DICHIARAZIONE GIUDIZIALE DI PATERNITÀ E MATERNITÀ

Di Gianfranco Dosi
I Il quadro giuridico
Dei 14 titoli di cui si compone il primo libro del codice civile, l’itero titolo VII è dedicato alla filiazio¬ne ed è stato in gran parte modificato con la legge di riforma della filiazione (Legge 10 dicembre 2012 n. 219 e Decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154). Il capo V del titolo sulla filiazione si occupa dell’azione dichiarativa della paternità e della maternità, cioè dei casi in cui per iniziativa dell’interessato o, se minore di età, del genitore che esercita su di lui la responsabilità genitoriale, è promossa la procedura specifica prevista per dichiarare lo status genitoriale.
Si tratta di una tipica azione di stato, di competenza del tribunale ordinario (art. 9, secondo comma c.p.c.) anche nel caso in cui l’azione sia promossa nell’interesse di un minore di età (art. 38 disp. 2 att. c.c.). Si applica il rito a cognizione ordinaria. Trattandosi di procedura in cui è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero (art. 72 c.p.c. “Il pubblico ministero deve intervenire, a pena di nullità rilevabile d’ufficio… nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone…”) il tribunale giudica in composizione collegiale (art. 50-bis c.p.c. “Il tribunale giudica in composizione collegia¬le… nelle cause nelle quali è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero…”).
Già prima delle riforme introdotte nel 2012 e nel 2013 la materia era stata oggetto di una radicale trasformazione ad opera di Corte costituzionale 10 febbraio 2006, n. 50 che aveva dichiarato illegittimo l’art. 274 c.c. dove si prevedeva una fase preliminare di ammissibilità dell’azione che – concludendosi con un provvedimento appellabile e poi ricorribile per cassazione – costituiva una delle principali ragioni della estrema dilatazione dei tempi della causa. Nella sentenza si parla di manifesta irragionevolezza di una normativa “che si risolve in un grave ostacolo all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 Cost., e ciò, per giunta, in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica”.
Grazie a questo importante intervento della Corte costituzionale e grazie anche ad alcune significa¬tive decisioni della giurisprudenza di cui si parlerà, il procedimento si presenta oggi più in linea con il principio costituzionale di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.). Inoltre la plausibilità scientifica dei test genetici ha reso del tutto inutili in questi procedimenti altre prove, accelerando ulteriormente i tempi delle cause che, se non fosse per i lunghi tempi della giustizia, potrebbero durare pochissimo tempo.
Le norme di riferimento del codice civile, dopo l’intervento della Corte costituzionale del 2006 e dopo le riforme del 2012 e 2013, sono pochissime.
La morma principale è l’art. 269 che indica il contenuto dell’azione.
Art. 269 (Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità)
La paternità e la maternità possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il riconoscimento è ammesso.
La prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo.
La maternità è dimostrata provando la identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre.
La sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità.
I principi che si ricavano da questa norma sono sostanzialmente due.
Il primo è che l’azione con la quale si chiede l’accertamento in sede giudiziale della genitorialità è ammessa in tutti i casi in cui il riconoscimento di un figlio è previsto come possibile dalla legge. Perciò anche nell’ipotesi in cui il genitore che intenda effettuarlo era al momento del concepimento unito in matrimonio con altra persona (art. 250 c.c.) ed anche nell’ipotesi in cui il figlio sia nato da relazione incestuosa (art. 251 c.c. che prevede comunque in questo caso una previa autorizzazio¬ne giudiziaria), ma non quando il genitore ha meno di sedici anni (art. 250, ultimo comma c.c.) o nel caso in cui il figlio da riconoscere abbia già uno status di figlio (nato nel matrimonio) o di figlio nato fuori dal matrimonio riconosciuto da entrambi i genitori) (art. 253 c.c.).
l secondo principio espresso nell’art. 269 c.c. – in conformità a quanto prevede l’ultimo comma dell’art. 30 della Costituzione (“La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”) – è che la prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo ma che la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità.
II La legittimazione attiva
L’individuazione – operata dagli articoli 270 e 273 del codice1
1 Art. 270 (Legittimazione attiva e termine)
L’azione per ottenere che sia dichiarata giudizialmente la paternità o la maternità è imprescrittibile riguardo al figlio.
Se il figlio muore prima di avere iniziato l’azione, questa può essere promossa dai discendenti, entro due anni dalla morte.
L’azione promossa dal figlio, se egli muore, può essere proseguita dai discendenti legittimi, legittimati o naturali riconosciuti.
Si applica l’articolo 245.
Art. 273 (Azione nell’interesse del minore o dell’interdetto)
L’azione per ottenere che sia giudizialmente dichiarata la paternità o la maternità può essere promossa, nell’in¬teresse del minore, dal genitore che esercita la responsabilità genitoriale prevista dall’articolo 316 o dal tutore. Il tutore però deve chiedere l’autorizzazione del giudice, il quale può anche nominare un curatore speciale.
Occorre il consenso del figlio per promuovere o per proseguire l’azione se egli ha compiuto l’età di quattordici anni.
Per l’interdetto l’azione può essere promossa dal tutore previa autorizzazione del giudice. – di chi è legittimato ad iniziare la cau¬sa di accertamento giudiziale della paternità o della paternità è tassativa. Nessun soggetto diverso da quelli indicati ha legittimazione attiva. Non ha, in particolare legittimazione attiva, il Pubblico ministero che nel sistema della filiazione acquisisce un potere (non di azione) ma di sollecitazione della nomina di un curatore speciale finalizzata all’eliminazione di status difformi dal vero (discono¬scimento e impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità) o alla prosecuzione dell’azione di riconoscimento in caso di morte del figlio e di incapacità dei discendenti.
a) Il figlio
È legittimato in primo luogo il figlio. L’azione è imprescrittibile e può quindi essere promossa dal figlio in ogni tempo.
Più volte è stata affermata in giurisprudenza la manifesta infondatezza della questione di legitti¬mità costituzionale dell’art. 270 c.c. nella parte in cui prevede l’imprescrittibilità dell’azione per il riconoscimento di paternità proposta dal figlio e nella parte perciò in cui sacrificherebbe il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo (Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960; Cass. civ. Sez. I, 29 novembre 2016, n. 24292).
Si afferma in queste decisioni che l’imprescrittibilità, nei riguardi del figlio, della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità, è espressione del diritto della persona, costituzionalmente rilevante, alla propria identità, e quindi al conseguimento di uno status filiale corrispondente alla verità biologica.
b) I discendenti del figlio morto
In caso di morte del figlio l’azione può essere promossa dai suoi discendenti (figli ma anche i nipoti in quanto la legge non parla di discendenti prossimi come fa per esempio l’art. 433 c.c. che indica gli obbligati agli alimenti), anche soltanto da uno, entro il termine di decadenza di due anni dalla morte, mentre se l’azione era già stata iniziata i suoi discendenti possono sempre proseguirla.
Dal richiamo che nell’art. 270 viene fatto all’art. 245 si ricava che se i discendenti si trovano in sta¬to di incapacità, può essere nominato dal presidente del tribunale ordinario (art. 80 c.p.c. e art. 38 disp. att.c.c.) un curatore speciale (su iniziativa del genitore o del tutore o del pubblico ministero) affinché venga iniziata o proseguita l’azione.
c) Il genitore esercente la responsabilità genitoriale (o il tutore) in sostituzione del fi¬glio minore
Come previsto nell’art. 273 c.c. l’azione per ottenere che sia giudizialmente dichiarata la paternità o la maternità può essere promossa, nell’interesse del minore, dal genitore che esercita la respon¬sabilità genitoriale.
Si tratta di una ipotesi di sostituzione processuale (ammessa dall’art. 101 c.p.c. 2
2 Art. 81 c.p.c. (Sostituzione processuale)
Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui. ) in quanto il genitore esercente la responsabilità genitoriale agisce in nome proprio per far valere un diritto del figlio (Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2005, n. 10131).
In passato Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 1999, n. 10786 aveva ritenuto manifestamente in¬fondata la questione di legittimità costituzionale della norma con riferimento agli art. 2 e 24 cost. nella parte in cui attribuisce al genitore la legittimazione ad agire per la dichiarazione giudiziale di maternità o paternità senza prevedere la necessità della nomina di un curatore speciale per il minore e, in caso di inattività del sostituto processuale , la sospensione dei termini fino al raggiun¬gimento della maggiore età del sostituito; in quanto “l’interesse del minore risulta adeguatamente protetto, nel caso di promovimento dell’azione da parte del genitore attraverso la verifica della sua rispondenza a quell’interesse demandata al giudice (a seguito della sentenza della Corte cost. n. 341 del 1990), nel caso contrario con la possibilità per il figlio, una volta divenuto maggiorenne, di promuovere l’azione, per lui imprescrittibile ai sensi dell’art. 270 c.c”.
Se il figlio minore ha un tutore (nominato se il genitore è morto o non può esercitare la responsa¬bilità genitoriale, ovvero ai sensi dell’art. 10, comma 3, della legge 4 maggio 1983, n. 184) sarà il tutore che può iniziare l’azione, ma ha l’onere di chiedere preventivamente l’autorizzazione del presidente del tribunale ordinario (art. 80 c.p.c. e art. 38 disp. att. c.c.), il quale può anche no¬minare un curatore speciale ove ritenga che possa esserci un conflitto di interessi tra il figlio e il tutore stesso.
In passato Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341 aveva ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 273 nella parte in cui non estende al genitore la necessità dell’autorizzazio¬ne del giudice, prevista per il tutore, non potendo nei confronti del genitore la valutazione dell’in¬teresse del minore da parte del giudice essere prospettata nella forma di un atto (autorizzatorio) integrativo della legittimazione ad agire.
L’azione ha poi sempre necessità del consenso del minore quattordicenne, sia nel caso di azione che nel caso di prosecuzione (Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 781 ha precisato che il raggiungimento, da parte del minore, dell’età ritenuta dal legislatore adeguata ad esprimere un meditato giudizio, rilevabile d’ufficio, determina il venir meno della necessità del consenso del pri¬mo genitore al riconoscimento da parte dell’altro e, in difetto, dell’intervento del giudice).
d) Il tutore in caso di interdizione dell’interessato
Anche nel caso in cui l’interessato maggiorenne sia interdetto, legittimato all’azione è il tutore sempre previa autorizzazione del tribunale.
Anche in questo caso il tutore è un sostituto processuale dell’incapace.
III La legittimazione passiva
Ai sensi del primo comma dell’art. art. 276 c.c. “la domanda per la dichiarazione di paternità o di maternità deve essere proposta nei confronti del presunto genitore o, in sua mancanza, nei confronti dei suoi eredi. In loro mancanza, la domanda deve essere proposta nei confronti di un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso”.
Il testo della norma è stato riformato dalla legge 10 dicembre 2012 n. 219 e dal Decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154.
In precedenza, sulla base del previgente testo della disposizione (“La domanda per la dichiarazione di paternità o di maternità naturale deve essere proposta nei confronti del presunto genitore o, in mancanza di lui, nei confronti dei suoi eredi”) era stato dibattuto in giurisprudenza il problema se fosse ammissibile, in caso di mancanza di eredi, promuovere ugualmente l’azione richiedendo la nomina di un curatore speciale quale contraddittore legittimato passivo. La Corte costituzionale aveva più volte escluso l’ammissibilità della questione affermando che si trattava di un problema di spettanza del legislatore (Corte cost. 29 ottobre 2009, n. 278; Corte cost. 20 marzo 2009, n. 80; Corte cost. 20 novembre 2008, n. 379; Corte cost. 21 dicembre 2007, n. 450; Corte cost. 20 luglio 2007, n. 319).
La questione, come si è visto, è stata appunto risolta dal legislatore con il nuovo testo della di¬sposizione che, in caso di mancanza di eredi, consente ora di promuovere il giudizio nei confronti di un curatore nominato dal presidente del tribunale. Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2014, n. 19790 ha ritenuto applicabile il testo riformato dell’art. 276 applicabile anche ai giudizi pendenti all’entrata in vigore del Decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154.
L’altro problema, pure molto dibattuto in passato, è quello di chi siano gli “eredi” legittimati pas¬sivamente. A questo problema ha dato una soluzione Cass. civ. Sez. Unite, 3 novembre 2005, n. 21287 ritenendo che la domanda per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, in caso di morte del presunto genitore, va proposta solo nei confronti dei suoi eredi diretti e immediati, quali legittimati passivi, mentre gli eredi degli eredi del presunto genitore, o altri soggetti, comunque portatori di un interesse contrario all’accoglimento della domanda, possono solo intervenire in giudizio. Il principio è stato poi ribadito successivamente (Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2014, n. 10783 dove si è fatto notare che, in ogni caso, la possibilità di promuovere oggi il giudizio nei confronti di un curatore speciale rende effettivamente la questione meno drammatica rispetto al passato quando la norma non contemplava questa possibilità).
Il capoverso dell’art. 276 prevede che “Alla domanda può contraddire chiunque vi abbia inte¬resse”. Secondo Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2007, n. 8355 questa disposizione configura una forma di intervento principale, ai sensi dell’art. 105, primo comma, c.p.c., e non un intervento meramente adesivo.
Secondo Cass. civ. Sez. I, 26 settembre 2011, n. 19603 la disposizione disciplina la posizione di soggetti, portatori di interessi, patrimoniali e non patrimoniali, contrari all’accertamento della filiazione, quali potrebbero essere il coniuge ed i figli (legittimi) del presunto genitore, ai quali perciò è garantita la legittimazione a contraddire alla domanda intervenendo nel processo, senza obbligo di essere citati in giudizio come contraddittori necessari.
IV Aspetti processuali
Come si è detto all’inizio, il giudizio di accertamento della paternità o della maternità costituisce una causa di stato soggetta al rito a cognizione ordinaria anche nel caso in cui sia promossa dal genitore nell’interesse del figlio minore ed è di competenza del tribunale ordinario (art. 38 disp. att. c.c.), in composizione collegiale essendo obbligatorio l’intervento del Pubblico ministero (art. 50 bis c.p.c).
La causa deve, quindi, essere introdotta, con citazione (da notificare anche al Pubblico ministe¬ro), secondo le regole ordinarie, nel luogo di residenza del convenuto (Cass. civ. Sez. Unite, 7 febbraio 1992, n. 1373; Cass. civ. Sez. I, 8 novembre 1997, n. 11021; Trib. Milano, 26 giugno 2013).
Ove la causa venisse introdotta con ricorso, e trattata con il rito camerale, la parte che fa rilevare la nullità della sentenza per tale motivo ha l’onere di dedurre lo specifico pregiudizio al diritto di difesa che le sarebbe derivato dal rito pur erroneamente seguìto (Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 783).
Poiché l’intervento del Pubblico ministero è obbligatorio, la mancata trasmissione degli atti a quest’ultimo, anche in grado di appello, in modo che egli sia informato e messo in condizione di adottare le proprie determinazioni al riguardo, comporta la nullità della sentenza (Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 2017, n. 14896; Cass. civ. Sez. VI – 1, 4 settembre 2015, n. 17664; Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 1997, n. 807). Tuttavia l’obbligatorietà dell’intervento del Pubbli¬co ministero non richiede la partecipazione del rappresentante di quell’ufficio alle varie udienze, essendo assicurata l’osservanza del precetto normativo ove egli sia stato ufficialmente informato dell’esistenza del procedimento, così da avere la possibilità di intervenire e di esercitare i poteri attribuitigli dalla legge, restando irrilevante che in concreto egli non partecipi alle udienze e non formuli conclusioni. Il principio è stato ribadito più volte in connessione con molte ipotesi di giudizi in cui è previsto come obbligatorio l’intervento del pubblico ministero (Cass. civ. Sez. I, 14 feb¬braio 2018, n. 3638; Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2008, n. 3708; Cass. civ. Sez. Unite, 7 ottobre 2010, n. 20773; Trib. Potenza, 16 novembre 2016 in un giudizio di accertamento della paternità).
La sentenza dichiarativa della paternità (la cui natura giuridica sarà approfondita più oltre) è ap¬pellabile e la decisione di appello è ricorribile per cassazione. Avendo il Pubblico ministero solo potere di intervento e non di azione è evidente che egli non può impugnare la sentenza dichia¬rativa della paternità. Infatti secondo i primi due commi dell’art. 72 c.p.c. il Pubblico ministero, che interviene nelle cause nelle quali ha potere di azione, ha gli stessi poteri che competono alle parti e li esercita nelle forme che la legge stabilisce per queste ultime (potendo anche impugnare la sentenza), mentre negli altri casi di intervento previsti nell’art. 70 (tra cui quello previsto nelle azioni di stato), può soltanto produrre documenti, dedurre prove, prendere conclusioni nei limiti delle domande proposte dalle parti.
V La valutazione dell’interesse del minore
Nel 1990 la Corte costituzionale dichiarò illegittimo l’art. 274 c.c. (che all’epoca prevedeva la fase di ammissibilità dell’azione giudiziaria della paternità) nella parte in cui non prevedeva da parte del tribunale (allora per i minorenni) una valutazione di conformità all’interesse del minore dell’a¬zione promossa dal genitore nell’interesse del figlio (Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341). Nella sentenza si affermava che il tribunale per i minorenni ha la funzione istituzionale di valutazione dell’interesse del minore anche nell’ipotesi in certo senso inversa di conflitto di cui al comma quarto dell’art. 250 cod. civ. allorché cioè il genitore che ha già riconosciuto il figlio si opponga al riconoscimento dell’altro giudicandolo non conveniente all’interesse del minore e si concludeva che “è pertanto costituzionalmente illegittimo – per contrasto con l’art. 3 Cost. – l’art. 274, comma primo, del codice civile stesso, nella parte in cui, ove si tratti di minore, non prevede che l’azione di accertamento della paternità promossa dal genitore esercente la potestà sia ammessa solo ove ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del minore”.
L’art. 274 c.c. prevedeva tra l’altro che “il tribunale, anche prima di ammettere l’azione, può, se trattasi di minore… nominare un curatore speciale che lo rappresenti in giudizio” con ciò lasciando intendere che la decisione del genitore di promuovere l’azione non necessariamente comportava la coincidenza tra tale decisione e l’interesse del minore, potendo il tribunale ritenere sussistente un conflitto di interessi e, appunto, nominare un curatore speciale al minore. Proprio in ragione di tale valutazione dell’interesse del minore nella fase di ammissibilità, attribuita al tribunale per i minorenni, la giurisprudenza ritenne anche non necessaria nella causa la nomina al minore di un curatore speciale (Cass. Civ. Sez. I, 29 settembre 1999, n. 10786).
Successivamente la Corte costituzionale dichiarò illegittima la fase preliminare di ammissibilità dell’azione (Corte cost. 10 febbraio 2006, n. 50) nella quale doveva essere valutato l’interesse del minore ma la questione della valutazione di tale interesse non restò ridimensionata. Infatti In questa sentenza la Corte precisava che “in presenza di una incostituzionalità che coinvolge il procedimento nella sua struttura e funzione, la circostanza che lo stesso abbia anche lo scopo di accertare l’interesse del minore non fa venire meno l’incostituzionalità stessa, né giustifica la per¬manenza nell’ordinamento del giudizio di ammissibilità con questo solo scopo. L’esigenza, infatti, che l’azione di dichiarazione giudiziale della paternità o maternità naturale risponda all’interesse del minore non viene certamente meno con la soppressione del giudizio di cui all’art. 274 del codice civile, ma potrà essere eventualmente delibata prima dell’accertamento della fondatezza dell’azione di merito”.
Con la riforma poi della filiazione (Legge 10 dicembre 2012 n. 219 e Decreto legislativo 28 dicem¬bre 2013, n. 154) tutte le azioni relative allo status filiationis, ivi compresa quella di accertamento giudiziale della paternità e della maternità, furono attribuite anche in caso di minore età dell’in¬teressato, alla competenza del tribunale ordinario e sembrò, quindi, oggettivamente appannato il riferimento all’interesse del minore (la cui valutazione era un compito precipuo del tribunale per i minorenni), anche in considerazione della sostanziale centralità che il nuovo sistema attribuiva al favor veritatis al quale appariva estranea ogni considerazione sull’interesse del minore.
Tuttavia la giurisprudenza nel suo complesso ha continuato a riferirsi alla valutazione dell’interesse del minore nelle azioni di status filiationis (relative non solo al disconoscimento e all’impugnazione di riconoscimento ma anche alle cause di accertamento giudiziale della paternità, sia pure riferi¬bili ratione temporis a vicende disciplinate dalla normativa precedente all’abolizione della fase di ammissibilità: per esempio Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3935 (L’interesse umano e af¬fettivo del minore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità non va più valutato dal Tri¬bunale qualora il minore abbia raggiunto i sedici anni, essendo in tale caso la valutazione di detto interesse rimessa allo stesso minore, attraverso la diretta manifestazione di consenso all’azione); Cass. civ. Sez. I, 19 aprile 2010, n. 9300 (La contrarietà all’interesse del minore può sussistere solo in caso di concreto accertamento di una condotta del preteso padre tale da giustificare una dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale).
Con riguardo alle azioni che eliminano lo status legale difforme da quello biologico si è così affer¬mato che “anche il quadro Europeo ed internazionale di tutela dei diritti dei minori evidenzia la centralità della valutazione dell’interesse del minore nell’adozione delle scelte che lo riguardano. Tale principio ha trovato la sua solenne affermazione dapprima nella Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con Legge 27 maggio 1991, n. 176, in forza della quale “in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione premi¬nente” (art. 3, paragrafo 1). Nella stessa direzione si pongono la Convenzione Europea sull’eser¬cizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con L. 20 marzo 2003, n. 77, e le Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore, adottate il 17 novembre 2010, nella 1098ª riunione dei delegati dei ministri. Infine, l’art. 24, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, sancisce il principio per il quale “in tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente” (Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272 che, con sentenza interpretativa di rigetto, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale delle norme sull’impugnazione del riconosci¬mento per difetto di veridicità nella parte in cui non consentirebbero la valutazione dell’interesse del minore alla caducazione dello status non corrispondete alla verità biologica.
Le stesse argomentazioni sono sostanzialmente riprese in Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2017, n. 8617; Cass. civ. Sez. I, 15 febbraio 2017, n. 4020; Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5653, tutte anch’esse riferibili a casi di disconoscimento in cui si afferma che pur dovendosi rico¬noscere un accentuato favore dell’ordinamento per la conformità dello status alla realtà della pro¬creazione, va escluso che quello dell’accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamen¬to, concludendosi che in tutti i casi di possibile divergenza tra identità genetica e identità legale, la necessità del bilanciamento tra esigenze di accertamento della verità e interesse concreto del minore è resa trasparente dall’evoluzione ordinamentale intervenuta e si proietta anche sull’inter¬pretazione delle disposizioni da applicare.
Come si comprende queste decisioni pongono il problema della valutazione dell’interesse del mi¬nore nelle azioni con cui si elimina uno status difforme dal vero e non nelle cause con le quali si accerta e si dichiara uno status.
Ciononostante si deve concludere che nell’azione giudiziale della paternità o della maternità natu¬rale non può non farsi applicazione dei principi generali desumibili anche dalle richiamate norme convenzionali e sovranazionali che prevedono la necessaria valutazione dell’interesse del minore in tutti i giudizi che lo coinvolgono.
A tale proposito non può che richiamarsi quanto affermato in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. I, 11 settembre 2012, n. 15158; Cass. civ. Sez. I, 19 aprile 2010, n. 9300; Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2005, n. 15101; Cass. civ. Sez. I, 26 luglio 2002, n. 11041) secondo cui può ravvisarsi la contrarietà all’interesse del minore solo nell’ipotesi di concreto accertamento di una condotta del preteso padre tale da giustificare una dichiarazione di decadenza dalla responsabilità genitoriale, ovvero di una prova della sussistenza di gravi rischi per l’equilibrio affettivo e psicolo¬gico del minore e per la sua collocazione sociale; rischi che devono emergere da fatti obiettivi, desunti dalla pregressa condotta di vita del preteso padre. Di talché, in assenza di essi, l’interesse del minore va, di norma, considerato sussistente, a prescindere dai rapporti di affetto che possano concretamente instaurarsi con il presunto genitore e dalla disponibilità di quest’ultimo ad instau¬rarli, avendo riguardo al miglioramento obiettivo della sua situazione in relazione agli obblighi giuridici che ne derivano per il presunto padre.
VI La prova della paternità e della maternità
a) La consulenza tecnica genetica
Le prove genetiche sono state negli ultimi decenni largamente utilizzate nelle azioni di accerta¬mento e disconoscimento della paternità. La loro affidabilità scientifica ha cominciato ad essere recepita in giurisprudenza fin dagli anni ottanta anche se alcune decisioni della giurisprudenza di legittimità sono state – soprattutto in passato – inclini ad attribuire alle prove genetiche non un protagonismo decisionale in sé, ma soprattutto un valore confermativo delle prove raccolte in modo tradizionale3
3 Per un approfondimento ampio si rinvia alla voce PROVE GENETICHE . Fondamentale è stato il contributo della Corte costituzionale che, soprattutto con l’importante decisione Corte cost. 14 maggio 1999, n. 170 richiamava autorevolmente le “avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e l’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini”.
La giurisprudenza ha preso così sempre più consapevolezza dell’affidabilità delle prove genetiche che possono “fornire elementi di valutazione non solo per escludere, ma anche per affermare il rapporto biologico di paternità, anche quando le risultanze delle indagini consentono una valuta¬zione meramente probabilistica, attesa la natura probabilistica di tutte le asserzioni delle scienze fisiche e naturalistiche” (Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2004, n. 13665).
Il giudizio di massima affidabilità viene ribadito costantemente anche dalla giurisprudenza di me¬rito (Trib. Roma Sez. I, 21 febbraio 2014) ed è stato affermato anche in sede penale con l’at¬tribuzione ai riscontri genetici del valore di prova e non solamente indiziario (Cass. pen. Sez. II, 5 febbraio 2013, n. 8434).
Si è così giunti gradualmente ad un cambio di prospettiva consistente nel considerare le prove scientifiche decisamente come prevalenti sulle altre.
La nuova impostazione si deve a Corte cost. 6 luglio 2006, n. 266 che – richiamandosi ai “progressi della scienza biomedica che, ormai, attraverso le prove genetiche od ematologiche, consentono di accertare la esistenza o la non esistenza del rapporto di filiazione” – dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 235, comma 2, codice civile, nella parte in cui subordinava l’accesso alle prove ematologiche alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie. Non è più necessaria, quindi, la prova dell’adulterio (secondo quanto prescriveva la norma del codice civile) per richiedere l’espletamento della CTU ematologica e genetica.
Questo lento cammino verso la piena fiducia probatoria delle prove scientifiche nell’accertamento e nel disconoscimento della paternità ha fatto emergere anche più chiaramente in giurisprudenza la consapevolezza circa la prevalenza, nel sistema della filiazione, del favor veritatis. Si può cer¬tamente ritenere che l’orientamento sulla piena fiducia probatoria delle prove scientifiche non sia altro che la conseguenza processuale della raggiunta consapevolezza sulla prevalenza del favor veritatis (Corte cost. 1 aprile 1982, n. 64 dove già si riconosceva espressamente che “la riforma del diritto di famiglia ha indubbiamente spostato l’accento dal favor legitimitatis al favor veritatis”; Corte cost. 6 maggio 1985, n. 134 dove si precisava che “negli ultimi decenni la coscienza collettiva si è ulteriormente evoluta nel senso di accordare maggiore rilevanza al rapporto effettivo di procreazione rispetto alla qualificazione giuridica della filiazione”; Corte cost. 22 aprile 1997, n. 112 dove si afferma, in riferimento all’azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, che l’autenticità (cioè la verità) del rapporto di filiazione costituisce l’essenza stessa dell’interesse del minore; Corte cost. 14 maggio 1999, n. 170 che, in relazione al termine dell’azione di disconoscimento ancorato alla conoscenza dei presupposti indicati nel codice civile, ha affermato che il legislatore della riforma del diritto di famiglia ha superato, attraverso la equiparazione della filiazione naturale a quella legittima, l’impostazione tradizionale che attribuiva preminenza al favor legitimitatis).
Proprio riallacciandosi al significato di queste pronunce sulla prevalenza del favor veritatis e sulla piena affidabilità scientifica degli esami genetici, la riforma della filiazione (legge 10 dicembre 2012, n. 219 e decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154) ha eliminato nelle azioni di accertamento e disconoscimento della paternità ogni impedimento all’accesso immediato alle prove ematologiche e genetiche e ogni tipizzazione delle ipotesi per intraprendere l’azione. Il nuovo art. 243-bis del codice civile (disconoscimento di paternità) afferma al secondo comma che “chi esercita l’azione è ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre”. Il secon¬do comma dell’art. 269 (“dichiarazione giudiziale di paternità e maternità”) conferma sul versante della filiazione fuori dal matrimonio che “la prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo”. Affermazione legislativa – che la legge 219/2012 non ha modificato e che quindi già era molto chiara anche prima della riforma – che sconfessa quell’orientamento di una certa giurisprudenza, citato all’inizio, che è incline ad attribuire alle prove genetiche un valore non tanto in sé quanto confermativo delle prove raccolte in modo tradizionale. Orientamento sintomatico di una cultura scettica verso le prove genetiche che altro non sono se non prove come tutte le altre.
Nella direzione, quindi, della piena utilizzabilità della consulenza genetica, si afferma oggi in Cass. civ. Sez. I, 13 novembre 2015, n. 23290 che la consulenza in questione è uno strumento istruttorio officioso rivolto verso l’unica indagine decisiva in ordine all’accertamento della verità del rapporto di filiazione e, pertanto, la sua richiesta, da un lato, non può essere ritenuta esplorativa, intendendosi come tale l’istanza rivolta a supplire le deficienze allegative ed istruttorie di parte, così da aggirare il regime dell’onere della prova sul piano sostanziale o i tempi di formulazione delle richieste istruttorie sul piano processuale. La natura decisiva della consulenza genetica è espressa anche in Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2017, n. 15201.
Fondamentale resta l’impostazione richiamata da Cass. civ. Sez. I, 23 febbraio 2016, n. 3479 e da Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 783 (confermativa della sentenza di merito che aveva accertato la paternità alla stregua dei risultati univoci della consulenza tecnica d’ufficio, senza am¬mettere, in quanto superflua, la prova per testi richiesta dalle altre parti) secondo le quali in sede di dichiarazione giudiziale di paternità, l’ammissione degli accertamenti genetici od immuno-ematologici non è subordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, in forza del principio della libertà della prova, alla stregua del quale da un lato tutti i mezzi di prova hanno pari valore, dall’altro la loro scelta e valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito.
In Cass. civ. Sez. I, 1 giugno 2017, n. 13880 si precisa che nei giudizi promossi per la dichia¬razione giudiziale di paternità naturale l’esame genetico sul presunto padre si svolge mediante consulenza tecnica cosiddetta percepiente, ove il consulente nominato dal giudice non ha solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti ma di accertare i fatti stessi. È necessario e sufficiente, in tal caso, che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche, perché la consulenza costituisca essa stessa fonte oggettiva di prova. Analoghi principi sono ribaditi spesso anche nella giurisprudenza di merito. Per esempio in Trib. Perugia, 11 gennaio 2016 si afferma che le prove genetiche sono prove in senso proprio, giacché l’attuale livello della ricerca ed esperienza scientifica consente di esprimere, grazie ad esse, sufficienti garanzie nel ritenere decisivo il loro contributo nell’attribuzione della paternità o maternità di un soggetto, conseguendo risultati dotati di un alto grado di probabilità prossimo alla certezza. In Trib. Messina Sez. I, 17 maggio 2017 si afferma che in tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, l’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è su¬bordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, giacché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall’art. 269, comma 2, c.c., non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l’imposizione, al giudice, di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge, e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo “status”.
La maternità – come prescrive il terzo comma dell’art. 269 c.c. – è dimostrata provando la identi¬tà di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre.
Ricorda Trib. Messina Sez. I, 20 marzo 2017 che si ritiene comunemente che tale prova possa essere fornita per presunzioni, essendo in pratica quasi impossibile fornire la diretta dimostrazione di un fatto intimo e riservato come il concepimento ad opera del preteso padre o della pretesa madre.
b) Il rifiuto di sottoporsi alla consulenza genetica
Essendo la prova genetica la prova principale per l’accertamento o il disconoscimento della filia¬zione biologica (ed anzi l’unica) in ragione dei risultati decisivi a cui può portare, non può destare meraviglia il comportamento di chi – interessato a contrastare l’azione – si rifiuta di sottoporvisi.
Il problema del rifiuto di sottoporsi alla prova genetica è stato uno dei primi a porsi in giurispru¬denza come dimostrano le numerose sentenze fin dagli anni Ottanta.
Il test genetico è un trattamento che nessuno può essere obbligato a subire, salvo quanto si dirà in ambito penale dove a seguito della legge 30 giugno 2009, n. 85 nel codice di procedura penale sono state inserite disposizioni ad hoc per l’adempimento coattivo peritale del test genetico e per il prelievo coattivo del DNA. In sede civile il rifiuto pertanto è pienamente legittimo.
Un primo, molto vasto, fronte di decisioni riguarda il rifiuto di sottoporsi all’esame genetico nelle cause di accertamento della paternità.
In passato Cass. civ. Sez. I, 27 aprile 1985, n. 2739; Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 1985, n. 6015; Cass. civ. Sez. I, 27 luglio 2007, n. 16752 avevano già riconosciuto la facoltà della parte di sottrarsi ai prelievi necessari ma avevano ritenuto che il rifiuto può sempre essere valutato dal giudice del merito quale elemento di convincimento, ai sensi degli articoli 1164
4 Art. 116. (Valutazione delle prove)
Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti.
Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell’articolo seguente, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo. o 1185
5 Art. 118. (Ordine d’ispezione di persone e di cose)
Il giudice può ordinare alle parti e ai terzi di consentire sulla loro persona o sulle cose in loro possesso le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i fatti della causa, purché ciò possa compiersi senza grave danno per la parte o per il terzo, e senza costringerli a violare uno dei segreti previsti negli articoli 351 e 352 del Codice di procedura penale.
Se la parte rifiuta di eseguire tale ordine senza giusto motivo, il giudice può da questo rifiuto desumere argo¬menti di prova a norma dell’articolo 116 secondo comma.
Se rifiuta il terzo, il giudice lo condanna a una pena pecuniaria da euro 250 ad euro 1.500. , del codice di procedura civile i quali in sostanza prevedono che il giudice può desumere argomenti di prova dal contegno processuale delle parti.
Espressamente ed in senso analogo, sul presupposto che la dimostrazione della paternità naturale può essere fornita, a mente dell’art. 269 c.c. con ogni mezzo, Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 1998, n. 2944; Cass. civ. Sez. I, 25 febbraio 2002, n. 2749; Cass. civ. Sez. I, 23 aprile 2010, n. 9727 affermano che il giudice di merito può legittimamente fondare il proprio convincimento in ordine alla effettiva esistenza di un rapporto di filiazione anche su risultanze probatorie dotate di valore puramente indiziario e, in particolare, sul pretestuoso ed immotivato rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche.
Addirittura Cass. civ. Sez. I, 24 marzo 2006, n. 6694 ritiene che il giudice possa persino trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda esclusivamente dalla condotta processuale del preteso padre, globalmente considerata e posta in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre. Analogamente ha deciso Cass. civ. Sez. I, 9 aprile 2009, n. 8733 secondo cui il comportamento processuale della parte può costituire anche unica e sufficiente fonte di prova e di convincimento del giudice e non solo elemento di valutazione delle prove già acquisite al processo.
Più di recente i principi sono stati ribaditi da Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7958 dove si afferma che la prova della fondatezza della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità fuori dal matrimonio, non sussistendo un ordine gerarchico, può trarsi anche dal comportamento delle parti, e in particolare dal rifiuto ingiustificato del padre di sottoporsi alle prove genetiche, da valutarsi anche tenuto conto del contesto sociale e, globalmente, di tutte le circostanze del caso; da Cass. civ. Sez. VI – 1, 14 novembre 2017, n. 26914 Cass. civ. Sez. I, 27 luglio 2017, n. 18626 e Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2015, n. 25675; Trib. Padova Sez. I, 6 marzo 2017; App. Messina Sez. I, 19 gennaio 2016 dove si legge in sostanza che nell’ambito del giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici può essere liberamente valutato dal giudice, secondo quanto disposto dall’art. 116, comma 2, c.p.c., anche in assenza di prova dei rapporti sessuali tra le parti, non derivando da ciò né una restrizione della liberà personale del preteso padre, che conserva piena facoltà di determinazione in ordine all’assoggettamento o meno ai prelievi, né una viola¬zione del diritto alla riservatezza, atteso che l’uso dei dati è rivolto solo a fini di giustizia, mentre il sanitario, chiamato a compiere l’accertamento, è tenuto al segreto professionale ed al rispetto della disciplina in materia di protezione dei dati personali; da Cass. civ. Sez. I, 13 novembre 2015, n. 23296 secondo cui l’accoglimento della domanda di dichiarazione della paternità può fondarsi, in fatto, anche soltanto sul rifiuto del presunto padre di sottoporsi alle indagini ematiche volte ad accertare le sue caratteristiche genetiche e la loro relazione con quelle del presunto fi¬glio; da Cass. civ. Sez. I, 1 dicembre 2015, n. 24444 in base alla quale il rifiuto ingiustificato a sottoporsi all’esame del dna ai fini dell’accertamento della paternità non può essere qualificato come una presunzione desunta da una circostanza di fatto avente valore presuntivo, ma come uno elemento fattuale incidente sulla decisione finale, al pari di altre circostanze.
È stata ritenuta ammissibile da Trib. Milano 31 maggio 2016 l’azione cautelare, promossa dalla madre del concepito, per accedere a materiale biologico del convivente defunto, al fine di conser¬vare elementi di prova da spendere nel futuro giudizio di accertamento della paternità ex art. 269 cod. civ. L’azione può in particolare essere promossa dove, come nel caso di specie, il corpo del presunto padre non possa essere oggetto di esumazione, attesa la intervenuta cremazione.
c) La consulenza genetica sul defunto
Allorché il genitore legale o il preteso genitore naturale sia deceduto l’espletamento della prova genetica richiede l’esumazione della salma in modo da operare il prelievo del materiale necessario alla consulenza genetica (a meno che non siano reperibili campioni genetici già estratti in vita sul defunto). Quello della prova genetica sul defunto è un problema ancora poco esplorato.
Il tema in dottrina è stato trattato da molti, osservandosi che nell’ordinamento italiano fa difetto una norma legislativa al riguardo.
Si ritiene in giurisprudenza (e nella prassi assolutamente corrente) che un’interpretazione della normativa sulla filiazione impone di riconoscere che in caso di morte dell’interessato il prelievo del DNA sul defunto sia pienamente ammissibile (Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 1983, n. 2736 che non aveva ammesso la prova su cadavere, sul presupposto però che l’incertezza del suo esito costituisse motivo per escludere un esame che, nelle intenzioni dell’istante, era volto a contrastare un abbondante materiale istruttorio che già comprovava la sussistenza del rapporto di filiazione).
L’affermazione sul fatto che l’evoluzione degli strumenti di indagine sul DNA consente di effettuare accertamenti anche sul cadavere del presunto padre è stata fatta in una vicenda trattata da Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 1997, n. 807 secondo cui l›evoluzione degli strumenti di indagine sul DNA consente pacificamente di effettuare accertamenti anche sul cadavere del presunto padre.
Afferma l’ammissibilità della prova genetica sul defunto nelle azioni di stato Cass. civ. Sez. I, 16 aprile 2008, n. 10007 in cui si sostiene il principio secondo il quale il provvedimento che disponga, o meno, la consulenza tecnica, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, è incensurabile in sede di legittimità, e va contemperato con quello secondo il quale il giudice stesso deve sempre motivare adeguatamente la decisione adottata, non potendo detto giudice rifiutare sic et simpliciter o con argomentazioni di stile e prive di reale consistenza il ricorso ad essa; ne discende che, nel giudizio per l›accertamento della paternità naturale ex art. 269 cod. civ., la mancata ammissione di consulenza tecnica genetica, che non tenga conto dei progressi della scienza biomedica e argomenti sic et simpliciter sull›avvenuto decesso del presunto padre già da moltissimi anni e sulla dispendiosità e difficoltà del relativo accertamento tecnico, rigettando la domanda non già per totale mancanza di prove, bensì per non univocità e discordanza degli elementi acquisiti attraverso le prove storiche, costituisce vizio di motivazione sindacabile in sede di legittimità.
Dal quadro legislativo vigente non risulta un diritto del coniuge o del convivente o dei parenti – anche nella loro posizione ereditaria – ad opporsi all’esame genetico sul defunto6
6 Per un approfondimento di questi aspetti cfr la voce PROVE GENETICHE . Un potere di opposizione ai prelievi finalizzati all’esame genetico non sussiste neanche dal punto di vista della normativa sulla protezione dei dati personali. Il decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 all’art. 90 consente il trattamento dei dati genetici nei soli casi previsti da apposita autorizzazione rilascia¬ta dal Garante per la protezione dei dati personali il quale nelle autorizzazioni generali finora rila¬sciate ha disposto che il trattamento dei dati genetici possa essere svolto per far valere o difendere un diritto in giudizio, purché di rango pari a quello dell’interessato (e tale è certamente il diritto relativo all’accertamento sulla filiazione) anche senza il consenso dell’interessato stesso, salvo che il trattamento presupponga lo svolgimento di test genetici, che in ogni caso non riguardano il trattamento effettuato per ragioni di giustizia ex art. 47, quale è il trattamento svolto in giudizio dal CTU. Perciò il trattamento dei dati genetici da parte del CTU cui è affidata la perizia genetica non soggiace – in forza della disciplina derogatoria dettata dallo stesso art. 47 – né ad obbligo di informativa e di consenso dell’interessato, né alla necessità di autorizzazione del Garante, né a notificazione a quest’ultimo, mentre soggiace ai principi generali di necessità, di pertinenza e non eccedenza, di correttezza e liceità, nonché agli altri principi di cui all’art. 11.
Correttamente quindi in giurisprudenza si è negato che il provvedimento giudiziale che, in sede di azione per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, dispone la CTU genetica su cadavere sia subordinato al consenso dei congiunti eredi del defunto (App. Catania, 21 luglio 2009).
Nel caso in cui all’opposizione degli eredi del convenuto (alla riesumazione finalizzata al test gene¬tico sul defunto stesso o, s’intende, al prelievo su di essi in caso di impossibilità di riesumazione, per esempio per cremazione del defunto) si dovesse attribuire qualche rilievo, il rifiuto ingiustifica¬to all’ordine del test consentirebbe sempre al giudice di valutare tale comportamento in conformità al principio generale di cui all’art. 116, comma 2°, c.p.c. e trarre un argomento di prova contro di essi ai sensi dell’art. 118 c.p.c.
d) Le dichiarazioni della madre
Come si è visto l’ultimo comma dell’art. 269 prevede che “La sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costitui¬scono prova della paternità”.
Il che però non vuol dire che le dichiarazioni della madre unite ad altri elementi non possano con¬tribuire a fondare il convincimento del giudice.
In passato Cass. civ. Sez. I, 24 marzo 2006, n. 6694 aveva ritenuto che il giudice può certamente trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda esclusivamente dalla condotta processuale del preteso padre, globalmente considerata e posta in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre
Più di recente secondo Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11874 nel giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, la prova della fondatezza della domanda può trarsi anche unicamente dal comportamento processuale delle parti, da valutarsi globalmente, tenendo conto delle dichiarazioni della madre naturale e della portata delle difese del convenuto. Ugual¬mente secondo Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2012, n. 12198 dove si ricorda da un lato ricorda che la madre può sempre intervenire nel processo instaurato dal figlio maggiorenne, e dall’altro che le dichiarazioni della madre naturale assumono un rilievo probatorio integrativo ex art. 116 cod. proc. civ., quale elemento di fatto di cui non si può omettere l’apprezzamento ai fini della decisio¬ne, indipendentemente dalla qualità di parte o dalla formale posizione di terzietà della dichiarante, con la conseguente inapplicabilità dell’art. 246 cod. proc. civ. secondo cui “non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio”.
VII Natura ed effetti della sentenza di accertamento della paternità
a) Natura dichiarativa ed effetti costitutivi della sentenza
Secondo quanto dispone il primo comma dell’art. 277 c.c. (Effetti della sentenza) “La sentenza che dichiara la filiazione produce gli effetti del riconoscimento” 7
7 Art. 277 (Effetti della sentenza)
La sentenza che dichiara la filiazione produce gli effetti del riconoscimento.
Il giudice può anche dare i provvedimenti che stima utili per l’affidamento, il mantenimento, l’istruzione e l’edu¬cazione del figlio e per la tutela degli interessi patrimoniali di lui. .
Proprio per questo motivo la giurisprudenza riconosce la natura dichiarativa della sentenza (che è, quindi, sentenza di accertamento) e quindi la decorrenza retroattiva degli effetti al momento della nascita (ex tunc). Si tratta degli stessi effetti retroattivi riconosciuti alla sentenza che dichiara per esempio la nullità. Viceversa se fosse attribuita alla sentenza natura costitutiva gli effetti decorre¬rebbero dalla data della sentenza (ex nunc). Il principio è stato sempre pacificamente riconosciuto (per citare solo le ultime Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960; Cass. civ. Sez. VI, 14 luglio 2016, n. 14417; Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652; Cass. civ. Sez. I, 4 no¬vembre 2010, n. 22506; Cass. civ. Sez. I, 6 novembre 2009, n. 23630; Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2007, n. 26575; Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 2007, n. 24409; Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2005, n. 15100; Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2003, n. 7386; Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2003, n. 2196 (e molte altre in precedenza). Tutte le decisioni in questione affermano in sostanza che l’obbligo del genitore di concorrere al mantenimento del figlio sorge con la nascita dello stesso, anche nell’ipotesi in cui la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza. La sentenza dichiarativa della filiazione produce perciò gli effetti del riconoscimento e, pertanto, implica per il genitore tutti i doveri tipici della procreazione, incluso quello del man¬tenimento, ricollegandosi tale obbligazione allo status genitoriale ed assumendo, di conseguenza, efficacia retroattiva. Anche la giurisprudenza di merito non si è mai discostata da questi principi (da ultimo Trib. Treviso Sez. I, 10 marzo 2017; Trib. Cassino, 15 giugno 2016; Trib. Napoli Sez. I, 18 settembre 2012; App. Bologna Sez. minori, 5 dicembre 2011; Trib. Trani, 27 settembre 2007; Trib. L’Aquila, 6 giugno 2007). La sentenza che dichiara la paternità, pur avendo natura dichiarativa, produce effetti solo dal giu¬dicato. Si parla a tale proposito di effetti costitutivi, nel senso che prima del giudicato non possono realizzarsi gli effetti collegati alla pronuncia sullo status.
La sentenza di accertamento della filiazione potrà quindi essere trascritta nei registri di stato civile solo dopo il suo passaggio in giudicato. Il terzo comma dell’art. 48 del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Ordinamento di stato civile) prescrive, infatti, che “La dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, dopo il passaggio in giudicato, è comunicata, a cura del procuratore della Repubblica, o è notificata dagli interessati, all’ufficiale dello stato civile che ne fa annotazione nell’atto di nascita”).
b) I provvedimenti conseguenziali connessi all’affidamento e al mantenimento
Alla dichiarazione della paternità conseguono evidentemente effetti in senso ampio connessi al rapporto genitori-figli nel campo personale, alimentare, economico, patrimoniale, successorio. Ef¬fetti che possono realizzarsi su richiesta dell’altro genitore (che abbia agito ex art. 273 c.c. in so¬stituzione e nell’interesse del figlio minore o dello stesso figlio maggiorenne (che abbia egli stesso agito in giudizio per la dichiarazione di paternità), in entrambi i casi anche nell’ipotesi in cui – es¬sendo defunto il presunto padre – siano stati convenuti in giudizio gli eredi di lui (art.276 c.c.)8
8 Per una panoramica approfondita degli effetti di natura patrimoniale e delle molteplici implicazioni processuali cfr la voce SENTENZA DICHIARATIVA DELLA PATERNITA’ .
Il secondo comma dell’art. 277 c.c. prescrive che “Il giudice può anche dare i provvedimenti che stima utili per l’affidamento, il mantenimento, l’istruzione e l’educazione del figlio e per la tutela degli interessi patrimoniali di lui”. Questa norma consente quindi che domande di natura economi¬ca possano essere proposte e prese in considerazione insieme alle domande sullo status.
Per quanto concerne i possibili provvedimenti sull’affidamento (evidentemente del figlio minore di età), si tratta di una novità introdotta dall’art. 34, comma 1, lett. b, del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154.
Per quanto concerne, invece, l’eventuale mantenimento, si tratta di due tipi di provvedimenti:
a) i provvedimenti relativi al mantenimento futuro del figlio (in genere, ma non necessariamente, minore) da parte del genitore dichiarato tale dalla sentenza;
b) i provvedimenti relativi alla richiesta del genitore che ha agito in giudizio (in proprio) di rimborso pro quota delle spese di mantenimento sostenute per il figlio in passato.
Il diritto al rimborso (in sede di accertamento della paternità) delle spese sostenute dalla nascita dall’altro genitore dipende strettamente dalla circostanza – alla quale si riferiscono tutte le senten¬ze sopra richiamate – che gli effetti del riconoscimento, come si è detto, retroagiscono alla nascita. Secondo alcune decisioni si tratterebbe di un diritto di natura indennitaria da determinare anche in via equitativa (Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2014, n. 16657; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2004, n. 11351).
Le differenti caratteristiche procedurali tra i due tipi di provvedimenti sono riconducibili alla cir¬costanza che mentre per l’affidamento e il mantenimento futuro il giudice ha un potere di ufficio, potendolo esercitare indipendentemente dalla domanda dell’altro genitore (Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2004, n. 13296), per i provvedimenti di rimborso pro quota delle spese sostenute in pas¬sato, è necessaria la domanda di parte (Cass. civ. Sez. I, 21 maggio 2014, n. 11211).
Benché non indicato espressamente nell’art. 277 c.c. è considerata ammissibile anche la domanda di risarcimento dei danni in relazione a quell’orientamento che ammette tale risarcimento in caso di mancato riconoscimento alla nascita (Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205; Cass. civ. Sez. VI, 16 febbraio 2015, n. 3079)9
9 cfr la voce RISARCIMENTO DEI DANNI PER OMESSO RICONOSCIMENTO DEL FIGLIO. .
c) La prescrizione dei diritti relativi al mantenimento e al rimborso delle spese pregresse sostenute da un genitore
Il diritto al mantenimento del figlio minore è un diritto indisponibile e quindi imprescrittibile (art. 2943, co. 2, c.c.) per tutto il corso della minore età. In caso pertanto di riconoscimento o di sen¬tenza dichiarativa della filiazione nel corso della minore età, la prescrizione (decennale, ex art. 2946 c.c.) comincia a decorrere dal compimento della maggiore età.
Il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne, in caso di riconoscimento o di sentenza dichia¬rativa della filiazione di figlio maggiore di età, si prescrive nel termine ordinario di dieci anni (art. 2946 c.c.) oppure di cinque anni se connesso ad una decisione che ne ha già riconosciuto la spet¬tanza periodica (art. 2948, n. 4, c.c.).
Il diritto al rimborso delle spese pregresse sostenute dall’altro genitore ha natura di diritto dispo¬nibile e pertanto sui prescrive nel termine ordinario di prescrizione di dieci anni (art. 2946 c.c.).
In caso di accertamento giudiziario della filiazione i termini di prescrizione dei diritti relativi al man-tenimento, decorrono dalla data della dichiarazione giudiziale, e perciò dal passaggio in giudicato della sentenza sullo status, trovandosi il figlio, precedentemente, nell’impossibilità giuridica di far valere i diritti dipendenti dallo status non ancora accertato; e questo in applicazione della regola generale contenuta nell’art. 2934 c.c. secondo cui “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”. Lo hanno affermato Cass. civ. Sez. I, 7 aprile 2017, n. 9059; Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986; Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596; Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328; Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124, precisando che in materia di mantenimen¬to del figlio (naturale), il diritto al rimborso pro quota delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che se ne è occupato in via esclusiva, sarebbe azionabile dal momento della sentenza di accertamento della paternità, che conseguentemente costituisce il dies a quo della decorrenza della ordinaria prescrizione decennale.
Questa conclusione viene espressamente riferita nelle sentenze sopra indicate alle (sole) domande di rimborso delle spese pregresse, ancorché anche i provvedimenti sull’affidamento e sul mante¬nimento futuro nel loro complesso possano considerarsi richiamate nel secondo comma dell’art. 277 c.c.
Dovendo necessariamente individuarsi un termine di decorrenza della prescrizione, questo orien¬tamento può dirsi giustificato, non essendoci altrimenti alcun termine iniziale certo di decorrenza del termine prescrizionale. Tuttavia questo non comporta – secondo quanto si dirà in materia di provvisoria esecuzione dei capi di condanna delle sentenze costitutive e dichiarative – che gli interessati non possano utilmente azionare anche prima del giudicato sullo status, le pretese con¬seguenziali di natura economica.
d) Il rapporto tra il giudizio sull’accertamento della paternità e quello sulle domande conseguenziali
Le domande conseguenziali relative all’affidamento e al mantenimento sono in genere proposte (dall’interessato o dal genitore che agisce in sostituzione del figlio minore) nella stessa causa di accertamento della paternità, sebbene, naturalmente, possano senz’altro essere proposte anche separatamente.
Nello specifico l’azione per l’accertamento della paternità naturale può comprendere insieme alla domanda principale sullo status anche le domande conseguenziali di natura economica. Anche le domande di rimborso delle spese pregresse sostenute da un genitore in via esclusiva o le domande di risarcimento del danno possono essere proposte insieme alla domanda principale sull’accerta¬mento della paternità, ma – con riguardo agli effetti necessariamente costitutivi delle sentenze attributive di uno status – potranno trovare esecuzione, come si dirà, solo se lo status è passato in giudicato. La contestualità può anche sussistere tra domanda di accertamento della paternità promossa nei confronti degli eredi di un defunto e domande di natura ereditaria collegate all’ac¬certamento dello status, ma anche in questo caso per l’attuazione delle domande ereditarie sarà necessario il previo passaggio in giudicato sull’accertamento della paternità.
Sia nel caso di contestualità tra domande sullo status e domande conseguenziali, sia nel caso in cui le domande conseguenziali siano separatamente azionate prima del formarsi del giudicato sull’ac-certamento della paternità, si pone il problema del rapporto tra il giudizio sull’accertamento della paternità e le domande conseguenziali.
In particolare si pone il problema della eventuale sospensione del procedimento sulle domande economiche in attesa della definitività della domanda sullo status proposta in sede di accertamento giudiziale della paternità.
L’art. 295 (sospensione necessaria) prescrive che “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”. L’art. 337 (sospensione dell’esecuzione e dei processi) nell’am¬bito delle norme sull’impugnazione, dopo aver precisato al primo comma che “l’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione…”, al secondo comma prevede che “quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo, questo può essere sospeso se la sen¬tenza è impugnata”.
Sennonché la sospensione del processo viene oggi considerata come avente senz’altro natura eccezionale, in virtù di quanto indicato nel secondo comma dell’art. 111 della Costituzione (in¬serito dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2) dove il disfavore verso ogni ipotesi di sospensione è espresso dalla previsione che la legge non deve tollerare una irragionevole durata del processo. L’esigenza di una maggiore celerità del processo era stata anche perseguita dalla riforma del 1990 del processo civile (legge 26 novembre 1990, n. 353) che aveva eliminato la so¬spensione ex lege dell’efficacia della sentenza di primo grado, salva la richiesta di provvisoria ese¬cuzione: il testo vigente dell’art. 282 (riformato appunto nel 1990) dichiara la sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva salvo richiesta di sospensione al giudice di appello (art. 283). Analogamente è avvenuto più di recente per i provvedimenti camerali in materia di famiglia (art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile a seguito delle modifiche apportate dall’art 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219) che “sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente”.
Costituisce orientamento pacifico della giurisprudenza di legittimità (a partire da Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027) che l’ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due diversi giudici del giudizio sul “se dovuto” e di quello sul “quanto dovuto” non comporta che il secondo debba rimanere sospeso in attesa della decisione del primo e che, per converso, quante volte nel primo sia pronunciata sentenza che afferma esistente il diritto, il giudice del secondo giudizio pos¬sa porre a base della propria decisione ciò che è stato già deciso, ancorché la sentenza sia stata impugnata, l’unica alternativa essendo per contro quella di sospendere il giudizio di liquidazione del dovuto (come affermato a suo tempo da Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2004 n. 14060 che aveva fatto proprie in larga misura le argomentazioni svolte in precedenza da Cass. civ. Sez. la¬voro, 25 maggio 1996 n. 4844 incentrate su una lettura restrittiva dell’istituto della sospensione necessaria, appunto ripudiata dalle Sezioni Unite nel 2012).
Il principio affermato da Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 è stato poi ribadito successivamente da Cass. civ. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 6207 e da Cass. civ. Sez. VI, 20 gennaio 2015, n. 798.
Determinante, ai fini di tale conclusione, è la considerazione che l’art. 295 c.p.c. potrebbe “deter¬minare l’arresto del processo dipendente per un tempo indeterminato e certamente non breve, poiché la paralisi del processo sarebbe destinata a protrarsi fino al passaggio in giudicato della decisione sulla causa pregiudiziale (art. 297 c.p.c., comma 1), onde evitare il rischio di conflitto tra giudicati. In tal modo, in funzione della realizzazione del valore processuale dell’armonia dei giudicati, viene sacrificato il valore processuale della sollecita definizione dei giudizi”.
Naturalmente tutto ciò non significa che l’art. 295 c.p.c. sia da considerare abrogato, ed anzi sopravvive in tutti i casi in cui la sospensione appare da un punto della pregiudizialità in termini tecnico giuridici plausibile (Cass. civ. Sez. lavoro, 24 giugno 2014, n. 14274) in quanto l’art. 295 c.p.c. fa esclusivo riferimento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giu¬dice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico – giuridico e non già in senso meramente logico.
Tale tipo di legame tecnico-giuridico è stato ritenuto sussistente da Cass. civ. Sez. VI, 9 dicem¬bre 2014, n. 25861 in caso di pendenza di una lite sulla validità dell’accordo giustificativo della separazione consensuale tra coniugi che pregiudica, in senso tecnico giuridico, l’esito del giudizio, contemporaneamente pendente, di cessazione degli effetti civili del loro matrimonio, e ne com¬porta la sospensione ex art. 295 cod. proc. civ. perché l’eventuale annullamento di quell’accordo determinerebbe il venir meno, con effetto “ex tunc”, di un presupposto indispensabile della pro¬nuncia di divorzio.
e) Accertamento della paternità e domande ereditarie
Tra le numerose questioni che si sono finora presentate in ambito civilistico in tema di rapporti tra più cause tra loro collegate da un rapporto di pregiudizialità (e che pongono quindi un problema di sospensione della causa pregiudicata), quello del tema dei rapporti tra domanda (e processo) di accertamento della paternità e domande (e processo) di natura ereditaria connesse allo status (divisione ereditaria o petizione ereditaria), è uno dei più affrontati in giurisprudenza.
Ebbene, le domande di natura ereditaria possono essere esaminate prima che si sia formato il giudicato sullo status? O il relativo giudizio deve essere sospeso?
A queste domande ha dato risposta molto chiara, escludendo la sospensione necessaria di cui all’art, 295 e ridimensionando quella ex art. 337, la sopra citata Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 occupandosi proprio del rapporto tra due cause pendenti in appello una sullo status di filiazione e l’altra sulle conseguenti domande ereditarie.
La sentenza fa proprio l’orientamento già espresso in passato perentoriamente – ma in ambiti diversi da quello del rapporto tra accertamento sulla filiazione e causa di natura ereditaria – da Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924 (rapporto tra un giudizio di responsabilità pro¬fessionale intentato contro un notaio e una causa tributaria azionata dal notaio stesso) e da Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435 (domanda di diniego di rinnovazione di un contratto di locazione e processo in appello relativo al riscatto della proprietà sull’immobile) le quali entram¬be avevano precisato che “Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pre¬giudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, comma secondo, cod. proc. civ. e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimento è di per sé illegittimo, a prescindere da qual¬siasi accertamento di merito circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità).
Ad invocare l’intervento delle Sezioni Unite era stata la sesta sezione della Corte di cassazione di fronte alla quale si discuteva di un ricorso contro un provvedimento di sospensione del processo, concesso dalla corte d’appello di Torino in una causa di petizione ereditaria in relazione alla pen¬denza sempre in appello di una causa di riconoscimento di paternità.
Si tratta quindi di stabilire, afferma Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027, allorché pendono in grado di appello insieme il giudizio in cui è stata pronunciata sentenza di accertamento della paternità e il giudizio che su tale base ha accolto la domanda di petizione di eredità, ed impu¬gnate dai convenuti entrambe le sentenze – se il secondo giudizio debba essere sospeso in attesa che nel primo si formi il giudicato sulla dichiarazione di paternità o invece possa proseguire ovvero non debba essere sospeso necessariamente, ma solo possa esserlo, se il giudice del secondo giu¬dizio non intenda riconoscere l’autorità dell’altra decisione”.
La sentenza in questione si occupa quindi, dell’interpretazione sia dell’art. 295 c.p.c. che dell’art. 337 c.p.c. e proprio per tale ragione costituisce, relativamente a queste due norme, un approfon¬dimento di decisiva e straordinaria importanza.
Affermato il principio generale che spetta solo al giudice il compito di valutare se l’efficacia della sentenza pronunciata sulla lite pregiudicante debba essere sospesa (art. 283 cod. proc. civ.) o se la sua autorità debba essere provvisoriamente rifiutata (art. 337 c.p.c., comma 2) la sentenza del¬le Sezioni Unite applica questo principio al rapporto tra domanda di accertamento della filiazione naturale ed azione di petizione di eredità, affermando che salvi soltanto i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica ed in modo che deb¬ba attendersi che sulla causa pregiudicante sia pronunciata sentenza passata in giudicato (come, esemplificando, nel caso previsto dall’art. 75 c.p.c., comma 3), “pare alla Corte che nell’interpre¬tazione sistematica della disciplina del processo sia da riconoscere un ruolo decisivo alla disposi¬zione che, a seguito della legge 26 novembre 1990, n. 353, si trova ora ad essere dettata dall’art. 282 del codice di rito. Col riconoscere provvisoria esecutività tra le parti alla sentenza di primo grado il legislatore ha determinato una cesura tra la posizione delle parti in controversia tra loro nel giudizio di primo grado – che è tendenzialmente paritaria e solo provvisoriamente alterabile da misure anticipatorie o cautelari – e la situazione in cui le stesse parti vengono poste dalla decisio¬ne del giudice di primo grado, che conosciuta la controversia, dichiara lo stato del diritto tra loro. L’ordinamento, anche allo scopo di scoraggiare il protrarsi della lite, che al contrario risulterebbe favorito, se all’impugnazione si attribuisse l’effetto d’un ripristino delle posizioni di partenza, pro¬clama il valore del modo di composizione della controversia, che è dichiarato conforme a diritto dal giudice, terzo ed imparziale (art. 111 Cost., comma 2). Il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originano di lite e giu¬stifica sia l’esecuzione provvisoria, quando a quel diritto si tratti di adeguare la realtà materiale, sia l’autorità della sentenza di primo grado nell’ambito della relazione tra lite sulla causa pregiudiziale e lite sulla causa pregiudicata”.
L’idoneità della decisione sulla causa pregiudicante a condizionare quella della causa pregiuicata dovrebbe giustificare che questa causa resti sospesa a prescindere dal segno che potrà avere la decisione sull’altra. Lo impone prima di tutto l’esigenza che il sistema giudiziario non sia gravato dalla duplicazione dell’attività di cognizione nei due processi pendenti. Ma quando nel processo sulla causa pregiudicante la decisione è sopravvenuta, quello sulla causa pregiudicata è in grado di riprendere il suo corso, perché ormai il sistema giudiziario è in grado di pervenire al giudizio sulla causa pregiudicata fondandolo sull’accertamento che sulla questione comune alle due cause si è potuto raggiungere nell’altro processo tra le stesse parti, attraverso l’esercizio della giurisdizione. Non dipende più da esigenze di ordine logico che il processo sulla causa dipendente resti sospeso.
Salvo, quindi, che l’ordinamento non esprima in casi specifici una valutazione diversa, imponendo che la composizione della lite pregiudicata debba attendere il giudicato sull’elemento di connessio¬ne tra le situazioni giuridiche collegate e controverse, è da ritenere che spetta al giudice il compito di valutare se l’efficacia della sentenza pronunciata sulla lite pregiudicante debba essere sospesa (art. 283 cod. proc. civ.) o se la sua autorità debba essere provvisoriamente rifiutata (art. 337 c.p.c., comma 2) in questo caso attribuendo al giudice del giudizio sulla lite pregiudicata il potere di sospenderlo.
Secondo l’impostazione delle Sezioni Unite, quindi, venuta meno la possibilità di sospensione ex art. 295 c.p.c. che determinerebbe una paralisi inammissibile della cognizione, il processo civile cosiddetto pregiudicato potrebbe essere astrattamente sospeso soltanto ex art, 337 c.p.c. ove la sentenza del procedimento pregiudicante sia stata impugnata. Si ricorda che secondo l’art. 337 c.p.c. “l’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione…”, al secondo com¬ma prevede che “quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo, questo può essere sospeso se la sentenza è impugnata”.
A tale proposito le già richiamate Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924 e Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435 avevano entrambe precisato che “Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passa¬ta in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, comma secondo, cod. proc. civ., e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ.. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimen¬to è di per sé illegittimo, a prescindere da qualsiasi accertamento di merito circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità”.
Trattandosi di una sospensione facoltativa (art. 337 c.p.c.:“…può essere sospeso se la sentenza è impugnata”) si deve verificare in che cosa si sostanzia questo potere facoltativo (di sospendere il processo in cui è invocata la sentenza impugnata), per evitare che il potere di sospensione diventi un arbitrio.
Ed allora ci si accorge che l’astratta possibilità di sospensione ex art. 337 c.p.c. viene ad essere in concreto quasi annullata, dal momento che la giurisprudenza richiede che il giudice debba ve¬rificare “l’efficacia persuasiva della sentenza” (come molto bene ha affermato per esempio Cass. civ. Sez. III, 4 luglio 2007, n. 15111). L’interpretazione quindi che i giudici della Cassazione hanno dato a partire dalle tre sentenze sopra richiamate (Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924; Cass. civ. Sez. III, 4 luglio 2007, n. 15111; Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435) è che quando tra due giudizi esiste rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non ancora passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, comma 2, c.p.c. e non ex art. 295 c.p.c. ma è compito del giudice valutare la forza della sentenza di primo grado per verificare con adeguata motivazione se sia plausibile che il giudizio pregiudicato venga sospeso. In definitiva tanto più alta è la forza (cioè la validità, la plausibilità) della sentenza di primo grado non ancora passata in giudicato, tanto più il giudice dovrà negare la sospensione.
L’ordinamento rimette quindi al giudice – secondo queste sentenze – il compito di valutare, tenuto conto degli elementi in base ai quali la controversia è riaperta con l’impugnazione, quale sia la forza e l’efficacia della sentenza emessa nel giudizio pregiudicante (causa di paternità naturale) attribuendo al giudice della causa pregiudicata (causa ereditaria) il potere di sospenderla.
Quando la sentenza (appellata), asseritamente pregiudicante, è una sentenza dichiarativa della paternità, essa si fonda sul dato acquisito in genere con CTU genetica (di fatto incontrovertibile). E si tratta quindi di una sentenza dotata di così significativa efficacia persuasiva da non consentire una motivazione plausibile circa la sua sospensione.
Tutti questi principi sono stati più recentemente ribaditi e rafforzati da Cass. civ. Sez. VI, 12 no¬vembre 2014, n. 24046 in cui si legge che “l’ordinanza con la quale viene disposta la sospensio¬ne discrezionale del processo ai sensi dell’art. 337, cpv., c.p.c. deve indicare le ragioni per le quali il giudice non intende riconoscere l’autorità della prima sentenza, già è intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante, chiarendo perché non ne condivide il merito e le ragioni giustificatrici.
Perciò, ai fini del legittimo esercizio del potere di sospensione discrezionale del processo, previ¬sto dall’art. 337, secondo comma, c.p.c. è indispensabile un’espressa valutazione di plausibile controvertibilità della decisione di cui venga invocata l’autorità in quel processo, sulla base di un confronto tra la decisione stessa e i motivi di impugnazione. Ne consegue che la sospensione di¬screzionale in parola è ammessa ove il giudice del secondo giudizio motivi esplicitamente le ragioni per le quali non intende riconoscere l’autorità della prima sentenza, già intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante.
f) Il controverso problema della provvisoria esecuzione delle condanne accessorie
È opportuno precisare subito che il tema della provvisoria esecuzione delle decisioni di condanna (art, 282 c.p.c.: “La sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti”) si presenta in modo del tutto peculiare in caso di sentenze costitutive (o dichiarative con effetti costitutivi, come quella di accertamento della paternità).
È possibile considerare provvisoriamente esecutiva una condanna o un capo di condanna che è contenuto in una decisione costitutiva? Se la decisione diventa eseguibile soltanto dopo il giudicato (come avviene nelle decisioni costitutive) come è possibile anticiparne gli effetti mettendole tutta o in parte in esecuzione prima del giudicato?
Non è pertanto utilizzabile il principio della provvisoria esecutività di tutti i provvedimenti nelle procedure di conflitto genitoriale che concernono l’affidamento e il mantenimento dei figli minori (nati nel matrimonio o fuori dal matrimonio già riconosciuti) affermata dalla riformulazione dell’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile riformato dall’art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 come modificato dall’art. 96 lett. c del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (“…Nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile… il tribunale compe¬tente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente…”). Sulla base di questa riformulazione l’art. 38 disp. att. c.c. contiene ora un principio generale di immediata esecutività di tutti i provvedimenti che concernono l’affidamento e il mantenimento di minori, che sarebbe del tutto irragionevole non applicare anche ai provvedimenti conseguenziali alla sentenza di accertamento della paternità.
Come affrontare e risolvere il problema della provvisoria esecuzione (art. 282 c.p.c.) dei capi della sentenza concernenti le domande accessorie in una causa di status?
La giurisprudenza di legittimità aveva sostenuto, negli anni Novanta, la tesi secondo cui tutte le pronunce di condanna ancorché accessorie e consequenziali, compresa quella relativa alla re¬golamentazione delle spese processuali (Cass. civ. Sez. III, 24 maggio 1993, n. 5837 sono inidonee a costituire titolo esecutivo fino a quando non diventi efficace la pronuncia principale di accertamento o costitutiva. Non si potrebbe pertanto procedere all’esecuzione forzata sul capo di condanna consequenziale in difetto dell’efficacia del capo che ne costituisce il presupposto. Non potrebbe, pertanto, essere data rilevanza autonoma a tali statuizioni accessorie, il cui regime deve adeguarsi a quello della statuizione principale di natura costitutiva.
A partire dal 2005 una parte della giurisprudenza di legittimità ha cambiato orientamento, arrivan¬do a sostenere la provvisoria esecuzione di tutte le sentenze di primo grado, ivi comprese quelle dichiarative e quelle costitutive (Cass. civ. Sez. III, 26 gennaio 2005, n. 1619; Cass. civ. Sez. III, 3 settembre 2007, n. 18512).
Questi principi non trovarono, però, conferma nella giurisprudenza di legittimità successiva, la quale preferì propendere per la soluzione negativa in ordine soprattutto all’ammissibilità della provvisoria esecutività delle sentenze costitutive ex art. 2932 c.c. In particolare, con la pronun¬cia Cass. civ. Sez. II, 6 aprile 2009, n. 8250 – nettamente contrapposta alla n. 18512/2007 – la Corte confermava che la sentenza che dispone l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, ex art. 2932 c.c., produce i propri effetti solo dal momento del passaggio in giudicato; ne consegue che, quando detta sentenza abbia subordinato l’effetto traslativo al pagamento del residuo prezzo, l’obbligo di pagamento in capo al promissario acquirente non diventa attuale prima dell’irretrattabilità della pronuncia giudiziale, essendo tale pagamento la prestazione corrispettiva destinata ad attuare il sinallagma contrattuale.
Le Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. Unite, 22 febbraio 2010, n. 4059), intervenute per dirimere il contrasto, ritennero di disattendere l’orientamento radicale di cui alla sentenza 18512/2007 e di dare, invece, continuità all’orientamento seguito dalla sentenza 8250/2009 dichiarando di condividere gli argomenti sviluppati dalla dottrina maggioritaria a sostegno della tesi secondo cui, nel caso di preliminare di compravendita e di pronuncia ex art. 2932 c.c. l’effetto traslativo della proprietà del bene si produce solo con l’irretroattività della sentenza che determina l’effetto sostitutivo del contratto definitivo. La sentenza di primo grado di accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c. non può pertanto produrre, prima del passaggio in giudicato, gli effetti del contratto definitivo con la conseguente impossibilità di scissione, nelle sentenze ex art. 2932 c.c. in tema di contratto preliminare di compravendita, tra capi costitutivi principali e capi di condanna conse¬quenziali, con riferimento specifico a quelli cosiddetti sinallagmatici le cui relative statuizioni fanno parte integrante della pronuncia costitutiva nel suo complesso. Affermano in sostanza le Sezioni Unite che l’esecutività provvisoria ai sensi dell’art. 282 c.p.c. della sentenza di accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica ai sensi dell’art. 2932 c.c. dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita è limitata ai capi della decisione compatibili con la produzione dell’ef¬fetto traslativo del bene in un momento successivo e non si estende ai capi condannatori che si collocano in un rapporto di stretta interdipendenza con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale.
Si legge nella sentenza: va precisato che la possibilità di anticipare l’esecuzione delle statuizioni condannatorie contenute nella sentenza costitutiva va riconosciuta in concreto, volta a volta, a seconda del tipo di rapporto tra l’effetto condannatorio da anticipare e l’effetto costitutivo produ¬cibile solo con il giudicato. A tal fine occorre differenziare le statuizioni condannatorie meramente dipendenti dal detto effetto costitutivo, dalle statuizioni che invece sono a tale effetto legate da un vero e proprio nesso sinallagmatico ponendosi come parte – talvolta “corrispettiva” – del nuovo rapporto oggetto della domanda costitutiva.
Così, ad esempio, nel caso di condanna del promissario acquirente al pagamento del prezzo del¬la vendita, non è possibile riconoscere effetti esecutivi a tale condanna altrimenti si verrebbe a spezzare il nesso tra il trasferimento della proprietà derivante in virtù della pronuncia costitutiva ed il pagamento del prezzo della vendita. L’effetto traslativo della proprietà del bene si produce solo con l’irretrattabilità della sentenza per cui è da escludere che prima del passaggio in giudicato della sentenza sia configurabile un’efficacia anticipata dell’obbligo di pagare il prezzo: si verifiche¬rebbe un’alterazione del sinallagma. Ritenere diversamente consentirebbe alla parte promittente venditrice – ancora titolare del diritto di proprietà del bene oggetto del preliminare – di incassare il prezzo prima ancora del verificarsi dell’effetto, verificabile solo con il giudicato, del trasferimento di proprietà.
Possono quindi ritenersi anticipabili i soli effetti esecutivi dei capi che sono compatibili con la pro¬duzione dell’effetto costitutivo in un momento temporale successivo, ossia all’atto del passaggio in giudicato del capo di sentenza propriamente costitutivo. Così la condanna al pagamento delle spese processuali contenuta nella sentenza che accoglie la domanda. La provvisoria esecutività non può invece riguardare quei capi condannatori che si collocano in un rapporto di stretta sinal¬lagmaticità con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale.
Le indicazioni delle Sezioni Unite hanno trovato applicazione esplicita nelle decisioni successive della giurisprudenza di legittimità.
Così per esempio Cass. civ. Sez. I, 29 luglio 2011, n. 16737 ha affermato che l’anticipazione in via provvisoria , ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie contenute in sentenze costitutive, non è consentita, essendo necessario il passaggio in giudicato, soltanto nei casi in cui la statuizione condannatoria è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico (come nel caso di condanna al pagamento del prezzo della compravendita nella sentenza sostitutiva del contratto definitivo non concluso); è invece consentita quando la statuizione condannatoria è meramente dipendente dall’effetto costitutivo, essendo detta anticipa¬zione compatibile con la produzione dell’effetto costitutivo nel momento temporale successivo del passaggio in giudicato (come nel caso di specie riguardante la condanna di un istituto di credito alla restituzione delle somme di denaro ricevute da un istituto di credito a seguito di atti solutori dichiarati inefficaci ai sensi dell’art. 67 legge fall.).
Nella giurisprudenza di merito analogamente si è espresso Trib. Pordenone, 9 febbraio 2017.
Le sentenze dichiarative come quelle sull’accertamento della paternità condividono con quelle costitutive la natura costituiva degli effetti: prima del giudicato non è possibile l’attribuzione di effetti alla relativa pronuncia che potrà essere trascritta nei registri di stato civile soltanto dopo il passaggio in giudicato.
Pertanto l’esecutività provvisoria ai sensi dell’art. 282 c.p.c. della sentenza costitutiva (nel caso di obbligo specifico di concludere un contratto) non è affatto impedita, ma è limitata ai capi della decisione compatibili con la produzione dell’effetto traslativo del bene in un momento successivo e non si estende ai capi condannatori che si collocano in un rapporto di stretta interdipendenza (sinallagmaticità) con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale (Cass. civ. Sez. Unite, 22 febbraio 2010, n. 4059). Il principio indicato, elaborato dalle Sezioni Unite, è stato ribadito poi anche da Cass. civ. Sez. I, 29 luglio 2011, n. 16737 che ha affermato che l’anticipazione in via provvisoria, ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni di con¬danna contenute in sentenze costitutive non è consentita soltanto nei casi in cui la condanna è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico (come nel caso di condanna al pagamento del prezzo della compravendita nella sentenza sostitutiva del contratto definitivo non concluso).
Il sinallagma è un elemento costitutivo implicito del contratto a obbligazioni corrispettive. È il rapporto di interdipendenza contrattuale tra una prestazione ed una controprestazione. In tanto una parte diventa proprietaria in quanto paga il prezzo del bene. Non si può essere condannati a pagare il prezzo di un bene se non si diventa contestualmente proprietari di quel bene.
In tutti i casi in cui la statuizione di condanna, invece, non ha questo collegamento sinallagmatico con la pronuncia principale, è consentito attribuire alla condanna l’effetto esecutivo provvisorio (così per esempio in caso di condanna al pagamento delle spese di giudizio, come è pacifico in giu¬risprudenza, per esempio Cass. civ. Sez. I, 15 dicembre 2011, n. 27090; Tribunale, Reggio Emilia, 6 settembre 2012).
Facendo applicazione di questi principi si può affermare quanto segue:
1) Attesa la natura dichiarativa con effetti costitutivi della pronuncia che accerta la filiazione, la condanna al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al ge¬nitore che se ne è occupato in via esclusiva, non sarebbe eseguibile se non successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione. Il principio è affermato in modo consolidato (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986; Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596; Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328, Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124 le quali tutte hanno fatto affer¬mazione di questo orientamento per farne conseguire, tra l’altro, il principio che il giudicato sullo status costituisce il dies a quo ultimo della decorrenza della prescrizione). Il principio è indicato anche nella giurisprudenza di merito (Trib. Sulmona, 26 novembre 2012)
Pertanto secondo questa impostazione non sarebbe eseguibile una condanna di rimborso delle spese pregresse se non dopo il giudicato sull’accertamento della paternità.
2) Queste conclusioni – espressamente riferite alle sole domande di rimborso per le spese pregres¬se sostenute da un genitore dalla nascita del figlio – possono considerarsi applicabili anche alle do¬mande di risarcimento del danno la cui eventuale condanna, perciò, in applicazione dei medesimi principi, non potrebbe essere messa in esecuzione prima del giudicato sullo status.
3) L’esecuzione delle decisioni ereditarie non potrà ugualmente che avvenire dopo il giudicato sullo status.
4) Nella prassi dei tribunali italiani si ammette pacificamente la contestuale proposizione delle domande di accertamento della paternità con quelle sul mantenimento futuro (esattamente come sono considerate proponibili insieme alla domanda principale sullo status le domande relative al rimborso delle spese di mantenimento pregresse sostenute da un genitore, delle domande risarci¬torie e di quelle di natura ereditaria). Questa prassi è ampiamente riconosciuta e richiamata nella più volte citata Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 che proprio sul rapporto tra le due domande (quella sullo status e quella sulle questioni economiche) fonda il suo ragionamento contrario alla sospensione del processo concernente le questioni economiche.
Ebbene in caso di sentenze dichiarative di accertamento della paternità si dubita se sia possibile parlare di sinallagmaticità tra accertamento della paternità e condanna al mantenimento.
A mio avviso il concetto di sinallagmaticità ha natura contrattuale e non logica e pertanto non essendoci alcun rapporto contrattuale tra figlio e genitore dichiarato tale (con sentenza appellata) non vi sono ostacoli a considerare possibile l’esecuzione provvisoria delle statuizioni di condanna, non solo per il capo della sentenza sulle spese processuali ma anche per gli altri capi contenenti una condanna. Sarebbe strano il contrario, cioè che la regolamentazione del mantenimento per esempio del figlio minore venisse posticipata ad un tempo successivo al giudicato che potrebbe sopraggiungere solo dopo molti anni con evidenti ripercussioni negative sul diritto del figlio ad essere salvaguardato nelle sue esigenze primarie (contra Trib. Roma, 28 febbraio 2018, che ha accolto un’opposizione a precetto relativa all’esecuzione provvisoria del capo di condanna al mantenimento futuro del figlio minore sulla base della teoria della sinallagmaticità).
5) Del tutto nuovo è il tema della provvisoria esecuzione delle questioni connesse all’affidamento. Nonostante gli effetti costituivi della sentenza di accertamento non dovrebbero, però, esserci pro¬blemi a considerare provvisoriamente esecutiva questa parte della decisione nell’interesse esclusi¬vo della salvaguardia del rapporto tra genitore di cui è accertata la paternità e figlio.
VIII Il cognome
L’attuale articolo 262 del codice civile – nel testo introdotto dall’art. 27 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154 – è il seguente:
Art. 262. Cognome del figlio nato fuori del matrimonio
Il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre.
Se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata o riconosciuta successivamente al ricono¬scimento da parte della madre, il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo, ante¬ponendolo o sostituendolo a quello della madre.
Se la filiazione nei confronti del genitore è stata accertata o riconosciuta successivamente all’attri¬buzione del cognome da parte dell’ufficiale dello stato civile, si applica il primo comma del presente articolo; il figlio può mantenere il cognome precedentemente attribuitogli, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno della sua identità personale, aggiungendolo, anteponendolo o sostituen¬dolo al cognome del primo genitore che per primo lo ha riconosciuto o al cognome del padre in caso di riconoscimento contemporaneo da parte di entrambi i genitori. Nel caso di minore età del figlio, il giudice decide circa l’assunzione del cognome del genitore, pre¬vio ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento”.
Il nuovo testo contiene alcune novità rispetto al testo precedente alla riforma. Per quanto qui inte¬ressa la principale di queste novità sta nel fatto che in caso di “riconoscimento paterno” successivo a quello materno (anche a seguito di dichiarazione di paternità) “il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre”. La motivazione di questa ampia opportunità di scelta sta nel fatto che il riconoscimento paterno tardivo può avvenire anche a distanza di molti anni. La legge, perciò, si preoccupa di garantire la possibilità che il co¬gnome materno possa mantenere una sua visibilità ove sia diventato un segno di identità del figlio. La precedente versione dell’articolo 262 prevedeva solo la possibilità di aggiunta o di sostituzione. La riforma del 2012/2013 ha inserito, quindi, la possibilità di anteposizione a quello materno del cognome tardivo paterno.
La seconda novità è contenuta nel nuovo terzo comma che riguarda i figli (di ignoti) ai quali il co¬gnome è stato attribuito dall’ufficiale di stato civile. Anche in questa evenienza troverà applicazio¬ne, in caso di riconoscimento successivo da parte di uno o di entrambi i genitori, la normativa per i figli nati fuori del matrimonio (cognome del genitore che riconosce il figlio o cognome paterno in caso di riconoscimento congiunto da parte di entrambi i genitori) ma il figlio tardivamente ricono¬sciuto – ove il cognome attribuitogli dall’ufficiale di stato civile sia divenuto segno autonomo della sua identità personale – può mantenere il cognome precedentemente attribuitogli “aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo” al nuovo cognome.
La terza novità in tema di cognome nella filiazione fuori del matrimonio riguarda il cognome del figlio minore di età. In questo caso la decisione sul cognome in caso di riconoscimento tardivo non è dell’interessato (come avviene quando è maggiorenne) ma spetta, sia pure su indicazione dei genitori, al tribunale (ordinario secondo la riforma e non più il tribunale per i minorenni: cfr nuovo articolo 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile nel testo introdotto dall’art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 e poi ancora modificato dall’art. 96 lett. c) del D. Lgs. di attuazione 28 dicembre 2013, n. 154). I genitori si dovranno rivolgere al tribunale. Il giudice, pri¬ma di decidere, dovrà obbligatoriamente ascoltare il minore dodicenne o anche di età inferiore se capace di discernimento. Potrebbe avvenire che tra i due genitori vi sia contrasto sulla scelta del cognome: benché nessuna norma prescriva l’audizione dei genitori sarà evidentemente necessario che il tribunale proceda alla loro convocazione essendo diritto di ciascuno di essi esprimere una autonoma valutazione in ordine alla scelta del cognome (il padre potrebbe desiderare l’attribuzione del suo cognome mentre la madre potrebbe voler mantenere anche il proprio). Il procedimento – diversamente da quanto avviene quando sulla scelta non vi sia contrasto tra i genitori – diventa per ciò stesso un procedimento con due parti. Con la conseguenza che il decreto del tribunale sarà reclamabile in Corte d’appello entro dieci giorni non dalla comunicazione ma dalla notifica a cura della parte più diligente (articolo articolo 739, secondo comma, codice di procedura civile). La Cassazione ha ritenuto il Procuratore generale presso la Corte d’appello legittimato a proporre ri¬corso per cassazione avverso la decisione della Corte d’appello in materia di cognome (Cass. sez. VI, 27 giugno 2013, n. 16271).
L’articolo 262 del codice civile trova applicazione, come è evidente, anche in caso di dichiarazione giudiziale di paternità (sia relativamente a figli minori che in caso di figli maggiorenni) in quanto la legge non prevede che la decisione sul cognome sia effettuata con la sentenza che accerta la paternità. L’art. 277 c.c. a tale proposito si limita a dire che “la sentenza che dichiara la filiazione [meglio dovrebbe dirsi “la paternità”] produce gli stessi effetti del riconoscimento”. Sarà pertanto l’interessato maggiorenne a scegliere o i genitori del minore a promuovere il procedimento di cui all’articolo 262 indicando al tribunale la propria preferenza per l’attribuzione al figlio del cognome.
Le disposizioni sul cognome nell’Ordinamento di stato civile non sono appaganti. Salvo quanto si dirà sulle modifiche possibili del cognome (materia toccata da una riforma operata con DPR 13 marzo 2012, n. 54) a questa materia fa riferimento sostanzialmente l’art. 49 del Regolamento di stato civile approvato con DPR 2 novembre 2000, n. 396, che prevede l’annotazione nell’atto di nascita (già formato in occasione della nascita) del riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimo¬nio o delle sentenze che dichiarano la filiazione e l’art. 33 in cui si afferma che il figlio maggiorenne che subisce il cambiamento o la modifica del proprio cognome a seguito della variazione di quello del genitore da cui il cognome deriva, nonché il figlio nato da ignoti riconosciuto, dopo il raggiungimento della maggiore età, da uno dei genitori o contemporaneamente da entram¬bi, ha diritto di chiedere all’ufficiale di stato civile, entro un anno dalla conoscenza di tali eventi, di mantenere il cognome originario.
L’art. 33 in questione non prevede quindi che il figlio maggiorenne possa sempre mantenere il cognome originario ma attribuisce questo diritto soltanto al figlio maggiorenne che subisce il cambiamento o la modifica del proprio cognome a seguito della variazione di quello del genitore da cui il cognome deriva oppure al figlio non riconosciuto alla nascita e registrato direttamente dall’ufficiale di stato civile. Per questo motivo, come si vedrà più oltre, la Corte costituzionale ha ampliato questo diritto riconoscendo sempre e in ogni caso al figlio maggiorenne il diritto di poter mantenere il cognome originario materno in caso di successivo riconoscimento paterno (Corte cost. 3 febbraio 1994, n. 13).
Tuttavia, mentre in caso di riconoscimento di un figlio maggiorenne nato fuori da matrimonio (possibile solo con il consenso del figlio ex art. 250 c.c. che prevede sempre l’obbligatorietà del consenso del figlio che ha un’età superiore ai quattordici anni) è il figlio stesso che ai sensi dell’art. 262 c.c. esprime personalmente la scelta di “assumere il cognome del padre aggiungen¬dolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre”, salvo sempre il diritto di mantenere il solo cognome originario, per il figlio minore di età (ancorché ultraquattordicenne) la decisione sul cognome è attribuita al tribunale. Come si è visto infatti l’art. 262 al quarto comma dispone che “Nel caso di minore età del figlio, il giudice decide circa l’assunzione del cognome del genitore, previo ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento”.
Occupandosi del cognome dei figli minori si è detto che la legge appare perentoria nel prescrivere “il giudice decide circa l’assunzione del cognome”, con ciò lasciando intendere che il tribunale sa¬rebbe obbligato a disporre il cambiamento (anteposizione, aggiunta o sostituzione) del cognome.
In realtà la giurisprudenza non ritiene che questo cambiamento sia necessitato. Il Tribunale potreb¬be lasciare anche quindi il cognome originario della sola madre al figlio riconosciuto dal padre. La giurisprudenza ha infatti precisato che non vi è un vero e proprio obbligo di cambiare il cognome originario e che questo effetto non è quindi automatico (Cass. civ. Sez. I, 2 ottobre 2015, n. 19734 per il figlio maggiorenne, e Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2014, n. 26062 per il figlio minore). Quest’ultima sentenza ha stabilito che l’attribuzione del cognome del genitore che effettua il secondo riconoscimento, anche in aggiunta al cognome del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento del figlio, costituisce facoltà e non anche necessità. In ipotesi siffatte l’esigenza preminente è quella di garantire l’interesse del figlio a conservare il cognome originario se questo sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale in una determinata comunità. L’organo giurisdizionale, pertanto, deve avere riguardo al modo più conveniente di individuare il minore in relazione all’ambiente in cui è cresciuto sino al momento del riconoscimento del secondo genitore (specificamente il padre), ed è chiamato ad emettere un provvedimento contrassegnato da ampio margine di discrezionalità e frutto di libero e prudente apprezzamento, nell’ambito del quale assume rilievo centrale l’interesse del minore ad essere identificato nel contesto delle relazioni so¬ciali in cui si trova inserito. Tale statuizione, proprio in quanto connotata da ampia discrezionalità, è incensurabile in Cassazione se adeguatamente motivata (come nella specie).
IX L’accertamento della paternità o della maternità in caso di figlio nato da relazione incestuosa
Secondo quanto dispone l’art. 278 c.c. (Autorizzazione all’azione) “Nei casi di figlio nato da per¬sone, tra le quali esiste un vincolo di parentela in linea retta all’infinito o in linea collaterale nel secondo grado, ovvero un vincolo di affinità in linea retta, l’azione per ottenere che sia giudizial¬mente dichiarata la paternità o la maternità non può essere promossa senza previa autorizzazione ai sensi dell’articolo 251”.
A sua volta l’art. 251 c.c. (che concerne il riconoscimento del figlio nato da relazione incestuosa prevedendo anche in questo caso l’autorizzazione del giudice) dispone che l’autorizzazione è concessa “avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio”.
In origine, l’art. 251 c.c. ammetteva il riconoscimento solo dei “figli incestuosi” nati da relazione in buona fede. E’ stata Corte cost. 28 novembre 2002, n. 494 a dichiarare incostituzionale l’art. 278, 1° comma, c.c., nella parte in cui escludeva la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità e le relative indagini, nei casi in cui, a norma dell’art. 251, 1° comma, c.c., è vietato il riconoscimento dei figli incestuosi.
In conseguenza di ciò la riforma del 2012 e 2013 in materia di filiazione ha riformulato sia l’art. 251 (che riguarda il riconoscimento del figlio nato da relazione incestuosa) che l’art. 278 (che riguarda la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità nel caso di figlio nato da relazione incestuosa) ammettendo in entrambi i casi l’acquisizione dello status del figlio, sia pure subordina¬tamente ad una autorizzazione del giudice.
Il giudice è il tribunale ordinario in caso di figlio maggiorenne. Viceversa in caso di figlio minore di età, l’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile10
10 La parte conclusiva del primo comma dell’art. 38 disp. att. c.c. – come modificato dall’art. 96, comma 1, lett. c), D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 – dispone “Sono, altresì, di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 251 e 317-bis del codice civile”. attribuisce al tribunale per i minorenni la competenza all’autorizzazione (sia nel caso di riconoscimento che nel caso di dichia-razione giudiziale).
L’indagine del giudice è limitata alla valutazione sull’interesse del figlio e sulla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio.
X Se la madre ha partorito nell’anonimato è ammissibile l’accertamento della maternità?
Il D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordi¬namento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127) prevede all’art. 30 che 30 (Dichiarazione di nascita), primo comma, che “La dichiarazione di na¬scita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata” Per un approfondimento della problematica cfr la voce PARTO ANONIMO e la voce DIRITTO A CONOSCERE LE PROPRIE ORIGINI .
Pertanto la madre, nel nostro sistema giuridico, ha il diritto di chiedere di partorire nell’anonima¬to, sia in caso di figlio nato nel matrimonio (impedendo che si realizzi la presunzione di paternità prevista nell’art. 231 c.c.) che in caso di figlio nato fuori dal matrimonio (rendendo del tutto am¬missibile in tal modo il non riconoscimento).
È evidente che in quest’ultimo caso non sarà ammissibile la dichiarazione giudiziale di maternità, come ha avuto peraltro modo di precisare Trib. Milano Sez. I, 14 ottobre 2015 affermando che non è ammissibile la dichiarazione giudiziale di maternità nei confronti di una donna che al mo¬mento del parto ha dichiarato di non voler essere nominata, poiché altrimenti verrebbe frustrata la ratio della intera disciplina, ravvisabile non solo nell’esigenza di salvaguardare la famiglia legittima e l’onore della madre, ma anche di impedire che onde evitare nascite indesiderate, si faccia ricorso ad alterazioni di stato o a soluzioni ben più gravi quali aborti o infanticidi.
Il diritto della madre a non essere nominata dopo il parto si rinviene anche in altre due disposizio¬ni normative: per esempio nell’art. 93, comma secondo, del d.lgs. n. 196/2003 (Codice in materia di dati personali) che subordina l’accessibilità al certificato di assistenza al parto o alla cartella clinica, che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, al decorso di anni 100 dalla formazione del documento, così tutelando la scelta dell’anonimato della madre per tutta la vita della stessa e presumibilmente anche per l’intera durata della vita del figlio. Inoltre l’art. 28 della legge n. 184/1983 (Diritto del minore ad una famiglia) che, discipli¬nando l’ipotesi di accesso alle informazioni che riguardino l’origine e l’identità dei genitori biologici di soggetti adottati, prevede espressamente – al comma settimo – che l’accesso a tali informa¬zioni “non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ai sensi dell’articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396”.
Il fondamento costituzionale di tali disposizioni, come chiarito dalla Corte Costituzionale, riposa sull’esigenza di tutelare la gestante che versi in situazioni particolarmente difficili dal punto di vista personale, economico o sociale ed abbia deciso di non tenere con sé il bambino, offrendole la possibilità di partorire in una struttura sanitaria appropriata e di mantenere al contempo l’ano¬nimato nella conseguente dichiarazione di nascita. In tal modo si intende, da un lato, assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali sia per la madre che per il figlio, dall’altro, distogliere la donna da “decisioni irreparabili” per quest’ultimo ben più gravi (Corte cost., 25 novembre 2005, n. 425).
Il parto anonimo, che resta tale per cento anni, costituisce quindi un’alternativa offerta alla donna rispetto all’interruzione di gravidanza, lecita ma pur sempre traumatica, ovvero, nelle ipotesi peg¬giori, a comportamenti criminali quali l’infanticidio o l’abbandono di neonato. Il diritto della madre che la legge intende tutelare, per le ragioni sopra esposte, risulterebbe affievolito se la decisione della donna non fosse assistita dalla garanzia della sua perdurante validità per l’intero corso della vita, e se non fosse escluso il rischio per la stessa, in un imprecisato futuro e su richiesta di un figlio mai conosciuto e già adulto, di essere disvelata o di essere soggetta agli obblighi genitoriali ai quali aveva inteso sottrarsi manifestando la facoltà, espressamente riconosciuta dalla legge, di rimanere anonima.
Il quadro normativo sopra citato osta alla proposizione e all’accoglimento della domanda di di¬chiarazione giudiziale di maternità ai sensi dell’art. 269 c.c., che avrebbe l’effetto di costituire lo status giuridico di genitorialità e di determinare l’insorgenza delle relative responsabilità, a fronte della perdurante volontà della madre di non essere nominata e di mantenere il proprio segreto nei confronti del figlio dato alla luce.
Recentemente Trib. Roma, 12 maggio 2017 ha precisato che gli eredi di una donna che dichiarò di voler rimanere anonima al momento del parto possono esprimere una determinazione diversa in caso in cui la medesima non lasciò nulla di dichiarato a questo proposito per il tempo successivo alla sua morte. In questo caso, – conclude la decisione – sarebbe ammissibile l’azione di dichiara¬zione giudiziale di maternità nonostante l’opzione per il parto anonimo al momento della nascita del ricorrente.
La decisione si fonda sul fatto che la Corte costituzionale nel caso di parto anonimo, ha riconosciu¬to il diritto del figlio, dopo la morte della madre, di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative all’identità personale della stessa, “non potendosi considerare operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo, il termine di cento anni, dalla formazione del documento, per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, previsto dall’art. 93, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003, che determinerebbe la cristallizzazione di tale scelta anche dopo la sua morte e la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio, in evidente contrasto con la necessaria reversibilità del segreto (Corte cost., 22 novembre 2013, n. 278) e l’affievolimento, se non la scomparsa, di quelle ragioni di protezione che l’ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della madre, proprio in ragione della revocabilità di tale scelta” (Cass. civ. Sez. I, 21 luglio 2016, n. 15024; Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2016, n. 22838).
In conclusione l’azione per l’accertamento giudiziale della maternità resta impedita dalla dichiara¬zione della madre di voler partorire nell’anonimato ma non nel caso in cui l’azione venga proposta in seguito alla morte della madre se i suoi eredi esprimono una determinazione diversa e la madre non lasciò nulla di dichiarato per il tempo successivo alla sua morte.
XI Accertamento giudiziale della paternità e revocazione della donazione e del testamento per sopravvenienza dei figli
L’art. 80312
12 Art. 803 (Revocazione per sopravvenienza di figli)
Le donazioni fatte da chi non aveva o ignorava di avere figli o discendenti al tempo della donazione, possono essere revocate per la sopravvenienza o l’esistenza di un figlio o discendente del donante. Possono inoltre es¬sere revocate per il riconoscimento di un figlio, salvo che si provi che al tempo della donazione il donante aveva notizia dell’esistenza del figlio.
La revocazione può essere domandata anche se il figlio del donante era già concepito al tempo della donazione. e l’art. 687 c.c.13
13 Art. 687 (Revocazione per sopravvenienza di figli)
Le disposizioni a titolo universale o particolare, fatte da chi al tempo del testamento non aveva o ignorava di aver figli o discendenti, sono revocate di diritto per l’esistenza o la sopravvenienza di un figlio o discendente del testatore, benché postumo, anche adottivo, ovvero per il riconoscimento di un figlio nato fuori del matrimonio.
La revocazione ha luogo anche se il figlio è stato concepito al tempo del testamento.
La revocazione non ha invece luogo qualora il testatore abbia provveduto al caso che esistessero o sopravvenis¬sero figli o discendenti da essi.
Se i figli o discendenti non vengono alla successione e non si fa luogo a rappresentazione, la disposizione ha il suo effetto. prevedono che le donazioni e le disposizioni testamentaria fatte da chi al tempo della donazione o del testamento non aveva o ignorava di aver figli o discendenti, sono revocate di diritto per l’esistenza o la sopravvenienza di un figlio o discendente del testatore.
In entrambi i casi alla nascita di un figlio è equiparato il riconoscimento di un figlio non solo spon¬taneo ma anche a seguito di accertamento giudiziale.
Il principio è stato precisato in materia di revocazione del testamento da Cass. civ. Sez. II, 5 gennaio 2018, n. 169, che, annullando una sentenza della Corte d’appello di Roma, ha affermato che va considerato revocato di diritto, ai sensi dell’art. 687 c.c., il testamento nell’ipotesi in cui, a seguito di una dichiarazione giudiziale di paternità intervenuta dopo la morte del testatore, risulti che il testatore aveva generato un figlio (non riconosciuto), il quale non risulti contemplato nel testamento stesso. La norma dell’art. 687 c.c. va cioè interpretata in senso oggettivo, e la sua ratio è ravvisata nella tutela di un interesse familiare a fronte del mutamento della composizione della famiglia, e precisamente nella tutela degli interessi dei più stretti familiari del de cuius, e cioè dei figli, lì dove ignorati o sopravvenuti.
La revocazione avviene, secondo questa sentenza, a prescindere dal fatto che il de cuius fosse o meno a conoscenza dell’esistenza del figlio. Infatti l’assenza di una previsione analoga a quella contenuta nell’art. 803 c.c. 14
14 Art. 803 (Revocazione per sopravvenienza di figli)
Le donazioni fatte da chi non aveva o ignorava di avere figli o discendenti al tempo della donazione, possono essere revocate per la sopravvenienza o l’esistenza di un figlio o discendente del donante. Possono inoltre es¬sere revocate per il riconoscimento di un figlio, salvo che si provi che al tempo della donazione il donante aveva notizia dell’esistenza del figlio.
La revocazione può essere domandata anche se il figlio del donante era già concepito al tempo della donazione. (…salvo che si provi che al tempo della donazione il donante aveva notizia dell’esistenza del figlio…”) nella norma di cui all’art. 687 c.c., in tema di testamento, fa propendere per la soluzione secondo cui la sola conoscenza del rapporto di filiazione, in assenza dell’acquisizione dello stato giuridico di figlio non preclude la revocazione del testamento.
XII Il riconoscimento incidenter tantum ai fini del solo mantenimento
Nel nostro sistema giuridico non è possibile scindere gli effetti dell’accertamento giudiziale della paternità o della maternità. La sentenza che accerta la genitorialità (art. 277 c.c.) attribuisce i doveri e i diritti che il genitore ha nei confronti dei figli (art. 261 c.c.).
In un caso, tuttavia, si producono soltanto i doveri di mantenimento ed a questo caso fa riferimen¬to l’art. 279 c.c. (Responsabilità per il mantenimento e l’educazione).
Art. 279 (Responsabilità per il mantenimento e l’educazione)
In ogni caso in cui non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di paterni¬tà o di maternità, il figlio nato fuori del matrimonio può agire per ottenere il manteni¬mento, l’istruzione e l’educazione. Il figlio nato fuori del matrimonio se maggiorenne e in stato di bisogno può agire per ottenere gli alimenti a condizione che il diritto al mantenimento di cui all’articolo 315-bis, sia venuto meno.
L’azione è ammessa previa autorizzazione del giudice ai sensi dell’articolo 251.
L’azione può essere promossa nell’interesse del figlio minore da un curatore speciale nominato dal giudice su richiesta del pubblico ministero o del genitore che esercita la responsabilità genitoriale.
Se il genitore biologico è deceduto nessun diritto al mantenimento o di natura ali¬mentare è azionabile essendo i relativi doveri di natura personalissima e quindi non trasmissibili agli eredi.
Tuttavia il codice, volendo venire incontro alle necessità del figlio che si trova nelle condizioni di cui all’art. 279 c.c., prevede anche una tutela di tipo “ereditario” (con la precisazione che questa aggettivazione è impropria dal momento che il figlio che agisce non può essere qualificato erede del presunto genitore biologico defunto). La tutela del figlio in questo caso è la seguente. Nell’i¬potesi di successione ab intestato il figlio può pretendere un assegno vitalizio a carico dell’eredità “pari all’ammontare della rendita della quota di eredità alla quale avrebbe diritto, se la filiazione fosse stata dichiarata o accertata” (art. 580 c.c.), mentre in caso di successione testamentaria o in presenza di donazioni effettuate in vita dal de cuius e sempre che il genitore non abbia disposto in suo favore, il figlio può pretendere un assegno vitalizio a carico degli eredi, dei legatari e dei donatari (art. 594 c.c.).
Nel caso in cui il genitore biologico sia in vita l’azione è strutturata come azione di mantenimento o di natura alimentare, con la previsione di una fase preliminare di autorizzazione analoga alla fase di ammissibilità dell’accertamento giudiziale di paternità o maternità naturale che era prevista nell’art. 274 c.c. prima che la Corte costituzionale ne dichiarasse l’illegittimità costituzionale. Se invece il genitore biologico è deceduto l’azione è strutturata come azione di tipo “ereditario” e non dovrebbe essere preceduta da alcuna autorizzazione (secondo l’interpretazione che qui si proporrà contrastante con l’opinione della giurisprudenza).
Nei procedimenti azionati sulla base dell’art. 279 c.c. l’accertamento del rapporto biologico, ai fini dell’attribuzione delle obbligazioni economiche genitoriali, è fatto incidenter tantum – cioè ai soli fini dell’attribuzione dei doveri di mantenimento o alimentari – e senza dichiarazione formale dello status. Troveranno, ciononostante, applicazione ai fini dell’accertamento della compatibilità gene¬tica tra genitore e figlio gli stessi principi che regolamentano nelle azioni di status l’accertamento della paternità o della maternità biologica e quindi le regole che presiedono alla prova in questo settore, ivi compresi i principi che la giurisprudenza ha via affermato in tema di rifiuto di sottoporsi alle prove genetiche. Vale in particolare il principio generale di libertà di prova indicato nel secondo comma dell’art. 269 c.c. in base al quale “la prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo”.
