 18 gennaio 2003, n. 586 (Famiglia e Diritto, 2004, 35, nota di LIUZZI)
Il decreto con cui il tribunale dichiara la propria incompetenza territoriale sulla domanda di modifica della con¬dizioni della separazione personale dei coniugi con riguardo alle modalità di affidamento del figlio minore, non è impugnabile con il regolamento di competenza (come non è impugnabile con il ricorso straordinario per cassazio¬ne ex art. 111 cost0.), non avendo – al pari del provvedimento di merito da adottarsi su tale domanda – carattere decisorio, neanche in ordine alla negazione della competenza, atteso che la negazione o l’affermazione di questa (come pure della giurisdizione) è preliminare, e strumentale alla decisione di merito e non ha una sua natura specifica, diversa da quest’ultima, tale da giustificare un diverso regime di impugnazione, né «fa giudicato» sulla competenza se non all’interno di quello specifico procedimento che termina con il decreto camerale.
Cass. civ. Sez. Unite, 19 febbraio 2002, n. 2415 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’irrilevanza, ai fini della giurisdizione, dei mutamenti legislativi successivi alla proposizione della domanda, san¬cita dall’art. 5 c.p.c., opera nel caso in cui il sopravvenuto mutamento dello stato di diritto privi il giudice della giurisdizione che egli aveva quando la domanda è stata introdotta, non già nel caso, inverso, in cui esso comporti l’attribuzione della giurisdizione al giudice che ne era inizialmente privo; a quest’ultimo riguardo è indifferente che la norma attributiva sopravvenga nel corso del giudizio di appello, in ogni caso trovando applicazione il principio della “perpetuatio iurisdictionis” di cui il citato art. 5 è espressione. (Principio espresso in relazione alla nuova disciplina di cui all’art. 9 d.l. 3 aprile 1995 n. 101, che ha equiparato, ai fini della tutela giurisdizionale, le concessioni in materia di lavori pubblici agli appalti).
Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2001, n. 9266 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di controversie relative a minori, ai fini dell’individuazione del tribunale per i minorenni territorialmente competente in ordine ai provvedimenti diretti ad intervenire sulla potestà genitoriale e sulle modalità del suo esercizio secondo le previsioni degli art. 330 e ss. c.c. deve aversi riguardo alla residenza di fatto del minore e, quindi, al luogo di abituale dimora alla data della domanda.
Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2001, n. 8025 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La ripartizione degli affari giurisdizionali tra sede centrale e sezioni distaccate del medesimo tribunale, non involge problemi di competenza “stricto sensu”, bensì afferisce a questioni di distribuzione delle controversie nell’ambito dello stesso ufficio giudiziario sulle quali eccepite dalle parti o rilevate “ex officio” non oltre l’udienza di prima comparizione provvede, semprechè non manifestamente infondate, il Presidente del tribunale con de-creto non impugnabile ex art. 83, ter disp. att. c.p.c.
Cass. civ. Sez. I, 24 aprile 2001, n. 6012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al fine dell’individuazione del tribunale competente per territorio sulla domanda di separazione personale dei coniugi alla stregua del criterio “del luogo di residenza del coniuge convenuto al momento della proposizione della domanda” (art. 706 c.p.c.), tale luogo deve essere identificato, sia pur in via soltanto presuntiva, con la casa coniugale, da ritenersi, sino a prova contraria, luogo di dimora abituale di tutti i componenti della famiglia. Tale presunzione può, peraltro, legittimamente superarsi fornendo la prova – il cui onere grava sul coniuge che contesti la detta circostanza – del verificarsi di una frattura del rapporto di convivenza prima della proposizione della domanda stessa a causa dello spostamento, da parte del predetto coniuge, della propria abituale dimora in un altro luogo. (Nell’affermare il principio di diritto che precede la S.C. ha, nella specie, dichiarato competente per territorio il giudice del luogo ove era ubicata la casa coniugale nonostante il coniuge istante per la separa¬zione avesse, per tutta la durata del matrimonio, conservato la residenza anagrafica in altra città, ove dimorava stabilmente nel corso della settimana per motivi lavorativi, facendo ritorno presso la casa coniugale soltanto nel week – end).
Cass. civ. Sez. I, 18 aprile 2001, n. 5729 (Giust. Civ., 2001, I, 2088)
Al fine dell’individuazione del tribunale competente per territorio sulla domanda di separazione personale dei coniugi, alla stregua del criterio del luogo di residenza del coniuge convenuto al momento di proposizione della domanda, tale luogo deve identificarsi con riferimento alla ubicazione della casa coniugale, la quale individua presuntivamente la residenza di tutti i componenti della famiglia, salvo che tale presunzione sia superata dalla prova del verificarsi di una frattura del rapporto di convivenza prima della proposizione della domanda di sepa¬razione, a causa dello spostamento da parte del convenuto della propria dimora abituale.
Nei procedimenti di separazione personale la competenza per territorio deve essere determinata con riferimento al momento del deposito del ricorso, essendo irrilevante l’eventuale successivo spostamento della residenza da parte del convenuto.
Cass. civ. Sez. I, 30 marzo 2001, n. 4686 (Giust. Civ., 2001, I, 2088)
Se la stessa causa di separazione personale dei coniugi viene introdotta davanti a giudici diversi, per individuare, ai fini della litispendenza, il giudice preventivamente adito occorre avere riguardo non già alla data di notifica degli atti introduttivi dei due giudizi ma a quella del deposito dei relativi ricorsi in cancelleria. Ha, infatti, rilievo generale il principio, affermato con particolare riferimento al processo del lavoro, nonchè ai giudizi d’impugnazio¬ne da proporre non con citazione, ma con ricorso, secondo il quale nei procedimenti che s’instaurano con ricorso (ad eccezione del rito monitorio per il quale vige la diversa regola di cui all’art. 643, ultimo comma, c.p.c.) la pendenza della lite è determinata dalla data di deposito del ricorso stesso in cancelleria.
Cass. civ. Sez. I, 22 marzo 2001, n. 4099 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di competenza per territorio, la domanda di modifica dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge consensualmente separato, proposta a norma degli art. 710 e 711 c.p.c. la quale investe rapporti obbligatori, non è equiparabile alla domanda di separazione personale e si sottrae alle speciali regole di competenza sta¬bilite per il giudizio di separazione. Ciò vale ovviamente rispetto sia alle regole di competenza dettate specifi-camente per la separazione sia per quelle dettate per il divorzio, ma dichiarate applicabili anche al giudizio di separazione. Inapplicabile sembra anche l’art. 12 quater della legge n. 898 del 1970 sul divorzio, introdotto dall’art. 18 della legge n. 74 del 1987, che regola la competenza per le cause di obbligazione di cui a quella legge. Per tali giudizi di modifica dell’assegno di mantenimento, è territorialmente competente, ai sensi dell’art. 20 c.p.c., anche il giudice del luogo in cui è sorto il debito di mantenimento, che si identifica nel luogo in cui è stata omologata la separazione consensuale e non in quello in cui il matrimonio è stato contratto. Con la riforma del diritto di famiglia, introdotta con la l. 19 maggio 1975 n. 151, infatti, all’obbligo del coniuge di contribuire ai bisogni della famiglia, sussistente durante la convivenza coniugale, subentra, con la cessazione di tale con¬vivenza conseguente alla separazione personale, ove ricorrano le prescritte condizioni ( art. 156, comma 1, c.c.), un obbligo di mantenimento, destinato al soddisfacimento dei bisogni individuali dell’altro coniuge. Deve, pertanto, escludersi che, dopo la riforma, l’obbligazione derivante dalla separazione sia la stessa che sussisteva durante la convivenza coniugale. D’altra parte appaiono manifestamente infondati i dubbi di costituzionalità per non essere prevista la sussistenza del medesimo foro alternativo nel giudizio di modifica dell’assegno di divor¬zio, non comportando il parallelismo dei procedimenti la necessità di adottare le stesse regole di competenza e non potendo estendersi previsioni che fanno eccezione a regole generali a casi non espressamente previsti. Per i giudizi di modifica dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge separato sussiste anche la competenza del giudice del luogo in cui è sorta l’obbligazione, ai sensi dell’art. 20 c.p.c., e cioè del tribunale che ha pronun¬ziato (o omologato) la separazione.
Cass. civ. Sez. III, 13 novembre 2000, n.14699 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il ricorso per regolamento di competenza è strutturato – salvo il caso in cui sia rivolto a risolvere un conflitto virtuale di competenza – come uno specifico mezzo di impugnazione avverso le sentenze che pronunciano sulla competenza. Esso deve, pertanto, contenere tutti gli elementi previsti dall’art. 366 c.p.c. in ordine ai quali l’art. 47 del codice di rito non disponga una regolamentazione differenziata. Ne consegue che deve ritenersi appli¬cabile anche a detto ricorso il principio di cosiddetta autosufficienza del ricorso per cassazione, avendo la parte istante, in sede di regolamento di competenza, l’onere di indicare in modo adeguato e specifico le ragioni del proprio dissenso, rispetto alla pronunzia impugnata, senza limitarsi a fare riferimento alle difese svolte in sede di merito, ma, eventualmente, trascrivendole in ricorso, al fine di porre la Corte di cassazione in condizione di apprezzarne la rilevanza e pertinenza ai fini del decidere.
Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2000, n. 14360 (Giust. Civ., 2001, I, 381)
È ammissibile il ricorso per regolamento di competenza avverso il decreto con il quale il giudice tutelare, adito ai sensi dell’articolo 337 c.c. per stabilire se rientri nell’esercizio della potestà del genitore affidatario la scelta della scuola (privata o pubblica) cui iscrivere il figlio, dichiara la competenza per materia del tribunale per i minorenni, trattandosi di provvedimento decisorio e definitivo sulla competenza ed avendo quindi natura e contenuto sostanziale di sentenza. La riassunzione della causa innanzi al giudice dichiarato competente da quello inizialmente adito non è ostativa alla successiva contestazione della competenza, atteso che il ricorso per regolamento di competenza è precluso solo dall’inutile decorso del termine di cui all’art. 47 c.p.c.
A seguito della separazione tra coniugi, la potestà sui figli rimane ad essi comune, l’esercizio esclusivo della me¬desima è attribuito all’affidatario, che deve attenersi alle condizioni fissate dal giudice, e le decisioni di maggior interesse (tra cui la scelta della scuola) devono essere adottate da entrambi i genitori; in mancanza di accordo, compete al giudice ordinario ai sensi dell’articolo 155, comma 3, c.c., accertare la congruità rispetto all’interes¬se del minore della decisione assunta dall’affidatario, avvalendosi a tal fine dei poteri ufficiosi di cui all’articolo 155, comma 7, c.c. e integrando all’occorrenza le condizioni della separazione; benchè la norma attribuisca il potere d’iniziativa al genitore non affidatario, analogo potere spetta anche all’affidatario, il quale, in presenza di contrasto con l’altro coniuge, anzichè decidere può chiedere direttamente al giudice di adottare i provvedimenti necessari.
In tema di soluzione dei contrasti tra i genitori per questioni di particolare importanza, l’articolo 316 c.c., il qua¬le prevede che ciascuno di essi può ricorrere al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più idonei, trova applicazione per le ipotesi di famiglia unita; i provvedimenti di cui all’articolo 155, comma 3, si collocano invece durante lo stato di separazione tra i coniugi e rientrano nella disciplina di questa.
In materia di regolamento di competenza, la riassunzione ai sensi dell’articolo 50 c.p.c. davanti al giudice di¬chiarato competente non impedisce la successiva contestazione della competenza, una preclusione in tal senso derivando unicamente dall’inutile decorso del termine di cui all’articolo 47 c.p.c. e disciplinando l’articolo 48 c.p.c. il coordinamento tra gli istituti del regolamento e della riassunzione attraverso la sospensione dei processi relativamente ai quali è chiesto il regolamento.
Cass. civ. Sez. I, 6 luglio 2000, n. 9011 (Guida al Diritto, 2000, 68)
La competenza a provvedere sull’affidamento e sul mantenimento dei figli minori, a seguito di nullità del matri¬monio concordatario resa dal tribunale ecclesiastico, con sentenza dichiarata esecutiva in Italia, spetta al Tribu¬nale ordinario e non a quello per i minorenni, qualora i richiesti provvedimenti non incidano in senso limitativo sulla potestà dei genitori.
Cass. civ. Sez. III, 18 maggio 2000, n. 6473 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La norma di cui all’art. 5 c.p.c. (laddove stabilisce che la competenza – come la giurisdizione – si determina con riguardo alla legge – ovvero allo stato di fatto – vigente al momento della domanda) non trova applicazione nell’ipotesi in cui il giudice adito sia originariamente sprovvisto di competenza e ne venga successivamente in¬vestito, a meno che il criterio di collegamento tra la controversia e l’ufficio giudiziario adito non intervenga dopo che il giudice adito abbia declinato la propria competenza, non sussistendo, in tal caso, le ragioni di economia processuale poste a base del suindicato principio. Ne consegue che, investito di una controversia relativa ad opposizione ad ordinanza ingiunzione per violazioni del c. strad., il giudice di pace adito in epoca antecedente all’entrata in vigore del d.l. n. 507 del 1999 (attributivo alla competenza di tale giudice delle controversie ex art. 22 legge n. 689 del 1981) legittimamente emette sentenza di incompetenza, e legittimamente il giudizio prosegue dinanzi al pretore, essendo intervenuto il criterio di collegamento tra la controversia ed il giudice adito in epoca successiva alla declaratoria di incompetenza emessa da quest’ultimo.
Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2000, n. 1213 (Famiglia e Diritto, 2000, 5, 462, nota di TOMMASEO)
I provvedimenti di revisione di affidamento dei figli minori di coniugi separati, in forza di separazione giudiziale o consensuale omologata, ovvero di coniugi il cui matrimonio sia stato annullato o sciolto, sono devoluti alla competenza del tribunale ordinario, ai sensi dell’art. 155 c.c. mentre va ravvisata la competenza del tribunale per i minorenni, a norma dell’art. 38 disp. att. c.c., nei soli casi in cui si chieda un intervento cautelare ablativo della potestà genitoriale, a norma degli art. 330 e 333 c.c. In particolare sussiste la competenza del tribunale per i minorenni, a norma dell’art. 333 c.c., quando il provvedimento da adottare si risolve in una compressione della potestà genitoriale quale diretta conseguenza della condotta del genitore pregiudizievole al figlio, restando salva in ogni altro caso la competenza del giudice della separazione. (Nel caso di specie la S.C. ha negato la com-petenza del tribunale per i minorenni in un caso in cui detto tribunale aveva adottato un provvedimento diretto a rimuovere una situazione di obiettiva difficoltà della minore conseguente al disposto affidamento alla madre, ordinando, a modifica della statuizione del tribunale, l’affidamento di essa al comune, perchè fosse collocata con la madre in idonea struttura, nel dichiarato convincimento che tale soluzione valesse ad ovviare alle riscontrate carenze di entrambi i genitori).
Cass. civ. Sez. I, 12 gennaio 2000, n. 266 (Famiglia e Diritto, 2000, 6, 593, nota di PORCARI)
La trattazione congiunta di cause soggette a riti differenti può attuarsi, secondo le regole di cui all’art. 40 c.p.c. (nel testo modificato dalla l. n. 353 del 1990 soltanto laddove tali cause siano connesse ai sensi degli art. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c.; conseguentemente non è possibile il cumulo in un unico processo della domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio, soggetta al rito della camera di consiglio, e di quella di scioglimento della comu-nione su un bene comune dei coniugi, soggetta a rito ordinario, trattandosi di domande non legate da vincoli di connessione ma in tutto autonome e distinte. (Nella specie la S.C. ha confermato la pronuncia di improponibilità in sede di divorzio della domanda di divisione perchè incompatibile col rito camerale).
Cass. civ. Sez. II, 20 luglio 1999, n. 7750 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La determinazione della competenza per territorio nelle cause ereditarie va stabilita (art. 22 c.p.c. e art. 456 c.c.) con riferimento al luogo in cui il “de cuius” aveva al momento della morte l’ultimo domicilio, intendendosi con tale locuzione il luogo ove la persona, alla cui volontà occorre avere principalmente riguardo, concentra la generalità dei suoi interessi sia materiali ed economici, sia morali, sociali e familiari.
Cass. civ. Sez. I, 5 maggio 1999, n. 4492 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al fine dell’individuazione del tribunale competente per territorio sulla domanda di separazione personale dei coniugi alla stregua del luogo di residenza del coniuge convenuto al momento della proposizione della domanda (ex art. 706 c.p.c.), tale luogo deve essere identificato con la casa coniugale, la quale individua presuntivamente la residenza, cioè il luogo di dimora abituale, di tutti i componenti della famiglia, salvo che tale presunzione sia superata dalla prova del verificarsi di una frattura del rapporto di convivenza prima della proposizione della do¬manda stessa, a causa dello spostamento, da parte del coniuge, della propria dimora in un altro luogo, nel qual caso la competenza territoriale spetta al giudice di questo luogo.
Cass. civ. Sez. I, 27 marzo 1998, n. 3222 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza a provvedere sulla domanda di modifica degli accordi in tema di affidamento dei figli minori raggiunti in sede di separazione consensuale omologata (ovvero di modifica delle disposizioni adottate con la sentenza di separazione consensuale o con quella di scioglimento o di nullità del matrimonio) spetta al tribunale ordinario, individuandosi, per converso, nel tribunale dei minorenni il giudice competente a conoscere (in via re¬siduale) delle richieste di intervento ablativo o modificativo della potestà genitoriale, ai sensi degli art. 330, 333 c.c. con la conseguenza che, adottato, da parte di quest’ultimo giudice, in pendenza del giudizio di separazione, un siffatto provvedimento, il giudice della separazione dovrà tener conto di esso, come factum superveniens, ai fini della eventuale modifica dei provvedimenti provvisori adottati.
Cass. civ. Sez. III, 3 marzo 1998, n. 2333 (Giur. It., 1998, 2029)
All’istanza di regolamento di competenza proposta dal difensore munito di procura speciale per il giudizio di merito non si applica il principio di cui all’art. 83 comma 4 c.p.c. in forza del quale la procura speciale si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo, quando nell’atto non è espressa una volontà diversa, in quanto derogato dal combinato disposto degli art. 84, comma 1 e 47 comma 1 c.p.c.
App. Napoli, 12 febbraio 1998 (Dir. Famiglia, 1998, 581)
Ritenuto che sussiste nel nostro ordinamento una certa e decisa tendenza ad affidare al tribunale dei minori tutta la materia relativa all’esercizio della potestà parentale, e ritenuto, altresì, che, ai sensi e per gli effetti generali dell’art. 38 disp. att. c.c., al tribunale ordinario va attribuita una competenza generale ed al tribunale dei minori una competenza in ordine alle sole ipotesi in tale norma menzionate, fra cui l’apposizione di limiti alla potestà genitoriale, e che, in relazione agli art. 330 e 333 c.c., richiamati, peraltro, dal cit. art. 38, “causa petendi”, “petitum” e specializzazione dell’organo minorile costituiscono un tutt’uno inscindibile, il tribunale dei minori, pur in pendenza di un giudizio di separazione personale tra i coniugi/genitori, ha competenza a pronunciarsi sul pregiudizio asseritamente incombente sulla prole minore, ma non è competente a decidere sulle richieste di affidamento (congiunto od alternato) che postulano, da parte del tribunale della separazione, una modifica dei provvedimenti adottati in seno all’ordinanza presidenziale.
Cass. civ. Sez. I, 11 aprile 1997, n. 3159 (Famiglia e Diritto, 1997, 5, 431, nota di CHIZZINI)
Alla stregua del disposto dell’art. 38 (nuovo testo) disp. att. c.c., sulla competenza del tribunale per i minorenni, coordinato con le norme dettate dagli art. 155 e 317 c.c., 9 l. 1 dicembre 1970 n. 898 e 710 c.p.c., i provve¬dimenti di revisione delle condizioni di affidamento dei figli minori di coniugi separati, in forza di separazione giudiziale o separazione consensuale omologata, ovvero di coniugi il cui matrimonio sia stato annullato o sciolto, rientrano nella suddetta competenza del tribunale dei minorenni nei soli casi in cui come causa di quella revisione si chieda un intervento ablativo o limitativo della potestà genitoriale sulla prole, a norma degli art. 330 e 333 c.c. mentre, in ogni altro caso, sono devoluti alla competenza del tribunale ordinario
Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 1997, n. 2797 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il provvedimento del tribunale dei minorenni, che – nell’ambito di un procedimento instaurato per ottenere la decadenza dalla potestà del genitore sul figlio minore, ovvero l’adozione di altre misure volte ad ovviare alla condotta pregiudizievole al figlio, secondo le previsioni degli art. 330 e 333 c.c.- decida esclusivamente sulla competenza, ha contenuto decisorio su di essa, indipendentemente dalla forma rivestita dallo stesso ( dovendo la sostanza prevalere sulla forma) e, quindi, può essere impugnato con regolamento di competenza.
Corte cost. 25 giugno 1996, n. 214 (Foro It., 1997, I, 61, nota di CIPRIANI)
È incostituzionale l’art. 70 c.p.c., nella parte in cui non prescrive l’intervento obbligatorio del p.m. nei giudizi tra genitori naturali che comportino “provvedimenti relativi ai figli”, nei sensi di cui agli art. 9 l. n. 898/1970 e 710 c.p.c. (in motivazione, la Corte ha precisato che resta impregiudicato se tra tali giudizi rientrino quelli vertenti unicamente sull’”an” e sul “quantum” del mantenimento).
Trib. Santa Maria Capua Vetere, 25 giugno 1996 (Famiglia e Diritto, 1997, 3, 271, nota di CARRATTA )
Nel procedimento per la modifica delle condizioni della separazione di cui all’art. 710 c.p.c., avente ad oggetto una controversia in materia di obbligazioni, ai fini della determinazione della competenza territoriale del giudice, trova applicazione, oltre che l’art. 18 c.p.c., in tema di foro generale delle persone fisiche, anche l’art. 20 c.p.c. per il qua¬le è competente il giudice del luogo in cui l’obbligazione è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione dedotta in giudizio.
Cass. civ. Sez. II, 29 marzo 1996, n. 2875 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La determinazione della competenza per territorio nelle cause ereditarie va stabilita ex art. 22 c.p.c. e art. 456 c.c. con riferimento al luogo di apertura della successione, in cui il de cuius aveva al momento della morte l’ul¬timo domicilio, intendendosi con tale locuzione la relazione tra la persona ed il luogo che essa ha scelto come centro dei propri affari ed interessi, prescindendosi dalla dimora o dalla presenza effettiva del de cuius in detto luogo.
Cass. civ. Sez. I, 15 marzo 1996, n. 2184 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per l’individuazione del giudice competente per territorio a dichiarare la decadenza dalla potestà parentale deve farsi riferimento al luogo di abituale dimora del minore nel momento della presentazione della relativa domanda, senza che assumano alcun rilievo nè l’eventuale, diversa residenza anagrafica del minore, nè la circostanza del formale affidamento del minore stesso ad uno dei genitori. (Nella specie, il minore, anagraficamente residente in Catania, dimorava con la madre in Palermo al momento della proposizione del ricorso per la decadenza della potestà parentale del padre, benchè già alcuni giorni prima della domanda fosse stato affidato a quest’ultimo. La S.C., in applicazione dell’enunciato principio, ha dichiarato la competenza del tribunale per i minori di Palermo a conoscere della domanda in oggetto).
Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 1995, n. 8049 (Giur. It., 1996, I,1, 338)
Nella determinazione del luogo di residenza del convenuto, al fine di stabilire il tribunale territorialmente compe¬tente nel giudizio di separazione personale dei coniugi, il principio della corrispondenza tra residenza anagrafica e residenza effettiva costituisce una presunzione semplice, superabile con ogni mezzo di prova idoneo ad evi¬denziare l’abituale e volontaria dimora di un soggetto in un luogo diverso; pertanto qualora si provi o risulti in concreto che il terzo, che può anche essere il coniuge separato di fatto, fosse a conoscenza della mancata corri¬spondenza fra residenza anagrafica e residenza effettiva, non può operare, rispetto a detto terzo, la più rigorosa disciplina prevista dall’art. 44 c.c. in ordine all’opponibilità del trasferimento della residenza.
Trib. Mantova, 17 luglio 1995 (Dir. Famiglia, 1996, 195)
In regime di separazione personale tra coniugi, la competenza territoriale a decidere sulla domanda di modi¬fica delle disposizioni (economiche) relative al mantenimento della prole va determinata ai sensi o dell’art. 18 o dell’art. 20 c.p.c., mentre la competenza territoriale a decidere sulla domanda di modifica delle disposizioni relative al diritto di visita e permanenza con la prole del genitore non affidatario va determinata solo ai sensi dell’art. 18 dello stesso codice di rito.
Cass. civ. Sez. I, 19 maggio 1995, n. 5562 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza in ordine alla delibazione di sentenza straniera che dichiara la nullità di un matrimonio contratto in Italia appartiene alla Corte d’appello nel cui distretto ha sede l’ufficio di stato civile nei cui registri il matrimo¬nio sia stato trascritto e nei quali, quindi, debba eseguirsi l’annotazione e trascrizione della sentenza che rende esecutiva la sentenza straniera.
Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 1995, n. 4143 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei procedimenti diretti all’emanazione di provvedimenti limitativi della potestà del genitore, secondo la previ¬sione degli art. 330 ss. c.c., la competenza per territorio va determinata con riferimento al luogo in cui il minore abitualmente ed a prescindere, pertanto, da trasferimenti di carattere contingente e transitorio.
Cass. civ. Sez. I, 9 marzo 1995, n. 2734 (Dir. Eccl., 1995, II, 460)
La competenza territoriale della Corte d’appello a pronunciare sulla domanda di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità di un matrimonio concordatario si determina con riferimento alla circoscrizione del tribunale cui appartiene il comune presso il quale fu trascritto l’atto di matrimonio (art. 17 legge 27 maggio 1929 n. 847) che si identifica, ai sensi dell’art. 8 n. 1 della legge 25 marzo 1985 n. 121, nel comune in cui il matrimonio stesso è stato celebrato.