In entrambi i casi (azione di mantenimento/alimentare e azione di tipo “ereditario”) il presupposto è costituito dalla circostanza che “non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di pater¬nità o di maternità” (art. 279 c.c. richiamato anche negli articoli 580 e 594 c.c.).
I problemi, quindi, che la disposizione pone – anche a seguito dei ritocchi subìti ad opera dell’art. 36 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154 – sono numerosi15
15 Per i molteplici problemi che l’art. 279 c.c. pone cfr diffusamente la voce RESPONSABILITA’ PER IL MANTENI¬MENTO .
Lo spettro applicativo della norma è piuttosto vasto (può agire previa autorizzazione del tribunale ordinario direttamente l’interessato o il genitore che esercita la responsabilità genitoriale sul figlio minore, ovvero un curatore speciale nominato su richiesta del pubblico ministero) ma il presuppo¬sto è soltanto uno e cioè il non potersi proporre l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità.
A dire il vero questa impossibilità è piuttosto ristretta nel nuovo sistema della filiazione, in quanto l’azione è imprescrittibile nei confronti del figlio e quindi sempre proponibile.
Poiché “la paternità o la maternità possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il ri-conoscimento è ammesso” (art. 269, primo comma,c.c.) l’azione di mantenimento e alimentare prevista nell’art. 279 c.c. è stata storicamente l’azione a disposizione dei figli per i quali non era ammesso il riconoscimento, cioè dei figli irriconoscibili, in particolare di quelli nati da relazione con¬sapevolmente incestuosa per i quali l’art. 251 della formulazione originaria del codice escludeva del tutto la possibilità di riconoscimento e quindi della corrispondente dichiarazione giudiziale. E’ stata la Corte costituzionale a modificare questo quadro di riferimento allorché dichiarò incosti¬tuzionale l’art. 278 c.c. (divieto di indagini sulla paternità e sulla maternità nei casi di nascita da relazione incestuosa) nella parte in cui non consentiva in tali casi l’azione per la dichiarazione della paternità e della maternità naturale (Corte cost. 28 novembre 2002, n. 494) aprendo la strada alle norme sulla riconoscibilità, sia pure condizionata ad una autorizzazione giudiziaria, dei figli nati da relazione incestuosa introdotte con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 e con il D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154.
Con queste premesse si possono quindi indicare le situazioni in cui oggi è ammissibile e concreta¬mente praticabile l’azione ex art. 279 c.c.
1) Figli nati da relazione incestuosa per i quali l’autorità giudiziaria non concede l’autorizzazione per il riconoscimento o per l’accertamento giudiziale della paternità o della maternità.
L’attuale quadro normativo relativo ai figli nati da relazione incestuosa – cioè nati da persone “tra le quali esiste un vincolo di parentela in linea retta all’infinito [nonni, genitori, figli, nipoti] o in linea collaterale nel secondo grado [fratelli, sorelle], ovvero un vincolo di affinità in linea retta [suoceri,nuore, generi]” (art. 251 c.c.) – prevede la possibilità sia del riconoscimento che del promovimen¬to dell’azione per la dichiarazione giudiziale, ma in entrambi i casi subordinata alla autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria “avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio” (art. 251 c.c. anche richiamato dall’art. 278 c.c.).
Pertanto se l’autorità giudiziaria non concede l’autorizzazione si verifica un caso in cui “non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale” con la conse¬guenza che il figlio ai sensi dell’art. 279 c.c. può proporre l’azione di mantenimento o l’azione alimentare.
2) Il figlio nato da persona infrasedicenne
Secondo l’ultimo comma dell’art. 250 c.c. per poter riconoscere un figlio nato fuori del matrimonio è necessario aver compiuto i 16 anni. Sotto questa età per riconoscere un figlio occorre l’autoriz¬zazione del tribunale (ordinario ex art. 38 disp. att. c.c. come modificato dall’art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 e dall’art. 96 lett. c del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154). Di conseguenza non è ipotizzabile nemmeno da parte del nato l’azione dichiarativa per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità (art. 269, primo comma c.c. . “la paternità o la maternità possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il riconoscimento è ammesso”). Pertanto il genitore biolo¬gico che non ha compiuto 16 anni o che non chiede o non ottiene l’autorizzazione per riconoscere il figlio, potrebbe essere convenuto in un giudizio di mantenimento (da un curatore speciale nomi¬nato dal giudice su richiesta del pubblico ministero o dell’altro genitore che eventualmente abbia riconosciuto il figlio e che esercita la responsabilità genitoriale). Naturalmente al compimento del sedicesimo anno di età del genitore biologico (cioè in età in cui è possibile riconoscere un figlio) sarà possibile nei suoi confronti l’azione di paternità o di maternità con la conseguenza che viene meno la legittimazione ad agire del figlio ex art. 279 c.c. Si comprende perciò come questa ipotesi di azione ex art. 279 c.c. sia sostanzialmente un caso di scuola essendo del tutto ragionevole ipo¬tizzare che l’avente diritto possa attendere il poco tempo che lo separa dalla nascita al compimento del sedicesimo anno di età del genitore biologico per agire con l’azione di status nei confronti del genitore biologico stesso.
3) Figlio minore per il quale l’autorità giudiziaria ritiene contrastante con il suo interesse la dichia¬razione della paternità o maternità naturale o l’autorizzazione al riconoscimento tardivo.
L’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità naturale (art. 269 c.c.) era caratterizzata – nell’impianto originario del codice civile – dalla previsione di una fase di ammissi¬bilità (art. 274 c.c.) nella quale il giudice aveva il compito di accertare il fumus della pretesa. Nel caso di minore età del figlio l’azione era esercitata dal genitore esercente la potestà (art. 273 c.c.) e in questa fase compito del giudice era valutare anche l’interesse del minore (Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341). Successivamente, come si è già detto, la Corte costituzionale ha cancellato la fase di ammissibilità ritenendola un inutile elemento di disturbo per la dilatazione dei tempi che deter¬minava e quindi contrastante con il diritto di azione garantito dall’art, 24 della costituzione (Corte cost., 10 febbraio 2006, n. 50). In questa sentenza la Corte precisava che “in presenza di una incostituzionalità che coinvolge il procedimento nella sua struttura e funzione, la circostanza che lo stesso abbia anche lo scopo di accertare l’interesse del minore non fa venire meno l’incostituzio¬nalità stessa, né giustifica la permanenza nell’ordinamento del giudizio di ammissibilità con questo solo scopo. L’esigenza, infatti, che l’azione di dichiarazione giudiziale della paternità o maternità naturale risponda all’interesse del minore non viene certamente meno con la soppressione del giudizio di cui all’art. 274 del codice civile, ma potrà essere eventualmente delibata prima dell’ac¬certamento della fondatezza dell’azione di merito”. Si è sopra visto come l’interesse del minore costituisca tuttora un elemento di valutazione in tutte le cause sullo status filiationis.
Quanto alla individuazione del giudice competente a trattare la causa e a concedere l’autorizzazio¬ne è necessario rilevare che il secondo comma dell’art. 279 c.c. nel testo vigente fa riferimento all’art. 251 c.c. (“L’azione è ammessa previa autorizzazione del giudice ai sensi dell’articolo 251”) il quale a sua volta prevede (per il riconoscimento del figlio nato da relazione incestuosa e per il promovimento, sempre in caso di nascita da relazione incestuosa, dell’azione dichiarativa della paternità o della maternità naturale) la previa autorizzazione da parte del giudice “avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio”. La competenza a concedere queste autorizzazioni è del tribunale per i minorenni secondo il testo dell’art. 38 disp. att. c.c. come modificato dall’art. 3 legge 219/2012 e dall’art. 96 lett. c del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154). Deriva da quanto detto che competente ad autorizzare la domanda di mantenimento ex art. 279 c.c. promossa dal curatore speciale nell’interesse del soggetto minore di età sarà il tribunale per i minorenni il quale sarà anche competente per la fase di merito essen¬do assolutamente inconcepibile che le due fasi di un unico giudizio possano essere attribuite alla cognizione di giudici diversi.
In conclusione la competenza sulla domanda di mantenimento ex art. 279 c.c. promossa dal figlio minore continua ad appartenere per entrambe le fasi (sia la fase di autorizzazione che per quella di merito) alla competenza del tribunale per i minorenni.
Se l’interessato è maggiorenne la competenza ad autorizzare l’azione e a trattare la causa è del tribunale ordinario.
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2018, n. 3638 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mancata partecipazione del Pubblico Ministero non comporta una lesione del contraddittorio rilevabile in ogni stato e grado del giudizio e tale da giustificare la rimessione degli atti al primo giudice, ai sensi dell’art. 354 cod. proc. civ., ma, essendo l’intervento prescritto pur sempre a pena di nullità, rilevabile anche d’ufficio ai sensi dell’art. 70 cod. proc. civ., la mancata effettuazione degli adempimenti necessari per portare la pendenza del giudizio a sua conoscenza si traduce in un vizio che, convertendosi in motivo di gravame, ai sensi dell’art. 161 cod. proc. civ., può essere fatto valere attraverso l’impugnazione della sentenza.
Cass. civ. Sez. II, 5 gennaio 2018, n. 169 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È revocato di diritto, ai sensi dell’art. 687 c.c., il testamento nell’ipotesi in cui, a seguito di una dichiarazione giudiziale di paternità intervenuta dopo la morte del testatore, risulti che il testatore aveva generato un figlio (non riconosciuto), il quale non risulti contemplato nel testamento stesso. La norma dell’art. 687 c.c. va cioè interpretata in senso oggettivo, e la sua ratio è ravvisata nella tutela di un interesse familiare a fronte del mu¬tamento della composizione della famiglia, e precisamente nella tutela degli interessi dei più stretti familiari del de cuius, e cioè dei figli, lì dove ignorati o sopravvenuti. La revocazione avviene a prescindere dal fatto che il de cuius fosse o meno a conoscenza dell’esistenza del figlio. Infatti l’assenza di una previsione analoga a quella contenuta nell’art. 803 c.c. nella norma di cui all’art. 687 c.c., in tema di testamento, fa propendere per la solu¬zione secondo cui la sola conoscenza del rapporto di filiazione, in assenza dell’acquisizione dello stato giuridico di figlio non preclude la revocazione del testamento.
va individuato in un’esigenza di carattere oggettivo rappresentata dalla tutela dei figli in conseguenza di una mo¬dificazione della situazione familiare, in relazione alla quale il testatore aveva disposto. Tenuto conto che ciò che rileva ai fini della caducazione del testamento è la sopravvenienza o la scoperta dell’esistenza di una filiazione in senso giuridico, e non anche in senso meramente naturalistico, ne segue che la sola conoscenza del rapporto di filiazione non preclude la revocazione del testamento, anche nel caso in cui la dichiarazione giudiziale di paternità intervenga dopo la morte del testatore.
Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il favor veritatis non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta da affermarsi comunque, atteso che l’art. 30 Cost. non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale. Nel disporre, al quarto comma, che “la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità “, l’art. 30 Cost. ha demandato al legislatore ordinario il potere di privilegiare, nel rispetto degli altri valori di rango costituzionale, la paternità legale rispetto a quella naturale, nonché di fissare le condizioni e le modalità per far valere quest’ultima, così affidandogli anche la valutazione in via generale della soluzione più idonea per la realizzazione dell’interesse del figlio.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 14 novembre 2017, n. 26914 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio promosso per l’accertamento della paternità naturale, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche – nella specie opposto da tutti gli eredi legittimi del preteso padre – costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116, secondo comma, cod. proc. civ., di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda.
Cass. civ. Sez. I, 27 luglio 2017, n. 18626 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio promosso per l’accertamento della paternità naturale, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche – nella specie opposto da tutti gli eredi legittimi del preteso padre – costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116, secondo comma, cod. proc. civ., di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda.
Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2017, n. 15201 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità, è correttamente motivata la decisione di merito che ha accer¬tato il legame genitoriale sulla base sia della prova testimoniale, relativa alla relazione tra i pretesi genitori, sia di una consulenza tecnica d’ufficio genetica, oggetto di censure generiche, o prive di specifico riscontro scientifico, o comunque di merito (nella specie, il preteso padre si era limitato a illazioni sulle generalità del vero genitore e a segnalare che la stessa c.t.u. aveva evidenziato l’esistenza di due marcatori incompatibili tra lui e il minore, senza però nemmeno prospettare che da ciò sarebbe derivata l’erroneità delle conclusioni cui è giunta la relazio¬ne, che ha comunque stimato una compatibilità genetica, tra lui e il minore, del 99,98 per cento).
Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 2017, n. 14896 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Posto che nelle cause relative allo stato delle persone (nella specie, accertamento giudiziale della paternità) l’intervento del pubblico ministero è obbligatorio, la mancata trasmissione degli atti a quest’ultimo, anche in grado di appello, in modo che egli sia informato e messo in condizione di adottare le proprie determinazioni al riguardo, comporta la nullità della sentenza (nella specie, la Suprema corte ha cassato quest’ultima con rinvio, una volta accertato che non vi era la prova della comunicazione della pendenza della causa al procuratore gene¬rale, affinché, integrato il contraddittorio, si proceda nuovamente al giudizio).
Cass. civ. Sez. I, 1 giugno 2017, n. 13880 (Giur. It., 2017, 8-9, 1841 nota di FIORE)
Nei giudizi promossi per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale l’esame genetico sul presunto padre si svolge mediante consulenza tecnica c.d. percepiente, ove il consulente nominato dal giudice non ha solo l’inca¬rico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti ma di accertare i fatti stessi. È necessario e sufficiente, in tal caso, che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamen¬to richieda specifiche cognizioni tecniche, perché la consulenza costituisca essa stessa fonte oggettiva di prova.
Trib. Messina Sez. I, 17 maggio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, l’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, giacché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall’art. 269, comma 2, c.c., non tollera sur¬rettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l’imposizione, al giudice, di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa dispo¬sizione di legge, e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo “status”.
Trib. Roma, 12 maggio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Gli eredi di una donna che dichiarò di voler rimanere anonima al momento del parto possono esprimere una determinazione diversa in caso in cui la medesima non lasciò nulla di dichiarato a questo proposito per il tempo successivo alla sua morte. In questo caso, è ammissibile l’azione di dichiarazione giudiziale di maternità nono¬stante l’opzione per il parto anonimo al momento della nascita del ricorrente.
Cass. civ. Sez. I, 7 aprile 2017, n. 9059 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La prescrizione del diritto del genitore ad ottenere dall’altro genitore il rimborso pro quota delle spese anticipate per il mantenimento del figlio nato fuori dal matrimonio decorre dal riconoscimento del figlio da parte dell’altro genitore o dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità.
Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2017, n. 8617 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il favor veritatis non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta da affermarsi comunque, atteso che l’art. 30 Cost., non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale, ma, nel disporre al comma 4, che “la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità “, ha demandato al legislatore ordinario il potere di privilegiare, nel rispetto degli altri valori di rango costituziona¬le, la paternità legale rispetto a quella naturale, nonché di fissare le condizioni e le modalità per far valere quest’ultima, così affidandogli anche la valutazione in via generale della soluzione più idonea per la realizzazione dell’interesse del figlio.
Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 c.c., e, quindi, giusta l’art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 c.c.. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale ed assume, di conseguenza, pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frat¬tempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 c.c.), ha diritto di regresso per la corrispon¬dente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 c.c. nei rapporti fra condebitori solidali. Tuttavia, la condanna al rimborso di detta quota per il periodo precedente la proposizione dell’azione non può prescindere da un’espressa domanda della parte, attenendo tale pronuncia alla definizione dei rapporti pregressi tra debi¬tori solidali, ossia a diritti disponibili, e, quindi, non incidendo sull’interesse superiore del minore, che soltanto legittima l’esercizio dei poteri officiosi attribuiti al giudice dall’art. 277, comma 2, c.c. La necessità di analoga domanda non ricorre riguardo ai provvedimenti da adottare in relazione al periodo successivo alla proposizione dell’azione, atteso che, durante la pendenza del giudizio, resta fermo il potere del giudice adito, in forza della norma suindicata, di adottare di ufficio i provvedimenti che stimi opportuni per il mantenimento del minore. (In applicazione di detti principi, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata per aver trascurato sia la circostanza che le parti avevano compiutamente delimitato, in termini temporali, l’ambito delle rispettive pretese, sia che, al momento dell’introduzione dell’azione, la figlia non era minorenne, con la conseguenza che non residuava alcuno spazio per l’esercizio di poteri officiosi da parte del giudice.
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell›art. 270 c.c. nella parte in cui prevede l›imprescrittibilità dell›azione per il riconoscimento di paternità naturale proposta dal figlio, con l›effetto di sacrificare il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo, atteso che la mancata previsione di un termine, soprattutto alla luce della previgente norma che lo prevedeva, non significa che un bilanciamento con la contrapposta tutela del figlio sia mancato, ma solo che esso è stato operato rendendo recessiva l’aspettativa del padre rispetto alle esigenze di vita e di riconoscimento dell’identità perso¬nale del figlio.
Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7958 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La prova della fondatezza della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità fuori dal matrimonio, non sussistendo un ordine gerarchico, può trarsi anche dal comportamento delle parti, e in particolare dal rifiuto ingiustificato del padre di sottoporsi alle prove genetiche, da valutarsi anche tenuto conto del contesto sociale e, globalmente, di tutte le circostanze del caso (la Suprema corte ha confermato la sentenza di merito, che ha accolto la domanda, tenuto conto, tra l’altro, della mancata disponibilità in concreto del padre al prelievo per l’esame genetico, in quanto egli si era limitato a far pervenire la copia di una analisi genetica effettuata all’estero, su un campione asseritamente da lui prelevato alla presenza di un notaio e di due testimoni, analisi non utilizzata sia per la mancanza di adeguate garanzie sulla sua corretta esecuzione, sia sulla coincidenza di quel campione con quello concretamente esaminato dal laboratorio).
Trib. Messina Sez. I, 20 marzo 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 269 c.c., la maternità è dimostrata provando l’identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre e si ritiene comunemente che tale prova possa essere fornita per presunzioni, essendo in pratica quasi impossibile fornire la diretta dimostrazione di un fatto intimo e riservato come il concepimento ad opera del preteso padre o della pretesa madre.
Trib. Treviso Sez. I, 10 marzo 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa del rapporto di filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento (tardivo) e quin¬di, a norma dell’art. 261 c.c., comporta da parte del genitore tutti i doveri e tutti i diritti propri della procreazione legittima.
Trib. Padova Sez. I, 6 marzo 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio promosso ai fini dell’accertamento della paternità naturale, il rifiuto del preteso padre di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116, comma 2, c.p.c., di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda.
Cass. civ. Sez. I, 15 febbraio 2017, n. 4020 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il principio del favor veritatis – che riconosce la prevalenza della verità biologica, su quella legale – è alla base della responsabilità genitoriale e della ricerca della paternità, previste dall’art. 30, commi 1 e 4, Cost., e dell’im¬portanza della discendenza biologica e della connessa identità personale, diritti fondamentali della persona rico¬nosciuti dalla Costituzione ed anche dalla normativa internazionale. Al legislatore ordinario resta la scelta discre¬zionale delle modalità procedurali ed attuative, che consente ai soggetti interessati di ottenere l’accertamento della verità biologica, com’è quella del curatore speciale nominato dal giudice (art. 244, ultimo comma, c.c.) su richiesta del minore che ha superato i 14 o anche su istanza del padre biologico – come nel caso di specie – ma non anche il potere di precludere tali accertamenti in base a valutazioni di opportunità preventive ed astratte.
Trib. Pordenone, 9 febbraio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’anticipazione in via provvisoria, ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie conte¬nute in sentenze costitutive, non è consentita, occorrendo il passaggio in giudicato, soltanto nei casi in cui la statuizione condannatoria è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico; è invece consentita quando la statuizione condannatoria è meramente dipendente dall’effetto costitutivo, essendo detta anticipazione compatibile con la produzione dell’effetto costitutivo nel momento temporale successivo del pas¬saggio in giudicato.
Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 783 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità , l’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, in forza del principio della libertà della prova, alla stregua del quale da un lato tutti i mezzi di prova hanno pari valore, dall’altro la loro scelta e valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito (nella specie, la Suprema corte ha confermato la sentenza di merito che aveva accertato la paternità alla stregua dei risultati univoci della consulenza tecnica d’ufficio, sicché non aveva ammesso, in quanto superflua, la prova per testi richiesta dalle altre parti).
L’azione di dichiarazione giudiziale di paternità, ove non riguardi un minore, deve essere introdotta, davanti al tribunale, con il rito ordinario; nondimeno, allorché sia stata introdotta con ricorso, e trattata con il rito camerale, la parte che fa rilevare la nullità della sentenza per tale motivo ha l’onere di dedurre lo specifico pregiudizio al diritto di difesa che le sarebbe derivato dal rito pur erroneamente seguìto.
Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 781 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento di figlio naturale, l’art. 250 c.c. (come modificato dall’art. 1, comma 2, lett. b, della l. n. 219 del 2012) subordina, nell’ipotesi di minore infraquattordicenne, la possibilità del secondo riconoscimen¬to al consenso del genitore che detto riconoscimento ha già effettuato e dispone, altresì, che, al compimento del quattordicesimo anno, il minore (anche se nato o concepito prima dell’entrata in vigore della l. n. 219 del 2012cit.) divenga titolare di un autonomo potere di incidere sul diritto del genitore al riconoscimento, confi¬gurando il suo assenso quale elemento costitutivo dell’efficacia della domanda stessa di riconoscimento. Ne consegue che il raggiungimento, da parte del minore, della “maggiore età” ritenuta dal legislatore adeguata ad esprimere un meditato giudizio, rilevabile d’ufficio, determina il venir meno della necessità del consenso del pri¬mo genitore al riconoscimento da parte dell’altro e, in difetto, dell’intervento del giudice. (Nella specie, la S.C., preso atto che il minore aveva compiuto quattordici anni nel corso del processo ed aveva rifiutato il suo assenso al riconoscimento, ha dichiarato, su ricorso della madre, cessata la materia del contendere, cassando senza rinvio la sentenza di riconoscimento della paternità).
Cass. civ. Sez. I, 29 novembre 2016, n. 24292 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c. nella parte in cui, affer¬mandosi l’imprescrittibilità dell’azione per il riconoscimento di paternità naturale proposta dal figlio, non sarebbe previsto un termine decadenziale per l’ipotesi in cui l’azione sia esercitata con notevole ritardo, con l’effetto di sacrificare il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo. Infatti, da un lato, il diritto al riconoscimento di uno “status” filiale corrispondente alla verità biologica costituisce una componente essenziale del diritto all’identità personale, riconducibile all’art. 2 Cost. ed all’art. 8 CEDU, che accompagna la vita individuale e relazionale e l’incertezza su tale “status” può determinare una condizione di disagio ed un “vulnus” allo sviluppo adeguato ed alla formazione della personalità; e, dall’altro, l’eventuale ac¬coglimento della questione sarebbe impedito dal rilievo secondo cui solo il legislatore potrebbe stabilire la durata del termine da sostituire all’imprescrittibilità.
Cass. civ. Sez. VI, 14 luglio 2016, n. 14417 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento da cui conseguono tutti i doveri propri della procreazione legittima tra i quali l’obbligo di mantenimento. La relativa obbligazione si collega allo status genitoriale e assume decorrenza dalla nascita del figlio, con la conseguenza che l’altro genitore, il quale nel frattempo ha sostenuto l’onere di mantenimento anche per la porzione di pertinenza del figlio dichia¬rato giudizialmente, ha diritto di regresso per la corrispondente quota.
Trib. Milano, 14 ottobre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non può essere accolta la domanda di riconoscimento della maternità naturale, ai sensi dell’art. 269 c.c., nell’ipo¬tesi in cui la madre al momento del parto abbia espressamente dichiarato di non voler essere nominata e risulti la sua perdurante volontà di esercitare il suo diritto all’ anonimato.
Trib. Potenza, 16 novembre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, che è un ordinario giudizio di cognizione al quale va applicata la normativa generale di cui agli artt. 70 e 72 c.p.c., l’obbligatorietà dell’in¬tervento del P.M. non richiede la partecipazione del rappresentante di quell’ufficio alle varie udienze, essendo assicurata l’osservanza del precetto normativo ove egli sia stato ufficialmente informato dell’esistenza del pro¬cedimento, così da avere la possibilità di intervenire e di esercitare i poteri attribuitigli dalla legge, restando irrilevante che in concreto egli non partecipi alle udienze e non formuli conclusioni.
Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2016, n. 22838 (Famiglia e Diritto, 2017, 1, 19 nota di ANDREOLA)
Il diritto dell’adottato, nato da donna che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ex art. 30, comma 1, D.P.R. n. 396 del 2000, ad accedere alle informazioni concernenti la propria origine e l’identità della madre biologica, sussiste e può essere concretamente esercitato anche se la stessa sia morta e non sia possibile procedere alla verifica della perdurante attualità della scelta di conservare il segreto, non rilevando, nella fatti¬specie, il mancato decorso del termine di cento anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto, o della cartella clinica, di cui all’art. 93, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 196 del 2003, salvo il trattamento lecito e non lesivo dei diritti di terzi dei dati personali conosciuti.
Cass. civ. Sez. I, 21 luglio 2016, n. 15024 (Nuova Giur. Civ., 2017, 3, 319 nota di STANZIONE)
Il diritto all’anonimato è tutelato dall’art. 93, comma 2, D.Lgs. n. 196/2003, che consente il rilascio dei docu-menti idonei ad identificare la madre solo dopo che siano decorsi cento anni dalla loro formazione. Tuttavia, sulla scorta della giurisprudenza della Corte Costituzionale, si può affermare che l’istituto in questione è legittimo a condizione della sempre attuale reversibilità del segreto. Da ciò discende che il termine previsto dal citato art. 93, comma 2, D.Lgs. n. 196/2003 non può ritenersi operativo oltre il limite di vita della madre, perché la conseguenza della morte della madre che ha partorito in anonimo sarebbe quella di reintrodurre quella cristal¬lizzazione della scelta per l’anonimato che la Corte Costituzionale ha ritenuto lesiva degli artt. 2 e 3 della Carta fondamentale.
Trib. Cassino, 15 giugno 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio nasce al momento della sua nascita, anche se la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza. La sentenza dichiarativa della filiazione naturale, invero, produce gli effetti del riconoscimento comportando per il genitore, ai sensi dell’art. 261 c.c., tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ai sensi dell’art. 148 c.c. Conseguentemente, anche nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, per ciò stesso non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale. Su tale base, la violazione dei relativi doveri non trova la sua sanzione, necessariamente e soltanto, nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, in quanto la natura giuridica di tali obblighi implica che la relativa violazione, nell’ipotesi in cui provochi la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c. (Nel caso di specie, Il Tribunale ha condannato il padre naturale di una ragazzina di tredici anni a risarcirle i danni non patrimoniali conseguiti al totale disinteresse dimostrato nei suoi confronti, tale da avere determinato una vera e propria lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione, i quali trovano negli artt. 2 e 30 della carta costituzionale, oltre che in normative internazionali recepite nel nostro ordinamen¬to, un elevato grado di riconoscimento e tutela. Di conseguenza, considerata anche la giovane età della figlia, il giudice di merito ha condannato il padre a versare, a titolo di danno non patrimoniale per abbandono morale della minore, la somma di 52.000 euro, liquidata in via equitativa).
Trib. Milano, 31 maggio 2016 (Nuova Giur. Civ., 2016, 11, 1473 nota di Siclari)
È ammissibile l›azione cautelare, promossa dalla madre del concepito, per accedere a materiale biologico del convivente defunto, al fine di conservare elementi di prova da spendere nel futuro giudizio di accertamento della paternità ex art. 269 cod. civ. L’azione può in particolare essere promossa dove, come nel caso di specie, il corpo del presunto padre non possa essere oggetto di esumazione, attesa la intervenuta cremazione.
Cass. civ. Sez. I, 23 febbraio 2016, n. 3479 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, l’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, giacché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall’art. 269, comma 2, c.c., non tollera sur¬rettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l’imposizione, al giudice, di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa dispo¬sizione di legge, e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo “status”.
App. Messina Sez. I, 19 gennaio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di filiazione naturale, la prova della fondatezza della domanda di accertamento della paternità naturale può trarsi anche unicamente dal comportamento processuale delle parti da valutarsi globalmente, tenendo conto delle dichiarazioni della madre e della portata delle difese del convenuto. In tale ottica, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici costituisce un comportamento valutabile ai sensi dell’art. 116, comma 2 c.p.c..
Trib. Perugia, 11 gennaio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le prove emato-genetiche sono prove in senso proprio, giacché l’attuale livello della ricerca ed esperienza scien¬tifica consente di esprimere, grazie ad esse, sufficienti garanzie nel ritenere decisivo il loro contributo nell’attri¬buzione della paternità o maternità di un soggetto, conseguendo risultati dotati di un alto grado di probabilità prossimo alla certezza.
Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2015, n. 25675 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito del giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il rifiuto ingiustificato del padre di sottoporsi agli esami ematologici può essere liberamente valutato dal giudice, secondo quanto disposto dall’art. 116, comma 2, c.p.c., anche in assenza di prova dei rapporti sessuali tra le parti, non derivando da ciò né una restrizione della liberà personale del preteso padre, che conserva piena facoltà di determinazione in ordine all’assoggettamento o meno ai prelievi, né una violazione del diritto alla riservatezza, atteso che l’uso dei dati è rivolto solo a fini di giustizia, mentre il sanitario, chiamato a compiere l’accertamento, è tenuto al segreto professionale ed al rispetto della disciplina in materia di protezione dei dati personali.
Cass. civ. Sez. I, 1 dicembre 2015, n. 24444 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rifiuto ingiustificato a sottoporsi all’esame del dna ai fini dell’accertamento della paternità non può essere qualificato come una presunzione desunta da una circostanza di fatto avente valore presuntivo, ma come uno elemento fattuale incidente sulla decisione finale, al pari di altre circostanze (quali, nella fattispecie, la crema¬zione del presunto padre, la sussistenza di una relazione sentimentale e sessuale compatibile con l’epoca del concepimento e della cura della minore da parte del defunto ecc.). Del resto, la valutazione di tali elementi effettuata dal giudice di merito risulta insindacabile da parte del giudice di legittimità.
Cass. civ. Sez. I, 13 novembre 2015, n. 23296 (Giur. It., 2016, 5, 1117 nota di RONCO)
Nell’ambito del giudizio per la dichiarazione della paternità, l’accoglimento della domanda può fondarsi, in fatto, anche soltanto sul rifiuto del presunto padre di sottoporsi alle indagini ematiche volte ad accertare le sue carat¬teristiche genetiche e la loro relazione con quelle del presunto figlio.
Cass. civ. Sez. I, 13 novembre 2015, n. 23290 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, la consulenza tecnica ematologica è uno strumento istruttorio officioso rivolto verso l’unica indagine decisiva in ordine all’accertamento della verità del rapporto di filiazione e, pertanto, la sua richiesta, da un lato, non può essere ritenuta esplorativa, intendendosi come tale l’istanza rivolta a supplire le deficienze allegative ed istruttorie di parte, così da aggirare il regime dell’onere della prova sul piano sostanziale o i tempi di formulazione delle richieste istruttorie sul piano processuale, e, dall’altro, non essendo soggetta al regime processuale delle istanze di parte, non può essere oggetto di rinuncia, anche implicita.
Cass. civ. Sez. I, 2 ottobre 2015, n. 19734 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 262, comma 2, c.c., prospettando in termini di mera eventualità l’assunzione del cognome paterno in caso di riconoscimento o accertamento della filiazione nei confronti del padre successivamente al riconoscimento da parte della madre, esclude la configurabilità di tale vicenda come effetto automatico del riconoscimento o della dichiarazione giudiziale di paternità, riconoscendo al figlio nato fuori del matrimonio una facoltà discrezionale, cui corrisponde una situazione di soggezione al genitore.
In caso di dichiarazione giudiziale di paternità, l’assunzione del cognome paterno da parte del figlio maggiorenne non è configurabile quale pronuncia accessoria da rendere d’ufficio ma, in quanto espressione di un diritto po¬testativo del figlio, richiede una apposita domanda da formularsi nell’atto di citazione o comunque nel termine ultimo di cui all’art. 183, comma 5, c.p.c. (nel testo applicabile “ratione temporis”, anteriore alle modifiche intro¬dotte con il d.l. n. 35 del 2005, conv. con modif. dalla l. n. 80 del 2005).
Cass. civ. Sez. VI – 1, 4 settembre 2015, n. 17664 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nelle cause relative allo stato delle persone (nella specie, accertamento giudiziale della paternità), la mancata trasmissione degli atti al P.M., il cui intervento è obbligatorio ai sensi dell’art. 70, n. 3, c.p.c., dà luogo a nullità della sentenza che, se resa nel giudizio di appello, va cassata con rinvio alla corte d’appello affinché, previo coinvolgimento del P.G., proceda alla trattazione e decisione della causa.
Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 2015, n. 12312 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La dichiarazione giudiziale di paternità naturale non può trovare esclusivo fondamento probatorio sull’ingiusti¬ficato rifiuto del presunto genitore di sottoporsi al prelievo biologico necessario all’espletamento del disposto esame ematologico, qualora, prima della pronuncia della sentenza recante il predetto accertamento, gli eredi del presunto genitore, deceduto nelle more del giudizio, abbiano manifestato la loro disponibilità a sottoporsi agli esami, genetici ed ematologici, necessari all’accertamento della dedotta paternità ed abbiano, altresì, dichiarato la loro non opposizione allo svolgimento di esami anche attraverso prelievo di materiale generico dal corpo del loro ascendente deceduto. La valorizzazione del rifiuto a sottoporsi ad un accertamento peritale di così pene¬trante rilevanza presuppone, invero, che il rifiuto sia effettivo e persistente al momento della decisione da parte del giudice di merito e che una revoca di tale rifiuto non possa essere soggetta a preclusioni che attengono alla deduzione ed all’acquisizione dei mezzi di prova; la valorizzazione del predetto rifiuto, pertanto, non è giustifi¬cata nell’ipotesi in cui gli eredi del presunto genitore abbiano manifestato la loro disponibilità nei termini di cui innanzi, non essendo ad essi opponibile un comportamento processuale pregresso che trova le sue ragioni in motivazioni strettamente personali e, come tali, non estensibili all’erede.
Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11874 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, la prova della fondatezza della doman¬da può trarsi anche unicamente dal comportamento processuale delle parti, da valutarsi globalmente, tenendo conto delle dichiarazioni della madre naturale e della portata delle difese del convenuto.
Cass. civ. Sez. VI, 16 febbraio 2015, n. 3079 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di una figlia naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli articoli 2 e 30 della Costituzione – oltre che nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento – un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell’illecito civile e legittima l’esercizio, ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., di un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole.
Cass. civ. Sez. VI, 20 gennaio 2015, n. 798 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato la sospensione del giudizio pregiudicato può essere disposto soltanto ai sensi dell’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ., sicché ove il giudice abbia provveduto ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., il relativo provvedimento, a prescindere da ogni accertamento circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità, è illegittimo e va annullato, ferma restando la possibilità, da parte del giudice di merito dinanzi al quale il giudizio andrà riassunto, di un nuovo e motivato provvedimento di sospensione ai sensi dell’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ. (In applicazione del detto principio, la S.C. ha accolto il ricorso proposto avverso l’ordinanza di sospensione, ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., del giudizio introdotto dall’INAIL in surroga, nei confronti dei responsabili dell’infortunio sul lavoro occorso al lavoratore, pendendo in appello il giudizio tra i danneggiati e i responsabili del sinistro stradale.
Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2014, n. 26062 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di filiazione naturale, l’attribuzione del cognome del genitore che effettua il secondo riconoscimento, anche in aggiunta al cognome del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento del figlio, costituisce facoltà e non anche necessità. In ipotesi siffatte l’esigenza preminente è quella di garantire l’interesse del figlio a conservare il cognome originario se questo sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale in una determinata comunità. L’organo giurisdizionale, pertanto, deve avere riguardo al modo più conveniente di individuare il minore in relazione all’ambiente in cui è cresciuto sino al momento del riconoscimento del secondo genitore (specificamente il padre), ed è chiamato ad emettere un provvedimento contrassegnato da ampio mar¬gine di discrezionalità e frutto di libero e prudente apprezzamento, nell’ambito del quale assume rilievo centrale l’interesse del minore ad essere identificato nel contesto delle relazioni sociali in cui si trova inserito. Tale sta¬tuizione, proprio in quanto connotata da ampia discrezionalità, è incensurabile in Cassazione se adeguatamente motivata (come nella specie).
Cass. civ. Sez. VI, 9 dicembre 2014, n. 25861 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La pendenza di una lite sulla validità dell’accordo giustificativo della separazione consensuale tra coniugi pregiu¬dica, in senso tecnico giuridico, l’esito del giudizio, contemporaneamente pendente, di cessazione degli effetti civili del loro matrimonio, e ne comporta la sospensione ex art. 295 cod. proc. civ., perché l’eventuale annul¬lamento di quell’accordo determinerebbe il venir meno, con effetto “ex tunc”, di un presupposto indispensabile della pronuncia di divorzio.
È configurabile la sospensione ex art. 295 cod. proc. civ. del giudizio di cessazione degli effetti civili del ma-trimonio che penda contemporaneamente a quello riguardante l’annullamento della separazione consensuale omologata tra gli stessi coniugi.
Cass. civ. Sez. VI, 12 novembre 2014, n. 24046 (Giur. It., 2015, 6, 1395 nota di BERTILLO)
L’ordinanza con la quale viene disposta la sospensione discrezionale del processo ai sensi dell’art. 337, cpv., c.p.c. deve anche indicare le ragioni per le quali il giudice non intenda riconoscere l’autoritaè della prima sen¬tenza, giaè intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante, chiarendo perché non ne condivide il merito e le ragioni giustificatrici.
Ai fini del legittimo esercizio del potere di sospensione discrezionale del processo, previsto dall’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ., è indispensabile un’espressa valutazione di plausibile controvertibilità della decisione di cui venga invocata l’autorità in quel processo, sulla base di un confronto tra la decisione stessa e la critica che ne è stata fatta. Ne consegue che la sospensione discrezionale in parola è ammessa ove il giudice del secondo giudizio motivi esplicitamente le ragioni per le quali non intende riconoscere l’autorità della prima sentenza, già intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante, chiarendo perché non ne condivide il merito o le ragioni giustificatrici.
Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2014, n. 19790 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale della paternità, l’art. 276 c.c., come novellato dall’art. 1, 5° comma, L. 10 dicembre 2012, n. 219, che prevede, qualora sia deceduto il preteso genitore e manchino, o siano a loro volta deceduti i suoi eredi, la legittimazione passiva di un curatore speciale, si applica anche ai giudizi pendenti alla sua entrata in vigore (nella specie, la Suprema corte ha cassato la sentenza di merito che, in applicazione del testo originario dell’art. 276 c.c., mancando legittimati passivi, aveva disatteso la domanda, benché gli attori avessero tempestivamente ma inutilmente chiesto la nomina di un curatore speciale, e ha pertanto dichiarato nullo il procedimento, rimettendo la causa al giudice di primo grado per la nomina di tale curatore, fermo il diritto di intervento degli eredi degli eredi del preteso genitore).
Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2014, n. 16657 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di filiazione naturale, il diritto al rimborso delle spese a favore del genitore che ha provveduto al man¬tenimento del figlio fin dalla nascita, ancorché trovi titolo nell’obbligazione legale di mantenimento imputabile anche all’altro genitore, ha natura in senso lato indennitaria, in quanto diretto ad indennizzare il genitore, che ha riconosciuto il figlio, degli esborsi sostenuti da solo per il mantenimento della prole. Ne consegue che il giudice di merito, ove l’importo non sia altrimenti quantificabile nel suo preciso ammontare, legittimamente provvede, per le somme dovute dalla nascita fino alla pronuncia, secondo equità trattandosi di criterio di valutazione del pregiudizio di portata generale, fermo restando che, essendo la richiesta di indennizzo assimilabile ad un’azione di ripetizione dell’indebito, gli interessi, in assenza di un precedente atto stragiudiziale di costituzione in mora, decorrono dalla data della domanda giudiziale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 24 giugno 2014, n. 14274 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 295 c.p.c., la cui ragione fondante è quella di evitare il rischio di un conflitto tra giudicati, fa esclusivo riferimento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giudice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico – giuridico e non già in senso meramente logico, la sospensione neces¬saria del processo non è configurabile nell’ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due giudici diversi del giudizio sull’”an debeatur” e di quello sul “quantum”, fra i quali esiste un rapporto di pregiudizialità solamente in senso logico, essendo in tal caso applicabile l’art. 337, secondo comma, c.p.c., il quale, in caso di impugnazione di una sentenza la cui autorità sia stata invocata in un separato processo, prevede soltanto la possibilità della sospensione facoltativa di tale processo.
Cass. civ. Sez. I, 21 maggio 2014, n. 11211 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di accertamento della paternità naturale, mentre la condanna al rimborso della quota del genitore che, prima della pronuncia, abbia provveduto integralmente al mantenimento della prole, presuppone la domanda di parte, non è necessaria alcuna specifica richiesta in ordine ai provvedimenti relativi al mantenimento del minore per il periodo successivo alla proposizione dell’azione, in relazione ai quali il giudice è dotato di poteri ufficiosi.
Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2014, n. 10783 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di morte del preteso genitore, legittimati passivi all’azione di dichiarazione giudiziale di paternità sono esclusivamente i suoi eredi, e non anche gli eredi degli eredi, ai quali, in quanto portatori di un interesse con¬trario all’accoglimento della domanda, è riconosciuta la sola facoltà di intervenire in giudizio. Tale soluzione risponde ad una interpretazione, letterale e sistematica, dell’art. 276 cod. civ., che, nel prevedere che l’azione “deve” essere proposta nei confronti degli eredi diretti ed immediati del preteso genitore defunto, ne esclude, implicitamente, la possibilità di altri (ai quali, diversamente, resterebbe preclusa la possibilità di intervenire) e trova conferma nella nuova formulazione della norma, che contempla, in mancanza di eredi, la possibilità di agire nei confronti di un curatore nominato dal giudice.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di mantenimento del figlio naturale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente azionabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, che conseguentemente costituisce il “dies a quo” della decor¬renza della ordinaria prescrizione decennale.
Cass. civ. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 6207 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando fra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato – salvo nel caso in cui la sospensio¬ne sia imposta da una disposizione specifica fino al passaggio in giudicato – soltanto ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., come si trae dall’interpretazione sistematica della disciplina del processo, in cui un ruolo decisivo rive¬ste l’art. 282 cod. proc. civ. e il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originario di lite, giustificando sia l’esecuzione provvisoria, sia l’autorità della sentenza di primo grado. (Nella specie, la S.C. ha cassato l’ordinanza di sospensione ex art. 295 cod. proc. civ. emesso dal tribunale affermando che la pendenza in appello di un giudizio in cui era stata accolta, in primo gra¬do, la domanda di una società volta all’accertamento della validità dell’acquisto di un complesso immobiliare non era necessariamente pregiudiziale al procedimento introdotto in primo grado dalla medesima società e volto a far valere l’acquisto immobiliare per usucapione abbreviata per effetto dell’immissione in possesso conseguente all’aggiudicazione, potendo tale secondo procedimento essere sospeso solo ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., ove il giudice avesse inteso riconoscere l’autorità della prima decisione).
Trib. Roma Sez. I, 21 febbraio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di disconoscimento della paternità, le prove genetiche sono prove in senso proprio, in considerazione del fatto che l’attuale livello della ricerca e della esperienza scientifica consente di esprimere, grazie ad esse, suf¬ficienti garanzie circa il decisivo contributo di esse nell’attribuzione della paternità di un soggetto, conseguendo risultati dotati di un alto grado di probabilità prossimo alla certezza.
Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo dei genitori di educare e mantenere i figli (artt. 147 e 148 cod. civ.) è eziologicamente connesso esclusivamente alla procreazione, prescindendo dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così de¬terminandosi un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore. Il presupposto di tale responsabilità e del conseguente diritto del figlio al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali è costituito dalla consa¬pevolezza del concepimento, che non si identifica con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, ma si compone di una serie di indizi univoci, quali, nella specie, la indiscussa consumazione di rapporti sessuali non protetti all’epoca del concepimento.
Cass. civ. Sez. VI, 27 giugno 2013, n. 16271 (Pluris,Wolters Kluwer Italia)
La scelta del Giudice nell’attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, non può essere condizionata né dal favor per il patronimico, né dalla esigenza di equiparare il risul¬tato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate nell’articolo 262 del co¬dice civile, che presiedono all’attribuzione del cognome al figlio legittimo, poiché i criteri di individuazione del cognome del minore si pongo¬no in funzione del suo interesse, che è quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale.
Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello è legittimato a proporre impugnazione, ex art. 95 del DPR n. 396 del 2000, avverso il decreto, emesso dai medesimi Giudici, di annullamento del provvedimento per mezzo del quale sia stata disposta l’aggiunta, al cognome materno, di quello del padre del minore che abbia successi¬vamente effettuato il riconoscimento dello stesso, versandosi in materia di rettificazione di atti dello Stato Civile.
Trib. Milano, 26 giugno 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di azione ex art. 269 c.c., la competenza si radica nel luogo di residenza del convenuto (Cass. Civ. 1373/1992, Sez. Un.; Cass. Civ., 11021/1997: precedenti che si richiamano ex art. 118 disp. att. c.p.c.), non rintracciandosi, peraltro, nel codice di rito, un foro del “concepimento” e nemmeno potendosi ritenere preva¬lente la tutela del minore, in quanto la causa ha ad oggetto la paternità biologica che, se accertata, legittima le domande nell’ interesse della prole, per le quali, sì, opera il foro di residenza del minore (es. 317-bis c.c., 38 disp.att.c.p.c.).
Cass. pen. Sez. II, 5 febbraio 2013, n. 8434 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Gli esiti dell’indagine genetica condotta sul DNA, atteso l’elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche con¬fermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, presentano natura di prova, e non di mero elemento indiziario ai sensi dell’art. 192, comma secondo, cod. proc. pen.; pe¬raltro, nei casi in cui l’indagine genetica non dia risultati assolutamente certi, ai suoi esiti può essere attribuita valenza indiziaria.
Trib. Sulmona, 26 novembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le domande a contenuto economico correlate alla domanda di dichiarazione giudiziale di paternità naturale pos¬sono essere svolte e decise in un unico processo, fermo restando che il credito derivante dall’accoglimento delle prime potrebbe essere azionato soltanto all’esito del passaggio in giudicato del capo relativo all’accertamento dello status di figlio.
Cass. civ. Sez. I, 11 settembre 2012, n. 15158 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In merito alla dichiarazione giudiziale di paternità, può ravvisarsi la contrarietà all’interesse del minore solo nell’ipotesi di concreto accertamento di una condotta del preteso padre tale da giustificare una dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale, ovvero di una prova della sussistenza di gravi rischi per l’equilibrio affet¬tivo e psicologico del minore e per la sua collocazione sociale. Orbene, siffatti rischi devono emergere da fatti obiettivi, desunti dalla pregressa condotta di vita del preteso padre. Di talché, in assenza di essi, l’interesse del minore va, di norma, considerato sussistente, a prescindere dai rapporti di affetto che possano concretamente instaurarsi con il presunto genitore e dalla disponibilità di quest’ultimo ad instauraarli, avendo riguardo al miglio¬ramento obiettivo della sua situazione in relazione agli obblighi giuridici che ne derivano per il presunto padre.
Tribunale, Reggio Emilia, 6 settembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza con natura dichiarativa oppure costitutiva (e non di condanna) è provvisoriamente esecutiva sola¬mente con riferimento al capo che concerne le spese di lite.
Gli effetti dichiarativi e costitutivi, invece, diventano esecutivi (solamente) con il passaggio in giudicato della stessa sentenza.
Trib. Napoli Sez. I, 18 settembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligazione di mantenimento del figlio riconosciuto da entrambi i genitori, per effetto della sentenza dichia¬rativa della filiazione naturale, collegandosi allo status genitoriale, sorge con decorrenza dalla nascita del figlio, con la conseguenza che il genitore, che nel frattempo abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento del mi¬nore anche per la quota di pertinenza dell’altro genitore, ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla base delle regole dettate dagli artt. 148 e 261 c.c., da interpretarsi tuttavia alla luce del regime delle obbligazioni solidali sancito dall’art. 1229 c.c.
Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2012, n. 12198 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale della paternità naturale, nell’ipotesi di maggior età di colui che richiede l’ac¬certamento non può configurarsi un interesse principale ad agire della madre naturale ai sensi dell’art. 276, ulti¬mo comma, cod. civ., non essendo in tale evenienza ravvisabile un obbligo legale di assistenza o mantenimento nei confronti del figlio, potendo peraltro essa svolgere un intervento adesivo dipendente, allorchè sia ravvisabile un suo interesse di fatto tutelabile in giudizio. In ogni caso, alla stregua della disciplina normativa della legit¬timazione ad agire in tale giudizio, contenuta nell’art. 276 cod. civ., correlata all’interpretazione dell’art. 269, secondo e quarto comma, cod. civ., le dichiarazioni della madre naturale assumono un rilievo probatorio integra¬tivo ex art. 116 cod. proc. civ., quale elemento di fatto di cui non si può omettere l’apprezzamento ai fini della decisione, indipendentemente dalla qualità di parte o dalla formale posizione di terzietà della dichiarante, con la conseguente inapplicabilità dell’art. 246 cod. proc. civ.
Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 (Famiglia e Diritto, 2013, 5, 450 nota di VANZ)
Salvi soltanto i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica ed in modo che debba attendersi che sulla causa pregiudicante sia pronunciata sentenza passata in giudicato, quando fra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., come si trae dall’interpretazione sistematica della disciplina del processo, in cui un ruolo decisivo riveste l’art. 282 cod. proc. civ.: il diritto pronunciato dal giudice di primo grado, invero, qualifica la posi¬zione delle parti in modo diverso da quello dello stato originario di lite, giustificando sia l’esecuzione provvisoria, sia l’autorità della sentenza di primo grado. Pertanto, allorché penda, in grado di appello, sia il giudizio in cui è stata pronunciata una sentenza su causa di riconoscimento di paternità naturale e che l’abbia dichiarata, sia il giudizio che su tale base abbia accolto la domanda di petizione di eredità, ed entrambe le sentenze siano state impugnate, il secondo giudizio non deve di necessità essere sospeso, in attesa che nel primo si formi la cosa giu¬dicata sulla dichiarazione di paternità naturale, ma può esserlo, ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., se il giudice del secondo giudizio non intenda riconoscere l’autorità dell’altra decisione. Non ostano, a tale conclusione, le disposizioni degli artt. 573 e 715 cod. civ., non essendo in questione il momento dal quale si producono gli effetti della dichiarazione di filiazione naturale, ma il potere del giudice, cui la seconda domanda sia proposta, di co¬noscerne sulla base della filiazione naturale già riconosciuta con sentenza, pur non ancora passata in giudicato.
Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5653 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 2 e 29 Cost., – dell’art. 244 c.c. nella parte in cui prevede un termine decadenziale per la proposizione dell’azione di discono¬scimento della paternità, in quanto è del tutto coerente con i principi costituzionali la possibilità che il legislatore ordinario preveda limitazioni nei confronti di detta azione, con riferimento sia ai casi in cui l’azione può essere esercitata, sia ai tempi della medesima. Il termine annuale decorre dalla data di acquisizione della conoscenza dell’adulterio della moglie, e non già da quella di raggiunta certezza negativa della paternità biologica, giacché la diversa tesi che differisce a tempo indeterminato l’azione di disconoscimento, facendone decorrere il termine di proponibilità dall’esito dei risultati di un’indagine (stragiudiziale) cui non è dato a priori sapere se e quando i genitori possano addivenire, sacrifica in misura irragionevole i valori di certezza e stabilità degli status e dei rapporti familiari, a garanzia dei quali la norma è viceversa predisposta. Stante la natura decadenziale del ter¬mine in argomento, afferendo esso a materia sottratta alla disponibilità delle parti, a norma dell’art. 2969 c.c. il giudice deve accertarne ex officio il rispetto, dovendo l’attore fornire la prova che l’azione sia stata proposta entro il termine previsto, sia in relazione al significato del termine “scoperta” dell’adulterio, che va inteso nel senso dell’acquisizione certa della conoscenza, e non come mero sospetto di un fatto (non potendo pertanto al riguardo valorizzarsi la mera infatuazione o la mera relazione sentimentale o la mera frequentazione della mo¬glie con un altro uomo) rappresentato o da una vera e propria relazione, o da un incontro, comunque sessuale, idoneo a determinare il concepimento del figlio che si vuole disconoscere.
Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio insorge con la nascita dello stesso, anche nell’ipotesi in cui la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza. Ciò in virtù del fatto che la sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento e, quindi, in base all’art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri tipici della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento di cui all’art. 148 c.c., ricollegandosi tale obbligazioni allo status genitoriale ed assumendo, di conseguenza, effi¬cacia retroattiva. Al riguardo, si precisa come l’obbligo di mantenimento dei figli sussiste per il solo fatto di averli generati, prescindendo da qualsiasi domanda in tal senso, con la conseguenza che, laddove al momento della nascita il figlio sia stato riconosciuto da uno solo dei genitori, l’altro è comunque obbligato al mantenimento per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale.
Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3935 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ interesse umano e affettivo del minore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità non va più valu¬tato dal Tribunale qualora il minore abbia raggiunto i sedici anni, essendo in tale caso la valutazione di detto interesse rimessa allo stesso minore, attraverso la diretta manifestazione di consenso all’azione. A maggior ragione, nel caso in cui l’interessato abbia raggiunto la maggior età nel corso del giudizio e intervenga personal¬mente nel processo, deve ritenersi superata la necessità del consenso.
Cass. civ. Sez. I, 15 dicembre 2011, n. 27090 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ancorché la pronuncia non contenga una condanna nel merito della domanda la statuizione in materia di con¬danna alle spese fruisce dell’efficacia esecutiva di cui al codice di rito.
App. Bologna Sez. minori, 5 dicembre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligazione di mantenimento del figlio, per effetto della sentenza dichiarativa della filiazione naturale, colle¬gandosi allo status genitoriale, sorge con decorrenza dalla nascita del figlio. Ne consegue che il genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento del minore anche per la porzione di pertinenza dell’altro genitore, ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dagli artt. 148 e 261 c.c. da interpretarsi alla luce del regime delle obbligazioni solidali stabilito nell’art. 1229 c.c.
Cass. civ. Sez. I, 26 settembre 2011, n. 19603 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
A norma del primo comma dell’art. 276 cod. civ., legittimato passivo nel giudizio per l’accertamento della pa¬ternità naturale è il presunto genitore, ovvero, in caso di mancanza di questo, i suoi eredi. Da ciò consegue che la posizione di altri soggetti, portatori di interessi, patrimoniali e non patrimoniali, contrari all’accertamento della filiazione, quali il coniuge ed i figli legittimi del presunto genitore, resta regolata dal secondo comma del richiamato art. 276 cod. civ., che attribuisce loro la legittimazione a contraddire alla domanda intervenendo nel processo, ma non anche quella ad essere citati in giudizio come contraddittori necessari, senza che ciò comporti contrasto con i precetti di cui agli artt. 3, 29 e 30 Cost..
Cass. civ. Sez. I, 29 luglio 2011, n. 16737 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’anticipazione in via provvisoria , ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie contenu¬te in sentenze costitutive, non è consentita, essendo necessario il passaggio in giudicato, soltanto nei casi in cui la statuizione condannatoria è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico (come nel caso di condanna al pagamento del prezzo della compravendita nella sentenza sostitutiva del contratto definitivo non concluso); è invece consentita quando la statuizione condannatoria è meramente dipendente dall’effetto costitutivo, essendo detta anticipazione compatibile con la produzione dell’effetto costitutivo nel momento tem¬porale successivo del passaggio in giudicato (come nel caso di specie riguardante la condanna di un istituto di credito alla restituzione delle somme di denaro ricevute da un istituto di credito a seguito di atti solutori dichiarati inefficaci ai sensi dell’art. 67 legge fall.).
Cass. civ. Sez. I, 23 aprile 2010, n. 9727 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 269 codice civile nella sua attuale formulazione, non pone alcun limite in ordine ai mezzi attraverso i quali può essere dimostrata la paternità naturale. Sicché il giudice di merito, dotato di ampio potere discrezionale al riguardo, può legittimamente fondare il proprio convincimento sulla effettiva sussistenza di un rapporto di filiazione anche su risultanze istruttorie dotate di valore puramente indiziario, quale il rifiuto ingiustificato di sot¬toporsi ad indagini ematologiche, che costituisce comportamento valutabile ai sensi dell’art. 116 2° co., c.p.c., anche in assenza di prova specifica di rapporti sessuali tra le parti.
Corte cost. 29 ottobre 2009, n. 278 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 276, primo comma, c.c., cen¬surato, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede, nel caso di morte sia del genitore sia degli eredi diretti di questi, la possibilità, per colui che voglia far accertare la propria paternità o maternità naturale, di agire nei confronti di un curatore speciale nominato dal giudice oppure nei confronti degli eredi degli eredi del presunto genitore. Invero, da un lato, la pronuncia additiva richiesta non è costituzionalmente obbliga¬ta, rientrando nella discrezionalità del legislatore ordinario la scelta tra l’una o l’altra delle soluzioni prospettate dal giudice a quo; dall’altro, la questione è formulata in forma ancipite.
Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2010, n. 22506 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligazione di mantenimento del figlio riconosciuto da entrambi i genitori, per effetto della sentenza dichiara¬tiva della filiazione naturale, collegandosi allo “status” genitoriale, sorge con decorrenza dalla nascita del figlio, con la conseguenza che il genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento del minore anche per la porzione di pertinenza dell’altro genitore, ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dagli artt. 148 e 261 del cod. civ. da interpretarsi però alla luce del regime delle obbligazioni solidali stabilito nell’art. 1299 cod. civ. Pertanto, il “quantum” dovuto in restituzione nel periodo di mantenimento esclusivo non può essere determinato sulla base dell’importo stabilito per il futuro nella pronuncia relativa al riconoscimento del figlio naturale, via via devalutato, in quanto l’ammontare dovuto trova limite negli esborsi presumibilmente sostenuti in concreto dal genitore che ha per intero sostenuto la spesa senza però pre¬scindere né dalla considerazione del complesso delle specifiche e molteplici esigenze effettivamente soddisfatte o notoriamente da soddisfare nel periodo in considerazione né dalla valorizzazione delle sostanze e dei redditi di cia¬scun genitore quali all’epoca goduti ed evidenziati, eventualmente in via presuntiva, dalle risultanze processuali, né infine dalla correlazione con il tenore di vita di cui il figlio ha diritto di fruire, da rapportare a quello dei suoi genitori.
Cass. civ. Sez. Unite, 7 ottobre 2010, n. 20773 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il procedimento disciplinare a carico degli avvocati, quanto all’aspetto procedurale, è disciplinato dalle norme dettate in materia dalla legge professionale in relazione ad ogni singolo istituto, nonché, in mancanza dalle nor¬me del codice di procedura civile. Le norme processuali penali, al contrario, possono trovare applicazione nelle sole ipotesi in cui la legge professionale ad esse faccia espresso rinvio, ovvero si renda necessario procedere all’applicazione di istituti che ivi trovano esclusiva regolamentazione. Ciò rilevato, quanto alla necessarietà o meno della partecipazione del Pubblico Ministero al menzionato procedimento disciplinare, non ravvisandosi nella normativa speciale alcuna espressa indicazione di segno diverso, deve concludersi per l’applicabilità della disciplina dettata dalle norme processuali civili, secondo cui la regolarità del procedimento è assicurata dal mero fatto che il Pubblico Ministero sia stato posto in condizioni di parteciparvi, seppur abbia concretamente scelto, come nella fattispecie concreta, di rimanere assente.
Cass. civ. Sez. I, 19 aprile 2010, n. 9300 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità, la contrarietà all’interesse del minore può sussistere solo in caso di concreto accertamento di una condotta del preteso padre tale da giustificare una dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale, ovvero di prova dell’esistenza di gravi rischi per l’equilibrio affettivo e psicologico del minore e per la sua collocazione sociale. Tali rischi devono risultare da fatti obbiettivi, emergenti dalla pregressa condotta di vita del preteso padre, ed in mancanza di essi l’ interesse del minore va ritenuto di regola sussi¬stente, a prescindere dai rapporti di affetto che possano in concreto instaurarsi con il presunto genitore e dalla disponibilità di questo ad instaurarli, avendo riguardo al miglioramento obiettivo della sua situazione in relazione agli obblighi giuridici che ne derivano per il preteso padre; nè l’ interesse del minore può, di regola, essere escluso dalle normali difficoltà di adattamento psicologico al nuovo “status”, essendo queste normalmente con¬nesse al riconoscimento da parte del genitore naturale, ovvero alla dichiarazione di paternità naturale, quando intervengano a distanza di tempo dalla nascita del minore . E nemmeno detto interesse è escluso dall’assenza di “affectio” da parte del presunto padre nè dalla dichiarazione di costui, convenuto con l’azione di dichiarazione giudiziale ex art. 269 c.c., di non voler comunque adempiere i doveri morali inerenti alla potestà genitoriale.
Cass. civ. Sez. Unite, 22 febbraio 2010, n. 4059 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di preliminare di compravendita e di pronuncia ex art. 2932 c.c. l’effetto traslativo della proprietà del bene si produce solo con l’irretroattività della sentenza che determina l’effetto sostitutivo del contratto definitivo. La sentenza di primo grado di accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c. non può pertanto produrre, prima del passaggio in giudicato, gli effetti del contratto definitivo con la conseguente impossibilità di scissione, nelle sentenze ex art. 2932 c.c. in tema di contratto preliminare di compravendita, tra capi costitutivi principali e capi di condanna consequenziali, con riferimento specifico a quelli cosiddetti sinallagmatici le cui relative statuizioni fanno parte.
Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, com¬ma secondo, cod. proc. civ., e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ.. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimento è di per sé illegittimo, a prescindere da qualsiasi accertamento di merito circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità).
Cass. civ. Sez. I, 6 novembre 2009, n. 23630 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella determinazione del contributo previsto dall’art. 277, secondo comma, cod. civ. per il mantenimento del figlio minore nato fuori del matrimonio, a seguito della dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il giudice, ai sensi dell’art. 155 cod. civ., applicabile anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati in virtù del rinvio contenuto nell’art. 4 della legge n. 54 del 2006, deve tener conto non solo delle esigenze attuali del figlio, ma anche del tenore di vita goduto dallo stesso nel corso della convivenza con entrambi i genitori, nonché delle risorse economiche di questi, in modo da realizzare il principio generale di cui all’art. 148 cod. civ., secondo cui i genitori devono concorrere al mantenimento dei figli in proporzione delle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo.
Cass. civ. Sez. II, 6 aprile 2009, n. 8250 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza che dispone l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, ex art. 2932 c.c., produce i propri effetti solo dal momento del passaggio in giudicato; ne consegue che, quando detta sentenza abbia subordinato l’effetto traslativo al pagamento del residuo prezzo, l’obbligo di pagamento in capo al promissario acquirente non diventa attuale prima dell’irretrattabilità della pronuncia giudiziale, essendo tale pagamento la prestazione corrispettiva destinata ad attuare il sinallagma contrattuale.
Corte cost. 20 marzo 2009, n. 80 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell›art. 276, primo comma, c.c., censurato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 30 Cost., nella parte in cui non prevede, nel caso di morte sia del genitore sia degli eredi di questo, la possibilità, per colui che voglia far accertare la propria paternità o maternità naturale, di agire comunque nei confronti di un curatore speciale nominato dal giudice oppure nei confronti degli eredi degli eredi del presunto genitore. Invero, da un lato, la pronuncia richiesta non è costituzionalmente obbligata, ma rientra nella discrezionalità del legislatore ordinario, dall›altro, la questione è formulata in forma ancipite.
Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, com¬ma secondo, cod. proc. civ., e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ.. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimento è di per sé illegittimo, a prescindere da qualsiasi accertamento di merito circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità).
Corte cost. 20 novembre 2008, n. 379 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
questione di legittimità costituzionale dell’art. 276, comma 1, c.c., nella parte in cui non prevede, nel caso di morte del genitore e degli eredi diretti di questo, la possibilità, per colui che voglia far accertare la propria pa¬ternità o maternità naturale, di agire comunque nei confronti di un curatore speciale nominato dal giudice, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost..
Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2008, n. 3708 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio di interdizione o di inabilitazione, la mancata partecipazione del pubblico ministero all’esame perso¬nale dell’interdicendo o dell’inabilitando non determina la nullità della sentenza, una volta che siano state osser¬vate le norme volte a consentire la sua partecipazione al processo (norme che lasciano al pubblico ministero di modulare discrezionalmente il proprio intervento).
Corte cost. 21 dicembre 2007, n. 450 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 276 c.c., censurato, in riferi¬mento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede la possibilità della nomina di un curatore speciale nei cui confronti promuovere l’azione di riconoscimento di paternità o maternità naturale in caso di premorienza sia del presunto genitore sia dei suoi eredi, dal momento che il giudice rimettente omette di descrivere la fatti¬specie sottoposta al suo esame, venendo così meno all’obbligo di rendere esplicite le ragioni che lo inducono a sollevare la questione di costituzionalità con una motivazione autosufficiente, tale da permettere la verifica della valutazione sulla rilevanza nel giudizio a quo.
Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2007, n. 26575 (Famiglia e Diritto, 2008, 6, 563 nota di RUSSO)
La sentenza di accertamento della filiazione naturale dichiara ed attribuisce uno status che conferisce al figlio naturale i diritti che competono al figlio legittimo con efficacia retroattiva, sin dal momento della nascita, con la conseguenza che dalla stessa data decorre anche l’obbligo di rimborsare pro quota l’altro genitore che abbia inte¬gralmente provveduto al mantenimento del figlio; peraltro, la condanna al rimborso di detta quota, per il periodo precedente la proposizione dell’azione, non può prescindere da un’espressa domanda della parte, attenendo tale pronunzia alla definizione dei rapporti pregressi tra debitori solidali in relazione a diritti disponibili.
Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 2007, n. 24409 (Famiglia e Diritto, 2008, 12, 1133 nota di MISEFARI)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento ai sensi dell’art. 277 c.c. e quindi implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento.
Trib. Trani, 27 settembre 2007 (Famiglia e Diritto, 2008, 6, 564 nota di RUSSO)
La domanda di risarcimento del danno esistenziale conseguente al mancato riconoscimento del figlio naturale va rigettata ove sfornita di prova, in quanto, premesso che la legge non prevede l’obbligatorietà del riconoscimento del figlio naturale, il figlio ha l’onere di provare che, benché alla soddisfazione dei suoi bisogni avesse provve¬duto la sola madre, quest’ultima non è riuscita a garantirgli un diverso tenore di vita, che altrimenti sarebbe stato raggiunto attraverso la regolare corresponsione dell’assegno di mantenimento da parte del padre. D’altra parte – anche in considerazione dell’elevato lasso di tempo fatto decorrere dal diretto interessato per la richiesta di risarcimento del danno derivante dal mancato riconoscimento e mantenimento (ventiquattro anni) – non può affatto presumersi che la prova del danno esistenziale sia “in re ipsa”, ovvero che derivi, automaticamente, dal solo mancato riconoscimento. Infatti, non può essere risarcito un danno che prescinda completamente dalla prospettazione e dimostrazione di una qualche conseguenza negativa in capo alla vittima, in quanto disancorare il risarcimento del danno dall’accertamento dell’esistenza di un qualche riflesso negativo, di carattere personale e patrimoniale nella sfera del soggetto leso, significa costruire una categoria di danno “automatico”, direttamen¬te innescato da un fatto illecito senza che vi sia dimostrazione alcuna della modificazione, “in peius”, della vita della vittima.
Cass. civ. Sez. III, 3 settembre 2007, n. 18512 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 282 c.p.c., nel conferire la provvisoria esecutorietà alla sentenza di primo grado, si riferisce alle statuizioni condannatorie della sentenza, sia che essa abbia a presupposto un’azione di condanna, sia che essa abbia a presupposto un’azione costitutiva, sicché la sentenza di primo grado può comunque venire utilizzata come titolo esecutivo.
Nel caso di pronuncia della sentenza costitutiva ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., le statuizioni di condanna con¬sequenziali, dispositive dell’adempimento delle prestazioni a carico delle parti fra le quali la sentenza determina la conclusione del contratto, sono da ritenere immediatamente esecutive ai sensi dell’art. 282 cod. proc. civ., di modo che, qualora l’azione ai sensi dell’art. 2932 c.c. sia stata proposta dal promittente venditore, la statuizione di condanna del promissario acquirente al pagamento del prezzo è da considerare immediatamente esecutiva.
Cass. civ. Sez. I, 27 luglio 2007, n. 16752 (Famiglia e Diritto, 2008, 3, 251 nota di VALENTE)
Nel giudizio diretto ad ottenere la dichiarazione giudiziale della paternità naturale, una volta che il giudice del merito abbia deciso di fare ricorso a prove ematologiche o genetiche, per confermare gli elementi acquisiti attra¬verso l’ordinario sistema probatorio, l’ingiustificato rifiuto del preteso padre a sottoporsi alla prova biologica può valutarsi come elemento di convincimento in ordine alla richiesta di dichiarare che lo stesso è padre del minore.
Corte cost. 20 luglio 2007, n. 319 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 276, primo comma, c.c., nella parte in cui non prevede la possibilità della nomina di un curatore speciale nei cui confronti promuovere l’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità naturale in caso di premorienza sia dei presunti padre o madre sia degli eredi, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., in presenza di una sentenza, emes¬sa fra le stesse parti e passata in giudicato, che ha già dichiarato l’inammissibilità dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità per carenza di legittimazione passiva dei soggetti convenuti, e ha individuato i legittimati passivi dell’azione di cui all’art. 269 c.c. nel presunto genitore o, in mancanza di lui, nei suoi eredi diretti, poi¬ché, non avendo il giudice rimettente motivato in ordine alla persistenza del proprio potere decisorio, né circa l’applicabilità alla fattispecie dell’eventuale auspicata pronuncia di incostituzionalità, tali omissioni si risolvono in carenza di motivazione sulla rilevanza.
Cass. civ. Sez. III, 4 luglio 2007, n. 15111 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando la legge prevede un potere del giudice, il cui esercizio si deve concretare nell’adozione di un provvedi¬mento avente la forma dell’ordinanza ed un determinato contenuto, l’adozione del provvedimento con quel con¬tenuto e con l’espressa indicazione della sua pronuncia, ai sensi della norma che prevede il potere di emissione del provvedimento, comporta che, nel giudizio di impugnazione che sia previsto in ordine al provvedimento, il giudice dell’impugnazione debba scrutinare il provvedimento considerandolo pronunciato in forza dell’esercizio del potere previsto dalla norma indicata nel provvedimento, restando preclusa la possibilità di qualificarlo come provvedimento che avrebbe potuto o dovuto essere pronunciato ai sensi di altra norma, che pure preveda un potere di emissione di un provvedimento di analogo contenuto, ma basato su presupposti e ragioni diverse, salvo il caso in cui proprio queste ultime siano espressamente esplicitate nel provvedimento sì da indurre a far ritenere che, al di là della formale invocazione di una norma, in realtà il giudice abbia in concreto esercitato il potere previsto dall’altra (Principio enunciato dalla S.C. in sede di regolamento di competenza avverso pronuncia di sospensione del processo adottata ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., che il ricorrente pretendeva fosse consi¬derata adottata ai sensi dell’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ.).
Trib. L’Aquila, 6 giugno 2007 (Famiglia e Diritto, 2007, 10, 950)
La dichiarazione giudiziale di paternità produce gli effetti del riconoscimento e ciò determina, a carico del ge¬nitore, tutti i doveri derivanti dalla procreazione legittima, incluso quello del mantenimento del figlio, gravante in solido su entrambi i genitori a decorrere dal momento della nascita; di conseguenza, in base alla disciplina dell’obbligazione solidale, il genitore che abbia sostenuto il mantenimento del figlio fino alla dichiarazione di paternità ha diritto di regresso nei confronti dell’altro.
Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2007, n. 8355 (Famiglia e Diritto, 2007, 8-9, 959 nota di FRASSINETTI)
In tema di dichiarazione giudiziale della paternità o maternità naturale, l’ultimo comma dell’art. 276 c.c., in base al quale alla domanda può contraddire “chiunque vi abbia interesse”, configura una forma di intervento principa¬le, ai sensi dell’art. 105, primo comma, c.p.c., e non meramente adesivo.
Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006 n. 23596 (Famiglia e Diritto, 2007, 11, 1007 nota di ORTORE)
Nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a prov¬vedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato da parte di entrambi i genitori. Da ciò consegue, per un verso, che il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non può sottrarsi alla obbliga¬zione nei confronti del figlio per la quota parte posta a suo carico, ma è tenuto a provvedere, sin dal momento della nascita, e, per altro verso, che il genitore il quale ha provveduto in via esclusiva al mantenimento del figlio ha azione nei confronti dell’altro per ottenere il rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita. Tale azione non è tuttavia utilmente esercitabile se non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione naturale (atteso che soltanto per effetto della pronuncia si costituisce lo “status” di figlio naturale, sia pure con effetti retroagenti alla data della nascita), con la conseguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 cod. civ., e, quindi, a norma dell’art. 261 cod. civ., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 cod. civ.. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale e assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 cod. civ.), ha diritto di regresso per la corrispon¬dente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 cod. civ. nei rapporti fra condebitori solidali. Tuttavia, in considerazione dello stato di incertezza che precede la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente esercitabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la con-seguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Corte cost. 6 luglio 2006, n. 266 (Fam. Pers. Succ., 2007, 7, 628 nota di BEMBO)
È illegittimo l’art. 235, comma 2, codice civile, nella parte in cui subordina l’accesso alle prove ematologiche alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie.
Cass. civ. Sez. I, 24 marzo 2006, n. 6694 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio diretto ad ottenere una sentenza dichiarativa della paternità o della maternità naturale, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giu¬dice ai sensi dell’art. 116, secondo comma, cod. proc. civ., anche in assenza di prova di rapporti sessuali tra le parti, in quanto proprio la mancanza di prove oggettive assolutamente certe e ben difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti tra le stesse parti intercorsi e circa l’effettivo concepimento ad opera del preteso genitore naturale, se non consente di fondare la dichiarazione di paternità sulla sola dichiarazione della madre e sull’e¬sistenza di rapporti con il presunto padre all’epoca del concepimento (secondo l’espresso disposto dell’ultimo comma dell’art. 269 cod. civ.), non esclude che il giudice possa desumere, appunto, argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti, ed in particolare dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi agli accertamenti biologici, e possa persino trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda esclusivamente dalla condotta processuale del preteso padre, globalmente considerata e posta in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre.
Corte cost. 10 febbraio 2006, n. 50 (Fam. Pers. Succ. 2006, 5, 403)
L’intrinseca, manifesta irragionevolezza della norma (art. 3 Cost.) fa sì che il giudizio di ammissibilità ex art. 274 c.c. si risolva in un grave ostacolo all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 Cost., e ciò, per giunta, in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica; da tale manifesta irragionevolezza discende anche la violazione del precetto (art. 111, 2° co., Cost.) sulla ragionevole durata del processo, gravato di un’autonoma fase, articolata in più gradi di giudizio, prodromica al giudizio di merito, e tuttavia priva di qualsiasi funzione. Nè può tacersi come l’evoluzione della tecnica consenta, ormai, di pervenire alla decisione di merito, in termini di pressoché assoluta certezza, in tempi estremamente concentrati. Da quanto precede deriva l’incostituzionalità dell’art. 274 c.c., relativamente ad ogni ipotesi di delibazione di ammissibilità dell’azione, per violazione degli artt. 3, 2° co., 24, e 111 Cost.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328 (Famiglia e Diritto, 2006, 5, 504 nota di FIGONE)
Il diritto al rimborso delle spese sostenute, spettante a genitore naturale che ha allevato il figlio, può essere esercitato solo al momento della emissione della sentenza che accerta il vincolo di filiazione con l’altro genitore, con la conseguenza che tale momento segna il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Corte cost. 25 novembre 2005, n. 425 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È infondata la questione di legittimità costituzionale dell›articolo 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983 n. 184 («Diritto del minore ad una famiglia»), nel testo modificato dall›articolo 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196 («Codice in materia di protezione di dati personali»), sollevata con riferimento agli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione, nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare l›adottato all›accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non essere nominata da parte della madre biologica.04, 1, 1053
Cass. civ. Sez. Unite, 3 novembre 2005, n. 21287 (Giur. It., 2007, 3, 622 nota di ANTONICA)
La domanda per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, in caso di morte del presunto genitore, va proposta solo nei confronti dei suoi eredi, quali legittimati passivi, mentre gli eredi degli eredi del presunto ge¬nitore, o altri soggetti, comunque portatori di un interesse contrario all’accoglimento della domanda, possono solo intervenire in giudizio.
Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2005, n. 15100 (Foro It., 2006, 2, 1, 476)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 cod. civ., e, quindi, a norma dell’art. 261 cod. civ., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 cod. civ.. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale e assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 cod. civ.), ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 cod. civ. nei rapporti fra condebitori solidali. Peraltro, la condanna al rimborso di detta quota per il periodo precedente la proposizione dell’azione non può prescindere da un’espressa domanda della parte, attenendo tale pronunzia alla definizione dei rapporti pregressi tra debitori solidali, ossia a diritti disponibili, e quindi non incidendo sull’interesse superiore del mino¬re, che soltanto legittima l’esercizio dei poteri officiosi attribuiti al giudice dall’art. 277, comma secondo, cod. civ. La necessità di analoga domanda non ricorre riguardo ai provvedimenti da adottare in relazione al periodo successivo alla proposizione dell’azione, atteso che, durante la pendenza del giudizio, resta fermo il potere del giudice adito, in forza della norma suindicata, di adottare di ufficio i provvedimenti che stimi opportuni per il mantenimento del minore. (In applicazione di detti principi, la S.C. ha confermato la decisione di merito la qua¬le aveva escluso, rigettando la contraria pretesa, che nell’esercizio dei poteri officiosi conferitigli dall’art. 277, comma secondo, cod. civ., il giudice potesse disporre per il periodo antecedente la proposizione del giudizio, in assenza di domanda dell’altro genitore, peraltro nella specie non proponibile non avendo la ricorrente agito in proprio, ma solo in nome e per conto del figlio minorenne).
Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2005, n. 10131 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturale, il consenso del figlio che ha com¬piuto l’età di sedici anni, necessario (“ex” art. 273 c.c.) per promuovere o proseguire validamente l’azione, è configurabile come un requisito del diritto di azione, integratore della legittimazione ad agire del genitore, sosti¬tuto processuale del figlio minorenne. Detto consenso può sopravvenire in qualsiasi momento ed è necessario e sufficiente che sussista al momento della decisione; in mancanza, il giudice deve dichiarare, anche d’ufficio, l’improseguibilità del giudizio e non può pronunciare nel merito. Alla necessaria prestazione del consenso – che non può ritenersi validamente prestato dal sedicenne fuori dal processo, né può essere desunto da fatti e comportamenti estranei ad esso, come, ad esempio, dal mero fatto di “portare” il cognome del presunto padre naturale – non osta la circostanza che il figlio abbia raggiunto, nel corso del processo, la maggiore età, sempre che detto compimento non abbia prodotto l’interruzione del processo ai sensi dell’art. 300 c.p.c., rendendo così necessaria l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’”ex” minorenne.
Cass. civ. Sez. III, 26 gennaio 2005, n. 1619 (Corriere Giur., 2005, 9, 1229 nota di PETRILLO)
Non solo le sentenze di condanna ma anche quelle costitutive possono essere provvisoriamente esecutive in¬dipendentemente da una esplicita statuizione in tal senso del giudice se contengono una condanna implicita, desumibile anche dalla sola motivazione o dalla funzione stessa che il titolo è destinato a svolgere.
Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2004 n. 14060 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché l’articolo 295 del c.p.c., la cui ragione fondante è quella di evitare il rischio di un conflitto di giudicati, fa esclusivo riferimento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giudice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico e non già in senso meramente logico, la sospensione necessaria del processo non può essere disposta nell’ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due giudici diversi del giudizio sull’”an debeatur” e di quello sul quantum, fra i quali esiste un rapporto di pregiudizialità solamente in senso logico, essendo in tal caso applicabile l’articolo 337, comma 2, del c.p.c., il quale, in caso di impugnazione di una sentenza la cui autorità sia stata invocata in un separato processo, prevede soltanto la possibilità della sospensione facoltativa di tale processo, e che, a norma dell’articolo 336, comma 2, del c.p.c., la riforma o la cassazione della sentenza sull’”an debeatur” determina l’automatica caducazione della sentenza sul quantum anche se su quest’ultima si sia formato un giudicato apparente, con conseguente esclusione del conflitto di giudicati.
Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2004, n. 13665 (Foro It., 2005, 1, 432)
In materia di accertamento giudiziale della paternità e della maternità, le indagini ematologiche e immunogene¬tiche, in quanto ormai affidabili, possono fornire elementi di valutazione sia per escludere che per affermare il rapporto biologico di paternità, non rilevando il carattere probabilistico delle risultanze di tali indagini, comune a tutte le asserzioni delle scienze fisiche e naturalistiche, cui è sempre immanente la possibilità di errore.
Le indagini ematologiche e immunogenetiche possono fornire elementi di valutazione non solo per escludere, ma anche per affermare il rapporto biologico di paternità, anche quando le risultanze delle indagini consentono una valutazione meramente probabilistica, attesa la natura probabilistica di tutte le asserzioni delle scienze fisiche e naturalistiche.
Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2004, n. 13296 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di azione di accertamento della paternità naturale e di conseguente determinazione del contributo al mantenimento del minore figlio naturale per il periodo successivo alla proposizione dell’azione stessa, ove la parte attrice, nell’atto introduttivo del giudizio, dopo aver indicato quale “petitum” un certo importo di tale con¬tributo, abbia usato l’espressione “ovvero la minore o maggiore somma dovuta” o altra espressione equivalente, il giudice di merito che liquidi un importo maggiore di quello richiesto non viola il principio di cui all’art. 112 c.p.c., sia perchè deve ritenersi che la parte attrice, con l’uso dell’espressione predetta, non abbia posto un limite preciso all’ammontare della somma richiesta, ma si sia rimessa agli elementi probatori da acquisire nel corso del giudizio ed alla loro valutazione ad opera del giudice, sia perchè, in ordine alla condanna del padre naturale al pagamento del contributo, il giudice che ha accertato il rapporto di paternità non è vincolato alla domanda della parte, in quanto l’art. 277, comma 2, c.c. conferisce a detto giudice il potere di adottare di ufficio, in ragione dell’interesse superiore del minore, i provvedimenti che stimi opportuni per il mantenimento del minore stesso.
Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2004, n. 11351 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale, il rimborso delle spese spettanti al geni¬tore che ha provveduto al mantenimento del figlio fin dalla nascita, ancorché trovi titolo nell’obbligazione legale di mantenimento imputabile anche all’altro genitore, ha natura in senso lato indennitaria, essendo diretta ad indennizzare il genitore, che ha riconosciuto il figlio, a causa degli esborsi sostenuti da solo per il mantenimento della prole; poiché è principio generale (desumibile da varie norme, quali ad esempio gli articoli 379, secondo comma, 2054, 2047 cod. civ.) che l’equità costituisca criterio di valutazione del pregiudizio non solo in ipotesi di responsabilità extracontrattuale ma anche quando la legge si riferisca in genere ad indennizzi o indennità, il giudice di merito può utilizzare il criterio equitativo per determinare le somme dovute a titolo di rimborso.
Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento di figlio naturale, il diritto al rimborso delle spese sostenute, spettante al genitore che ha allevato il figlio nei confronti del genitore che procede al riconoscimento, non è utilmente esercibile se non dal giorno del riconoscimento stesso (soltanto il riconoscimento comportando, ex art. 261 c.c., gli effetti tipici connessi dalla legge allo status giuridico di figlio naturale), con la conseguenza che detto giorno segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2003, n. 7386 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di accertamento della filiazione naturale pone a carico del genitore tutti i doveri propri della procre¬azione legittima, compreso quello del mantenimento; tale obbligazione decorre dalla data della nascita, e non da quella della relativa domanda
Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2003, n. 2196 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di accertamento della filiazione naturale, in quanto ha natura dichiarativa dello stato biologico di procreazione, fa sorgere a carico del genitore tutti i doveri di cui all’art. 147 c.c. propri della procreazione legitti¬ma, compreso quello di mantenimento che, unitamente ai doveri di educare ed istruire i figli, obbliga i genitori ex art. 148 c.c. a far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale. A tal fine, il criterio di quantificazione dell’assegno può essere adottato dal giudice di merito anche in termini complessivi ed unitari (anziché in termini di ripetibilità separata della quota delle spese straordinarie), nell’esercizio di una valutazione discrezionale insindacabile in sede di legittimità, ove logicamente e correttamente motivata.
Corte cost., 28 novembre 2002, n. 494 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È incostituzionale l’art. 278, 1° comma, c.c., nella parte in cui esclude la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturali e le relative indagini, nei casi in cui, a norma dell’art. 251, 1° comma, c.c., è vietato il riconoscimento dei figli incestuosi.
Cass. civ. Sez. I, 26 luglio 2002, n. 11041 (Giur. It., 2003, 1138 nota di BELLOMA)
La contrarietà dell’accertamento della paternità all’interesse del minore può sussistere solo in caso di concreta verifica di una condotta del preteso padre tale da giustificare una dichiarazione di decadenza dalla potestà ge¬nitoriale, ovvero di prova dell’esistenza di gravi rischi per l’equilibrio affettivo e psicologico del minore e per la sua collocazione sociale, mentre del tutto irrilevanti debbono ritenersi i suoi atteggiamenti psicologi di rifiuto di rapporti nei confronti della madre, nonché di indifferenza nei confronti della pretesa paternità.
Cass. civ. Sez. I, 25 febbraio 2002, n. 2749 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale, il ricorso alle prove ematologiche, anche se richiesto dal preteso padre, è rimesso alla valutazione del giudice di merito, il quale può ritenerle superflue ove abbia già acquisito elementi sufficienti a fondare il suo convincimento. La relativa decisione è, peraltro, incensu¬rabile in sede di legittimità nei limiti in cui sia adeguatamente motivata.
La dimostrazione della paternità naturale può essere fornita, a mente dell’art. 269 c.c. con ogni mezzo, ed il rifiuto di sottoporsi alla prova ematologica costituisce argomento di prova ulteriore.
Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 1999, n. 10786 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata la q.l.c. dell’art. 273 c.c. con riferimento agli art. 2 e 24 cost. nella parte in cui, in ipotesi di figlio minorenne, attribuisce al genitore la legittimazione ad agire per la dichiarazione giudiziale di maternità o paternità naturale senza prevedere la necessità della nomina di un curatore speciale per il minore e, in caso di inattività del sostituto processuale , la sospensione dei termini fino al raggiungimento della maggiore età del sostituito; infatti, l’interesse del minore risulta adeguatamente protetto, nel caso di promovimento dell’a¬zione da parte del genitore attraverso la verifica della sua rispondenza a quell’interesse demandata al tribunale per i minorenni (a seguito della sentenza della Corte cost. n. 341 del 1990), nel caso contrario con la possibilità per il figlio, una volta divenuto maggiorenne, di promuovere l’azione, per lui imprescrittibile ai sensi dell’art. 270 c.c.; nella prima ipotesi, inoltre, la scelta di non affiancare obbligatoriamente il rappresentante del minore con un curatore speciale, che ne controlli le iniziative processuali, è ragionevole e coerente con la qualità soggetti¬va del rappresentante e la sua natura di sostituto processuale, mentre la previsione di una sospensione dei termini o di una rimessione in termini a favore del minore, divenuto maggiorenne, per esercitare le attività (in particolare le impugnazioni) da cui il genitore è decaduto, contrasterebbe con le esigenze di certezza del diritto e costituirebbe violazione del diritto di difesa della controparte, soggetta ad unilaterale possibilità di riesame di una sentenza passata in giudicato.
Corte cost. 14 maggio 1999, n. 170 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., l’art. 244, comma 2, cod. civ., nella parte in cui non prevede che il termine per la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità, nell’ipotesi di impotenza solo di generare, contemplata dal n. 2) dell’art. 235 cod. civ., decorra per il marito dal giorno in cui esso sia venuto a conoscenza della propria impotenza di generare, in quanto – posto che l’impotenza di generare rappresenta, diversamente dalla “impotenza coeundi”, uno stato fisico che può rimanere per lungo tempo ignoto, poiché in una elevata percentuale di casi consiste in un’affezione, che può essere priva di sintomatologia e di manifestazioni esteriori e che è diagnosticabile solo attraverso esami clinici cui non si ricorre usualmente; e che il legislatore della riforma del diritto di famiglia ha superato la impostazione tradizionale che attribuiva preminenza al “favor legitimitatis” attraverso la equiparazione della filiazione naturale a quella legittima ed ha di conseguenza reso omogenee le situazioni che discendono dalla conservazione dello stato ancorato alla certezza formale rispetto a quelle che si acquisiscono con l’affermazione della verità naturale, la cui ricerca risulta agevolata dalle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dall’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini – la disposizione impugnata (art. 244 cod. civ., commi 1 e 2), rispetto alla impotenza di generare, appare irragionevole nella misura in cui preclude l’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità, decorso l’anno dalla nascita del figlio, se il marito non sia stato a conoscenza di un elemento costitutivo dell’azione medesima, e precisamente della propria incapacità di generare; nonché lesiva del diritto di azione, nella misura in cui consente che il termine per il suo esercizio possa decorrere indipendentemente dalla conoscenza dei presupposti e degli elementi costitutivi del diritto stesso (e ciò, soprattutto in ipotesi, quale quella di specie, in cui è dato di comune esperienza che l’elemento costitutivo dell’azione, rappresentato dall’impotenza di generare, può rimanere a lungo e a volte anche indefinitamente ignoto).
Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 1998, n. 2944 (Famiglia e Diritto, 1999, 1, 40 nota di FRASSINETTI)
La dimostrazione della paternità naturale può essere fornita, a mente dell’art. 269 c.c. con ogni mezzo e, per¬tanto, il giudice di merito può legittimamente fondare il proprio convincimento in ordine alla effettiva esistenza di un rapporto di filiazione anche su risultanze probatorie dotate di valore puramente indiziario ed è corretta¬mente motivata la pronuncia del giudice di merito che ha fondato la propria pronuncia affermativa della pater¬nità naturale su una motivazione – logicamente corretta – con cui è posta in evidenza, da un canto, l’univocità e convergenza degli elementi indiziari acquisiti al processo, come la lunga relazione intercorsa tra la madre ed il padre naturale, i comportamenti tenuti da quest’ultimo alla notizia della gravidanza della donna, la condotta processuale del medesimo – e, in particolare, il pretestuoso ed immotivato rifiuto di sottoporsi ad indagini ema¬tologiche – dall’altro, la attendibilità dei testi indicati dalla madre del riconoscendo).
Cass. civ. Sez. I, 8 novembre 1997, n. 11021 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza per territorio nel procedimento di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale e in quello preliminare per l’ammissibilità della relativa azione, deve essere determinata secondo i principi generali sul foro del convenuto, ai sensi dell’art. 18 c.p.c., anche quando la controversia riguardi un figlio minore.
Corte cost. 22 aprile 1997, n. 112 (Foro It., 1999, I, 1764)
È infondata la q.l.c. dell’art. 263 c.c., nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del minore, in riferimento agli art. 2, 3, 30 e 31 cost.
Non è fondata, con riferimento agli art. 2, 3, 30 e 31 cost., la q.l.c. dell’art. 263 c.c. – nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minorenne per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del minore stesso – in quanto (…) non vi può essere conflitto tra “favor veritatis e favor minoris”, ove si consideri che l’autenticità del rapporto di filiazione costituisce l’essenza stessa dell’interesse del minore, quale inviolabile diritto alla sua identità, e che ad eventuali pregiudizi per il minore, conseguenti all’accertamento della falsità del riconoscimento, può porsi rimedio con il ricorso ad altri strumenti, predisposti proprio a tutela del minore, quali l’adozione in casi particolari di cui all’art. 44 comma 1 lett. c) l. n. 184 del 1983.
Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 1997, n. 807 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Qualora nel giudizio di primo grado sia mancata la partecipazione del pubblico ministero in causa nella quale ne è obbligatorio l’intervento ai sensi dei numeri 2, 3 e 5 dell’art. 70 c.p.c., (quale nella specie un’azione di dichiarazione giudiziale di paternità) il giudice d’appello, rilevata la nullità della sentenza, non può rimettere la causa al primo giudice, ma deve trattenerla presso di se e deciderla nel merito, dovendo escludersi che nelle menzionate ipotesi di cui al cit. art. 70 (diversamente da quella di cui al numero 1 dello stesso articolo) la man¬cata partecipazione del P.M. comporti un difetto di integrale contraddittorio e consenta pertanto l’applicazione dell’art. 354 stesso codice.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 maggio 1996 n. 4844 (Foro It., 1997, I, 1109 nota di TRISORIO LIUZZI)
Poiché l’art. 295 c.p.c., la cui “ratio” è quella di evitare il rischio di un conflitto tra giudicati, fa esclusivo riferi¬mento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giudice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico giuridico e non già in senso meramente logico, la sospensione necessaria del processo non può essere disposta nell’ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due giudici diversi del giudizio sull’”an debeatur” e di quello “sul quantum” (fra i quali esiste un rapporto di pregiudizialità solamente in senso logico); ne consegue che deve essere cassata l’ordinanza con cui il pretore ha disposto la sospensione necessaria del processo “sul quantum” in attesa della definizione del processo sull’”an debeatur”.
Cass. civ. Sez. III, 24 maggio 1993, n. 5837 (Giust. Civ., 1994, I, 3248 r. It., 1998)
Per aversi titolo esecutivo, costituito da una sentenza di I grado contenente condanna alle spese del giudizio, è necessario che questa parte della sentenza sia accessoria ad una pronuncia di condanna, dichiarata provvisoria¬mente esecutiva ai sensi dell’art. 282 c.p.c. oppure esecutiva per legge.
Cass. civ. Sez. Unite, 7 febbraio 1992, n. 1373 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza per territorio, nel procedimento per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale ed in quel¬lo, preliminare, per l’ammissibilità dell’azione, va determinata, anche quando si tratti di figlio naturale minore,
secondo i princìpi generali sul foro del convenuto, ai sensi dell’art. 18 c.p.c., e non in base alla residenza del minore, considerato che i princìpi predetti non sono derogati, né esplicitamente, né implicitamente, dalla nuova normativa circa la competenza, per materia, del Tribunale minorile di cui all’art. 68 della legge n. 184/1983.
Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In base alla regola generale dell’art. 374 cod. civ., n. 5, – secondo cui il tutore non può promuovere giudizi senza l’autorizzazione del giudice, tranne quelli espressamente indicati, mentre il genitore è in generale legittimato ad agire senza bisogno di detto atto, ad eccezione di giudizi relativi a negozi per il cui compimento è richiesta l’autorizzazione dall’art. 320, terzo comma, cod. civ. – si giustifica che il tutore soltanto, e non pure il genitore, debba chiedere al giudice di essere autorizzato ad esercitare l’azione di dichiarazione della paternità o maternità naturale, non potendo nei confronti del genitore la valutazione dell’interesse del minore da parte del giudice essere prospettata nella forma di un atto (autorizzatorio) integrativo della legittimazione ad agire. (Non fonda¬tezza della questione di legittimità costituzionale – in riferimento all’art. 3 Cost. – dell’art. 273, primo comma,
Non è più giustificabile – alla stregua del principio di pari trattamento di casi simili – una volta trasferita (art. 38 disp. att. c.c., modificato dall’art. 68 della legge 4 maggio 1983, n. 184) al tribunale per i minorenni la compe¬tenza a giudicare dell’azione di reclamo della paternità o maternità naturale proposta nell’interesse dei minori di età, la preclusione a questo giudice, specializzato per la tutela dei minori, della possibilità di esplicare anche in questa ipotesi la sua funzione istituzionale valutando, ove sia in causa un minore infrasedicenne, se l’azione intentata dal genitore che per primo lo ha riconosciuto, al fine di imporre all’altro una paternità o una maternità che quegli rifiuta di riconoscere, sia effettivamente rispondente all’interesse del figlio, quando analogo controllo è invece previsto nell’ipotesi in certo senso inversa di conflitto di cui al comma quarto dell’art. 250 cod. civ., allorché cioè il genitore che ha già riconosciuto il figlio si opponga al riconoscimento dell’altro giudicandolo non conveniente all’interesse del minore. È pertanto costituzionalmente illegittimo – per contrasto con l’art. 3 Cost. (nonché con il principio di razionalità, essendo incoerente col rilievo sistematico centrale che nell’ordinamento dei rapporti di filiazione, fondato sull’art. 30 Cost., assume l’esigenza di protezione dell’interesse dei minori) – l’art. 274, comma primo, del codice civile stesso, nella parte in cui, ove si tratti di minore infrasedicenne, non prevede che la detta azione di reclamo promossa dal genitore esercente la potestà sia ammessa solo ove ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del minore.
Cass. civ.Sez. I, 2 dicembre 1985, n. 6015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al fine della declaratoria giudiziale della paternità naturale, la dichiarazione della madre e l’esistenza di rapporti carnali fra questa ed il preteso pa¬dre, pur non costituendo di per sé prove di detta paternità, possono concor¬rere alla formazione del convincimento del giudice del merito, ove siano suffragate da altre circostanze, anche presuntive, ivi incluso quindi il comportamento processuale del convenuto, consistente nella ingiustificata man¬cata presentazione davanti al consulente incaricato delle indagini ematologiche e genetiche.
Corte cost. 6 maggio 1985, n. 134 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Negli ultimi decenni la coscienza collettiva si è ulteriormente evoluta nel senso di accordare maggiore rilevanza al rapporto effettivo di procreazione rispetto alla qualificazione giuridica della filiazione. Di conseguenza, il legi¬slatore del 1975 – spostando l’accento dal “favor legitimitatis” al “favor veritatis”, nel modificare gli artt. 235 e 244 cod. civ., ed allargando la possibilità di far valere la verità sull’apparenza, anche in relazione alla sicurezza della prova negativa della paternità assicurata dal progresso scientifico – e quello del 1983 – accordando l’azione di disconoscimento nell’interesse del minore infrasedicenne al P.M., nell’intento di favorire ancora di più il per¬seguimento del valore verità – non hanno fatto che seguire la evoluzione della coscienza collettiva sempre più sensibile a quel valore.
Cass. civ. Sez. I, 27 aprile 1985, n. 2739 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di dichiarazione giudiziale della paternità naturale, e per il caso in cui sia stata disposta la cosiddetta prova ematologica, la facoltà della parte di sottrarsi ai prelievi che si rendano necessari per la suddetta prova non esclude che il relativo rifiuto, alla stregua delle motivazioni addotte, possa essere valutato dal giudice del merito quale elemento di convincimento, ai sensi dell’art. 116, 2° comma c. p. c.
Corte cost. 1 aprile 1982, n. 64 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La riforma del diritto di famiglia ha indubbiamente spostato l’accento dal favor legitimitatis al favor veritatis, ma lasciando ancorato il termine di de¬cadenza dell’azione di disconoscimento del padre, pur elevato ad un anno, alla conoscenza della nascita (e non dei fatti rilevanti per la proposizione dell’azione), cioè ad un evento di meno aleatoria prova, il legislatore ha posto un limite al favor veritatis giustificato dai pericoli ed inconvenienti di uno sconvolgimento dei rapporti familiari protrattisi per lungo tempo. La denunciata disparità di trattamento tra pa¬dre e figlio è giustificata, d’al¬tronde, dalla diversità delle situazioni poste a raffronto: l’adulterio, infatti, si verifi¬ca al tempo del concepimento e di esso il figlio non può venire a conoscenza se non in tempo assai posteriore alla nascita, per cui collegare anche per lui il termine alla nascita avrebbe significato negargli per sempre l’esercizio dell’azione. Né è violato il diritto di difesa, essendo tale censura strettamente collegata, nella prospettazione dei giudici a quibus, a quella relativa al principio di eguaglianza.

L’obbligo di contribuire al mantenimento dell’ex coniuge è personale e si estingue con il decesso

Cass. civ. Sez. I, 20 febbraio 2018, n. 4092
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
D.G., elettivamente domiciliato in Roma via del Banco di Santo Spirito 3, presso lo studio dell’avv. Giorgio Clementi, che lo rappresenta e difende, unitamente all’avv. Alessandra Fienga, giusta procura speciale a margine del ricorso, e dichiara di voler ricevere le comunicazioni e notificazioni relative al processo al fax n. 06/68300954 e alla p.e.c. giorgioclementi(at)ordineavvocatiroma.org;
– ricorrente –
nei confronti di:
G.A., elettivamente domiciliata in Roma, via Barberini 3 (fax n. 06/4745779), presso lo studio delle avvocate Laura Remiddi e Sabrina Fasulo, che la rappresentano e difendono, giusta procura speciale a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1407/14 della Corte di appello di Roma, emessa il 5 febbraio 2014 e depositata il 3 marzo 2014, n. R.G. 6582/11;
Rilevato che all’udienza del 10 febbraio 2017 il Procuratore Generale cons. Dott. Francesca Ceroni ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità per sopravvenuta carenza di interesse;
Udita la relazione in camera di consiglio del cons. Dott. Giacinto Bisogni.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
1. Con ricorso depositato, presso il Tribunale di Latina, il (OMISSIS) D.G., detto P., ha chiesto lo scioglimento del matrimonio, contratto nel (OMISSIS), con G.A..
2. Il Tribunale di Latina, con sentenza non definitiva del 30 agosto 1999, ha dichiarato lo scioglimento del matrimonio. La decisione è stata impugnata dalla G. e il giudizio sulle altre domande è rimasto sospeso sino al passaggio in giudicato della dichiarazione di scioglimento del matrimonio conseguente alla decisione della Corte di Cassazione del 5 agosto 2003.
3. Con sentenza definitiva, depositata in data 18 luglio 2011, il Tribunale di Latina ha stabilito la corresponsione di un assegno annuo, a favore della G., di 75.000 Euro, ritenendo invece cessato l’obbligo di mantenimento nei confronti dei figli.
4. Ha proposto appello il D. il quale si è lamentato del fatto che il Giudice di prime cure, nella determinazione dell’importo dell’assegno divorzile, non avesse preso in considerazione circostanze quali l’esistenza di un nuovo nucleo familiare, composto anche da tre figli minorenni, il decremento della redditività della sua attività artistica di musicista e i suoi problemi di salute.
5. La G. ha proposto appello incidentale chiedendo la rideterminazione in aumento dell’assegno divorzile e il ripristino del mantenimento a favore dei figli facendo rilevare che solo il figlio A. aveva raggiunto l’indipendenza economica nel gennaio 2002 mentre era rimasta la condizione di dipendenza della figlia.
6. Con sentenza depositata in data 3 marzo 2014 la Corte d’Appello di Roma ha respinto entrambi gli appelli, ha confermato l’importo dell’assegno divorzile annuo in 75.000 Euro e la sua decorrenza a far data dalla decisione di primo grado (18 luglio 2011), rilevando che, pur avendo il D. provato una riduzione dei proventi della sua attività artistica, aveva nello stesso tempo intrapreso una nuova attività imprenditoriale, consistente nell’apertura di un resort turistico, e dato vita, nel 2010, alla società (OMISSIS), destinata allo svolgimento di tale attività, oltre ad aver goduto ed essere titolare di un consistente patrimonio immobiliare.
7. Ha proposto ricorso per cassazione il D. affidandosi a tre motivi di ricorso.
8. Con il primo motivo e il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6e dell’art. 2697 c.c.. In particolare con il primo motivo il ricorrente lamenta che la Corte d’Appello abbia riconosciuto il diritto della G. all’assegno divorzile in mancanza di un esame relativo al tenore di vita in costanza di matrimonio, limitandosi a fare riferimento ad una situazione di sicuro benessere ma omettendo la comparazione tra la condizione economica dei coniugi in corso di matrimonio e quella attuale della richiedente, non considerando infine le capacità lavorative della G. tenuto conto dell’omessa prova da parte della ex coniuge e dell’oggettiva impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per conseguire un tenore di vita analogo a quello mantenuto in costanza di matrimonio.
9. Con il secondo motivo il ricorrente contesta la determinazione in concreto dell’assegno divorzile, rilevando che, in sede di quantificazione, la Corte d’Appello non ha correttamente applicato i criteri indicati dall’art. 5 della legge sul divorzio che, secondo giurisprudenza di questa Corte (Cass. Civ S.U. 11492/1990; Cass. civ. sez. 1, Sent. n. 7990/1996), possono agire come fattori di moderazione o diminuzione della somma considerabile in astratto. Il ricorrente si duole in particolare del fatto che il Giudice di seconda istanza abbia omesso di considerare la riduzione dei suoi redditi, specificamente quelli relativi all’attività artistica e ai diritti d’autore, non abbia preso atto del peggioramento delle sue condizioni di salute e abbia ignorato le spese derivanti dal mantenimento del nuovo nucleo familiare, costituito dalla sua nuova compagna e dai tre figli nati dalla loro unione.
10. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza per violazionedell’art. 132 c.p.c., n. 4, in quanto è stata omessa dalla Corte di appello qualsiasi motivazione sulla determinazione in concreto dell’assegno divorzile. La Corte d’Appello si è infatti limitata, secondo il ricorrente, a condividere la valutazione effettuata dal giudice di prime cure, senza specificare le ragioni dell’aumento del 240% dell’assegno di mantenimento stabilito e corrisposto in adempimento delle condizioni previste dalla separazione consensuale. Il ricorrente rileva che, seppure l’ammontare dell’assegno di mantenimento determinato in sede di separazione ha diversa natura e carattere rispetto all’assegno di divorzio (Cass. Civ., 1 sez. n. 18433/2010), tuttavia, esso può essere considerato indice rivelatore del tenore di vita dei coniugi (Cass. Civ. sez. 1 n. 1758/2008; Cass. Civ. sez. 1 22500/2006; Cass. Civ. sez. 1 3905/2011).
11. La G. contesta con controricorso le difese del ricorrente e propone ricorso incidentale affidandosi a tre motivi di ricorso cui il D. si oppone con controricorso.
12. Le parti hanno depositato memorie difensive e la controricorrente, all’udienza di discussione, ha presentato note di replica alle conclusioni del P.G., che devono essere dichiarate irricevibili perché predisposte per iscritto prima della stessa udienza e quindi dirette a replicare irritualmente alla memoria difensiva della controparte.
13. Con il primo motivo del ricorso incidentale si deduce la violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.6, comma 6e dell’art. 2697 c.c., nella parte in cui la sentenza d’appello ha fissato la determinazione concreta dell’assegno in 75.000.00 Euro annui, non tenendo conto in maniera adeguata delle condizioni economiche di entrambe le parti. Rileva la ricorrente incidentale che il D. ha ampliato negli ultimi 18 anni la sua attività anche in altri campi (attività manageriale e di produzione musicale, sua e di altri autori), e ha omesso di fare riferimento, nelle dichiarazioni fiscali, ai proventi derivanti dalle sue partecipazioni societarie.
14. Con il secondo motivo del ricorso incidentale si deduce la violazione dellaL. n. 898 del 1970,art. 41, nella parte in cui la Corte d’Appello ha fatto decorrere il versamento dell’assegno divorzile dal deposito della sentenza definitiva sulle statuizioni economiche (18 luglio 2011) e non dal passaggio in giudicato, in data 5 agosto 2003, della sentenza non definitiva sullo scioglimento del vincolo matrimoniale.
15. Con il terzo motivo del ricorso incidentale si deduce la violazione e falsa applicazionedell’art. 148 c.c.eL. n. 898 del 1970,art.6, lamentando l’erronea determinazione dell’importo dell’assegno a favore dei figli.
16. Il ricorrente D.G. è deceduto in data (OMISSIS), come documentato dal certificato di morte prodotto in uno con la memoria difensiva con la quale si chiede la dichiarazione di cessazione della materia del contendere, richiesta quest’ultima cui si oppone la G..
Ritenuto che:
17. La circostanza da ultimo fatta presente implica l’esame della questione controversa, che è stata oggetto di contrasto nella giurisprudenza della Suprema Corte e che riguarda le sorti del giudizio di separazione o divorzio quando intervenga, nel corso del loro svolgimento, la morte di una parte e se, dunque, un evento simile determini la cessazione della materia del contendere.
18. Una prima linea giurisprudenziale (Cass. Civ. 1 sez. civ. n. 17041 del 3 agosto 2007; n. 9238 del 23 ottobre 1996), che pure riconosce come il diritto al mantenimento abbia una natura patrimoniale speciale poiché, come previstodall’art. 447 c.c., è indisponibile e incedibile e ha un carattere strettamente personale, ritiene, tuttavia, che la morte del soggetto obbligato, avvenuta nelle more del giudizio, non determina la cessazione della materia del contendere, permanendo l’interesse della parte richiedente l’assegno al credito avente ad oggetto le rate scadute anteriormente alla data del decesso, credito che risulterebbe trasmissibile nei confronti degli eredi. Pertanto il requisito della intrasmissibilità dell’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile non troverebbe applicazione, una volta proposta la domanda giudiziale, per il periodo successivo all’inizio del procedimento e fino alla data del decesso dell’ex coniuge obbligato, periodo nel quale permarrebbe l’interesse della parte richiedente l’assegno alla definitiva regolamentazione del suo diritto.
19. Più di recente si è affermata una giurisprudenza di segno opposto che ha rinnovato un filone di pronunce risalenti e conformi. Secondo tale indirizzo va rilevato chel’art. 149 c.c.prevede che il matrimonio si scioglie in conseguenza della morte di uno dei coniugi e che tale evento non solo deve considerarsi preclusivo della dichiarazione di separazione e di divorzio ma ha anche l’effetto di travolgere ogni pronuncia accessoria alla separazione e al divorzio emessa in precedenza e non ancora passata in giudicato (Cass. Civ. 1 sez. n. 18130 del 26 luglio 2013, n. 9689 del 27 aprile 2006; n. 27556 del 20 novembre 2008; cfr. anche Cass. civ. sez. 1 n. 661 del 29 gennaio 1980; n. 1757 del 18 marzo 1982, n. 740 del 3 febbraio 1990, n. 2944 del 4 aprile 1997).
20. Come è noto l’art.4, comma 12dellalegge 898/1970prevede che, nel caso in cui il tribunale emetta sentenza non definitiva relativa alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, il giudizio può continuare per la decisione relativa all’an e al quantum dell’assegno. Nel presente giudizio il Tribunale si è già pronunciato sullo status dichiarando lo scioglimento del matrimonio e tale pronuncia, come si è visto, è ormai passata in giudicato. La questione controversa si pone pertanto, nella specie, con specifico riferimento alla possibilità di applicare, per estensione, al giudizio relativo alla determinazione dell’assegno lo stesso principio riferibile al giudizio di separazione e divorzio in tema di dichiarazione sullo status e dunque dichiarare cessata la materia del contendere sulle domande accessorie al divorzio nonostante la sentenza dichiarativa del divorzio sia passata in giudicato prima della morte del coniuge nei cui confronti era stato richiesto l’assegno.
21. Il Collegio, pur valutando le ragioni sottese al primo indirizzo giurisprudenziale menzionato, ritiene di aderire all’indirizzo contrario e prevalente, cui intende dare continuità, perché esso appare più coerente al presupposto indiscusso secondo cui la morte del coniuge, in pendenza di giudizio di separazione o divorzio, anche nella fase di legittimità davanti a questa Corte, fa cessare il rapporto coniugale e la stessa materia del contendere sia sul giudizio relativo allo status che su quello relativo alle domande accessorie. Tale principio legale deve estendersi anche alle domande accessorie che sono “autonomamente” sub judice al momento della morte del coniuge nei cui confronti era stato richiesto l’assegno. Infatti se è vero che la pronuncia del divorzio, con sentenza non definitiva, non è più tangibile, per effetto del suo passaggio in giudicato, la pendenza del giudizio sulle domande accessorie al momento della morte non può costituire una causa di scissione del carattere unitario proprio del giudizio di divorzio. Se la pronuncia non definitiva sullo status si legittima nell’ottica di una attribuzione non procrastinabile dello status di divorziato ai fini della riacquisizione della libera determinazione delle scelte personali degli ex coniugi, connessa alla fine dello status derivante dal matrimonio, e in quanto tale status non ha più ragione di perdurare, è nello stesso tempo indiscutibile che solo ragioni di complessità istruttoria giustificano la pronuncia differita sulle domande accessorie. Tali ragioni se non possono costituire il presupposto per una dilazione ingiustificata sulla pronuncia relativa allo status non possono altresì costituire una fonte di deroga al principio per cui l’obbligo di contribuire al mantenimento dell’ex coniuge è personalissimo e non trasmissibile proprio perché si tratta di una posizione debitoria inscindibilmente legata a uno status personale e che conserva questa connotazione personalissima perché può essere accertata solo in relazione all’esistenza della persona cui lo status personale si riferisce. Ciò comporta che, per un verso, deve ritenersi improseguibile, nei confronti degli eredi del coniuge, l’azione intrapresa per il riconoscimento del diritto all’assegno divorzile, e, per altro verso, comporta che gli eredi del coniuge obbligato non possono subentrare nella sua posizione processuale al fine di far accertare la insussistenza del suo obbligo di contribuire al mantenimento e di ottenere la restituzione delle somme versate sulla base di provvedimenti interinali o non definitivi.
22. Va pertanto dichiarata la cessazione della materia del contendere. Il dibattito giurisprudenziale cui si è fatto cenno giustifica la compensazione delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte, riconvocatasi in data 3 ottobre 2017, dichiara cessata la materia del contendere e compensa le spese del giudizio di cassazione.

L’adottato (ultra 25enne) ha diritto di conoscere anche l’identità delle sorelle e dei fratelli biologici adulti

Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 2018, n. 6963
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 16038/2014 proposto da:
Z.P.L., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dagli avvocati Ferlisi Filippo, Cavaglià Elena, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Torino;
– intimato –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 27/12/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/05/2017 dal cons. ACIERNO MARIA;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per: istanza di rimessione alle SS.UU. in ordine al potere d’intervento del P.G. nel giudizio d’appello, in subordine nel merito, accoglimento.
Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Torino, sezione minori e famiglia, confermando quanto deciso dal Tribunale per i minorenni, ha rigettato l’istanza di acquisizione delle generalità delle proprie sorelle, proposta da Z.P.L.. A sostegno della richiesta lo Z. ha riferito che sia lui che le sue sorelle venivano adottati da famiglie diverse e di aver rivolto già due istanze analoghe al riguardo, ugualmente rigettate.
Secondo l’istante doveva trovare applicazione la Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia del 20/11/1989, meglio conosciuta come Convenzione di New York e poteva essere applicato quell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il Tribunale per i minorenni può procedere ad un bilanciamento tra il diritto al legame familiare ed il diritto alla riservatezza dei fratelli biologici, così come affermato in qualche sentenza di merito.
1.1 Il Procuratore Generale in appello aveva richiesto che si procedesse all’audizione delle sorelle per verificarne il consenso all’accesso ai dati, ed in caso di risposta affermativa, aveva chiesto che il reclamante fosse autorizzato all’accesso.
1.2 A sostegno della reiezione della domanda la Corte d’Appello ha affermato:
la L. n. 184 del 1983, art. 28, commi 4 e 5, indicano le ipotesi in cui è possibile accedere alle informazioni relative all’identità dei genitori biologici e all’origine dell’adottato, mentre il comma 6, prevede l’ascolto delle persone individuate dal Tribunale. Il diritto ai legami familiari è stato di conseguenza considerato ed apprezzato limitatamente alle origini e all’identità dei genitori biologici. Nel caso di specie è stato fatto valere il diritto alla relazione con le sorelle biologiche che sono state adottate ma su tale diritto risulta prevalente quello alla riservatezza delle sorelle tutelato addirittura mediante la previsione del reato di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 73. L’accesso ai dati dei fratelli biologici adottati non è previsto al pari di un’istruttoria preventiva nei loro confronti ed anche l’ascolto finalizzato a verificare il consenso all’accesso ai dati sarebbe destinato a ripercuotersi sui delicati equilibri connessi allo stato di soggetto adottato delle sorelle oltre che sui genitori adottivi delle stesse.
2. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione Z.P. affidato a due motivi accompagnati da memoria. Il ricorso inizialmente destinato alla trattazione camerale presso la Sesta Sezione di questa Corte ex art. 380 bis c.p.c., è stato rimesso alla pubblica udienza.

Motivi della decisione

3. Il ricorrente, prima di illustrare i due motivi di ricorso ha precisato nei termini che seguono la questione da risolvere:
il diritto ai legami familiari è stato considerato ed apprezzato dal legislatore limitatamente all’origine ed all’identità dei genitori biologici o anche con riferimento alla relazione con le sorelle o fratelli biologici, alla stregua dell’interpretazione sistematica delle norme sovranazionali e nazionali, confortata dai principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale nonché di legittimità e merito? 4. Le censure formulate sono le seguenti:
4.1 nel primo motivo viene dedotta la violazione degli artt. 7 e 8 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 ottobre 1989, resa esecutiva con la L. n. 176 del 1991, laddove si impone il rispetto dei diritti del minore ivi compresi quelli volti a preservare la sua identità, il suo nome e le sue relazioni familiari. Per l’adottato l’identità consiste proprio nel ricercare le proprie origini, le proprie radici e conoscere le informazioni relative alla famiglia biologica. Viene altresì dedotta la violazione dell’art. 30, della Convenzione dell’Aja 29 maggio 1993, resa esecutiva con la L. n. 476 del 1998, e l’errata interpretazione della L. n. 184 del 1983, art. 28, commi 4 e 5, ritenendo che si possano comprendere nei legami familiari anche i fratelli. Infine, in relazione al diritto alla riservatezza delle sorelle, il ricorrente rileva che il diritto azionato è di natura esclusiva ed attuale, essendo riconosciuto da norme costituzionali e convenzionali. Il pregiudizio dovuto all’ascolto od interpello delle sorelle è invece soltanto ipotetico.
La riservatezza peraltro può essere tutelata mediante adeguata istruttoria tendente ad accertare quale potrebbe essere la reazione delle sorelle alla predetta richiesta.
4.2. Nel secondo motivo si sviluppa quest’ultimo profilo anche ex art. 360 c.p.c., n. 5. Il ricorrente sottolinea come una fase istruttoria riservata preserverebbe i diritti concorrenti delle sorelle.
5. In ordine alla preliminare richiesta del Procuratore generale di rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, sul rilievo dell’omessa notifica del ricorso al pubblico ministero e del suo mancato intervento nel giudizio d’appello, il Collegio ritiene di poter disattendere tale istanza.
L’esame testuale dell’art. 28 consente di escludere l’obbligatorietà della partecipazione del pubblico ministero ai procedimenti che hanno ad oggetto le informazioni relative all’identità dei genitori biologici dell’adottato, maggiore di età.
Secondo il paradigma normativo, superato il venticinquesimo anno di età, all’adottato è consentito l’accesso “alle informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici”.
In questa ipotesi, coincidente dal punto di vista anagrafico con il caso di specie, il legislatore, coerentemente con lo statuto costituzionale del diritto all’identità personale, ha ritenuto in via generale, la prevalenza del diritto a conoscere le proprie origini rispetto a quello potenzialmente contrapposto dei genitori biologici. Prima del raggiungimento dell’età di 25 anni l’accesso è, invece, consentito solo se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla salute psico fisica dell’adottato. In questa peculiare ipotesi, il Tribunale per i minorenni accerta che l’accesso alle notizie non comporti grave turbamento all’equilibrio psico fisico del richiedente.
Il procedimento non richiede l’instaurazione del contraddittorio in quanto, come già rilevato, il diritto a conoscere le proprie origini, nella ipotesi sopra esaminata, può essere limitato od impedito soltanto dall’accertamento di un pregiudizio per la sfera psico fisica del richiedente, reputato così grave da far recedere il diritto alla conoscenza delle proprie origini. La valutazione del tribunale per i minorenni non ha ad oggetto la comparazione od il bilanciamento con i diritti della persona eventualmente confliggenti dei destinatari delle istanze conoscitive dell’adottato, ma rimane ancorata alla sfera personale del richiedente, alla costruzione della sua identità, all’esame dell’incidenza della conoscenza delle proprie origini sullo sviluppo equilibrato della sua personalità, avendo ritenuto il legislatore con valutazione, svolta in via generale ed ex ante, che la giovane età del richiedente, ancorché maggiorenne, imponga particolari cautele.
Anche in questo procedimento, tuttavia, può escludersi l’intervento necessario del pubblico ministero, trattandosi dell’esercizio di un diritto che può soltanto essere temporalmente differito ma non compresso od escluso, avendo natura potestativa dopo il compimento dei 25 anni (S.U. n. 1946 del 2017).
Può, pertanto, ritenersi che soltanto nell’ipotesi disciplinata all’art. 28, comma 4, si possa porre in concreto la questione della necessità dell’intervento del pubblico ministero. La norma contiene un’esplicita deroga al principio generale, stabilito nei commi precedenti, del divieto di fornire informazioni, sui genitori biologici del minore adottato, ai genitori adottivi. Solo per gravi e comprovate ragioni, legate a problemi sanitari, il Tribunale per i minorenni può accogliere tale richiesta, previa “adeguata preparazione ed assistenza del minore”. Le informazioni in questione possono essere fornite anche al responsabile di una struttura ospedaliera o di un presidio sanitario, ove ricorrano i presupposti della necessità e dell’urgenza e vi sia grave pericolo per la salute del minore.
Nei commi successivi, relativi al diritto di conoscere le proprie origini dell’adottato maggiore di età, il procedimento si caratterizza per la mancanza di contraddittorio, svolgendosi nei confronti di una sola parte, e per la conseguente assenza di un interesse di natura pubblicistica comparabile con quello relativo ai soggetti minori di età, il quale, invece, richiede in via generale il controllo e, quando previsto dalla legge, l’iniziativa dell’ufficio del pubblico ministero.
5. Si ritiene opportuno rilevare, a fini di completezza, che la mancata notifica del ricorso per cassazione al Pubblico Ministero, anche nei procedimenti nei quali sia previsto il suo intervento ma non il potere di promuovere l’accertamento giudiziale, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, non determina l’inammissibilità del ricorso stesso tutte le volte che le sue funzioni s’identificano con quelle svolte dal procuratore generale presso il giudice “ad quem” e siano assicurate dalla partecipazione di quest’ultimo al successivo grado di giudizio (S.U. 3556 del 2017).
I precedenti richiamati nella requisitoria del P.G. riguardano azioni di stato nelle quali il pubblico ministero, non solo deve intervenire ex art. 70 c.p.c., ma ha anche il potere di promuovere l’azione.
6. In conclusione deve escludersi l’inammissibilità del ricorso per omessa notifica al Pubblico Ministero e per il difetto di partecipazione dello stesso al procedimento di merito.
7. Prima di affrontare la questione sottoposta al vaglio del Collegio deve rilevarsi, sempre in via preliminare, l’ammissibilità del ricorso. La domanda rivolta al Tribunale ha ad oggetto il riconoscimento di diritti fondamentali ed inviolabili della persona. Ne consegue che il contenuto del provvedimento non può che avere natura decisoria, essendo rivolto all’accertamento dell’esistenza e dell’estensione della tutela di tali diritti. Infine la decisione ha anche il carattere della definitività, ancorché nei limiti dei provvedimenti assunti rebus sic stantibus non essendo il provvedimento in oggetto qualificabile come provvisorio od interinale.
8. Il diritto a conoscere le proprie origini costituisce un’espressione essenziale del diritto all’identità personale. Lo sviluppo equilibrato della personalità individuale e relazionale si realizza soprattutto attraverso la costruzione della propria identità esteriore, di cui il nome e la discendenza giuridicamente rilevante e riconoscibile costituiscono elementi essenziali, e di quella interiore.
8.1 Quest’ultimo aspetto, più complesso, può richiedere la conoscenza e l’accettazione della discendenza biologica e della rete parentale più prossima. La funzione di primaria importanza che riveste il riconoscimento giuridico dell’identità personale e la consapevolezza della pluralità di elementi anche dialettici di cui si compone, quali il diritto a conoscere la verità sulla propria storia personale e quello a conservare la costruzione preesistente dell’identità propria e dei terzi eventualmente coinvolti, ha formato oggetto dell’attenzione e dell’incisivo intervento delle Corti supreme nazionali e sovranazionali.
L’impegno sul riconoscimento del diritto a conoscere le proprie origini è stato stimolato, in tempi molto recenti, proprio dalla necessità di trovare una composizione equilibrata tra diritti contrapposti, quello della persona che vuole completare la costruzione della propria identità attraverso la ricerca delle origini biologiche e quello della madre biologica che ha esercitato, al momento del parto, il diritto di non essere nominata e che può voler conservare questo segreto proprio al fine di non alterare l’identità anche relazionale costruita nel tempo.
9. Su questa dialettica ed al fine di temperare l’assolutezza del divieto di conoscere le proprie origini biologiche, contenuto nella L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, rispetto alla madre che abbia dichiarato alla nascita di non essere nominata, è intervenuta la Corte Europea dei diritti umani con la sentenza del 25 settembre 2012 (ricorso n. 33783/09), Godelli contro Italia, affermando che è necessario stabilire un equilibrio ed una proporzionalità tra gli interessi delle parti in causa e che l’esclusione di qualsiasi possibilità di conoscere le proprie origini, propria della legislazione italiana, a differenza di quella di altri paesi, costituisce una violazione dell’art. 8 Cedu. Con la norma contestata, lo Stato italiano ha oltrepassato il margine di discrezionalità compatibile con la tutela dei diritti della persona garantito dalla Convenzione.
10. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 278 del 2013, condividendo la valutazione della Corte Europea dei diritti umani in ordine all’ingiustificata assolutezza del divieto di conoscere le proprie origini ha ritenuto che la L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, contrasti con gli artt. 2 e 3 Cost., ed ha indicato, con una sentenza additiva di principio (così qualificata da S.U. n. 1946 del 2017), il modello procedimentale da introdurre per rendere effettivo il bilanciamento delle posizioni giuridiche soggettive, almeno potenzialmente confliggenti rappresentate dal diritto all’anonimato della madre biologica e dal diritto a conoscere le proprie origini biologiche del figlio. All’illegittimità dell’assolutezza del divieto, derivante dal complesso normativo costituito dall’art. 28 della L. n. 184 del 1983, e dal D.P.R. n. 396 del 2000, art. 30, non è conseguita la configurabilità del diritto a conoscere le proprie origini come diritto potestativo ma è stato ritenuto necessario l’interpello della madre biologica al fine di verificarne il consenso all’eventuale revoca della scelta dell’anonimato fatta al momento della nascita. Il diritto di quest’ultima a conservare l’identità costruita anche mediante il segreto sull’abbandono del figlio al momento del parto è stato ritenuto rilevante nel bilanciamento d’interessi compiuto dalla Corte ma è stata eliminata l’intangibilità della scelta, sul rilievo dell’intrinseca mutabilità delle tappe dello sviluppo e consolidamento della personalità umana.
Di peculiare rilievo è la metodologia indicata dalla Corte Costituzionale per procedere ad un adeguato bilanciamento degli interessi confliggenti. La tecnica prescelta non è stata quella di attribuire al giudice la valutazione in concreto del bilanciamento ma di predefinire un modulo procedimentale ritenuto idoneo allo scopo, fondato sulla verifica della volontà e della disponibilità a rimuovere il segreto sulla propria identità da parte della madre biologica in modo da rendere possibile, per la persona che è stata adottata a causa di questa scelta, di completare il quadro della propria genealogia ed identità personale.
11. L’attuabilità del modello sopra descritto, anche senza preventivo intervento legislativo, è stata riconosciuta, infine, nella recente sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 1946 del 2017. In questa pronuncia si è ritenuto che, rimossa dalla pronuncia della Corte Costituzionale la norma sull’assolutezza ed intangibilità dell’anonimato, potesse procedersi all’interpello materno all’interno di un procedimento garantito dalla massima riservatezza al fine di provocare la revoca dell’originario segreto.
12. Può, pertanto, ritenersi che la procedimentalizzazione del bilanciamento d’interessi sia la modalità, costituzionalmente e convenzionalmente adeguata, al fine di attuare, anche in ipotesi diverse da quella disciplinata dalla L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, il corretto bilanciamento d’interessi tra l’adottato maggiore di età che vuole conoscere le proprie origini al fine di aggiungere una tessera di primario rilievo al mosaico della propria identità ed i componenti del nucleo familiare biologico-genetico, diversi dai genitori.
13. Deve, al riguardo precisarsi, che, come già illustrato, il diritto ad avere informazioni sui propri genitori biologici, per la persona adulta ultraventicinquenne, ha carattere potestativo, salva l’eccezione di cui al citato art. 28, comma 7, che ha dato luogo agli interventi delle Corti Supreme.
L’art. 28, comma 5, stabilisce, infatti, che l'”adottato, raggiunta l’età di venticinque anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici”. L’esame testuale della norma pone la questione, di natura interpretativa, relativa all’ampiezza delle informazioni cui può accedere l’adottato. La norma afferma che l’adottato, raggiunta l’età di 25 anni, può accedere ad informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici. Occorre, pertanto, stabilire se la formula legislativa possa essere qualificata come un’endiadi e, conseguentemente, esprimere un concetto unitario per il tramite di due termini coordinati ovvero se formula congiunta abbia una valenza pleonastica, o se contenga, invece, due ambiti d’informazioni non necessariamente coincidenti. La prima opzione interpretativa, induce a ritenere che il riferimento normativo all’origine dell’adottato sia soltanto una specificazione dell’ambito delle informazioni che esso ha il diritto di conoscere, da limitarsi all’identità dei genitori biologici, ritenendo, di conseguenza, che questa ultima informazione sia idonea a soddisfare l’esigenza conoscitiva relativa alle origini. Nella seconda, invece, si ritiene che con la formula normativa sopra illustrata il legislatore abbia inteso non limitare esclusivamente all’identità dei genitori biologici il diritto dell’adottato che abbia raggiunto i 25 anni di età (o nei limiti previsti dall’art. 28, comma 5 l’infraventicinquenne) a conoscere le proprie origini ma estenderne il contenuto all’intero nucleo familiare originario, in particolare quando questa indagine sia necessaria per integrare il contenuto del diritto che si vuole esercitare. Il riferimento alle origini, congiunto con quello relativo all’identità dei genitori biologici, può implicare uno spettro più esteso d’informazioni, al fine di ricostruire in modo effettivo il quadro dell’identità personale.
Ove si acceda a quest’ultima opzione ermeneutica, occorre, tuttavia, verificare se la posizione giuridica dei componenti del nucleo familiare originario diversi dai genitori biologici, ed in particolare quella delle sorelle e dei fratelli, a fronte di una richiesta formulata dall’adottato ex art. 28, comma 5, sia da considerare in modo diverso da quella dei genitori i quali, salva l’ipotesi di cui all’art. 28, comma 7, come risultante dall’intervento della Corte Costituzionale e delle S.U. con le sentenze ampiamente richiamate n. 278 del 2013 e 1946 del 2017, non possono impedire l’esercizio del diritto a conoscere le proprie origini a chi ne sia titolare secondo le condizioni previste dal citato art. 28.
14. Ritiene il Collegio che un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata della norma possa valorizzare il richiamo testuale al diritto di accedere alle informazioni sulla propria origine in modo da includervi oltre ai genitori biologici, in particolare nell’ipotesi in cui non sia possibile risalire ad essi, anche i più stretti congiunti come i fratelli e le sorelle ancorché non espressamente menzionati dalla norma. La natura del diritto e la funzione di primario rilievo nella costruzione dell’identità personale che viene riconosciuta alla scoperta della personale genealogia biologico-genetica, induce ad accogliere tale interpretazione estensiva.
15. Deve, tuttavia, rilevarsi che l’esercizio del diritto nei confronti dei genitori biologici e nei confronti degli altri componenti il nucleo familiare biologico-genetico originario dell’adottato, non può realizzarsi con modalità identiche.
Nei confronti dei genitori biologici, il legislatore ha svolto una valutazione generale ex ante sulla netta preminenza del diritto dell’adottato rispetto a quello dei genitori biologici tale da escludere alcun bilanciamento d’interessi da eseguirsi ex post. La scelta del legislatore in ordine ai genitori biologici consegue alla peculiare natura del loro ruolo nel complesso processo che conduce allo status filiationis dell’adottato.
La medesima soluzione non è, tuttavia, automaticamente applicabile anche al diritto di conoscere l’identità delle proprie sorelle e fratelli, in considerazione della radicale diversità della loro posizione rispetto a quella dei genitori biologici con riferimento sia alle ragioni della decisione riguardante lo status di figlio adottivo del richiedente sia all’incidenza di questa decisione sullo sviluppo della sua personalità. Può legittimamente determinarsi una contrapposizione tra il diritto del richiedente di conoscere le proprie origini, e quello delle sorelle e dei fratelli a non voler rivelare la propria parentela biologica ed a non voler mutare la costruzione della propria identità attraverso la conoscenza d’informazioni ritenute negativamente incidenti sul raggiunto equilibrio di vita.
Soltanto nei confronti dei genitori biologici, di conseguenza, il diritto del soggetto adottato adulto che voglia accedere alle informazioni sulle proprie origini si può configurare alla stregua di un diritto potestativo.
Nei confronti delle sorelle e dei fratelli deve, invece, ritenersi necessario procedere, in concreto, al bilanciamento degli interessi tra chi chiede di conoscere le proprie origini e chi, per appartenenza al medesimo nucleo biologico familiare, può soddisfare tale esigenza, ancorché riconosciuta come diritto fondamentale.
Per realizzare in questa peculiare ipotesi il corretto bilanciamento tra le due posizioni almeno astrattamente in conflitto si deve ricorrere alla medesima modalità procedimentale che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 278 del 2013, e le S.U. di questa Corte, con la sentenza n. 1946 del 2017, hanno individuato come lo strumento idoneo a non impedire l’esercizio del diritto a conoscere le proprie origini anche nei confronti di soggetti diversi dai genitori biologici i quali, a differenza di questi ultimi, possono non assentire alla richiesta ma devono essere interpellati al riguardo.
Le informazioni che si vogliono conoscere, in quanto legate ad una comune origine biologica, hanno natura ontologicamente riservata, trattandosi di dati personali sensibili e sono, di conseguenza, protette in via generale dalle ingerenze di terzi. D’altra parte, il diritto a conoscere la propria origine da parte dell’adottato adulto (infra o ultraventicinquenne, nel primo caso il diritto è condizionato in funzione dell’esclusivo interesse del richiedente, nel secondo manca di limitazioni) gode di un riconoscimento costituzionale, convenzionale e di diritto positivo (art. 28) non comprimibile (con esclusione dei genitori biologici) se non mediante il dissenso espresso del possessore delle informazioni richieste.
Pur non sussistendo per le sorelle ed i fratelli un divieto espresso a far conoscere la propria identità, come quello che vige (con il forte temperamento individuato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità sopra illustrata) per la madre biologica che ha scelto l’anonimato al momento del parto, deve riconoscersi anche ai predetti componenti del nucleo familiare originario il diritto di essere interpellati in ordine all’accesso alle informazioni sulla propria identità, trovandosi a confronto posizioni giuridiche soggettive di pari rango e di contenuto omogeneo sulle quali non vi è stata alcuna predeterminazione legislativa della graduazione gerarchica dei diritti e degli interessi da comporre, come invece previsto nell’art. 28, commi 5 e 6, con riferimento all’adottato maggiorenne che voglia conoscere l’identità dei propri genitori biologici.
Le modalità procedimentali in concreto adottabili possono essere tratte dai numerosi protocolli elaborati dai Tribunali per i minorenni dei diversi distretti giudiziari dei quali si trova ampia illustrazione nel par. 11 delle S.U. n. 1946 del 2017.
Deve aggiungersi che, nel caso di specie, la situazione personale di partenza del ricorrente e delle sorelle è del tutto identica, essendo specificato nel ricorso che anche queste ultime sono state adottate ma da coppie diverse, con conseguente allontanamento e perdita di ogni contatto ed informazione reciproca dall’avvenuta adozione.
Il diritto a conoscere le proprie origini, alle condizioni sopra indicate, è limitato all’accesso, riservato, alle informazioni relative all’identità delle sorelle biologiche, con esclusione di alcun vincolo di parentela o relazionale e con obbligo di trattamento dei dati personali conosciuti non lesivo dei diritti altrui.
16. In conclusione, il ricorso deve essere accolto nei limiti di cui in motivazione e la pronuncia impugnata deve essere cassata con rinvio al giudice del merito perché si attenga al seguente principio di diritto: “L’adottato ha diritto, nei casi di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 5, di conoscere le proprie origini accedendo alle informazioni concernenti, non solo l’identità dei propri genitori biologici, ma anche quella delle sorelle e fratelli biologici adulti, previo interpello di questi ultimi mediante procedimento giurisdizionale idoneo ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità dei soggetti da interpellare, al fine di acquisirne il consenso all’accesso alle informazioni richieste o di constatarne il diniego, da ritenersi impeditivo dell’esercizio del diritto”.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso. Cassa il provvedimento impugnato e rinvia alla Corte d’Appello di Torino in diversa composizione.