Cass. civ. Sez. I, 4 giugno 1994, n. 5431 (Foro It., 1995, I, 2948)
Anche in caso di separazione personale tra i coniugi, la competenza del giudice minorile non viene meno nei casi in cui venga sollecitato, a istanza di uno dei genitori, o anche di un altro dei soggetti legittimi di cui all’art. 336 c.p.c. un provvedimento ablatorio o limitativo della potestà dei genitori, del quale dovrà tenere conto il giudice della separazione, come fatto sopravvenuto, nell’adeguamento dei provvedimenti provvisori adottati nella fase presidenziale del giudizio.
I decreti camerali resi a norma dell’art. 333 c.c. non sono impugnabili per cassazione, neppure ai sensi dell’art. 111 cost., in quanto privi dei caratteri della contenziosità e della definitività, essendo sempre revocabili secondo la previsione generale dell’art. 742 c.p.c. ma se contengono una decisione implicita o esplicita sulla competenza, acquistano carattere sostanziale di sentenza, potendosi, pertanto, proporre regolamento necessario di compe¬tenza. Il ricorso erroneamente proposto come ordinario può essere convertito, in regolamento per competenza solo se tempestivo rispetto al termine di cui all’art. 47 c.p.c. se dotato dei requisiti formali e sostanziali di quest’ultimo e se mostra in modo inequivocabile la volontà della parte di non aver inteso avvalersi di un mezzo destinato a sollevare censure diverse da quelle attinenti alla questione di competenza.
Cass. civ. Sez. I, 8 settembre 1992, n. 10292 (Giust. Civ., 1992, 1, 2642)
Spetta al tribunale ordinario la competenza per materia a provvedere, anche in via provvisoria ed urgente, sulla modifica delle condizioni della separazione fra i coniugi riguardanti l’affidamento del minore ed i rapporti fra lo stesso ed il genitore affidatario, senza che residui alcuna competenza del pretore adito ai sensi dell’art. 700 c. p.
Cass. civ. Sez. I, 26 giugno 1992, n. 8019 (Giur. It., 1993, I,1, 1298, nota di GENESI)
Al fine dell’individuazione del tribunale territorialmente competente sull’istanza di separazione, alla stregua del luogo della residenza del coniuge convenuto al momento della proposizione della domanda ( art. 706 c.p.c.) il luo¬go medesimo va identificato con la casa coniugale, la quale, segna presuntivamente la residenza della famiglia e quindi la dimora abituale dei suoi componenti, quando difetti la prova del verificarsi di frattura del rapporto di con¬vivenza prima dell’indicato momento, con lo spostamento altrove, da parte del convenuto, di detta dimora abituale.
App. Bologna, 18 gennaio 1992 (Dir. Famiglia, 1994, I, 148)
I provvedimenti di revisione delle condizioni di affidamento della prole di coniugi separati in forza di separazione consensuale omologata rientrano nella competenza del tribunale per i minorenni tutte le volte in cui la richiesta di revisione sia diretta ad ottenere un intervento ablativo o limitativo della potestà parentale, a norma e per gli effetti di cui agli art. 330 e 333 c.c. ferma restando, in ogni altro caso, la competenza del tribunale ordinario. E’ pertanto di competenza del tribunale minorile la decisione sul ricorso con il quale il genitore/coniuge separato consensualmente chieda l’ablazione o la limitazione della potestà parentale all’altro genitore/coniuge spettante mediante l’adozione dei provvedimenti più favorevoli alla prole, per la quale, in sede di separazione consensuale omologata, era stato disposto l’affidamento congiunto.
Cass. civ. Sez. Unite, 16 gennaio 1991, n. 381 (Foro It., 1991, I, 3165, nota di VILLANI)
La domanda di modificazione dell’assegno di mantenimento, che venga proposta ai sensi degli art. 710 e 711 (originario testo) c. p. c., da uno dei coniugi separati in base a sentenza o verbale di separazione consensuale omologato, è soggetta ai normali criteri di competenza per territorio di cui agli art. 18 e 20 c. p.c.
Cass. civ. Sez. I, 27 giugno 1990, n. 6551 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza territoriale della Corte d’appello a pronunciare sulla domanda di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità di un matrimonio concordatario si determina con riferimento alla circoscrizione del tribunale cui appartiene il comune presso il quale fu trascritto l’atto di matrimonio (art. 17 legge 27 maggio 1929 n. 847) che si identifica, ai sensi dell’art. 8 n. 1 della legge 25 marzo 1985 n. 121, nel comune in cui il matrimonio stesso è stato celebrato.
Cass. civ. Sez. I, 13 marzo 1990, n. 2032 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il principio di “perpetuatio iurisdictionis” (art. 5 c.p.c.) è operante anche nel caso di mutamento della situazione di diritto determinato dal sopravvenire di norme modificative della competenza.
Pertanto con riguardo al giudizio di dichiarazione della paternità naturale del minore, la sopravvenienza, nel cor¬so del giudizio di appello proposto davanti alla corte di appello avverso la sentenza del tribunale in composizione ordinaria, della l. 4 maggio 1983, n. 184, il cui art. 68, modificando l’art. 38 disp. att. c. c., prevede la compe¬tenza del tribunale per i minorenni, non determina né la nullità della sentenza di primo grado né l’incompetenza della corte di appello, che deve invece decidere sui motivi di impugnazione.
Cass. civ. Sez. I, 18 gennaio 1990, n. 224 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La residenza del coniuge convenuto, quale criterio per la determinazione della competenza territoriale indero¬gabile nelle cause di separazione personale fra coniugi (art. 706, 1° comma, c. p. c.), va individuata sulla base delle certificazioni anagrafiche, le cui risultanze non sono superate dalla circostanza del temporaneo allontana¬mento del coniuge convenuto dal luogo ivi indicato (che non comporta di per sé trasferimento della residenza o del domicilio), e neppure dalla dichiarazione del coniuge fatta unicamente al comune ove intenda trasferirsi, non accompagnata dalla parallela comunicazione al comune che si abbandona, prescritta dall’art. 31 disp. att. c. c.
Cass. civ. Sez. I, 23 ottobre 1989, n. 4317 (Arch. Civ., 1990, 275)
Nel giudizio di separazione personale dei coniugi, la residenza ed il domicilio del convenuto – da accertarsi con riferimento alla situazione esistente alla data di notifica del ricorso e del decreto presidenziale di fissazione della comparizione delle parti – va individuata sulla base delle risultanze anagrafiche, le quali, pur se ammettono prova contraria, non sono superate dalla circostanza del temporaneo allontanamento dal luogo indicato, che non comporta di per sé trasferimento della residenza o del domicilio, mentre è irrilevante che la domanda sia stata notificata al coniuge convenuto nel luogo ove lo stesso si trovava temporaneamente o che in tale luogo, succes¬sivamente alla posizione della domanda, egli abbia trasferito la propria residenza.
Cass. civ. Sez. I, 14 novembre 1986, n. 6695 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La residenza od il domicilio del coniuge convenuto, quali criteri per la determinazione della competenza territo¬riale nel procedimento di separazione personale (art. 706, 1° comma, c. p. c.), vanno accertati con riferimento alla situazione esistente al momento della proposizione della domanda, e, cioè, non alla data del deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale, o del decreto presidenziale di fissazione della comparizione delle parti, ma a quella in cui il ricorso ed il decreto medesimi vengano notificati alla controparte.
Cass. civ. Sez. I, 18 ottobre 1985, n. 5137 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
A norma dell’art. 38 disp. att. c. c. (nel testo modificato prima con l’art. 221, l. 19 maggio 1975, n. 151 e poi con l’art. 68 l. 4 maggio 1983, n. 184), i provvedimenti di revisione delle condizioni di affidamento dei minori, figli di coniugi separati in forza di separazione giudiziale o consensuale omologata, rientrano nella competenza del tribunale per i minorenni nei soli casi in cui si chieda un intervento ablativo o limitativo della potestà dei genitori, a norma degli art. 330 e 333 c. c., mentre in ogni altra ipotesi, sono devoluti alla competenza del tri¬bunale ordinario.
Cass. civ. Sez. I, 25 ottobre 1984, n. 5448 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza a pronunciare sulla domanda di dichiarazione di efficacia in Italia della sentenza straniera di separazione fra coniugi compete, qualora entrambi i coniugi abbiano all’estero la residenza, il domicilio o la dimora, alla corte d’appello nel cui distretto il matrimonio è stato contratto, in quanto non essendo individua¬bile un ambito territoriale in cui la sentenza debba avere attuazione, ai sensi dell’art. 796 c. p. c. e risultando inapplicabili i criteri legislativamente previsti dal foro speciale del procedimento di separazione fra coniugi (art. 706 c. p. c.) e del foro generale delle persone fisiche (art. 18 c. p. c.) viene in rilievo in ordine successivo, in via di interpretazione analogica della previsione del foro facoltativo delle cause relative alle obbligazioni (art. 20 c. p. c.) quale criterio di collegamento territoriale proprio alla fattispecie, quello del luogo della celebrazione del matrimonio, in cui ha avuto origine la situazione giuridica dedotta in giudizio, sulla quale la sentenza delibanda è destinata ad incidere.
Cass. civ. Sez. I, 17 maggio 1984, n. 3050 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza a provvedere sull’affidamento e sul mantenimento dei figli minori, a seguito di pronunzia di nul¬lità del matrimonio concordatario resa dal tribunale ecclesiastico con sentenza dichiarata esecutiva in Italia ai sensi dell’art. 17 legge 27 maggio 1929, n. 847, spetta al tribunale ordinario, non al tribunale per i minorenni, qualora i richiesti provvedimenti non incidano, in senso negativo o limitativo, sulla potestà dei genitori.
Cass. civ., Sez. I, 16 febbraio 1982, n. 9619 (Dir. Famiglia, 1982, 471, nota di DALL’ONGARO, ARRIVAS)
La competenza a modificare i provvedimenti resi in sede di separazione e relativi all’affidamento della prole spetta, dopo la conclusione del processo, al tribunale ordinario e non a quello per i minorenni.

Pur in presenza di illegittima sottrazione di minorenni il rientro non verrà disposto ove vi è il rischio di pericoli psicofisici

Cass. civ. Sez. I, 26 gennaio 2018, n. 2044
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
N.Z., elettivamente domiciliato in Roma, alla via Tibullo n. 10, presso lo studio dell’Avv. Sara Menichetti, rappresentato e difeso dall’Avv. Liana Doro del Foro di Padova, come da mandato steso in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
D.M.M.F., rappresentata e difesa dall’Avv. Giovanni Daniele Toffanin, del Foro di Rovigo, ed elettivamente domiciliata presso il suo studio, alla via Mazzini n. 24/6, in Rovigo, avendo il difensore indicato indirizzo pec;
– controricorrente –
avverso il decreto n. 335 pronunciato dal Tribunale per i minorenni di Venezia il 15.7.2010 e depositato il 18 luglio 2016;
ascoltata la relazione svolta dal dott. Paolo Di Marzio;
uditi gli Avvocati: Liana Doro per il ricorrente, e Giovanni Daniele Toffanin per la controricorrente; raccolte le conclusioni del P.M., dott.ssa Ceroni Francesca, che ha domandato dichiararsi l’inammissibilità del ricorso ed in subordine ne ha chiesto il rigetto.
Svolgimento del processo
La questione controversa riguarda la contestata sottrazione di due minori, nati uno nel (OMISSIS) e l’altro nel (OMISSIS). Entrambi figli di madre italiana, l’odierna contro ricorrente, e padre ungherese, l’odierno ricorrente. I bambini hanno entrambe le cittadinanze, italiana ed ungherese. I genitori hanno contratto matrimonio nell’anno (OMISSIS), e vivevano in Ungheria. Sono poi insorti contrasti tra i coniugi, lei lo ha denunciato per maltrattamenti, manifestando anche contrarietà per la continua presenza dei suoceri a casa loro.
L’Autorità giudiziaria ungherese ha disposto l’allontanamento del marito dalla casa coniugale, una misura di protezione. Sono state anche raccolte le dichiarazioni di un vicino di casa, che si è espresso a favore delle ragioni della moglie. Quest’ultima ha promosso le procedure di separazione personale in Ungheria. In via provvisoria ha conseguito dall’Autorità giudiziaria magiara l’assegnazione della casa familiare. Stanca di un marito cui imputa di essere violento, e che è stato allontanato da casa con provvedimenti del Tribunale ungherese, la madre ha deciso di portare i figli in Italia, nel 2015, e dichiara che pensava in origine di trattenersi per un periodo limitato di tempo, mentre lui era ancora sottoposto alla misura di protezione. I bambini da allora sono sempre rimasti in Italia, affidati anche alle cure dei nonni materni. La madre ha trovato lavoro.
Il Tribunale per i minorenni di Venezia ha riscontrato la ricorrenza della sottrazione internazionale di minori, ma ha ritenuto che il rientro in Ungheria dei figli della coppia li esporrebbe al rischio di pericoli fisici e psichici, ed ha perciò rigettato l’istanza di rientro immediato proposta dal padre.
Avverso la decisione del Tribunale ha proposto ricorso per cassazione N.Z., affidato ad unico motivo. Resiste con controricorso D.M.M.F..