CONFLITTO DI INTERESSI (tra genitori e figli)

Di Gianfranco Dosi
I L’esigenza di una nuova ricostruzione sistematica del tema del conflitto di interessi tra genitori e figli
Il tema del conflitto di interessi tra genitori e figli viene trattato nella manualistica tradizionale quasi esclusivamente nell’ambito delle funzioni genitoriali di rappresentanza dei figli e di amministrazione del loro patrimonio.
Questo approccio tradizionale si deve al fatto che il codice civile colloca la disciplina del “conflitto di interessi” nell’ambito delle norme sulla rappresentanza, specificamente nell’art. 1394 (libro IV sulle obbligazioni, titolo II dei contratti, capo VI della rappresentanza) nel quale si legge che “il contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi con il rappresentato può essere annullato su domanda del rappresentato, se il conflitto era conosciuto o riconoscibile”. Ipotesi paradigmatica, unica prevista ex lege, del conflitto di interessi è il contratto che il rappresentante conclude con se stesso (art. 1395 c.c.). Il conflitto di interessi è tema, quindi, che attiene nel codice civile alla rappresentanza (volontaria). Ed anche nel diritto di famiglia, conseguentemente, la manualistica tradizionale tratta il tema del conflitto di interessi soprattutto nel contesto delle norme sulla rappresentanza (legale) del figlio minore da parte dei genitori.
Questa collocazione sistematica è oggi assolutamente inadeguata perché mette in risalto nella molteplicità delle funzioni genitoriali solo un aspetto problematico – concernente il lato esterno della rappresentanza (risolvibile con la nomina di un curatore speciale) – mentre trascura del tutto i conflitti di interesse che possono emergere nell’ambito del rapporto genitori – figli collegati ai doveri genitoriali di educazione, istruzione, mantenimento e assistenza (risolvibili non solo attraverso la nomina di un curatore, ma più spesso attraverso diversi e ulteriori strumenti di perseguimento dell’interesse del minore).
In effetti nell’ambito della “responsabilità genitoriale” (art. 316 c.c.) la rappresentanza è solo uno degli aspetti che definiscono le funzioni genitoriali e forse il meno problematico. Nella nozione di “responsabilità genitoriale” sono sovrapposti, infatti, sia il potere di rappresentanza (che dura finché dura la minore età), sia un altro vasto fascio di funzioni educative, di cura, di mantenimento e di assistenza (che supera anche il limite della minore età).
Le disposizioni, quindi, che, in caso di conflitto di interessi tra il figlio minore e i suoi genitori, prevedono la nomina al minore di un curatore speciale e altri strumenti di tutela del figlio (minore ma anche maggiore di età) vanno correttamente ricollocate nel contesto di tutte queste funzioni connesse alla responsabilità genitoriale, costituite sia dai poteri di rappresentanza dei figli minori e di amministrazione del loro patrimonio da parte dei genitori, sia dai poteri di indirizzo collegati alle altre più ampie funzioni genitoriali.
Da un lato vi sono, perciò, funzioni fisiologiche del potere rappresentativo (appunto quelle cui fa riferimento soprattutto la manualistica tradizionale) concernenti quello che costituisce il risvolto esterno della responsabilità genitoriale e cioè il compimento necessario da parte dei genitori di atti o il perseguimento giudiziario di interessi in nome e per conto (e quindi in rappresentanza) del minore e che altrimenti il minore – privo di capacità di agire – non potrebbe compiere. A questo fascio di funzioni fanno riferimento le norme sul conflitto nell’ambito dell’esercizio del potere rappresentativo e di amministrazione (art. 320 c.c., art. 321 c.c.; articoli 78, 79 e 80 c.p.c.; alcuni procedimenti relativi allo status filiationis) per lo più risolvibile con la nomina di un curatore speciale.
Dall’altro lato vi sono, invece, funzioni genitoriali di carattere interno al rapporto genitori-figli, che si esercitano attraverso l’adempimento dei doveri genitoriali collegati ai diritti indicati nell’art. 315- bis c.c. (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 8, della legge 10 dicembre 2012, n. 219) secondo cui “il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni”. Nelle molteplici situazioni in cui l’ordinamento giuridico chiede ai genitori di garantire questi diritti ai figli (non solo minori di età) si possono determinare altrettante situazioni di conflitto di interessi per le quali la soluzione, in caso di minore età del figlio, può essere la nomina di un curatore speciale (in ambito civile art. 336 c.c.; articoli 8 e 10 della legge 4 maggio 1983, n. 184 nell’interpretazione pacifica in giurisprudenza; in ambito penale art. 121 c.p. e 338 c.p.p.) ma può anche essere diversa. Così in sede di separazione, divorzio e affidamento dei figli la tutela dei diritti dei figli è garantita dall’utilizzazione di altri strumenti come l’ascolto del figlio (Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2015, n. 8100; Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7478).
Pertanto la sistematica del conflitto di interessi tra genitori e figli va oggi completamente ricostruita assumendo come criterio di riferimento non più soltanto l’aspetto esterno della responsabilità genitoriale costituito dai tradizionali poteri di rappresentanza dei figli da parte dei genitori, ma l’intero fascio di poteri e doveri che presiedono all’esercizio delle funzioni genitoriali.
II Il conflitto di interessi nell’esercizio delle funzioni di rappresentanza del figlio minore da parte dei genitori
Premesso quindi che la responsabilità genitoriale si esprime sia attraverso le tradizionali funzioni di rappresentanza e amministrazione, sia attraverso ulteriori e più ampie funzioni di educazione, istruzione, mantenimento e assistenza del figlio, l’indagine sul conflitto di interessi può cominciare dalla verifica del concetto di conflitto di interessi nell’approccio tradizionale legato alle funzioni di rappresentanza dei figli minori da parte dei genitori.
Anche in questo caso, però, come anche in ambito contrattuale (citato art. 1394 c.c.), il concetto di conflitto di interessi non viene esplicitato dal legislatore e pertanto va ricostruito a partire dalle nozioni tradizionali interne al tema della rappresentanza e dalla casistica che si presenta nella prassi.
Con riferimento alle indicazioni che emergono dal codice civile sul conflitto di interessi va detto che l’art. 1394 c.c. secondo cui “il contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi con il rappresentato è annullabile se tale conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo” ha valore nel solo ambito contrattuale e non è applicabile al conflitto di interessi cui fa riferimento l’art. 320 ultimo comma c.c. per il quale l’inosservanza delle norme sulla sostituzione del rappresentante legale comporta l’annullabilità sempre e indipendentemente dalla riconoscibilità del conflitto da parte del terzo (art. 322 c.c.).
La dottrina riconduce correttamente il conflitto di interessi all’abuso della rappresentanza e ne individua il dato caratteristico nel fatto che si tratta di un esercizio anormale del potere rappresentativo, una deviazione funzionale, una specie di sviamento di potere. L’atto è regolare ma il rappresentante agisce sostanzialmente nel proprio interesse e non nell’interesse del rappresentato. Lo scopo, quindi, delle disposizioni che intendono porre riparo al conflitto di interessi nell’ambito della rappresentanza genitoriale è quello di evitare che i genitori nell’esercizio del potere legale di rappresentanza dei figli minori possano perseguire un loro interesse piuttosto che quello dei loro figli ovvero l’interesse di un figlio a scapito di quello di un altro figlio.
Il rilevamento del conflitto di interessi (in vista del suo superamento) è reso possibile grazie alla previsione dell’obbligo di autorizzazione giudiziaria per il compimento di determinati atti e determinate attività che i genitori possono compiere in nome e per conto dei figli minori. Come meglio si vedrà tra breve, allorché per determinati atti di straordinaria amministrazione si renda necessaria un’autorizzazione in sede giudiziaria, il giudice chiamato ad autorizzare un atto o una iniziativa giudiziaria relativa ad un minore, ove rilevi un conflitto di interessi tra genitori e figli o un qualsiasi altro difetto di rappresentanza deve nominare al figlio minore un curatore speciale in funzione sostitutiva delle funzioni genitoriali.
Proprio per questo motivo – per non estendere oltre il necessario l’attribuzione a terzi delle funzioni genitoriali – la giurisprudenza si è trovata nella necessità di circoscrivere correttamente il concetto di conflitto di interessi ed ha messo in evidenza che il conflitto di interessi tra genitore e il figlio è ipotizzabile allorché i due interessi siano nel caso concreto incompatibili tra loro, nel senso che l’interesse del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, mal si concilia con quello del rappresentato (Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2001, n. 5533; Cass. civ. Sez. II, 26 ottobre 1981, n. 5591) o si presenta contrastante con quello del figlio minore (Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 1988, n. 2869). Ed è anche per questa ragione che per il compimento di atti patrimoniali che appaiono, invece, utili e necessari al minore, non viene ipotizzato tra genitori e figli minori alcun conflitto di interessi con la conseguenza che in questi casi non è necessario nominare un curatore speciale (Trib. Roma, 12 marzo 1991, in Temi Romana, 1991, 428).
Per quanto in particolare concerne il promovimento di un’azione giudiziaria (iniziativa che, come meglio si dirà, il giudice è anche chiamato ad autorizzare) la nomina di un curatore speciale si paleserà necessaria tutte le volte in cui ci si avvede che i genitori esercenti la responsabilità genitoriale, agendo in rappresentanza del figlio, possano perseguire un proprio vantaggio o allorché la causa possa arrecare al minore un pregiudizio, ma non quando il genitore chieda un provvedimento che si presenti oggettivamente vantaggioso per il figlio, quale una pronuncia di risarcimento dei danni sofferti dal minore in conseguenza di un fatto illecito (Cass. civ. Sez. II, 19 gennaio 2012, n. 743; Cass. civ. Sez. III, 11 gennaio 1989, n. 59; Cass. civ. Sez. III, 9 giugno 1983, n. 3977; Cass. civ. Sez. III, 13 gennaio 1981 n. 294; Cass. civ. Sez. III, 15 dicembre 1980, n. 6503) ovvero una qualunque altra azione che possa portare vantaggio al minore.
È stato anche precisato che vi è un rapporto di totale autonomia tra la eventuale valutazione negativa sul conflitto di interessi che il giudice tutelare (chiamato ad autorizzare un atto di straordinaria amministrazione) abbia fatto in sede di autorizzazione dell’atto e l’eventuale conflitto di interessi che si dovesse poi palesare concretamente in sede processuale. Con la conseguenza che se anche il giudice tutelare, in sede di autorizzazione di un atto, non abbia ritenuto di nominare un curatore speciale, non è escluso che in sede processuale, ove per esempio il genitore promuova in nome e per conto del figlio minore una causa concernente l’atto autorizzato, venga rilevato in concreto un conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato tale da richiedere – sulla base delle norme generali di cui agli articoli 79, 80 e 81 c.p.c. che saranno più oltre esaminate – la nomina di un curatore speciale al rappresentato. Questo è l’orientamento della giurisprudenza (Cass. civ. Sez. II, 6 agosto 2001, n. 10822) dove il principio è stato prospettato in un caso di conflitto di interessi tra un anziano interdetto e la figlia che ne era tutore, ma viene in motivazione espressamente dichiarato applicabile anche al caso in cui il giudice tutelare, ritualmente richiesto, abbia ritenuto di non nominare un curatore speciale per il promovimento di un’azione giudiziaria per conto di un minore, in quanto il giudice tutelare “pone ad oggetto della propria determinazione la sola valutazione sull’opportunità o meno dell’azione sulla base delle prospettazioni di esito favorevole o meno della stessa, al cui accertamento perviene prendendo in considerazione esclusivamente gli elementi di giudizio prospettati dall’istante o acquisiti a seguito dell’istruttoria su di essi espletata”.
Analogamente – e sempre perché vi è autonomia tra i due differenti contesti normativi – l’eventuale invalidità dell’atto di nomina del curatore speciale (per esempio nominato da giudice incompetente) può essere fatta valere come ragione di annullamento della nomina in sede di reclamo ma non incide sulla validità della eventuale causa promossa da o contro il curatore speciale. Il principio è stato espresso da Cass. civ. Sez. I, 18 febbraio 1985, n. 1357 in una causa che era stata promossa contro un curatore speciale.
Nonostante il chiaro disposto dell’art. 320 c.c. che lo prevede testualmente, la giurisprudenza non sempre ritiene necessario nominare un curatore speciale allorché il genitore promuova un giudizio per il risarcimento di danni cagionati al minore (Cass. civ. Sez. III, 13 aprile 2010, n. 8720; Cass. civ. Sez. III, 14 marzo 2003, n. 3795; Cass. civ. Sez. III, 22 maggio 1997, n. 4562 hanno precisato che l’autorizzazione serve quando “il danno, per la sua natura e la sua entità, possa incidere profondamente sulla vita presente e futura del minore danneggiato”; Contra in passato Cass. civ. Sez. III, 11 gennaio 1989, n. 59 che aveva ritenuto sempre necessaria la nomina di un curatore speciale in caso di transazione).
Il conflitto di interessi, in definitiva, si ricollega alla titolarità, in capo al genitore, di una situazione giuridica idonea a determinare la possibilità che il potere rappresentativo possa essere in contrasto con l’interesse del minore e presuppone che il genitore sia interessato ad un atto di contenuto diverso o ad un esito della lite diverso da quello che avvantaggia il rappresentato (Cass. civ. Sez. III, 15 settembre 1983, n. 5582 in cui la Corte ha escluso una situazione di conflitto di interessi in relazione al genitore che, nella qualità di rappresentante del figlio minore, avendo promosso il giudizio per il risarcimento del danno subito dal figlio, aveva resistito, in appello all’impugnazione del terzo ritenuto responsabile, ancorché il giudice di primo grado avesse affermato un concorso di colpa di esso genitore).
Non si configura, pertanto, alcun conflitto di interessi, e non è conseguentemente necessaria la nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 320 ultimo comma c.c., quando il compimento dell’atto, pur avendovi i due soggetti un interesse proprio e distinto, realizza un vantaggio comune di entrambi senza danno reciproco (Cass. civ. Sez. III, 28 febbraio 1992, n. 2489 relativo alla costituzione della madre, in proprio ed in rappresentanza dei figli minori, nel giudizio di risarcimento di danno extracontrattuale instaurato contro il padre, poi deceduto; nello stesso senso anche Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 1988, n. 2869 e Cass. sez. III, 17 maggio 1985, n. 3020) ovvero quando, pur avendo tali soggetti un interesse proprio e distinto al compimento dell’atto, i due interessi, secondo l’apprezzamento del giudice di merito, siano tra loro concorrenti e compatibili (Cass. civ. Sez. II, 26 ottobre 1981, n. 5591 nella fattispecie, in cui il genitore resisteva in giudizio nell’interesse proprio di erede e nell’interesse dei figli minori legatari, la Cassazione, enunciando il principio sopra ricordato ha ritenuto escluso, dai giudici di merito, il conflitto di interessi tra i primI ed i secondi). Per questi motivi Cass. civ. Sez. II, 29 gennaio 2016, n. 1721 ha precisato che la verifica del conflitto del conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale va operata in concreto, alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa, e non in astratto ed “ex ante”.
Insomma il conflitto di interessi fra genitore e figlio minore – che legittima la nomina di un curatore speciale – sussiste soltanto quando i due soggetti si trovino o possano in seguito trovarsi in posizione di contrasto nel senso che l’interesse proprio del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, appare contrastante con quello del rappresentato.
Naturalmente, secondo i principi generali, il convincimento circa l’esistenza di un conflitto di interessi e la conseguente nomina del curatore speciale, se correttamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità (Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 1988, n. 2869).
In base a quanto anche si ritiene in tema di rappresentanza volontaria – dove si ha conflitto di interessi sia quando il rappresentante persegue in interesse proprio (conflitto di interessi diretto) sia quando persegue un interesse non del rappresentato ma di terze persone (conflitto di interessi indiretto) – il conflitto di interessi che comporta l’obbligo di nomina di un curatore speciale può presentarsi anche in forma indiretta allorché i genitori perseguano un interesse non dei figli e nemmeno di essi genitori ma di una terza persona (Cass. civ. Sez. I, 19 gennaio 1981, n. 439).
Non si realizza specificamente una vera e propria situazione di conflitto di interessi nell’art. 321 c.c. (che si avrà modo tra breve di esaminare) dove, invece, ciò che rileva è l’impossibilità o la negligenza nella cura degli interessi del minore. Tuttavia in senso ampio anche la nozione di atti che i genitori non possono o non vogliono compiere può essere assimilata al conflitto di interessi; conflitto appunto tra l’interesse del minore che dovrebbe essere tutelato in una direzione e un fatto (impossibilità di compiere un atto) ovvero un comportamento (negligenza nel compiere un atto) del genitore che si pone in contrasto con quella esigenza.
Nell’ipotesi in cui al minore, rimasto privo dei genitori, sia stato nominato un tutore (art. 343 c.c.), il conflitto di interessi tra il tutore e il minore è risolto preventivamente attraverso la nomina di un protutore il quale “rappresenta il minore nei casi in cui l’interesse di questo è in opposizione con l’interesse del tutore” (art. 360 comma 1). Anche in questo caso residua, però, la possibilità di nomina di un curatore speciale al minore ogni qualvolta il protutore sia in conflitto di interessi con lui (art. 360 comma 2).
III Le caratteristiche del conflitto di interessi nel compimento di atti di straordinaria amministrazione (art. 320 c.c.) e in caso di inerzia dei genitori (art. 321 c.c.)
Il potere sostitutivo di rappresentanza dei figli minori nei confronti dei terzi non è considerato dalla legge del tutto libero. Infatti per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione per conto dei figli minori i genitori devono munirsi dell’autorizzazione del giudice tutelare (art. 320 c.c.) il quale è chiamato, quindi, ad esercitare un controllo di merito sugli atti di potenziale maggiore rischio compiuti dai genitori nell’interesse del figlio minore. L’autorizzazione deve essere preventiva, a pena dell’annullabilità dell’atto (art. 322 c.c.).
Sono esclusi dalla funzione sostitutiva e quindi non sollevano un problema giuridico di conflitto di interessi tra genitore e figli minori – e non possono comportare la nomina di un curatore speciale – sia gli atti personalissimi che un minore intendesse compiere, come il riconoscimento di un figlio, sia gli atti per i quali i figli sono considerati capaci prima del raggiungimento della maggiore età come l’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro cui il minore è abilitato al compimento in genere del quindicesimo anno di età o per l’esercizio dei diritti e delle azioni relative alle opere dell’ingegno da lui create cui il minore è abilitato al sedicesimo anno di età. Ugualmente si ritiene – in conformità, peraltro, a quanto prevede espressamente l’art. 777 c.c. – che il genitore non possa compiere atti a titolo gratuito per conto dei figli minori, posto che la funzione sostitutiva dei genitori ha come limite connaturale l’utilità degli atti compiuti nell’interesse dei figli minori.
L’art. 320 c.c. rubricato rappresentanza e amministrazione collocato, nell’ambito delle norme del codice riservate alla responsabilità genitoriale (libro I, titolo IX, dall’art. 315 all’art. 337-octies dopo la riforma attuata con la legge 10 dicembre 2010, n. 219 e con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154), prevede al primo e al secondo comma che “i genitori congiuntamente, o quello di essi che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale, rappresentano i figli nati e nascituri in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni. Gli atti di ordinaria amministrazione, esclusi i contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento, possono essere compiuti disgiuntamente da ciascun genitore. Si applicano in caso di disaccordo o di esercizio difforme dalle decisioni concordate, le disposizioni di cui all’art. 316”. Il terzo, il quarto e il quinto comma elencano gli atti – di più significativa importanza – che i genitori non possono compiere se non dopo aver richiesto l’autorizzazione del giudice tutelare (atti di straordinaria amministrazione elencati nel terzo comma e la riscossione di capitali cui fa riferimento il quarto comma) ovvero del tribunale (autorizzazione alla continuazione da parte del minore di una impresa commerciale cui si riferisce il quinto comma). Il giudice è chiamato a valutare la corrispondenza dell’atto all’interesse del minore e autorizzare o meno l’atto.
L’ultimo comma prevede che “se sorge conflitto di interessi patrimoniali tra i figli soggetti alla stessa responsabilità genitoriale o tra essi e i genitori o quello di essi che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale, il giudice tutelare nomina ai figli un curatore speciale. Se il conflitto sorge tra i figli e uno solo dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale la rappresentanza dei figli spetta esclusivamente all’altro genitore”.
L’art. 321 c.c., rubricato nomina di un curatore speciale, chiarisce in un unico comma che “in tutti i casi in cui i genitori congiuntamente o quello di essi che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale non possono o non vogliono compiere uno o più atti nell’interesse del figlio, eccedente l’ordinaria amministrazione, il giudice, su richiesta del figlio stesso, del pubblico ministero o di uno dei parenti che vi abbia interesse, e sentiti i genitori, può nominare al figlio un curatore speciale autorizzandolo al compimento di tali atti”.
La competenza alla nomina del curatore speciale appartiene al giudice tutelare nel caso del conflitto di interessi indicato nell’art. 320 c.c. e – secondo una interpretazione letterale delle norme da parte della giurisprudenza (Cass. civ. Sez. I, 13 marzo 1992, n. 3079) – al tribunale nel caso previsto dall’art. 321 c.c.
Il curatore speciale ha la funzione (di diritto sostanziale), in sostituzione dei genitori, di compiere nell’interesse del minore quel determinato atto giuridico a contenuto patrimoniale eccedente l’ordinaria amministrazione che i genitori non è opportuno che compiano essendosi evidenziata, appunto, una situazione di conflitto di interessi. Tra gli atti in questione vengono espressamente annoverati dalla disposizione citata i casi in cui occorre promuovere (o transigere) in nome e nell’interesse di un minore una determinata azione giudiziaria concernente gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione ai quali fa riferimento lo stesso art. 320 c.c..
Analogamente prevede l’art. 321 c.c. per quelle situazioni in cui i genitori non possono o non intendono compiere uno o più atti eccedenti l’ordinaria amministrazione nell’interesse del loro figlio minore. Si verifica in questi casi non un conflitto di interessi in senso stretto ma un conflitto di interessi in senso ampio e cioè un difetto di esercizio dei poteri di rappresentanza per mancanza dei genitori o per loro disinteresse.
Gli articoli 320 e 321 c.c. delineano, quindi, sia la figura del curatore speciale ad acta e, nel caso di promovimento di un’azione giudiziaria, quella del curatore speciale ad processum (terminologia che non compare nella giurisprudenza e nemmeno nella dottrina ma che rende bene la differenza tra queste due categorie di curatori speciali). La giurisprudenza ha precisato che il curatore speciale ad acta può anche rappresentare il minore in sede processuale nei giudizi sorti in seguito ed in relazione all’atto per il cui compimento è stato nominato; quindi le funzioni di curatore ad acta possono evolvere verso quelle del curatore ad processum (Cass. civ. Sez. III, 28 marzo 2017, n. 7889; Cass. civ. Sez. unite, 16 ottobre 1985, n. 5073). Il principio è, insomma, che il curatore speciale che venga nominato dal giudice tutelare, ex art. 320 c.c., in una situazione di conflitto di interessi tra il minore e il genitore, ha poteri di rappresentanza del minore identici a quelli del genitore, sicché ha legittimazione processuale quanto ai giudizi che sorgono in relazione all’atto per cui sia stata disposta la nomina
Si possono individuare le seguenti caratteristiche:
a) Natura patrimoniale dell’interesse tutelato
La disfunzionalità nella rappresentanza degli interessi del minore al quale entrambe le norme intendono porre riparo attiene ad interessi di natura patrimoniale. È lo stesso ultimo comma dell’art. 320 c.c. a qualificare il conflitto di interessi come avente necessariamente contenuto patrimoniale. Lo si deduce, però, chiaramente anche dal fatto che le norme parlano di “atti” e non di “fatti” o “comportamenti”. Sulla base della circostanza che il conflitto di interessi di cui si parla ha natura eminentemente patrimoniale la giurisprudenza ha ritenuto, per esempio, che non debba ritenersi soggetto all’autorizzazione ai sensi dell’art. 320 c.c. il ricorso giurisdizionale avverso un atto di riprovazione di un alunno di scuola media (TAR Abruzzi, sez. Pescara, 10 maggio 1984, n. 157, in Riv. giuridica scuola, 1986, 845) e della scuola dell’obbligo (TAR Lombardia, sez. III, Milano, 9 giugno 1986, n. 284, in Foro It., 1987, III, 308) involgendo tali controversie interessi non di natura patrimoniale ma di natura personale ancorché ne possano derivare indiretti riflessi economici.
Parte della dottrina non condivide la limitazione del conflitto di interessi richiamato dall’art. 320 c.c. al conflitto di interessi di natura patrimoniale e ritiene che l’espressione “conflitto di interessi patrimoniale” – che testualmente era stata così riformulata dalla riforma del diritto di famiglia del 75 in sostituzione della precedente espressione che semplicemente parlava di “conflitto di interessi”- servirebbe soltanto ad impedire che contrasti di vedute e di opinioni sul modo di condurre l’educazione dei figli, fra questi e i propri genitori, vengano portati davanti al giudice. Tuttavia l’indicazione testuale delle norme è molto chiara e il conflitto di interessi non patrimoniali può trovare posto solo nell’art. 78 c.p.c. limitandosi quest’ultima norma a parlare di “conflitto di interessi con rappresentante” senza alcuna specificazione circa la natura del conflitto.
b) Atto di straordinaria amministrazione
A differenza degli atti di ordinaria amministrazione che possono essere compiuti disgiuntamente da entrambi i genitori (che, in caso disaccordo, potranno attivare lo speciale procedimento previsto nell’art. 316 c.c. di competenza oggi non più del tribunale per i minorenni ma del tribunale ordinario dopo le riforme dell’art. 38 disp. att. c.c. attuata con la legge 10 dicembre 2010, n. 219 e con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154) viceversa gli “atti” che, sussistendo un conflitto di interessi o un disinteresse dei genitori, giustificano, in sede di autorizzazione, la nomina del curatore speciale del minore sono quelli eccedenti l’ordinaria amministrazione. Tra questi i contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento (per i quali il primo comma dell’art. 320 c.c. esclude, pur trattandosi di atti di ordinaria amministrazione, che possano applicarsi le regole dell’amministrazione disgiuntiva). Il principio della necessità della autorizzazione per i soli atti di straordinaria amministrazione si desume chiaramente dal fatto che il terzo comma dell’art. 320 c.c. dopo avere elencato nella prima parte gli atti che necessitano della autorizzazione conclude il breve elenco con l’espressione “o compiere altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione” con ciò chiaramente intendendo attribuire agli atti subito prima elencati la natura di atti eccedenti, appunto, l’ordinaria amministrazione. L’autorizzazione del giudice tutelare è richiesta – in base al quarto comma dell’art. 320 c.c. – anche per la riscossione di capitali in nome e per conto del minore che potrebbe essere considerato un atto di ordinaria amministrazione in quanto volto al miglioramento del patrimonio del minore; in questa evenienza il conflitto di interessi tra i genitori e il minore viene rimosso in radice in quanto si prevede espressamente che il giudice debba determinare il reimpiego delle somme riscosse (nell’art. 372 c.c. sono indicate le modalità di investimento dei capitali del minore). I medesimi atti di straordinaria amministrazione sono richiamati nell’art. 321 c.c. e per essi è applicabile il meccanismo previsto nell’ultimo comma dell’art. 320 c.c. relativo alla nomina del curatore speciale del minore nel caso in cui si evidenzi il conflitto di interessi. Espressamente, quindi, anche l’inerzia dei genitori, che l’art. 321 c.c. pone a fondamento della nomina ivi prevista del curatore speciale, deve concernere un atto “eccedente l’ordinaria amministrazione”.
La distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione si fonda tradizionalmente sulla funzione dell’atto; in questa prospettiva sarebbero atti di ordinaria amministrazione quelli che, senza alterare l’integrità del patrimonio sono rivolti al suo mantenimento e che abbiano finalità di conservazione (Cass. civ. Sez. II, 6 agosto 1999, n. 8484; Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 1988, n. 2869) oppure quelli che sono tesi al miglioramento del patrimonio. Occorre, però, osservare che anche gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possono avere la funzione di migliorare o incrementare il patrimonio. È difficile individuare, perciò, un criterio unitario. Appare plausibile il riferimento – che si fa anche in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. II, 15 novembre 2004, n. 21614; Cass. civ. Sez. I, 30 gennaio 1982, n. 599) – tra atti che non alterano l’integrità del patrimonio del minore ed atti che, invece, in quanto rischiosi potrebbero incidere su di esso con modificazioni o trasferimenti idonei a mutarne la struttura e la consistenza, sempre, beninteso che si chiarisca che gli atti soggetti ad autorizzazione non possono che essere diretti a migliorare il patrimonio del minore, non certo a recargli pregiudizio. Il “rischio” potrebbe essere pertanto alla base della distinzione tra le due categorie di atti.
Un tentativo di individuare le caratteristiche che fondano la distinzione è stato fatto da Cass. civ. Sez. II, 15 novembre 2004, n. 21614 secondo cui vanno considerati di ordinaria amministrazione gli atti che presentino tutte e tre le seguenti caratteristiche: 1) siano oggettivamente utili alla conservazione del valore e dei caratteri oggettivi essenziali del patrimonio in questione; 2) abbiano un valore economico non particolarmente elevato in senso assoluto e soprattutto in relazione al valore totale del patrimonio medesimo; 3) comportino un margine di rischio modesto in relazione alle caratteristiche del patrimonio predetto. Vanno invece considerati di straordinaria amministrazione gli atti che non presentino tutte e tre queste caratteristiche.
Per alcuni atti è espressamente l’art. 320 c.c. che indica la necessità dell’autorizzazione previa verifica dell’utilità evidente per il figlio minore e, quindi, l’inclusione nella categoria degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione: alienazione o iscrizione di ipoteca o sottoposizione a pegno di beni pervenuti al figlio minore; accettazione o rinuncia ad eredità o a legati, accettazione di donazioni, scioglimento di comunioni, conclusione di contratti di mutuo (Cass. civ. Sez. III, 28 luglio 1987, n. 6542 la quale, in un caso di concessione di mutuo a minori, nonostante la espressa inclusione di tale tipo di negozio fra gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, ha ritenuto esente tale atto dalla preventiva autorizzazione del giudice tutelare ove venga fornita la prova specifica che il prestito sia suscettibile di restituzione mediante impiego del reddito del minore e senza pericolo di decurtazione dei suoi capitali o di diminuzione del valore del suo patrimonio) o di locazione ultranovennale e, infine, promovimento di azioni, transazione o arbitrato relativamente agli atti elencati.
È stato considerato di ordinaria amministrazione il promovimento da parte dei genitori di un’azione di responsabilità verso terzi per danni subìti dal minore (Trib. Cagliari, 8 agosto 1989, citata in Riv. giuridica sarda, 1995, 53). In tal caso la ritenuta non necessità della nomina viene in genere giustificata non per il fatto che si tratta di un atto di ordinaria amministrazione quanto piuttosto dalla considerazione della vantaggiosità per il figlio che escluderebbe il conflitto di interessi (Cass. civ. Sez. III, 11 gennaio 1989, n. 59; Cass. civ. Sez. III, 9 giugno 1983, n. 3977; Cass. civ. Sez. III, 13 gennaio 1981, n. 294; Cass. civ. Sez. III, 15 dicembre 1980, n. 6503).
Atto di straordinaria amministrazione, che richiede come tale l’autorizzazione del giudice tutelare, è la confessione giudiziale o stragiudiziale su fatti dalla cui prova il diritto del figlio potrebbe risultare pregiudicato (Cass. civ. Sez. II, 6 aprile 1995, n. 4015 che fa nella specie riferimento alla confessione – che sarebbe inammissibile senza autorizzazione – da parte del genitore relativamente alla gratuità di un atto di alienazione apparentemente oneroso stipulato senza testimoni; in tal caso, infatti, la confessione avrebbe come conseguenza la nullità dell’atto per difetto di forma).
Ugualmente atto di straordinaria amministrazione è la continuazione (non, quindi, l’inizio) dell’esercizio di una impresa commerciale per il quale, tuttavia, l’art. 320 comma 5 c.c. prevede la competenza all’autorizzazione del tribunale relegando il giudice tutelare – chiamato peraltro ad esprimere un parere non vincolante – alla funzione di autorizzazione solo dell’esercizio provvisorio (Cass. civ. Sez. I, 3 agosto 1994, n. 7204). L’autorizzazione alla continuazione dell’impresa commerciale presuppone, naturalmente, che l’impresa sia già entrata nel patrimonio del minore, altrimenti, in caso di imprese che non sono ancora di proprietà del minore, l’autorizzazione sarebbe invalida (Cass. civ. Sez. I, 15 maggio 1984, n. 2936). Il genitore, autorizzato dal tribunale ai sensi dell’art. 320, quinto comma, cod. civ., alla continuazione dell’esercizio dell’impresa commerciale del minore, può compiere, senza necessità di specifica autorizzazione del giudice tutelare, anche i singoli atti strettamente collegati a tale esercizio, stante il carattere dinamico dell’impresa e la necessità di assumere decisioni pronte e tempestive, le quali sarebbero gravemente ostacolate, o addirittura paralizzate qualora, per ogni singolo atto, occorresse rivolgersi all’autorità giudiziaria (Cass. civ. Sez. I, 13 maggio 2011, n. 10654; Cass. civ. Sez. II, 5 giugno 2007, n. 13154).
Un’indicazione specifica per la distinzione di natura tra atti potrebbe ricavarsi anche dall’art. 374 c.c. il quale, nel contesto delle norme che disciplinano l’esercizio della tutela, attribuisce al giudice tutelare la funzione di autorizzare alcuni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (acquisto dei beni, riscossione dei capitali, cancellazione di ipoteche, assunzione di obbligazioni, accettazione di eredità e di donazioni, contratti di locazione ultranovennale o che si prolungano oltre un anno dopo il raggiungimento della maggiore età, promovimento di giudizi con le eccezioni previste). L’art. 375 c.c. a sua volta indica altri atti di straordinaria amministrazione la cui competenza per l’autorizzazione spetta al tribunale: alienazione di beni, costituzione di pegni o di ipoteche, divisioni giudiziali o stragiudiziali, compromessi o transazioni. Sebbene nel caso degli art. 374 e 375 c.c. l’elencazione sia certamente tipica, si tratta sostanzialmente degli stessi atti indicati nell’art. 320 c.. con ciò, quindi, mettendosi in evidenza che l’aspetto più problematico consiste proprio nella ritenuta non esaustività delle indicazioni fornite dall’art. 320 c.c. La giurisprudenza ha ritenuto, in ogni caso, che la distinzione tra atti di ordinaria amministrazione ed atti di straordinaria amministrazione prevista negli art. 320, 374 e 394 c.c. si applica soltanto a proposito dei beni degli incapaci e non è applicabile alle società per le quali gli atti che rientrano nell’oggetto sociale, pur se eccedenti l’ordinaria amministrazione devono ritenersi di competenza degli amministratori mentre sono di competenza dell’assemblea tutti gli atti di alienazione di beni strumentali o suscettibili di modificare la struttura della società (Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 1994, n. 2430; Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1987, n. 5353; sul punto anche Cons. Stato Sez. V, 21 giugno 2013, n. 3402, in Pluris Wolters Kluwer Italia).
Naturalmente, è configurabile, e opponibile al minore rappresentato, la eventuale simulazione assoluta di un atto, eccedente i limiti dell’ordinaria amministrazione, compiuto dal legale rappresentante, preventivamente e regolarmente autorizzato dal giudice tutelare (Cass. civ. Sez. II, 9 giugno 2014, n. 12953).
La competenza ad autorizzare gli atti di straordinaria amministrazione spetta al giudice tutelare del luogo di residenza del minore.
In ordine alla vendita di beni immobili ereditati dal minore Cass. civ. Sez. II, 27 luglio 2012, n. 13520 e Cass. civ. Sez. III, 4 novembre 1998, n. 11071 hanno ribadito questa regola unicamente per quei beni che, provenendo da una successione ereditaria, si possono considerare acquisiti al suo patrimonio mentre, ai sensi del primo comma dell’art. 747 cod. proc. civ., la competenza spetta, sentito il giudice tutelare, al tribunale del luogo di apertura della successione, ove il procedimento dell’acquisto “iure hereditario” non si sia ancora esaurito per essere pendente la procedura di accettazione con beneficio di inventario, in quanto, in tale ipotesi, l’indagine del giudice non è circoscritta soltanto alla tutela del minore, ai sensi dell’art. 320 cod. civ., ma si estende a quella degli altri soggetti interessati alla liquidazione dell’eredità, così evitandosi una disparità di trattamento fra minori “in potestate” e minori sotto tutela, con riguardo alla diversa competenza a provvedere per i primi (giudice tutelare ai sensi dell’art. 320 cod. civ.) e i secondi (tribunale quale giudice delle successioni, in base all’art. 747 cod. proc. civ.).
Come detto non tutti gli atti di straordinaria amministrazione producono un conflitto di interessi. La nomina, quindi, del curatore speciale al minore va disposta solo quando l’atto viene valutato come potenzialmente configgente con l’interesse del genitore che è chiamato ad effettuarlo in rappresentanza del minore.
c) Le quattro tipologie di conflitto di interessi prese in considerazione dall’art. 320 c.c.
Per espressa previsione dell’ultimo comma dell’art. 320, c.c. il conflitto di interessi nell’esercizio dei poteri di rappresentanza e amministrazione può evidenziarsi unicamente in quattro modalità: a) tra figli soggetti alla stessa responsabilità genitoriale (si pensi ad un atto che i genitori intendono compiere in favore di uno tra più figli e che determina, pertanto, un conflitto di interessi tra il beneficiato e i fratelli); b) tra il figlio ed entrambi i genitori che esercitano la responsabilità genitoriale (si pensi ad un lascito ereditario ad un figlio che i genitori sono chiamati ad accettare); c) tra il figlio e il genitore che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale (per esempio il conflitto di interessi tra il minore e il genitore che ne è affidatario esclusivo); d) è prevista, infine, una quarta ipotesi di conflitto di interessi di natura patrimoniale (la meno problematica) che si verifica quando il conflitto sorge tra il figlio ed uno dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale (si pensi al caso in cui, in costanza di matrimonio o in situazione di convivenza con l’altro genitore ovvero in regime di affidamento condiviso in sede di separazione o divorzio, uno dei genitori intenda donare al figlio un bene). In tale ultimo caso, come si è sopra anticipato, il giudice non deve nominare un curatore speciale in quanto l’ultima parte dell’art. 320 prevede per tale ipotesi (come si è detto meno problematica) che la rappresentanza del figlio spetta esclusivamente all’altro genitore coesercente la responsabilità genitoriale il quale quindi sarà chiamato a rappresentare il minore nell’atto o nell’iniziativa giudiziaria oggetto di autorizzazione. Occorre ricordare – per precisare meglio la terza ipotesi alla quale si è fatto riferimento (conflitto di interessi tra il figlio e il genitore che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale) – che in base all’art. 317 c.c. l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale da parte di un genitore si verifica sostanzialmente nei casi “di lontananza, di incapacità o di altro impedimento che renda impossibile ad uno dei genitori l’esercizio della responsabilità genitoriale” oppure quando l’altro genitore sia deceduto o dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale o rimosso dall’amministrazione oppure quando il genitore esercita la responsabilità genitoriale nella qualità di affidatario esclusivo in sede di separazione o divorzio. Va anche precisato – per quanto attiene alla situazione che si verifica in separazione o divorzio – che per quanto concerne il potere di rappresentanza esso spetta in via esclusiva al genitore affidatario esclusivo anche per quanto concerne le “decisioni di maggiore interesse per i figli” che, in base a quanto dispone l’art.337- quater c.c. “devono essere adottate da entrambi i genitori”. Questa precisazione consente di evitare gravi situazioni di incertezza per i terzi e consente di tenere separata la nozione di “atti eccedenti l’ordinaria amministrazione” da quella di “decisioni di maggiore interesse” mantenendo separati l’aspetto personale e quello patrimoniale della responsabilità genitoriale. Ne consegue in primo luogo che il genitore affidatario esclusivo (a differenza di quanto deve avvenire per le “decisioni di maggiore interesse”) è abilitato a compiere da solo, senza necessità di farlo congiuntamente all’altro genitore, anche le decisioni relative ad atti eccedenti l’ordinaria amministrazione e, in secondo luogo, che è proprio in questa ipotesi che può riscontrarsi il conflitto di interessi al quale fa riferimento l’ultimo comma dell’art. 320 c.c. (conflitto tra il figlio e il genitore che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale) sorgendo quindi per il compimento di tale atto l’obbligo della nomina di un curatore speciale per garantire la rappresentanza del figlio minore.
d) Il conflitto di interessi indiretto
Per analogia la nomina di un curatore speciale può dirsi necessaria anche quando il conflitto di interessi insorga tra il figlio minore e altra persona alla quale i genitori siano legati da vincoli affettivi od economici tali da far ritenere che il loro interesse sia sentito come proprio dal rappresentante. Il conflitto di interessi non è, quindi, soltanto quello che sussiste direttamente tra i genitori e i figli, ma è anche quello cosiddetto indiretto che si verifica quando i genitori perseguono non un interesse del figlio ma nemmeno un interesse proprio, sebbene l’interesse di un terzo soggetto con il quale quindi l’interesse del figlio entra in collisione.
e) Impossibilità di conflitto di interessi tra genitori e nascituri
Sebbene l’art. 320 c.c. estenda la rappresentanza dei genitori anche agli atti relativi ai nascituri (“I genitori… rappresentano i figli nati e nascituri…”) non è ipotizzabile un conflitto di interessi tra genitori e nascituri. Naturalmente, poiché i diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati alla nascita (art. 1 comma 2 c.c.), il conflitto di interessi potrebbe porsi nel momento in cui, dopo la nascita, i genitori o quello che esercita la responsabilità genitoriale fossero chiamati per conto del figlio per esempio ad accettare un lascito testamentario fatto a favore del nascituro o a rinunciarvi.
f) Casi di conflitto di interessi
La giurisprudenza ha ritenuto esistente un conflitto di interessi patrimoniale tra il minore e i suoi genitori:
1) In un caso in cui uno dei figli minorenni aveva causato un danno ad un altro figlio minorenne, ritenendo sussistente un conflitto di interessi tra il figlio minore danneggiato ed entrambi i genitori e ritenendo, quindi, legittima la nomina al figlio minore danneggiato di un curatore speciale per l’esercizio dell’azione civile di danno (Cass. civ. Sez. III, 9 giugno 1999, n. 5694).
2) In casi in cui i genitori avevano stipulato un contratto di compravendita a favore del figlio minore (fattispecie di contratto a favore del terzo inquadrabile nell’art. 1411 c.c.), ritenendo necessaria la nomina di un curatore speciale per rendere in nome del figlio minore la dichiarazione di voler profittare della stipulazione (Pretura Santa Maria Capua Vetere, 19 maggio 1995, in Vita notar. 1995, 663, con nota di GIULIANO). Di contrario avviso è stata, però, la giurisprudenza di legittimità la quale ha ritenuto che nel contratto a favore di terzo la validità ed operatività della convenzione medesima postula soltanto la ricorrenza di un interesse dello stipulante senza che si richieda l’osservanza delle norme sulla rappresentanza del minore ove stipulato dal genitore a vantaggio del figlio minore, non implicando il detto contratto né l’esercizio dei poteri di rappresentanza né l’accettazione da parte del figlio
3) Nel caso di donazione al minore da parte di chi esercita la responsabilità genitoriale, in quanto il conflitto di interessi fra donante e donatario discenderebbe dalla stessa natura contrattuale del negozio. La competenza per la nomina del curatore speciale spetta sempre al giudice tutelare ai sensi dell’art. 320 c.c. e non al tribunale ai sensi dell’art. 321 del medesimo codice, essendo irrilevante che donanti siano entrambi i genitori, uno soltanto di essi o l’unico che eserciti la responsabilità genitoriale. Così secondo Cass. civ. Sez. I, 19 gennaio 1981, n. 439 in tema di donazione in favore di minore per la cui accettazione è richiesta in ogni caso l’autorizzazione del giudice tutelare, a norma dell’art. 320 comma 3 c.c., qualora la qualità di donante venga assunta da entrambi o anche solo da uno dei genitori investiti della legale rappresentanza del minore stesso, si verifica una ipotesi di conflitto di interessi patrimoniali, che rientra nella previsione dell’ultimo comma del citato art. 320 c.c. con il conseguente potere dovere del giudice tutelare di nominare un terzo curatore speciale e non nella previsione del successivo art. 321, il quale, con l’intervento del tribunale, regola il diverso caso dell’impedimento o della voluta omissione dei genitori medesimi rispetto all’attività necessaria per la tutela del figlio minore (analogamente nella giurisprudenza di merito Appello Palermo, 7 dicembre 1989, in Vita Notar. 1990, 652; Giudice tutelare di Roma, 12 novembre 1986, in Rivista notar. 1987, 159; Tribunale Roma, 15 gennaio 1987, in Riv. notar. 1987, 152; Contra Pretura Roma, 14 aprile 1984, in Riv. Notar. 1984, 627 secondo cui nella donazione dal padre al figlio minore la rappresentanza del figlio per l’accettazione della donazione spetta all’altro genitore non potendosi configurare con quest’ultimo conflitto di interessi tale da necessitare la nomina di un curatore ad acta).
4) In caso di partecipazione del minore agli utili, ai beni acquistati ed ai proventi, dell’impresa familiare, operazioni per le quali deve procedersi, ai sensi dell’art. 320 comma 6 c.c., alla nomina di un curatore speciale. Nell’impresa familiare la qualifica di imprenditore spetta esclusivamente a chi ha la gestione ordinaria dell’impresa limitandosi i familiari ad una prestazione lavorativa nel suo ambito, pur se partecipano ad essa con poteri anche notevolmente incisivi di collaborazione-direzione, ma non di effettiva gestione. Ne consegue, per l’effetto, che per partecipare a tale impresa è sufficiente la capacità di essere parte di un rapporto di lavoro subordinato senza necessità di alcuna autorizzazione da parte del giudice tutelare. Tale autorizzazione, peraltro, è certamente necessaria per la riscossione delle quote degli utili spettanti ai minori e della liquidazione del loro diritto di partecipazione.
5) In caso di liquidazione della quota sociale spettante al minore “iure ereditario” (Tribunale Ascoli Piceno 26 settembre 1984, Riv. Notar., 1986, 732).
6) In caso di riscossione dell’indennità di fine rapporto devoluto ad un minore di età (Consiglio di Stato, sez. VI 16 giugno 1997 n. 902 in Foro amm., 1997, 1690) anche se la tesi non appare convincente considerato che l’art. 2 comma 2 c.c. abilita il minore che presta attività lavorativa, all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro.
7) È stato anche ritenuto che sussiste un inevitabile conflitto di interessi allorché uno dei genitori agisca nei confronti dell’altro con procedimento ex art. 709-ter c.p.c. chiedendo il risarcimento dei danni a favore del figlio minore (Trib. Varese, 7 maggio 2010, in Resp. civ., 2010, 7, 554 dove si sostiene che la domanda di risarcimento del danno, proposta con istanza ex art. 709-ter c.p.c. in favore della prole minore di età deve essere presentata da un curatore speciale nominato ai sensi dell’art. 78, co. 2, c.p.c. atteso che le istanze di un figlio contro uno dei genitori, se proiettate nell’orbita del giudizio intentato dall’altro, sono inevitabilmente intrise di un conflitto di interessi che solo il terzo rappresentante può evitare).
Non è stato, invece ritenuto esistente un conflitto di interessi:
1) Nel caso di azione per il risarcimento del danno subìto da un minore in quanto, essendo diretta al recupero di somme e alla reintegrazione del patrimonio leso è stata considerata un’attività di ordinaria amministrazione, così come la resistenza in giudizi promossi da altri nei confronti del minore d’età configurandosi in tali casi atti di ordinaria amministrazione che possono essere compiuti anche disgiuntamente da ciascun genitore (Tribunale Cagliari, 8 agosto 1989 citato in Rivista giuridica sarda, 1995, 53). Analogamente la giurisprudenza di legittimità non ritiene necessaria la nomina di un curatore speciale in caso di azione di risarcimento danni ma sotto il diverso profilo che la vantaggiosità dell’atto per il minore escluderebbe senz’altro il conflitto di interessi (Cass. sez. III, 11 gennaio 1989, n. 59; Cass. civ. Sez. III, 9 giugno 1983, n. 3977; Cass. civ. Sez. III, 13 gennaio 1981, n. 294; Cass. civ. Sez. III, 15 dicembre 1980, n. 6503).
2) Nel caso di costituzione di una società in accomandita semplice in seno alla quale il minore assuma la qualità di socio accomandante, non ritenendosi esistente un conflitto di interessi tra genitore e figlio minore (Pretura Roma, 24 gennaio 1995, in Dir. fam. 1997, 1473, con nota di MARROCCO).
3) Nel caso di instaurazione da parte di un minore del giudizio di interdizione nei confronti del genitore in quanto l’oggetto di tale giudizio non è la tutela degli interessi patrimoniali dell’interdicendo in contrapposizione a quelli del minore mancando, perciò, quel conflitto di interessi patrimoniali per il quale l’art. 320 c.c. prevede l’intervento del giudice tutelare a protezione del figlio minore (Tribunale minorenni Palermo, 12 dicembre 1997, in Dir. fam. 1999, 167, con nota di DI MARZIO).
4) Nel caso di impugnazione del riconoscimento di un figlio minore promossa da chi ha effettuato il riconoscimento oggetto dell’impugnazione (nella specie il coniuge del genitore naturale del minore). Si è detto a tale proposito che il conflitto di interessi nel rapporto processuale tra genitore esercente la potestà (responsabilità genitoriale) e figlio è ipotizzabile non già in presenza di un interesse comune, sia pure distinto ed autonomo, di entrambi al compimento di un determinato atto, ma soltanto allorché i due interessi siano nel caso concreto incompatibili tra loro, nel senso che l’interesse del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, non si concilia con quello del rappresentato; l’esistenza di una siffatta situazione di conflitto, il cui apprezzamento è rimesso al giudice di merito, non è normativamente presunta nel caso dell’azione di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, la quale non rientra tra le ipotesi, tassativamente indicate dal legislatore nelle quali il giudizio deve essere proposto, in rappresentanza del minore, nei confronti di un curatore speciale nominato al riguardo dal giudice; ne consegue che in ordine a tale azione, trova applicazione, in mancanza della deduzione di una concreta situazione di conflitto di interessi, la regola secondo cui il genitore esercente la potestà (responsabilità genitoriale) è legittimato, nell’interesse del figlio minore, a resistere al giudizio da altri intentato (Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2001, n. 5533)
IV Il conflitto di interessi (patrimoniale e non patrimoniale) nel processo civile (art. 78, 79 e 80 c.p.c.)
L’art. 78 c.p.c. prevede al primo comma che “se manca la persona cui spetta la all’incapace, alla persona giuridica o all’associazione non riconosciuta un curatore speciale che lo rappresenti o assista finché subentri colui al quale spetta la rappresentanza o l’assistenza”. Il secondo comma aggiunge che “si procede altresì alla nomina di un curatore speciale al rappresentato, quando vi è conflitto di interessi col rappresentante”.
L’art. 79 prevede che la nomina del curatore speciale “può essere in ogni caso chiesta dal pubblico ministero” e “dalla persona che deve essere rappresentata o assistita sebbene incapace, nonché dai suoi prossimi congiunti e, in caso di conflitto di interessi dal rappresentante”. Può anche essere chiesta “da qualunque altra parte in causa che vi abbia interesse”.
L’art. 80 prescrive che l’istanza si propone al presidente del tribunale il quale “assunte le opportune informazioni provvede con decreto”.
Come ha chiarito Cass. civ. Sez. III, 13 aprile 2015, n. 7362, allorquando l’esigenza della nomina di un curatore speciale ex art. 78 cod. proc. civ. si manifesti nel corso del giudizio ed in relazione ad esso, la corrispondente istanza deve essere proposta al giudice (monocratico o collegiale nelle ipotesi di cui all’art. 50 bis cod. proc. civ.) della causa pendente, a tanto non ostando la riconducibilità alla giurisdizione volontaria del provvedimento di cui all’art. 80 cod. proc. civ.
Il contesto in cui tali norme sono inserite è quello della capacità processuale delle parti, cioè della loro capacità di partecipare al processo (legitimatio ad processum) riconosciuta, in base alla norma fondamentale di cui all’art. 75 c.p.c., alle persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere. I criteri di legittimazione processuale coincidono, quindi, con la disciplina della capacità processuale e perciò, anche in questo caso intersecano il tema della rappresentanza.
Riferito ai soggetti minori di età l’art. 75 in questione sta a significare che i minori possono stare in giudizio solo se rappresentati “secondo le norme che regolano la loro capacità”, cioè – secondo quanto dispone l’art. 320 c.c. – se rappresentati dai genitori o da chi, comunque, esercita la responsabilità genitoriale.
Il rappresentante non deve necessariamente essere sempre la stessa persona fisica. La giurisprudenza ritiene, infatti, che la persona fisica del rappresentante potrebbe mutare, per qualsiasi ragione, senza che si dia vita ad alcuna interruzione processuale (Cass. civ. Sez. I, 25 giugno 1998 n. 6292). Si verifica, invece, l’interruzione del processo (art. 299 c.p.c. per il periodo precedente alla costituzione e art. 300 c.p.c. per il periodo successivo alla costituzione) se cessa la rappresentanza e cioè per esempio se il minore diventa maggiorenne. Secondo il codice di procedura civile, infatti, eventi interruttivi del processo sono “la morte o la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti o del suo rappresentante legale o la cessazione di tale rappresentanza”. L’interruzione comporta (ex art. 304 c.p.c.) che non possono più essere compiuti atti processuali (art. 298 c.p.c.) e che il processo si estingue se nei sei mesi successivi non viene ritualmente riassunto (art. 205 c.p.c.). Per evitare queste conseguenze il figlio divenuto maggiorenne prima della costituzione in giudizio potrà costituirsi volontariamente o essere citato in riassunzione. Se invece diventa maggiorenne dopo la costituzione in giudizio, questo evento verrà dichiarato dal genitore o dal curatore speciale e il processo si interrompe salvo che il figlio maggiorenne non si costituisca volontariamente (art. 302 c.p.c.):
Come si è già accennato, essendo il conflitto di interessi cui fanno riferimento gli art. 320 e 321 c.c. un conflitto di interessi espressamente di natura patrimoniale, si può ritenere che il conflitto di interessi al quale fa riferimento l’art. 78 c.p.c., per il caso di conflitto tra genitori e figli minori, possa essere anche di natura non patrimoniale. L’art. 78 c.p.c. trova applicazione per lo più nei casi in cui il minore è convenuto in un giudizio essendo viceversa l’art. 320 c.c. la norma di riferimento per i casi in cui i genitori intendano promuovere l’azione. Non si può escludere, naturalmente, essendoci autonomia tra le norme civilistiche e quelle processuali, che – anche quando i genitori promuovano un’azione e il giudice tutelare abbia ritenuto di non dover nominare un curatore speciale – ove in corso di causa venga ritenuta l’esistenza di un conflitto di interessi possa essere nominato al minore un curatore speciale. Il caso in cui il minore sia convenuto in giudizio è il caso più ricorrente in cui si presenti la situazione di conflitto di interessi che determina la necessità di nomina del curatore speciale. Il giudice ex art. 182 c.p.c. può promuoverne d’ufficio la nomina quando rileva il difetto di rappresentanza.
Va chiarito che la nomina di un curatore speciale al minore ai sensi degli articoli 78, 79 e 80 c.p.c. in caso di conflitto di interessi di natura non patrimoniale tra il minore e i genitori non può considerarsi ammissibile nei casi in cui la nomina stessa si dovesse tradurre in una intrusione nelle scelte di carattere educativo dei genitori. In una vicenda in cui Appello Ancona, 26 marzo 1999 (in Famiglia e diritto, 1999, 467, con nota di LENA) aveva annullato la nomina di un curatore da parte del tribunale per i minorenni in materia di scelta del tipo di cure sanitarie al figlio minore la motivazione è stata che il curatore speciale può essere nominato solo e sempre in caso di conflitti di interesse di natura patrimoniale. Si tratta di un’affermazione, tuttavia, non condivisibile da un punto di vista strettamente sistematico perché l’art. 78 c.p.c. non contiene, come fanno invece gli art. 320 e 321 c.c., una limitazione di questo genere. Tuttavia l’intenzione dei giudici è certamente condivisibile ed è stata sicuramente quella di circoscrivere i casi di nomina di un curatore per impedire una eccessiva dilatazione del potere attribuito al giudice di provocare la sostituzione dei genitori. A questo proposito secondo Trib. Milano Sez. IX Decreto, 19 giugno 2014 il giudice, nel suo prudente apprezzamento e previa adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, può sempre procedere alla nomina di un curatore speciale in favore del minore, avvalendosi della disposizione dettata dall’art. 78 c.p.c., che non ha carattere eccezionale, ma costituisce piuttosto un istituto che è espressione di un principio generale, destinato ad operare ogni qualvolta sia necessario nominare un rappresentante all’incapace.
Come detto la nomina del curatore speciale prescinde da un’istanza di parte e può essere disposta d’ufficio dal giudice.
Nella giurisprudenza meno recente e in parte della dottrina il coordinamento tra le norme di cui agli art. 320 e 321 c.c. e quelle di cui agli articoli 78, 79 e 80 c.p.c. è stato operato, considerando gli articoli 320 e 321 c.c. norme speciali nel settore minorile rispetto agli art. 78, 79 e 80 c.p.c. considerate disposizioni di carattere generale, cioè dirette ad apprestare in via generale – e perciò residuale – una tutela giudiziaria dei diritti dell’incapace ove questi venga a trovarsi in situazione in senso ampio di conflitto di interessi con il suo rappresentante legale e ove non siano rinvenibili norme speciali di composizione del conflitto (Cass. civ. Sez. II, 10 agosto 1982, n. 4491).
La giurisprudenza ritiene che sia configurabile il conflitto di interessi tra genitori e figli “ogni volta che l’incompatibilità delle rispettive posizioni è anche solo potenziale a prescindere dalla sua effettività” e che “la relativa verifica va compiuta in astratto ed ex ante secondo l’oggettiva consistenza della materia del contendere dedotta in giudizio anziché in concreto e a posteriori alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa” con la conseguenza che in caso di omessa nomina del curatore speciale il giudizio è nullo per vizio di costituzione del rapporto processuale e per violazione del contraddittorio a prescindere dal fatto che il conflitto di interessi si sia effettivamente evidenziato nel comportamento processuale delle parti in causa. (Cass. civ. Sez. II, 30 maggio 2003, n. 8803; Cass. civ. Sez. II, 6 agosto 2001, n. 10822; Cass. civ. Sez. II, 16 novembre 2000, n. 14866; Cass. civ. Sez. II, 9 luglio 1997, n. 6201). Sulle conseguenze della mancata nomina del curatore speciale ha espresso un convincimento diverso Cass. civ. Sez. III, 9 marzo 2017, n. 6020 ritenendo che la mancata nomina attiene all’esercizio dei poteri processuali e non al contraddittorio con la conseguenza che il giudice di appello, in difetto della suddetta nomina in primo grado per la risoluzione dell’indicato conflitto, deve decidere la causa nel merito, rinnovando eventualmente gli atti nulli.
Va infine precisato che è ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell›art. 111 Cost. contro il decreto di nomina di curatore speciale ex art. 78 c.p.c., perché tale provvedimento non attribuisce o nega un bene della vita, ma assicura la rappresentanza processuale all›incapace che ne sia privo o al rappresentato che sia in conflitto d›interessi con il rappresentante, ha una funzione strumentale al singolo processo, destinata ad esaurirsi nell›ambito del processo medesimo, ed è sempre revocabile o modificabile ad opera del giudice che l›ha pronunciato, anche d›ufficio in primo grado e, successivamente, su gravame di parte, ad opera dei giudici di merito e di legittimità (Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2015, n. 22566).
V La molteplicità di funzioni nella soluzione del conflitto di interessi nei procedimenti relativi alla filiazione (azioni di status ed altri procedimenti)
Si può affermare che le azioni di stato e gli altri procedimenti in materia di filiazione sono collocati al crocevia tra le due diverse concezioni del conflitto di interessi, da un lato come problema della rappresentanza e dall’altro come problema più vasto connesso alla verifica e al perseguimento dell’interesse del minore e dello status di figlio in generale. Per questo motivo di può parlare di molteplicità di funzioni attribuite ai modi di soluzione del conflitto di interessi individuati dal legislatore e dalla giurisprudenza in questi procedimenti.
Nella disciplina giuridica delle azioni di stato e degli altri procedimenti relativi alla filiazione le ipotesi di nomina di un curatore speciale non sono poche. Potrebbe perciò ritenersi che il conflitto di interessi mantenga la sola connotazione tradizionale del conflitto di interessi tra rappresentato e rappresentante (cui consegue la nomina di un curatore speciale) e che quindi si tratti sempre di un conflitto delle funzioni esterne della rappresentanza genitoriale. Vi è, tuttavia, in questo settore una problematicità del conflitto di interessi molto più articolata che consente di riscontrare un sovrapporsi di obiettivi qualcuno raggiunto con modalità finora inedite. In effetti nelle azioni di stato in materia di filiazione sono visibili sia soluzioni tradizionali al problema del difetto di rappresentanza e del conflitto di interessi tra genitori e figli, riconducibili sostanzialmente alle medesime regole processuali che risolvono questi problemi nel processo civile (articoli 79, 80 e 81 c.p.c.), sia motivazioni come detto inedite, sia, ancora, forme di soluzione del conflitto di interessi orientate al controllo di quel fascio di ulteriori funzioni genitoriali connesse al diritto del figlio “di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni” (art. 315-bis c.c.) che, come si dirà, costituiscono la motivazione centrale della nomina del curatore speciale nelle procedure di adottabilità e de potestate oltre che in ambito penale nonché l’obiettivo prioritario delle particolari modalità di tutela dell’interesse del minore nelle procedure di separazione, divorzio e affidamento.
Con l’espressione “azioni di stato in tema di filiazione”, ci si riferisce a quei procedimenti che tendono al disconoscimento della paternità (articoli 243-bis – 247 c.c.), alla contestazione o al reclamo dello status (articoli 248 e 249 c.c.), all’impugnazione del riconoscimento di figlio nato fuori dal matrimonio (articoli 263 – 268 c.c.) e alla dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità (art. 269 ss c.c.). Non costituiscono, invece, azioni di stato, perché non si concludono con una sentenza costitutiva dello stato di figlio, altri procedimenti sempre concernenti la filiazione quali il procedimento per il riconoscimento tardivo in caso di mancato consenso del genitore che ha effettuato per primo il riconoscimento (art. 250 c.c.), né l’azione per ottenere il mantenimento nei casi in cui non sia possibile o ammissibile proporre l’azione per la dichiarazione giudiziale (art. 279 c.c.); nel primo caso la sentenza del giudice è solo autorizzativa del riconoscimento, mentre nel secondo caso il procedimento giudiziario prevede solo un accertamento incidentale di compatibilità genetica e non l’attribuzione dello status. Tuttavia per ragioni di completezza sul tema del conflitto di interessi la rassegna sulle azioni di stato in materia di filiazione può anche estendersi a questi due procedimenti.
In particolare:
– In alcune ipotesi di azioni di stato previste nel nuovo libro VII sulla filiazione del codice civile (come riformato dalla legge 10 dicembre 2010, n. 219 e dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154) è prescritta la consueta nomina di un curatore speciale in sostituzione dei genitori per supplire ad una situazione di oggettivo conflitto di interessi tra rappresentato e rappresentante (per il promovimento del disconoscimento nei casi previsti nell’ultimo comma dell’art. 244, per l’integrazione del contradditorio nel disconoscimento ex art. 247; per il promovimento dell’impugnazione del riconoscimento: art. 264; per l’azione di mantenimento ex art. 279 con le riserve cui si è accennato in quanto questa azione non costituisce una azione di stato) ovvero per risolvere un problema di difetto di capacità dell’interessato (nomina del curatore per supplire allo stato di incapacità del figlio nel disconoscimento: art. 245, secondo comma, ovvero nell’azione di contestazione dello stato: art. 248 o di reclamo dello stato:art. 249). Per il promovimento dell’azione di disconoscimento e di impugnazione del riconoscimento la legge attribuisce anche al figlio minore ultraquattordicenne il potere diretto di pretendere la nomina di un curatore speciale in applicazione sia del principio generale indicato nell’art. 79 c.p.c. in base al quale lo stesso rappresentato incapace può richiedere la nomina del curatore sia soprattutto di principi più specifici di tutela proprio dei diritti del minore. Costituisce certamente una ipotesi inedita di reazione ad un evidente conflitto di interessi tra il figlio e i suoi genitori nelle situazioni che legittimerebbero il disconoscimento, l’attribuzione al genitore biologico del potere di richiedere la nomina di un curatore speciale per l’inizio dell’azione (art. 244, ultimo comma, c.c. nel testo modificato dall’art. 18 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154).
– In altre ipotesi la nomina del curatore speciale è prescritta non per sostituire il rappresentante in conflitto di interessi con il rappresentato, ma per consentire all’interessato di poter perseguire, instaurando il contraddittorio con il curatore, il diritto azionato che altrimenti non potrebbe trovare tutela processuale. Si tratta delle ipotesi in cui la nomina di un curatore speciale viene prevista allorché mancano gli eredi – che dovrebbero essere convenuti in giudizio – del soggetto deceduto (così in caso di morte del presunto padre il disconoscimento può promuoversi nei confronti dei discendenti o degli ascendenti e in loro mancanza nei confronti di un curatore speciale: art. 247; il reclamo di stato di figlio se manca il presunto padre può promuoversi nei confronti degli eredi e in mancanza nei confronti di un curatore speciale: art. 249; l’accertamento giudiziale della paternità in caso di morte del presunto genitore e di mancanza di eredi può promuoversi nei confronti di un curatore speciale: art. 276). In queste ipotesi si è in presenza in verità di una situazione di conflitto di interessi piuttosto anomala determinata dal fatto che l’interesse processuale del soggetto titolare del diritto di azione sarebbe frustrato e destinato a soccombere ove non soccorresse la nomina del curatore;
– In altre ipotesi ancora a situazioni di conflitto di interesse tra figli e genitori il codice civile reagisce non prescrivendo la nomina di un curatore speciale, ma attraverso modalità che consentono ugualmente il controllo delle funzioni genitoriali e il perseguimento del migliore interesse del minore (per esempio – con le riserve cui si è accennato circa l’inquadrabilità di questo procedimento tra le azioni di stato – l’art. 250 del codice civile prevede un meccanismo di verifica della plausibilità del dissenso espresso dal genitore che per primo ha riconosciuto il figlio rispetto alla richiesta di riconoscimento tardivo da parte dell’altro genitore nel quale la verifica dell’interesse del minore è imposta attraverso l’ascolto del figlio minore; ugualmente l’ascolto del figlio è previsto per il suo inserimento nella famiglia di uno dei genitori: art. 252 ovvero per l’acquisizione del cognome: art. 262; nel caso di riconoscimento o di accertamento della filiazione in caso di nascita da una relazione incestuosa gli articoli 251 e 278 prevedono una autorizzazione da parte del tribunale per i minorenni). La Corte costituzionale, intervenendo proprio sull’art. 250 c.c. ha irrobustito le garanzie nei confronti del minore prevedendo che in questi procedimenti debba essere nominato un curatore al minore sul presupposto che egli ne è parte processuale (Corte cost. 11 marzo 2011, n. 83; Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21101; Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729; Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2012, n. 5884; App. Napoli, 17 aprile 2013 in Corriere del Merito, 2013, 6, 595).
– Del tutto inedito, infine, è l’utilizzo di un termine massimo di cinque anni per l’esperibilità dell’azione di disconoscimento e dell’impugnazione del riconoscimento da parte dei legittimati diversi dal figlio (nuovo testo degli articoli 244 e 263 c.c.). Non sarà più possibile alcun procedimento ad iniziativa dei genitori o degli altri legittimati ma solo ad iniziativa del figlio. Il conflitto di interessi è risolto dando la prevalenza all’interesse del figlio rispetto a quello degli altri legittimati all’azione.
In adesione al principio di tipicità per cui l’accertamento dello stato di filiazione non può essere richiesto se non dai soggetti ai quali il relativo potere è attribuito espressamente, tra le cause riguardanti lo stato di filiazione è previsto che il pubblico ministero (il quale non ha azione per l’accertamento di uno status) possa sollecitare la promozione delle sole azioni di disconoscimento (art. 244 ultimo comma c.c.) e di impugnazione di riconoscimento (art. 264 c.c.) – quindi delle sole azioni con cui si elimina uno status che non corrisponde al vero – attraverso la richiesta di nomina di un curatore speciale. Nelle altre cause di stato della filiazione il pubblico ministero “deve intervenire a pena di nullità rilevabile d’ufficio” (art. 70 n. 3 c.p.c.) ed all’uopo il giudice davanti al quale è proposta la causa ordina che gli atti gli siano comunicati affinché possa intervenire (art. 71 c.p.c.) anche se le regole del contraddittorio nel rito a cognizione piena impongono ovviamente all’attore la notifica dell’atto introduttivo anche al pubblico ministero. Il pubblico ministero quando interviene nelle cause che avrebbe potuto proporre ha gli stessi poteri che competono alle parti e, quindi, per esempio può impugnare la sentenza. Nei casi in cui deve soltanto intervenire – e salvo che ciò avvenga nei giudizi davanti alla Corte di cassazione – può solo produrre documenti, dedurre prove, prendere conclusioni nei limiti delle domande proposte dalle parti (art. 72 c.p.c.).
Tanto premesso in linea generale possono ore essere esaminati alcuni aspetti problematici delle azioni di stato con riferimento al tema specifico del conflitto di interessi includendo per ragioni di completezza anche il procedimento di cui all’art. 250 c.c. e quello di cui all’art. 279 c.c. che non concludendosi con una sentenza attributiva dello status non possono essere considerate azioni di stato.
a) L’azione di disconoscimento della paternità (articoli 243-bis – 247 c.c.)
Con l’azione di disconoscimento di paternità – nella versione riformata con la legge 10 dicembre 2010, n. 219 e con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 – è possibile vincere la presunzione generale di paternità del marito di cui al nuovo art. 231 c.c. secondo cui “il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio”, considerandosi concepito durante il matrimonio “il figlio nato quando non sono ancora trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 232 c.c. il cui secondo comma conferma che “la presunzione non opera decorsi trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale o dalla omologazione di separazione consensuale ovvero dalla data della comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi sono stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione o dei giudizi previsti nel comma precedente”).
Non sono più indicati presupposti specifici per il disconoscimento è quindi non è più necessaria la prova dei presupposti che erano indicati nel previgente art. 235 c.c. (cioè mancata coabitazione nel periodo del concepimento, impotenza, adulterio: quest’ultimo eliminato da Corte cost. 6 luglio 2006, n. 266) salvo allorché serva dare la prova dei medesimi presupposti per esercitare l’azione oltre i termini dei sei mesi per la madre e dell’anno per il padre come previsto nell’art. 244 codice civile. Pertanto chi esercita l’azione deve solo a provare che “non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre. La sola dichiarazione della madre non esclude la paternità” (art. 235 c.c.). Diventa decisiva, in sostanza, in questi procedimenti la prova genetica.
La nomina di un curatore speciale – sintomatica del conflitto di interessi che in materia di disconoscimento il legislatore prende in considerazione – è prevista in quattro casi: a) quando uno dei legittimati passivi è minore età o in condizioni di incapacità piena o ridotta (art. 247 comma 2 e 3 c.c.); b) per la promozione della causa quando lo richiede un minore che abbia compiuto quattordici anni (art. 244 ultimo comma prima parte c.c.) ovvero quando lo richiedono il pubblico ministero o “l’altro genitore” nell’ipotesi in cui il soggetto da disconoscere sia un minore di età inferiore ai quattordici anni (art. 244 ultimo comma ultima parte c.c.); c) allorché il figlio o gli altri legittimati si trovano in stato di interdizione ovvero versano in condizioni di abituale grave infermità di mente, che li rendano incapaci di provvedere ai propri interessi; d) nelle ipotesi di morte degli eredi di uno dei legittimati passivi (art. 247 comma 4 c.c.). In tutti questi casi il contraddittorio non può dirsi validamente instaurato se non viene previamente nominato un curatore speciale.
1) La prima ipotesi di nomina del curatore speciale è quella per così dire fisiologica nel caso in cui l’azione sia promossa dalla madre o dal marito di lei i quali prima di procedere dovranno richiedere, appunto, la nomina di un curatore speciale per il minore. In effetti l’art. 247 c.c. – non modificato dalla riforma sulla filiazione del 2012/2013 – prevede al primo comma che nell’azione di disconoscimento della paternità sono litisconsorti necessari “il presunto padre [cioè il marito], la madre e il figlio”. Pertanto il figlio è inevitabilmente parte processuale del giudizio di disconoscimento e quindi, se si tratta di figlio minore, “l’azione è proposta in contraddittorio con un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso” (secondo comma).
L’art. 244 c.c. – nel testo completamente rivisto dall’art. 18 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154 – prevede che l’azione da parte della madre deve essere proposta nel termine di sei mesi dalla nascita del figlio ovvero dal giorno in cui la madre è venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito al tempo del concepimento mentre per il marito il termine è di un anno che decorre dal giorno della nascita quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio; se prova di aver ignorato la propria impotenza di generare ovvero l’adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza. Se il marito non si trovava nel luogo in cui è nato il figlio il giorno della nascita, il termine decorre dal giorno del suo ritorno o dal giorno del ritorno nella residenza familiare se egli ne era lontano. In ogni caso, se egli prova di non aver avuto notizia della nascita in detti giorni, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto notizia. La novità più significativa è che sia la madre che il marito non possono in ogni caso proporre più l’azione oltre cinque anni dal giorno della nascita (pertanto in queste cause dopo la riforma del 2013 il figlio sarà sempre inevitabilmente minore e rappresentato dal curatore) mentre per il figlio l’azione è diventata imprescrittibile. Prima della riforma del 2013 sulla filiazione il figlio era ammesso ad esercitare l’azione “entro un anno dal compimento dalla maggiore età o dal momento in cui viene successivamente a conoscenza dei fatti che rendono ammissibile il riconoscimento”).
2) L’altra ipotesi di nomina del curatore speciale (istanza del minore quattordicenne ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore) è disciplinato nell’ultimo comma dell’art. 244 c.c. il cui nuovo testo ripropone il meccanismo secondo cui “L’azione può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto i quattordici anni [sedici prima della riforma del 2013] ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore, quando si tratta di minore di età inferiore”. Quindi oltre il quattordicesimo anno l’iniziativa non può che essere assunta dal figlio.
Una prima considerazione concernente proprio il tema del conflitto di interessi tra minore e suoi genitori legittimi o comunque tra il minore e chi (pubblico ministero o altro genitore) ha sollecitato la promozione dell’azione può essere immediatamente svolta. L’art. 244 c.c. – anche nel testo riformato – non prevede espressamente la previa valutazione dell’interesse del minore al disconoscimento. Ed in effetti il testo della norma non prevede che l’azione possa in alcuni casi configgere con l’interesse del minore (si pensi all’ipotesi in cui a distanza di tempo – oggi comunque non oltre i cinque anni dalla nascita – un’azione di disconoscimento possa compromettere gli equilibri di un bambino all’interno della famiglia senza nessuna certezza che al disconoscimento possa poi seguire il riconoscimento). È stata, però, la Corte costituzionale, esprimendosi sul punto con una sentenza interpretativa di rigetto (Corte cost. 27 novembre 1991, n. 429), a precisare che il diritto vigente, correttamente interpretato, fornisce strumenti sufficienti per proteggere il minore contro iniziative avventate ed i genitori legittimi contro azioni temerarie o ricattatorie: a) allorquando si tratti di azione di disconoscimento relativa a minore infrasedicenne (oggi infraquattordicenne); infatti dalla ratio della norma si desume la regola per cui la ricerca della paternità, pur quando concorrano specifiche circostanze che la facciano apparire giustificata non è ammessa ove risulti un interesse del minore contrario alla privazione dello stato di figlio legittimo e, rispettivamente, all’assunzione dello stato di figlio naturale nei confronti di colui contro il quale si intende promuovere l’azione; interesse che deve essere apprezzato dal giudice soprattutto in funzione dell’esigenza di evitare che l’eventuale mutamento dello status familiare del minore possa pregiudicare gli equilibri affettivi o l’educazione; b) quando la domanda di nomina del curatore speciale è proposta dal PM nel presunto interesse di un minore infrasedicenne (oggi infraquattordicenne), al giudice è affidato un ufficio di tutela di un soggetto incapace, con la conseguenza che egli deve allargare il campo di acquisizione delle sommarie informazioni, includendovi tutti gli elementi necessari o utili per valutare la sussistenza dell’interesse del minore all’esperimento dell’azione (tra gli altri, audizione dei genitori legittimi ed eventualmente anche delle persone interessate che hanno eccitato l’iniziativa del PM); c) il provvedimento del tribunale – che ai sensi dell’art. 737 c.p.c. ha la forma del decreto motivato – deve giustificare congruamente la valutazione dell’interesse del minore sui cui la decisione si fonda e indicare i mezzi informativi utilizzati. Poiché la legge prevede che il minore possa attivarsi per l’azione di disconoscimento (richiedendo addirittura egli stesso, se ultraquattordicenne, la nomina di un curatore) è evidente che in tal caso la rappresentanza processuale del minore non può essere lasciata alla madre o al marito di lei (cioè al padre legittimo del minore). Il conflitto di interessi è in re ipsa. Si tratta di un conflitto di interessi in verità più ampio a cui la legge con questo meccanismo pone riparo ed è il conflitto tra il diritto (imprescrittibile) attribuito al figlio e il diritto (prescrittibile) attribuito alla madre e al marito di lei. Se la madre e il marito di lei non promuovono l’azione o lasciano decorrere i termini di prescrizione, il figlio maggiorenne potrà in seguito sempre promuovere il disconoscimento mentre nel periodo della minore età la nomina di un curatore per il promovimento dell’azione può essere richiesta direttamente dal figlio ultraquattordicenne ovvero – sotto i quattordici anni – dal “pubblico ministero” o “dall’altro genitore”.
A proposito del potere attribuito al “pubblico ministero” e “all’altro genitore” di sollecitare la nomina di un curatore per l’esercizio del disconoscimento è necessaria qualche ulteriore osservazione. L’art. 247 c.c. – non modificato dalla riforma sulla filiazione del 2012/2013 – prevede al primo comma che nell’azione di disconoscimento della paternità sono litisconsorti necessari “il presunto padre [cioè il marito], la madre e il figlio”. Non vengono menzionati altri soggetti. Tuttavia, come si è detto, l’ultimo comma dell’art. 244 c.c. (nel testo modificato dall’art. 18 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) attribuisce la legittimazione a richiedere la nomina di un curatore anche all’altro genitore. L’espressione non si riferisce al genitore decaduto dal diritto di promuovere l’azione per essere trascorso il termine di decadenza di sei mesi per la madre e di un anno per il marito indicati nei primi commi della norma. Se così fosse non è chiaro perché è stata utilizzata l’espressione “l’altro genitore” e non quella di “soggetti di cui ai commi precedenti” cioè la madre e il marito di lei. Ugualmente parlare di “altro genitore” con riferimento al marito della madre è un non senso. E d’altro lato se il legislatore della riforma ha indicato un termine massimo di prescrizione dell’azione di cinque anni per la madre e per il marito della madre (art. 244, quarto comma, c.c.) che senso avrebbe consentire l’aggiramento di questo sbarramento attribuendo a tali soggetti il potere di richiedere al giudice la nomina di un curatore oltre il termine in questione (e cioè fino al compimento dei 14 anni di età del figlio)? Pertanto l’espressione altro genitore sembra riferirsi al padre biologico che è effettivamente l’altro genitore oltre alla madre. La norma cioè attribuisce al genitore biologico (oltre al pubblico ministero) il potere di richiedere direttamente al giudice la nomina del curatore speciale fino al compimento del quattordicesimo anno di età del figlio. Oltre i quattordici anni la decisione resta sempre del figlio.
Prima di questa riforma il ruolo del genitore biologico era assolutamente di secondo piano in quanto il padre biologico poteva solo rivolgersi al pubblico ministero auspicando la presentazione da parte di quest’ultimo della richiesta di nomina del curatore speciale. Pertanto l’asserito padre biologico nell’azione di disconoscimento non ha titolo a promuovere o a partecipare alla causa di disconoscimento ma può richiedere al giudice (presidente del tribunale) di nominare un curatore speciale per l’inizio dell’azione.
Il Presidente del tribunale è tenuto a vagliare l’istanza del pubblico ministero o del padre biologico (“assunte sommarie informazioni”) e di accoglierla o respingerla dopo aver valutato l’interesse del minore infraquattordicenne e quindi l’opportunità dell’azione (Corte cost., 27 novembre 1991, n. 429). In verità l’interesse del minore secondo questa sentenza deve essere necessariamente sempre valutato dal tribunale ma l’ipotesi in cui la valutazione si rende veramente opportuna è soprattutto quella in cui un terzo (cioè il pubblico ministero o l’altro genitore) chiede l’avvio del procedimento. Se l’istanza di nomina del curatore speciale è fatta dal figlio ultraquattordicenne il presidente ha senz’altro l’obbligo di nominare un curatore come la sentenza della corte costituzionale da ultima citata ha espressamente riconosciuto (osservando che in tal caso il giudice non ha il potere di scrutinare un interesse la cui gestione il legislatore ha lasciato al minore che ha superato l’età indicata). Contro il decreto di nomina è sempre possibile il reclamo alla corte d’appello da parte sia della madre (o del marito di lei) che del pubblico ministero o del padre biologico che avessero fatto la richiesta o dello stesso figlio quattordicenne che si vedesse negata la nomina del curatore speciale (il quale però prima dovrebbe chiedere ex articoli 78,79 e 80 c.p.c. la nomina di un apposito curatore per il reclamo).
3) Il terzo caso di nomina del curatore speciale è previsto nell’art. 245 c.c. allorché la parte interessata a promuovere l’azione di disconoscimento di paternità si trova in stato di interdizione per infermità di mente ovvero versa in condizioni di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, la decorrenza del termine indicato nell’articolo 244 è sospesa nei suoi confronti, sino a che duri lo stato di interdizione o durino le condizioni di abituale grave infermità di mente (primo comma) mentre quando il figlio si trova in stato di interdizione ovvero versa in condizioni di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, l’azione può essere altresì promossa – in base ai principi generali che interessano i soggetti maggiorenni incapaci – da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del pubblico ministero, del tutore, o dell’altro genitore. Per gli altri legittimati l’azione può essere proposta dal tutore o, in mancanza di questo, da un curatore speciale, previa autorizzazione del giudice (secondo comma).
4) L’ultima ipotesi di nomina del curatore speciale concerne l’azione promossa contro gli eredi (legittimazione passiva) dove si prevede che in mancanza di eredi debba essere nominato un curatore speciale.
La riforma del 2013 sulla filiazione non ha toccato il tema della trasmissibilità (attiva e passiva) dell’azione agli eredi; tema di cui si occupa l’art. 246 c.c. il quale per quanto attiene alla trasmissione del diritto di azione ammette i discendenti e gli ascendenti del marito o della madre oppure il coniuge o i discendenti del figlio ad esercitarla, quando il titolare muore senza averla promossa e prima che siano trascorsi i termini sopra indicati. Il nuovo principio di imprescrittibilità dell’azione per il figlio comporta la conseguenza che anche il coniuge e i discendenti del figlio morto senza aver promosso l’azione saranno anche loro sempre ammessi ad esercitarla senza limiti di tempo.
Anche la legittimazione passiva è trasmissibile agli eredi. L’art. 247 c.c. (come detto non modificato dalla riforma del 2013) indica come legittimati passivi all’azione, e quindi litisconsorti necessari la madre, il marito di lei (cioè il presunto padre) e il figlio. L’ultimo comma dell’art. 247 c.c. prescrive che, in caso di morte dei litisconsorti, l’azione si propone nei confronti delle medesime persone alle quali si trasmette il potere di azione e cioè i discendenti e gli ascendenti (congiuntamente) del presunto madre (marito) o della madre ovvero il coniuge o i discendenti (sempre congiuntamente, anche se viene usata la disgiuntiva o) del figlio; in mancanza degli eredi indicati l’azione è promossa nei confronti di un curatore nominato dal giudice.
b) L’azione di contestazione dello stato di figlio (nato nel matrimonio) (art. 248)
Il conflitto di interessi che emerge come rilevante in questa azione è quello – al quale si è accennato – in cui la nomina del curatore speciale è prescritta non per sostituire il rappresentante in conflitto di interessi con il rappresentato, ma per consentire all’interessato di poter perseguire, instaurando il contraddittorio con il curatore, il diritto azionato che altrimenti non potrebbe trovare tutela processuale.
Con l’azione prevista nell’art. 248 c.c. (nel testo modificato dall’art. 20 del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154) e cioè con l’azione di contestazione dello stato di figlio (al quale lo status è stato attribuito in base alla presunzione di paternità per chi nasce nel matrimonio), si intende eliminare per motivi diversi da quelli alla base dell’azione di disconoscimento lo status erroneamente attribuito ad una persona nata nel matrimonio. L’azione tende all’eliminazione di difformità nello status di figlio nato nel matrimonio diverse da quelle connesse alla contestazione della paternità (cioè diverse da quelle poste a base dell’azione di disconoscimento), cioè gli elementi della nascita nel matrimonio documentati dall’atto di nascita, come il parto, la maternità o l’identità del nato.
L’azione “spetta a chi dall’atto di nascita del figlio risulti suo genitore e a chiunque vi abbia interesse” ed è è imprescrittibile. Quando l’azione è proposta nei confronti di persone premorte o minori o altrimenti incapaci, si osservano le disposizioni dell’art. 247 e quindi “se una delle parti è minore o interdetta l’azione è proposta in contraddittorio con un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso” (art. 247, secondo comma) e “se una delle parti è un minore emancipato o un maggiorenne inabilitato l’azione è proposta contro la stessa assistita da un curatore parimenti nominato dal giudice” (art. 247, secondo comma), In caso di morte dei litisconsorti, l’azione si propone nei confronti dei discendenti e degli ascendenti (congiuntamente) del presunto padre (marito) o della madre ovvero nei confronti del coniuge o dei discendenti del figlio; in mancanza degli eredi indicati l’azione è promossa nei confronti di un curatore nominato dal giudice.
c) L’azione di reclamo dello stato di figlio (nato nel matrimonio) (art. 249)
Analogamente a quanto si è osservato per l’azione di contestazione dello stato di figlio, in seguito alle modifiche che il D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154 ha apportato anche all’art. 249 c.c. il conflitto di interessi che emerge come rilevante nell’azione di reclamo dello stato di figlio (nato nel matrimonio) è diverso da quello alla base delle regole ordinarie che prevedono la nomina di un curatore speciale allorché si debba instaurare correttamente il contraddittorio quando sono deceduti i litisconsorti della causa (come emergeva dal previgente testo della disposizione).
Per rendersene conto è sufficiente esaminare il nuovo testo dell’art. 249 c.c. nel quale si conferma che l’azione è imprescrittibile e che spetta al figlio medesimo; ma, se egli non l’ha promossa ed è morto in età minore o nei cinque anni dopo aver raggiunto la maggiore età, può essere promossa dai discendenti di lui. Essa deve essere proposta contro entrambi i genitori e, in loro mancanza, contro i loro eredi.
Nel nuovo testo si aggiunge che in mancanza di eredi, la domanda deve essere proposta nei confronti di un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso. Nel testo precedente alla riforma sulla filiazione del 2013 la possibilità di proporre l’azione nei confronti di un curatore, in caso di morte dei genitori e in mancanza di eredi non era prevista e pertanto in mancanza di eredi dei genitori deceduti l’azione restava improponibile. E già questa modifica è sintomatica della soluzione di un conflitto di interessi altrimenti non risolvibile. Vi è però nel nuovo testo qualcosa di più che induce anche ad un’altra considerazione relativa al modo con cui la legge reagisce al conflitto di interessi tra il figlio e i genitori. Infatti si prevede – mediante riferimento al sesto comma dell’art. 244 e al secondo comma dell’art. 245 – rispettivamente che “l’azione può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto i quattordici anni, ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore, quando si tratta di minore di età inferiore” e che “quando il figlio si trova in stato di interdizione ovvero versa in condizioni di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, l’azione può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del pubblico ministero, del tutore, o dell’altro genitore. Per gli altri legittimati l’azione può essere proposta dal tutore o, in mancanza di questo, da un curatore speciale, previa autorizzazione del giudice”.
d) L’impugnazione del riconoscimento del figlio (articoli 263 – 268 c.c.)
Nel contesto della filiazione fuori dal matrimonio l’azione più importante che elimina uno status non veritiero è l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità’. Si tratta della principale azione di caducazione dello status di figlio nato fuori dal matrimonio. Il primo comma dell’art. 263 c.c. – non toccato dalla riforma sulla filiazione che ha interessato però la parte rimanente della disposizione – prevede che “il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall’autore del riconoscimento, da colui che è stato riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse”. Chi asserisce di essere il padre biologico, in quanto soggetto che vi ha certamente interesse, è, quindi, tra i soggetti che può promuovere l’azione e partecipare poi a pieno titolo al processo (come ha precisato Cass. civ. Sez. I, 15 aprile 2005, n. 7924 che ha ritenuto il sistema non lesivo dei principi costituzionali e Cass. civ. Sez. I, 16 marzo 1994, n. 2515).
Gli altri commi dell’art. 263 c.c. (introdotti dall’art. 18 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) prevedono che l’azione di impugnazione da parte dell’autore del riconoscimento deve essere proposta nel termine di un anno che decorre dal giorno dell’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. Se l’autore del riconoscimento prova di aver ignorato la propria impotenza al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza; nello stesso termine, la madre che abbia effettuato il riconoscimento è ammessa a provare di aver ignorato l’impotenza del presunto padre. L’azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento. L’azione di impugnazione da parte degli altri legittimati deve essere proposta nel termine di cinque anni che decorrono dal giorno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. Riguardo al figlio l’azione è, invece, imprescrittibile.
Nell’azione deve essere valutato anche l’interesse del minore alla caducazione dello status (Corte cost., 18 dicembre 2017, n. 272).
Secondo quanto affermato da Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2016, n. 1957 nel giudizio di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ex artt. 263 e 264 cod. civ., così come nell’azione di disconoscimento di paternità disciplinata agli artt. 243-bis ss. cod. civ., è sempre configurabile un potenziale conflitto di interessi tra il minore ed il genitore cui spetta la rappresentanza processuale, quali soggetti legittimati passivi e litisconsorti necessari, con la conseguenza che il minore ha il diritto di contraddire nel giudizio attraverso la nomina di un curatore speciale, nonostante la lacuna normativa sul punto. La nomina è necessaria a pena di nullità del relativo procedimento per violazione del principio del contraddittorio.
La giurisprudenza ha anche riflettuto sul conflitto di interessi tra il minore e il genitore esercente la responsabilità genitoriale, nel caso di azione promossa da chi ha effettuato il riconoscimento oggetto dell’impugnazione (nella specie il coniuge del genitore naturale del minore), ritenendo che un conflitto di interessi possa anche non esserci e ammettendo, in questa ipotesi, che il genitore potrebbe legittimamente rappresentare il figlio (Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2001, n. 5533). Si legge nella decisione che il conflitto di interessi nel rapporto processuale tra genitore esercente la responsabilità genitoriale e figlio è ipotizzabile soltanto allorché i due interessi siano nel caso concreto incompatibili tra loro, nel senso che l’interesse del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, non si concili con quello del rappresentato; l’esistenza di una siffatta situazione di conflitto, il cui apprezzamento è rimesso al giudice di merito, non è normativamente presunta nel caso dell’azione di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità. Ne consegue che in ordine a tale azione, trova applicazione, in mancanza della deduzione di una concreta situazione di conflitto di interessi, la regola secondo cui il genitore esercente la responsabilità genitoriale è legittimato, nell’interesse del figlio minore, a resistere al giudizio da altri intentato.
La scadenza del termine massimo di cinque anni previsto per l’esperibilità dell’azione di disconoscimento e dell’impugnazione del riconoscimento da parte dei legittimati diversi dal figlio renderà inattaccabile lo status a meno che il figlio non ritenga di dover esercitare il diritto imprescrittibile che la legge gli attribuisce. E’ anche questo un modo di risolvere un conflitto di interessi dando la prevalenza all’interesse del figlio rispetto a quello degli altri legittimati all’azione.
Il ruolo di possibile attore della causa che la legge riconosce all’asserito padre biologico nell’impugnazione del riconoscimento si differenzia da quello riconosciutogli nel procedimento di disconoscimento dove l’asserito padre biologico non ha legittimazione alcuna a promuovere o ad intervenire nel disconoscimento di paternità, ma soltanto il potere (nuovo testo dell’art. 244 c.c.) di presentare istanza di nomina di un curatore speciale per il minore infraquattordicenne affinché possa essere iniziata la causa. Questa diversità di poteri del padre biologico nell’azione di disconoscimento e in quella di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità potrebbe porre qualche problema di legittimità costituzionale in quanto in un sistema orientato soprattutto al favor veritatis – che la riforma sulla filiazione del 2013 oggettivamente ha perseguito – il ruolo eventuale di parte processuale del padre biologico non dovrebbe restare illogicamente mortificato di fronte alla famiglia matrimoniale (terreno tradizionalmente permeato dal favor legitimitatis). Non può neanche tacersi, inoltre, che un profilo problematico è certamente costituito dal fatto che l’iniziativa del padre biologico potrebbe stravolgere l’equilibrio psicologico del minore nella famiglia in cui vive (fondata o meno sul matrimonio), senza peraltro che sussista la certezza che alla eliminazione dello status consegua poi l’azione per il riconoscimento da parte del padre biologico. Da questo punto di vista l’introduzione in entrambe le azioni (cfr nuovo quarto comma dell’art. 244 c.c. e nuovo ultimo comma dell’art. 263 c.c.) di un termine massimo di cinque anni dalla nascita per l’esperimento delle rispettive azioni – salva l’imprescrittibilità in entrambi i casi per il figlio – può considerarsi una soluzione soddisfacente.
Per quanto riguarda l’impugnazione da parte del figlio minore il nuovo art. 264 c.c. – anch’esso riformato nel 2013 – prevede che “l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto quattordici anni, ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore che abbia validamente riconosciuto il figlio, quando si tratti di figlio di età inferiore.”.
La possibilità che l’autorità giudiziaria venga a conoscenza della eventuale falsità di riconoscimenti di figli nati fuori dal matrimonio è garantita da tre meccanismi giuridici specifici.
In primo luogo, ed in sede civile, dalla normativa in tema di adozione di minori nella parte in cui prevede che l’ufficiale di stato civile debba trasmettere al tribunale per i minorenni (oggi tribunale ordinario dopo la modifica dell’art. 38 disp. att. c.c. effettuata dalla riforma del 2013 sulla filiazione) “comunicazione, sottoscritta dal dichiarante, dell’avvenuto riconoscimento da parte di persona coniugata di un figlio non riconosciuto dall’altro genitore”(art. 74 della legge 4 maggio 1983 n. 184) e, quindi, in tutte i casi in cui una persona coniugata riconosca un figlio da solo, senza che l’altro genitore biologico ne effettui anche lui il riconoscimento; il tribunale, in base a quanto prevede il secondo comma della norma citata “nel caso in cui vi siano fondati motivi per ritenere che ricorrano gli estremi dell’impugnazione del riconoscimento… assume, anche d’ufficio, i provvedimenti di cui all’art. 264 secondo comma del codice civile” il che significa che, di fronte ad un fondato sospetto di non veridicità del riconoscimento potrebbe, anche senza istanza del pubblico ministero, nominare il curatore speciale perché eserciti l’azione di impugnazione secondo, appunto, quanto prevede l’art. 264 comma 2 c.c.
La conoscibilità dei falsi riconoscimenti è, in secondo luogo, assicurata dall’art. 252 c.c. il quale prevede che quando uno dei coniugi durante il matrimonio riconosca un figlio la decisione circa l’affidamento e l’eventuale inserimento del figlio nella famiglia legittima dell’autore del riconoscimento spetta al tribunale (oggi ordinario secondo il testo attuale dell’art. 38 disp. att. c.c.) il quale, naturalmente – e sempre che la domanda in proposito gli venga inoltrata – potrebbe effettuare quegli accertamenti che, in caso di sospetto di falso riconoscimento, possono condurre alla nomina del curatore speciale per l’esercizio dell’azione. In proposito l’art. 252, comma 1 c.c. prevede espressamente che, a seguito della domanda di affidamento e di inserimento di un figlio naturale nella sua famiglia legittima da parte dell’autore del riconoscimento, il tribunale “valutate le circostanze, decide in ordine all’affidamento del minore e adotta ogni altro provvedimento a tutela del suo interesse morale e materiale”.
L’autorità giudiziaria può, infine, venire a conoscenza della falsità di eventuali riconoscimenti attraverso il meccanismo consueto della segnalazione delle notizie di reato al pubblico ministero da parte della polizia giudiziaria, considerato che il falso riconoscimento di un figlio costituisce reato di alterazione di stato se realizzato in sede di formazione dell’atto di nascita, cioè in sede di prima dichiarazione del riconoscimento (art. 564 c.p. punito con la reclusione da cinque a quindici anni) oppure reato di false attestazioni all’ufficiale di stato civile se realizzato in sede di riconoscimento tardivo (art. 495 c.p. punito con la reclusione non inferiore ad un anno e fino a tre anni).
Oltre all’impugnazione di cui si è parlato, cosiddetta per difetto di veridicità sono previste altre due impugnazioni del riconoscimento: a) per violenza, quando il riconoscimento – che è un atto personalissimo e libero – è stato effettuato sotto la pressione di una violenza anche esercitata da un terzo (art. 265 c.c.); b) per effetto di interdizione, quando il riconoscimento è stato effettuato da una persona interdetta per infermità di mente (art. 266 c.c.).
L’azione di impugnazione del riconoscimento per violenza può essere esercitata entro il termine di decadenza di un anno dal giorno in cui la violenza è cessata o, se l’autore del riconoscimento è minore, entro un anno dal conseguimento della maggiore età (art. 265 c.c.). L’azione di impugnazione del riconoscimento per effetto di interdizione giudiziale può essere esercitata sempre dal rappresentante dell’interdetto e, dopo la revoca dell’interdizione, dall’autore del riconoscimento entro il termine di un anno dalla data della revoca (art. 266 c.c.). In questi due ultimi casi di impugnazione del riconoscimento – che sono anche essi di competenza del tribunale ordinario e che si svolgono sempre con procedura contenziosa – l’azione, in caso di morte dell’interessato, può essere promossa dai suoi discendenti, dagli ascendenti o dagli eredi, sempre però, che non sia scaduto il termine indicato negli art. 265 e 266 c.c.
In base a quanto prevede espressamente l’art. 268 c.c. il tribunale di fronte al quale viene promosso uno dei tre giudizi di impugnazione sopra ricordati, “può dare, in pendenza del giudizio, provvedimenti che ritenga opportuni nell’interesse del figlio”. Il provvedimento al quale evidentemente la norma si riferisce è soprattutto riferibile all’impugnazione di riconoscimento per difetto di veridicità e consiste evidentemente nell’allontanamento del minore dalla persona che ha effettuato falsamente il riconoscimento o dal nucleo familiare nel quale il minore sia stato fraudolentemente inserito.
e) La dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità (articoli 269 – 277 c.c.)
Le norme che disciplinano questa azione non sono state sostanzialmente toccate dalla riforma del 2013 sulla filiazione.
Nel caso di azione promossa nell’interesse del minore dal genitore esercente la responsabilità genitoriale fino alla sentenza con cui la Corte costituzionale dichiarando incostituzionale l’art. 274 c.c. (Corte cost. 10 febbraio 2006, n. 50) ha eliminato la fase di ammissibilità che prima era obbligatoria per poter esercitare l’azione. L’ultimo comma dell’art. 274 c.c prevedeva la facoltà per il giudice (allora il tribunale per i minorenni) di nominare un curatore speciale al minore; non si trattava, però, di un obbligo come la giurisprudenza aveva chiarito (Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1993, n. 2576).
La giurisprudenza ha poi sempre ribadito questa indicazione affermando espressamente che nel giudizio per la dichiarazione giudiziale di paternità la nomina o il diniego di nomina di un curatore speciale secondo il testuale tenore dell’art. 274 comma 4 c.c. costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice di merito che può farvi luogo anche prima di ammettere l’azione, ai fini della rappresentanza in giudizio. Si tratta di un atto che non incide sui diritti del minore e che non ha alcuna autonomia nell’ambito del procedimento (in quanto la rappresentanza del minore è in ogni caso affidata al genitore esercente la potestà ai sensi dell’art. 273 comma 1 c.c. e che è privo di efficacia decisoria, non spiegando riflessi di sorta sul provvedimento che dichiara ammissibile l’azione. Conseguentemente, trattandosi di un atto a carattere meramente ordinatorio, esso non è ricorribile per cassazione neanche con il ricorso straordinario per violazione di legge previsto nell’art. 111 Cost. (Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 1997, n. 9316).
La Corte di cassazione, chiamata a verificare se la non obbligatorietà della nomina del curatore speciale in caso di azione di riconoscimento della paternità o maternità naturale su un minore, sia in contrasto con i principi costituzionali, ha ritenuto di considerare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 273 c.c. con riferimento agli art 2 e 24 Cost. nella parte in cui, in ipotesi di figlio minorenne, attribuisce al genitore la legittimazione ad agire per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale senza prevedere la necessità della nomina di un curatore speciale per il minore e, in caso di inattività del sostituto processuale, la sospensione dei termini fino al raggiungimento della maggiore età del sostituito. Infatti l’interesse del minore risulta adeguatamente protetto, nel caso di promovimento dell’azione da parte del genitore attraverso la verifica della sua rispondenza a quell’interesse demandata al tribunale per i minorenni a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 341 del 1990; nel caso contrario con la possibilità per il figlio, una volta divenuto maggiorenne, di promuovere l’azione per lui imprescrittibile ai sensi dell’art. 270 c.c. (Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 1999, n. 10786). In questa sentenza si legge che nel giudizio per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale l’art. 273 comma 1 c.c. prevede l’autorizzazione del tribunale e, come facoltativa la nomina di un curatore speciale, solo quando l’azione è esercitata dal tutore, ma non prevede tale nomina, neppure come facoltativa, né la necessità di autorizzazione, quando l’azione è esercitata dal genitore che esercita la potestà, configurando una estensione, rispetto ad un diritto strettamente personale del figlio, del potere di rappresentanza ex lege spettante al genitore medesimo; ne deriva che né la nomina di un curatore speciale, disposta al di fuori della previsione normativa, né la valutazione dell’interesse del minore infrasedicenne (oggi infraquattordicenne) da parte del giudice (dopo l’intervento della Corte costituzionale con sentenza n. 341 del 20 luglio 1990), che è da annoverarsi fra le condizioni di ammissibilità dell’azione nel quadro dell’art. 274 c.c., possono riflettersi negativamente sulla legittimazione del genitore esercente la responsabilità genitoriale a promuovere l’azione (Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 1992, n. 3416).
Nella prassi – venuta meno la fase di ammissibilità – non sono numerosi i casi di nomina di un curatore speciale al minore nelle cause di riconoscimento della paternità naturale verosimilmente perché è lo stesso giudice che è stato investito in questi procedimenti del compito di valutare l’interesse del minore (Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341 aveva parzialmente dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 274, comma 1, del codice civile nella parte in cui, se si tratta di minore infrasedicenne [oggi infraquattordicenne] non prevede che l’azione promossa dal genitore esercente la potestà [oggi responsabilità genitoriale] sia ammessa solo quando sia ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del figlio).
L’azione è possibile in tutti i casi in cui è ammesso il riconoscimento della filiazione fuori dal matrimonio (art. 278 c.c.).
La legittimazione ad agire, come detto, spetta al figlio per il quale l’azione è imprescrittibile. L’azione non è, invece, imprescrittibile per i suoi discendenti i quali pure sono ammessi a promuovere l’azione in caso di morte del figlio, ma entro due anni dalla morte. Se il figlio muore dopo averla promossa, i discendenti possono continuare l’azione intrapresa (art. 270 c.c.).
In caso di minore età del figlio – che costituisce l’ipotesi statisticamente più frequente di azione giudiziale per l’accertamento della paternità fuori dal matrimonio – la legittimazione è attribuita, nell’interesse del minore, come si è detto, al solo genitore esercente la responsabilità genitoriale oppure al tutore (art. 273 comma 1 c.c.). Unica differenza tra l’azione promossa nell’interesse del minore dal genitore e quella promossa sempre nell’interesse del minore dal tutore è che il tutore deve prima richiedere l’autorizzazione del giudice il quale potrebbe nominare un curatore speciale che promuova il giudizio.
Naturalmente se il genitore esercente la responsabilità genitoriale o il tutore non esercitano l’azione nell’interesse del figlio minore, questi, divenuto maggiorenne potrà esercitarla lui stesso.
Il tutore è anche il soggetto legittimato a promuovere l’azione nell’interesse dell’interdetto (art. 273 ultimo comma c.c.).
Una novità derivante dalla riforma sulla filiazione del 2013 è contenuta nell’art. 276 c.c. (come modificato dall’art. 1, comma 5, legge 10 dicembre 2012, n. 219 e dall’art. 33 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) in base al quale “la domanda per la dichiarazione di paternità o di maternità deve essere proposta nei confronti del presunto genitore o, in mancanza di lui, nei confronti dei suoi eredi. In loro mancanza, la domanda deve essere proposta nei confronti di un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso. Alla domanda può contraddire chiunque vi abbia interesse”.
La possibilità che la causa potesse essere proseguita, in mancanza di eredi, nei confronti di un curatore speciale era stata esclusa da Cass civ. Sez, unite 3 novembre 2005, n. 21287.
La sentenza che dichiara la filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento (art. 277 comma 1 c.c.).
Come detto la giurisprudenza esclude che vi sia un obbligo di nomina di un curatore speciale per il figlio ma questo non esclude che possa comunque esservi un conflitto di interessi – o una difformità di vedute – tra il figlio (in ordine alla valutazione del suo effettivo interesse) e il genitore e che esercita l’azione in sostituzione del figlio medesimo. Proprio per questo, come si è detto, la Corte costituzionale aveva ritenuto necessaria (oggi nell’azione di merito, dopo la scomparsa della fase di ammissibilità) la valutazione dell’interesse del minore (Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341).
f) Il procedimento di autorizzazione al riconoscimento tardivo del figlio (art. 250 cc)
Va ribadito che la procedura di cui all’art. 250 c.c. – prevista per il caso di opposizione del primo genitore al riconoscimento tardivo da parte dell’altro – non configura una azione di stato sulla filiazione in quanto il procedimento termina con una sentenza che autorizza il richiedente ad effettuare il riconoscimento e non con una decisione costitutiva dello status. Si accenna tuttavia a questa procedura per motivi di completezza sul tema del conflitto di interessi.
Il riconoscimento di un figlio nato fuori dal matrimonio può avvenire, disgiuntamente o congiuntamente, da parte dei genitori. Se il figlio ha meno di quattordici anni il genitore che per primo lo abbia da solo riconosciuto deve esprimere il proprio consenso al riconoscimento tardivo che l’altro genitore intendesse effettuare fare (art. 250 c.c.). Se il figlio ha compiuto i quattordici anni il consenso non è necessario, prevedendosi espressamente che debba essere il figlio ultraquattordicenne ad esprimere il proprio assenso.
Pertanto oltre i quattordici anni del figlio il conflitto di interessi tra genitore che ha già riconosciuto il figlio e il figlio stesso viene risolto in radice attribuendosi al figlio stesso il potere di assentire al riconoscimento da parte del secondo genitore.
Se il figlio è, invece infraquattordicenne e il genitore che per primo lo ha riconosciuto intende consentire al riconoscimento tardivo da parte dell’altro genitore non vi è per la legge alcun conflitto di interessi da risolvere. Il consenso di entrambi i genitori esclude un conflitto di interessi. Questo meccanismo in effetti è comprensibile e ragionevole (in effetti quando due genitori riconoscono congiuntamente un figlio nessuno ha il potere di sindacare preliminarmente l’interesse del minore) e le eventuali dissonanze per i figli (si pensi al caso in cui un genitore dovesse acconsentire solo per aver subito le pressioni minacciose dell’altro genitore o nonostante una grave condizione di devianza personale dell’altro genitore) potranno essere risolte come per tutti i figli attraverso i consueti meccanismi di controllo dell’esercizio della responsabilità genitoriale.
Se, invece, il genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento non intende dare il proprio consenso al riconoscimento tardivo da parte dell’altro genitore, allora è evidente che si crea una situazione di conflitto di interessi tra genitore e figlio che l’ordinamento affronta attribuendo al giudice il potere di intervento per sindacare se il dissenso del genitore è giustificato o se invece non corrisponde all’interesse del figlio. In tal caso il riconoscimento tardivo potrà avvenire solo in virtù del provvedimento del giudice.
Il procedimento è previsto nell’art. 250 c.c. (ampiamente modificato dall’art. 1, comma 2, della legge 10 dicembre 2012, n. 219) dove si prevede che “Il genitore che vuole riconoscere il figlio, qualora il consenso dell’altro genitore sia rifiutato, ricorre al giudice competente, che fissa un termine per la notifica del ricorso all’altro genitore. Se non viene proposta opposizione entro trenta giorni dalla notifica, il giudice decide con sentenza che tiene luogo del consenso mancante; se viene proposta opposizione, il giudice, assunta ogni opportuna informazione, dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore, ove capace di discernimento, e assume eventuali provvedimenti provvisori e urgenti al fine di instaurare la relazione, salvo che l’opposizione non sia palesemente fondata. Con la sentenza che tiene luogo del consenso mancante, il giudice assume i provvedimenti opportuni in relazione all’affidamento e al mantenimento del minore ai sensi dell’articolo 315-bis e al suo cognome ai sensi dell’articolo 262”.
La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che il riconoscimento del figlio costituisce un diritto soggettivo sacrificabile solo in presenza di un pericolo di danno gravissimo per lo sviluppo psicofisico del minore (Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2011, n. 2645; Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 2008, n. 4).
Le modalità procedimentali – che in questa sede non è necessario approfondire ulteriormente – rendono evidente che secondo il legislatore il conflitto di interessi tra figlio e genitore (che dissente dal tardivo riconoscimento) viene risolto dall’intervento del giudice attraverso “l’audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore, ove capace di discernimento” (Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729; Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2012, n. 5884) oltre che – come si dirà tra breve – dalla nomina del curatore speciale. Siamo quindi in presenza di uno di quei casi di conflitto di interessi trattato secondo il legislatore con modalità differenti da quelle classiche della nomina del curatore speciale e dunque nel contesto delle norme di verifica delle funzioni genitoriali connesse al diritto dei figli all’educazione, alla cura, all’assistenza, più che nell’ambito delle norme sulla rappresentanza esterna.
Opposta era stata in passato l’interpretazione proposta dalla giurisprudenza che aveva sistematicamente affermato – evidentemente ritenendo soddisfacente la valutazione dell’interesse del minore – che nel procedimento di cui all’art. 250 c.c. il minore non assume la qualità di parte, ma deve essere soltanto ascoltato, sempre che ne sia capace per ragione di età o per altre cause con la conseguenza che in tale procedimento non sorge l’esigenza della nomina di un curatore speciale del minore (Cass. civ. Sez. I, 4 agosto 2004, n. 14934; Cass. civ. sez. I, 10 maggio 2001, n. 6470; Cass. civ. sez. I, 16 giugno 1990, n. 6093; Cass. civ. sez. I, 13 marzo 1987, n. 2654; Cass. civ. sez. I, 16 dicembre 1981, n. 6660).
A modificare questa situazione è intervenuta la Corte costituzionale che ha praticamente imposto la nomina di un curatore al minore nei procedimenti di cui all’art. 250 c.c. affermando che in questi procedimenti al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio e che, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317-bis e 320 cod. civ.), qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale; il che può avvenire su richiesta del pubblico ministero, o di qualunque parte che vi abbia interesse (art. 79 cod. proc. civ.), ma anche di ufficio, avuto riguardo allo specifico potere attribuito in proposito all’autorità giudiziaria dall’art. 9, primo comma, della citata Convenzione di Strasburgo (Corte cost. 11 marzo 2011, n. 83). In questa sentenza la Corte ha praticamente indicato il principio generale in base al quale la nomina del curatore (e, da parte di costui, del difensore) è adempimento riservato ai procedimenti in cui al minore è attribuibile la qualità di parte. Successivamente ha pienamente aderito alla ricostruzione della Corte costituzionale Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729.
g) L’azione di mantenimento in caso di non riconoscimento (art. 279 c.c.)
Per ragioni di completezza è opportuno fare qualche accenno anche all’azione di mantenimento prevista nell’art. 279 c.c., pur non trattandosi di un’azione di stato perché non produce l’attribuzione dello status ma solo il diritto al mantenimento o agli alimenti previo accertamento incidenter tantum della compatibilità genetica.
Può avvenire che la filiazione non possa essere accertata per l’esistenza di cause ostative. In questi casi il figlio può ugualmente agire per ottenere il solo mantenimento. L’azione è ammessa previa autorizzazione del tribunale per i minorenni (art. 38 disp. att. c.c. come modificato dall’art. 3 legge 10 dicembre 2012, n. 219 a sua volta ulteriormente modificato dall’art. 96 lett. c del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154).
La norma di riferimento è l’art. 279 c.c. (come modificato dall’art. 36 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) dove si prevede che “in ogni caso in cui non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità, il figlio nato fuori del matrimonio può agire per ottenere il mantenimento, l’istruzione e l’educazione. Il figlio nato fuori del matrimonio se maggiorenne e in stato di bisogno può agire per ottenere gli alimenti a condizione che il diritto al mantenimento di cui all’articolo 316 sia venuto meno.
L’azione è ammessa previa autorizzazione del giudice ai sensi dell’articolo 251. L’azione può essere promossa nell’interesse del figlio minore da un curatore speciale nominato dal giudice su richiesta del pubblico ministero o del genitore che esercita la responsabilità genitoriale”.
Quindi in base a questa disposizione ogni volta che “non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità” il figlio minore nato fuori dal matrimonio può agire per ottenere i soli diritti di mantenimento, educazione istruzione, mentre il figlio maggiorenne – che non goda del diritto al mantenimento – può agire per ottenere i soli alimenti.
Quali sono i casi in cui “non può proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità”?
Prima della riforma del 2013 uno dei casi in cui era ipotizzabile questa azione era quello del figlio nato da una relazione incestuosa in quanto i figli nati da persone unite da vincoli di parentela o affinità (indicati nell’art. 87 c.c.) non potevano agire per la dichiarazione giudiziale di paternità e non erano riconoscibili (previgente art. 251 c.c.). La norma in questione è stata dapprima dichiarata parzialmente incostituzionale Corte cost. 28 novembre 2002, n. 494) ed è stata modificata dalla riforma sulla filiazione del 2013. Ora “il figlio nato da persone, tra le quali esiste un vincolo di parentela in linea retta all’infinito o in linea collaterale nel secondo grado, ovvero un vincolo di affinità in linea retta, può essere riconosciuto previa autorizzazione del giudice avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio” (art. 251 c.c. come modificato dall’art. 1, comma 3, legge 10 dicembre 2012, n. 219 e art. 22 D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) mentre negli stessi casi “l’azione per ottenere che sia giudizialmente dichiarata la paternità o la maternità non può essere promossa senza previa autorizzazione ai sensi dell’articolo 251” (art.278 c.c. come modificato dall’art. 35 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154).
Pertanto certamente la prima ipotesi che residua di possibile azione per il solo mantenimento è quella in cui il tribunale per i minorenni dovesse negare l’autorizzazione al riconoscimento dei figli nati da relazione incestuosa o l’autorizzazione per la proposizione dell’azione dichiarativa della paternità.
Un altro caso è quello in cui il tribunale dovesse negare la dichiarazione di paternità ritenendola contraria all’interesse del minore secondo la valutazione che il giudice deve effettuare sempre (Corte cost. 20 luglio 1990, n. 341).
Ulteriore ipotesi è quella in cui il figlio avendo già uno status filiationis essendo nato all’interno del matrimonio intendesse agire nei confronti del vero genitore biologico (Cass. civ. Sez. I, 22 gennaio 1992, n. 711).
Inoltre certamente in tutti i casi in cui il figlio non possa essere riconosciuto perché per esempio nato da genitori infrasedicenni o perché avendo essi richiesto l’autorizzazione al riconoscimento questa venga negata (art. 250 ult. comma c.c. come modificato dall’art. 1, comma 2, legge 10 dicembre 2012, n. 219).
La giurisprudenza non ha, comunque, seguito un orientamento univoco nell’interpretazione del conflitto di interessi tra genitore e figlio. Così si è affermato che l’azione ex art. 279 c.c. se proposta nell’interesse di un minore, va proposta da un curatore speciale nominato dal giudice su richiesta del PM o del genitore che sul minore esercita la potestà (responsabilità genitoriale), dovendosi pertanto dichiarare inammissibile l’azione ex art. 279 c.c. proposta dalla madre di un minore, in nome e per conto di questi (Trib. min. L’Aquila, 9 febbraio 1999 in Dir. fam. pers., 2000, 147). Pertanto la domanda non può essere proposta se non dal figlio maggiorenne o dal curatore speciale.
L’azione tendente a far valere il rapporto di filiazione ai soli fini alimentari è esperibile previa autorizzazione del tribunale esclusivamente nei casi in cui la paternità o la maternità non sia giudizialmente dichiarabile, occorrendo altresì, qualora l’azione sia proposta nell’interesse di un minore, che essa sia promossa da un curatore speciale (Trib. min. Catania, 16 marzo 1990 in Dir. Fam e pers., 1992, 273; Trib. Vigevano, 13 marzo 1980 in Dir. Fam e pers., 1980, 892).
VI A quale tipo di conflitto di interessi tra genitori e figli fanno riferimento le norme sovranazionali sui diritti dei minori?
Anche le norme sovranazionali fanno riferimento al confitto di interessi tra genitori e figli. Se si esaminano i due testi normativi più richiamati (la Convenzione del 1989 sui diritti dei minori e la Convenzione europea del 1996 sull’esercizio dei diritti dei minori) ci si avvede che all’interno di questa normativa sovranazionale sono contenute alcune indicazioni di grande rilevanza con le quali si è affermato – soprattutto nell’ambito processuale di regolamentazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale – il diritto del minore a partecipare ai procedimenti che lo riguardano, di ricevere adeguate informazioni, di essere consultato e di poter esprimere la propria opinione. In questo contesto la convenzione europea del 1996 prevede espressamente che al minore deve essere garantito il diritto ad un rappresentante speciale nelle procedure giudiziarie “allorché il diritto interno priva i detentori di responsabilità parentali delle facoltà di rappresentarli a causa dell’esistenza di un conflitto di interessi (art. 4).
Pertanto il conflitto di interessi al quale la normativa sovranazionale fa riferimento è quello collegato non alle funzioni di rappresentanza e di amministrazione ma a quel fascio di funzioni genitoriali concernenti il rapporto educativo e di accudimento del figlio che sono sostanzialmente l’oggetto sia delle procedure di contrasto agli abusi genitoriali e all’abbandono, si di quelle di separazione, divorzio o in cui si discute comunque dell’affidamento. Con il che si pone certamente nel nostro ordinamento la problematica di una possibile estensione del potere di nomina di un curatore speciale al minore dal settore nel quale oggi questa nomina è prevista senza problemi (abusi della responsabilità genitoriale e adottabilità in cui il minore è considerato parte processuale) al settore dell’affidamento e delle procedure di separazione e divorzio in cui – come si dirà – la prassi giudiziaria prevalente, sul presupposto che il minore non è parte processuale in questi procedimenti, non è favorevole né a ritenere l’esistenza di conflitti di interessi, ne’ quindi a procedere alla nomina al minore di un “rappresentante speciale” in funzione sostitutiva dei genitori
Entrando più nel merito delle due convenzioni si osserva che la Convenzione internazionale del 1989 sui diritti dei minori (ratificata e resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176) contiene una disposizione generale che prevede all’art. 12 il diritto del minore “di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa” e impone agli Stati di dargli “la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante legale o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale”. In questo timido riferimento alla necessità dell’ascolto del minore anche “tramite un rappresentante legale o un organo appropriato” la Convenzione rinvia per le modalità di attuazione di questi diritti alle legislazioni nazionali e impegna gli Stati aderenti a considerare che “in tutte le decisioni relative ai minori, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del minore deve essere una considerazione preminente”, ad assicurare al minore “la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori” (art. 3) e ad adottare “tutti i provvedimenti legislativi, amministrativi ed altri necessari per attuare i diritti riconosciuti dalla presente Convenzione” (art. 4).
È, invece, soprattutto la Convenzione europea del 1996 sull’esercizio dei diritti dei minori (ratificata e resa esecutiva con la legge 20 marzo 2003, n. 77) che opera alcuni richiami essenziali sul tema della necessaria rappresentanza del minore da parte di un “rappresentante speciale” in caso di conflitto di interessi con i genitori.
L’obiettivo che la Convenzione europea ha avuto di mira – che segnala il passaggio dall’affermazione dei diritti dei minori all’indicazione concreta di come esercitarli – è proprio quello di “promuovere, nell’interesse superiore dei minori, i loro diritti, di attribuire loro diritti processuali e di agevolarne l’esercizio, facendo in modo che essi possano personalmente o per mezzo di altre persone od organismi, essere informati ed autorizzati a partecipare alle procedure giudiziarie che li riguardano” cioè “quelle in materia familiare e, in particolare, quelle relative all’esercizio delle responsabilità dei genitori, specie con riferimento alla residenza ed al diritto di visita riguardo ai figli” (art. 1). La Convenzione, perciò, tende a conferire effettività al sopra richiamato principio enunciato nell’art. 12 della convenzione di New York.
La Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori si occupa concretamente di tre aree di diritti processuali.
In primo luogo garantisce a tutti minori che siano considerati dalla legge interna di uno Stato come aventi sufficiente capacità di discernimento, il diritto di ricevere tutte le informazioni pertinenti, di essere informati e consultati e di esprimere la loro opinione nel corso delle procedure giudiziarie che li riguardano, di essere informati sulle possibili conseguenze dell’attuazione dei loro diritti e sulle possibili conseguenze di ogni decisione (art. 3). Si tratta di vero e proprio diritto di natura processuale di informazione e di consultazione che corrisponde ad una obbligazione di comportamento per i giudici (art. 6), per il rappresentante del minore (art. 10 comma 1) ed anche, se gli Stati lo riterranno opportuno, per i genitori stessi del minore (art. 10 comma 2).
In secondo luogo la Convenzione – ed è questa l’interferenza che qui interessa sottolineare con il tema del conflitto di interessi – garantisce ai minori il diritto, anch’esso di natura processuale, ad un rappresentante speciale, facendo, però, salva la facoltà di ogni Stato di garantire questo diritto soltanto ai minori ritenuti dotati di sufficiente capacità di comprensione. In particolare garantisce il diritto di richiedere personalmente o per mezzo di altre persone od organismi la designazione di un rappresentante speciale nelle procedure giudiziarie che li riguardano allorché il diritto interno priva i detentori di responsabilità parentali delle facoltà di rappresentarli a causa dell’esistenza di un conflitto di interessi (art. 4). Molto opportunamente la norma in questione fa espressamente salva l’applicazione dell’art. 9 della Convenzione dove si ribadisce che i genitori hanno in via primaria il potere di rappresentanza processuale dei propri figli minori. Quindi se i genitori non possono, secondo il diritto interno, rappresentare il figlio a causa di un conflitto di interessi con lui o perché comunque privati del potere di rappresentanza, può essere nominato al minore un rappresentante speciale dall’autorità giudiziaria, d’ufficio (art. 9 comma 1) o su richiesta dello stesso figlio fatta personalmente o attraverso altre persone od organi (art. 4 comma 1). È opportuno osservare come la Convenzione non obblighi gli Stati a prevedere la nomina di un rappresentante speciale al di fuori delle ipotesi di conflitto di interessi tra il minore e i suoi genitori sebbene nel successivo articolo 9 lasci liberi gli Stati di prevedere che nelle procedure riguardanti i minori l’autorità giudiziaria abbia comunque la facoltà di nominare sempre al minore un rappresentante speciale o un avvocato. L’art. 4 prevede anche l’obbligo per gli Stati di indicare espressamente al momento della ratifica a quali procedure interne si debba applicare la norma sulla designazione al minore del rappresentante speciale.
Un elenco esemplificativo dei procedimenti giudiziari nei quali si pone il problema della nomina di un rappresentante speciale al minore – e di conseguenza in cui secondo le norme sovranazionali può parlasi di conflitto di intesse tra genitori e figli – è indicato al punto 17 della relazione che accompagna il testo della Convenzione dove si afferma che le categorie di controversie cui la Convenzione è applicabile possono essere esemplificate nel modo seguente: l’affidamento, la residenza, il diritto di visita, la dichiarazione e la contestazione dello stato di figlio, la legittimazione e la contestazione dello stato di figlio legittimo, l’adozione, la tutela, l’amministrazione dei beni del minore, l’educazione, la decadenza e la limitazione dell’autorità dei genitori, la protezione contro i maltrattamenti, il trattamento sanitario.
Come si può notare si tratta di controversie nelle quali si discute in sostanza soprattutto delle funzioni genitoriali di carattere interno al rapporto genitori-figli, che si esercitano attraverso l’adempimento quotidiano dei doveri genitoriali indicati nell’art. 315-bis c.c. (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 8, della legge 10 dicembre 2012, n. 219) secondo cui “il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni”.
Per questo si può affermare che la Convenzione europea del 1996 sull’esercizio dei diritti del minore segna il momento cronologico di passaggio dalla concezione del conflitto di interessi come relegata prevalentemente alle funzioni di rappresentanza esterna (secondo l’impostazione del codice civile: art. 320 e 321 c.c.) ad una concezione che abbraccia un significato molto più esteso del conflitto di interessi centrata sul rapporto interno genitori – figli a salvaguardia delle funzioni genitoriali soprattutto di educazione e di accudimento e che richiede interventi sostitutivi delle competenze genitoriali attraverso la nomina di un rappresentante speciale al minore tutte le volte in cui quelle funzioni non sono adeguatamente assolte dai genitori.
La figura del rappresentante speciale è, in sostanza, nel nostro ordinamento, la figura del curatore speciale del minore. Conseguentemente le ipotesi di nomina di un rappresentante speciale ipotizzate dalla Convenzione sono riconducibili ai casi in cui nel nostro sistema processuale viene nominato al minore un curatore speciale in funzione sostitutiva dei genitori che, se in linea generale è nella prassi un avvocato, non necessariamente deve esserlo.
La Convenzione si preoccupa di indicare quali sono le funzioni del rappresentante speciale: egli deve fornire al minore considerato dalla legge interna come dotato di una sufficiente capacità di discernimento ogni informazione pertinente e spiegazioni riguardo alle possibili conseguenze dell’attuazione dei suoi desideri e alle possibili conseguenze di ogni azione del rappresentante; deve inoltre determinare il punto di vista del minore facendo sì che questo punto di vista venga portato a conoscenza dell’autorità giudiziaria (art. 10).
In terzo luogo la Convenzione prevede che gli Stati possano garantire al minore altri diritti processuali come il diritto di essere assistiti da una persona idonea di propria scelta, al fine di essere aiutati ad esprimere la propria opinione; il diritto di chiedere personalmente o per mezzo di altre persone od organismi la nomina di un diverso rappresentante e, nei casi appropriati, la nomina di un avvocato; il diritto di nominare un proprio rappresentante; il diritto di esercitare, in tutto o in parte, le prerogative delle parti nelle procedure giudiziarie (art. 5). Questo articolo, diversamente dall’art. 4 non obbliga gli Stati a concedere i diritti specifici elencati, tuttavia li invita a valutare l’opportunità di prevedere diritti processuali supplementari rispetto a quelli minimi previsti dai precedenti articoli, lasciando poi al Comitato permanente istituito con l’art. 16 la funzione di verificare sul punto l’attuazione della Convenzione e di adottare eventualmente raccomandazioni in proposito. L’elenco dei diritti processuali elencati all’art. 5 non è evidentemente tassativo.
I diritti processuali il cui esercizio da parte dei minori è particolarmente raccomandato riguardano sostanzialmente, quindi, l’assistenza e la rappresentanza del minore da parte di un difensore nel processo e tali diritti si confermano, quindi, come i due diritti di natura processuale principali presi in considerazione dalla Convenzione quali diritti supplementari raccomandati, nella prospettiva del riconoscimento al minore, nelle procedure che lo riguardano, della qualità di parte processuale (“il diritto di esercitare, in tutto o in parte, le prerogative delle parti”).
In seguito all’approvazione della Convenzione europea del 1996 (come detto ratificata anni dopo in Italia con la legge 20 marzo 2003, n. 77) nell’ordinamento italiano negli anni 2000 si è andata realizzando una regolamentazione più attenta ai diritti del minore in ambito processuale grazie soprattutto a due riforme importanti: la prima è quella di cui alla legge 28 marzo 2001, n. 149, che ha previsto l’obbligo dell’assistenza legale per il minore e per i genitori nelle procedure di limitazione e di decadenza della responsabilità genitoriale e in quelle per la dichiarazione di adottabilità, e che è stata applicata faticosamente dalla giurisprudenza; la seconda è l’importante riforma sulla filiazione di cui alla legge 10 dicembre 2010, n. 219 e al decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 con cui il tema dei diritti del minore nel processo ha trovato attuazione attraverso l’elencazione puntuale dei diritti del minore (nuovo art. 315-bis c-c) e soprattutto del diritto di essere ascoltato – puntualizzato in tutti i suoi principali aspetti (articoli 336, 336-bis, 337-octies c.c., art. 38-bis disp. att. c.c.) – con ciò dandosi anche al tema del conflitto di interessi tra il minore e i suoi genitori una nuova impostazione. Con la nomina del curatore speciale, infatti, si consente di superare un conflitto di interessi tra i genitori e il figlio minore che nel processo ostacolerebbe la soddisfazione dei diritti del figlio minore, mentre con l’ascolto del minore si assegna al giudice la funzione di indispensabile verifica della corrispondenza delle decisioni all’interesse del figlio.
La nomina del curatore speciale nei casi di inidoneità genitoriale o di non assolvimento delle funzioni genitoriali e la regolamentazione dell’ascolto del minore costituiscono i nuovi pilastri, strettamente legati tra loro, sui quali si basa il processo civile in materia di tutela dei diritti del minore.
VII Il conflitto di interessi tra genitori e figli nei procedimenti di adottabilità e de potestate
Nei procedimenti per la dichiarazione di adottabilità e in quelli di controllo della responsabilità genitoriale (quest’ultimi denominati tradizionalmente procedimenti de potestate) il conflitto di interessi tra figli e genitori, pur presentandosi apparentemente come conflitto di interessi in un rapporto di rappresentanza, non è affatto inquadrabile nel contesto delle funzioni tradizionali della rappresentanza (esterna), ma va collocato – come si è detto all’inizio – nell’ambito delle altre funzioni genitoriali interne al rapporto genitori-figli. Ed infatti quello che rileva nel conflitto che in questi procedimenti si evidenzia tra genitori e figli è proprio l’(asserita) inadeguatezza dell’esercizio delle funzioni genitoriali che proprio in quei procedimenti sono sotto osservazione (potendo portare alla dichiarazione di adottabilità o a all’assunzione di provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale) e che non consentono oggettivamente di lasciare ai genitori nel processo la rappresentanza dei figli.
Ciò è tanto vero che la legge ha previsto proprio per i figli in quei procedimenti l’assistenza legale obbligatoria da parte di un difensore d’ufficio nominato (questo, almeno, era il senso originario della legge 28 marzo 2001, n. 149 che ha introdotto tale obbligo) non dai genitori ma dal giudice. La legge 149/2001 si era occupata di un tema più ampio, modificando in molte parti la normativa sull’adozione e sull’affidamento dei minori e proprio all’interno di questa riforma è stata introdotta anche l’assistenza legale obbligatoria per i genitori e per i minori nelle procedure di adottabilità (nuovo testo degli articoli 8, ultimo comma e 10, comma 2, della legge 184 del 1983, come modificati rispettivamente dall’art. 8 e dall’art. 10 della legge 149 del 2001) e nei procedimenti di limitazione e decadenza della responsabilità genitoriale (art. 336, ultimo comma c.c. come introdotto dall’art. 37 della legge 149 del 2001)1
1 In particolare, nella formulazione introdotta dalla legge di riforma, l’ultimo comma dell’art. 8 della legge 4 maggio 1983, n. 184 stabilisce il principio che “il procedimento di adottabilità deve svolgersi fin dall’inizio con l’assistenza legale del minore e dei genitori o degli altri parenti di cui al comma 2 dell’art. 10” (cioè i parenti entro il quarto grado che abbiano rapporti significativi con il minore) mentre sempre il predetto secondo comma dell’art. 10 prevede che, all’atto dell’apertura del procedimento, i genitori e i parenti devono essere espressa¬mente invitati dal giudice a nominare un difensore; in difetto deve essere loro nominato un difensore di ufficio.
Per i procedimenti di limitazione e decadenza della responsabilità genitoriale l’art. 37 della legge 149 del 2001 ha modificato l’art. 336 c.c. aggiungendovi un ultimo comma nel quale si prevede che “per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti da un difensore”. .
Quindi nel 2001 il legislatore introduceva il principio dell’assistenza legale obbligatoria per il minore (e per i genitori) nei procedimenti di adottabilità e di controllo della responsabilità genitoriale interessando, così, pressoché la totalità degli affari civili attribuiti allora e ancora oggi alla competenza del tribunale per i minorenni.
Di fronte al testo abbastanza chiaro delle nuove norme, tuttavia, la giurisprudenza ha privilegiato una interpretazione della riforma che, sul pacifico presupposto di un conflitto di interessi tra il minore e i suoi genitori nelle procedure in questione, si è orientata per il mantenimento della prassi di nominare al minore non direttamente un difensore ma un curatore speciale lasciando al curatore il compito di nominare un difensore nel procedimento. Il più delle volte il curatore è egli stesso un avvocato che, ai sensi dell’art. 86 c.p.c. si costituisce direttamente nel procedimento. In verità la legge 28 marzo 2001, n. 149 – prevedendo l’assistenza obbligatoria del difensore, nella prospettiva di un processo civile più giusto di fronte ad un tribunale per i minorenni più terzo – spostava l’attenzione dalla rappresentanza sostanziale del minore (da parte dei genitori o da parte del curatore speciale) alla difesa processuale. Ed è proprio questa prospettiva che metteva bene in evidenza come la riforma avesse un’importanza il cui significato e la cui portata storica andavano ben oltre la disciplina che veniva introdotta. Si confermava, infatti, che il minore, nei casi indicati dalla riforma, aveva certamente la qualità di parte processuale (che comunque la giurisprudenza non gli ha mai disconosciuto in questi procedimenti) e si collocava con determinazione la difesa dei suoi diritti nel contesto della giurisdizione all’interno delle regole del processo.
In tutti i casi in cui la riforma ha previsto la nomina di un difensore al minore, si è in presenza di una situazione di conflitto di interessi tra il minore i suoi genitori. Si trattava perciò di verificare se la nomina del difensore – al quale indubbiamente sono attribuite funzioni di assistenza e di rappresentanza (art. 82 c.p.c.) – dovesse considerarsi sostitutiva della nomina di un curatore speciale o se nei casi in cui il giudice è chiamato a nominare al minore un difensore sia comunque necessaria e sufficiente la nomina di un curatore speciale al quale lasciare poi la scelta del difensore nel processo. E’ prevalsa la tesi secondo cui il principio dell“assistenza del minore” (nuovo art. 8 della legge 184 del 1983 e nuovo ultimo comma dell’art. 336 c.c.) non comporta il dovere del giudice di nominare egli un difensore al minore. E’ in sostanza rimasto in piedi il sistema precedente di nomina da parte del giudice del curatore speciale anche nei procedimenti di adottabilità e de potestate (oltre che in tutti gli altri in cui la legge già lo prevedeva). L’altra interpretazione avrebbe consentito al giudice di nominare egli direttamente sempre il difensore al minore sia nelle procedure di adottabilità che in quelle de potestate portando alla nascita di una nuova figura di avvocato la cui formazione e professionalità avrebbe dovuto concentrarsi sulla tutela del minore nell’ambito delle relazioni familiari.
La giurisprudenza ha privilegiato l’interpretazione secondo cui l’avvocato del minore è in sostanza l’avvocato del tutore del minore o del curatore speciale del minore.
Questa operazione interpretativa si è svolta innanzitutto nell’ambito delle procedure di adottabilità dove i giudici hanno interpretato le norme del 2001 alla luce soprattutto dei principi che erano stati già pacificamente affermati prima dell’entrata in vigore della riforma, salvo adattarli al nuovo impianto legislativo. Questi principi hanno continuato ad essere, in sostanza, applicati anche dopo la riforma del 2001 dalla giurisprudenza di legittimità la quale ha più volte ribadito che la nomina del difensore al minore è un compito del rappresentante legale e cioè, nel conflitto di interessi tra il minore e i genitori, un compito del tutore o del curatore speciale (Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 giugno 2016, n. 11782; Cass. civ. Sez. VI, 16 giugno 2011, n. 13221; Cass. civ. Sez. I, 17 febbraio 2010, n. 3804; Cass. civ. Sez. I, 17 febbraio 2010, n. 3805 dove si precisa che la legge 28 marzo 2001, n. 149, che ha novellato la legge 4 maggio 1983, n. 184, non prevede necessariamente (come si riteneva nel sistema precedente) la nomina di un curatore speciale al minore, il quale è rappresentato in giudizio dai genitori o dal tutore. E poiché il procedimento volto all’accertamento dello stato di adottabilità deve svolgersi fin dalla sua apertura con l’assistenza legale del minore, il quale è parte a tutti gli effetti del procedimento, il minore sta in giudizio, secondo le regole generali, a mezzo del rappresentante legale (genitore o tutore) e, in caso di conflitto d’interessi, di un curatore speciale, soggetti cui compete la nomina del difensore tecnico.
Nell’ipotesi in cui il tutore o il curatore speciale non avessero nominato un difensore Cass. civ. Sez. I, 26 marzo 2010, n. 7281 precisava che la riforma del 2001 (che, come si è detto, aveva previsto all’art. 10 della legge 184/83 la nomina d’ufficio di un difensore ai genitori che non ne avevano uno di fiducia) doveva essere interpretata nel senso che il dovere del presidente del tribunale di nominare un difensore d’ufficio ai genitori o ai parenti entro il quarto grado, nel caso in cui essi non vi provvedano, espressamente introdotto con riguardo a detti soggetti, “a maggior ragione sussiste nei confronti del minore (rappresentato dal tutore o dal curatore speciale), che del procedimento di adozione è la parte principale”. Tuttavia – continuava la sentenza occupandosi dell’ipotesi in cui tali soggetti non avessero provveduto alla nomina del difensore o vi avessero provveduto in ritardo – “alla ritardata costituzione del difensore del minore o alla mancata assistenza da parte di costui ad uno o più atti processuali, non consegue l’automatica declaratoria della nullità dell’intero processo e/o dell’atto e di tutti quelli successivi, potendo tale sanzione essere invocata dal P.M. o dalle altre parti solo previa allegazione e dimostrazione del reale pregiudizio che la tardiva costituzione o la mancata partecipazione all’atto ha comportato per la tutela effettiva del minore”.
Quindi in queste decisioni da un lato si conferma l’obbligo della nomina del difensore da parte del tutore o del curatore speciale, o, in difetto, da parte del giudice, fin dall’inizio del procedimento, ma dall’altro si indebolisce anche questa previsione affermando che, tuttavia, la mancata nomina può anche non avere conseguenze processuali se non si dimostra che vi è stato un deficit di tutela per il minore. Affermazione francamente incomprensibile posto che il deficit di tutela è certamente in re ipsa se manca il difensore.
Negli stessi termini successivamente si sono espresse altre sentenze (Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 2010, n. 14063 e Cass. civ. Sez. I, 19 luglio 2010, n. 16870).
Nel frattempo Cass. civ. Sez. I, 19 maggio 2010, n. 12290 – sempre nella medesima linea interpretativa – aveva precisato molto opportunamente che nel procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, la partecipazione del minore, necessaria fin dalla fase iniziale del giudizio, richiede la nomina di un curatore speciale soltanto qualora non sia stato nominato un tutore o questi non esista ancora al momento dell’apertura del procedimento, con ciò chiarendo molto bene che il conflitto di interessi tra il minore e i suoi genitori va risolto con la nomina di un tutore oppure di un curatore speciale. Non di entrambi, come ancora la prassi prevede in molti tribunali. La sentenza affermava in particolare che il conflitto di interessi è ravvisabile “in re ipsa” nel rapporto con i genitori, portatori di un interesse personale ad un esito della lite diverso da quello vantaggioso per il minore, mentre nel caso in cui a quest’ultimo sia stato nominato un tutore il conflitto deve essere specificamente dedotto e provato in relazione a circostanze concrete, in mancanza delle quali il tutore non solo è contraddittore necessario, ma ha una legittimazione autonoma e non condizionata, che può liberamente esercitare in relazione alla valutazione degli interessi del minore”. Quanto detto riguarda le procedure di adozione a seguito della dichiarazione dello stato di adottabilità e non l’adozione ai sensi dell’art. 44 della legge 184/83 dove non è configurabile un conflitto di interessi “in re ipsa”, anche solo potenziale, tra il minore adottando ed il genitore-legale rappresentante (Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2016, n. 12962).
Conclusivamente la nomina di un avvocato compete, quindi, al tutore o al curatore speciale, con la precisazione che ove il tutore (caso raro) o il curatore speciale (caso molto più diffuso) siano essi stessi avvocati potranno evidentemente esercitare direttamente la difesa in giudizio. A questa situazione si riferiscono anche espressamente Cass. civ. Sez. I, 14 luglio 2010, n. 16553 secondo cui qualora venga nominato, quale tutore, un avvocato, ai sensi dell’art. 86 del codice di procedura civile, egli può stare in giudizio personalmente, senza patrocinio di altro difensore, in rappresentanza del minore” e Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2010, n. 14216 dove si precisa che “nel procedimento di adozione, compete esclusivamente al rappresentante legale del minore la nomina di un avvocato per la difesa tecnica: infatti il genitore, il tutore ovvero il curatore speciale hanno anche la relativa rappresentanza processuale, non essendo il potere di agire e resistere in giudizio disponibile autonomamente rispetto alla titolarità del bene della vita per il quale la tutela giurisdizionale venga postulata; inoltre, i due ruoli restano distinti, pur quando cumulati nel medesimo soggetto che abbia il titolo, richiesto dall’art.82, secondo comma, codice di procedura civile, per esercitare la difesa tecnica”.
Per i procedimenti di limitazione e decadenza della responsabilità genitoriale l’art. 37 della legge 149 del 2001 ha modificato – come si è detto – l’art. 336 c.c. aggiungendovi un ultimo comma nel quale si prevede che “per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti da un difensore”.
La prassi nei tribunali per i minorenni ha finora garantito un difensore al minore solo attraverso la nomina (d’ufficio o su richiesta del PM) di un curatore speciale (in genere avvocato) al minore nei casi di conflitto di interessi con i genitori. Conflitto che non è considerato sempre in re ipsa, come avviene nel procedimento di adottabilità (secondo la giurisprudenza di legittimità che si è esaminata nei paragrafi precedenti) ma che il tribunale valuta in concreto caso per caso. Ove il curatore speciale non sia un avvocato spetterà a lui la scelta se costituirsi in giudizio o meno con un difensore.
A proposito della nomina di un curatore speciale, in una vicenda che vedeva i nonni agire davanti al tribunale per i minori di Bari in un procedimento de potestate nel quale i ricorrenti chiedevano tutela alla loro relazione con il nipote, Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5097 ha ben chiarito che il minore è parte nei procedimenti de potestate e gli deve essere nominato un curatore speciale se vi è conflitto anche potenziale di interessi con i genitori. Ha fatto molto bene la Corte a ribadire che in questi procedimenti de potestate il minore è parte del processo e che proprio per questo motivo la sua partecipazione al giudizio avviene mediante il suo rappresentante legale e in caso di conflitto di interesse a mezzo del curatore speciale.
Resta confermato quindi che nelle procedure dirette all’accertamento dello stato di adottabilità del minore e in quelle cosiddette de potestate dirette alla verifica della adeguatezza dei comportamenti genitoriali il confitto di interessi tra il minore i suoi genitori nelle procedure di adottabilità (nelle quali quindi è sempre obbligatoria la nomina di un curatore speciale) è in re ipsa, mentre – in linea con la più recente giurisprudenza sopra richiamata – nelle procedure de potestate richiede sempre, ai fini della eventuale nomina di un curatore speciale, una valutazione caso per caso.
VIII In che modo l’ascolto del figlio minore risponde all’esigenza di risolvere un conflitto di interessi tra genitori e figli nei procedimenti di separazione, divorzio e di affidamento dei figli?
Si è accennato all’inizio al fatto che Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7478 e Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2015, n. 8100 – in sintonia con la nuova ricostruzione sistematica qui proposta sul tema del conflitto di interessi – hanno escluso che il conflitto di interessi tra genitore e figlio minore possa essere risolto in sede di separazione, divorzio e procedure sull’affidamento, sulla base delle tradizionali regole sulla sostituzione della rappresentanza e hanno additato l’ascolto del minore come strumento idoneo a salvaguardare in quelle procedure i diritti del figlio minore nelle situazioni di conflitto di interesse con i genitori. A dire il vero la qualificazione del figlio come parte sostanziale anche se non parte processuale nei procedimenti di separazione (Cass. civ. Sez. Unite, 21 ottobre 2009, n. 22238) avrebbe potuto anche consentire alla giurisprudenza di superare l’impostazione che a suo tempo aveva dato Corte cost. 14 luglio 1986, n. 185 che, come si dirà tra breve, aveva escluso la nomina de curatore al figlio nei procedimenti di separazione sul presupposto che il figlio non è parte processuale in queste procedure. La giurisprudenza sembra più plausibilmente orientata a non istituzionalizzare nelle cause di separazione il conflitto genitori-figli attraverso la nomina di un curatore speciale.
La previsione della nomina di un rappresentante speciale al minore è, invece, avvenuta nei procedimenti di adottabilità e de potestate. A tale proposito – come anche si è visto – la legge 28 marzo 2001, n. 149 aveva previsto l’obbligo dell’assistenza legale per il minore e per i genitori nelle procedure di limitazione e di decadenza della responsabilità genitoriale (introducendo un ultimo comma all’art. 336 c.c. dove si prevede che “per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti da un difensore”) e in quelle per la dichiarazione di adottabilità (introducendo un ultimo comma all’art. 8 della legge 4 maggio 1983, n. 184 dove si indica che “il procedimento di adottabilità deve svolgersi fin dall’inizio con l’assistenza legale del minore e dei genitori o degli altri parenti di cui al comma 2 dell’art. 10”) e la giurisprudenza – che riconosce pacificamente al minore in questi procedimenti la qualità di parte processuale (Corte cost. 30 gennaio 2002, n. 1; Corte cost. 12 giugno 2009, n. 179) – ha dato successivamente attuazione a tali norme facendo applicazione dei principi in tema di nomina del curatore speciale nei casi di conflitto di interessi tra il minore e i genitori e ritenendo che la nomina del difensore nei procedimenti de potestate e in quelli adottabilità sia un compito del curatore speciale.
La Corte costituzionale – come si è detto – ha anche imposto la nomina di un curatore speciale al minore nei procedimenti previsti per il caso di opposizione al riconoscimento tardivo del figlio nato fuori del matrimonio (art. 250 c.c.) affermando che in questi procedimenti al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio e che, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento, qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale (Corte cost. 11 marzo 2011, n. 83 e Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729).
Sono rimasti fuori dal campo di applicazione della riforma introdotta dalla legge 28 marzo 2001, n. 149 – e quindi dall’obbligo di nominare un curatore (e tramite lui un difensore) al minore – sia le procedure di separazione e di divorzio, sia quelle per la regolamentazione dell’affidamento dei figli, tutte disciplinate negli articoli dal 337-bis al 337-octies del codice civile dopo la riforma operata con la legge10 dicembre 2012, n. 219 e con il D. Lgs. 8 dicembre 2013, n. 154.
In passato la giurisprudenza aveva ritenuto che spetta al legislatore la valutazione relativa al modo e al grado di effettiva tutela dell’interesse del minore ed aveva affermato che i giudizi di separazione e di divorzio non attengono né si riflettono, quale che sia l’esito di tali giudizi, sullo stato dei figli. Il legislatore non ha, quindi, ravvisato nella separazione e nel divorzio l’opportunità di istituzionalizzare un conflitto tra genitori e figli cosa che avverrebbe certamente con l’attribuzione della qualità di parte ai figli minori (Corte cost. 14 luglio 1986, n. 185; Cass. civ. Sez. I, 4 dicembre 1985 n. 6063). Nei procedimenti di separazione e di divorzio dunque, nonché nelle procedure di regolamentazione dell’affidamento di figli nati fuori del matrimonio, il minore non è considerato parte processuale e non ha, pertanto, diritto ad un curatore speciale, essendo il conflitto di interessi in questi procedimenti risolto attraverso gli altri strumenti.
La Corte di cassazione ha indicato nell’ascolto del minore questa prospettiva di tutela, affermando che l’’art. 336, ultimo comma, c.c. (“per i provvedimenti di cui ai commi precedenti i genitori e il minore sono assistiti da un difensore”) trova applicazione soltanto per i provvedimenti limitativi ed eliminativi della responsabilità genitoriale, ove si pone in concreto un profilo di conflitto di interessi tra genitori e minore e non in una controversia relativa al regime di affidamento e di visita del minore, figlio di una coppia che ha deciso di cessare la propria comunione di vita (nel matrimonio o fuori del matrimonio). In tale ipotesi, la partecipazione del minore nel conflitto genitoriale deve esprimersi, ove ne ricorrano le condizioni di legge, solo se ne ravvisi la corrispondenza agli interessi del minore medesimo e si riscontri un grado di discernimento adeguato, mediante il suo ascolto, oltre che mediante l’esercizio dei poteri istruttori officiosi di cui il giudice può usufruire in virtù della natura e della preminenza dell’interesse da tutelare (Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7478).
Questa sentenza conferma dunque la correttezza della sistematica proposta sul conflitto di interessi dove, accanto alla tradizionale modalità di risoluzione di tale conflitto costituita dalla nomina di un curatore speciale, sono oggi riconoscibili altre modalità (tra cui preminente l’ascolto del minore) connesse non tanto alle problematiche del potere di rappresentanza e di amministrazione quanto al controllo dell’altro fascio di importanti funzioni, interne al rapporto genitori-figli, in cui si articola l’esercizio della responsabilità genitoriale.
IX L’intervento volontario del figlio maggiorenne nel processo di separazione come strumento di soluzione di un conflitto di interessi
Nella ricostruzione sistematica del conflitto di interessi tra genitori e figli che si è proposta, acquistano rilevanza – accanto alle tradizionali soluzioni legate alla sostituzione del rappresentante e alla nomina quindi di un curatore speciale – anche altri strumenti di tutela rivolti alla soluzione di conflitti che emergono tra genitori e figli nell’ambito dell’esercizio di quelle funzioni genitoriali più ampie di quelle collegate alla semplice rappresentanza e che investono quindi anche il rapporto tra genitori e figli maggiorenni.
Si pensi per esempio al tema dell’assegnazione della casa familiare in occasione della separazione e del divorzio in cui si prevede che “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli” (art. 337-sexies c.c., – già art. 155-quater c.c. – come modificato dall’art. 55 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n, 154) e che costituisce una dei rischi di conflitto più ricorrenti tra genitori e figli (soprattutto maggiorenni) per il peso che sull’assegnazione ha la decisione del figlio di voler rimanere ad abitare con l’uno o l’altro genitore.
Si consideri, poi, specificamente l’art. 337-septies c.c. (già art. 155-quinquies c.c. come modificato dall’art. 55 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n, 15) che aveva introdotto nel contesto della riforma sull’affidamento condiviso dei figli del 2006 disposizioni “in favore dei figli maggiorenni”. Per la prima volta nell’ordinamento una norma si occupava specificamente dei figli maggiorenni in particolare prevedendo che “il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico” che, “salvo diversa determinazione è versato direttamente all’avente diritto” cioè – secondo l’interpretazione ormai pacifica – al figlio maggiorenne direttamente o al genitore con il quale il figlio abita, essendo la loro legittimazione considerata concorrente (tra le tante Cass. civ. Sez. I, 21 giugno 2002, n. 9067 nella quale si fa cenno per la prima volta all’ammissibilità dell’intervento del figlio maggiorenne affermandosi che “se il figlio non interviene nel giudizio pendente, e la sentenza di condanna viene emessa solo in favore del genitore convivente, nei suoi confronti non opera il giudicato formale della sentenza”).
La giurisprudenza successiva alla riforma del 2006 in tema di affidamento condiviso ha mantenuto la stessa linea interpretativa ammettendo la legittimazione concorrente del genitore convivente con il figlio maggiorenne (Cass. civ. Sez. I, 25 luglio 2013, n. 18075 che l’ha presupposta ritenendola esclusa solo in difetto di una stabile coabitazione e Cass. civ. Sez. VI, 28 ottobre 2013, n. 2431 che ha espressamente precisato che la mancata richiesta, da parte del figlio maggiorenne non indipendente economicamente, di corresponsione diretta dell’assegno di mantenimento giustifica la legittimazione a riceverlo da parte del genitore con lui convivente).
Già era riconosciuto, naturalmente, il diritto del figlio maggiorenne al mantenimento anche oltre il compimento della maggiore età, ma è stato inevitabile che l’introduzione di una norma giuridica che richiamava espressamente questo aspetto, avesse anche ripercussioni sul tema dell’intervento del figlio maggiorenne nel processo di separazione e di divorzio ed infatti la giurisprudenza (prima di merito e poi di legittimità) ha ritenuto – dopo la novella del 2006 – ammissibile l’intervento del figlio maggiorenne nella causa di separazione dei propri genitori (App. Roma 21 giugno 2006; Trib. Napoli Sez. I, 23 luglio 2009 in Famiglia e diritto, 2009, 12, 1136, nota di Arceri; Trib. Maceratata 22 ottobre 2009 in Giur. It., 2011, 1, 81, nota di SAVI; Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2012, n. 4296). La questione della legittimazione del figlio maggiorenne (cui la legge garantiva una titolarità del diritto al mantenimento) ad intervenire nel giudizio di separazione e di divorzio dei propri genitori è intimamente connessa a quella della riconosciuta legittimazione iure proprio del genitore a richiedere anche egli stesso il contributo di mantenimento per il figlio convivente ed era perciò inevitabile che dal riconoscimento della coesistenza dei due diritti si arrivasse a prevederne anche processualmente la medesima contestuale possibile tutela.
D’altro lato ai fini dell’ammissibilità dell’intervento di terzo in un giudizio pendente tra altre parti, è ritenuto sufficiente che la domanda dell’interveniente presenti una connessione o un collegamento implicante l’opportunità di un simultaneus processus, indipendentemente dall’esistenza o meno nel soggetto che ha instaurato il giudizio della legitimatio ad causam. Questi principi sono stati sviluppati per esempio – come si è all’inizio già riferito – da Cass. civ. Sez. II, 28 dicembre 2009, n. 27398 in cui si è affermato che la facoltà d’intervento in giudizio, deve essere riconosciuta indipendentemente dall’esistenza o meno, nel soggetto che ha instaurato il giudizio medesimo, della legitimatio ad causam che attiene alle condizioni dell’azione proposta nel merito e da Cass. civ. Sez. III, 27 giugno 2007, n. 14844 secondo cui la diversità dei rapporti giuridici non costituisce un elemento decisivo per escludere l’ammissibilità’ dell’intervento, essendo sufficiente che la domanda dell’interveniente presenti una connessione od un collegamento con quella di altre parti relative allo stesso oggetto sostanziale, tali da giustificare un simultaneo processo.
Questi richiami servono evidentemente alla giurisprudenza per superare l’obiezione che la legitimatio ad causam nel processo di separazione e di divorzio appartiene certamente solo ai genitori ma che questo non impedisce l’intervento del figlio maggiorenne nel processo atteso che egli ha comunque un diritto che può essere tutelato nello stesso processo.
Facendo applicazione dei principi sopra esposti è stato quindi affermato che, in tema di separazione coniugale, l’intervento in causa del figlio delle parti, per questioni attinenti il mantenimento, non si configura quale litisconsorzio necessario, bensì quale intervento volontario ai sensi dell’art. 105, sulla base della legittimazione del genitore concorrente con quella del figlio, la quale trova il suo fondamento nella titolarità del diritto al mantenimento (App. Roma 21 giugno 2006, in Pluris, Wolters Kluwer Italia) e che “l’intervento in giudizio del figlio maggiorenne economicamente non autosufficiente può avvenire in tutte le forme previste dall’art. 105 c.p.c. (per far valere un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo della controversia, o eventualmente in via adesiva) e assolve una funzione di ampliamento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito al mantenimento sulla base di un’approfondita ed effettiva disamina delle istanze dei soggetti interessati” (Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2012, n. 4296 che costituisce la prima articolata pronuncia di legittimità sul nuovo art. 155-quinquies dopo la novella del 2006). Come è stato tra l’altro ben sottolineato nel commento favorevole a queste decisioni non è di ostacolo al riconoscimento dell’opportunità del simultaneus processus la circostanza che il processo di separazione segua un rito speciale dal momento che la specialità attiene soprattutto alle questioni relative allo status coniugale e non all’accertamento accessorio del diritto relativo al mantenimento.
L’intervento del figlio maggiorenne (in via principale o in via adesiva) può esplicarsi, quindi, in tutti i procedimenti in cui i genitori discutono del suo mantenimento (separazione, divorzio, nullità, procedimenti di modifica, procedure relative al mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio) anche allorché la maggiore età venga raggiunta nel corso del giudizio e costituisce certamente una modalità di risolvere anche in caso di minore età del figlio un possibile conflitto di interessi tra genitore e figlio.
X Il conflitto di interessi tra il minore e i suoi genitori in ambito penale
Il diritto di querela in caso di reati commessi contro un minorenne può essere sempre esercitato, entro tre mesi dal fatto oggetto del reato, da uno dei genitori, prescindendosi dall’esercizio della responsabilità genitoriale nel senso che per la presentazione della querela è sufficiente la rappresentanza legale (Cass. pen. Sez. V, 8 giugno 1995, n. 7595). Naturalmente la decadenza dalla responsabilità genitoriale, invece, fa venir meno il potere di presentare querela.
È stato chiarito che ai fini dell›esercizio del diritto di querela da parte del curatore speciale, non assume alcun rilievo il conflitto di interessi tra i genitori della persona offesa (minore o inferma di mente), in quanto l›unico possibile conflitto di interessi previsto dall›art. 121 cod. pen. è quello tra il curatore speciale e la persona rappresentata e non quello tra il rappresentante-curatore speciale ed altri soggetti, come l›imputato (Cass. pen. Sez. VI, 10 giugno 2014, n. 41828).
Se il minore è infraquattordicenne l’unico titolare del potere di presentare querela è il genitore. E’ valida la querela in tal caso anche se presentata dal minore infraquattordicenne ma sottoscritta dal genitore (Cass. pen. Sez. V, 28 marzo 2008, n. 16776).
Se la persona offesa ha più di quattordici anni la querela può essere proposta sia direttamente dal minorenne che da uno dei genitori (art. 120, comma 3, cod. pen.). La norma va pacificamente interpretata nel senso che i genitori possono esercitare il diritto di querela anche in presenza di una volontà contraria del figlio quattordicenne (Cass. pen. Sez. V, 4 ottobre 2012, n. 3207; Cass. pen. Sez. III, 20 dicembre 2001, n. 45474). L’art. 120 del codice penale prevede infatti proprio la possibilità che vi possa essere una sovrapposizione di volontà diverse. Uno dei due soggetti legittimati potrebbe, infatti, voler presentare querela e l’altro no. Il conflitto di interessi è risolto in base al principio di prevalenza della volontà di chi con la decisione di presentare querela consente la perseguibilità del reato. Così se il minore vuole presentare querela e i genitori no prevale la volontà del minore. Viceversa se il minore non intende avviare il procedimento ma uno dei genitori vuole presentare querela prevale la volontà di uno dei genitori, senza che mai possa prodursi alcuna invalidità della querela proposta dal genitore solo perché il figlio potrebbe avere un interesse contrario (Cass. pen. Sez. V, 26 maggio 1992). Ugualmente – in base all’art. 125 cod. pen. – il fatto che il genitore abbia rinunciato a presentare querela (art. 124 cod. pen.), “non priva il minore che ha compiuto i quattordici anni del diritto di proporre querela”.
Analogo conflitto può sorgere nel caso remissione (processuale ovvero extraprocessuale, espressa o tacita) della querela che, in base all’art. 152 del codice penale, produce l’estinzione del reato. Prevede l’art. 153 del codice penale che per i minori degli anni quattordici il diritto di rimettere e cioè ritirare la querela è esercitato dai genitori (entrambi se esercenti la responsabilità genitoriale) mentre i minorenni che hanno compiuto i quattordici anni possono anche esercitare questo diritto personalmente, anche nel caso in cui la querela sia stata presentata dai genitori. In questi casi però la remissione della querela deve essere espressamente approvata dai genitori. L’eventuale conflitto tra genitori (che per esempio volessero rimettere la querela da loro proposta o proposta dal minore) e il minore (che per esempio volesse non ritirare la querela) è risolto in base al principio di conservazione del processo. Prevale quindi chi con la sua volontà mantiene in corso il processo penale. Queste disposizioni trovano applicazione anche nel caso in cui il minore abbia superato i quattordici anni dopo la presentazione della querela.
Le stesse disposizioni valgono per l’accettazione della remissione della querela (art. 155 cod. pen.). Prevale anche in questo caso il principio di conservazione del processo nel senso che prevale sempre la volontà di chi mantiene in corso il procedimento rispetto a chi con la sua volontà intende porvi fine.
Può avvenire che il minore di quattordici anni non abbia chi lo rappresenti o, ipotesi più frequente, che entrambi i genitori si trovino con lui in conflitto di interessi, situazione non tipicizzata dalle norme e che deve quindi essere oggetto di valutazione caso per caso. Si pensi al caso in cui un minore di quattordici anni subisca percosse o lesioni lievi o ingiurie ad opera di persona – per esempio un parente o un convivente o un vicino di casa – nei confronti della quale i genitori si trovino in difficoltà psicologica a presentare querela o non intendano proprio presentarla. Oppure perché uno dei due genitori è responsabile del danno cagionato per esempio colposamente (si pensi ad un incidente stradale) al figlio minore. La situazione non può verificarsi per un minorenne che ha già compiuto quattordici anni perché, come si è visto, ha egli stesso diritto di querela.
In tal caso – sulla base di quanto espressamente dispone l’art. 121 del codice penale – su sollecitazione di chiunque che possa far rilevare l’esistenza del conflitto di interessi, il pubblico ministero può esercitare il potere a lui attribuito dall’art. 338 del codice di procedura penale e chiedere al giudice per le indagini preliminari la nomina di un curatore speciale per la presentazione della querela. In tal caso il termine per la presentazione decorre dalla nomina del curatore speciale.
Anche i servizi socio assistenziali del territorio cui è demandata la cura e l’assistenza dei minori di età possono promuovere – segnalando la situazione al pubblico ministero – la nomina di un curatore speciale (art. 338, comma 3, cod. proc. pen.).
La situazione è piuttosto delicata perché la volontà di presentare querela è sempre discrezionale e l’omessa querela da parte dei genitori potrebbe rispondere ad un intendimento non necessariamente condizionato o egoistico o contrastante con quello del figlio minore, ma espressione di principi rispettabili di libertà educativa, per esempio orientati, nei casi non gravi, a non traumatizzare con un processo il minore. Per questo è opportuno che il pubblico ministero valuti con attenzione la motivazione dell’omissione e l’esistenza del conflitto di interessi.
Naturalmente il curatore speciale non può presentare querela dopo la morte del titolare (minore o infermo di mente) (Cass. pen. Sez. II, 14 giugno 2007, n. 32873).
Il quinto comma dell’art. 338 del codice di procedura penale – che anche in questo caso prevede il meccanismo di nomina del curatore speciale su iniziativa del pubblico ministero – contempla l’ipotesi in cui la necessità della nomina del curatore speciale sopraggiunga dopo la presentazione della querela. Questo potrebbe per esempio avvenire quando nel corso del procedimento penale si intraveda un conflitto di interessi tra il genitore e il minore in ragione del quale occorre che il minore venga autonomamente rappresentato.
La stessa disciplina sopra esaminata per il minore infraquattordicenne è prevista dal codice penale (art. 120) anche per gli interdetti per infermità di mente. Quindi per l’interdetto la querela deve essere presentata dal tutore. Se manca il tutore o questi si dovesse trovare in situazione di conflitto di interessi verrà nominato un curatore speciale. Nel caso di infermi di mente non interdetti la giurisprudenza ha ritenuto che la querela da essi presentata sia perfettamente valida analogamente a quanto prevede per i minori ultraquattordicenni (e per gli inabilitati) l’art. 120 cod. pen. (Cass. pen. Sez. III, 4 novembre 2010, n. 42440; Cass. pen. Sez. III, 12 maggio 2010, n. 27044; Cass. pen. Sez. VI, 6 aprile 2000, n. 7280) ritenendosi necessaria la nomina di un curatore “soltanto nel caso in cui la persona offesa dal reato non abbia potuto proporre querela a causa della propria infermità”
Anche nel processo penale può verificarsi una situazione di conflitto di interessi tutte le volte in cui atti o comportamenti del genitore appaiano orientati in modo disfunzionale rispetto alla tutela dell’interesse del minore.
La pratica giudiziaria e il lavoro psicoterapeutico nei casi di abuso sui minori hanno messo in luce diverse motivazioni del conflitto di interessi: a) il comportamento di omertà, di copertura e di connivenza da parte del coniuge del genitore incestuoso o maltrattante; b) la circostanza che nel nucleo monogenitoriale ad essere indagato di reati commessi nei confronti del figlio minore sia l’unico genitore; c) la circostanza che il genitore non indagato sia gravemente insufficiente mentale; d) la grave inadeguatezza di entrambi i genitori nella relazione di aiuto dovuta al minore vittima di reati.
In molti casi il conflitto di interessi è in re ipsa come avviene quando del reato contro il minore è indagato il genitore che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale. Si pensi ai reati in danno del figlio commessi (dall’unico genitore o) dal genitore che, a seguito di separazione, divorzio o scissione della coppia genitoriale naturale, abbia l’affidamento esclusivo del figlio minore. In queste ipotesi l’art. 337-quater c.c. (come modificato dall’art. 55 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) attribuisce al genitore affidatario l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale, “salva diversa disposizione del giudice”. Il conflitto di interessi, quindi, è in re ipsa. Poiché l’ultimo comma della stessa disposizione prevede in questi casi che il genitore non affidatario abbia il diritto e dovere di vigilare sull’educazione del figlio ma non gli attribuisce espressamente la rappresentanza del figlio in sostituzione del genitore affidatario, ritengo che nelle ipotesi di conflitto di interessi determinate dall’essere il genitore affidatario indagato di reati contro il figlio il giudice debba sempre nominare al minore un curatore speciale. Fatto sempre salvo, naturalmente, il diritto del genitore non affidatario esclusivo di promuovere un giudizio per la modifica dell’affidamento o per l’intervento giudiziario di verifica della responsabilità genitoriale.
La nomina del curatore speciale non è comunque obbligatoria – soprattutto in presenza di un genitore adeguatamente protettivo che possa rappresentare il minore – perché ciò porterebbe ad una eccessiva dilatazione dell’intervento pubblico nella famiglia e comporterebbe rischi di forte deresponsabilizzazione e di delega da parte dei genitori.
Nei soli casi, quindi, in cui l’autorità giudiziaria riscontra un concreto conflitto di interessi tra il minore vittima di un reato e le persone che lo rappresentano legalmente, si deve garantire al minore che la rappresentanza dei suoi interessi non resti inquinata dal perseguimento di interessi diversi.
Il procedimento per la nomina del curatore speciale è disciplinata dagli art. 121 c.p. e art. 77 comma 2, 90 comma 2 e 338 c.p.p. che, sia pure in modi e situazioni differenziate, si propongono di garantire la possibilità di ovviare a situazioni in cui manca la persona alla quale spetta la rappresentanza legale del minore e che, nel loro nucleo più significativo – analogamente a quanto previsto in sede civile – intendono soprattutto salvaguardare l’esigenza di ovviare processualmente a casi di conflitto di interessi.
Giurisprudenza
Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 263 c.c., che regola l’im¬pugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, ritenendo che in detta fattispecie non è costituzionalmente ammissibile che l’esigenza di verità della filiazione si imponga in modo automatico sull’inte¬resse del minore, con la conseguenza che i due valori (verità ed interesse del minore) devono essere bilanciati mediante un adeguato giudizio comparativo, all’esito del quale non è affatto necessario che, in base alle emer¬genze del caso concreto, l’esigenza di verità dello status filiationis prevalga sull’interesse del minore a rimanere in quel contesto familiare.
Cass. civ. Sez. II, 14 dicembre 2017, n. 30068 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel valutare le condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato nel caso in cui l’istanza sia formu¬lata in una causa di separazione personale tra i coniugi, si deve escludere dal cumulo dei redditi familiari il solo reddito dell’altro coniuge, e non anche quello dei figli conviventi, essendo esclusivamente il coniuge in conflitto di interessi con l’altro che ha promosso l’azione o che è convenuto.
Cass. civ. Sez. III, 28 marzo 2017, n. 7889 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il curatore speciale che venga nominato dal giudice tutelare, ex art. 320 c.c., in una situazione di conflitto di interessi tra il minore e il genitore esercente la patria potestà, ha poteri di rappresentanza del minore identici a quelli del genitore, sicché ha legittimazione processuale quanto ai giudizi che sorgono in relazione all’atto (nella specie, una donazione) per cui sia stata disposta la nomina.
Cass. civ. Sez. III, 9 marzo 2017, n. 6020 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il comma 2 dell’art. 78 c.p.c. si riferisce ai casi in cui sorga un conflitto di interessi tra rappresentante e rappre¬sentato non altrimenti disciplinato da norme sostanziali, per cui, nei casi di conflitto, la parte non può esercitare direttamente i poteri che le norme le riconoscono, dovendo gli stessi essere esercitati da un curatore speciale, la cui mancata nomina attiene all’esercizio dei poteri processuali e non al contraddittorio; ne consegue che, in base al principio secondo il quale le ipotesi di rimessione della causa al primo giudice sono quelle tassativamente indicate nei commi 1 e 2 dell’art. 354 c.p.c. (oltre a quelle di cui al precedente art. 353), il giudice di appello, in difetto della suddetta nomina in primo grado per la risoluzione dell’indicato conflitto, deve decidere la causa nel merito, rinnovando eventualmente gli atti nulli (attività, nella specie, esclusa dall’intervenuta costituzione del curatore speciale nel giudizio di gravame, fatta valere su istanza del rappresentato, produttiva di effetto sanante ai fini della rappresentanza processuale e dei poteri del curatore in ordine all’impugnazione).
Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2016, n. 12962 (Famiglia e Diritto, 2016, 11, 1025 nota di VERONESI)
Nel procedimento di adozione in casi particolari di cui all’art. 44, comma 1, lett. d), della l. n. 184 del 1983, non è configurabile un conflitto di interessi “in re ipsa”, anche solo potenziale, tra il minore adottando ed il genitore-legale rappresentante, che imponga la nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c., dovendo, anzi, individuarsi nella necessità dell’assenso del genitore dell’adottando, di cui all’art. 46 della legge citata, un indice normativo contrario all’ipotizzabilità astratta di un tale conflitto, che, invece, va accertato in concreto da parte del giudice di merito. Tale peculiare istituto, infatti, mira a dare riconoscimento giuridico, previo accertamento della corrispondenza della scelta all’interesse del minore, a relazioni affettive continuative e di natura stabile instaurate con quest’ultimo e caratterizzate dall’adempimento di doveri di accudimento, di assistenza, di cura e di educazione analoghi a quelli genitoriali, in quanto inteso a consolidare, ricorrendone le condizioni di legge, legami preesistenti e ad evitare che si protraggano situazioni di fatto prive di uno statuto giuridico adeguato.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 giugno 2016, n. 11782 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di adozione, ai sensi degli artt. 8, ultimo comma, e 10, secondo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184, come novellati dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, il procedimento volto all’accertamento dello stato di adottabilità deve svolgersi fin dalla sua apertura con l’assistenza legale del minore, il quale è parte a tutti gli ef¬fetti del procedimento, e, in mancanza di una disposizione specifica, sta in giudizio a mezzo di un rappresentan¬te, secondo le regole generali, e quindi a mezzo del rappresentante legale, ovvero, in caso di conflitto d’interessi, di un curatore speciale, soggetti cui compete la nomina del difensore tecnico.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2016, n. 1957 (Nuova Giur. Civ., 2016, 7-8, 1032 nota di NASCOSI)
Nel giudizio di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ex artt. 263 e 264 cod. civ., così come nell’azione di disconoscimento di paternità disciplinata agli artt. 243-bis ss. cod. civ., è sempre configurabile un potenziale conflitto di interessi tra il minore ed il genitore cui spetta la rappresentanza processuale, quali soggetti legittimati passivi e litisconsorti necessari, con la conseguenza che il minore ha il diritto di contraddire nel giudizio attraverso la nomina di un curatore speciale, nonostante la lacuna normativa sul punto.
In tema di impugnativa di riconoscimento di figlio nato fuori dal matrimonio, per difetto di veridicità, è neces¬saria, a pena di nullità del relativo procedimento per violazione del principio del contraddittorio, la nomina di un curatore speciale per il minore, legittimato passivo e litisconsorte necessario, dovendosi colmare la mancanza di una espressa previsione in tal senso dell’art. 263 c.c. (anche nella formulazione successiva al d.lgs. n. 154 del 2013) mediante una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata in quanto la posizione del minore si pone, in via generale ed astratta, in potenziale conflitto di interessi con quella dell’altro genitore legittimato passivo, non potendo stabilirsi “ex ante” una coincidenza ed omogeneità d’interessi in ordine né alla conservazione dello “status”, né alla scelta contrapposta, fondata sul “favor veritatis” e sulla conoscenza della propria identità e discendenza biologica.
Cass. civ. Sez. II, 29 gennaio 2016, n. 1721 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La verifica del conflitto del conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale va operata in concreto, alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa, e non in astratto ed “ex ante”, ponendosi una diversa soluzione in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo.
Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2015, n. 22566 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È inammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell›art. 111 Cost. contro il decreto di nomina di curatore speciale ex art. 78 c.p.c., perché tale provvedimento non attribuisce o nega un bene della vita, ma assicura la rappresentanza processuale all’incapace che ne sia privo o al rappresentato che sia in conflitto d’interessi con il rappresentante, ha una funzione strumentale al singolo processo, destinata ad esaurirsi nell’ambito del processo medesimo, ed è sempre revocabile o modificabile ad opera del giudice che l’ha pronunciato, anche d’ufficio in primo grado e, successivamente, su gravame di parte, ad opera dei giudici di merito e di legittimità. (Nella spe¬cie, era stato nominato un curatore speciale alla società costituita in giudizio in persona del suo amministratore unico, a sua volta convenuto da un socio per danni procurati anche alla medesima società).
Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2015, n. 8100 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 336, ultimo comma c.c. che prevede la nomina di un difensore del minore, trova applicazione solo relativa¬mente ai provvedimenti limitativi della potestà genitoriale, nel caso in cui si ravvisi un concreto profilo di conflitto di interessi tra genitori e minore, e non anche alle controversie relative al regime di affidamento e di visita del minore, nelle quali la partecipazione del minore si esprime mediante l’ascolto dello stesso, quale adempimento già previsto dall’art. 155-sexies c.c., divenuto necessario ai sensi dell’art. 315-bis c.c., in tutte le questioni e procedure che lo riguardano, in attuazione dell’art. 2 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo.
Cass. civ. Sez. III, 13 aprile 2015, n. 7362 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Allorquando l’esigenza della nomina di un curatore speciale ex art. 78 cod. proc. civ. si manifesti nel corso del giudizio ed in relazione ad esso, la corrispondente istanza deve essere proposta al giudice (monocratico o colle¬giale nelle ipotesi di cui all’art. 50 bis cod. proc. civ.) della causa pendente, a tanto non ostando la riconducibilità alla giurisdizione volontaria del provvedimento di cui all’art. 80 cod. proc. civ.
Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21101 (Famiglia e Diritto, 2015, 4, 324 nota di TOMMASEO)
Al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio sull’opposizione al riconoscimento successivo di cui all’art. 250 c.c. parte che, di regola, è rappresentata dal genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento oppure da un curatore speciale, nominato ai sensi della norma generale di cui all’art. 78 c.p.c. tutte le volte in cui si profili in concreto un conflitto d’interessi tra il minore e il genitore rappresentante.
Trib. Milano Sez. IX Decreto, 19 giugno 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudice, nel suo prudente apprezzamento e previa adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, può sempre procedere alla nomina di un curatore speciale in favore del fanciullo, avvalendosi della disposizione dettata dall’art. 78 c.p.c., che non ha carattere eccezionale, ma costituisce piuttosto un istituto che è espres¬sione di un principio generale, destinato ad operare ogni qualvolta sia necessario nominare un rappresentante all’incapace; la nomina del curatore speciale prescinde da un’istanza di parte e può essere disposta d’ufficio dal giudice, In particolare, il curatore speciale può essere designato quando appaia necessario che sia una terza persona a rappresentare il minore. Il contenuto delle misure protettive del minore non deve essere stereotipato e automatico ma mirare, nel caso concreto, ad offrire una soluzione effettiva e celere del problema.
Cass. pen. Sez. VI, 10 giugno 2014, n. 41828 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’esercizio del diritto di querela da parte del curatore speciale, non assume alcun rilievo il conflitto di interessi tra i genitori della persona offesa (minore o inferma di mente), in quanto l’unico possibile conflitto di interessi previsto dall’art. 121 cod. pen. è quello tra il curatore speciale e la persona rappresentata e non quello tra il rappresentante-curatore speciale ed altri soggetti, come l’imputato. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto valida, pur se in assenza di un’autorizzazione del giudizio tutelare, la querela sporta da un genitore, nei confronti dell’altro genitore per l’inadempimento degli obblighi di assistenza gravanti su quest’ultimo).
Cass. civ. Sez. II, 9 giugno 2014, n. 12953 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È configurabile, e opponibile al minore rappresentato, la simulazione assoluta di un atto, eccedente i limiti dell’ordinaria amministrazione, compiuto dal legale rappresentante, preventivamente e regolarmente autorizza¬to dal giudice tutelare.
Cass. civ. Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7478 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La disposizione di cui all’art. 336, ultimo comma, c.c. – che richiede l’assistenza di un difensore – trova applica¬zione soltanto per i provvedimenti limitativi ed eliminativi della potestà genitoriale, ove si pone in concreto un profilo di conflitto di interessi tra genitori e minore, e non già in una controversia relativa al regime di affidamen¬to e di visita del minore, figlio di una coppia che ha deciso di cessare la propria comunione di vita.
Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5097 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento finalizzato all’accertamento del diritto del minore a conservare rapporti significativi con gli ascendenti ed i parenti del genitore scomparso, il comportamento ostativo del genitore superstite costituisce una condotta pregiudizievole secondo la previsione degli artt. 330 e segg. cod. civ., poiché comporta la rescissione, nella fase evolutiva della formazione della personalità del ragazzo, di una sfera affettiva e identitaria assolu¬tamente significativa, e lo espone a una vicenda esistenziale particolarmente dolorosa. In tale procedimento il minore assume la qualità di parte e, in quanto tale, come affermato anche dall’art. 315 bis cod. civ., introdotto dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219, ha diritto di essere ascoltato, purché abbia compiuto gli anni dodici, ov¬vero, sebbene di età inferiore, sia comunque capace di discernimento, cosicché la sua audizione non può – anche nel caso in cui il giudice disponga, secondo il suo prudente apprezzamento, che l’audizione avvenga a mezzo di consulenza tecnica – in alcun modo rappresentare una restrizione della sua libertà personale ma costituisce, al contrario, un’espansione del diritto alla partecipazione nel procedimento che lo riguarda, quale momento formale deputato a raccogliere le sue opinioni ed i suoi effettivi bisogni.
Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’opposizione al riconoscimento ex art. 250 c.c. può essere accolta in caso di giudizio di inidoneità genitoriale del padre e di pericolo di compromissione dello sviluppo psico-fisico della minore in caso di riconoscimento della stessa da parte del genitore.
Nella interpretazione che è stata offerta dalla Corte costituzionale all’art. 250 c.c., con la sentenza n. 83 del 2011 – che ne ha per tale via confermato la conformità a Costituzione – essendo implicati nel procedimento de quo rilevanti diritti ed interessi del minore, ed in primo luogo quello all’accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse, questi, anche se di età inferiore a sedici anni, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica: sicché, in caso di opposizione dell’altro genitore al riconoscimento, egli gode di piena tutela dei suoi diritti ed interessi. Ne deriva che al detto minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 cod. civ. E, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317-bis e 320 cod. civ.), qualora si prospettino situazioni di conflitto di interessi, anche in via potenziale, la tutela della sua posizione può essere in concreto attuata soltanto se sia autonomamente rappresentato e difeso in giudizio, mediante nomina di un terzo rappresentante.
Cass. civ. Sez. VI, 28 ottobre 2013, n. 2431 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mancata richiesta, da parte del figlio maggiorenne non indipendente economicamente, di corresponsione diretta dell’assegno di mantenimento giustifica la legittimazione a riceverlo da parte del genitore con lui convi¬vente, il quale anticipa le spese per il suo mantenimento e le programma d’accordo con lui, e, di conseguenza, il genitore obbligato non ha alcuna autonomia nella scelta del soggetto nei cui confronti adempiere.
Cass. civ. Sez. I, 25 luglio 2013, n. 18075 (Famiglia e Diritto, 2014, 2, 135, nota di CARPENTIERI)
La legittimazione del genitore a richiedere “iure proprio” all’ex coniuge separato o divorziato la revisione del contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne, non ancora autosufficiente economicamente, va esclusa in difetto del requisito della coabitazione con il figlio, la quale sussiste solo in presenza di un collegamento stabile di questi con l’abitazione del genitore, compatibile con l’assenza anche per periodi non brevi, purché, tuttavia, si ravvisi la prevalenza temporale dell’effettiva presenza, in relazione all’unità di tempo considerata. (Nella specie, la S.C. ha rigettato il motivo di ricorso avverso la decisione della corte di merito, che aveva ritenuto cessato il requisito della coabitazione per effetto del trasferimento del figlio maggiorenne, per ragioni di studio, in altra località, ove aveva preso in locazione un appartamento).
Cass. pen. Sez. V, 4 ottobre 2012, n. 3207 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di titolarità del diritto di querela, la previsione di cui all’art. 120, comma terzo, cod. pen. – per la quale il diritto di querela può essere esercitato dai minori che hanno compiuto gli anni quattordici e dagli inabilitati oltre che, in loro vece, dal genitore, tutore o curatore – non può essere intesa nel senso che questi ultimi possono esercitare tale diritto soltanto nel caso in cui i rappresentati non lo abbiano fatto, trattandosi di diritto distinto ed autonomo che può essere esercitato anche in presenza di una volontà contraria o a seguito dell’avvenuto esercizio da parte dei rappresentati.
Cass. civ. Sez. II, 27 luglio 2012, n. 13520 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza ad autorizzare la vendita di immobili ereditati dal minore soggetto alla potestà dei genitori appartiene al giudice tutelare del luogo di residenza del primo, a norma dell’art. 320, terzo comma, cod. civ., unicamente per quei beni che, provenendo da una successione ereditaria, si possono considerare acquisiti al suo patrimonio. Ne consegue che, ai sensi del primo comma dell’art. 747 cod. proc. civ., la competenza spetta, sentito il giudice tutelare, al tribunale del luogo di apertura della successione, ove il procedimento dell’acquisto “iure hereditario” non si sia ancora esaurito per essere pendente la procedura di accettazione con beneficio di inventario, in quanto, in tale ipotesi, l’indagine del giudice non è circoscritta soltanto alla tutela del minore, ai sensi dell’art. 320 cod. civ., ma si estende a quella degli altri soggetti interessati alla liquidazione dell’eredità, così evitandosi una disparità di trattamento fra minori “in potestate” e minori sotto tutela, con riguardo alla di¬versa competenza a provvedere per i primi (giudice tutelare ai sensi dell’art. 320 cod. civ.) e i secondi (tribunale quale giudice delle successioni, in base all’art. 747 cod. proc. civ.).
Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2012, n. 5884 (Famiglia e Diritto, 2012, 7, 653, nota di CARBONE)
Nel giudizio di opposizione al secondo riconoscimento di figlio naturale, ai sensi dell’art. 250, comma 4, c.c. il minore degli anni sedici dev’essere obbligatoriamente sentito, salvo che ne sia incapace per età o per altre ra¬gioni che il giudice di merito deve indicare in motivazione.
Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2012, n. 4296 (Giur. It., 2012, 6, 1288, nota di SAVI)
È ammissibile nei giudizi di separazione e divorzio l’intervento del figlio maggiorenne che abbia diritto al man¬tenimento, in tale veste legittimato in via prioritaria a ottenere il versamento diretto del contributo. L’intervento in giudizio del figlio maggiorenne economicamente non autosufficiente può avvenire in tutte le forme previste dall’art. 105 c.p.c. (per far valere un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo della controversia, o even¬tualmente in via adesiva) e assolve una funzione di ampliamento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito all’entità e al versamento del contributo al mantenimento sulla base di un’approfondita ed effettiva disamina delle istanze dei soggetti interessati.
Nei giudizi di separazione o di divorzio, alla luce della introduzione dell’art. 155-quinquies c.c., l’intervento in giudizio, per far valere un diritto relativo all’oggetto della controversia, o eventualmente in via adesiva, del figlio maggiorenne, il quale, in quanto economicamente dipendente e sotto certi aspetti assimilabile al minorenne (in ordine al quale, proprio in epoca recente, in attuazione del principio del giusto processo, si tende a realizzare forme di partecipazione e di rappresentanza sempre più incisive), assolve, latu sensu, una funzione di amplia¬mento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito all’entità e al versamento – anche in forma ripartita – del contributo al mantenimento, sulla base di un’approfondita ed effettiva disamina delle istanze dei soggetti interessati.
È legittimo l’intervento in giudizio ex art. 105 c.p.c. sia principale che litisconsortile, del figlio maggiorenne non ancora autosufficiente economicamente, nella causa di separazione coniugale dei propri genitori, volto ad otte¬nere il contributo al proprio mantenimento, per proseguire gli studi universitari; detto intervento, inquadrabile nella fattispecie sostanziale di cui all’art. 155 quinquies, comma 1, c.c., concerne un diritto relativo all’oggetto della lite ed ampliando il contraddittorio consente un simultaneus processus avanti al giudice del merito che deve decidere in ordine all’entità e al versamento dell’assegno di mantenimento, sulla base dell’analisi delle istanze proposte da tutti gli interessati.
Cass. civ. Sez. II, 19 gennaio 2012, n. 743 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rappresentanza processuale del minore, l’autorizzazione del giudice tutelare ex art. 320 cod. civ. è necessaria per promuovere giudizi relativi ad atti di amministrazione straordinaria, che possono cioè arrecare pregiudizio o diminuzione del patrimonio e non anche per gli atti diretti al miglioramento e alla conservazione dei beni che fanno già parte del patrimonio del soggetto incapace. Ne consegue che si atteggiano ad atti di ordinaria amministrazione, per i quali non è necessaria la predetta autorizzazione, tanto l’azione di rivendica finalizzata ad accrescere o a tutelare in senso migliorativo il patrimonio dell’incapace, quanto l’assunzione di una posizione processuale assimilabile a quella di un convenuto, come l’intervento volontario in giudizio per contrastare la domanda dell’attore di riconoscimento di un diritto di proprietà, giacché il provvedimento del giudice tutelare è richiesto solo quando il minore assuma la veste di attore in primo grado, ma non per le difese e gli atti diretti a resistere all’azione avversaria.
Cass. civ. Sez. VI, 16 giugno 2011, n. 13221 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei giudizi riguardanti lo stato di adottabilità, il tutore provvisorio è legittimato a rappresentare il minore, salvo che sussista in concreto il conflitto d’interessi tra esso e il minore. (Principio espresso ai sensi dell’art. 360 bis, n. 1, cod. proc. civ.).
Cass. civ. Sez. I, 13 maggio 2011, n. 10654 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il genitore, autorizzato dal tribunale ai sensi dell’art. 320, quinto comma, cod. civ., alla continuazione dell’eser¬cizio dell’impresa commerciale del minore, può compiere, senza necessità di specifica autorizzazione del giudice tutelare, anche i singoli atti strettamente collegati a tale esercizio, stante il carattere dinamico dell’impresa e la necessità di assumere decisioni pronte e tempestive, le quali sarebbero gravemente ostacolate, o addirittura paralizzate qualora, per ogni singolo atto, occorresse rivolgersi all’autorità giudiziaria; pertanto, non necessita di previa autorizzazione la stipula del contratto di apertura di credito bancario, essendo strumento fondamentale e presupposto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale, la quale non potrebbe svolgersi senza i fondi necessari. È, inoltre, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 320, quinto comma, cod. civ., sollevata con riferimento all’art. 3 Cost., per violazione del principio di uguaglianza tra minore esercente e minore non esercente un’attività commerciale, dal momento che nel primo caso è prevista dalla legge una du¬plice autorizzazione (provvisoria da parte del giudice tutelare, definitiva da parte del tribunale in composizione collegiale che, in detta sede, può controllare e valutare l’attività svolta dopo la prima autorizzazione) e che, in forza dell’art. 334 cod. civ., in ipotesi di cattiva amministrazione del patrimonio del minore, il tribunale per i minorenni può stabilire condizioni e prescrizioni ai genitori e, nei casi più gravi, rimuovere entrambi o uno di essi dall’amministrazione, come pure il curatore speciale esercente l’impresa.
Corte cost. 11 marzo 2011, n. 83 (Foro It., 2011, 5, 1, 1289)
È infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 250 c.c., in quanto nel giudizio promosso dal genitore naturale, a seguito dell’opposizione dell’altro genitore che abbia già operato il riconoscimento, al fine di effettuare a propria volta il riconoscimento, il giudice ha il potere di nominare un curatore speciale del minore, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 30, 31 e 111 Cost..
Non è fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 250 del codice civile, sollevata in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 30, 31 e 111 della Costituzione, in quanto per la fattispecie prevista dall’art. 250, quarto comma, cod. civ., il giudice, nel suo prudente apprezzamento e previa adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, può procedere alla nomina di un curatore speciale, avvalendosi della disposizione dettata dall’art. 78 cod. proc. civ. che non ha carattere eccezionale, ma costituisce piuttosto un istituto che è espressione di un principio generale, destinato ad operare ogni qualvolta sia necessario nominare un rappresentante all’incapace. Invero, già la norma censurata stabilisce che debba essere sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone al riconoscimento (salvo che, per ragioni di età o per altre circostan¬ze da indicare con specifica motivazione, il minore stesso non sia in grado di sostenere l’audizione). Tale adem¬pimento, la cui importanza emerge dalla citata normativa convenzionale, dimostra che il minore infrasedicenne, nella vicenda sostanziale e processuale che lo riguarda, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica, essendo implicati nel procedimento suoi rilevanti diritti e interessi, in primo luogo quello all’accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse. Ne deriva che al detto minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 cod. civ. E, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317-bis e 320 cod. civ.), qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale. Il che può avvenire su richiesta del pubblico ministero, o di qualunque parte che vi abbia interesse (art. 79 cod. proc. civ.), ma anche di ufficio, avuto riguardo allo specifico potere attribuito in proposito all’autorità giudiziaria dall’art. 9, primo comma, della citata Convenzione di Strasburgo.
Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2011, n. 2645 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento del figlio naturale, ai sensi dell’art. 250, quarto comma, cod. civ., costituisce un diritto sog¬gettivo sacrificabile solo in presenza di un pericolo di danno gravissimo per lo sviluppo psico-fisico del minore, correlato alla pura e semplice attribuzione della genitorialità. Pertanto, la mera pendenza di un processo penale a carico del genitore richiedente (nella specie concorso in alterazione di stato, abbandono ed illecito affidamen¬to di neonato a terzi) non integra condizione “ex sé” ostativa all’autorizzazione al riconoscimento; neppure la valutazione del rischio di un eventuale distacco del minore dall’attuale contesto di affidamento deve costituire interferenza ostativa al riconoscimento, posto che non vi è alcun nesso con il diritto alla genitorialità, potendo invece tale valutazione costituire oggetto di giudizio in diverso procedimento “ad hoc”.
Cass. pen. Sez. III, 4 novembre 2010, n. 42440 (Dir. Pen. e Processo, 2011, 11, 1359, nota di BOZHEKU)
È valida la querela presentata in proprio dall’infermo di mente, non dichiarato interdetto né inabilitato, in quanto la nomina di un curatore speciale, su istanza del P.M., è necessaria solo nel caso in cui la persona offesa non possa proporre querela a causa della propria infermità.
Soltanto nel caso in cui la persona offesa dal reato non abbia potuto proporre querela a causa della propria infer¬mità è necessaria la nomina di un curatore speciale, su istanza del P.M., a norma del combinato disposto dell’art. 121 c.p. e dell’art. 388 c.p. Quando, invece, l’interessato, anche se infermo di mente, abbia presentato querela non occorre la nomina di un curatore speciale, neanche per la ratifica dell’atto.
Cass. civ. Sez. I, 19 luglio 2010, n. 16870 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il minore è parte a tutti gli effetti del nuovo procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, al quale partecipa dalla fase iniziale. Il giudizio, sin dalla sua apertura, deve, pertanto, svolgersi con l’assistenza legale del minore che, in mancanza di previsioni di segno contrario, partecipa a mezzo di un rappresentante secondo le regole generali, quindi a mezzo del genitore o del tutore, ovvero, in caso di conflitto di interessi, di un curatore speciale, soggetti questi ai quali compete la nomina del difensore tecnico. Quanto al conflitto di interessi deve rilevarsi che quello tra il minore ed in genitore è in re ipsa, per incompatibilità anche solo potenziale delle rispet¬tive posizioni, mentre quello tra minore e tutore deve essere specificamente ed immediatamente denunciato dal Pubblico Ministero, accertato in concreto dal Giudice e ritenuto idoneo a determinare la possibilità che il potere rappresentativo del tutore sia da questi esercitato in contrasto con il minore. La denuncia in oggetto non può, pertanto, come nella specie, essere prospettata nelle fasi e nei gradi ulteriori del giudizio al solo fine di conse¬guire la dichiarazione di nullità degli atti compiuti sulla base di una situazione non tempestivamente denunciata.
Cass. civ. Sez. I, 14 luglio 2010, n. 16553 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di adozione, mentre il conflitto d’interessi tra minore e genitore è “in re ipsa”, quello con il tutore è solo potenziale ed il relativo accertamento deve essere compiuto in astratto ed “ex ante” e non in con¬creto ed a posteriori, alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti in causa; pertanto, deve escludersi che il tutore (nella specie un ente territoriale), pur se nominato nel corso del procedimento, versi sempre e comun¬que, anche soltanto potenzialmente, in conflitto d’interessi con il minore. (In applicazione del principio la Corte ha cassato la pronuncia della Corte d’appello, sezioni minori che aveva dichiarato la nullità del procedimento di primo grado per difetto di integrità del procedimento dovuta alla costituzione di un unico difensore nella duplice veste di legale del minore e del tutore).
Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2010, n. 14216 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di adozione, compete esclusivamente al rappresentante legale del minore la nomina di un avvocato per la difesa tecnica: infatti il genitore, il tutore ovvero il curatore speciale hanno anche la relativa rappresentanza processuale, non essendo il potere di agire e resistere in giudizio disponibile autonomamente rispetto alla titolarità del bene della vita per il quale la tutela giurisdizionale venga postulata; inoltre, i due ruoli restano distinti, pur quando cumulati nel medesimo soggetto che abbia il titolo, richiesto dall’art.82, secondo comma, cod.proc.civ., per esercitare la difesa tecnica.
Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 2010, n. 14063 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, così come profondamente novellato dalla legge n. 149 del 2001, si caratterizza, vista la soppressione della previgente fase dell’opposizione, come unico ed imme¬diatamente contenzioso. Il minore, nell’ambito di siffatto sistema, è rappresentato in giudizio da un rappresen¬tante legale, il genitore o il tutore, non necessariamente un curatore speciale, il quale è quindi investito tanto dell’apertura del procedimento quanto della rappresentanza del minore, secondo le regole generali, nell’ambito del giudizio. La nomina di un curatore speciale si impone solo nell’ipotesi in cui sussista un conflitto di interessi tra il rappresentante legale ed il minore stesso (conflitto che nel caso di genitore sussiste in re ipsa) nel qual caso posto che compete al rappresentante legale la nomina, sin dall’apertura del procedimento, di un difensore tecnico, tale onere ricadrà, ove necessario, sul curatore speciale all’uopo nominato.
Cass. civ. Sez. I, 19 maggio 2010, n. 12290 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, la partecipazione del minore, necessaria fin dalla fase iniziale del giudizio, richiede la nomina di un curatore speciale soltanto qualora non sia stato nominato un tutore o questi non esista ancora al momento dell’apertura del procedimento, ovvero nel caso in cui sussista un conflitto d’interessi, anche solo potenziale, tra il minore ed il suo rappresentante legale. Tale conflitto è ravvisa¬bile “in re ipsa” nel rapporto con i genitori, portatori di un interesse personale ad un esito della lite diverso da quello vantaggioso per il minore, mentre nel caso in cui a quest’ultimo sia stato nominato un tutore il conflitto dev’essere specificamente dedotto e provato in relazione a circostanze concrete, in mancanza delle quali il tutore non solo è contraddittore necessario, ma ha una legittimazione autonoma e non condizionata, che può libera¬mente esercitare in relazione alla valutazione degli interessi del minore.
Cass. pen. Sez. III, 12 maggio 2010, n. 27044 (in Foro It., 2011, 5, 2, 310)
È valida la querela presentata personalmente dal maggiorenne infermo di mente e non dichiarato interdetto, in quanto la situazione d’infermità, impeditiva dell’esercizio del diritto di querela implica l’incapacità di autodeter¬minazione consapevole e volontaria. (In motivazione la Corte ha precisato che sarebbe incongruo affermare che la volontà di un soggetto, che pure ha compreso il disvalore sociale di atti da cui risulta danneggiato, una volta espressa, debba soccombere di fronte all’astratta considerazione che la sua volizione sia legalmente viziata).
Cass. civ. Sez. III, 13 aprile 2010, n. 8720 (Giur. It., 2011, 1, 56, nota di SGOBBO)
La transazione avente ad oggetto la controversia relativa al risarcimento del danno, stipulata dal genitore nell’in¬teresse del figlio minore, costituisce atto di straordinaria amministrazione quando abbia ad oggetto un danno che, per la sua natura e la sua entità, possa incidere profondamente sulla vita presente e futura del minore danneggiato. In questo caso è necessaria, per la validità della transazione, l’autorizzazione del giudice tutelare ex art. 320 cod. civ.
Cass. civ. Sez. I, 26 marzo 2010, n. 7281 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di adozione, mentre il conflitto d’interessi tra minore e genitore è “in re ipsa”, per incompa¬tibilità anche solo potenziale delle rispettive posizioni, il conflitto d’interessi tra minore e tutore deve essere dedotto dal P.M. ovvero da uno dei soggetti indicati dall’art.10 della legge 28 marzo 2001, n.149, ed accertato in concreto dal giudice, come idoneo a determinare la possibilità che il potere rappresentativo sia esercitato dal tutore in contrasto con l’interesse del minore; in tal caso, tuttavia, la denuncia, tendendo alla rimozione pre¬ventiva del conflitto, nonché alla immediata sostituzione del rappresentante legale con il curatore speciale dal momento in cui la situazione d’incompatibilità si è determinata, non può più essere prospettata nelle ulteriori fasi del giudizio al solo fine di conseguire la declaratoria di nullità degli atti processuali compiuti in seguito ad una situazione non denunciata.
Cass. civ. Sez. I, 17 febbraio n. 3805 (Famiglia e Diritto, 2010, 6, 554, nota di FIGONE)
La previsione di un’”assistenza legale” del minore, fin dall’inizio del procedimento adozionale non significa che debba nominarsi un difensore d’ufficio del minore all’atto dell’apertura del procedimento: il minore è parte a tutti gli effetti della procedura, ma, secondo le regole generali, sta in giudizio a mezzo del tutore, ovvero, in mancanza o in caso di conflitto di interessi, del curatore speciale.
Il tutore del minore, ove nominato nel corso della procedura adozionale non può considerarsi sempre e comun¬que in conflitto di interessi con il minore: l’eventuale conflitto dovrà accertarsi caso per caso.
Cass. civ. Sez. I, 17 febbraio 2010, n. 3804 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di adozione, ai sensi degli artt. 8, ultimo comma, e 10, secondo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184, come novellati dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, il procedimento volto all’accertamento dello stato di adottabilità deve svolgersi fin dalla sua apertura con l’assistenza legale del minore, il quale è parte a tutti gli effetti del procedimento, e, in mancanza di una disposizione specifica, sta in giudizio a mezzo di un rappre¬sentante, secondo le regole generali, e quindi a mezzo del rappresentante legale, ovvero, in caso di conflitto d’interessi, di un curatore speciale, soggetti cui compete la nomina del difensore tecnico. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza della corte territoriale che aveva ritenuto spettasse al giudice il potere di nominare d’ufficio un difensore al minore).
Cass. civ. Sez. II, 28 dicembre 2009, n. 27398 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per l’ammissibilità dell’intervento di un terzo in un giudizio pendente tra altre parti è sufficiente che la domanda dell’interveniente presenti una connessione od un collegamento implicante l’opportunità di un “simultaneus pro¬cessus”. In particolare, la facoltà di intervento in giudizio, per far valere nei confronti di tutte le parti o di alcune di esse un proprio diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto in causa, deve essere riconosciuta indipendentemente dall’esistenza o meno nel soggetto che ha instaurato il giudizio della “legitimatio ad causam”, attenendo questa alle condizioni dell’azione e non ai presupposti processuali.
Cass. civ. Sez. Unite, 21 ottobre 2009, n. 22238 (Famiglia e Diritto, 2010, 4, 364 nota di GRAZIOSI
Nei processi che hanno per oggetto l’affidamento dei minori, e comunque in tutti i giudizi destinati a regolare in via esclusiva o prevalente interessi primari degli stessi, i minori, anche quando non sono parti del procedimento, devono considerarsi portatori di interessi contrapposti o diversi da quelli dei genitori e per tale profilo devono quindi essere qualificati parti in senso sostanziale.
L’audizione dei minori, già prevista nell’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario, nelle procedure giudiziarie che li riguardino, ed in particolare in quelle relative al loro affidamento ai genitori, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la legge n. 77 del 2003, e dell’art. 155-sexies cod. civ., introdotto dalla legge n. 54 del 2006, salvo che l’ascolto possa essere in contrasto con gli interessi superiori del minore. Costituisce, pertanto violazione del principio del contraddittorio e dei principi del giusto processo il mancato ascolto che non sia sorretto da espressa motivazione sull’assenza di discernimento che ne può giustificare l’omissione, in quanto il minore è portatore d’interessi contrapposti e diversi da quelli del genitore, in sede di affidamento e diritto di visita e, per tale profilo, è qualificabile come parte in senso sostanziale.
È obbligatoria l’audizione dei figli minori nel procedimento ex art. 710 c.p.c. di modifica delle condizioni di sepa¬razione tra i coniugi, e la sua omissione determina la nullità del provvedimento decisorio per violazione dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 1996 sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, dell’art. 155-sexies c.c., oltreché dei principi del contraddittorio e del giusto processo.
Corte cost. 12 giugno 2009, n. 179 (Famiglia e Diritto, 2009, 10, 869, nota di ARCERI)
È inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 336 c.c., in riferimento agli artt. 3, 30 e 31 Cost. nella parte in cui “non prevede che il Tribunale, in caso di urgente necessità di tutela del minore e di mancato esercizio di azione di potestà da parte dei genitori, dei parenti entro il quarto grado o del Pubblico Ministero, pos¬sa d’ufficio nominare curatore al minore affinché tale organo valuti la proposizione di azione a tutela di quest’ul¬timo”. Invero, da un lato, il giudice a quo non descrive in modo sufficiente la fattispecie oggetto del procedimento principale e ciò determina un difetto di motivazione sulla rilevanza della questione sollevata; dall’altro, il medesi¬mo rimettente non ha valutato – incorrendo in tal modo in un ulteriore difetto di motivazione sulla rilevanza della questione – l’incidenza, sulla fattispecie concreta, della normativa introdotta dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989 e dalla Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori adottata a Strasburgo il 25 gennaio 1996, convenzioni, dotate di efficacia imperativa nell’ordinamento interno e, quindi, recanti una disciplina integrativa rispetto alla previsione dell’art. 336 c.c., col quale devono essere coordinate.
Cass. pen. Sez. V 28 marzo 2008, n. 16776 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La querela presentata ad un organo di polizia da minore infraquattordicenne e sottoscritta da un genitore pre¬sente al fine di assisterlo “per ogni effetto di legge” rileva come querela presentata dal genitore ai sensi dell’art. 120, comma secondo, codice penale.
Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 2008, n. 4 (Famiglia e Diritto, 2008, 3, 298)
L’interesse del figlio minore infrasedicenne al riconoscimento della paternità naturale, di cui all’art. 250 c.c. è definito dal complesso dei diritti che a lui derivano dal riconoscimento stesso, e, in particolare, dal diritto alla identità personale nella sua precisa e integrale dimensione psicofisica. Pertanto, in caso di opposizione al riconoscimento da parte dell’altro genitore, che lo abbia già effettuato, il mancato riscontro di un interesse del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore richiedente, in quanto il sacrificio totale della genitorialità può essere giustificato solo in presenza di gravi e irreversibili motivi che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compromissione dello sviluppo del minore, e in particolare della sua salute psicofisica. La relativa verifica va compiuta in termini concreti dal giudice del merito, le cui conclusioni, ove logicamente e compiutamente motivate, si sottraggono a ogni sindacato di legittimità.
Cass. civ. Sez. III, 27 giugno 2007, n. 14844 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’intervento principale o dell’intervento litisconsortile nel processo, anche se l’articolo 105 cod. proc. civ. esige che il diritto vantato dall’interveniente non sia limitato ad una meramente generica comunanza di riferimento al bene materiale in relazione al quale si fanno valere le antitetiche pretese delle parti, la diversa natura delle azioni esercitate, rispettivamente, dall’attore in via principale e dal convenuto in via riconvenzionale rispetto a quella esercitata dall’interveniente, o la diversità dei rapporti giuridici con le une e con l’altra dedotti in giudizio, non costituiscono elementi decisivi per escludere l’ammissibilità’ dell’intervento, essendo sufficiente a farlo ritenere ammissibile la circostanza che la domanda dell’interveniente presenti una connessione od un collegamento con quella di altre parti relative allo stesso oggetto sostanziale, tali da giustificare un simultaneo processo.
Cass. pen. Sez. II, 14 giugno 2007, n. 32873 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il curatore speciale nominato per l’esercizio del diritto di querela, di cui è titolare la persona offesa minore degli anni quattordici o inferma di mente, non può proporre querela una volta che il relativo diritto si è estinto per morte del titolare.
Cass. civ. Sez. II, 5 giugno 2007, n. 13154 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il genitore autorizzato alla continuazione dell’esercizio dell’impresa commerciale del minore ex art. 320, co. 4, c.c. può compiere, senza necessità di specifica autorizzazione giudiziale, anche gli atti che non rientrano fra quelli di c.d. straordinaria amministrazione purché si tratti di atti pertinenti all’esercizio dell’impresa, ovvero direttamente a quest’ultimo ricollegatisi, restando viceversa escluso che l’autorizzazione si estenda ad atti privi, secondo una valutazione di fatto riservata al giudice di merito, di collegamento funzionale all’atto d’impresa.
Corte cost. 6 luglio 2006, n. 266 (Giur. It., 2007, 8-9, 1901)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 235 c.c., 1° comma, n. 3 nella parte in cui, ai fini dell’azione di discono-scimento della paternità, subordina gli accertamenti istruttori sulla paternità effettiva, da cui risulta che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre, alla pre¬via dimostrazione dell’adulterio della moglie.
Corte cost. 10 febbraio 2006, n. 50 (Foro It., 2006, 4, 1, 966)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 274 c.c., che disciplina il giudizio di ammissibilità dell’azione per la dichiara¬zione giudiziale di paternità o di maternità naturale, per violazione degli artt. 3, co. 2, 24 e 111 Cost. La norma si presenta intrinsecamente e manifestamente irragionevole, e si risolve in un grave ostacolo all’esercizio del diritto di azione garantito dall’ art. 24 Cost., per giunta in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica; da tale manifesta irragionevolezza discende inoltre la violazione del precetto (art. 111, co. 2 , Cost.) sulla ragionevole durata del processo, gravato di una autonoma fase, articolata in più gradi di giudizio, prodromica al giudizio di merito, e tuttavia ormai priva di qualsiasi funzione.
Cass. civ. Sez. Unite, 3 novembre 2005, n. 21287 (Corriere Giur., 2006, 3, 347, nota di FERRANDO)
Nel caso in cui il presunto genitore sia deceduto e siano morti anche i suoi eredi diretti l’azione di dichiarazione giudiziale di paternità esercitata dal figlio non è proponibile, per mancanza di legittimati passivi, non essendo tali gli “eredi degli eredi”.
Cass. civ. Sez. I, 15 aprile 2005, n. 7924 (Famiglia e Diritto, 2005, 4, 436)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, commi 2 e 3, c.c, con riferi¬mento agli artt. 2, 3, 30 e 31 Cost., nella parte in cui prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio per difetto di veridicità possa essere proposta da chiunque vi abbia interesse.
Cass. civ. Sez. II, 15 novembre 2004, n. 21614 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di amministrazione dei beni dei figli “ex” art. 320 c.c., al di fuori dei casi specificamente individuati ed inquadrati nella categoria degli atti di straordinaria amministrazione dal legislatore, vanno considerati di ordi¬naria amministrazione gli atti che presentino tutte e tre le seguenti caratteristiche: 1) siano oggettivamente utili alla conservazione del valore e dei caratteri oggettivi essenziali del patrimonio in questione; 2) abbiano un valore economico non particolarmente elevato in senso assoluto e soprattutto in relazione al valore totale del patrimonio medesimo; 3) comportino un margine di rischio modesto in relazione alle caratteristiche del patri¬monio predetto. Vanno invece considerati di straordinaria amministrazione gli atti che non presentino tutte e tre queste caratteristiche.
Cass. civ. Sez. I, 4 agosto 2004, n. 14934 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento previsto dall’art. 250 c.c., quarto comma, il minore infrasedicenne non assume la qualità di parte, divenendo tale solamente all’esito della nomina del curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c., secondo comma, in presenza di un conflitto d’interessi con il genitore legale rappresentante che si oppone al riconosci¬mento da parte dell’altro genitore naturale, determinandosi in tal caso una sorta di intervento “iussu iudicis” del minore stesso, a mezzo del suddetto curatore. Ne consegue che la sentenza emessa a chiusura del procedimento deve essere notificata, ai fini della decorrenza del termine breve per la relativa impugnazione, anche al suddetto curatore, non determinandosi in difetto il passaggio in giudicato e la conseguente definitività della decisione, in ragione del mancato decorso di detto termine rispetto a tutte le parti in causa. [Principio enunciato nell’ambito di un giudizio concernente la domanda di equa riparazione dei danni (lamentati per effetto di una durata del giu¬dizio ex art. 250 c.c., quarto comma, prolungatasi, anche in ragione della condotta degli addetti alla Cancelleria, per quattro anni e cinque mesi e dedotta come irragionevole in considerazione pure della particolare semplicità del rito camerale e della delicatezza della vicenda in questione), proposta seppur in difetto di notificazione della sentenza emessa a conclusione del giudizio (anche) al curatore speciale nominato alla minore, e dal giudice di merito dell’impugnazione nondimeno ritenuta conclusiva del procedimento all’esito del decorso del termine breve per l’impugnazione fatto decorrere dalla relativa notifica effettuata solamente ai genitori e al P.M.).
Cass. civ. Sez. II, 30 maggio 2003, n. 8803 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di omessa nomina di un curatore speciale previsto dall’art. 78 c.p.c. quando vi sia conflitto d’interessi con il rappresentante, il vizio di costituzione del rapporto processuale, determinando la nullità dell’intero giudizio per violazione della garanzia costituzionale del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., deve essere rilevato dal giudice d’ufficio in qualsiasi stato e grado del giudizio ed anche in sede di legittimità, sempreché sulla questione non si sia formato il giudicato interno, atteso che si verte in tema di rappresentanza sostanziale nel processo e non di rappresentanza sostanziale, essendo invece in quest’ultima ipotesi rimessa all’apprezzamento del giudice di merito – come tale non deducibile per la prima volta né rilevabile d’ufficio in sede di legittimità – l’indagine sulla compatibilità o meno dell’interesse del rappresentante con quello del rappresentato. Nella specie la S.C., nel dichiarare la nullità dell’intero giudizio, ha rilevato d’ufficio l’omessa nomina da parte del giudice di merito del curatore, avendo ravvisato il conflitto d’interessi di cui all’art. 78 c.p.c. fra la società cooperativa convenuta, che aveva dedotto il difetto di titolarità del rapporto per essere stato il contratto – posto a base della domanda dall’attore – sottoscritto, a titolo personale e non quale organo rappresentativo della società stessa dalla mede¬sima persona fisica che nel giudizio ne aveva assunto la rappresentanza legale
Cass. civ. Sez. III, 14 marzo 2003, n. 3795 (Guida al Diritto, 2003, 27, 89)
La transazione dell’esercente la potestà genitoriale sui minori, costituisce atto di straordinaria amministrazione quando abbia per oggetto un danno che, per la natura ed entità, possa incidere profondamente nella vita pre¬sente e futura del minore danneggiato. Pertanto una transazione non autorizzata ai sensi dell’articolo 320 del c.c., dovrà ritenersi invalida nei confronti dei minori e tale invalidità è rilevabile d’ufficio da parte del giudice della cognizione.
Corte cost., 28 novembre 2002, n. 494 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 278, comma 1, c.c. nella parte in cui esclude la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturali e le relative indagini, nei casi in cui, a norma dell’art. 251, comma 1, c.c. il riconoscimento dei figli incestuosi è vietato. Infatti la “capitis deminutio perpetua” e irrimediabile imposta ai cosiddetti figli incestuosi come conseguenza oggettiva di comportamenti di terzi soggetti, costituisce una evi¬dente violazione del diritto a uno “status filiationis” e del principio costituzionale di uguaglianza, come pari digni¬tà sociale di tutti i cittadini e come divieto di differenziazioni legislative basate su condizioni personali e sociali.
Cass. civ. Sez. I, 21 giugno 2002, n. 9067 (Famiglia e Diritto, 2002, 6, 651)
Nelle ipotesi di separazione o divorzio, il figlio divenuto maggiorenne ma non economicamente autosufficien¬te acquista una legittimazione “iure proprio” all’azione per ottenere dall’altro genitore il contributo al proprio mantenimento (che trova il suo fondamento nella titolarità del diritto al mantenimento), concorrente con la legittimazione, anch’essa iure proprio, del genitore convivente; peraltro se il figlio non interviene nel giudizio pendente, e la sentenza di condanna viene emessa solo in favore del genitore convivente, nei suoi confronti non opera il giudicato formale della sentenza, e pertanto egli non ha titolo per richiedere direttamente il pagamento del contributo al mantenimento al genitore obbligato non convivente, non potendosi ravvisare nel caso in esame una ipotesi di solidarietà attiva (che, diversamente da quella passiva, non si presume).
Corte cost., 30 gennaio 2002, n. 1 (Foro It., 2002, I, 3302)
Poiché deve ritenersi che la disposizione di cui all’art. 336 comma 2 c.c. è integrata dall’art. 12 della conven¬zione sui diritti del fanciullo, resa esecutiva con l. n. 176 del 1991, nel senso che il minore costituisce una parte del procedimento camerale in esito al quale il tribunale per i minorenni pronuncia provvedimenti ablativi o modificativi della potestà dei genitori, con la conseguente necessità del contraddittorio nei suoi confronti, se del caso previa nomina di un curatore speciale, la q.l.c. dell’art. 336 comma 2 c.c., in riferimento agli art. 2, 3, comma 2, 24 comma 2, 30 comma 1 e 111 commi 1 e 2 cost., nella parte in cui non prevede a pena di nullità rilevabile d’ufficio che i genitori e il minore che abbia compiuto gli anni dodici siano sentiti in quei procedimenti resta assorbita, mentre spetta al giudice “a quo” stabilire, applicando le norme generali sulle nullità processuali, quali conseguenze esplichi sul provvedimento reclamato l’inosservanza della disposizione censurata, come sopra interpretata.
Cass. pen. Sez. III, 26 novembre 2001, n. 45474 (in Pluris Cedam Utet, 2013, massima redazionale)
In tema di titolarità del diritto di querela, la previsione di cui all’art. 120, comma terzo, c.p. (per la quale in caso di persona offesa ultraquattordicenne o inabilitata il diritto di querela può essere esercitato, oltre che da quest’ultima in loro vece, dal genitore, tutore o curatore) non può essere intesa nel senso che tali soggetti pos¬sano esercitare tale diritto soltanto nel caso in cui i rappresentati non lo abbiano fatto, bensì nel senso che quel diritto è distinto ed autonomo potendo essere esercitato anche in presenza di una volontà contraria o dopo il già avvenuto esercizio da parte dei rappresentati.
Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2001, n. 6470 (Nuova Giur. Civ., 2002, II, 294, nota di LENA)
Nel procedimento previsto dall’art. 250, comma 4, c.c. per conseguire una pronuncia che tenga luogo del man¬cato consenso dei genitore, che abbia già riconosciuto il figlio infrasedicenne, al riconoscimento dello stesso mi¬nore da parte dell’altro genitore, il minore non assume la qualità di parte, ma ne è prevista l’audizione, sempre che ne sia capace per ragioni di età o per altre cause, sicchè in tale procedimento non insorge l’esigenza della nomina di un curatore speciale del minore nè la mancata previsione della necessità di tale nomina si pone in contrasto con gli art. 3, 31 e 111 cost., atteso che il minore risulta adeguatamente protetto dalla verifica che il tribunale per i minorenni è chiamato a compiere circa l’effettiva rispondenza all’interesse dei minore medesimo del secondo riconoscimento.
Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2001, n. 5533 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il conflitto di interessi nel rapporto processuale tra genitore esercente la potestà e figlio è ipotizzabile non già in presenza di un interesse comune, sia pure distinto ed autonomo, di entrambi al compimento di un determinato atto, ma soltanto allorché i due interessi siano nel caso concreto incompatibili tra loro, nel senso che l’interesse del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, non si concili con quello del rappresentato; l’esistenza di una siffatta situazione di conflitto, il cui apprezzamento è rimesso al giudice di merito, non è normativamente pre¬sunta nel caso dell’azione di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, la quale non rientra tra le ipotesi, tassativamente indicate dal legislatore, nelle quali il giudizio deve essere proposto, in rappresentanza del minore, nei confronti di un curatore speciale nominato al riguardo dal giudice; ne conse¬gue che, in ordine a tale azione, trova applicazione, in mancanza della deduzione di una concreta situazione di conflitto di interessi, la regola secondo cui il genitore esercente la potestà è legittimato, nell’interesse del figlio minore, a resistere al giudizio da altri intentato.
Cass. civ. Sez. II, 6 agosto 2001, n. 10822 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rappresentanza sostanziale nel processo, va ravvisata una situazione di conflitto di interessi tra rap¬presentante e rappresentato, tale da comportare la necessità della nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c., ogni volta che sia dedotta in giudizio una situazione giuridica idonea a determinare la possibilità che il potere rappresentativo sia esercitato dal rappresentante in contrasto con l’interesse del rappresentato, e, quindi, anche se il conflitto si configuri come solo potenziale, non essendo necessaria la evidente ricorrenza di sintomi indicativi della effettività del conflitto stesso nomina.
Cass. civ. Sez. II, 16 novembre 2000, n. 14866 (Giust. Civ., 2001, I, 695)
In tema di rappresentanza sostanziale nel processo, va ravvisata una situazione di conflitto di interessi tra rap¬presentante e rappresentato, tale da comportare la necessità della nomina di un curatore speciale, ogniqualvolta sia dedotta in giudizio una situazione giuridica idonea a determinare la possibilità che il potere rappresentativo sia esercitato dal rappresentante in contrasto con l’interesse del rappresentato, essendo il primo portatore di un interesse personale ad un esito della lite diverso da quello vantaggioso per il secondo, dovendosi dichiarare, anche d’ufficio, la nullità dell’intero giudizio in mancanza della suddetta nomina.
Cass. pen. Sez. VI, 6 aprile 2000, n. 7280 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È valido l’atto di querela proposto in proprio dalla persona offesa inferma di mente.
Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 1999, n. 10786 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata la q.l.c. dell’art. 273 c.c. con riferimento agli art. 2 e 24 cost. nella parte in cui, in ipotesi di figlio minorenne, attribuisce al genitore la legittimazione ad agire per la dichiarazione giudiziale di maternità o paternità naturale senza prevedere la necessità della nomina di un curatore speciale per il minore e, in caso di inattività del sostituto processuale, la sospensione dei termini fino al raggiungimento della maggiore età del sostituito; infatti, l’interesse del minore risulta adeguatamente protetto, nel caso di promovimento dell’a¬zione da parte del genitore attraverso la verifica della sua rispondenza a quell’interesse demandata al tribunale per i minorenni (a seguito della sentenza della Corte cost. n. 341 del 1990), nel caso contrario con la possibilità per il figlio, una volta divenuto maggiorenne, di promuovere l’azione, per lui imprescrittibile ai sensi dell’art. 270 c.c.; nella prima ipotesi, inoltre, la scelta di non affiancare obbligatoriamente il rappresentante del minore con un curatore speciale, che ne controlli le iniziative processuali, è ragionevole e coerente con la qualità soggettiva del rappresentante e la sua natura di sostituto processuale, mentre la previsione di una sospensione dei termini o di una rimessione in termini a favore del minore, divenuto maggiorenne, per esercitare le attività (in particolare le impugnazioni) da cui il genitore è decaduto, contrasterebbe con le esigenze di certezza del diritto e costituirebbe violazione del diritto di difesa della controparte, soggetta ad unilaterale possibilità di riesame di una sentenza passata in giudicato.
Cass. civ. Sez. II, 6 agosto 1999, n. 8484 (Famiglia e Diritto, 1999, 6, 576)
L’autorizzazione del giudice tutelare ex art. 320 c.c. è necessaria per promuovere giudizi relativi ad atti di am¬ministrazione straordinaria, che possono cioè arrecare pregiudizio e diminuzione del patrimonio e non anche per gli atti diretti al miglioramento e alla conservazione che fanno già parte del patrimonio del minore. Ne consegue che l’autorizzazione non è necessaria per proporre domanda di demolizione di opere costruite dal vicino in viola¬zione delle norme legali sulle distanze, giacchè con detta azione si mira a impedire l’assoggettamento del fondo dell’incapace a vantaggio del fondo altrui.
Cass. civ. Sez. III, 9 giugno 1999, n. 5694 (Danno e Resp., 1999, nota di VIOLANTE)
È manifestamente infondata la questione di costituzionalità della norma di cui all’art. 2942 c.c. – sollevata con riferimento agli art. 2, 3, 10, 24 e 30 della Carta fondamentale – nella parte in cui non prevede la sospensione del corso della prescrizione in favore del minore in caso di inattività dei genitori esercenti la relativa potestà che versino, rispetto al predetto, in una situazione di conflitto di interessi (nella specie, per essersi reso responsabile del danno causato al minore un altro figlio, anch’egli minorenne), e di conseguente, mancata nomina, al minore stesso, di un curatore speciale da parte del giudice tutelare: dal combinato disposto di cui agli art. 320 e 321 c.c., può desumersi, difatti, anche con riferimento all’ipotesi in parola, la esistenza, in seno all’ordinamento, di un idoneo rimedio, costituito dalla facoltà di nomina di un curatore speciale, da parte del giudice tutelare, su istanza del figlio stesso, del p.m., o di uno dei parenti del minore. Il citato art. 2942 c.c. non può, inoltre, legittimamente ritenersi integrato, sul punto, dall’art. 6 della convenzione europea dei diritti dell’uomo, nella parte in cui tale norma prevede “il diritto di ogni persona alla tutela giurisdizionale dei propri diritti”, al fine di ritenere implicita¬mente recepito, in seno alla norma statuale, il principio di sospensione della prescrizione “de quo”.
Cass. civ. Sez. III, 4 novembre 1998, n. 11071 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza ad autorizzare la vendita di beni ereditati dal minore soggetto alla potestà dei genitori appartiene al giudice tutelare del luogo di residenza del minore stesso unicamente per i beni che si possono considerare definitivamente acquisiti al patrimonio di questi, mentre appartiene al tribunale del luogo dell’apertura della successione allorchè l’acquisto “iure hereditatis” non sia ancora perfezionato, come quanto penda procedura di accettazione con beneficio d’inventario, perchè, in tal caso, l’indagine el giudice adito non è limitata alla tutela del minore – alla quale soltanto è circoscritta dall’art. 320 c.c. – ma si estende a quella degli altri soggetti inte¬ressati alla liquidazione dell’eredità.
Cass. civ. Sez. I, 25 giugno 1998, n. 6292 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il mandato “ad litem” rilasciato al difensore dal legale rappresentante di una società non si estingue per il so¬pravvenuto mutamento della persona fisica che rappresenta la società, ma continua a produrre effetti finchè non sia revocato dal nuovo rappresentante, con la conseguenza che la sostituzione dell’amministratore unico di una società di capitali che sia parte in giudizio, intervenuta al momento della notifica dell’atto d’appello, non incide in alcun modo nella procedibilità del gravame.
Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 1997, n. 9316 (Famiglia e Diritto, 1998, 2, 175)
Nel giudizio per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, la nomina (o il diniego di nomina) del cura¬tore speciale, secondo il testuale tenore dell’art. 274 comma 4 c.c., costituisce esercizio di un potere discrezio¬nale del giudice di merito, che può farvi luogo anche prima di ammettere l’azione, ai fini della rappresentanza in giudizio. Si tratta di un atto che non incide sui diritti del minore e che non ha alcuna autonomia nell’ambito del procedimento (in quanto la rappresentanza del minore è in ogni caso affidata al genitore esercente la po¬testà, ai sensi dell’art. 273 comma 1 c.c.) e che è privo di efficacia decisoria, non spiegando riflessi di sorta sul provvedimento che dichiara ammissibile o inammissibile l’azione. Conseguentemente, trattandosi di un atto a carattere meramente ordinatorio, esso è insuscettibile di ricorso per cassazione anche con riguardo al rimedio straordinario stabilito dall’art. 111 cost
Cass. civ. Sez. III, 22 maggio 1997, n. 4562 (Famiglia e Diritto, 1998, 1, 80)
La transazione avente ad oggetto la controversia relativa al risarcimento del danno, stipulata dal genitore nell’in¬teresse del figlio minore, costituisce atto di straordinaria amministrazione quando abbia ad oggetto un danno che, per la sua natura e la sua entità, possa incidere profondamente sulla vita presente e futura del minore danneggiato. In questo caso è necessaria, per la validità della transazione, l’autorizzazione del giudice tutelare ex. art. 320 c.c.
Cass. civ. Sez. II, 9 luglio 1997, n. 6201(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Configura vizio insanabile della costituzione del rapporto processuale e perciò determina la nullità del relativo giudizio per violazione del principio del contraddittorio, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimen¬to, l’omessa nomina di un curatore speciale (art. 78 c.p.c.) ad una società, convenuta in giudizio dal preteso simulato alienante per accertare la simulazione di una vendita con essa intercorsa – e quindi recuperare il bene trasferitole – che contemporaneamente rivesta la qualità di amministratore unico e rappresentante legale della medesima società, essendo evidente la mera apparenza del contraddittorio – (tant’è che nella specie la società era rimasta contumace) – e il conflitto di interessi tra essa e il suo predetto rappresentante.
Cass. pen. Sez. V, 8 giugno 1995, n. 7595 (in Cass. Pen., 1997, 77)
Con la parola “genitore”, adoperata per designare la persona legittimata a proporre la querela in vece del minore ultraquattordicenne, l’art. 120 comma 3 c.p. prescinde dall’esercizio della patria potestà, riconoscendo la rap¬presentanza legale necessaria e sussidiaria ad entrambi i genitori. (Fattispecie relativa alla querela proposta dal genitore separato, non affidatario del figlio minore ultraquattordicenne, in ordine al delitto di lesioni volontarie).
Cass. civ. Sez. II, 6 aprile 1995, n. 4015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il genitore, non avendo il potere di disporre dei beni dei figli minori senza l’autorizzazione del giudice tutelare ( art. 320 c.c.), non ha neppure il potere di confessare (giudizialmente o extragiudizialmente), senza tale autoriz¬zazione, fatti dalla cui prova il diritto del figlio possa risultare pregiudicato, perché l’art. 2731 c.c., nel prevedere che la confessione non è efficace se non proviene da persona che è capace di disporre del diritto, equipara la con¬fessione ad un atto di disposizione, che, come è precisato nel comma 2 del medesimo articolo, il rappresentante può compiere solo nei limiti in cui dispone del potere di vincolare il rappresentato, e si riferisce, perciò, non solo ai diritti indisponibili considerati dagli art. 2733 e 2735 c.c. (a norma dei quali la confessione a piena prova con¬tro colui che l’ha fatta purché non verta su fatti relativi a diritti non disponibili) ma, più in generale, alla capacità correlata allo stato del soggetto confitente, cioè alla capacità di disporre. Il genitore, conseguentemente, non può confessare la gratuità di un atto di alienazione apparentemente oneroso se tale diversa natura dell’atto ne comportasse la nullità per vizio di forma (nella specie, perché stipulato senza i due testimoni prescritti dall’art. 48 legge 16 febbraio 1913 n. 89) con effetti pregiudizievoli per il minore, essendo sufficiente, per qualificare come confessorio il predetto fatto, l’accertamento delle sue pratiche conseguenze sfavorevoli in relazione all’og¬getto della controversia ed ai termini della contestazione, anche quando queste conseguenze siano collegate a profili ed elementi strettamente giuridici dell’istituto del tutto estranei al contenuto della dichiarazione.
Cass. civ. Sez. I, 3 agosto 1994, n. 7204 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza ad autorizzare il genitore esercente la patria potestà alla prosecuzione dell’esercizio dell’impresa per conto dei figli minori spetta al tribunale ordinario e non a quello per i minorenni, trattandosi di provvedi¬mento previsto dall’art. 320, comma 5, c.c., non richiamato nella tassativa elencazione di cui all’art. 38 disp. att. stesso codice.
Cass. civ. Sez. I, 16 marzo 1994, n. 2515 (Pluris, Wolters Kluwer Italia) Trotta c. Generoso
Nell’impugnazione del riconoscimento di figlio naturale, l’espressione “chiunque vi abbia interesse”, usata dall’art. 263 c.c. per indicare i soggetti che vi sono legittimati, non può ritenersi comprensiva del P.M., essendo essa riferibile ai soli soggetti privati che abbiano un interesse individuale qualificato (concreto, attuale e legittimo) sul piano del diritto sostanziale, di carattere patrimoniale o morale, all’essere o al non essere dello status, del rapporto, dell’atto dedotto in giudizio (ad es. gli eredi e i parenti di chi risulti il genitore legittimo o l’autore del riconoscimento, colui che allega di essere il vero genitore ecc.), con la conseguenza che trova applicazione, in mancanza di una deroga esplicita, la regola generale prevista dall’art. 70 n. 3 c.p.c. secondo la quale nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone il P.M. deve (soltanto) intervenire sotto pena di nullità, e non può, quindi, (anche) esercitare l’azione e proporre impugnazione, senza neppure essere legittimato a proporre domande nuove o riconvenzionali, che comportino l’obbligo ex art. 292 c.p.c..
Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 1994, n. 2430 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione prevista dal codice civile in relazione ai beni degli incapaci non coincide con quella applicabile in tema di determinazione dei poteri attribuiti agli amministra¬tori delle società. Tali poteri, pertanto, devono essere determinati con riferimento all’oggetto sociale e non alla mera rilevanza economica dell’atto.
Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1993, n. 2576 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’azione per la dichiarazione della paternità o maternità naturale ha carattere personalissimo e la legittimazione al suo esercizio compete esclusivamente al figlio e, dopo la sua morte, ai suoi discendenti; se il soggetto legitti¬mato è legalmente incapace, essa può essere promossa, nel suo interesse, unicamente dal genitore che esercita la potestà o dal tutore, in forza delle tassative ipotesi di sostituzione processuale previste dall’art. 273 c.c.; ne consegue che l’eventuale nomina di curatore speciale (art. 274, ult. comma, c.c.) comporta la necessità della presenza di questi in giudizio – per tutelare l’incapace da possibili conflitti d’interesse con chi ha proposto l’azio¬ne – ma non determina una legittimazione attiva concorrente con quella del genitore o del tutore, né escludente la stessa.
Cass. pen. Sez. V, 26 maggio 1992 (Giust. Pen., 1993, II, 348)
In tema di nomina di un curatore speciale per l’esercizio del diritto di querela, la norma di cui all’art. 121 c.p.tende, per quel che riguarda il rapporto tra genitore e figlio, ed evitare che il diritto di querela per fatti offen¬sivi nei confronti del figlio non venga esercitato perchè vi è un interesse contrastante del genitore, ma non può valere a rendere invalida una querela proposta dal genitore solo perchè il figlio potrebbe avere un interesse per¬sonale ad evitare la punizione del colpevole. Una invalidità del genere non è prevista nè può dedursi dal sistema, il quale tende anzi a favorire la proposizione della querela, stabilendo (art. 120 comma 3 c.p.) che il minore che ha compiuto gli anni quattordici può proporre personalmente la querela, ma non può anche impedire che contro la sua volontà la proponga il genitore. (Fattispecie in cui una madre aveva proposto nell’interesse dei figli minori querela per lesioni e percosse nei confronti del padre, con il quale aveva in atto procedimento di separazione personale, e costui assumeva che sarebbe stata necessaria la nomina di un curatore speciale ex art. 121 c.p. in quanto, avendo la moglie un interesse personale alla sua punizione, sussisteva un conflitto di interessi con i figli, dato che questi erano portatori di un proprio interesse al rispetto ed alla tutela della personalità del padre che avrebbero potuto far prevalere su quello alla sua punizione; la Cassazione ha ritenuto infondato tale assunto enunciando il principio di cui in massima).
Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 1992, n. 3416 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio sull’ammissibilità dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità (o maternità), l’art. 273, 1° comma c. c. prevede la autorizzazione del tribunale e, la nomina, facoltativa, di un curatore speciale qualora l’azione sia esercitata dal tutore, mentre non prevede la necessità di un’autorizzazione, né la nomina del curatore quando l’azione è esercitata dal genitore esercente la potestà; si configura così una estensione, rispetto ad un diritto strettamente personale del figlio, del potere di rappresentanza ex lege spettante al genitore stesso: ne deriva che né la nomina del curatore speciale disposta al di fuori della previsione normativa, né la valutazione dell’interesse del minore infrasedicenne da parte del giudice, da annoverarsi fra le condizioni di ammissibilità dell’azione nel quadro dell’art. 274 c. c. possono riflettersi negativamente sulla legittimazione del genitore eser¬cente la potestà a promuovere l’azione.
Cass. civ. Sez. I, 13 marzo 1992, n. 3079 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 321 c. c., così come modificato dall’art. 144 l. 19 maggio 1975 n. 151, giudice competente a nominare un curatore speciale al minore, nel caso in cui entrambi i genitori, o quello di essi che esercita in via esclusiva la potestà, non possono o non vogliono compiere uno o più atti di interesse del figlio, eccedenti l’or¬dinaria amministrazione, è il tribunale ordinario e non il tribunale dei minorenni, né il giudice tutelare, atteso che il riferimento ai provvedimenti del giudice tutelare a proposito dell’art. 321 c. c., contenuto nell’art. 45, 1° comma, disp. att. c. c., deve intendersi fatto con riferimento al 1° comma di detto articolo, non più sussistente nella unitaria formulazione del nuovo testo dell’art. 321, con la conseguenza che questo deve essere inteso, in mancanza di un’espressa attribuzione della detta competenza al tribunale dei minorenni o a diversa autorità giudiziaria, come riferito al tribunale ordinario.
Cass. civ. Sez. III, 28 febbraio 1992, n. 2489 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non si configura conflitto di interessi tra il genitore ed il minore da lui legalmente rappresentato, e non è conse¬guentemente, necessaria la nomina di un curatore speciale, ai sensi dell’art. 320 ultimo comma c. c. quando il compimento dell’atto, pur avendovi i due soggetti un interesse proprio e distinto, realizza un vantaggio comune di entrambi senza danno reciproco (nella specie, costituzione della madre, in proprio ed in rappresentanza dei figli minori, nel giudizio di risarcimento di danno extracontrattuale instaurato contro il padre poi deceduto).
Cass. civ. Sez. I, 22 gennaio 1992, n. 711 (Giur. It., 1993, I,1, 138, nota di SESTA)
L’azione ex art. 580 c.c. può essere esercitata anche dal figlio naturale che abbia lo stato di figlio legittimo altrui, purché il richiedente non abbia omesso consapevolmente e volontariamente di esercitare l’azione di discono¬scimento della paternità, così rendendo impossibile la proposizione dell’azione di dichiarazione giudiziale della paternità naturale.
Corte cost., 27 novembre 1991, n. 429 (Foro It., 1992, I, 2908)
In caso di azione di disconoscimento della paternità di minore infrasedicenne iniziata dal P.M., il diritto vigente fornisce strumenti sufficienti per proteggere lo stesso contro iniziative avventate e a loro volta i genitori legittimi contro azioni temerarie o ricattatorie. Quando, infatti, la domanda di nomina del curatore speciale è proposta dal pubblico ministero nel presunto interesse di un minore infrasedicenne, il giudice, a tutela dello stesso, prima di emettere il decreto motivato previsto dall’art. 737 cod. proc. civ., deve allargare il campo di acquisizione delle sommarie informazioni, includendovi tutti gli elementi necessari o utili per valutare la sussistenza del suo inte¬resse all’esperimento di un’azione che lo spoglierebbe dello stato di figlio legittimo senza garantirgli l’acquisto dello stato di filiazione nei confronti del padre naturale. All’uopo il giudice deve, tra l’altro, ordinare l’audizione dei genitori legittimi ed eventualmente anche delle persone interessate che hanno eccitato l’iniziativa del pubbli¬co ministero per accertarsi della purezza delle loro intenzioni in quanto il tramite del pubblico ministero, di per sé solo, non è sufficiente garanzia. (Non fondatezza, nei sensi di cui in motivazione, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 244, ultimo comma, cod. civ., nel testo sostituito dall’art. 81 della legge 4 maggio 1983, n. 184, “in parte qua”, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.).
È inammissibile, in quanto implicante scelte discrezionali proprie del legislatore, la questione di legittimità co¬stituzionale dell’art. 244, 4° comma, c. c., nella parte in cui, non prevede un giudizio preliminare di delibazione dell’ammissibilità dell’azione di disconoscimento di paternità promossa dal curatore speciale di soggetto infrase¬dicenne, in riferimento all’art. 3 cost.
La determinazione dei soggetti legittimati a proporre l’azione di disconoscimento della paternità è una scelta insindacabile del legislatore che ha ritenuto di riservare ai soli soggetti direttamente interessati, e cioè ai membri della famiglia legittima, il potere di decidere circa la prevalenza della verità “biologica” o della verità “legale”: una innovazione, che attribuisse direttamente la legittimazione ad agire a soggetti privati estranei alla famiglia legittima, quale è il presunto padre naturale, rappresenterebbe la scelta di un criterio diverso, legato ad una ul¬teriore evoluzione della coscienza collettiva, che solo il legislatore può compiere. Né vale opporre che l’equilibrio tra verità legale, che tutela l’unità della famiglia legittima (art. 29 Cost.) e verità biologica (art. 30 Cost.) è stato già modificato dalla legge n. 184 del 1983 con l’ammettere la promozione dell’azione di disconoscimento della paternità su iniziativa del P.M., fino a quando il figlio non abbia compiuto sedici anni, giacché la nuova norma, prevedendo che l’azione sia poi esercitata non dal pubblico ministero, ma, in nome e nell’interesse del figlio, da un curatore speciale, è rimasta formalmente nei limiti del criterio di determinazione dei soggetti titolari dell’azio¬ne assunto dalla legge n. 151 del 1975. FONTI
Corte cost., 20 luglio 1990, n. 341 (Foro It., 1992, I, 2,5 nota di FORMICA)
È illegittimo, per violazione degli art. 3 e 30 cost., l’art. 274, 1° comma, c. c., nella parte in cui non subordina l’ammissibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, oltre che al concorso specifico di circostanze tali da farla apparire giustificata, anche alla condizione che ne sia valutata la rispondenza all’interesse del minore.
Cass. civ. Sez. I, 16 giugno 1990, n. 6093 (Corriere Giur., 1990, 1026)
Il riconoscimento da parte del secondo genitore, seppure è condizionato all’interesse del minore, costituisce pur sempre un diritto soggettivo primario della personalità (art. 30 cost.) ed il sacrificio di tale diritto può avvenire solo in presenza di un fatto impeditivo di importanza proporzionata al suo valore e cioè solo nell’ipotesi in cui dallo stesso possa derivare al minore un trauma così grave da pregiudicare in modo serio il suo sviluppo psico¬fisico e non anche in considerazione dell’interesse del minore stesso a continuare la convivenza con il genitore che per primo lo ha riconosciuto.
Cass. civ. Sez. III, 11 gennaio 1989, n. 59 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La proposizione dell’azione diretta ad ottenere il risarcimento del danno subito da un minore, mirando alla rein¬tegrazione del patrimonio del minore leso dall’atto dannoso, rientra tra gli atti di ordinaria amministrazione e, pertanto, può essere effettuata dal genitore esercente la patria potestà senza autorizzazione del giudice tutelare, la quale non è necessaria neppure affinché il suddetto genitore possa transigere la relativa lite.
Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 1988, n. 2869 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’esercizio di un’azione giudiziaria in rappresentanza di un figlio minore di età da parte del genitore esercente la patria potestà non costituisce atto eccedente l’ordinaria amministrazione quando persegua delle finalità di conservazione del patrimonio del minore e può quindi proporsi in base ai poteri di rappresentanza del genitore, senza che sia necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare ai sensi dell’art. 320 c. c.
Cass. civ. Sez. III, 28 luglio 1987, n. 6542 (Giust. Civ., 1988, I, 454)
Nonostante l’espressa inclusione di tale tipo di negozio nell’elencazione fatta dall’art. 320 c. c. degli atti ecce¬denti l’ordinaria amministrazione, la concessione di mutui a minori resta esentata dalla preventiva autorizzazione del giudice tutelare qualora il prestito, per la sua incidenza economica, sia passibile di restituzione mediante impiego dei redditi del minore, senza pericolo di decurtazione dei suoi capitali o di diminuzione del valore del suo patrimonio; trattasi, peraltro, di eccezione, la cui ricorrenza richiede una specifica prova, da parte di chi resiste all’annullabilità del contratto (di mutuo) non autorizzato, onde superare la presunzione di appartenenza del tipo negoziale al novero degli atti di straordinaria amministrazione.
Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1987, n. 5353 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione prevista dal c. c. agli art. 320, 374 e 394 a proposito dei beni degli incapaci, non è applicabile nella stessa precisa portata al fine di determinare la sfera dei poteri attribuiti dalla legge agli amministratori delle società in genere e della società per azioni in particolare, i quali vanno stabiliti con riferimento agli atti che rientrano nell’oggetto sociale, pur se eccedono i limiti della c. d. ordinaria amministrazione, con la conseguenza che, salve le limitazioni previste nello statuto della società, devono ritenersi rientranti nella competenza degli amministratori tutti gli atti che ineriscono alla gestione della società, ed eccedenti i loro poteri (e quindi riservati all’assemblea) quelli di disposizione è di alienazione di beni strumentali o suscettibili di modificare la struttura della società.
Cass. civ. Sez. I, 13 marzo 1987, n. 2654 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché per l’art. 250 c. c. il genitore che ha per primo riconosciuto il figlio naturale non può rifiutare il consen¬so al riconoscimento dell’altro genitore ove tale riconoscimento risponda all’interesse del figlio, a rendere non conveniente il riconoscimento stesso non è decisivo che il minore si sia inserito stabilmente nella famiglia del primo, dovendo tale elemento essere valutato unitamente ad altri, con riguardo principalmente agli effetti che il riconoscimento di entrambi i genitori può produrre in termine di educazione, istruzione e mantenimento del minore e tenuto, in ogni caso, presente che l’esigenza di evitare turbamenti o conflittualità psicologiche pregiudi¬zievoli all’armonioso sviluppo della personalità dello stesso deve prevalere sul fatto oggettivo della generazione.
Corte cost., 14 luglio 1986, n. 185 (Giur. It., 1988, I,1, 1112)
Non è fondata, in riferimento agli art. 3, 1° e 2° comma, 24, 2° comma, e 30 cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, 1° comma (in relazione all’art. 6, 2° comma) l. 1° dicembre 1970, n. 898 (disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e dell’art. 708 c. p. c. (in relazione all’art. 155 c. c.), nella parte in cui, rispettivamente nel giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio e nel giudizio di separazione per¬sonale dei coniugi, non prevedono la nomina di un curatore speciale che rappresenti in giudizio il minore figlio delle parti, in ordine alla pronuncia sull’affidamento e ad ogni altro provvedimento che lo riguardi; i giudizi in questione, infatti, non attengono né si riflettono sullo status dei figli, ed inoltre, essendo preordinati a scegliere la soluzione migliore per gli interessi del minore, gli interessi di quest’ultimo non rimangono senza tutela, ma sono garantiti da una serie non indifferente di misure.
Cass. civ., 4 dicembre 1985, n. 6063 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di separazione personale dei coniugi, l’affidamento dei figli minori è rimesso alla decisione del giudice e non è configurabile né un diritto dei genitori all’affidamento stesso né un diritto dei figli alla scelta del genitore (nella specie, la corte ha escluso, sulla scorta di detto principio, che i minori fossero titolari di un interesse ad agire in giudizio e conseguentemente la necessità della nomina di un curatore speciale al fine della loro costituzione nel processo quali litisconsorti necessari).
Cass. civ. Sez. Unite,16 ottobre 1985, n. 5073 (Foro It., 1985, I, 2550, nota di COSTANTINO)
Nel caso di conflitto di interessi tra genitori e figli, i poteri di rappresentanza del curatore speciale, nominato per il compimento di un atto sostanziale, pur nei limiti del provvedimento di nomina, si estendono ai giudizi che sorgono in relazione a quell’atto, avendo funzione e contenuto identici a quelli del genitore sostituito.
Cass. civ., 17 maggio 1985, n. 3020 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il conflitto d’interessi tra rappresentante e rappresentato non si configura quando, pur avendo tali soggetti un interesse proprio e distinto al compimento dell’atto, questo corrisponde al vantaggio comune di entrambi, con la conseguenza che i due interessi, secondo l’apprezzamento del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità, siano tra loro compatibili.
Cass. civ., 18 febbraio 1985, n. 1357 (Giust. Civ., 1985, I, 2579)
Nel caso di conflitto di interessi tra genitori e figli, la rappresentanza del minore affidata al curatore speciale per il compimento di un atto si estende anche al giudizio sorto a seguito e in relazione a quell’atto (nella specie: la corte ha rigettato il ricorso avverso la decisione di merito che, sulla base del provvedimento di nomina del curatore speciale, nominato per il compimento di un atto, ne aveva ritenuto sussistente anche la rappresentanza processuale).
Nella controversia promossa nei confronti del curatore speciale del minore, nominato ai sensi dell’art. 320 ultimo comma c. c., con riguardo a contratto che il primo abbia stipulato in nome e per conto del secondo, l’eventuale invalidità dell’autorizzazione richiesta per detta stipulazione (nella specie: sotto il profilo che competeva al tri¬bunale e non al giudice tutelare, trattandosi di negozio di straordinaria amministrazione) può essere fatta valere come ragione di annullabilità (relativa) dell’atto, ai sensi e nei limiti di cui agli art. 322 e 377 c. c., ma non incide sulla rappresentanza processuale del curatore medesimo, e, pertanto, non è invocabile come causa di nullità del giudizio.
Cass. civ., 15 maggio 1984, n. 2936 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’autorizzazione alla continuazione dell’impresa nell’interesse del minore richiesta dall’art. 320, comma 5, c.c., perché questi possa acquistare la qualità di imprenditore, attesa la funzione dell’intera disciplina contenuta nella norma anzidetta, diretta a garantire la conservazione ed un’oculata gestione dei beni costituenti il patrimonio del minore, presuppone che l’azienda cui si riferisce l’impresa da continuare faccia già parte del patrimonio dell’in¬capace, e quindi, ove si tratti di azienda devoluta al minore per successione ereditaria, che l’eredità sia stata accettata dal rappresentante legale con beneficio di inventario; sicché, ove il tribunale autorizzi la continuazione di un’impresa relativa ai beni aziendali che non sono di proprietà del minore perché fanno parte di una succes¬sione rispetto alla quale non è intervenuta l’accettazione beneficiata, il provvedimento autorizzativo, riguardando in sostanza non la mera continuazione di un’impresa preesistente ma l’esercizio di una nuova impresa, è invalido per effetto dell’accennato presupposto essenziale, e quindi, in sede di opposizione alla dichiarazione di fallimento del minore in cui si contesti che quest’ultimo abbia acquistato la qualità di imprenditore, deve essere disapplicata dal giudice la circostanza che il rappresentante legale del minore abbia svolto nel suo nome ed interessi atti di gestione dell’impresa in pendenza di procedura di accettazione dell’eredità, perché il chiamato, o il suo rappre¬sentante legale, può compiere soltanto atti con finalità puramente conservative del patrimonio ereditario previa autorizzazione del giudice tutelare: atti che, quindi, non possono anticipare l’effetto di fare acquistare al minore la qualità di imprenditore, giuridicamente possibile solo quando la fattispecie da cui dipende sia perfezionata.
Cass. civ., 15 settembre 1983, n. 5582 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rappresentanza processuale, il conflitto d’interessi tra il figlio minore ed il genitore che su di lui eser¬cita la potestà, tale da rendere necessaria la nomina di un curatore speciale, si ricollega alla titolarità, in capo al genitore, di una situazione giuridica idonea a determinare la possibilità che il potere rappresentativo sia in contrasto con l’interesse del minore e, pertanto, presuppone che il genitore sia interessato ad un esito della lite diverso da quello che avvantaggi il rappresentato; un conflitto di tale natura, che è rilevante anche quando sia soltanto potenziale, non è configurabile in relazione al genitore che (nella qualità) avendo promosso il giudizio per il risarcimento del danno subito dal figlio resista, in appello, all’impugnazione del terzo ritenuto responsabile, ancorché il giudice di primo grado abbia affermato un concorso di colpa di esso genitore.
Cass. civ., 9 giugno 1983, n. 3977 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare perché il genitore possa agire in giudizio per ottenere il ristoro dei danni subiti dal figlio minore.
Cass. civ., 10 agosto 1982, n. 4491 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di conflitto di interessi fra un minore ed il genitore esercente la potestà, insorto in relazione ad un giu¬dizio pendente, la nomina del curatore speciale del minore compete, a norma dell’art. 320 ultimo comma c. c., unicamente al giudice tutelare, in quanto la norma di cui all’art. 78 ultimo comma c. p. c. ha carattere sussidiario e non è quindi applicabile al conflitto di interessi fra il genitore ed il minore, che è espressamente contemplato dal cit. art. 320; pertanto, la nomina del curatore speciale da parte del presidente dell’ufficio giudiziario dinanzi a cui pende la causa, invece che da parte del giudice tutelare, comporta un vizio del procedimento che determina la nullità della sentenza, la quale può essere dedotta da qualsiasi parte, attenendo alla regolarità del contraddit¬torio sulla quale il giudice deve, a norma dell’art. 182 c. p. c., indagare anche d’ufficio.
Cass. civ., 30 gennaio 1982, n. 599 (Giust. Civ., 1982, I, 2147)
L’azione diretta a fare rientrare nella disponibilità del minore un cespite immobiliare locato a terzi non è soggetta alla preventiva autorizzazione del giudice tutelare.
Cass. civ., 16 dicembre 1981, n. 6660 (Giust. Civ., 1982, I, 626)
Nel giudizio diretto ad ottenere, in caso di rifiuto del consenso da parte del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento, al riconoscimento ad opera dell’altro genitore, una sentenza che tenga luogo del consenso mancante, sono parti necessarie il genitore che si oppone ed il p. m., ma non anche il minore infrasedicenne del cui riconoscimento si tratta e che deve essere solamente sentito.
Nel procedimento previsto dall’art. 250 4° comma c. c., in tema di riconoscimento del figlio minore, per con¬seguire dal tribunale una pronuncia che tenga luogo del mancato consenso al riconoscimento stesso da parte del genitore che abbia già riconosciuto il minore, quest’ultimo non assume la qualità di parte, ma deve essere soltanto sentito per ragioni istruttorie, sempreché ciò sia necessario e possibile, anche in relazione alla sua età; in tale procedimento, pertanto, non insorge l’esigenza della nomina di un curatore speciale del minore.
Cass. civ., 26 ottobre 1981, n. 5591(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il conflitto d’interessi tra padre e figlio minore che legittima la nomina di un curatore speciale sussiste soltanto quando i due soggetti si trovino o possano in seguito trovarsi in posizione di contrasto, nel senso che l’interesse proprio del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, mal si concili con quello del rappresentato; pertan¬to, il conflitto in questione non si configura quando, pur avendo tali soggetti un interesse proprio e distinto al compimento dell’atto, questo corrisponda al vantaggio comune di entrambi, per cui i due interessi, secondo l’apprezzamento del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato, siano tra loro concorrenti e compatibili; (nella specie: in cui il genitore resisteva in giudizio nell’interesse proprio di erede e nell’interesse dei figli minori, legatari, il supremo collegio, enunciando il surriportato principio, ha ritenuto correttamente escluso dai giudici del merito il conflitto di interessi tra il primo ed i secondi).
Cass. civ., 19 gennaio 1981, n. 439 (Dir. Famiglia, 1981, 471)
Competente per la nomina del curatore speciale per l’accettazione della donazione fatta da uno o entrambi i genitori ai figli minori è il giudice tutelare (nella specie: la donazione era stata fatta da entrambi i genitori).
Cass. civ. Sez. III, 13 gennaio 1981, n. 294 (Foro It., 1981, I, 1325)
Il ricorso per cassazione, proposto dal genitore in un giudizio relativo al risarcimento del danno subìto dal patri¬monio del minore, non costituisce atto eccedente l’ordinaria amministrazione.
Cass. civ., 15 dicembre 1980, n. 6503 (Giur. It., 1981, I,1, 1453)
L’azione di risarcimento del danno subìto da un minore rientra negli atti di ordinaria amministrazione che non richiedono l’autorizzazione del giudice tutelare.