Sia il ricorrente, sia la controricorrente, hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
Preliminarmente occorre dare atto che, nel suo controricorso, D.M.M.F. ha sostenuto l’inammissibilità del ricorso in conseguenza di un duplice vizio della notifica dell’atto nei suoi confronti. Innanzitutto, la notificazione è stata effettuata a lei personalmente e non presso il domicilio che aveva eletto. Inoltre, la sentenza è stata pubblicata il 18.7.2016 ed i sei mesi del termine c.d. lungo di impugnazione sarebbero scaduti il 18.1.2016, mentre la notifica alla parte controricorrente era stata richiesta il 22.4.2017.
Occorre allora rilevare che la Suprema Corte, proponendo un orientamento condivisibile, che viene perciò fatto proprio dal Collegio, ha già avuto modo di chiarire che nell’ipotesi di notifica dell’impugnazione alla parte personalmente, anziché presso il domicilio eletto, non ricorre un’ipotesi di inesistenza della notifica, bensì di nullità della stessa, sanabile in conseguenza della costituzione del destinatario della notificazione (tra le altre, cfr., Cass. sez. III, sent. 3.7.2014, n. 15236, Cass. sez. L, sent. 17.10.2017, n. 24450).
Tanto premesso, sembra ancora opportuno rilevare che, nell’effettuare il suo calcolo dei termini di impugnazione, la controricorrente non ha tenuto conto del periodo di sospensione feriale dei termini processuali. Nel caso specifico, però, deve soprattutto evidenziarsi che oltre la notifica alla controricorrente andata a buon fine il 27.4.2017, risulta allegata in atti una tentata notifica alla medesima parte, sempre effettuata personalmente, inviata in data 19.1.2017 (quindi tempestiva, in considerazione della sospensione feriale dei termini) e non andata a buon fine per irreperibilità della destinataria. La Cassazione ha condivisibilmente affermato, anche se in relazione fattispecie diversa, che “in caso di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, questi, appreso dell’esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento”, Cass. sez. 6-3, 31.1.2017, n. 19059(in senso analogo: Cass. S.U. 15.7.2016, n. 14954, da ultimo cfr. Cass. sez. 6-3, ord. 24660 del 2017). Risulta allora opportuno ricordare che, nel presente giudizio, non è neppure contestato che la parte ricorrente non si sia attivata tempestivamente dopo aver avuto notizia che il primo tentativo di notifica non era andato a buon fine, e neppure che l’esito negativo della prima notificazione fosse dipesa da “colpa” del notificante.
Tanto premesso, comunque, l’inammissibilità del ricorso, nel caso in esame, dovrebbe essere esclusa anche perché risulta documentato in atti che la parte ricorrente ha notificato tempestivamente la propria impugnazione al Pubblico Ministero, in data 18.1.2017. Avrebbe pertanto potuto porsi un problema di integrazione del contraddittorio in favore della controricorrente – cui parte ricorrente ha comunque provveduto, come anticipato ma non di inammissibilità dell’impugnazione.
1.1. – Con il suo motivo di impugnazione il ricorrente contesta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione dell’art. 3, della Convenzione dell’Aja del 1980 (L. n. 64 del 1994, art. 7, comma 3) sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, e dell’art. 9, par. 3, Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989, nonché dell’art. 11, comma 4, lett. b), Reg. CE n. 2201 del 2003. L’impugnante lamenta, in sostanza, che in presenza di una illegittima sottrazione internazionale dei bambini, il Tribunale italiano ha ritenuto di poter evitare di ordinarne la riconsegna perché gli stessi sarebbero esposti ad un danno grave. Ipotesi, però, priva di ogni fondamento, risultando fondata su mere illazioni e non essendo stata pronunciata alcuna sentenza di condanna nei confronti del ricorrente.
2.1. – Il motivo di ricorso proposto da N.Z. appare in parte inammissibile, e per la parte residua infondato. La sottrazione dei figli minori operata dalla odierna controricorrente è illegittima, lo riconosce espressamente anche il Tribunale per i minorenni nella decisione impugnata. La controricorrente cerca di contrastare questa constatazione affermando che, in conseguenza dei provvedimenti provvisori adottati dal Giudice ungherese della separazione, i figli sono stati affidati a lei, che quindi poteva portarli con sé in Italia. Le parti neppure specificano il tenore di questi provvedimenti, e non vi sono quindi le condizioni perché il giudice di legittimità possa esprimersi in materia, ma è comunque pacifico che sono stati adottati dopo la sottrazione internazionale dei minori.
Il Tribunale motiva la sua valutazione, di non disporre l’immediato rientro in Ungheria dei minori, con esigenze di tutela. La misura di protezione per la salvaguardia dei familiari è stata adottata dal Giudice ungherese, ed un procedimento penali è comunque pendente nei confronti del marito. La odierna controricorrente, osserva ancora il Tribunale impugnato, ha documentato “frasi minacciose di N.”, e rivelato che prova insofferenza anche nei confronti dei suoceri, troppo spesso presenti nella casa coniugale ungherese. Si osservi che le difficoltà relazionali della moglie con i propri genitori sono state ammesse anche dal marito, odierno ricorrente. Il Tribunale impugnato ha osservato allora, ed è un elemento meritevole di elevata considerazione, che un clima familiare teso è di sicuro pregiudizio per i bambini. Ha rilevato quindi il giudice minorile che, non essendo state previste apposite misure di tutela da parte del Giudice ungherese, il rientro dei minori in quel Paese comporterebbe per loro l’esposizione ad un grave pregiudizio.
Il vizio lamentato dal ricorrente, pertanto, non sussiste. Il Tribunale impugnato non ha violato alcuna legge, ha espresso una valutazione di merito sfavorevole all’odierno ricorrente, ma priva di vizi logici e congruamente motivata. Gli argomenti proposti dal Tribunale a fondamento della propria decisione, può ancora osservarsi, non sono stati contestati con completezza, nè adeguatamente, dal ricorrente.
Il motivo di ricorso deve essere perciò respinto.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso proposto da N.Z.. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore di D.M.M.F. e le liquida nella misura di Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Dispone, ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, comma 5, che, in caso di riproduzione per la diffusione della presente decisione, le generalità e gli altri dati identificativi delle parti e dei soggetti menzionati siano omessi.

Nel giudizio di separazione dei coniugi (per i provvedimenti riguardanti i figli minori o incapaci) la mancata partecipazione del PM (non necessaria) è motivo di gravame non comportando la rimessione degli atti al primo giudice

Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2018, n. 3638
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 14502/2016 R.G. proposto da:
L.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Marco Granese, con domicilio eletto in (OMISSIS), presso la Sig.ra D.A.A.;
– ricorrente –
contro
A.G. e PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI SALERNO;
– intimati –
avverso il decreto della Corte d’appello di Salerno depositato il 10 dicembre 2015.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 23 giugno 2017 dal Consigliere Guido Mercolino;
udito l’Avv. Marco Granese;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale CARDINO Alberto, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del quarto motivo di ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con decreto del 2 aprile 2015, il Tribunale di Salerno dispose, sulla base di un accordo intervenuto tra le parti all’udienza del 12 marzo 2015 ed a parziale modifica di un precedente accordo stipulato il (OMISSIS) 2009, l’affidamento condiviso della minore L.D., nata da una relazione more uxorio tra L.A. e A.G., con collocazione presso entrambi i genitori e determinazione dei tempi e delle modalità di permanenza presso ciascuno di essi, stabilendo che le parti avrebbero provveduto direttamente alle spese necessarie per il mantenimento della figlia.
2. Il reclamo proposto dalla A. è stato parzialmente accolto dalla Corte d’Appello di Salerno, che con decreto del 10 dicembre 2015 ha escluso la facoltà del L. di provvedere direttamente al mantenimento, ha posto a suo carico un assegno mensile di Euro 400,00, con decorrenza dal mese di dicembre 2015, oltre al 50% delle spese straordinarie necessarie per la minore, ed ha rimesso alle parti l’adeguamento degli accordi sulla base di quanto esposto in motivazione.
Premesso che la piccola D. era nata il (OMISSIS) da una relazione interrottasi nel mese di maggio 2009, e dato atto che il L., già divorziato e padre di due figli per il cui mantenimento corrispondeva un assegno mensile di Euro 1.300,00, intratteneva una relazione con un’altra donna, a volte chiamata a sostituirlo nella cura della figlia, mentre la A. aveva a sua volta contratto matrimonio, la Corte ha rilevato che entrambe le parti esercitavano libere professioni, aggiungendo che l’uomo era titolare di un reddito superiore a quello della donna, ma non eccessivamente discosto dallo stesso. Precisato inoltre che le parti avevano dimostrato interesse per la cura della figlia, i cui spostamenti tra la residenza paterna e quella materna, situate rispettivamente in (OMISSIS) e (OMISSIS), avevano ricadute negative in termini di stanchezza e frequentazioni sociali, ha affermato che la molteplicità degl’impegni lavorativi comportava una notevole limitazione del loro tempo libero personale. Ha ritenuto pertanto necessario preservare il diritto della minore di godere stabilmente di un proprio domicilio abituale, nonché individuare precisi periodi ed ore in cui il padre avrebbe potuto averla con sè, rimettendone alle parti la pratica attuazione, anche in considerazione dell’età della minore, che suggeriva la prevalente condivisione della convivenza con la madre.
3. Avverso il predetto decreto il L. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in sei motivi. La A. ed il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Salerno non hanno svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la nullità del procedimento e del decreto impugnato, per violazione e la falsa applicazione degli artt. 70, 71, 72, 101, 331 e 350 cod. proc. civ., osservando che il reclamo non è stato notificato al Pubblico Ministero presso il Tribunale, nei confronti del quale non è stata neppure disposta l’integrazione del contraddittorio, e gli atti non sono stati comunicati al Procuratore generale, il quale non è stato posto pertanto in condizione di esercitare i poteri attribuitigli dalla legge.
1.1. Il motivo è fondato.
La natura processuale del vizio lamentato consente di procedere all’esame diretto degli atti di causa, dal quale si evince che, tanto in primo grado quanto in appello, il procedimento si è svolto senza la partecipazione del Pubblico Ministero, nei confronti del quale non si è provveduto né alla notificazione del ricorso introduttivo e del reclamo, né alla comunicazione degli atti, in modo da consentirgli di intervenire in camera di consiglio o di rassegnare le proprie conclusioni per iscritto.
Com’è noto, le cause tra genitori non coniugati aventi ad oggetto provvedimenti relativi ai figli non rientravano originariamente tra quelle per le quali l’art. 70 cod. proc. civ. prevedeva l’intervento obbligatorio del Pubblico Ministero, prescritto invece per l’adozione dei provvedimenti riguardanti i figli legittimi sia in sede di separazione, ai sensi dell’art. 710 cod. proc. civ., nel testo risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 416 del 1992, sia in sede di divorzio, ai sensi della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 9 come modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 13. Tale lacuna è stata in seguito colmata dall’intervento della Corte costituzionale, che con sentenza n. 214 del 1996 dichiarò costituzionalmente illegittimo l’art. 70 cit., nella parte in cui non prescriveva il predetto intervento, osservando che l’art. 30 Cost., comma 3 postula che ai figli nati fuori dal matrimonio sia assicurata tutela eguale a quella attribuita ai figli legittimi, compatibilmente con i diritti dei membri della famiglia legittima, ed escludendo nella specie la sussistenza di ragioni ostative ad una siffatta equiparazione, avuto riguardo alla funzione dell’intervento in questione, consistente nella tutela degl’interessi dei figli. L’uguaglianza della tutela assicurata ai figli nati fuori del matrimonio ha poi trovato un esplicito riconoscimento nella recente L. 10 novembre 2012, n. 219, che nel completare la parificazione delle rispettive posizioni giuridiche ha disposto, all’art. 1, comma 1, la sostituzione della parola “figli” alle espressioni “figli legittimi” e “figli naturali”, ovunque esse ricorrano.
Peraltro, a differenza di quanto accade per il giudizio di divorzio, nel quale il Pubblico Ministero riveste la qualità di litisconsorte necessario quando si tratti di adottare provvedimenti riguardanti i figli minori o incapaci, e può impugnare la sentenza che lo conclude, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 5, (cfr. Cass., Sez. 1, 29/10/1998, n. 10803), nel giudizio di separazione ed in quelli aventi ad oggetto i figli di genitori non coniugati il Pubblico Ministero non assume la posizione di parte necessaria, dovendo intervenire ma senza poteri d’iniziativa e non potendo impugnare la sentenza neppure per la parte concernente gl’interessi dei figli minori (cfr. Cass., Sez. 1, 13/02/2013, n. 3502; 14/05/2002, n. 6965; 10/06/1998, n. 5756). La mancata partecipazione del Pubblico Ministero non comporta dunque una lesione del contraddittorio rilevabile in ogni stato e grado del giudizio e tale da giustificare la rimessione degli atti al primo giudice, ai sensi dell’art. 354 cod. proc. civ., ma, essendo l’intervento prescritto pur sempre a pena di nullità, rilevabile anche d’ufficio ai sensi dell’art. 70 cod. proc. civ., la mancata effettuazione degli adempimenti necessari per portare la pendenza del giudizio a sua conoscenza si traduce in un vizio che, convertendosi in motivo di gravame, ai sensi dell’art. 161 cod. proc. civ., può essere fatto valere attraverso l’impugnazione della sentenza.