Condominio – Accessione – Costruzione su suolo comune da parte di comproprietario – Acquisto per accessione dei comproprietari non costruttori – Sussistenza – Condizioni

Cassazione Sez. Un. Civili, 16 Febbraio 2018, n. 3873. Est. Lombardo.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
omissis
Svolgimento del processo
1. – P.F. convenne, dinanzi al Tribunale di Belluno (Sezione distaccata di Pieve di Cadore), la società Cà D’Oro 3 s.r.l. Premettendo di essere comproprietario pro indiviso, con la società convenuta, di un terreno sito in (*), adiacente al fabbricato condominiale delle parti, chiese lo scioglimento della comunione delle unità immobiliari edificate dalla società Cà D’Oro sul suolo comune (costituite da un corpo edilizio interrato composto da due piani sovrapposti e da altra costruzione a livello seminterrato adibita ad autorimessa e cantina), con conseguente attribuzione delle quote di spettanza di ciascuno e con determinazione degli eventuali conguagli.
La società convenuta, costituendosi e resistendo alle domande attoree, chiese dichiararsi non luogo a provvedere sulla divisione dei locali seminterrati comuni destinati ad autorimessa, cantina ed accessori, stante l’intervenuto accordo fra le parti in ordine all’attribuzione dei beni; chiese, invece, l’attribuzione in proprietà esclusiva del corpo edilizio interrato, sul presupposto che lo stesso fosse di sua proprietà esclusiva; in subordine, nell’ipotesi di accoglimento anche parziale della domanda attorea, chiese la condanna del P. a corrispondere ad essa convenuta un indennizzo per l’indebito arricchimento.
L’adito Tribunale, con sentenza dell’8 aprile 2011, dichiarò che la società Cà D’Oro 3 s.r.l. era esclusiva proprietaria del corpo di fabbrica interrato edificato nel terreno comune; dichiarò che il P. e la Cà D’Oro erano proprietari esclusivi dei locali al piano seminterrato meglio descritti nella relazione del C.T.U., salva la comunione sull’area di manovra.
2. – Sul gravame proposto dal P., la Corte di Appello di Venezia ha confermato la pronuncia di primo grado.
Nel rilevare la carenza dei presupposti per poter ritenere “cosa comune” il corpo di fabbrica interrato edificato dalla società convenuta (che costituisce l’immobile cui attiene la questione di diritto sottoposta a questa Corte), i giudici di appello hanno osservato che tale corpo di fabbrica: (a) risulta essenzialmente incorporato alla proprietà esclusiva della convenuta società Cà D’Oro (che vi accede per mezzo di una scala interna dall’unità abitativa di sua proprietà, situata al piano terra dell’edificio condominiale) ed è stato realizzato su progetto e con lavori eseguiti dallo stesso attore P. (socio e legale rappresentante dell’omonima impresa edile), ma pagati esclusivamente dalla Cà D’Oro sul presupposto che esso sarebbe stato di proprietà esclusiva di quest’ultima e non di proprietà comune; (b) non è incorporato nè è funzionalmente legato alla proprietà del P.; (c) è privo di caratteristiche (quali un muro maestro o un tetto) tali da indurre a ritenerlo essenziale all’esistenza dei beni comuni; (d) infine, è stato progettato e realizzato in funzione esclusiva delle preesistenti unità immobiliari di proprietà della società Cà D’Oro.
Rilevando che, nella specie, vi sarebbe stato un valido accordo assunto ed osservato dalle parti, provato documentalmente, la Corte di Appello di Venezia, nell’escludere la comproprietà di quanto realizzato nel sottosuolo, ha richiamato il principio di diritto secondo cui alle costruzioni eseguite da uno dei comproprietari sul suolo comune non si applica la disciplina sull’accessione contenuta nell’art. 934 cod. civ., ma quella in materia di comunione, con la conseguenza che la nuova costruzione diviene di proprietà comune ai condomini non costruttori solo se essa sia stata realizzata in conformità a detta disciplina, ossia nel rispetto delle norme che disciplinano l’uso della cosa comune; altrimenti essa, quando sia stata abusivamente realizzata, non diviene comune neppure per accessione.
3. – Per la cassazione della sentenza di appello ha proposto ricorso P.F. sulla base di dodici motivi.
Ha resistito con controricorso la società Cà D’Oro.
4. – All’esito dell’udienza pubblica del 21 marzo 2017, la Seconda sezione civile di questa Corte, con ordinanza n. 9316 dell’U aprile 2017, ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, rilevando un contrasto diacronico nella giurisprudenza di legittimità sulla questione di diritto, sottostante al secondo motivo di ricorso, vertente sulla proprietà della costruzione realizzata da uno dei comproprietari sul suolo comune.
In particolare, l’ordinanza interlocutoria ha sottolineato come, sulla questione, esistano due contrapposti orientamenti nella giurisprudenza della Corte:
– un primo orientamento, più tralatizio, secondo cui, per il principio dell’accessione (art. 934 cod. civ.), la costruzione su suolo comune è anch’essa comune, mano a mano che si innalza, salvo contrario accordo scritto ad substantiam (art. 1350 cod. civ.); pertanto, per l’attribuzione in proprietà esclusiva, ai contitolari dell’area comune, dei singoli piani che compongono la costruzione, sono inidonei sia il corrispondente possesso esclusivo del piano, sia il relativo accordo verbale, sia il proporzionale diverso contributo alle spese (Cass., Sez. 2, 11/11/1997, n. 11120; Cass., Sez. 1, 12/05/1973, n. 1297; Cass., Sez. 2, 11/07/1978, n. 3479; Cass., Sez. 2, 10/11/1980, n. 6034);
– un secondo e più recente orientamento – fatto proprio dai giudici di merito – secondo cui, invece, la disciplina sull’accessione, contenuta nell’art. 934 cod. civ., si riferisce solo alle costruzioni su terreno altrui, mentre alle costruzioni eseguite da uno dei comproprietari su terreno comune non si applica tale disciplina, ma quella in materia di comunione, con la conseguenza che la comproprietà della nuova opera sorge a favore dei condomini non costruttori solo se essa sia realizzata in conformità a detta disciplina, ossia con il rispetto delle norme che dettano i limiti che ciascun comproprietario deve osservare nell’uso della cosa comune, mentre le opere abusivamente realizzate non possono considerarsi beni condominiali per accessione, ma vanno considerate appartenenti al comproprietario costruttore e rientranti nella sua esclusiva sfera giuridica (Cass., Sez. 2, 22/03/2001, n. 4120; Cass., Sez. 2, 27/03/2007, n. 7523).
La Seconda Sezione ha evidenziato la necessità di rimeditare il più recente orientamento, per la perplessità che desta la conclusione secondo cui l’edificazione sull’area comune da parte di uno solo dei comunisti, in violazione degli artt. 1102 e segg. cod. civ., determini l’assegnazione della proprietà esclusiva dell’opera e del suolo in favore del comproprietario costruttore, effetto giuridico – questo difficilmente inquadrabile in uno dei modi di acquisto stabiliti dall’art. 922 cod. civ.; e prospetta l’esigenza di tracciare una linea interpretativa in grado di coniugare la disciplina dell’accessione e quella della comunione, facendo convivere l’espansione oggettiva della comproprietà in caso di inaedificatio ad opera di uno dei comunisti (salvo che non sia stato costituito, nei modi e nelle forme di legge, altro diritto reale a favore del comproprietario costruttore) con la facoltà del comproprietario non costruttore di pretendere la demolizione della costruzione ove quest’ultima sia stata realizzata dall’altro comunista in violazione dei limiti posti dall’art. 1102 cod. civ. al godimento della cosa comune.
5. – Il Primo Presidente ha disposto, ai sensi dell’art. 374 cod. proc. civ., comma 2, che sulla questione la Corte pronunci a Sezioni Unite.
6. – Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
Motivi della decisione
1. – Col primo motivo di ricorso, si deduce (ex art. 360 cod. proc. civ., n. 4), la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere la Corte di Appello erroneamente escluso che la sentenza di primo grado, nel dichiarare che la società convenuta aveva acquistato a titolo originario la proprietà esclusiva del corpo di fabbrica interrato, fosse incorsa in nullità per extrapetizione. Secondo il ricorrente, la società Cà D’Oro non avrebbe proposto alcuna domanda di accertamento dell’acquisto a titolo originario del corpo di fabbrica per cui è causa, avendo invece posto a fondamento della sua domanda di assegnazione del fabbricato in proprietà esclusiva la circostanza dell’assunzione per intero delle spese di costruzione con l’asserito consenso del P.. Tale fatto, secondo il ricorrente, non potrebbe qualificarsi come “costitutivo” di un acquisto a titolo originario, ma (a tutto concedere) di un acquisto a titolo derivativo.
Unitamente a tale mezzo va esaminato, per la sua stretta connessione, il quinto motivo di ricorso, col quale si deduce (ex art. 360 cod. proc. civ., n. 4) la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere la Corte territoriale ritenuto che la domanda riconvenzionale della società Cà D’Oro, relativa all’accertamento della proprietà esclusiva del fabbricato, fosse autodeterminata e per avere altresì ritenuto che la Cà D’Oro avesse fatto valere un titolo di acquisto della proprietà a titolo originario, piuttosto che un titolo di acquisto a titolo derivativo.
Le censure non sono fondate.
Va premesso, che, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, alla quale il Collegio ritiene di dare continuità, il diritto di proprietà e gli altri diritti reali di godimento sono individuati solo in base al loro contenuto (ossia con riferimento al bene che ne costituisce l’oggetto), cosicchè la causa petendi della domanda con la quale è chiesto l’accertamento di tali diritti si identifica con il diritto stesso (c.d. “diritti autodeterminati”) e non, come nel caso dei diritti di credito, con il titolo che ne costituisce la fonte (contratto, successione, usucapione etc.); titolo la cui deduzione, nel caso di diritti “autodeterminati”, è necessaria ai fini della prova del diritto, ma non ha alcuna funzione di specificazione della domanda (Cass., Sez. 2, 16/05/2007, n. 11293; Cass., Sez. 2, 08/01/2015, n. 40). Pertanto, non ricorre alcuna violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato ove il giudice accolga la domanda, accertando la sussistenza di un diritto c.d. “autodeterminato”, sulla scorta di un titolo diverso da quello invocato dalla parte (Cass., Sez. 2, 21/11/2006, n. 24702; Cass., Sez. 2, 24/11/2010, n. 23851; Cass., Sez. 2, 20/11/2007, n. 24141).
Alla stregua del richiamato principio di diritto, va esclusa la configurabilità del dedotto vizio di extrapetizione, non rilevando il titolo posto dalla società convenuta a fondamento della pretesa declaratoria della proprietà esclusiva.
Va peraltro osservato che – nella specie – la società convenuta non ha posto a fondamento del proprio asserito diritto di proprietà esclusiva scritture traslative della proprietà del suolo o costitutive di un diritto di superficie sul suolo comune o di una proprietà superficiaria dell’immobile (sul punto, cfr. Cass., Sez. 2, 09/10/2017, n. 23547), ma ha dedotto – come fatti costitutivi del suo preteso diritto – mere situazioni fattuali, quali l’avvenuta assunzione dei costi di costruzione da parte della società Cà D’Oro con il consenso del P., nonchè la progettazione e costruzione delle opere “come aventi destinazione originaria, esclusiva, pertinenziale alle unità immobiliari di proprietà esclusiva Cà D’Oro”.
In questo quadro, a prescindere dalla ricordata irrilevanza del titolo in un giudizio avente ad oggetto l’accertamento di un diritto c.d. “autodeterminato”, risulta esente da vizi logici e giuridici la sentenza impugnata laddove essa ha escluso che la società convenuta avesse chiesto l’accertamento dell’avvenuto acquisto della proprietà esclusiva della costruzione per cui è causa “a titolo derivativo”.
2. – Col secondo motivo, si deduce (ex art. 360 cod. proc. civ., n. 3) la violazione e la falsa applicazione degli artt. 934, 840, 1102 e 1121 cod. civ., per avere la Corte di Appello ritenuto che l’assunzione dei costi delle opere da parte della società Cà D’Oro avesse determinato in suo favore l’acquisto della proprietà dell’area ove insiste la costruzione, sottraendola all’altro comproprietario. Tale conclusione, a dire del ricorrente, darebbe luogo ad una sorta di espropriazione senza indennizzo nei confronti del comproprietario non costruttore e sarebbe, perciò, in patente contrasto con l’art. 42 Cost..
Secondo il ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe potuto escludere, nella specie, l’applicabilità del principio dell’accessione, tanto più che i comproprietari del suolo non avevano concluso alcuna pattuizione che legittimasse l’appropriazione dell’area comune da parte della Cà D’Oro, pattuizione che, trattandosi di beni immobili, avrebbe dovuto comunque rivestire la forma scritta ad substantiam. Dovrebbe dunque essere riconosciuto che le unità immobiliari realizzate nel sottosuolo sono di proprietà comune dei comproprietari del suolo in rapporto alle rispettive quote, salva la ripartizione tra di essi delle spese sostenute per la costruzione; in subordine, dovrebbe essere sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 934 cod. civ., come interpretato dalla giurisprudenza, per violazione dell’art. 42 Cost..
Unitamente a tale motivo, va esaminato, in ragione della stretta connessione, il quarto mezzo di ricorso, col quale si deduce (ex art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5) la violazione dell’art. 1350 cod. civ., nonchè il difetto di motivazione della sentenza impugnata, per avere la Corte territoriale dato rilievo ad asseriti accordi intervenuti tra le parti circa la proprietà delle unità immobiliari da costruire, omettendo di considerare che tali pretesi accordi – ove mai sussistenti sarebbero comunque nulli per mancanza della necessaria forma scritta, richiesta dalla legge ad substantiam in materia di costituzione, modificazione o trasferimento di diritti reali immobiliari. Si deduce ancora che i giudici di merito avrebbero omesso, nella motivazione della sentenza, di individuare l’atto scritto col quale le parti avrebbero legittimato il trasferimento della proprietà del suolo comune in favore della Cà D’Oro 3 ovvero – eventualmente – costituito su di esso un diritto di superficie.
2.1. – Preliminarmente, va esaminata l’eccezione formulata dalla controricorrente società, con la quale si è dedotto che il P. avrebbe chiesto solo in appello l’accertamento dell’avvenuto acquisto per accessione, ai sensi dell’art. 934 cod. civ., della proprietà della costruzione per cui è causa.
L’eccezione va rigettata, dovendo ritenersi che la richiesta di accertamento dell’avvenuto acquisto per accessione, da parte del P., della proprietà della costruzione de qua era implicita nella proposta domanda di scioglimento della comunione, costituendo il presupposto logico-giuridico di essa.
2.2. – Ciò posto, prima di passare allo scrutinio dei motivi in esame, il Collegio ritiene di doversi brevemente soffermare sui caratteri essenziali dell’istituto dell’accessione.
Com’è noto, l’accessione costituisce espressione del carattere “assoluto” del diritto di proprietà (che l’art. 832 cod. civ. definisce il “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”), della pretesa del suo titolare – valevole erga omnes – di non essere disturbato nel suo godimento da qualsiasi terzo; dal che l’idea che il dominium su una determinata res non consente un concorrente dominio altrui su una cosa che sia divenuta parte della stessa res, sì da perdere la propria autonomia.
L’istituto dell’accessione, quale modo di acquisto della proprietà “a titolo originario”, affonda le sue radici nel diritto romano, che però non pervenne all’elaborazione di un concetto unitario di esso in grado di ricomprenderne le varie fattispecie (inaedificatio, satio, implantatio, adluvio, avulsio, etc.); si deve, invece, all’opera dei giuristi medievali (soprattutto dei glossatori) l’elaborazione dell’accessione come figura giuridica unitaria (nella quale furono inquadrate le varie fattispecie di tradizione romanistica), che – come tale – fu recepita nel codice napoleonico, per essere poi trasfusa nel primo codice civile dell’Italia unita.
Non è un caso se il codice civile del 1865, ancora ispirato al mito illuministico della completezza ed esaustività della legge, forniva una definizione unitaria dell’accessione. L’art. 443 di tale codice disponeva, infatti, che “La proprietà di una cosa, sia mobile che immobile, attribuisce diritto su quanto essa produce, o vi si unisce naturalmente o coll’arte: questo diritto si chiama diritto d’accessione”.
Il codificatore del 1942, a fronte delle critiche della dottrina, non ha inteso dare una definizione legislativa dell’accessione; esso, piuttosto, ha dettato una disciplina più agile dell’istituto, espungendo dalle norme sull’accessione la materia dei frutti (disciplinata nel titolo I, dedicato ai “beni”, del libro della proprietà) e adottando dell’accessione una nozione più ristretta (come si evince dalla intitolazione della sezione II del capo III del titolo II dello stesso libro) – limitata alle piantagioni, costruzioni o altre opere fatte sopra il suolo (c.d. “accessione di mobile ad immobile” o “accessione verticale”) – che lascia fuori, quali figure autonome, tanto quelle tradizionalmente ricondotte alla “accessione di mobile a mobile” (unione e commistione, specificazione) quanto quelle ricondotte alla “accessione di immobile ad immobile” o “accessione orizzontale” (le varie figure dei c.d. incrementi fluviali).
Nonostante la frammentazione delle varie fattispecie tradizionalmente ricondotte all’accessione, la dottrina rinviene il carattere ad esse comune nel fatto che l’acquisto della proprietà è legato al solo fatto materiale ed obiettivo dell’incorporazione (c.d. “attrazione reale”), da intendersi come “unione stabile” di una cosa con un’altra, non rilevando se essa sia avvenuta per evento naturale o per opera dell’uomo. La proprietà si acquista ipso iure al momento dell’incorporazione; quest’ultima è un fatto giuridico in senso stretto, ossia un fatto che determina l’effetto giuridico dell’acquisto della proprietà a prescindere dalla volontà dell’uomo.
In questo senso, l’accessione costituisce un “meccanismo oggettivo” di acquisto della proprietà: la volontà dell’uomo – ove pure vi sia – non assume rilievo giuridico nè influisce positivamente sull’acquisto della proprietà (cfr. Cass., sez. 2, 06/06/2006, 13215; Cass., Sez. 2, 15/05/2013, n. 11742; Cass., Sez. 1, 12/06/1987, n. 5135).
Fattore unificante delle varie figure di accessione è la regola per cui il proprietario della “cosa principale” diviene proprietario della “cosa accessoria” quando quest’ultima si congiunge stabilmente alla prima (“accessorium cedit principali”). Il diritto di proprietà sulla cosa principale esercita, perciò, una vis attractiva sulla proprietà della cosa accessoria. E mentre con riguardo all’accessione di mobile a mobile spetta al giudice accertare in concreto – tenendo conto dei criteri della funzione e del valore – quale sia la cosa principale e quale quella accessoria, nel caso dell’accessione c.d. verticale è la stessa legge (art. 934 e segg. cod. civ.) ad individuare la “cosa principale” nel bene immobile (il suolo), sancendo la sua preminenza sulle cose mobili che vi sono incorporate, in ragione dell’importanza economico-sociale che ad esso si riconosce (anche se tale regola non manca delle sue eccezioni: come nel caso della c.d. “accessione invertita” di cui all’art. 938 cod. civ., cui può farsi ricorso ove vi sia stata occupazione parziale di un fondo altrui). Sicchè, quando riguarda un bene immobile, l’accessione si coniuga col principio per cui la proprietà immobiliare (c.d. “proprietà fondiaria”) si estende in linea verticale teoricamente all’infinito, sia nel sottosuolo che nello spazio sovrastante al suolo, fin dove l’uno e l’altro siano suscettibili di utilizzazione economica, ossia fin dove il proprietario del suolo abbia interesse ad escludere le attività di terzi (art. 840 cod. civ., comma 2).
L’art. 934 cod. civ., che apre le disposizioni codicistiche dedicate all’accessione, detta la “regola generale” di tale modo di acquisto della proprietà – trasposizione dell’antico principio romanistico “quidquid inaedificatur solo cedit” (o “superficies solo cedit”) secondo cui “Qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo, salvo quanto disposto dagli artt. 935, 936, 937 e 938 e salvo che risulti diversamente dal titolo e dalla legge”; e gli articoli che seguono tale disposizione – disciplinando specificamente il caso delle opere fatte dal proprietario del suolo con materiali altrui (art. 935 cod. civ.), quello delle opere fatte dal terzo con materiali propri (art. 936 cod. civ.) e quello delle opere fatte dal terzo con materiali altrui (art. 937 cod. civ.) – confermano la preminenza assegnata dal legislatore al bene immobile sul bene mobile (sia pure con i temperamenti di volta in volta previsti).
La regola dell’accessione, nella misura in cui consente la ricompattazione e la semplificazione delle situazioni di appartenenza punta a salvaguardare l’interesse generale al più razionale sfruttamento economico del suolo, ma costituisce soprattutto – anche grazie al sistema della pubblicità immobiliare – presidio della certezza dei rapporti giuridici e della sicurezza della circolazione della proprietà. Essa finisce per limitare lo stesso potere del proprietario del suolo di disporre del suo diritto, non potendo egli alienare il suolo e la costruzione l’uno separatamente dall’altro, salvo a costituire con atto redatto nelle forme di legge (art. 1350 cod. civ.) e soggetto all’onere della trascrizione (art. 2643 e segg. cod. civ.) – un diritto reale di superficie (sub specie di proprietà superficiaria) (artt. 952 e segg. cod. civ.).
2.3. – Orbene, premesso quanto sopra in ordine ai caratteri essenziali dell’accessione, occorre ritornare ora allo scrutinio del secondo e del quarto motivo di ricorso, con i quali – come si è veduto – viene sottoposta la questione circa la possibilità che l’accessione operi quando la proprietà del suolo sia comune a più soggetti (c.d. comunione o comproprietà) ed uno solo (o alcuni soltanto) di essi abbia edificato sul suolo comune; questione, questa, relativamente alla quale – come ha evidenziato l’ordinanza di rimessione – si fronteggiano due opposti indirizzi giurisprudenziali.
Secondo un primo indirizzo, più risalente, il principio dell’accessione (art. 934 cod. civ.) opererebbe anche nel caso di comunione, per cui la costruzione su suolo comune, pur se eseguita da uno solo dei comunisti, diverrebbe anch’essa comune, mano a mano che viene edificata, salvo contrario accordo scritto. La nuova costruzione diverrebbe, ai sensi dell’art. 934 cod. civ., automaticamente di proprietà di tutti i contitolari del suolo comune, secondo le quote spettanti su detto suolo a ciascuno di essi, salvo il diritto del costruttore al rimborso pro quota delle spese sostenute (Cass., Sez. 2, 11/07/1978, n. 3479; Cass., Sez. 2, 11/11/1997, n. 11120; Cass., Sez. 1, 23/02/1999, n. 1543).
Secondo l’opposto e più recente orientamento, oggi prevalente, la fattispecie dell’accessione di cui all’art. 934 cod. civ. si riferirebbe solo alle costruzioni od opere eseguite su terreno altrui, presupporrebbe cioè che il costruttore sia un “terzo” rispetto ai proprietari del suolo; e poichè il comproprietario costruttore non può essere considerato “terzo” rispetto agli altri comunisti, la fattispecie della costruzione eseguita da uno dei comproprietari su suolo comune non potrebbe essere regolata dall’art. 934 cod. civ., ma sarebbe invece regolata dalla disciplina in materia di comunione, che configurerebbe una deroga al principio dell’accessione. In particolare, secondo tale giurisprudenza, la nuova costruzione sarebbe di proprietà comune a tutti i comunisti se eseguita in conformità alle regole del condominio, cioè con il rispetto delle norme sui limiti del comproprietario all’uso delle cose comuni (art. 1102 cod. civ.); apparterrebbe, invece, solo al comproprietario costruttore se eseguita in violazione della disciplina condominiale (costruzione “illegittima”) (Cass., Sez. 2, 27/03/2007, n. 7523; Cass., Sez. 2, 18/04/1996, n. 3675; Cass., Sez. 2, 22/03/2001, n. 4120; Cass., Sez. 2, 24/01/2011, n. 1556).
2.4. – La Corte ritiene che il più recente orientamento giurisprudenziale non possa essere condiviso per le seguenti ragioni.
2.4.1. – Innanzitutto, il Collegio non reputa fondato l’assunto posto a fondamento dell’indirizzo giurisprudenziale in esame secondo cui presupposto indefettibile dell’accessione sarebbe la qualità di “terzo” del costruttore rispetto al proprietario del suolo; dal che discenderebbe – secondo tale opinione – che, nel caso in cui il suolo appartenga in comunione a più soggetti, non potendo il comproprietario costruttore essere considerato “terzo” rispetto agli altri comunisti, l’accessione non potrebbe operare.
Va premesso che, secondo l’insegnamento consolidato di questa Corte regolatrice, in materia di accessione, è “terzo” colui che non sia legato al proprietario del suolo da un rapporto giuridico, di natura reale o personale, che lo legittimi a costruire sul fondo medesimo. Ove invece sussista un diritto reale o personale che assegni al terzo la facoltà di edificare su suolo altrui viene meno la ragione di applicare la disciplina dell’accessione intesa come ipotesi di soluzione del conflitto tra contrapposti interessi, perchè il conflitto risulta assoggettato ad una disciplina specifica (ad es.: gli artt. 1592 e 1593 cod. civ. in tema di miglioramenti e addizioni nel rapporto di locazione; gli artt. 983, 985 e 986 in tema di usufrutto; etc.) (cfr. Cass., Sez. 2, 05/02/1983, n. 970; Cass., Sez. 2, 14/12/1994, n. 10699). Si è ritenuto perciò che, ove sussista una comunione del suolo ed uno solo dei comproprietari del suolo costruisca su di esso, non è applicabile l’art. 936 cod. civ. (dettato per le “Opere fatte da un terzo”), non potendo il comproprietario costruttore essere qualificato “terzo” rispetto agli altri comproprietari del suolo (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 2, 14/01/2009, n. 743; Cass., Sez. 2, 14/12/1994, n. 10699; Cass., Sez. 2, 27/08/1986, n. 5242).
Ciò premesso, va tuttavia osservato che un esame obiettivo del complesso della disciplina codicistica consente di ritenere, in accordo con autorevole dottrina, che l’operare dell’istituto dell’accessione non è affatto precluso dalla circostanza che, in presenza di una comunione del suolo, la costruzione sia realizzata da uno (o da alcuni) soltanto dei comproprietari.
Diversi argomenti conducono a tale conclusione.
In primo luogo, sul piano dell’interpretazione letterale della legge, va rilevato che l’art. 934 cod. civ. – che detta la “regola generale” in materia di accessione – non contiene alcun riferimento soggettivo al costruttore. La norma enuncia il principio per cui “Qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo” e prescinde del tutto da chi sia la persona del costruttore.
Si tratta di una nozione ampia di accessione che fa parte della tradizione giuridica dell’istituto nel nostro ordinamento e che si collega idealmente alla onnicomprensiva definizione di accessione contenuta nell’art. 443 cod. civ. 1865, che includeva persino l’acquisto dei frutti prodotti dal fondo (cfr. art. 444 cod. civ. abrogato); una nozione che non esclude l’accessione neppure nel caso di costruzioni realizzate dallo stesso proprietario del suolo.
Conferma di quanto detto si ricava dall’interpretazione sistematica del complesso delle norme relative all’accessione e, in particolare, dal fatto che le fattispecie di accessione relative al caso in cui il costruttore sia un “terzo” rispetto ai proprietari del suolo sono specificamente contemplate e regolate negli artt. 936 e 937 cod. civ. (disposizioni che disciplinano l’accessione rispettivamente nel caso in cui le opere siano state realizzate “da un terzo con materiali propri” ovvero “da un terzo con materiali altrui”).
Essendo le ipotesi in cui le opere siano state eseguite da un soggetto “terzo” rispetto al proprietario del suolo regolate dai richiamati artt. 936 e 937 cod. civ., va escluso che l’art. 934 cod. civ. possa riferirsi alle medesime opere eseguite dal terzo.
Altra conferma del fatto che l’applicabilità dell’art. 934 cod. civ. non è subordinata alla qualità di terzo del costruttore si desume, peraltro, dall’art. 935 cod. civ., che disciplina l’accessione nel caso in cui l’opera sia stata edificata dal proprietario del suolo “con materiali altrui”; fattispecie – questa – nella quale l’accessione opera nonostante vi sia coincidenza tra costruttore e dominus soli.
Infine, ulteriore conferma del fatto che l’accessione non presuppone affatto l’alterità soggettiva tra proprietario del suolo e costruttore si ricava anche dalla giurisprudenza elaborata da questa Corte in tema di “comunione legale tra i coniugi”, laddove si è affermato che la costruzione realizzata durante il matrimonio da entrambi i coniugi sul suolo di proprietà esclusiva di uno solo di essi, appartiene a quest’ultimo in forza del principio di accessione e, pertanto, non entra a far parte della comunione legale (Cass., Sez. U, 27/01/1996, n. 651; Cass., Sez. 1, 30/09/2010, n. 20508).
Si tratta di un principio che riconosce l’operare dell’accessione, ai sensi dell’art. 934 cod. civ., in favore del coniuge proprietario esclusivo del suolo, nonostante che egli stesso sia l’autore della costruzione (sia pure unitamente all’altro coniuge), nonostante cioè che il costruttore non sia “terzo” rispetto al proprietario del suolo. Anche da tale principio giurisprudenziale si ricava, perciò, conferma della conclusione secondo cui l’accessione non presuppone che il costruttore dell’opera sia “terzo” rispetto alla proprietà del suolo.
E allora, a meno di voler ridurre l’art. 934 cod. civ. ad una disposizione meramente enunciativa di una definizione giuridica (simile all’art. 443 cod. civ. abrogato) priva di immediata efficacia precettiva (ciò che, tuttavia, non sarebbe conforme nè alla lettera della legge nè all’intenzione del codificatore), deve concludersi che l’art. 934 cod. civ. detta la “regola generale” dell’accessione, che costituisce norma immediatamente applicabile e destinata a regolare tutte quelle fattispecie in cui l’incorporazione di piantagioni o materiali al suolo non trovi specifica disciplina in diverse disposizioni di legge.
Tra tali fattispecie rientra certamente il caso in cui il suolo appartenga in comunione a più soggetti ed uno (o alcuni) soltanto di essi abbia realizzato una costruzione sul suolo comune.
Non è inutile osservare in proposito che, nel caso di costruzione del singolo comunista sul suolo comune, l’accessione non perde la propria ragion d’essere giuridica: basti considerare che, proprio grazie all’accessione, l’alienazione del suolo comporta l’automatica alienazione di quanto su di esso incorporato, senza necessità di un separato atto di alienazione dei materiali ad esso stabilmente uniti e senza che – in mancanza di un tale atto – l’acquirente corra il rischio di vedersi disturbato nel godimento del fondo da alcuno dei suoi danti causa.
Può ritenersi, dunque, che tanto l’interpretazione letterale quanto l’interpretazione sistematica delle norme codicistiche relative all’accessione depongono nel senso che la “regola generale” dell’accessione di cui all’art. 934 cod. civ. prescinde dal riferimento soggettivo all’autore della costruzione e che non vi sono ragioni per escludere che essa – legata com’è al mero fatto dell’incorporazione dei materiali al suolo – operi anche nel caso di costruzione realizzata dal singolo comproprietario sul suolo comune.
2.4.2. – Il Collegio non condivide neanche l’altro assunto, posto a fondamento della giurisprudenza criticata, secondo cui, allorquando il suolo su cui sono eseguite le opere appartiene a più soggetti, l’art. 934 cod. civ. sarebbe derogato dalla disciplina della comunione.
E’ vero che la regola generale dell’accessione posta dall’art. 934 cod. civ. vale – secondo quanto previsto dall’ultimo inciso della disposizione (“salvo che risulti diversamente (…) dalla legge”) – a condizione che non sia derogata da una norma di legge a carattere speciale (“lex specialis derogat legi generali”). Non è vero, tuttavia, che la disciplina giuridica della comunione integri una deroga all’istituto dell’accessione.
Non esiste, tra accessione e comunione, alcun rapporto tra genus ad speciem.
Invero, la disciplina giuridica della comunione (art. 1100 e segg. cod. civ.) punta a regolare i rapporti tra comproprietari nell’uso e nel godimento della cosa comune (art. 1102 cod. civ.), a fissare i limiti entro cui è consentito il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione del bene comune o sono permesse le innovazioni e la disposizione della cosa comune, con la garanzia delle ragioni delle minoranze (artt. 1108 e 1120 cod. civ.). Nessuna delle norme che regolano la comunione è, tuttavia, atta ad incidere sui modi di acquisto della proprietà o a mutare l’assetto della proprietà comune, sì da poter configurare una disciplina speciale, e quindi una deroga, rispetto al principio di accessione.
Peraltro, l’art. 1102 cod. civ. – che costituisce la norma fondamentale in materia di comunione (applicabile anche alla materia del condominio degli edifici in virtù del richiamo contenuto nell’art. 1139 cod. civ.) – consente a ciascun partecipante alla comunione di servirsi della cosa comune “purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”.
La medesima ratio è posta a fondamento degli artt. 1108 e 1120 cod. civ., che consentono le innovazioni deliberate dalle maggioranze ivi previste, ma sempre a condizione che si tratti di innovazioni che non pregiudichino l’uso e il godimento della cosa comune da parte di alcuno dei partecipanti.
Orbene, queste norme escludono in radice che il singolo comproprietario, senza il consenso degli altri comunisti, possa cambiare destinazione al suolo comune ed edificare su di esso con l’intento di appropriarsi del medesimo ed escludere gli altri comproprietari dal suo godimento.
L’esistenza di un pari diritto di ogni comunista sulla cosa comune, infatti, è incompatibile con l’assunto che uno solo di essi possa divenire proprietario esclusivo dell’opera e del suolo comune su cui essa insiste.
D’altra parte, il comproprietario che costruisce senza il consenso degli altri partecipanti alla comunione realizza una alterazione della destinazione della cosa comune ed impedisce agli altri comunisti di fare uso di essa secondo il loro diritto; egli infrange la disciplina della comunione e commette un “atto illecito”, come “illegittima” è la costruzione realizzata sul suolo comune (Cass., Sez. 2, 24/01/2011, n. 1556; Cass., Sez. 2, 21/05/2001, n. 6921).
Dunque, essendo la disciplina della comunione destinata a regolare i rapporti tra comproprietari nell’uso e nel godimento della cosa comune e non contenendo tale disciplina alcuna norma in grado di determinare l’attrazione della nuova opera nella sfera patrimoniale esclusiva del comunista costruttore, va ripudiata l’idea che la disciplina della comunione costituisca deroga a quella relativa ai modi di acquisto della proprietà, sì da escludere l’operare dell’accessione.
2.4.3. – Il Collegio non condivide neppure la conclusione secondo cui la costruzione edificata da uno solo dei comproprietari sul suolo comune diverrebbe di proprietà comune di tutti i comunisti solo se eseguita in conformità alle regole che disciplinano la comunione, cioè con il rispetto dei limiti posti al comproprietario nell’uso della cosa comune (art. 1102 cod. civ.), mentre apparterrebbe in proprietà esclusiva al solo comproprietario costruttore se eseguita in violazione della detta disciplina (costruzione “illegittima”).
Innanzitutto, se venisse esclusa l’applicabilità del principio di accessione in materia di comunione, non sarebbe dato comprendere sulla base di quale diverso principio la costruzione edificata da uno solo dei comproprietari possa divenire comune agli altri comunisti ove sia eseguita in conformità alle regole che disciplinano la comunione; ma risulterebbe anche, a maggior ragione, incomprensibile come il comproprietario costruttore che, violando la disciplina della comunione, abbia edificato sul suolo comune possa divenire proprietario esclusivo della costruzione, così sottraendo agli altri comunisti la proprietà del suolo su cui insiste la costruzione (a tale conclusione sembra addivenire la giurisprudenza criticata nella misura in cui non prospetta una proprietà del suolo occupato dalla costruzione diversa dalla proprietà della costruzione stessa).
Il vero è che, nella sostanza, la giurisprudenza criticata, una volta esclusa l’applicabilità del principio di accessione in materia di comunione e ritenuta applicabile solo la disciplina di cui agli artt. 1100 e segg. cod. civ., è venuta a creare di fatto, per via pretoria, una nuova figura di “acquisto a titolo originario” della proprietà, che non ha base legale.
Sul punto, va però osservato che sia la Costituzione (art. 42, secondo comma, a tenore del quale spetta alla legge determinare i modi di acquisto della proprietà) che il codice civile (art. 922, che, nell’elencare i vari modi di acquisto della proprietà, conclude con la formula “e negli altri modi stabiliti dalla legge”) configurano una vera e propria “riserva di legge” in ordine ai modi di acquisto della proprietà, in forza della quale la proprietà può acquistarsi solo nei modi “legali”, solo nei modi che il legislatore ha inteso prevedere (non solo – ovviamente – in seno al codice civile, ma anche in altri campi del diritto: si pensi ai vari casi di appropriazione coattiva previsti dal diritto pubblico o dal diritto processuale in materia esecutiva), non potendosi ammettere modi di acquisto della proprietà (o di altri diritti reali) diversi da quelli che il legislatore abbia previsto e disciplinato.
E allora, ritenere, per via pretoria, che la violazione delle norme sulla comunione consenta al singolo comproprietario che costruisca sul suolo comune di acquistare la proprietà della costruzione e del suolo, in danno degli altri comunisti, costituirebbe una patente violazione della “riserva di legge” relativa ai modi di acquisto della proprietà.
Per di più, va ricordato che la tutela della proprietà privata trova fondamento, oltre che nell’art. 42 Cost., nello stesso codice del 1942. L’art. 834 cod. civ., comma 1, quasi anticipando la previsione della futura Carta costituzionale, stabilisce “Nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua proprietà, se non per causa di pubblico interesse, legalmente dichiarata, e contro il pagamento di giusta indennità”; e l’art. 1102 cod. civ., comma 2, espressamente preclude al singolo compartecipe di estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri compartecipi, salvo che “muti il titolo del suo possesso” (addivenendo all’acquisto per usucapione ove ricorrano i presupposti richiesti dall’art. 1158 cod. civ.).
Perciò, ammettere che i comproprietari non costruttori possano perdere la proprietà della cosa comune per il semplice fatto della iniziativa di altro comproprietario, dando luogo ad una sorta di espropriazione della proprietà privata in assenza di un interesse generale e senza indennizzo, contrasta con i principi generali che reggono la materia e con la stessa Carta fondamentale (art. 42 Cost.).
Si tratta, peraltro, di una soluzione contraria ad ogni logica e al comune senso di giustizia, perchè finisce col premiare, piuttosto che sanzionare, il comproprietario che commette un abuso in danno degli altri comproprietari.
2.5. – In definitiva, alla luce di quanto sopra detto, il Collegio ritiene che la disciplina della comunione non configuri affatto una deroga legale al principio di accessione di cui all’art. 934 cod. civ. e che quest’ultimo operi anche quando il suolo appartiene in comunione a più soggetti ed uno solo (o alcuni soltanto) di essi abbia provveduto a realizzare una costruzione o altra opera.
Come si è detto, l’accessione costituisce un mero fatto giuridico, che opera per il solo fatto dell’incorporazione. L’acquisto della proprietà per accessione prescinde dalla volontà di alcuno e non è escluso dalla buona fede del costruttore; cosicchè, nel caso di comunione del suolo e di costruzione eseguita su di esso da uno o da alcuni soltanto dei comunisti, tutti i comproprietari del suolo (costruttori e non costruttori) acquistano la proprietà della costruzione, in rapporto alle rispettive quote, per il semplice fatto di essere comproprietari del suolo.
E’ ben vero che l’art. 934 cod. civ. fa salve le deroghe alla regola dell’accessione previste dalla “legge” o dal “titolo”.
Tuttavia, nessuna delle deroghe all’operare dell’accessione previste dalla legge – quella relativa alle opere destinate all’esercizio della servitù eseguite dal proprietario del fondo dominante sul fondo servente (art. 1069 cod. civ.); o quelle relative alle addizioni eseguite dall’enfiteuta (art. 975 cod. civ., comma 3), dall’usufruttuario (art. 986 cod. civ., comma 2), dal possessore (art. 1150 cod. civ., comma 5) e dal locatore (art. 1593 cod. civ.), laddove lo ius tollendi opera quasi sempre in deroga all’accessione, se non ne venga nocumento alla cosa – riguardano il caso della comunione del suolo.
Quanto al titolo negoziale idoneo ad escludere l’operare dell’accessione, esso – com’è noto – non può essere costituito da un negozio unilaterale, essendo invece necessario un apposito contratto stipulato tra il proprietario del suolo e il costruttore dell’opera, che attribuisca a quest’ultimo il diritto di proprietà sulle opere realizzate (Cass., Sez. 3, 07/07/1980, n. 4337; Cass., Sez. 2, 21/02/2005, n. 3440).
Costituiscono titoli idonei a impedire l’operare dell’accessione, quelli costitutivi di diritti reali, fra i quali si colloca, oltre alla costituzione diretta di un diritto di superficie (art. 952 e segg. cod. civ.), la c.d. concessione ad aedificandum, con la quale il proprietario del suolo rinuncia a fare propria la costruzione che sorgerà su di esso. Trattandosi di contratti relativi a diritti reali immobiliari, essi, ai sensi dell’art. 1350 cod. civ., devono rivestire la forma scritta ad substantiam (Cass., Sez. 1, 23/02/1999, n. 1543; Cass., Sez. 2, 11/11/1997, n. 11120; Cass., Sez. 2, 19/04/1994, n. 3714; Cass., Sez. 2, 27/10/1984, n. 5511); come anche per iscritto deve risultare la rinuncia del proprietario al diritto di accessione, che si traduce sostanzialmente nella costituzione di un diritto di superficie (Cass., Sez. 1, 15/12/1966, n. 2946).
Perciò, in mancanza di valido contrario titolo, qualunque costruzione edificata sul suolo comune – non solo da terzi (caso che ricadrebbe nelle fattispecie di cui agli artt. 936 e 937 cod. civ.), ma anche da uno o da alcuni soltanto dei comproprietari – diviene ipso iure, per il solo fatto dell’incorporazione e a prescindere dalla volontà manifestata dalle parti al di fuori delle forme prescritte dall’art. 1350 cod. civ., di proprietà comune di tutti comproprietari del suolo in proporzione alle rispettive quote dominicali.
2.6. – Una volta stabilito che – in virtù dell’operare dell’accessione – la costruzione su suolo comune appartiene a tutti i comproprietari del medesimo in proporzione alle rispettive quote di proprietà (salva l’esistenza di contrario titolo, nei termini sopra richiamati), rimane da stabilire quale sia il “regime giuridico” che deve disciplinare i rapporti tra il comproprietario costruttore e gli altri comproprietari (divenuti ope legis comproprietari della costruzione).
L’art. 934 cod. civ. nulla dispone circa la disciplina che deve regolare i rapporti tra costruttore e proprietario del suolo; e la giurisprudenza di questa Corte – come si è detto – è costante nell’escludere che la materia possa essere regolata dall’art. 936 cod. civ., essendo questa una disposizione relativa alle “Opere fatte da un terzo” e non potendo il comproprietario essere qualificato “terzo” rispetto agli altri comproprietari del suolo (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 2, 14/01/2009, n. 743; Cass., Sez. 2, 14/12/1994, n. 10699).
Il Collegio ritiene che la disciplina giuridica che deve regolare i rapporti tra comproprietario costruttore e comproprietario non costruttore vada ricavata dalle norme che regolano la comunione: innanzitutto, dalle norme che regolano l’uso della cosa comune e le innovazioni.
Invero, la costruzione su suolo comune – in quanto innovazione deve essere deliberata secondo quanto previsto dall’art. 1108 cod. civ. (per la comunione ordinaria) e dagli artt. 1120 e 1121 cod. civ. (per il condominio degli edifici), sempre col limite di non pregiudicare il godimento della cosa comune da parte di alcuno dei partecipanti.
Perciò, quando la costruzione è stata edificata senza la preventiva autorizzazione della maggioranza dei condomini ovvero quando essa pregiudichi comunque il godimento della cosa comune da parte di tutti i comproprietari, il comproprietario che ha patito pregiudizio dalla costruzione può esercitare – nei confronti del comproprietario costruttore – le ordinarie azioni possessorie (cfr., in tema di azione di manutenzione, Cass., Sez. 2, 17/10/2006, n. 22227) e l’azione di rivendicazione (Cass., Sez. 2, 28/08/1990, n. 8884).
Il comproprietario leso può anche esercitare lo ius tollendi e pretendere la demolizione dell’opera lesiva del suo diritto, ricorrendo alla tutela in forma specifica ex art. 2933 cod. civ. (cfr. Cass., Sez. 2, 13/11/1997, n. 11227). La demolizione dell’opera può essere anche decisa – al di fuori del caso di lesione del diritto del singolo comunista – dalla maggioranza dei comproprietari ai sensi dell’art. 1108 cod. civ..
Il Collegio ritiene, tuttavia, che l’esercizio dello ius tollendi debba essere coniugato con il principio di “tolleranza”, col principio di “affidamento” e con quello di “buona fede” (in ordine a tali principi, ex plurimis, v. Cass., Sez. U, 27/04/2017, n. 10413; Cass., Sez. U, 15/11/2007, n. 23726).
Si tratta, peraltro, di principi sottesi al disposto dell’art. 936 cod. civ., comma 4, laddove esso stabilisce che “il proprietario non può obbligare il terzo a togliere le piantagioni, costruzioni ed opere, quando sono state fatte a sua scienza e senza opposizione o quando sono state fatte dal terzo in buona fede”.
E’ vero che tale disposizione (relativa al caso del “terzo costruttore”) non è applicabile al diverso caso delle opere edificate dal comproprietario sul suolo comune; ciò non vuol dire però che in tale ipotesi non debba tenersi conto egualmente dei principi di tolleranza e di affidamento, nonchè del principio di buona fede.
Trattasi di principi generali immanenti all’ordinamento giuridico, in quanto tali sottesi all’intera disciplina del codice civile, che devono sempre essere tenuti in conto dal giudice.
E’ necessario, allora, tener distinti il caso in cui il comproprietario costruttore abbia agito contro l’esplicito divieto del comproprietario o all’insaputa di questi dal diverso caso in cui egli abbia agito, se non col consenso, quanto meno a scienza e senza opposizioni dell’altro comproprietario.
Nel primo caso, ove vi sia stata violazione delle norme in tema di condominio, va riconosciuto lo ius tollendi al comproprietario non costruttore, il quale può senz’altro agire per ottenere il ripristino dello status quo ante.
Nel secondo caso, invece, essendovi stato il consenso esplicito o anche meramente implicito del comproprietario non costruttore, va escluso – a tutela della buona fede e dell’affidamento del costruttore – che il primo possa pretendere la demolizione dell’opera.
Per la medesima ragione anche la mera tolleranza, ossia la mancata reazione da parte del comproprietario non costruttore all’abuso intrapreso dal comunista costruttore, protratta per un congruo periodo di tempo dal giorno in cui ha avuto notizia dei lavori, preclude l’esercizio dello ius tollendi, facendo sorgere l’affidamento del costruttore sul sopravvenuto consenso implicito del compartecipe alla comunione.
Il consenso alla costruzione dell’opera, manifestato da un comunista all’altro, può essere dato con qualunque forma (anche verbalmente), non attenendo esso alla sfera dei diritti reali e non facendo venir meno l’operatività dell’accessione e, quindi, l’acquisto della proprietà della costruzione da parte di tutti i comunisti in rapporto alle rispettive quote dominicali; il suo rilievo giuridico non attiene all’acquisto della proprietà della costruzione, ma ai reciproci diritti e obblighi dei comproprietari, e ai loro rispettivi poteri, relativamente ad un’opera divenuta comunque comune.
Trattandosi di un consenso che non incide sulla proprietà della costruzione, esso può essere dimostrato con ogni mezzo di prova.
Va aggiunto che, ove lo ius tollendi non venga (o non possa essere) esercitato, sorge, in favore del comproprietario costruttore, un diritto di credito nei confronti degli altri comunisti, divenuti per accessione comproprietari dell’opera; nasce cioè tra le parti un rapporto obbligatorio in forza del quale i comproprietari non costruttori sono tenuti a rimborsare al comproprietario costruttore, in proporzione alle rispettive quote di proprietà, le spese sopportate per l’edificazione dell’opera, secondo le norme che regolano la comunione e gli altri istituti di volta in volta applicabili (mandato, negotiorum gestio, arricchimento senza causa, etc.).
2.7. – Premesso quanto sopra, tornando all’esame della fattispecie concreta sottoposta al giudizio di questa Suprema Corte, va rilevato come le rationes decidendi della sentenza impugnata contrastino con i principi di diritto sopra esposti.
I giudici di merito hanno ritenuto che l’istituto dell’accessione di cui all’art. 934 non potesse operare nel caso di costruzione edificata da uno solo dei comproprietari su suolo comune ed hanno ritenuto che la costruttrice società Cà D’Oro fosse divenuta ab origine unica proprietaria della costruzione in virtù di accordi non bene individuati, nè in ordine al loro contenuto nè in ordine alla loro forma.
Così facendo, la Corte territoriale ha mostrato di non tener conto del principio di diritto ripetutamente affermato da questa Corte regolatrice secondo cui i contratti traslativi della proprietà di beni immobili o costitutivi, modificativi o traslativi di diritti reali immobiliari su cosa altrui devono, ai sensi dell’art. 1350 cod. civ., rivestire la forma scritta ad substantiam (Cass., Sez. 1, 23/02/1999, n. 1543; Cass., Sez. 2, 19/04/1994, n. 3714; Cass., Sez. 2, 27/10/1984, n. 5511; Cass., Sez. 2, 16/03/1984, n. 1811); sicchè è nulla la promessa verbale del proprietario del suolo di trasferire ad altro la proprietà del manufatto su di esso edificato (cfr. Cass., Sez. 2, 26/11/1988, n. 6380); come, d’altra parte, la concessione ad aedificandum convenuta verbalmente, e quindi senza un atto scritto, non acquista efficacia reale, ma dà vita ad un rapporto meramente obbligatorio, ossia ad un diritto personale nei confronti del concedente (Cass., Sez. 1, 17/12/1968, n. 4006; Cass., Sez. 2, 10/07/1985, n. 4111).
La Corte territoriale avrebbe dovuto, invece, verificare se fosse stato stipulato tra le parti un contratto redatto in forma scritta avente ad oggetto il trasferimento della proprietà del suolo su cui insiste la costruzione realizzata dalla società convenuta ovvero la costituzione di un diritto di superficie o di altro diritto reale in grado di separare la proprietà del suolo dalla proprietà della costruzione ovvero – ancora se il P. avesse posto in essere (sempre con la dovuta forma scritta richiesta dall’art. 1350 cod. civ., n. 5) una rinunzia abdicativa alla propria quota di comproprietà (con conseguente accrescimento del diritto di proprietà della Cà D’Oro) ai sensi dell’art. 1104 cod. civ., comma 1, (sul punto, cfr. Cass., Sez. 2, 25/02/2015, n. 3819; Cass., Sez. 2, 06/07/1968, n. 2316); e non avrebbe potuto dare improprio rilievo, ai fini del riconoscimento della proprietà della costruzione, al consenso manifestato “verbalmente” dal P. o al fatto che quest’ultimo si fosse reso esecutore materiale della costruzione su incarico della società Cà D’Oro o alla circostanza che soltanto tale società avesse sopportato i costi di costruzione (circostanze – queste – rilevanti ai fini della verifica della spettanza al P. dello ius tollendi, ma non in grado di incidere sull’acquisto della proprietà della costruzione).
Non rimane, pertanto, che cassare la sentenza impugnata in relazione al secondo e al quarto motivo di ricorso, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia, che, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., comma 2, si uniformerà ai seguenti principi di diritto:
– “La costruzione eseguita dal comproprietario sul suolo comune diviene per accessione, ai sensi dell’art. 934 cod. civ., di proprietà comune agli altri comproprietari del suolo, salvo contrario accordo, traslativo della proprietà del suolo o costitutivo di un diritto reale su di esso, che deve rivestire la forma scritta ad substantiam”;
– “Il consenso alla costruzione manifestato dal comproprietario non costruttore, pur non essendo idoneo a costituire un diritto di superficie o altro diritto reale, vale a precludergli l’esercizio dello ius tollendi”;
– “Ove lo ius tollendi non venga o non possa essere esercitato, i comproprietari del suolo sono tenuti a rimborsare al comproprietario costruttore, in proporzione alle rispettive quote di proprietà, le spese sopportate per l’edificazione dell’opera”.
3. – Gli altri motivi rimangono assorbiti.
4. – Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese relative al presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, pronunciando a Sezioni Unite, accoglie il secondo e il quarto motivo di ricorso, rigetta il primo e il quinto, dichiara assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 7 novembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2018