2. Nella specie, pertanto, la mancata notificazione del ricorso introduttivo e la mancata comunicazione al Pubblico Ministero non comporta la rimessione degli atti al Giudice di primo grado, ma impone, in accoglimento della censura specificamente formulata dal ricorrente, la cassazione del decreto impugnato, con il conseguente assorbimento degli altri motivi d’impugnazione, riflettenti la violazione e la falsa applicazione dell’art. 347 c.p.c., comma 3 e dell’art. 123-bis disp. att. cod. proc. civ., dell’art. 316-bis c.c., art. 337-ter c.c., commi 2 e 4 e art. 2697 cod. civ., dell’art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, dell’art. 24 della Carta di Nizza e dello art. 8, par. 1, della CEDU, nonché l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, in riferimento alla mancata acquisizione del fascicolo di primo grado ed all’omessa valutazione dell’accordo intervenuto tra le parti e dell’interesse superiore del minore, nonché all’esclusione della facoltà di provvedere direttamente al mantenimento della figlia ed ai criteri seguiti nella determinazione dell’assegno.
3. La causa va conseguentemente rinviata alla Corte d’appello di Salerno, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso; cassa il decreto impugnato; rinvia alla Corte di appello di Salerno, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi di L.A., A.G. e L.D. riportati nella sentenza.

E’ preminente la tutela del minore e della salvaguardia dei rapporti familiari sull’interesse dello Stato all’esecuzione in forma carceraria della sanzione penale

Cass. pen. Sez. I – 6, 6 febbraio 2018, n. 5500
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
C.A., N. IL (OMISSIS);
avverso l’ordinanza n. 1280/2015 TRIB. SORVEGLIANZA di SALERNO, del 30/03/2016;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ROSA ANNA SARACENO;
Lette le conclusioni del P.G., dott. Marilia Di Nardo, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con la decisione in epigrafe indicata il Tribunale di sorveglianza di Salerno respingeva le richieste formulate da C.A. di affidamento in prova al servizio sociale o, in subordine, di detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47 ter, comma 1, lett. a), ord. pen., quale madre di prole di età inferiore ad anni dieci.
Il Tribunale argomentava il rigetto dalla personalità della condannata, gravata da precedenti penali, destinataria di avviso orale, rilevando che la stessa aveva continuato a delinquere anche dopo aver fruito in passato delle misure alternative dell’affidamento in prova e della detenzione domiciliare e, che, da ultimo, in data 5.2.2015 era stata denunziata per aver partecipato ad una rissa.
2. Avverso tale ordinanza la C. ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, denunciando violazione di legge in relazione all’art. 47 ter, comma 1, lett. a), ord. pen. e difetto di motivazione.
Si duole che il Tribunale abbia rigettato l’istanza sulla base di un’erronea interpretazione delle norme disciplinanti la detenzione domiciliare, limitando il proprio vaglio alla sola pericolosità dell’istante, ma di fatto ignorando la documentata condizione personale e familiare della C., madre di nove figli, di cui gli ultimi due minori di anni dieci, uno dei quali con problemi di salute. Si evidenzia, altresì, che nella formulazione della prognosi di pericolosità non era stata considerata l’epoca dell’ultimo reato, risalente all’anno 2012, né era stata apprezzata l’assenza di condanne e carichi pendenti per il reato di evasione tali da giustificare un giudizio di inadeguatezza della misura al contenimento e alla prevenzione del rischio di recidiva.
Motivi della decisione
Il ricorso è fondato.
1. La detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter, comma 1, lett. a) ord. pen. è istituto teso alla tutela di interessi costituzionalmente garantiti, quali la protezione della maternità, dell’infanzia e del rapporto tra figlio-genitore in una fase delicata dello sviluppo psico-fisico del minore. Molteplici sono stati nel corso degli anni gli interventi in materia della Corte costituzionale che ha ribadito la preminenza della tutela del minore e della salvaguardia dei rapporti familiari sull’interesse dello Stato all’esecuzione in forma carceraria della sanzione penale (da Corte cost. n. 215 del 1990 che ha eliminato la preclusione per il figlio di ricevere assistenza dal padre detenuto quando la madre si trovi nell’assoluta impossibilità di provvedervi, sino a Corte cost. n. 239 del 2014 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, ord. pen. nella parte in cui esclude dal divieto di concessione dei benefici l’art. 47 ter, comma 1, lett. a), ord. pen.). Il diniego del beneficio fondato sulla pericolosità sociale è senza dubbio consentito nella misura in cui, nella tutela degli interessi cui mira tale istituto, deve comunque essere rispettata la condizione della sussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori reati; va, dunque, operato un bilanciamento tra il diritto all’affettività del minore e le istanze di difesa sociale e spetta al giudice il compito di contemperare le opposte esigenze.
2. Il Tribunale ha respinto le richieste della condannata senza in alcun modo differenziare il giudizio di immeritevolezza in base ai diversi presupposti di ammissione alle varie misure e senza considerare, in particolare, che la detenzione domiciliare per madre di fanciullo infradecenne è, a differenza delle altre, misura umanitaria e assistenziale e che la stessa può essere negata, in presenza dei presupposti oggettivi per la sua applicazione, solo in situazione in cui risulti una condizione soggettiva di reale pericolo (attuale e basato su fatti concreti) di recidiva specifica.
Ebbene, la motivazione del provvedimento risulta, sotto tale profilo, carente di un’effettiva individuazione di indici concreti di attuale pericolosità sociale della condannata, nonchè di un’effettiva comparazione tra gli stessi e l’esigenza di tutela del diritto all’affettività dei minori che non può essere banalizzata con la tautologica affermazione, posta a premessa della decisione, ossia che l'”avere prole di età inferiore ai dieci anni (…) non è ovviamente di per sè sufficiente per il conseguimento della misura alternativa alla detenzione”.
2.1 Il Tribunale ha posto a base del diniego il mero richiamo ai precedenti penali della ricorrente, senza nemmeno specificarne natura e tipologia e omettendo di collocare con precisione nel tempo i fatti oggetto delle pregresse condanne; ha valorizzato una denunzia del febbraio 2015 per rissa senza alcun esame specifico dell’episodio denunziato; ha valorizzato in negativo la commissione di nuovi illeciti dopo la fruizione di misure alternative, ma nessun accenno ha fatto al comportamento tenuto dalla condannata durante il periodo di pregressa detenzione domiciliare, nè alla sua situazione familiare e alle condizioni di salute di uno dei minori infredecenni.
3. Sicché ha ragione il difensore quando afferma che la prognosi di recidiva formulata non appare sostenuta da dati concreti ed attuali ed è immotivata quanto all’eventuale percorso di risocializzazione intrapreso, come pure immotivato è il provvedimento quanto alla idoneità della misura alternativa al contenimento del rischio di recidiva.
Alla luce di tali carenze motivazionali si impone l’annullamento dell’ordinanza impugnata e il rinvio al Tribunale di sorveglianza di Salerno per nuovo esame nel rispetto dei principi sopra enunciati.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di sorveglianza di Salerno.

La Corte, non rimettendo la causa alle Sezioni Unite, ribadisce il nuovo orientamento introdotto dalla sentenza n. 11504 del 2017

Cass. civ. Sez. I, 26 gennaio 2018, n. 2042
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 4501/2014 proposto da:
S.M., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Ferrari Pietro, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
P.M., elettivamente domiciliato in Roma, Piazza Mazzini n. 27, presso lo studio dell’avvocato Di Gioia Giovanni Candido, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Bonelli Sandro, giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 1603/2013 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 17/10/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/10/2017 dal cons. DOGLIOTTI MASSIMO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale CERONI FRANCESCA, che ha concluso per l’assegnazione alle Sezioni Unite, art. 374 c.p.c., comma 3, in subordine accoglimento; rigetto del ricorso incidentale;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato P. Ferrari che ha chiesto l’accoglimento;
udito, per il controricorrente e ricorrente incidentale, l’Avvocato G. C. Di Gioia che ha chiesto il rigetto.
Svolgimento del processo
Con ricorso in data 23-1-2009, P.M. chiedeva al Tribunale di Pistoia di dichiarare cessati gli effetti civili del matrimonio contratto con S.M..
Costituitasi, la S. non si opponeva alla domanda di divorzio, ma chiedeva determinarsi un assegno di Euro 500,00 mensili, oltre ad una quota di TFR già percepita dal marito.
Il Tribunale, con sentenza in data 14/11/2012, dichiarava cessati gli effetti civili del matrimonio, e rigettava la domanda di assegno e di quota del TFR, ritenendo equivalente la situazione economica dei coniugi.
Proponeva appello la S.. Costituitosi, il P. chiedeva dichiararsi inammissibile o improcedibile e rigettarsi nel merito l’appello, considerata la condizione economica equivalente dei coniugi.
La Corte d’Appello di Firenze, con sentenza in data 17-10-2013, rigettava l’appello.
Ricorre per cassazione l’appellante.
Resiste con controricorso l’appellato che pure propone ricorso incidentale.
Le parti hanno depositato memorie difensive.
Assegnata la causa alla sezione sesta civile, il Collegio la rimetteva alla sezione prima civile. L’udienza pubblica di discussione si teneva il 10/10/2017. Il Collegio si riconvocava per la camera di consiglio del 17/10/2017, nella quale assumeva la presente decisione.

Motivi della decisione
Va preliminarmente osservato che il P.G. ha chiesto la rimessione della causa alle sezioni unite di questa Corte, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 3, per cui se la sezione semplice ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette ad esse, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso. Tale richiesta viene giustificata, in relazione ad alcune pronunce fortemente innovative della prima sezione civile, in materia di assegno di divorzio, recentemente assunte.
Ritiene la Corte di non accogliere l’istanza.
La predetta norma, introdotta dal D.Lgs. m. 40 del 2006, va considerata disposizione di natura ordinamentale più che processuale, nonostante sia contenuta nel codice di rito civile, in quanto disciplina i rapporti interni tra sezioni nell’ambito del medesimo organo giudiziario. Ma proprio tale natura, a parere del Collegio, rende operativa la disposizione solo per i principi affermati dalle Sezioni Unite, dopo la sua entrata in vigore, e non per quelli, come nella specie, enunciati anteriormente, per i quali permane il profilo di grande autorevolezza dell’insegnamento delle Sezioni Unite, il punto più alto nella interpretazione e nella nomofilachia, ma non vincolante per le sezioni semplici.
Né si potrebbe affermare che l’art. 374 c.p.c., comma 3, si applichi se, come nel caso che ci occupa, il principio affermato dalle Sezioni Unite (sentenze nn. 11490 e 11492 del 1990) in materia di assegno di divorzio, sia stato da allora seguito costantemente nella successiva giurisprudenza delle sezioni semplici. La predetta norma si riferisce solo al pronunciamento delle Sezioni Unite, essendo del tutto ininfluente che il principio sia stato o meno seguito nel prosieguo.
Con il primo motivo, la ricorrente lamenta vizio di nullità della sentenza per mancanza e contraddittorietà della motivazione, affermando che la Corte di merito, da un lato, sostiene l’assenza di prova del tenore di vita pregresso tra i coniugi, dall’altro, l’impossibilità, con la crisi familiare, di mantenere tale pregresso tenore di vita. Esamina poi le condizioni economiche dei coniugi, ritenendo la sussistenza di errori ed omissioni del giudice a quo, e si sofferma in particolare sulla somma a suo dire riconosciutole a titolo di mantenimento in sede di separazione. Richiama infine l’esistenza di una relazione amorosa del marito, nonché il contributo dato da essa stessa alla vita familiare.
Con il secondo lamenta violazione della L. n. 898 del 1970, artt. 5 e 6 e successive modifiche, sui presupposti dell’assegno di divorzio.
Con il terzo, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti. La ricorrente contesta l’affermazione della sentenza per cui nessuna prova sarebbe stata fornita dall’appellante sul tenore di vita pregresso e sull’effettivo reddito da essa goduto. Analizza quindi le posizioni economiche dei coniugi, a suo dire assai più vantaggiose per il marito.
Con il primo e il secondo motivo, il controricorrente e ricorrente incidentale lamenta l’inammissibilità del ricorso in appello, da un lato, per mancata indicazione delle parti del provvedimento impugnato e delle modifiche richieste alla ricostruzione dei fatti, compiuta dal giudice di primo grado”, dall’altro, per omessa indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione di legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata (art. 342 c.p.c., nn. 1 e 2).
Va dapprima considerato, per ragioni sistematiche, il ricorso incidentale, che va rigettato.
Come aveva precisato il giudice a quo, il ricorso in appello indica, nel contesto, le parti impugnate, le motivazioni del gravame, le proprie richieste alla Corte di Appello (il riconoscimento di un assegno di divorzio e di una quota del 40% del TFR, percepito dal P.) con l’indicazione dei presupposti di legge che possono giustificarle.
I motivi del ricorso principale possono essere trattati congiuntamente, stante la stretta connessione.
Il Collegio condivide pienamente il nuovo orientamento introdotto dalla sentenza n. 11504 del 2017, ormai consolidato con varie pronunce conformi; si richiama quindi alla predetta sentenza e alle argomentazioni che la sorreggono.
Pare opportuno, per comprendere meglio il senso del nuovo indirizzo giurisprudenziale, fornire qualche breve cenno, in prospettiva storica.
Come è noto, la L. n. 898 del 1970, sul divorzio, estranea al Codice Civile che non va dimenticato – all’epoca conteneva l’originaria disciplina, caratterizzata dalla netta preminenza del marito nel governo della famiglia, cui corrispondevano due status (complesso di diritti e doveri) totalmente differenti per il marito e la moglie. Basti ricordare che l’art. 143 c.c. prevedeva che il marito somministrasse alla moglie tutto quanto necessario ai bisogni della vita, in proporzione alle sue sostanze (anche paradossalmente, quando la moglie fosse più facoltosa di lui); alla moglie spettava mantenere il marito soltanto se questi non avesse mezzi sufficienti. La separazione giudiziale si pronunciava solo per colpa di uno o di entrambi i coniugi; il coniuge incolpevole conservava la propria condizione personale e patrimoniale.
Nella originaria legge di divorzio, su un piano comunque di totale parità, si precisava che il Tribunale disponeva assegno periodico, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, a favore di un coniuge, in proporzione alle sostanze e ai redditi dell’altro; nella determinazione, il giudice teneva conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di entrambi.
Fu la riforma generale del diritto di famiglia del 1975 ad introdurre il profilo della inadeguatezza dei mezzi nel regime di separazione. E tale principio passò quasi inalterato nella riforma del divorzio (L. n. 74 del 1987), aggiungendosi la previsione dell’impossibilità di procurarsi tali mezzi per ragioni oggettive. Si è distinto nettamente il momento dell’ammissibilità dell’assegno, da quello della sua quantificazione, e infatti, in ordine a questa, vengono in considerazione ulteriori profili: le condizioni dei coniugi, le ragioni della decisione, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione dei patrimoni personali dei coniugi stessi comune, e di quello comune. Il reddito di entrambi e la durata del matrimonio.
Tale rigorosa distinzione fu affermata costantemente nell’interpretazione di questa Corte (tra le altre, Cass. N. 2156 del 2010), e tuttavia l’inadeguatezza dei mezzi fu ricollegata, dopo alcune incertezze iniziali, con le note sentenze delle Sezioni Unite n. 11490 e 11492 del 1990 al mantenimento del tenore di vita assunto durante la convivenza matrimoniale (anche se la lettera della norma non vi faceva riferimento alcuno e la ratio palese di essa poneva, come si diceva, una netta distinzione tra le condizioni economiche e sociali dei coniugi e l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente l’assegno).
L’affermazione, contenuta nelle sentenze predette, fu condotta dalla giurisprudenza successiva ad estreme conseguenze, vincolandola ad aspettative più o meno automatiche (per cui l’assegno doveva risultare più elevato, in relazione all’evoluzione della carriera lavorativa dell’obbligato, posteriore alla convivenza matrimoniale, ove prevedibile, e, addirittura, poteva ulteriormente accrescersi dopo il divorzio, sempre con riferimento a tale evoluzione lavorativa) (tra le altre, Cass. N. 11870 del 2015).
Ancora, in aperta violazione della lettera e dello spirito della norma, si effettuavano commistioni tra le due parti distinte della disposizione, e la valutazione delle condizioni economiche e sociali dei coniugi, inerenti al quantum, veniva sempre più ad interferire sull’an, sostenendosi che il tenore di vita, ove non fosse oggetto di prova specifica, poteva desumersi proprio dalla comparazione tra le condizione dei coniugi (del resto ci si rendeva conto che il tenore di vita, almeno nella sfera dell’obbligato, necessariamente diminuiva, con la separazione e il divorzio e l’esclusione delle opportune economie collegate alla convivenza familiare). (tra le altre, Cass. 2156 del 2010).
Il nuovo indirizzo propone un criterio differente e, a parere del collegio, assai più consono alla lettera e alla ratio dell’art. 5, comma 6, che nella prima fase sull’an non prevede – conviene ribadirlo – nessuna comparazione delle condizioni economiche dei coniugi e non fa riferimento alcuno al tenore di vita pregresso, orientando l’indagine alla sola situazione del coniuge richiedente, senza alcun riferimento, in questa fase, a quella dell’altro coniuge.
E’ appena il caso di precisare, a tal proposito, che la predetta espressione (tenore di vita) si rinviene nello stesso art. 5, comma 9 disposizione palesemente processuale, ove si precisa che i coniugi, all’udienza presidenziale, presentano le dichiarazioni dei redditi ed altra documentazione sul loro patrimonio; in caso di contestazione, potranno essere effettuate indagini sui redditi. sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita di ciascun coniuge. Dunque il tenore di vita non è quello comune, ma quello di ciascun coniuge e viene in considerazione al momento dell’assunzione dei provvedimenti provvisori, quando la documentazione, contestata, appaia infedele, e ciò dia luogo ad indagini al riguardo.
La sentenza n. 11504 del 2017, confermata dal successivo orientamento, indica dunque un diverso parametro assai più rispettoso, come si diceva, della lettera e della ratio dell’art. 5: l’indipendenza o l’autosufficienza del soggetto (più condivisibile il termine di autosufficienza che riguarda esclusivamente il soggetto richiedente, mentre l’indipendenza (da chi, da che cosa?) potrebbe ancora una volta richiamare la comparazione con l’ex coniuge obbligato).
La sentenza suindicata richiama la posizione dei figli (ovviamente dentro e fuori del matrimonio: destinatari del mantenimento, se minori, ma pure maggiorenni fino alla raggiunta autosufficienza economica). Certo qualcuno potrebbe opporre che il paragone non ha alcun senso, perché i figli potrebbero utilizzare la forza e l’entusiasmo della loro gioventù, per raggiungere al più presto l’autosufficienza (anche se purtroppo le statistiche sull’occupazione giovanile danno ancora oggi segnali assai sconfortanti), mentre non è tale il coniuge (in genere la donna) che non ha mai lavorato o magari ha cessato di lavorare durante il matrimonio (ma, ancora, dalle statistiche più aggiornate, emerge che questa condizione è assai più rara che in passato).
Qui sopperisce peraltro la seconda parte della predetta norma, che assai significativamente non sussiste in sede di separazione (il soggetto non ha mezzi adeguati e non può procurarseli per ragioni oggettive), e in tal caso continuerà ad operare la giurisprudenza pregressa di questa Corte (non solo ragioni di salute, ma anche di età, inidoneità ad inserirsi nel mercato di lavoro, mancanza di attività pregressa, di specializzazione, ecc.) (tra le altre Cass. n. 3838 del 2006; 27234 del 2008). E la sentenza più volte indicata, n. 11504, individua l’autosufficienza economica in alcuni specifici parametri, cui dovrebbe richiamarsi la giurisprudenza di merito, che avrà il compito di adeguarli alla concreta fattispecie dedotta: il possesso di redditi di qualsiasi specie, di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri imposti e del costo della vita nel luogo di residenza; le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale; la stabile disponibilità di una casa di abitazione, salvo ovviamente altri elementi che potranno rilevare nelle singole fattispecie.
Come si vede, le variabili sono molte numerose per un adeguamento il più possibile efficace alla situazione concreta. In tal senso, si potrebbe fin d’ora escludere pericolosi automatismi (ad es. multipli della pensione sociale o simili) che renderebbero autosufficienza o non autosufficienza identiche sempre a sé stesse ed uguali per tutti. Il coniuge richiedente l’assegno non può riguardarsi come una entità astratta, ma deve considerarsi come singola persona nella sua specifica individualità.
Per di più, una volta superato il vaglio dell’ammissibilità dell’assegno ed accertata la non autosufficienza economica, sicuramente potrebbero venire in considerazione i vari profili indicati dalla norma per la quantificazione dell’assegno, tali eventualmente da condurre ad una elevazione dell’importo.
Va precisato che, con il divorzio, cessa ogni rapporto personale e patrimoniale tra gli ex coniugio permanendo ovviamente una stretta collaborazione, nell’esercizio congiunto della responsabilità genitoriale, se vi sono figli minori, ma ciò non attiene al rapporto tra gli ex coniugi. Tuttavia il diritto all’assegno (e conseguentemente ad una quota di TFR, alla pensione di reversibilità, eventualmente da ripartirsi con altro coniuge dell’obbligato, ad un assegno a carico dell’eredità) trova il suo fondamento nel dovere inderogabile di solidarietà economica e sociale tra persone ormai estranee, che pure hanno svolto una parte più o meno lunga della loro vita in piena comunanza (e assai significativamente l’ex coniuge non compare tra i soggetti obbligati agli alimenti, pur attinenti ad una famiglia estremamente elevata, che non trova alcuna rispondenza sociologica nella realtà odierna; anche in tal caso, del resto, si considera dapprima la sola persona richiedente, valutandosi la sua inadeguatezza a soddisfare i bisogni essenziali, e, solo successivamente, la situazione economica dell’obbligato o degli obbligati).
Vi è chi ricorda peraltro le persistenti discriminazioni economiche della donna nel luogo di lavoro, e, più in generale, l’emarginazione che talora la colpisce nei più diversi settori, ma, all’evidenza di ciò deve farsi carico l’intera società e il Parlamento, con leggi adeguate che avvicinino l’Italia alla maggior parte degli altri Paese europei, e non certo (sempre e soltanto) l’ex coniuge.
E’ appena il caso di precisare che la sentenza della Corte Costituzionale n. 11 del 2015 che – secondo alcuni interpreti – avrebbe recepito e fatto proprio l’orientamento pregresso di questa Corte sul tenore di vita, si colloca nell’ambito del difficile e complesso rapporto tra le sentenze “interpretative” della Consulta e la posizione della Cassazione, custode della nomofilachia, e dei giudici di merito (al riguardo, tra le altre, Cass. S.U. n. 27986 del 2013). Com’è noto, la Corte Costituzionale ha talora ritenuto infondata la questione di legittimità di una disposizione di legge, indicando una interpretazione escludente l’accoglimento della questione stessa (ciò allo scopo evidente di evitare la creazione di troppe “lacune” nell’ordinamento) e tuttavia i giudici (e in particolare questa Corte) non hanno accolto l’impostazione della Consulta, continuando a privilegiare interpretazioni della norma differenti da quella indicata dalla Consulta. Non di rado, il giudice delle leggi, di fronte a questo indubbio conflitto, ha finito per dichiarare l’incostituzionalità della norma. Proprio per evitare questa necessaria conseguenza, da tempo la Corte Costituzionale preferisce far propria l’interpretazione prevalente e consolidata tra i giudici (specie se abbia ricevuto la conferma di questa Corte) il cosiddetto diritto vivente, e valutare se essa sia conforme o meno alla Costituzione.
Dunque la Consulta si è limitata a ritenere l’interpretazione privilegiata dalla Cassazione (circa il tenore di vita pregresso) conforme a Costituzione, così come – è da ritenere – sarebbe parimenti conforme l’indirizzo giurisprudenziale che l’ha sostituito, inerente all’autosufficienza economica.
Quanto alla fattispecie dedotta, escluso ogni riferimento al tenore di vita pregresso, così come alle circostanze che riguarderebbero semmai la quantificazione dell’assegno: ragioni della decisione (la presunta relazione amorosa del marito) nonché il contributo della moglie alla conduzione familiare ecc., va precisato che per giurisprudenza consolidata (per tutte, Cass. N. 18433 del 2010), 1′ assegno di separazione e gli accordi assunti in tale sede tra i coniugi (salvo che i coniugi stessi non intendano incidere direttamente sul futuro regime del divorzio) non rilevano direttamente ai fini della determinazione di quello di divorzio, stante la differente natura, caratteri e contenuto. Semmai gli accordi pregressi potrebbero considerarsi nella valutazione del patrimonio e del reddito di entrambi i coniugi.
Infine, alla luce del novellato art. 360 c.p.c., n. 5, non è più possibile censurare l’insufficienza o contraddittorietà della motivazione, essendo necessario richiamarsi a fatti specifici e determinati, trascurati dal giudice ed oggetto di discussione tra le parti (tra le altre, Cass. S.U. n. 8053 del 2014). In sostanza la ricorrente propone inammissibilmente una generale valutazione alternativa rispetto a quella effettuata dal giudice a quo, con motivazione adeguata e non contraddittoria: la Corte di merito sostiene che, con gli accordi omologati. i coniugi hanno proceduto alla divisione del patrimonio immobiliare e la moglie ha ottenuto il riconoscimento della proprietà esclusiva della casa coniugale nonché di altro appartamento sito in (OMISSIS) che si sono aggiunti ad altro di sua proprietà, pervenutole per successione. Continua il giudice a quo osservando che, dalla gestione di tali immobili – uno dei quali avente specifica destinazione commerciale – la S. può ricavare reddito adeguato a consentirle un tenore di vita dignitoso, pur osservando che in nessun caso sarebbe possibile mantenere il pregresso tenore di vita, essendo venute meno le economie gestionali consentite dalla convivenza. E’ appena il caso di precisa che eventuali errori sulla consistenza dei redditi e patrimoni avrebbero dovuto semmai essere oggetto di un ricorso per revocazione.
Per quanto finora osservato, i motivi del ricorso principale presentano profili in parte di inammissibilità, in parte di infondatezza e vanno rigettati.
Conclusivamente va rigettato il ricorso.
Ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4, non va cassata la sentenza impugnata, essendo conforme al diritto il dispositivo, e va corretta la motivazione, escludendosi ogni riferimento al tenore di vita pregresso, sostituito dal principio di autosufficienza economica del coniuge.
Pur trattandosi di orientamento consolidato, posto che, al momento della presentazione del ricorso era ancora operante l’orientamento pregresso si ritiene di compensare totalmente le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale; compensa le spese di giudizio tra le parti.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Le spese straordinarie che rispondono all’interesse dei figli esulano dal previo consenso dell’altro genitore

Cass. civ. Sez. VI – 1, 17 gennaio 2018, n. 1070
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12150/2017 proposto da:
T.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE LIEGI, 48/A, presso lo studio dell’avvocato NICOLA MARCHITTO, rappresentato e difeso dall’avvocato STEFANO GROLLA;
– ricorrente –
contro
C.S.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 2483/2016 del TRIBUNALE di VICENZA, depositata il 18/11/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 21/11/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO VALITUTTI.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
T.F. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Vicenza n 2483/2016, depositata il 18 novembre 2016, con la quale è stato accolto l’appello proposto da C.S. avverso la sentenza n. 79/2015 del Giudice di pace di Vicenza, finalizzato ad ottenere dal padre dei suoi figli minori, J. e A., la metà delle spese straordinarie sostenute, in esecuzione di quanto disposto dal Tribunale per i Minorenni di Venezia con decreto dell’11 gennaio 2013;
l’intimata non ha svolto attività difensiva;
Considerato che:
con l’unico motivo di ricorso – denunciando la violazione degli att. 147 e ss., in materia di mantenimento dei figli minori – T.F. si duole del fatto il giudice di appello abbia ritenuto che le spese per la retta della scuola materna privata frequentata dalla figlia A., per l’anno 2012-2013, le spese per i ticket relativi alla visita pediatrica, alle inalazioni termali ed agli esami audiometrici per i due figli, nonché per le cure odontoiatriche a favore della figlia A. costituissero spese straordinarie, da porre a carico – pro quota – del genitore non affidatario, T.F.;
Rilevato che:
il ricorrente non contesta che la retta della scuola privata frequentata dalla figlia costituisca una spesa straordinaria (p. 5 del ricorso), ma deduce di non avere prestato – per l’anno in discussione – il proprio consenso all’iscrizione della minore in detta scuola, in considerazione delle numerose assenze effettuate dalla medesima, sicché la frequentazione della stessa si era venuta a tradurre in una sorta di collocazione provvisoria della bambina quando la madre era occupata, piuttosto che in uno strumento utile per la sua crescita e formazione; quanto alle spese per i ticket sanitari e per le cure odontoiatriche, il T. ne contesta l’ascrivibilità alle spese straordinarie, per la loro natura di esborsi rutinari, di modesto importo e prevedibili, in ordine ai quali, peraltro, nessuna consultazione con il padre sarebbe stata effettuata dalla C.;
Considerato che:
per quanto concerne le spese per la frequentazione della scolastiche certamente ascrivibili a quelle straordinarie, come affermato nella specie anche dal Tribunale per i Minorenni nel decreto dell’11 gennaio 2013, e come è incontroverso tra le parti – questa Corte ha affermato che non è configurabile a carico del coniuge affidatario un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l’altro in ordine alla determinazione delle spese straordinarie, trattandosi di decisione “di maggiore interesse” per il figlio e sussistendo, pertanto, a carico del coniuge non affidatario, un obbligo di rimborso qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso. Ne consegue che, nel caso di mancata concertazione preventiva e di rifiuto di provvedere al rimborso della quota di spettanza da parte del coniuge che non le ha effettuate, il giudice – ai fini della corretta applicazione dei criteri previsti dagli artt. 147 e 316 bis c.c. – è tenuto a verificare la rispondenza delle spese all’interesse del minore mediante la valutazione della commisurazione dell’entità della spesa rispetto all’utilità e della sostenibilità della spesa stessa rapportata alle condizioni economiche dei genitori (Cass. 30/07/2015, n. 16175; Cass. 26/09/2011, n. 19607);
nel caso di specie, risulta dagli atti che il T. aveva dato il consenso all’iscrizione della figlia A. alla scuola materna privata, per l’anno precedente, in tal modo valutando la convenienza e la conformità dell’iscrizione all’interesse della minore, ma poi lo ha revocato, per l’anno scolastico 2012-2013, in base alla sola considerazione che la medesima era stata molto spesso assente nel corso del precedente anno;
è da ritenersi, pertanto, condivisibile l’assunto del giudice di appello, secondo cui il consenso del padre, una volta concesso, non poteva più essere revocato, senza alcuna specifica e rilevante ragione di convenienza e di adeguatezza all’interesse della minore;
Ritenuto che:
quanto ai ticket sanitari ed alle spese odontoiatriche, sulla cui natura di spese ordinarie e non straordinarie si incentra il ricorso del T., debbano intendersi per spese “straordinarie” quelle che, per la loro rilevanza, la loro imprevedibilità e la loro imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita dei figli, talché la loro inclusione in via forfettaria nell’ammontare dell’assegno, posto a carico di uno dei genitori, può rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità sancito dall’art. 316 c.c. e con quello dell’adeguatezza del mantenimento, nonché recare grave nocumento alla prole, che potrebbe essere privata, non consentendolo le possibilità economiche del solo genitore beneficiario dell’assegno “cumulativo”, di cure necessarie o di altri indispensabili apporti (Cass. 08/06/2012, n. 9372);
nel caso di specie, la decisione di appello non si sia conformata a tali principi, avendo il Tribunale ritenuto straordinarie tali spese senza in alcun modo soffermarsi a considerare – in conformità al disposto delle norme succitate – se si trattava, per la loro natura di spese non imprevedibili ed eccezionali e per il loro modesto importo, di esborsi ordinari, come tali ricompresi nell’assegno di mantenimento.
Ritenuto che:
in accoglimento del ricorso, nei limiti di cui in motivazione, l’impugnata sentenza debba essere, pertanto, cassata con rinvio al Tribunale di Vicenza in diversa composizione, che dovrà procedere all’esame del merito della controversia, facendo applicazione dei principi di diritto suesposti.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata; rinvia al Tribunale di Vicenza diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Motivazione semplificata.

Finché permane il vincolo di destinazione sul bene, questo non è suscettibile di pignoramento e, di conseguenza, non è sequestrabile (neanche in ambito penale)

Cass. pen. Sez. V, 17 gennaio 2018, n. 1935
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
contro:
S.D.A.H., nato il (OMISSIS), nel procedimento a carico di quest’ultimo;
avverso l’ordinanza del 27/01/2017del TRIB. LIBERTA’ di FIRENZE;
sentita la relazione svolta dal Consigliere ANGELO CAPUTO.
Svolgimento del processo
1. Conordinanza del 27/01/2017, il Tribunale del riesame di Firenze ha rigettato la richiesta di riesame proposta nell’interesse di S.D.A.H. avverso l’ordinanza del 15/12/2016 – 04/01/2017 con la quale la Corte di appello di Firenze aveva disposto, nell’ambito del processo nel quale S. è stata condannata in primo grado per reati di bancarotta fraudolenta, il sequestro conservativo in favore della parte civile curatela del Fallimento (OMISSIS) s.r.l. di un immobile ubicato in (OMISSIS).
Il Tribunale del riesame di Firenze ha rilevato che il sequestro conservativo ottenuto dalla curatela “non è, allo stato, opponibile al beneficiario dell’atto di destinazione ex art. 2645 ter c.c., poiché la effettuazione dell’atto di destinazione a suo favore del bene con relativa trascrizione è avvenuta anteriormente alla concessione del sequestro stesso”, sicché l’interesse del beneficiario persona disabile è “pienamente tutelato dalla priorità della trascrizione temporale dell’atto a suo favore”; pur non potendo la curatela in base al sequestro conservativo agire esecutivamente sul bene che resta di proprietà dell’imputata, “ostandovi la costituzione del beneficio prioritariamente trascritta e finché dura il medesimo”, la curatela stessa ha un legittimo interesse a mantenere il sequestro conservativo ottenuto, in quanto “nell’eventualità che il beneficio del disabile possa venir meno per qualsiasi causa ed in qualunque momento, essendo per sua natura comunque temporaneo, è interesse della curatela poter mantenere, mediante la trascrizione del provvedimento di sequestro, una prenotazione cronologica a garanzia del credito ad essa riconosciuto”, con sentenza, nei confronti dell’imputata, nonché “un vincolo cautelare reale laddove la ricorrente una volta tornata nella pienezza della disponibilità del bene decidesse di alienarlo”. Pertanto, osserva ancora il Tribunale del riesame di Firenze, “il sequestro conservativo da un lato non nuoce agli interessi del beneficiario e dall’altro continua a garantire l’interesse della curatela diretto a impedire comunque possibili ulteriori atti dispositivi da parte della proprietaria”.
2. Avverso l’indicata ordinanza ha proposto ricorso per cassazione S.D.A.H., attraverso il difensore avv. G. Gambogi, articolando tre motivi di seguito enunciati nei limiti di cuiall’art. 173 disp. att. c.p.c., comma 1.
2.1. Il primo motivo denuncia inosservanza o erronea applicazionedell’art. 316 c.p.p., edell’art. 671 c.p.c., in quanto il sequestro può essere disposto solo nei limiti in cui la legge consente il pignoramento, nonché vizi di motivazione. L’ordinanza impugnata ha ammesso il sequestro su un bene oggetto di vincolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c., evidenziando l’impossibilità per la curatela, per tutta la durata del vincolo, di agire in via esecutiva sul bene, ma tali deduzioni sono contraddittorie in quanto il sequestro conservativo è propedeutico all’esecuzione perché strumentale all’espropriazione, tanto da non poter essere disposto quando l’esecuzione non sia ammissibile, come confermatodall’art. 671 c.p.c., e dallo stessoart. 316 c.p.p., che consente il sequestro nei limiti in cui la legge consente il pignoramento dei beni mobili o immobili dell’imputato. Erroneamente l’ordinanza impugnata trascura il legame imprescindibile tra sequestro conservativo e pignoramento, che è il primo atto della procedura esecutiva; finché permane il vincolo di destinazione sul bene, questo non è suscettibile di pignoramento e, di conseguenza, non è sequestrabile.
2.2. Il secondo motivo denuncia inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 2645 ter c.c., per il mancato rispetto del principio di opponibilità a terzi del vincolo di destinazione apposto sul bene per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità. La ratio dell’art. 2645 ter c.c., è limitare la responsabilità patrimoniale exart. 2740 c.c., a fronte del perseguimento di interessi meritevoli di tutela riferita a persona “con disabilità”, condizione, questa, che legittima la costituzione del vincolo di destinazione, rendendo intangibile il bene vincolato. La condizione di gravissima disabilità del figlio della ricorrente (con “invalidità non inferiore all’80%”) è circostanza documentata e non contestata, laddove il vincolo è stato costituito il 04/10/2016 dopo la tredicesima operazione subita dal figlio e l’accertamento dell’irreversibilità della sua condizione. Il soggetto che costituisce il vincolo in favore del disabile non può essere perseguito dai creditori per debiti estranei alla tutela del beneficiario. Né la decisione impugnata può essere legittimata dalla considerazione che l’interesse del beneficiario persona disabile è tutelato dalla priorità temporale della trascrizione dell’atto di destinazione in suo favore e che non vi è lesione dell’interesse del beneficiario da parte del sequestro conservativo: il problema, infatti, non è la priorità della trascrizione, ma l’impossibilità per la curatela (non portatrice di un credito contratto per gli scopi del vincolo) di ottenere la concessione di un sequestro su un bene tutelato ex art. 2645 ter c.c., bene che, se, come nel caso di specie, il vincolo è ritenuto meritevole di tutela, non può costituire oggetto di sequestro; inoltre, il sequestro può pregiudicare, anche in modo irreparabile, gli interessi tutelati dall’ordinamento con la specifica previsione di cui all’art. 2645 ter c.c., qualora fosse necessario utilizzare il bene o alienarlo proprio per conseguire il denaro necessario alle cure e al mantenimento del beneficiario del vincolo, in ossequio agli scopi del vincolo.
2.3. Il terzo motivo denuncia inosservanza o erronea applicazionedell’art. 320 c.p.p., eart. 686 c.p.c., in quanto la concessione del sequestro conservativo deve essere necessariamente propedeutica ad un accertamento giudiziale nelle more del quale il creditore potrebbe perdere la garanzia del proprio credito. L’ordinanza impugnata ritiene che il sequestro conservativo in esame sia posto non già a garanzia dell’esito del giudizio instaurato a seguito di azione revocatoria dell’atto di disposizione del vincolo promossa dal creditore, bensì a tutela delle obbligazioni civili derivanti dal reato nell’ambito del procedimento penale sulla base dei presupposti di cuiall’art. 316 c.p.p., sicché il sequestro è concesso a garanzia della provvisionale di Euro 50 mila immediatamente esecutiva riconosciuta dalla sentenza di primo grado quale risarcimento del danno in favore della parte civile, da liquidarsi, nel suo complesso, in separata sede. Anche sul punto l’ordinanza è viziata in quanto la ratio del sequestro conservativo, sia in campo penalistico che in quello civilistico, è quella di assicurare al creditore sprovvisto di titolo esecutivo – e quindi non in grado di procedere all’espropriazione – la possibilità di espropriare in futuro quei beni del debitore potenzialmente sottraibili, nelle more del giudizio, alla garanzia del proprio creditore, tanto che all’esito del giudizio il sequestro conservativo decade o si converte in pignoramento: erroneamente, pertanto, il Tribunale del riesame ha confermato il sequestro conservativo nonostante l’esecutività della provvisionale in favore della curatela, posto che, come si desumedall’art. 320 c.p.p., edall’art. 686 c.p.c., la conversione del sequestro conservativo in pignoramento opera ipso iure nel momento in cui il sequestrante ottiene sentenza di condanna esecutiva, iniziando in quello stesso istante il processo esecutivo di cui il sequestro stesso, una volta convertitosi in pignoramento, costituisce il primo atto. In virtù della provvisoria esecuzione della provvisionale, il sequestro conservativo disposto dalla Corte di appello non ha ragion d’essere e il Tribunale del riesame avrebbe dovuto disporne la cancellazione.
3. Con requisitoria scritta del 25/08/2017, il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione dott. F. Baldi ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Motivi della decisione
1. Il ricorso deve essere accolto, nei termini di seguito indicati.
2. In premessa, mette conto ribadire che, come ha chiarito la giurisprudenza di questa Corte, in tema di riesame delle misure cautelari reali, nella nozione di “violazione di legge” per cui soltanto può essere proposto ricorso per cassazione a normadell’art. 325 c.p.p., comma 1, rientrano la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma non l’illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui all’art. 606, lett. e), stesso codice (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004 – dep. 13/02/2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226710). Il ricorso, peraltro, articola, almeno nella parte di gran lunga più significativa delle censure proposte, errores in procedendo rientranti nella cognizione del giudice di legittimità in questa sede.
Invero, rileva la Corte che il nucleo essenziale delle doglianze proposte dal ricorso può essere individuato in due tesi intorno alle quali l’impugnazione articola – principalmente nei primi due motivi – la critica al provvedimento del Tribunale del riesame di Firenze: da un lato, l’affermazione del “legame imprescindibile che lega il sequestro conservativo al pignoramento”; dall’altro, il rilievo che l’immobile oggetto di sequestro, in quanto sottoposto a vincolo di destinazione a norma dell’art. 2645 ter c.c., “non è suscettibile di pignoramento e conseguentemente non è sequestrabile”. È sullo scrutinio di queste due tesi, del tutto centrali nell’economia delle argomentazioni della ricorrente, che l’esame del ricorso deve concentrarsi.
3. La prima delle due tesi sulle quali fa leva il ricorso è senz’altro corretta. Le Sezioni unite di questa Corte hanno di recente ribadito la configurazione del sequestro conservativo delineata dal nuovo codice di rito penale: “il vigente sequestro conservativo penale è un istituto ridisegnato anche sulla falsariga del sequestro conservativo civile, previstodall’art. 2905 c.c., e regolato, nella procedura,dall’art. 671 c.p.c., del quale ricalca il limite alla autorizzabilità da parte del giudice rispetto a beni impignorabili, e la eseguibilità con forme (secondo le norme stabilite per il pignoramento presso il debitore o presso terzi o mediante trascrizione), che ne rendono evidente la natura di pignoramento anticipato” (così, in una fattispecie in tema di beni conferiti in fondo patrimoniale, Sez. U, n. 38670 del 21/07/2016, Culasso, in motivazione). È in questa prospettiva, del resto, che il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità circoscrive l’operatività del sequestro conservativo presso il datore di lavoro di somme di denaro relative a crediti retributivi ad un importo non superiore al quinto delle stesse, richiamando in proposito i medesimi limiti postidall’art. 545 c.p.c., all’esecuzione del pignoramento (Sez. 6, n. 16168 del 04/02/2011, P.C., De Biase, Rv. 249329; Sez. 5, n. 31733 del 26/05/2015, Valeria, Rv. 264768).
Ribadito, dunque, l’insegnamento delle Sezioni unite secondo cui, in tema di impugnazione delle misure cautelari reali, le questioni attinenti al regime di pignorabilità dei beni sottoposti a sequestro conservativo sono deducibili con la richiesta di riesame e devono essere decise dal tribunale del riesame, al quale è demandato un controllo “pieno”, che deve tendere alla verifica di legittimità della misura ablativa in tutti i suoi profili (Sez. U, n. 38670 del 21/07/2016, Culasso, Rv. 267592), rileva la Corte che, sotto questo profilo, colgono nel segno le censure della ricorrente in ordine alla ricostruzione del giudice del riesame della portata della misura cautelare reale in termini di “prenotazione cronologica” a garanzia del credito vantato dalla curatela, pur essendo alla stessa preclusa la possibilità di agire in via esecutiva sul bene di proprietà dell’imputata a causa del vincolo ex art. 2645 ter c.c., sullo stesso già trascritto: ricostruzione, questa, che, da una parte, svilisce la natura del sequestro conservativo di “pignoramento anticipato”, per riprendere la definizione offerta da Sez. U. Culasso, e, dall’altra, elude la questione della pignorabilità dell’immobile oggetto della misura di cuiall’art. 316 c.p.p..Assorbite le ulteriori censure (e, in particolare, quelle articolate con il terzo motivo), l’ordinanza impugnata, pertanto, deve essere annullata per nuova valutazione ancorata al detto principio di diritto.
4. Non può essere condivisa, invece, la seconda delle tesi sulle quali fa leva il ricorso.
4.1. Introdotto dalD.L. 30 dicembre 2005, n. 273,art.39 novies, convertito, con modificazioni, conL. 23 febbraio 2006, n. 51, l’art. 2645 ter c.c., ha delineato un “atto con effetto tipico reale, perché inerente alla qualità del bene che ne è oggetto, sia pure con contenuto atipico purché corrispondente ad interessi meritevoli di tutela” (Cass., Sez. 6 civ., n. 3735 del 24/02/2015). Nei suoi tratti fondamentali, l’istituto ricollega all’atto di destinazione trascritto un regime di opponibilità ai terzi del vincolo apposto per determinate finalità (tra le quali, la tutela dell’interesse di persona portatrice di disabilità, come nel caso di specie), la legittimazione di qualsiasi soggetto interessato ad agire per la realizzazione dell’interesse alla cui tutela il vincolo è finalizzato, la limitazione di responsabilità del bene “destinato” a garanzia patrimoniale solo dei debiti contratti per tale finalità: in questo senso, la dottrina ha fatto riferimento ad una parziale inespropriabilità del bene “destinato”.
L’estraneità degli interessi della curatela che ha chiesto e ottenuto il sequestro conservativo in esame alla sfera dei debiti contratti per il conseguimento della finalità per la quale l’immobile è stato vincolato non è contestata dai giudici cautelari.
5.2. L’erroneità della tesi della ricorrente secondo cui, in termini assoluti, l’immobile sottoposto a vincolo di destinazione a norma dell’art. 2645 ter c.c., “non è suscettibile di pignoramento e conseguentemente non è sequestrabile” si apprezza, tuttavia, con riguardo alla disciplina dettatadall’art. 192 c.p., Sez. U. Culasso (intervenuta, come si visto, in una fattispecie relativa a beni conferiti in un fondo patrimoniale) ha richiamato “le ipotesi di inefficacia automatica degli atti a titolo gratuito compiuti dall’imputato-debitore dopo il reato” previste appuntodall’art. 192 c.p.: tali ipotesi di c.d. revocatoria penale, hanno precisato le Sezioni unite, sono configurate per “operare come altrettante cause di inefficacia relativa dell’atto dispositivo del bene”, atto di per sé valido e tuttavia, “non opponibile dal colpevole, ossia dal soggetto già condannato”; cause di inefficacia, queste, che “ben possono spiegare i loro immediati effetti anche relativamente alla cautela penale, nella sede della emissione e della impugnazione del sequestro conservativo, prima che si converta in pignoramento”. Nella prospettiva delineata dalle Sezioni unite, un precedente arresto di questa Corte (Sez. 2, n. 2386 del 19/12/2008 – dep. 20/01/2009, Liuzzi, Rv. 243033), evidenziato come il richiamo contenutonell’art. 192 cod. pen.ai crediti indicatinell’art. 189 c.p., debba essere oggi riferito ai crediti indicatinell’art. 316 c.p.p., ha rimarcato, per un verso, che in forza dell’art. 192 cit. “tutti gli atti a titolo gratuito posti in essere dall’imputato a partire dal tempus commissi delicti non sono opponibili al creditore danneggiato dal reato” e, per altro verso, che la finalità del sequestro conservativo exart. 316 c.p.p., “consiste nell’immobilizzare il patrimonio del soggetto obbligato e attuare, così, la piena e concreta tutela del danneggiato dal reato per il soddisfacimento del suo credito risarcitorio, in attesa dell’esito dell’azione revocatoria”. Né in senso contrario può argomentarsi sulla base della giurisprudenza di legittimità – richiamata genericamente dalla ricorrente – che ha ritenuto insuscettibili di formare oggetto di sequestro conservativo i beni assoggettati al regime del fondo patrimoniale per un debito che il creditore sapeva essere stato contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia (Sez. 5, n. 598 del 01/10/2003, Orlando, Rv. 227445): nel caso esaminato in quell’occasione dalla Corte, infatti, l’illegittimità del sequestro conservativo chiesto dalla curatela fallimentare fu motivato attraverso il riferimento allaL. Fall.,art.46, che espressamente esclude dal novero dei beni compresi nel fallimento quelli costituiti in fondo patrimoniale (salvo quanto dispostodall’art. 170 c.c.).
4.3. D’altra parte, le indicazioni rinvenibili nella giurisprudenza di legittimità richiamata – e, prima di tutto, in Sez. U. Culasso – sono in linea con quelle offerte dalle Sezioni civili di questa Corte. Nel quadro di un’approfondita ricognizione della portata della disciplina dettatadall’art. 192 c.p., Sez. 3 civ., n. 23158 del 31/10/2014 ha individuato il fondamento di tale disciplina nell'”esigenza di attribuire specifica tutela ai crediti derivanti da reato”, sicché la peculiare inefficacia comminata dalla norma in esame si inscrive nel nucleo minimo di istituti che tendono a proteggere la vittima del reato: infatti, rispetto agli “atti a titolo gratuito successivi alla commissione del reato, definiti tout court inefficaci dal codice penale”, “nessuna ragione di tutela si può rinvenire in favore dei beneficiari di quegli stessi atti nella comparazione con le prioritarie esigenze del creditore per il risarcimento del danno cagionato dal reato stesso: a fronte di un incremento del proprio patrimonio privo, per definizione, di corrispettivo, qual è quello del beneficiario di quell’atto, deve trovare considerazione assolutamente preferenziale invece l’esigenza di ristorare il patrimonio del danneggiato dal reato, vulnerato da una condotta illecita e punita con la più grave delle sanzioni pubblicistiche e quindi affetta dalla considerazione del massimo disvalore possibile per l’intero ordinamento”. Quanto alla portata della disciplina dettatadall’art. 192 c.p., esplicita è la sua proiezione anche sul piano della tutela cautelare: “l’inefficacia penale può rilevare (…) come giustificazione di misure cautelari finalizzate a preservare la garanzia consistente nel patrimonio del colpevole, prima ancora della sua condanna ed alla sola condizione della sua sottoposizione a procedimento penale: è, oggi, il caso del sequestro conservativo previstodall’art. 316 c.p.p., una volta chiesto (…) dal danneggiato che si sia costituito parte civile; tuttavia, l’inefficacia potrà giungere a legittimare l’esecuzione sui beni sequestrati solo una volta che il sequestro, in virtù dei principi generali processualcivilistici richiamatidall’art. 320 c.p.p., si sia convertito – ma pur sempre con efficacia ex tunc e anticipando quindi al tempo della sua attuazione gli effetti della successiva azione esecutiva – in pignoramento in dipendenza del riconoscimento dei credito con sentenza di merito”.
4.4. Pertanto, alla luce delle convergenti linee interpretative tracciate dalla giurisprudenza di legittimità in sede penale e in sede civile, deve ribadirsi il principio di diritto in forza del quale non sono opponibili al creditore danneggiato dal reato gli atti a titolo gratuito posti in essere dall’imputato successivamente al tempus commissi delicti. Sotto questo profilo, fermi i principi di diritto enunciati, l’accertamento della sussistenza nel caso di specie dei presupposti applicativi della disciplina dettatadall’art. 192 c.p.- avuto riguardo, in particolare, alla gratuità dell’atto di destinazione (e in considerazione delle indicazioni problematiche espresse, sul punto, dal provvedimento applicativo della Corte di appello di Firenze) – deve essere rimesso al giudice del rinvio.
6. Per le ragioni indicate, l’ordinanza impugnata deve essere annullata, con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Firenze.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Firenze.