ASSEGNI FAMILIARI

Di Gianfranco Dosi
I. Il quadro giuridico
II. Gli assegni familiari in caso di separazione e divorzio
III. Il diritto in caso di affidatario non lavoratore
IV. Gli assegni familiari nella famiglia di fatto
V. I figli maggiorenni
VI. Gli assegni familiari per i figli si aggiungono al contributo di mantenimento
VII. Gli assegni familiari in caso di affidamento al servizio sociale
c) Atti traslativi nel corso del matrimonio
d) Attribuzioni patrimoniali in sede di separazione
XV. L’azione revocatoria può essere esercitata a tutela dell’assegnazione della casa fa¬miliare?
XVI. L’esecuzione diretta o presso terzi senza previa revocatoria: l’art. 2929-bis del codice civile
I Il quadro giuridico
Gli assegni familiari sono stati introdotti nel nostro ordinamento dalla contrattazione collettiva di lavoro nel lontano 1934 e sono stati poi regolamentati dapprima con il R.D.L. 21 agosto 1936, n. 1632 e, in seguito, per tutti i lavoratori dipendenti nel 1955 (DPR 30 maggio 1955, n. 797, Testo Unico delle norme concernenti gli assegni familiari). L’art. 9 della legge 9 dicembre 1977 n. 903 (parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro) introdusse il principio che gli as¬segni familiari possono essere corrisposti in alternativa tanto all’uomo che alla donna lavoratrice.
Nel 1988, con l’art. 2 del Decreto legge 13 marzo 1988, n. 69 convertito nella legge 13 maggio 1988, n. 153 (Norme in materia previdenziale, per il miglioramento delle gestioni degli enti por¬tuali ed altre disposizioni urgenti) – illustrata da una apposita circolare Ministero del Tesoro del 27 giugno 1988, n. 31 – furono oggetto di una ampia riforma che ne cambiò anche il nome: da “as¬segni familiari” divennero “assegno al nucleo familiare” attribuito a tutti “i lavoratori dipendenti, i titolari delle pensioni e delle prestazioni economiche previdenziali derivanti da lavoro dipendente, i lavoratori assistiti dall’assicurazione contro la tubercolosi, il personale statale in attività di ser¬vizio ed in quiescenza, i dipendenti e pensionati degli enti pubblici anche non territoriali”, quindi sostanzialmente tutti i lavoratori. Anche se disoccupati senza indennità (Corte cost. 2 febbraio 1990, n. 42). Ai coltivatori diretti, mezzadri e coloni sono, invece, corrisposti sempre con il nome di “assegni familiari”.
L’assegno al nucleo familiare e gli assegni familiari sostituirono ogni trattamento di sostegno alla famiglia precedente comunque denominato.
Per comodità espositiva continueremo a chiamarli assegni familiari.
Sono corrisposti, per conto dell’Inps, dal datore di lavoro (al quale va quindi presentata la doman¬da) in occasione del pagamento della retribuzione. Sono, invece, direttamente corrisposti dall’Inps se il richiedente è addetto ai servizi domestici ovvero iscritto alla Gestione separata o in altre poche situazioni.
L’assegno compete in misura differenziata in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare, secondo una tabella aggiornata di anno in anno. Nell’ ultimo aggiornamento (cir¬colare Inps n. 87 del 18 maggio 2017) sono indicati i limiti di reddito da considerare nel periodo compreso dal 1° luglio 2017 al 30 giugno 2018 per la concessione dell’assegno al nucleo familiare e gli importi dell’assegno. La tabella può essere scaricata facilmente nel sito ufficiale dell’Inps.
Secondo il sesto comma dell’art. 2 del Decreto legge 13 marzo 1988, n. 69 sopra richiamato, per “nucleo familiare” si intende quello composto “dai coniugi [o parti dell’unione civile] con esclu¬sione del coniuge legalmente ed effettivamente separato, e dai figli ed equiparati, ai sensi dell’articolo 38 del DPR 26 aprile 1957, n. 818 (che equipara ai figli legittimi o legittimati, i figli adottivi, quelli naturali riconosciuti o giudizialmente dichiarati, quelli nati da precedente ma¬trimonio dell’altro coniuge, nonché i minori regolarmente affidati dagli organi competenti), di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero, senza limite di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro”.
Col tempo, anche in connessione con decisioni della Corte costituzionale l’elenco dei componenti del nucleo familiare si è allargato.
L’assegno al nucleo familiare spetta oggi per i seguenti soggetti: nucleo composto dal richiedente lavoratore o titolare della pensione; il coniuge/parte di unione civile che non sia legalmente ed effettivamente separato o sciolto da unione civile, anche se non convivente, o che non abbia ab-bandonato la famiglia; i figli ed equiparati di età inferiore a 18 anni, conviventi o meno; i figli ed equiparati maggiorenni inabili, purché non coniugati; i figli ed equiparati, studenti o apprendisti, di età superiore ai 18 anni e inferiore ai 21 anni, purché facenti parte di “nuclei numerosi”, cioè nuclei familiari con almeno quattro figli tutti di età inferiore ai 26 anni; i fratelli, le sorelle del ri¬chiedente e i nipoti (collaterali o in linea retta non a carico dell’ascendente), minori o maggiorenni inabili, solo se sono orfani di entrambi i genitori, che non hanno conseguito il diritto alla pensione ai superstiti e non sono coniugati; i nipoti in linea retta di età inferiore a 18 anni e viventi a carico dell’ascendente.
L’assegno per il nucleo familiare compete, come sopra detto, in misura differenziata in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo stesso secondo tabelle prestabilite e i livelli di reddito sono aumentati nei casi in cui il nucleo familiare comprenda soggetti che si trovino nell’as¬soluta e permanente impossibilità di dedicarsi a proficuo lavoro, ovvero, se minorenni, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere compiti e funzioni proprie della loro età. L’importo quindi varia in base alla composizione del nucleo famigliare e in base al reddito, secondo le tabelle che vengono aggiornate annualmente.
Poiché si tratta di una prestazione previdenziale unica (con divieto di cumulo in capo ad entrambi i genitori), l’individuazione di chi tra i due genitori effettuerà la richiesta di autorizzazione alla cor-responsione, è riferibile all’accordo tra i coniugi.
Gli assegni familiari sono corrisposti anche ai lavoratori extracomunitari (esclusi quelli con con¬tratto di lavoro stagionale) o a quelli con permesso di soggiorno di lungo periodo, in genere per i familiari residenti in Italia ma in taluni casi anche per quelli residenti all’estero.
Il reddito del nucleo familiare è costituito, ai sensi del comma 9, dall’ammontare dei redditi com¬plessivi, assoggettabili all’Irpef, conseguiti dai suoi componenti nell’anno solare precedente il 1 luglio di ciascun anno ed ha valore per la corresponsione dell’assegno fino al 30 giugno dell’anno successivo. Alla formazione del reddito (ai fini dei limiti sopra indicati) concorrono i redditi di qualsiasi natura (anche quelli, quindi, da fabbricati o da terreni), ivi compresi quelli esenti da im¬poste e quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva se superiori a 1.032,91 euro. Non si computano, invece nel reddito i trattamenti di fine rapporto comunque denominati e le anticipazioni sui trattamenti stessi, nonché l’assegno al nucleo familiare.
L’attestazione del reddito del nucleo familiare è resa con dichiarazione, la cui sottoscrizione non è soggetta ad autenticazione. L’ente al quale è resa deve trasmetterne copia al comune di residenza del dichiarante.
L’assegno – che non concorre a formare la base imponibile dell’imposta – non spetta se la somma dei redditi da lavoro dipendente, da pensione o da altra prestazione previdenziale derivante da lavoro dipendente è inferiore al 70 per cento del reddito complessivo del nucleo familiare. Il principio è quindi quello della necessaria prevalenza del lavoro dipendente sul reddito comples¬sivo. Quindi, per esempio, se un lavoratore ha redditi da lavoro dipendente oltre che immobiliari o mobiliari da investimenti soggetti alla ritenuta alla fonte per 30.000 euro annui complessivi, gli assegni familiari spettano solo se il reddito da lavoro dipendente è pari o superiore a 21.000 euro (cioè il 70% del reddito complessivo).
La legge 448 del 1998, agli art. 65 e 66, prevede l’erogazione di un “assegno familiare” (un sus¬sidio chiamato così, ma evidentemente diverso dalla categoria degli assegni familiari di cui si sta parlando) a favore dei nuclei familiari che si compongono di almeno tre figli minori.
II Gli assegni familiari in caso di separazione e divorzio
In caso di separazione o divorzio la disciplina giuridica dell’assegno al nucleo familiare ha la sua fonte nell’art. 211 della legge di riforma del diritto di famiglia.
L’art. 211 della legge 19 maggio 1975, n. 151, infatti, ha introdotto una norma specifica in materia di assegni familiari del seguente tenore: “Il coniuge cui i figli sono affidati ha diritto in ogni caso a percepire gli assegni familiari per i figli, sia che ad essi abbia diritto per un suo rapporto di lavoro, sia che di essi sia titolare l’altro coniuge”.
La norma si riferisce al caso di affidamento esclusivo ad un genitore dei figli, che all’epoca era la forma unica di affidamento prevista. Vedremo più oltre cosa avviene in caso di affidamento (con¬diviso) ad entrambi i genitori.
La sopra richiamata Circolare del Ministero del Tesoro del 27 giugno 1988, n. 31, aveva interpre¬tato inizialmente la normativa sull’assegno al nucleo familiare (cioè l’art. 2 del decreto legge 13 marzo 1988, n. 69 convertito nella legge 13 maggio 1988, n. 153) prevedendo che l’assegno al nucleo familiare spettasse in caso di separazione solo nel caso in cui anche il genitore affidatario fosse stato lavoratore dipendente. Questo in quanto il “nucleo familiare” è, secondo la legge, quel¬lo composto dai coniugi, con esclusione di quello legalmente ed effettivamente separato. Questa interpretazione finiva per ledere quindi i diritti del genitore affidatario non lavoratore a seguito della separazione con ingiusta possibile perdita del diritto alla prestazione.
Nonostante l’interpretazione del Ministero del tesoro, la Circolare dell’Inps n. 48 del 19 febbraio 1992, sulla corresponsione della prestazione nei casi di separazione legale o divorzio, aveva affer¬mato il principio che il diritto attribuito dall’art. 211 al coniuge affidatario di percepire gli assegni familiari, spetta anche se lo stesso non sia “titolare di una propria posizione protetta” (rapporto di lavoro, pensione, ecc.). Si stabiliva, quindi, che l’assegno spetta sempre e comunque al coniuge af¬fidatario, e ciò perché, in caso di separazione “viene a costituirsi un nucleo familiare autonomo che fa capo al coniuge affidatario”. Così essendo, si dovrà verificare con riguardo al nucleo familiare del coniuge affidatario se ricorrano i requisiti reddituali necessari per l’ottenimento della prestazione.
Effettivamente in seguito anche il legislatore ebbe modo di interpretare nello stesso modo auten-ticamente la normativa, con l’art. 1, comma 559, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (legge finanziaria 2005) in cui si prevede che “l’assegno per il nucleo familiare viene erogato al coniuge dell’avente diritto…” e il D.M. del Lavoro e delle Politiche Sociali del 4 aprile 2005 ha previsto al primo comma che: “Il coniuge non titolare di un autonomo diritto alla corresponsione dell’assegno per il nucleo familiare che intende esercitare il diritto di cui all’art. 1, comma 559, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, formula apposita domanda al datore di lavoro dell’altro coniuge (lavora¬tore) … che provvede alla corresponsione dell’assegno per il nucleo familiare secondo le modalità indicate dal coniuge medesimo”. Il comma 4 successivo afferma, altresì, “Resta ferma la disciplina di cui all’art. 211 della legge 19 maggio 1975, n. 151”. Ed è anche questa, come si vedrà, la solu¬zione adottata in giurisprudenza.
Il titolare del diritto sembra quindi rimanere il coniuge lavoratore ma il diritto può essere richiesto dal coniuge affidatario (il cui nucleo familiare è quello di riferimento ai fini del reddito presupposto) che poi percepirà gli assegni familiari. La giurisprudenza, però, sembra propendere per l’attribu¬zione della stessa titolarità del diritto al coniuge affidatario ammettendo che il convenuto nella relativa causa sia non l’Inps ma il coniuge titolare della situazione protetta.
Quale che sia la soluzione teorica più plausibile, nel caso di genitore affidatario di figli, a seguito di separazione, fermo il criterio generale del divieto di cumulo dello stesso assegno in capo ad en¬trambi i genitori: a) l’assegno per il nucleo familiare può essere richiesto direttamente dal coniuge non titolare di una posizione protetta (cioè non lavoratore o non pensionato); b) il nucleo familiare ed il reddito di riferimento vanno determinati escludendo l’altro coniuge separato che del nucleo non fa più parte.
Nel caso di coniugi separati con affidamento esclusivo dei figli minori l’assegno va corrisposto all’affidatario. In tal caso il genitore affidatario è l‘unico soggetto legittimato a richiedere l’assegno per il nucleo familiare perché è solo intorno al genitore affidatario che si viene a formare il nuovo nucleo. Naturalmente il genitore separato, al fine di poter godere dell’attribuzione, è tenuto a di¬mostrare l’affidamento ad esso della prole (App. Genova Sez. lavoro, 29 marzo 2013 che ha ritenuto non sufficiente un verbale di separazione omologato in cui la modalità di affidamento non appariva specificata).
In caso di affidamento condiviso dei figli il soggetto legittimato alla percezione degli assegni fa¬miliari è il genitore con il quale i minori stessi convivono (Trib. Nocera Inferiore Ordinanza, 9 ottobre 2013 che, in un caso in cui la figlia minore coabitava con la madre ma era stata affidata congiuntamente ad entrambi i genitori, ha ritenuto la madre stessa legittimata a percepire gli assegni familiari).
L’assegno al nucleo familiare va comunque richiesto da uno solo dei due genitori ed è necessario l’accordo. Esattamente come avviene quando la famiglia vive unita. Sono, perciò, i genitori che devono stabilire, di comune accordo, chi dei due effettuerà la richiesta ai fini della corresponsione dell’assegno per il nucleo familiare. In caso di mancato accordo, scatta il requisito della convivenza con il figlio, secondo quanto stabilito dall’art. 9 della Legge 903 del 1977.
La prescrizione in materia è quinquennale (Cass. civ. Sez. lavoro, 19 ottobre 2007, n. 21960).
III Il diritto in caso di affidatario non lavoratore
Come si è detto il diritto agli assegni familiari spetta al coniuge affidatario anche se non lavoratore dipendente (o non titolare di nessuna altra posizione protetta che dà diritto alla prestazione).
Secondo l’art. 211 della legge 19 maggio 1975, n. 151 infatti, come anche si è detto, il coniuge cui i figli sono affidati ha diritto in ogni caso a percepire gli assegni familiari per i figli, “sia che ad essi abbia diritto per un suo rapporto di lavoro, sia che di essi sia titolare l’altro coniuge”.
Il principio desumibile dall’art. 211 è, insomma, che il coniuge affidatario dei figli, quando non possa percepire l’assegno in virtù di un proprio rapporto di lavoro, ha diritto di percepirlo per il tramite del genitore (lavoratore dipendente) non affidatario.
Si tratta di un principio ribadito costantemente in molte decisioni (Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 2003, n. 5060; Cass. civ. Sez. lavoro, 30 dicembre 2004, n. 24204; Cass. civ. Sez. lavoro, 30 marzo 2015, n. 6351; Cass. civ. Sez. lavoro, 11 maggio 2017, n. 11569).
IV Gli assegni familiari nella famiglia di fatto
I principi sono esaminati valgono anche nel caso di filiazione fuori dal matrimonio.
Secondo Cass. civ. Sez. lavoro, 18 giugno 2010, n. 14783 il diritto all’assegno per il nucleo familiare compete anche in relazione ai figli riconosciuti nati nell’ambito di una coppia di fatto. Nel caso specifico si trattava di tre figli naturali di una coppia; il padre dei minori era ancora sposato con altra persona e l’Inps aveva eccepito che i figli non erano inseriti nel nucleo familiare del ri¬chiedente che era quello formalmente composto da lui e dalla moglie. La Corte accoglie il ricorso dell’uomo in quanto “la nozione di nucleo familiare delineata dal legislatore presuppone solamente la condizione di figlio naturale riconosciuto, e non anche l’inserimento nella famiglia legittima”.
In particolare la sentenza precisa che l’assegno per il nucleo familiare, istituito e regolato dal De¬creto legge n. 69 del 1988, spetta ai lavoratori dipendenti privati e pubblici, oltre ai pensionati, ed è commisurato al numero di componenti del nucleo familiare oltre che, ovviamente, all’entità del reddito percepito dall’avente diritto. In applicazione dell’art. 38 del D.P.R. n. 818 del 1957, che specifica la composizione del “nucleo familiare”, sono da considerare componenti dello stesso, tra gli altri, i figli naturali legalmente riconosciuti che, ai sensi dell’art. 250 c.c., sono quelli ricono¬sciuti nei modi indicati dall’art. 254 c.c. dal padre o dalla madre, anche se uniti in matrimonio con persona diversa all’epoca del concepimento. La condizione di figlio naturale riconosciuto, peraltro, per quanto qui rileva, non è assolutamente inficiata dall’assenza di inserimento nella famiglia le¬gittima. Ebbene, la normativa sull’assegno familiare non richiede l’inserimento nell’ambito della famiglia legittima ma si limita a richiedere, ai fini del relativo riconoscimento, la condizione di figlio naturale per cui anche il soggetto coniugato e mai separato ma convivente con altra persona ha diritto alla percezione dell’assegno familiare per i figli naturali, minori, legalmente riconosciuti se prova che, essendo posti a suo carico, provvede al loro mantenimento.
L’argomento era stato anche trattato nella circolare Inps 6.8.2012 n. 104 in cui era stato da un lato chiarito che, nella impossibilità di un’applicazione estensiva ai casi di genitori naturali di quanto disposto per i genitori separati dall’art. 211 della legge n. 151 del 1975, il titolare della richiesta dei trattamenti di famiglia è sempre e solamente il genitore che lavora o che percepisce una retribuzione; e dall’altro che, in ragione delle esigenze di armonizzazione con principi co¬munitari, “dalla data di pubblicazione della presente circolare, le domande di autorizzazione e di richiesta del trattamento di famiglia sulla posizione di lavoro dell’altro genitore potranno essere presentate direttamente dai genitori naturali conviventi con la prole, anche se non titolari di pro¬pria posizione tutelata”.
In precedenza analogo orientamento era stato espresso da Cass. civ. Sez. lavoro, 7 aprile 2000, n. 4419 dove si afferma che nel regime previsto dal decreto legge 13 marzo 1988 n. 69 (convertito con modifiche nella legge n. 153 del 1988) la convivenza non è richiesta quale presupposto perché sorga il diritto a percepire l’assegno per il nucleo familiare è sufficiente per l’insorgenza del diritto al beneficio, che il genitore, cui spetta l’assegno, provveda abitualmente al mantenimento dei figli, tali essendo quelli nati nel matrimonio o fuori dal matrimonio.
V I figli maggiorenni
Come si è detto il principio desumibile dall’art. 211 della legge di riforma del diritto di famiglia è che il coniuge affidatario dei figli, quando non possa percepire l’assegno in virtù di un proprio rapporto di lavoro, ha diritto di percepirlo per il tramite del genitore (lavoratore dipendente o pen¬sionato) non affidatario.
E’ possibile estendere le regole in questione al caso di figli maggiorenni sebbene per essi non è concepibile parlare di affidamento. In caso, perciò, di convivenza del figlio maggiorenne con uno dei genitori, gli assegni familiari possono essere richiesti dal genitore collocatario nei limiti con cui le norme prevedono l’attribuzione per i figli (e cioè, come detto, per i figli senza limite di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro ovvero per i figli studenti di età superiore ai 18 anni e inferiore ai 21 anni, purché facenti parte di “nuclei numerosi”, cioè nuclei familiari con almeno quattro figli tutti di età inferiore ai 26 anni).
VI Gli assegni familiari per i figli si aggiungono al contributo di mantenimento
Gli assegni familiari percepiti dal coniuge non affidatario si cumulano con il contributo per il man¬tenimento dei figli fissato in sede di separazione coniugale, salva l’eventuale diversa statuizione giudiziale o la diversa condizione pattuita in sede di separazione consensuale. D’altra parte – se¬condo quanto pacificamente si ritiene in dottrina e nella giurisprudenza costituzionale (per esem¬pio Corte cost., 3 aprile 1987, n. 98; Corte cost. 21 luglio 1988, n. 851; Corte cost. 27 luglio 1989, n. 458; Corte cost. 2 febbraio 1990, n. 42; Corte cost., 22 dicembre 1995, n. 516) – gli assegni familiari costituiscono una prestazione previdenziale, che compete al lavoratore, destinata proprio al sostentamento del nucleo familiare a suo carico, e non rappresenta una parte del trattamento stipendiale, pur essendo elargita sotto forma di integrazione della retribuzione.
Il principio fu per la prima volta affermato da Cass. civ. Sez. I, 27 novembre 1989, n. 5135 in caso di separazione il genitore affidatario del figlio minorenne ha diritto, ai sensi dell’art. 211, della legge 19 maggio 1975, n. 151, a percepire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro genitore in funzione di un rapporto di lavoro subordinato di cui quest’ultimo sia parte, indipendentemente dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fissato in sede di separazione consensuale a carico del coniuge non affidatario, salvo che sia diversamente stabilito in modo espresso negli accordi di separazione.
E’ il coniuge cui sono affidati i figli, pertanto, che ha diritto a percepire gli assegni familiari per loro. Questi assegni dunque gli spettano ex lege e non in forza delle convenzioni stipulate tra le parti in sede di separazione consensuale. Ove gli assegni siano stati perciò percepiti dal genitore non affidatario e non versati al genitore affidatario, quest’ultimo ha diritto a richiederne la restituzione.
Molto chiara in proposito era stata in passato Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 2003, n. 5060 in cui, dopo l’affermazione che il coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto, ai sensi dell’art. 211 della L. 19 maggio 1975, n. 151, a percepire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge, indipendentemente dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fissato in sede di separazione consensuale, salvo che sia diversamente stabilito, precisa che in difetto di una specifica pattuizione, non si possono interpretare le condizioni di separazione personale relative al riconoscimento di un assegno di mantenimento a favore del coniuge affidatario dei figli come comprensive dell’importo degli assegni familiari spettanti al coniuge non affidatario per i figli, spettando per legge l’importo di tali assegni al coniuge affidatario.
Il principio è stato ribadito successivamente da Cass. civ. Sez. VI – 1, 23 maggio 2013, n. 12770 dove si chiarisce ancora che il coniuge affidatario dei figli minori in sede di separazione coniugale, acquista ex lege, ai sensi dell’art. 211 della legge 19 maggio 1975, n. 151, il diritto a percepire gli assegni familiari corrisposti per i medesimi figli all’altro coniuge in virtu` del rapporto di lavoro di cui questi sia parte, in aggiunta ed indipendentemente dal tipo e dall’ammontare del contributo al mantenimento della medesima prole fissato in sede di separazione dal giudice o con¬venuto consensualmente, cumulandosi in ogni caso a questo.
L’orientamento è anche consolidato nella giurisprudenza di merito. Per esempio Trib. Bari Sez. I, 14 marzo 2017; Trib. Cagliari Sez. I, 12 luglio 2016; Trib. Cassino, 19 giugno 2007; Trib. Bari Sez. I, 1 agosto 2006; App. Cagliari, 14 maggio 1993, hanno tutte proprio precisato che il coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto, ai sensi dell’art. 211 della legge n. 151 del 1975, a percepire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge, indipendente¬mente dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fissato in sede di separazione a carico del coniuge non affidatario, salvo che sia diversamente stabilito in modo espresso negli accordi o nel provvedimento di separazione (unica voce contraria in passato App. Brescia, 19 luglio 1990 che aveva ritenuto compresi gli assegna familiari nel contributo di mantenimento).
In un caso, tuttavia, in cui il padre naturale di una minore aveva omesso di versare l’assegno di mantenimento per la figlia ma aveva dato disposizioni al proprio datore di lavoro di corrispondere gli assegni familiari alla madre della minore Cass. pen. Sez. VI, 15 settembre 2015, n. 44765 ha ritenuto (ma in punto di fatto) che non sussistesse il reato di violazione degli obblighi di assistenza.
Ovviamente quanto fin qui considerato vale soltanto con riferimento a ciò che il coniuge non affida¬tario percepisce come assegni per il figlio. Diversamente infatti stanno le cose per gli assegni che il lavoratore percepisca per il coniuge se da questi si sia separato giudizialmente o consensualmente. E’ indubbia, in questo caso, la titolarità della provvidenza in capo esclusivo al coniuge lavoratore onerato del mantenimento del coniuge separato. Manca a questo proposito una disposizione spe¬ciale quale quella ex art. 211 della legge 151/75, sì che valgono i principi generali. L’assegno per il coniuge è corrisposto al fine di consentire al lavoratore, a lui che ne è il solo titolare e l’unico che può percepirli, di far fronte al suo obbligo di mantenimento ex art. 143 e 156 (in caso di separazio¬ne) codice civile E’ dunque denaro suo e soltanto suo. Correttamente pertanto se nulla di diverso appare dalla pattuizione tra le parti o dalla statuizione giudiziale, si deve ritenere che anche di queste particolare entrata pecuniaria le parti o il giudice hanno tenuto conto quando hanno fissato il contributo che il coniuge deve dare all’altro coniuge per il mantenimento di questi.
Proprio in ragione di questa differenza di disciplina tra assegni familiari per i figli e per il coniuge ha indotto la dottrina a parlare di sistema a doppio binario.
VII Gli assegni familiari in caso di affidamento al servizio sociale
Secondo quanto affermato da Cass. civ. Sez. lavoro, 6 agosto 2003, n. 11876 qualora sia adottato dall’autorità giudiziaria un provvedimento di affidamento del minore al servizio sociale minorile e, per esso, all’azienda unità sanitaria locale, a norma dell’art. 26, ultimo comma, R.D.L. 20 luglio 1934, n. 1404, convertito nella legge 27 maggio 1935, n. 835, e successive modificazioni [affidamento disposto dal tribunale per i minorenni in sede penale® disponendosi tuttavia che il minore resti collocato presso il proprio genitore naturale, quest’ultimo mantiene il diritto alla cor¬responsione degli assegni familiari per il minore stesso, per tutto il tempo di detto collocamento, dato che il provvedimento di affidamento non determina di per sé modifiche in ordine al dovere del genitore di mantenere il minore, come d’altra parte risulta anche dalla previsione dell’ art. 25, terzo comma, del medesimo R.D.L [cosiddetto affidamento in sede amministrativa], a norma del quale le spese di affidamento, benché anticipate dall’erario, restano comunque a carico del genito¬re; ne consegue che opera in tale ipotesi la presunzione di cui all’art. 5 del D.P.R. 30 maggio 1955, n. 797, in base alla quale i figli ed equiparati devono ritenersi a carico del capofamiglia quando convivano con lo stesso, realizzandosi, in caso di collocamento presso la famiglia di origine del minore affidato al servizio sociale, un’ipotesi di convivenza, con correlati oneri economici a carico del capofamiglia, salva la prova, incombente sul debitore dell’assegno per il nucleo familiare, che, nel caso concreto, la collocazione presso la famiglia non comporti per quest’ultima siffatti oneri.
Naturalmente il principio vale anche nell’ipotesi in cui l’affidamento sia disposto dal giudice non sulla base della normativa minorile sopra richiamata ma anche sulla base di provvedimenti del giudice in sede di separazione, divorzio o regolamentazione dell’affidamento di figli nati fuori dal matrimonio.

Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. lavoro, 11 maggio 2017, n. 11569
La legge 19 maggio 1975, n. 151, art. 211, prevede che “il coniuge cui i figli sono affidati ha diritto in ogni caso a percepire gli assegni familiari per i figli, sia che ad essi abbia diritto per un suo rapporto di lavoro, sia che di essi sia titolare l’altro coniuge”. La lettera della norma porta a ritenere che il coniuge affidatario dei figli, quando non possa percepire l’assegno in questione in virtù di un proprio rapporto di lavoro, ha diritto di percepirlo per il tramite di quello non affidatario.
Trib. Bari Sez. I, 14 marzo 2017
Il coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto, ai sensi dell’art. 211 della legge n. 151 del 1975, a perce¬pire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge in funzione di un rapporto subordinato di cui quest’ultimo sia parte, indipendentemente dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fissato in sede di separazione consensuale omologata a carico del coniuge non affidatario, salvo che sia diversamente stabilito in modo espresso negli accordi di separazione.
Trib. Cagliari Sez. I, 12 luglio 2016
Il coniuge affidatario del figlio minorenne, ha il diritto di percepire gli assegni familiari corrisposti, per il minore, all’altro coniuge in funzione di un rapporto di lavoro subordinato di cui quest’ultimo sia parte e ciò a prescindere dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fissato in sede di separazione consensuale omolo¬gata a carico del coniuge non affidatario, salvo che sia diversamente stabilito in modo espresso negli accordi di separazione.
Cass. pen. Sez. VI, 15 settembre 2015, n. 44765
Non integra il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare il comportamento del genitore naturale, lavoratore non affidatario, che spontaneamente, e in assenza di diversa specifica indicazione del giudice civile in sede di determinazione dell’assegno di mantenimento, dà disposizione al proprio datore di lavoro di corri¬spondere direttamente alla madre della figlia minorenne l’importo degli assegni familiari, giacché tali assegni concorrono ad integrare la somma alla cui periodica corresponsione lo stesso è obbligato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 30 marzo 2015, n. 6351
L’assegno per il nucleo familiare, disciplinato dall’art. 2 del decreto legge 13 marzo 1988, n. 69, convertito in legge 13 maggio 1988, n. 153 – finalizzato ad assicurare una tutela in favore delle famiglie in stato di effettivo bisogno economico ed attribuito in modo differenziato in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare, tenendo conto dell’eventuale esistenza di soggetti colpiti da infermità o difetti fisici o mentali (e, quindi, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro) ovvero di minorenni che ab¬biano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età – ha natura assistenziale, sicché, ai sensi dei commi 2 e 6 dell’art. 2 cit., il reddito rilevante ai fini dell’ammontare dell’assegno è quello del nucleo familiare composto dal coniuge affidatario e dai figli, con esclusione del coniuge legalmente separato, anche se titolare del diritto alla corresponsione, il cui reddito rileva solo ai fini del diritto all’erogazione della provvidenza.
Trib. Nocera Inferiore Ordinanza, 9 ottobre 2013
Nel caso di affidamento condiviso di minori, il soggetto legittimato alla percezione degli assegni familiari è il genitore con il quale i minori stessi convivono.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 23 maggio 2013, n. 12770
Il coniuge affidatario dei figli minori in sede di separazione coniugale, acquista ex lege, ai sensi dell’art. 211 Legge 19 maggio 1975, n. 151, il diritto a percepire gli assegni familiari corrisposti per i medesimi figli all’altro coniuge in virtu` del rapporto di lavoro di cui questi sia parte, in aggiunta ed indipendentemente dal tipo e dall’ammontare del contributo al mantenimento della medesima prole fissato in sede di separazione dal giudice o convenuto consensualmente, cumulandosi in ogni caso a questo.
App. Genova Sez. lavoro, 29 marzo 2013
Il genitore separato dal coniuge, al fine di poter godere degli effetti di cui all’art. 211 della legge n. 151 del 1975, e dunque dell’attribuzione ad esso degli assegni familiari per i figli, è tenuto a dimostrare l’affidamento ad esso della prole. A tal fine non assume alcun rilievo la produzione del provvedimento di omologa della se¬parazione consensuale dal quale nulla si evince in merito all’affidamento, qualora carente del relativo accordo di separazione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 giugno 2010, n. 14783 (Fam. Pers. Succ., 2010, 12, 827 nota di CORSO)
Il diritto all’assegno per il nucleo familiare compete anche in relazione ai figli riconosciuti nati nell’ambito di una coppia di fatto, senza che rilevi la circostanza che il genitore sia ancora legato in matrimonio con altra persona, atteso che la nozione di “nucleo familiare” delineata dal legislatore presuppone solamente la condizione di figlio naturale riconosciuto, e non anche l’inserimento nella famiglia legittima.
L’assegno per il nucleo familiare, istituito e regolato dal D.L. n. 69 del 1988, spetta ai lavoratori dipendenti privati e pubblici, oltre ai pensionati, ed è commisurato al numero di componenti del nucleo familiare oltre che, ovviamente, all’entità del reddito percepito dall’avente diritto. In applicazione dell’art. 38 del D.P.R. n. 818 del 1957, che specifica la composizione del “nucleo familiare”, sono da considerare componenti dello stesso, tra gli altri, i figli naturali legalmente riconosciuti che, ai sensi dell’art. 250 c.c., sono quelli riconosciuti nei modi indicati dall’art. 254 c.c. dal padre o dalla madre, anche se uniti in matrimonio con persona diversa all’epoca del concepi¬mento. La condizione di figlio naturale riconosciuto, peraltro, per quanto qui rileva, non è assolutamente inficiata dall’assenza di inserimento nella famiglia legittima. Ebbene, la normativa sull’assegno familiare non richiede l’inserimento nell’ambito della famiglia legittima ma si limita a richiedere, ai fini del relativo riconoscimento, la condizione di figlio naturale per cui anche il soggetto coniugato e mai separato ma convivente con altra persona ha diritto alla percezione dell’assegno familiare per i figli naturali, minori, legalmente riconosciuti se prova che, essendo posti a suo carico, provvede al loro mantenimento.
Cass. civ. Sez. lavoro, 19 ottobre 2007, n. 21960
In tema di assegni per il nucleo familiare, alla stregua del disposto dell’art. 2, comma 3, del d.l. n. 69 del 1988(convertito con modificazioni in legge n. 153 del 1988) che rinvia, per quanto non specificamente discipli¬nato, alle norme contenute nel testo unico in materia di assegni familiari approvato con d.P.R. n. 797/1995, la prescrizione quinquennale del relativo diritto decorre dal primo giorno del mese successivo a quello nel quale è compreso il periodo di lavoro cui l’assegno si riferisce. Conseguentemente ove, come nella specie, le quote di maggiorazione attengano all’assegno di invalidità, l’assicurato non incorre nella prescrizione ove richieda dette quote negli stessi tempi dell’assegno, e cioè contestualmente alla domanda amministrativa ovvero con il ricorso giudiziale diretto ad ottenere l’assegno stesso. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte territo¬riale che aveva fatto decorrere la prescrizione quinquennale dalla data della sentenza pretorile di riconoscimento dell’assegno di invalidità, sul presupposto che solo a tale data la prestazione previdenziale rappresentasse il sessanta per cento del reddito familiare per gli anni dal 1986 al 1988, ritenendo tempestiva la domanda di attri¬buzione degli assegni presentata nell’aprile 1994).
Trib. Cassino, 19 giugno 2007
Ai sensi dell’art. 211, L. n. 151/1975, il coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto alla percezione degli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge in funzione di un rapporto di lavoro subordinato di cui questi sia parte, indipendentemente dal contributo fissato, in sede di separazione consensuale omologata, per il mantenimento del figlio stesso, salvo diversa ed espressa pattuizione contenuta negli accordi di separazione. Nella specie, posto che l’accordo stragiudiziale con il quale le parti avrebbero convenuto la onnicomprensività del contributo di mantenimento non soltanto non risulta trasfuso nel decreto di omologa della separazione con¬sensuale, ma non è richiamato né nel ricorso per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, né nel verbale di udienza presidenziale, né, soprattutto, nella sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio, e dal momento che le condizioni patrimoniali stabilite in sede di divorzio si sostituiscono integralmente a quanto in precedenza stabilito, deve ritenersi che nel contributo di mantenimento dovuto dal con
Trib. Bari Sez. I, 1 agosto 2006
Ai sensi dell’art. 211 della legge n. 151 del 1975, è il coniuge cui sono affidati i figli che ha diritto di percepire gli assegni familiari per loro; b) detti assegni spettano, quindi, ex lege al coniuge affidatario, non già in forza delle convenzioni stipulate tra le parti in sede di separazione consensuale; c) il marito è, perciò, tenuto a corri¬spondere gli assegni familiari non come suo contributo al mantenimento dei figli, ma perché non fanno parte del suo reddito, bensì di quello della moglie; d) gli accordi presi in sede di separazione consensuale, hanno per oggetto la misura, ed il modo con cui il coniuge non affidatario deve contribuire al mantenimento, all’istruzione e all’educazione dei figli, stabilendo cioè il quantum del concorso agli oneri (ex art. 148 c.c.) in proporzione alle ri¬spettive sostanze ed ai rispettivi redditi da lavoro; e) le pattuizioni della separazione consensuale, possono tener conto del fatto che uno dei coniugi percepisce gli assegni familiari per i figli, sia esso il coniuge affidatario o l’altro, al fine di stabilire eque modalità di concorso o di contributo, tenendo appunto conto dell’ammontare degli assegni familiari per i figli e di chi li percepisce materialmente; f) una simile valutazione deve però risultare chiaramente dalla convenzione o dalla motivazione giudiziaria, trattandosi di, due momenti logici ben distinti, relativi, l’uno, alla determinazione di quanto occorre per il mantenimento del figlio e di quanto occorre in specie oltre l’importo dell’assegno familiare corrisposto per lui, l’altro alla determinazione di quale debba essere il con¬tributo del coniuge non affidatario; g) ove questa valutazione non risulti, l’interprete deve considerare l’accordo per quello che è in sé, ovvero in termini di determinazione del contributo che il coniuge non affidatario deve ai fini del mantenimento del figlio. S.C. (testualmente in sent. n. 5060 del 2003).
Cass. civ. Sez. lavoro, 30 dicembre 2004, n. 24204
Il lavoratore dipendente è titolare del diritto a percepire l’assegno per il nucleo familiare (così come disciplinato dal D.L. 13 marzo 1988, n. 69, convertito con modifiche nella legge 13 maggio 1988, n. 153) per i figli in rela¬zione ai quali provveda o contribuisca abitualmente al mantenimento, rimanendo irrilevante sia che i figli siano con lui conviventi, sia che, in caso di separazione personale, essi risultino affidati all’altro genitore in base agli accordi intervenuti in sede di separazione, in quanto il non essere affidatario non fa venir meno l’obbligo del genitore al mantenimento.
Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 2003, n. 5060 (Lavoro nella Giur., 2004, 474 nota di SLATAPER)
II coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto, ai sensi dell’art. 211 della L. 19 maggio 1975, n. 151, a percepire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge, indipendentemente dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fissato in sede di separazione consensuale, salvo che sia diversamente stabilito.
In difetto di una specifica pattuizione, non si possono interpretare le condizioni di separazione personale relative al riconoscimento di un assegno di mantenimento a favore del coniuge affidatario dei figli come comprensive dell’importo degli assegni familiari spettanti al coniuge non affidatario per i figli, spettando per legge l’importo di tali assegni al coniuge affidatario.
Cass. civ. Sez. lavoro, 6 agosto 2003, n. 11876
Qualora sia adottato dalla competente autorità giudiziaria un provvedimento di affidamento del minore al servi¬zio sociale minorile e, per esso, all’Azienda unità sanitaria locale, a norma dell’art. 26, ultimo comma, R.D.L. 20 luglio 1934, n. 1404, convertito nella legge 27 maggio 1935, n. 835, e successive modificazioni, disponendosi tuttavia che il minore resti collocato presso il proprio genitore naturale, quest’ultimo mantiene il diritto alla corresponsione degli assegni familiari per il minore stesso, per tutto il tempo di detto collocamento, dato che il provvedimento di affidamento non determina di per sé modifiche in ordine al dovere del genitore di mantenere il minore, come d’altra parte risulta anche dalla previsione dell’ art. 25, terzo comma, del medesimo R.D.L, a norma del quale le spese di affidamento, benché anticipate dall’erario, restano comunque a carico del genitore; ne consegue che opera in tale ipotesi la presunzione di cui all’art. 5 del D.P.R. 30 maggio 1955, n. 797, in base alla quale i figli ed equiparati devono ritenersi a carico del capofamiglia quando convivano con lo stesso, realiz¬zandosi, in caso di collocamento presso la famiglia di origine del minore affidato al servizio sociale, un’ipotesi di convivenza, con correlati oneri economici a carico del capofamiglia, salva la prova, incombente sul debitore dell’assegno per il nucleo familiare, che, nel caso concreto, la collocazione presso la famiglia non comporti per quest’ultima siffatti oneri.
Cass. civ. Sez. lavoro, 7 aprile 2000, n. 4419 (Giust. Civ., 2000, 2275 nota di BAGIANTI)
Nel regime posto dal d.l. 13 marzo 1988 n. 69 (conv. con modifiche nella l. n. 153 del 1988) la convivenza non è richiesta quale presupposto perchè sorga il diritto a percepire l’assegno per il nucleo familiare (composto dai coniugi e dai figli, compresi quelli naturali legalmente riconosciuti), ma rappresenta soltanto un elemento di fatto idoneo a comprovare presuntivamente il requisito della vivenza a carico, essendo sufficiente per l’insorgenza del diritto al beneficio, sensibilmente diverso da quello agli assegni familiari, che il genitore, cui spetta l’assegno, provveda abitualmente al mantenimento dei figli. Nè è di ostacolo l’astratta configurabilità di due nuclei familiari in caso di genitori del figlio naturale non riconosciuto, i quali, non legati tra loro da coniugio, non facciano parte dello stesso nucleo familiare, atteso che comunque opera la prescrizione posta dall’art. 2, comma 8 bis, d.l. n. 69 del 1988, secondo cui, per i componenti del nucleo familiare al quale la prestazione è corrisposta, l’assegno stesso non è compatibile con altro assegno o diverso trattamento di famiglia a chiunque spettante.
Corte cost., 22 dicembre 1995, n. 516
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto legge 13 marzo 1988, n. 69, con¬vertito con modificazioni nella legge 13 maggio 1988, n. 153, impugnato, in riferimento all’art. 3 della Costi¬tuzione, nella parte in cui prevede che l’assegno per il nucleo familiare spetti ai titolari delle pensioni derivanti esclusivamente da lavoro dipendente, negando tale prestazione ai titolari di pensioni a carico di gestioni assicu¬rative per lavoratori autonomi, ma conseguite con utilizzazione, in misura prevalente, di contribuzione versata per lavoro dipendente, in quanto la trasformazione dell’istituto degli assegni familiari in quello dell’assegno per il nucleo familiare, disposta con una normativa non applicabile ai lavoratori autonomi, rende non irragionevole né incoerente la diversità, sotto questo profilo, dei regimi previdenziali goduti dalle due categorie di pensionati già lavoratori dipendenti e di pensionati già lavoratori autonomi.
App. Cagliari, 14 maggio 1993 (Riv. Giur. Sarda, 1996, 374 nota di OBINO)
Gli assegni familiari corrisposti al lavoratore subordinato per l’altro coniuge, se nulla al riguardo è stato espres¬samente pattuito dalle parti in sede di separazione consensuale, spettano a quest’ultimo, dovendosi ritenere che nella fissazione del contributo per il mantenimento, anche in considerazione del suo ammontare, non si sia tenuto conto di questa particolare entrata.
Il coniuge affidatario dei figli minorenni ha diritto, ai sensi dell’art. 211, l. 19 maggio 1975 n. 151, a percepire gli assegni familiari corrisposti per i figli all’altro coniuge in funzione di un rapporto di lavoro subordinato di cui quest’ultimo sia parte, indipendentemente dall’ammontare del contributo per il mantenimento fissato in sede di separazione consensuale a carico del coniuge non affidatario.
Corte cost. 2 febbraio 1990, n. 42
L’omessa previsione, nella legge sugli assegni familiari, dell’ipotesi in cui il genitore risulti disoccupato senza indennità, e l’omessa equiparazione di tale ipotesi allo stato di abbandono – in cui è riconosciuto al figlio (mag¬giorenne) lavoratore il diritto agli assegni per fratelli o sorelle minori a carico – crea non soltanto un’irrazionale disparità di trattamento di situazioni omogenee, ma lede altresì i precetti costituzionali relativi alla tutela della famiglia. Pertanto, per contrasto con gli artt. 3, 31 e 38 Cost. va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 del D.P.R. 30 maggio 1955 n. 797, comma secondo, lett. a) nella parte in cui, ai fini dell’attribuzione degli asse¬gni familiari, non prevede anche l’ipotesi dello stato di disoccupazione del padre senza indennità. N.B.: Massima redatta con riferimento al testo della decisione così come modificato dall’ordinanza di correzione n. 511 del 1990.
App. Brescia, 19 luglio 1990 (Giust. Civ., 1990, I, 2156)
L’art. 211, l. 19 maggio 1975, n. 151 – che attribuisce al coniuge, affidatario dei figli minori, il diritto a percepire i relativi assegni familiari, di cui sia titolare l’altro coniuge – opera una distrazione di tali somme dal beneficiario, titolare del rapporto di lavoro, al coniuge con il quale i figli stessi convivono; ne segue, per l’effetto, ove non sia diversamente disposto, che detti assegni non competono in aggiunta all’assegno per il mantenimento della prole come fissato dal tribunale nella sentenza di separazione, o concordato dai coniugi, in occasione della loro consensuale separazione.
Cass. civ. Sez. I, 27 novembre 1989, n. 5135 (Giust. Civ., 1990, I, 973)
Il coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto, ai sensi dell’art. 211, l. 19 maggio 1975, n. 151, a percepire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge in funzione di un rapporto di lavoro subordinato di cui quest’ultimo sia parte, indipendentemente dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fis¬sato in sede di separazione consensuale a carico del coniuge non affidatario, salvo che sia diversamente stabilito in modo espresso negli accordi di separazione; gli assegni familiari per il coniuge, invece, in mancanza di una previsione analoga al cit. art. 211, spettano al lavoratore – cui sono corrisposti per consentirgli di far fronte al suo obbligo di mantenere il coniuge ex art. 143 e 156 c. c. – con la conseguenza che, se nulla al riguardo è stato pattuito dalle parti in sede di separazione consensuale (ovvero è stato stabilito dal giudice in quella giudiziale), deve ritenersi che nella fissazione del contributo per il mantenimento del coniuge si sia tenuto conto anche di questa particolare entrata.
Corte cost. 27 luglio 1989, n. 458
Posta anche la non comparabilità – per differenze di struttura e finalità della relativa disciplina – dei trattamenti previdenziali per carichi di famiglia dei pensionati già lavoratori autonomi e dei pensionati già lavoratori dipen¬denti, non appare irragionevole né arbitraria la scelta del legislatore – condizionata anche dalla ristrettezza delle disponibilità finanziarie – di limitare al solo settore del lavoro subordinato la maggiorazione degli assegni familiari con esclusione delle categorie del lavoro autonomo, le quali in ragione del reddito derivato dalla propria attività – rispetto alla retribuzione fissa dei lavoratori dipendenti – non sono gravate dai medesimi sacrifici di questi e sono in grado di difendersi dall’erosione inflazionistica.
Corte cost. 21 luglio 1988, n. 851
Le norme secondo le quali le quote di aggiunta di famiglia nonché ogni altro trattamento di famiglia comunque denominato cessano di essere corrisposte, ad iniziare da quelli di importo più elevato in relazione al reddito fami¬liare ed al numero delle persone a carico dei soggetti percettori, non contrastono a) con il principio di eguaglian¬za rappresentano o una scelta discrezionale del legislatore; b) con l’art. 31 della Costituzione non risultandone ostacolata la finalità di favorire l’adempimento dei doveri familiari; c) con l’art. 36 Cost. in considerazione della natura non retributiva dell’emolumento; d) con l’art. 53 Cost. perché i redditi debbono essere presi in consi¬derazione, agli effetti che qui interessano, come tali, a prescindere dal soddisfacimento degli obblighi tributari.
Corte cost. 3 aprile 1987, n. 98
Gli assegni familiari costituiscono una prestazione previdenziale cui il lavoratore o i suoi superstiti hanno diritto. Anche nel giudizio che i beneficiari sono costretti ad instaurare per ottenere gli assegni o, in genere, per dirimere un’eventuale contestazione – sempre che la lite non sia temeraria o manifestamente infondata – trova applicazio¬ne il beneficio dell’esonero dal pagamento delle spese processuali, di cui all’art. 152 disp. trans. c.p.c., ricorrendo nel caso, la stessa “ratio” di tale norma: quella di garantire al lavoratore la tutela giudiziale della sua fondata pretesa al conseguimento delle prestazioni previdenziali o assistenziali mediante l’esonero del pagamento delle predette spese, in caso di soccombenza.

PRESCRIZIONE (civile)

di Gianfranco Dosi

I. La prescrizione nell’ambito del diritto di famiglia
II. I diritti indisponibili (imprescrittibili)
a) I casi di azione e di intervento del Pubblico Ministero
b) Il regime primario contributivo
c) I provvedimenti riguardanti i figli minori
III. I diritti patrimoniali disponibili (imprescrittibili)
a) Diritti patrimoniali disponibili e imprescrittibilità
b) La tesi della giurisprudenza sulla indisponibilità
c) La tesi della giurisprudenza sulla disponibilità
d) Disponibilità e negozialità
e) La riforma del 2014 sugli accordi al di fuori dei tribunali
IV. Il principio in base al quale i diritti patrimoniali diventano prescrittibili dopo la loro regolamentazione legale
V. La prescrizione in materia di mantenimento coniugale e per i figli
a) Il mantenimento coniugale
b) Il mantenimento dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti
c) L’azione di regresso in caso di riconoscimento tardivo del figlio nato fuori dal matrimonio
VI. La sospensione della prescrizione tra coniugi si applica anche ai coniugi separati?
VII. La prescrizione nelle azioni di status
I La prescrizione nell’ambito del diritto di famiglia
La prescrizione è un istituto generale disciplinato – insieme alla decadenza – nel titolo V del VI sesto libro del codice civile e le problematiche che vi sono connesse sono numerose.
Il principio di fondo che l’istituto richiama è quello secondo cui i diritti si estinguono se non vengono esercitati, in quanto il mancato esercizio ingenera nella collettività il convincimento che ad essi il titolare abbia rinunciato. E’ una questione di certezza nei rapporti giuridici. Fanno eccezione a questa regola “i diritti indisponibili e gli altri diritti indicati dalla legge” (art. 2934 c.c.), tra questi ultimi, per esempio, l’azione di rivendicazione della proprietà (art. 948 c.c.) e l’azione di nullità del contratto (art. 1422 c.c.) che non si estinguono mai e che sono, quindi, imprescrittibili.
In questa sede si tratteranno le questioni che, in tema di prescrizione, si pongono nell’ambito del diritto di famiglia dove valgono, tuttavia, i medesimi principi generali applicabili negli altri settori del diritto e cioè che la prescrizione comincia a decorrere da quando il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.); che è nullo ogni patto diretto a modificare la disciplina della prescrizione (art. 2936 c.c.); che si può rinunciare alla prescrizione solo dopo che questa si è compiuta (art. 2937 c.c.); che la prescrizione non può mai essere rilevata d’ufficio (art. 2938 c.c.) – al pari della decadenza (art.2969 c.c. il quale però precisa che il rilievo d’ufficio della decadenza è possibile per le materie sottratte alla disponibilità delle parti) – e che in ogni caso essa può sempre essere opposta dai creditori e da chiunque vi abbia interesse ove l’interessato non la faccia valere (art. 2939 c.c.); infine che l’adempimento spontaneo di un debito prescritto non consente l’azione di ripetizione (art. 2940 c.c.).
Nel contesto delle norme sulle persone e sulla famiglia una prima questione problematica, di carattere generale, è collegata al tema della imprescrittibilità dei diritti indisponibili (art. 2934, secondo comma, c.c.) che proprio nel diritto di famiglia costituiscono un’area particolarmente affollata. Si tratta di verificare quale sia in concreto nel diritto di famiglia la distinzione più plausibile tra diritti disponibili e diritti indisponibili per collegare solo a questi ultimi la loro imprescrittibilità. E in questa analisi non potrà non tenersi conto della rilevante incidenza apportata dalla normativa sulla negoziazione assistita che ha relativizzato la natura tradizionalmente indisponibile delle norme sui rapporti tra coniugi consentendo accordi di negoziazione anche in sede di separazione e divorzio con il solo intervento del Pubblico Ministero (art. 6, decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162) e perfino accordi davanti all’ufficiale di stato civile, senza alcun intervento di controllo giudiziario (art. 12, decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162)1.
La seconda area da indagare è costituita dal tema della prescrizione nel settore delle azioni di status della filiazione dove la riforma operata con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 e con il decreto legislativo di attuazione (D.Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) ha apportato notevoli e significative modificazioni.
Il terzo settore problematico è quello della sospensione della prescrizione in relazione alla qualità delle parti (art. 2941 c.c.), soprattutto della sospensione della prescrizione tra coniugi dove la giurisprudenza con alcune decisioni a sorpresa del 2014 ha apportato cambiamenti di rilevo rispetto a principi che apparivano ormai consolidati.
Ulteriore area problematica che verrà qui indagata è quella della prescrizione in materia di assegno di mantenimento trattandosi di un settore nel quale, anche a causa di alcune decisioni della giurisprudenza non del tutto lineari, si è creata qualche confusione che non ha reso sufficientemente intellegibile la disciplina.
Infine si parlerà delle interferenze tra la disciplina della prescrizione e quella della mediazione (art. 5, comma 6m D. Lgs 4 marzo 2010, n. 28) e della negoziazione assistita da avvocati (art. 8, D. L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni nella legge 10 novembre 2014, n. 162).
II I diritti indisponibili
a) I casi di azione e di intervento del Pubblico Ministero
Il diritto di famiglia, come si è accennato, costituisce certamente il settore nel quale tradizionalmente sono allocati i diritti indisponibili (che, quindi, sono imprescrittibili in base a quanto prevede l’art. 2934, secondo comma, c.c.).
Hanno certamente natura indisponibile e imprescrittibile i diritti per i quali è previsto il potere di azione (art. 69 c.p.c.) o il dovere di intervento (art. 70 c.p.c.) del Pubblico Ministero, considerati sintomatici dell’esistenza di diritti che la legge non lascia alla completa libertà dell’autonomia privata.
Il potere di azione del Pubblico Ministero è previsto in materia di famiglia nelle ipotesi di nomina di un curatore alla persona incapace (art. 79 c.p.c.), o in caso di scomparsa (art. 48 c.c.) e di morte presunta (art. 58 c.c.), per l’interdizione (art. 417 c.c.) o l’amministrazione di sostegno (art.406 c.c.), per l’annullamento del matrimonio contratto in violazione di legge (art. 117 c.c. nei limiti indicati dalla norma) o contratto dall’interdetto (art. 119 c.c. nei limiti indicati dalla norma), per la nomina di un curatore al minorenne in caso di inerzia dei genitori (art. 321 c.c.), per la richiesta di provvedimenti de potestate in materia di abusi della responsabilità genitoriale (art. 336 c.c.) o per la dichiarazione di adottabilità (art. 9, legge 4 maggio 1984, n. 183).
Il potere di intervento del Pubblico Ministero si esercita in tutte le cause in cui egli ha anche il potere di azione (art. 70, n. 1 c.p.c.), nelle cause matrimoniali, compresa la separazione dei coniugi (art. 70, n. 2 c.p.c.), nelle cause riguardanti lo stato o la capacità delle persone (art. 70, n. 3 c.p.c.) come la nullità e il divorzio.
Ogni volta che la legge prevede la presenza nella causa del Pubblico Ministero, sotto forma di potere di azione o di dovere di intervento, si è, quindi, necessariamente in presenza di un diritto indisponibile (e pertanto imprescrittibile).
Con la precisazione importante che, non essendovi impedimenti di natura costituzionale, al legislatore non è interdetto prevedere – come avvenuto con l’art. 6 e con l’art. 12 del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162 – che in presenza di determinate circostanze i rapporti personali e patrimoniali anche relativi ai figli e lo stesso status coniugale possano essere oggetto di autonomi accordi e di regolamentazione (con la separazione o con il divorzio) da parte dei coniugi anche senza passare per il tribunale ovvero direttamente davanti all’ufficiale di stato civile. Non si può non osservare in ogni caso che sia pure all’interno di precisi confini normativi qui la tradizionale indisponibilità dei diritti sullo status resta oggettivamente fortemente ridimensionata.
b) Il regime primario contributivo
L’art. 143 del codice civile dopo aver disposto nei primi due commi che con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri e che dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione, al terzo comma prevede che “Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”.
Simmetricamente l’art. 1, comma 11, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) dopo aver chiarito che con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri e che dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione, espressamente dispone che “Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni”.
Il nostro sistema giuridico prevede, perciò, un’obbligazione contributiva a carico dei coniugi (tenuti a contribuire ai bisogni della famiglia) e delle parti dell’unione civile (tenute a contribuire ai bisogni comuni) e dà per scontato che essa, sia pure sotto la forma del dovere morale, esita anche tra conviventi di fatto.
L’importanza fondamentale del principio contributivo2 è rimarcata dalla constatazione che esso fonda il regime primario della famiglia indipendentemente dal regime patrimoniale scelto. La solidarietà e la reciproca assistenza materiale sono alla base della stessa vita matrimoniale senza subire nessun condizionamento derivante dal regime secondario scelto per disciplinare la distribuzione della ricchezza.
Alla base del principio contributivo solennemente previsto nel terzo comma dell’art. 143 c.c. sta la regola fondamentale della parità del lavoro professionale (cioè del lavoro che produce redditi monetari) e di quello casalingo (domestico), quest’ultimo da intendersi come il lavoro di cura della famiglia e dei figli prestato nell’ambito della vita familiare, in via esclusiva o aggiuntiva rispetto al lavoro professionale. Le condizioni e il tenore di vita della famiglia dipendono dalla distribuzione dei compiti attraverso i quali i coniugi realizzano l’obbligazione contributiva.
Il dovere di contribuzione (giuridico per i coniugi e per le unioni civili e morale per i conviventi di fatto) è quindi strettamente collegato al principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) ed ha natura di diritto indisponibile. Tutto il regime primario è per forza di cose indisponibile.
I coniugi possono, invece, liberamente determinare, modificare e regolamentare il proprio regime patrimoniale coniugale che è questione che attiene non al regime primario (contributivo) ma al regime secondario (distributivo) del matrimonio, cioè alle modalità con cui i coniugi scelgono di distribuire la futura ricchezza. L’espansione dell’autonomia privata è qui riconosciuta ampiamente nei limiti, s’intende, che la legge stessa dichiara non superabili (art. 160 c.c. che esclude la derogabilità ai diritti e ai doveri – sostanzialmente richiamati dall’art. 143 c.c. – previsti dalla legge per effetto del matrimonio). Pertanto anche le controversie che hanno ad oggetto l’adempimento o l’attuazione dei regimi patrimoniali di tipo secondario – si pensi alla divisione dei beni in comunione (articoli 191, 192 c.c.) o all’accertamento delle rispettive proprietà in regime di separazione dei beni (art. 219 c.c.) – sono controversie su diritti disponibili (possibile oggetto di mediazione e di negoziazione) soggetti alla prescrizione ordinaria, tenendo naturalmente presente che tra i coniugi prescrizione è sospesa (art. 2941 c.c.).
c) I provvedimenti riguardanti i figli minori
La giurisprudenza costituzionale nell’ambito delle procedure della crisi familiare ha sempre ritenuto obbligatorio l’intervento del Pubblico Ministero (Corte cost. 9 novembre 1992, n. 416; Corte cost. 25 giugno 1996, n. 214) a riprova che tale intervento è sintomatico dell’esistenza di diritti indisponibili. Ed è certamente questo miminum di garanzia che ha indotto il legislatore a mantenere tale controllo sugli accordi negoziati tra coniugi in presenza di figli a carico (art. 6 e con l’art. 12 del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162).
Già nel 1985 una prima sentenza storica della Corte costituzionale (Corte cost. 14 luglio 1986, n. 185) ebbe a chiarire che era da escludere che fosse costituzionalmente illegittima l’omessa previsione della nomina di un curatore speciale per la rappresentanza in giudizio dei figli minori, nei procedimenti contenziosi relativi allo scioglimento (od alla cessazione degli effetti civili) del matrimonio ed alla separazione dei coniugi, “dovendosi ritenere idonee e sufficienti alla tutela degli interessi dei predetti minori nei procedimenti suindicati, le misure già previste in loro favore (intervento obbligatorio in giudizio del Pubblico Ministero, amplissime facoltà istruttorie del giudice, potere del collegio di decidere, in ordine ai provvedimenti relativi alla prole, ultra petitum). Gli stessi principi vennero in sostanza ribaditi in due successive sentenze della corte costituzionale. Una prima volta (Corte cost. 9 novembre 1992, n. 416) nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 710 del codice di procedura civile, anche nel testo novellato dalla legge 29 luglio 1988, n. 331, che non prevede(va) l’intervento obbligatorio del Pubblico Ministero nei procedimenti di modificazione dei provvedimenti riguardanti i figli minori in caso di separazione personale tra coniugi, essendo invece tale intervento prescritto nei procedimenti di modificazione dei provvedimenti riguardanti i figli minori in caso di divorzio dall’art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898; la Corte precisò in quella occasione che l’intervento del Pubblico Ministero nel caso di modifica dei provvedimenti relativi ai figli minori di genitori divorziati risponde alla particolare esigenza di tutela di questi ultimi (come già rimarcato da questa Corte nella sent. n. 185 del 1986 con riguardo più in generale ai giudizi per lo scioglimento del matrimonio e per la separazione fra coniugi) ed analogo (se non ancor più pressante) interesse sussiste nel caso dei provvedimenti modificativi delle condizioni della separazione riguardanti la prole. In entrambe le ipotesi la “ratio” ispiratrice è “l’esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale della prole”. Nella seconda sentenza (Corte cost. 25 giugno 1996, n. 214) la questione discussa era stabilire se nelle controversie tra genitori non coniugati, per l’adozione dei “provvedimenti relativi ai figli”, debba intervenire il Pubblico Ministero, similmente a quanto prescritto dai citati art. 9 della legge n. 878 del 1970 e art. 710 del codice di procedura civile. La risposta fu positiva e la questione di costituzionalità venne ritenuta fondata in quanto il parametro costituzionale (art. 30, comma terzo, Cost.), correttamente invocato, effettivamente postula che ai figli nati fuori dal matrimonio sia assicurata tutela uguale a quella attribuita ai figli legittimi, compatibilmente con i diritti dei membri della famiglia legittima. Ed appunto l’intervento del Pubblico Ministero, nei giudizi tra coniugi (separati o divorziati) che comportino provvedimenti relativi ai figli, innegabilmente risponde – come del resto già ritenuto con sentenza n. 416 del 1992 – ad una particolare esigenza di tutela degli interessi di questi ultimi. Identica tutela va quindi garantita ai figli nati fuori dal matrimonio, non ricorrendo, nella specie, ragione alcuna di incompatibilità, ostativa ad una siffatta equiparazione. Venne pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 70 del codice di procedura civile nella parte in cui non prescrive l’intervento del Pubblico Ministero nei giudizi tra genitori naturali che comportino l’adozione di “provvedimenti relativi ai figli”.
Espressione della tutela è nell’art. 158 c.c. la previsione del possibile rifiuto di omologazione degli accordi ritenuti contrastanti con l’interesse dei figli.
La tutela si estende alla previsione della possibile impugnazione da parte del Pubblico Ministero dei provvedimenti concernenti i figli (art. 5, comma 5, della legge sul divorzio).
III I diritti patrimoniali disponibili (e imprescrittibili)
a) Diritti patrimoniali disponibili e imprescrittibilità
Il fatto che i diritti indisponibili siano certamente imprescrittibili (art.2934, secondo comma, c.c.) non comporta che i diritti disponibili debbano essere per forza di cose tutti prescrittibili. Il secondo comma dell’art. 2934 include tra i diritti imprescrittibili anche “gli altri diritti indicati dalla legge”. Se si leggono l’art. 156 c.c. e l’art. 5, comma 8, della legge sul divorzio nonché l’art. 710 c.p.c. e l’art. 9 della legge sul divorzio, ci si avvede che le parti possono sempre chiedere un assegno di separazione o divorzile. Il che vuol dire che il diritto all’assegno di separazione o di divorzio è imprescrittibile. Da questo però non deriva che debba anche essere un diritto indisponibile.
Il regime primario contributivo indisponibile si trasforma in diritto patrimoniale disponibile in sede di separazione (in vista o nel corso della separazione) e in sede di divorzio (in vista e nel corso del divorzio). In mancanza di accordi sarà il giudice a decidere.
In effetti la dottrina più sensibile alla valorizzazione dell’autonomia privata ha in passato più volte affermato l’inclusione, nell’area della disponibilità, dei diritti patrimoniali connessi ai regimi secondari e dei diritti patrimoniali postconiugali.
La tesi è stata proposta più volte soprattutto nell’approfondimento dei contratti della crisi coniugale, ritenendosi che la possibilità offerta dal legislatore ai coniugi di accordarsi sul loro assetto patrimoniale post-matrimoniale (di separazione o di divorzio) debba essere considerato indizio chiaro della piena autonomia privata e quindi di una sostanziale disponibilità dei diritti.
b) La tesi della giurisprudenza sulla indisponibilità
La giurisprudenza nel suo complesso tende ancora a connotare il tema dell’assegno di separazione e di divorzio in chiave di indisponibilità derivante dalla natura assistenziale dell’assegno, traendone anche la conseguenza della irrinunciabilità. (Cass. civ. Sez. I, 10 marzo 2006, n. 5302; Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2079; Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2000, n. 8109; Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2076). In questi casi si afferma in sostanza il principio che gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, i reciproci rapporti economici in relazione al futuro ed eventuale divorzio con riferimento all’assegno divorzile sono nulli per illiceità della causa “avuto riguardo alla natura assistenziale di detto assegno, previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il diritto a richiederlo”.
La connotazione del diritto all’assegno come diritto indisponibile serve alla giurisprudenza per giustificare la non liceità dei patti transattivi preventivi di divorzio.
c) La tesi della giurisprudenza sulla disponibilità
La tesi invece della piena e valida negozialità tra coniugi sui diritti patrimonialità coniugali stata sostenuta da Cass. civ. Sez. I, 20 novembre 2003, n. 17607 e da Cass. civ. Sez. I, 12 settembre 2014, n. 19319, che l’hanno affermata nell’ambito di due decisioni in cui si è sostenuta l’inammissibilità dell’impugnazione della separazione consensuale per simulazione. Nelle premesse si afferma che la questione “investe i delicati problemi relativi alla natura giuridica dell’accordo che sorregge la separazione consensuale, al rapporto tra siffatto accordo ed il decreto di omologazione, alla natura e funzione dell’intervento giurisdizionale. Tali problemi – precisano – hanno lungamente impegnato la dottrina e la giurisprudenza di merito, anche per le implicazioni in ordine alla possibilità di revoca del consenso alla separazione prima del provvedimento di omologazione, ed hanno trovato negli anni soluzioni diverse, ritenendosi da alcuni, orientati per una impostazione pubblicistica dell’istituto, che il consenso costituisca mero presupposto del provvedimento giudiziale, cui va attribuito il ruolo di unico fatto costitutivo della separazione, configurandosi da altri la separazione consensuale come fattispecie a formazione progressiva, nell’ambito della quale consenso dei coniugi ed omologazione del tribunale costituiscono elementi parimenti necessari e concorrenti per il conseguimento dello stato di coniuge separato, sostenendosi ancora da altri, nell’ambito di una prospettiva privatistica della fattispecie, ispirata ad una accentuata valorizzazione dell’autonomia dei coniugi, desunta dall’intero sistema delle relazioni matrimoniali tracciato nella legge di riforma del diritto di famiglia, che la causa della separazione sta nella volontà dei coniugi, mentre l’omologazione agisce come mera condizione legale di efficacia dell’accordo. Tale ultima posizione – si legge – appare condivisa dalla più recente giurisprudenza di legittimità, orientata nel senso che la separazione trova la sua unica fonte nel consenso manifestato dai coniugi dinanzi al presidente del tribunale e che la successiva omologazione è unicamente diretta ad attribuire efficacia dall’esterno all’accordo di separazione, assumendo la funzione di condizione sospensiva della produzione degli effetti delle pattuizioni stipulate tra i coniugi, già integranti un negozio giuridico perfetto ed autonomo. A fondamento di detto orientamento – che deve essere in questa sede riaffermato – si è richiamato il chiaro tenore letterale del primo comma dell’art. 158 c.c. e del quarto comma dell’art. 711 c.p.c. In tale prospettiva questa Corte ha in più occasioni qualificato l’accordo di separazione come atto essenzialmente negoziale, espressione della capacità dei coniugi di autodeterminarsi responsabilmente, tanto da definirlo, riprendendo una efficace espressione della dottrina, come uno dei momenti di più significativa emersione della negozialità nel diritto di famiglia (così Cass. 1994 n. 657, 1993 n. 2270; v. altresì, sulla definizione della separazione consensuale come negozio di diritto familiare, Cass. 1997 n. 4306; 1991 n. 2788; nonché la più remota Cass. 1978 n. 4277, che ha ricondotto l’accordo alla categoria dei negozi o convenzioni di diritto familiare. Una linea di tendenza nel senso del riconoscimento del pieno dispiegarsi della negozialità dei coniugi e dell’espansione della sfera di operatività dell’autonomia privata anche in relazione ai negozi di diritto familiare è peraltro chiaramente ravvisabile nella giurisprudenza di questa sezione orientata a riconoscere, entro determinati e penetranti limiti ed in termini differenziati, la validità degli accordi non trasfusi nell’accordo omologato e di quelli successivi all’omologazione. Negli accordi si dispiega pienamente l’autonomia dei coniugi e la loro valutazione della gravità della crisi coniugale, con esclusione di ogni potere di indagine del giudice sui motivi della decisione di separarsi e di valutazione circa la validità di tali motivi, in piena coerenza con la centralità del principio del consenso nel modello di famiglia delineato dalla legge di riforma ed in ragione del tasso di negozialità dalla stessa legge riconosciuto in relazione ai diversi momenti ed aspetti della dinamica familiare.
Gli accordi tra coniugi quindi sono pienamente validi anche prima dell’omologazione che gli attribuisce efficacia.
Ora, poiché un accordo non sarebbe possibile in materia di diritti indisponibili (si veda per esempio l’art. 1966, secondo comma, c.c. sulla nullità della transazione avente ad oggetto diritti indisponibili) o se contrario a norme imperative (art. 1418 c.c.), ne risulta che la Corte di cassazione in queste decisioni e in quelle in esse richiamate ritiene del tutto valido un accordo anche a prescindere dall’omologazione. La negozialità esclude, insomma, l’indisponibilità.
d) Disponibilità e negozialità
La sostanziale disponibilità dei diritti patrimoniali post-coniugali è confermata quindi dalla loro possibile negozialità.
Per questo la giurisprudenza ritiene che le modificazioni pattuite dai coniugi successivamente all’omologazione, trovando fondamento nell’art. 1322 c.c. possono ritenersi valide ed efficaci anche a prescindere dallo speciale procedimento disciplinato dall’art. 710 c.p.c. sia pure a condizione che non violino diritti fondamentali delle persone (Cass. sez. I, 20 ottobre 2005, n. 20290) e ugualmente anche i patti a latere della separazione o antecedenti non omologati sempre a condizione che non siano lesivi dei diritti primari connessi al rapporto coniugale (Cass. sez. I, 11 giugno 1998, n. 5829; Cass. sez. I, 22 aprile 1982, n. 2481).
L’esclusione della validità degli accordi predivorzili (sia pure con qualche significativa apertura più recente: Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2012, n. 23713 Cass. civ. Sez. III, 21 agosto 2013, n. 19304) è stata predicata più volte in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. I, 10 marzo 2006, n. 5302; Cass. sez. I, 9 ottobre 2003, n. 15064; Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2079; Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 2000, n. 15349; Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2000, n. 8109; Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 1997, n. 5244; Cass. civ. Sez. I, 06/12/1991, n. 13128; Cass. civ. Sez. I, 20 settembre 1991, n. 9840) collegata, però, non solo alla ritenuta natura assistenziale dell’assegno ma anche alla possibile violazione del diritto di difesa che ne deriverebbe per il soggetto che con la sottoscrizione dell’accorso rinuncia di fatto a difendersi in modo diverso nella futura causa di divorzio. In altra parte3 si è affrontato il tema dei limiti di validità dei patti prematrimoniali e specificamente della rinuncia all’assegno divorzile (che trova confine insormontabile nel diritto agli alimenti ove sopraggiunga uno stato di bisogno) negli ordinamenti dove tali patti sono disciplinati ed anche nelle proposte di legge in materia presentate in Parlamento.
3 Cfr la voce ACCORDI PREMATRIMONIALI
e) La riforma del 2014 sugli accordi possibili al di fuori del tribunale
La tesi tradizionale della natura indisponibile dei diritti (personali e patrimoniali) collegati allo status coniugale è stata fortemente incrinata, come si è detto, dalla normativa sulla negoziazione assistita (articoli 6 e 12, D. L. 12 settembre 2014, n. 132, nel testo modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162). Secondo l’art. 6 della nuova normativa la convenzione di negoziazione assistita dagli avvocati può essere conclusa tra i coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di separazione o di divorzio (nella sola ipotesi di divorzio richiesto dopo la separazione) ovvero per accordarsi su una modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. Il decreto legge 132/2014 prevedeva la limitazione della negoziazione assistita alle sole separazioni o divorzi tra coniugi senza figli. La legge di conversione ha esteso la negoziazione assistita anche alle ipotesi di separazione e divorzio (e rispettivi procedimenti di modifica) con figli minori o non autosufficienti economicamente e questa estensione ha costituito certamente la componente più eversiva rispetto ai principi tradizionali. La legge prevede il passaggio (non in tribunale ma) nell’ufficio del Pubblico Ministero chiamato ad autorizzare l’accordo di separazione nel caso in cui vi siano figli a carico (se l’accordo viene ritenuto non in contrasto con i diritti dei figli) e a rilasciare un nulla osta nel caso in cui non ve ne siano.
Con questa riforma l’autonomia privata trova nel diritto di famiglia una valorizzazione piena che mette il giurista di fronte al problema di una ridefinizione complessiva dei limiti e dei confini tradizionali dell’indisponibilità dei diritti nell’ambito del diritto di famiglia.
Decisamente eversiva dei principi generali in materia di indisponibilità dello status coniugale è la normativa prevista nell’art. 12 del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132, nel testo modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162. Con tale norma si è introdotta la possibilità per i coniugi di chiedere congiuntamente la separazione, il divorzio (limitatamente al divorzio che consegue alla separazione) ovvero la modifica di condizioni di separazione e di divorzio direttamente rivolgendosi, con l’assistenza facoltativa di un avvocato, agli uffici di stato civile del Comune di residenza di uno di loro o di quello in cui è stato iscritto o trascritto il matrimonio. L’unica condizione è che non vi siano figli minori o maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti. L’ufficiale di stato civile riceve da ciascuna delle parti personalmente la dichiarazione che esse vogliono separarsi ovvero far cessare gli effetti civili del matrimonio o ottenerne lo scioglimento secondo condizioni tra di esse concordate ovvero che intendono modificare le condizioni di separazione o di divorzio. L’atto contenente l’accordo – che vale come se fosse una decisione del tribunale – è compilato e sottoscritto immediatamente dopo il ricevimento delle dichiarazioni. Nell’accordo può anche essere indicata la misura di un assegno di separazione o di divorzio.
La portata eversiva dei principi in tema di indisponibilità dei diritti coniugali, specificamente quelli sullo status coniugale, è molto evidente. La possibilità che viene lasciata ai coniugi di procedere alla separazione o al divorzio senza l’intervento del tribunale costituisce decisamente un elemento di novità molto significativo che rimette in discussione i confini tradizionali dell’autonomia privata nel diritto di famiglia.
IV Il principio in base al quale i diritti diventano prescrittibili dopo la loro regolamentazione legale
Una volta intervenuto il provvedimento che definisce il contenzioso tra le parti o che attribuisce piena validità agli accordi raggiunti (decisione giudiziaria, decreto di omologa, sentenza su accordo delle parti anche relativo all’una tantum, registrazione all’ufficio di stato civile dell’accordo di separazione o divorzio tra i coniugi) i diritti patrimoniali si trasformano da diritti (disponibili) imprescrittibili in diritti (disponibili) prescrittibili.
Il diritto imprescrittibile al mantenimento, una volta che la decisione del giudice o l’accordo legale hanno dichiarato la spettanza dell’assegno e lo hanno quantificato nel suo importo periodico, si trasforma in un diritto prescrittibile. Nello specifico prescrittibile nel termine di cinque anni previsto per “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi” (art. 2948 c.c.).
Il fenomeno della trasformazione in diritto prescrittibile si verifica anche per i diritti indisponibili (per esempio quelli relativi al mantenimento dei figli) dopo la regolamentazione che ne ha fatto il giudice o che gli interessati hanno concordato.
V La prescrizione in materia di mantenimento coniugale e per i figli
a) Il mantenimento coniugale
Il diritto imprescrittibile all’assegno di separazione o di divorzio si trasforma con la decisione legale in diritto quantificato che una parte può pretendere anche coattivamente dall’altra. La prescrizione è certamente quinquennale se il mantenimento è costituito da un assegno periodico (art. 2048 c.c.: “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”) mentre sarà decennale se si tratta di una corresponsione in unica soluzione (art. 2946 c.c.: “salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni”) non essendo rinvenibili nella disciplina della prescrizione indicazioni diverse.

Nel caso di assegno periodico la decorrenza della prescrizione, cioè il dies a quo dal quale decorre il termine prescrizionale, è quello delle singole scadenze periodiche “in relazione alle quali sorge, di volta in volta, l’interesse del creditore a ciascun adempimento” (Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 1998, n. 12333; Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975); ove invece si trattasse di un assegno una tantum il termine prescrizionale non potrebbe che decorrere dalla decisione (imposta o concordata) che lo ha previsto. Per ogni altra pretesa tra coniugi vale il principio generale secondo cui “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere” (art. 2935 c.c.) e sempre che non si verifichi quanto dispone in materia risarcitoria da fatto illecito (dove la prescrizione è di cinque anni) l’ultimo capoverso dell’art. 2947 c.c. per l’ipotesi in cui il fatto illecito costituisca reato: in tal caso troverà applicazione l’eventuale più lungo periodo di prescrizione stabilito per il reato.
b) Il mantenimento dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti
In caso di procedimenti relativi ai figli minori o maggiorenni non autosufficienti il giudice è titolare di un potere-dovere improntato alla tutela dell’interesse superiore del figlio e perciò il diritto al mantenimento del figlio (art. 315-bis c.c.) ha certamente, come si è detto, natura di diritto indisponibile (Cass. civ. Sez. I, 30 dicembre 2011, n. 30196; Cass. civ. Sez. I, 25 ottobre 2000, n. 14022; Cass. sez. I, 26 febbraio 1988, n. 2043). Pertanto anche in questo caso il diritto al mantenimento non è soggetto a prescrizione.
Anche per quanto concerne il mantenimento dei figli minori è opportuno ancora una volta ribadire che il diritto al mantenimento fa parte del regime primario familiare (art. 143,147 e 148 c.c.) e che pertanto configura un sistema di norme, principi e diritti indisponibili e imprescrittibili. Tuttavia, come si è sopra detto, dopo che il diritto al mantenimento è stato regolamentato in sede legale (sentenza, omologa, registrazione all’ufficio di stato civile dopo la negoziazione assistita) il diritto così determinato diventa prescrittibile. Pertanto anche in materia di assegno periodico per i figli minori valgono le stesse regole sopra viste. Si tratta di una corresponsione periodica per la quale trova applicazione il termine prescrizionale di cinque anni dalle singole scadenze (art. 2948 c.c.) entro il quale il genitore titolare del potere di pretendere l’assegno deve richiederlo (Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 1998, n. 12333; Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975).
Come si è fatto notare in dottrina, con riferimento al mantenimento dei figli – ma con considerazioni pienamente valide anche per il mantenimento coniugale – l’art. 2948 c.c. è inteso soprattutto a liberare in tempo relativamente breve il debitore tenuto a prestazioni periodiche per effetto di una causa debendi unica e continuativa. Il titolo che fonda i versamenti periodici è la sentenza del giudice. La prescrizione quinquennale si riferisce alle obbligazioni (periodiche) cioè a quelle caratterizzate dal fatto che la prestazione è suscettibile di adempimento solo col decorso del tempo, in modo che solo con il protrarsi dell’adempimento nel tempo può essere soddisfatto l’interesse del creditore attraverso più prestazioni, aventi un titolo unico, ma ripetute nel tempo ed autonome le une dalle altre. Pertanto il titolo è unico ma l’adempimento è periodico. Perciò mentre il diritto ad ottenere il titolo è imprescrittibile, il diritto successivo alla pretesa del mantenimento periodico si prescrive in cinque anni dalle singole scadenze. In questa linea sono, come già detto, Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975, Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2004, n. 336 e Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 1998, n. 12333 dove si legge che in tema di separazione e di divorzio, il diritto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento per il coniuge, così come il diritto agli assegni di mantenimento per i figli, in quanto aventi a oggetto prestazioni autonome, distinte e periodiche, non si prescrivono a decorrere da un unico termine rappresentato dalla data della pronuncia della sentenza di separazione o di divorzio, ma dalle singole scadenze delle prestazioni dovute, in relazione alle quali sorge di volta in volta il diritto all’adempimento.
Nella giurisprudenza di merito si sono adeguati all’orientamento consolidato sulla prescrizione quinquennale Trib. Milano Sez. III, 9 giugno 2012, Trib. Monza Sez. III, 16 settembre 2010, Trib. Trani, 22 aprile 2009 nonché Trib. Napoli, 28 gennaio 2000 e Trib. Roma Sez. I, 5 luglio 2011 che affrontano, giungendo a conclusioni contrastanti, anche il tema della conversione ex art. 2953 c.c. del termine prescrizionale quinquennale in quello decennale allorché sopraggiunga una sentenza di condanna passata in giudicato4: la decisione del tribunale di Napoli applica il principio della conversione anche alle sentenze di separazione mentre la decisione del tribunale di Roma lo esclude. In effetti sembra del tutto logico escludere la conversione nel caso delle sentenze confermative di obbligazioni di mantenimento dal momento che ne deriverebbe sempre inevitabilmente la disapplicazione pacifica del termine quinquennale di prescrizione ma soprattutto perché la sentenza di condanna non modifica la natura periodica dell’obbligazione.
Proprio a proposito della conversione del termine quinquennale in quello più lungo che segue alle sentenze (penali) di condanna viene spesso citata una decisione la cui affrettata lettura può portare a considerazioni errate relativamente alla prescrizione quinquennale dell’assegno di mantenimento. Si tratta di Cass. civ. Sez. III, 12 settembre 2005, n. 18097 che ha escluso che possa invocarsi la conversione prevista dall’art. 2953 c.c. per effetto del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna escludendo, quindi, la conseguente applicabilità del termine di ordinaria prescrizione decennale. Si legge nella decisione che “la sentenza penale passata in giudicato che, ai sensi dell’art. 570 cod. pen. condanni l’obbligato in relazione all’omessa corresponsione dell’assegno di mantenimento con riferimento ai mesi per i quali fu sporta
4 Art. 2953 c.c “I diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni”.

denunzia penale comporta che sono soggetti a prescrizione decennale ai sensi dell’art. 2953 cod. civ. soltanto i crediti oggetto del giudicato penale e non anche quelli successivi a tale data. Infatti tali prestazioni, avendo natura periodica, sono assimilabili alla nozione di “pensioni alimentari” e soggette alla prescrizione quinquennale decorrente dalle singole scadenze, in relazione alle quali sorge l’interesse all’adempimento”. Nella vicenda che fa da sfondo alla sentenza un coniuge era stato condannato penalmente per non aver corrisposto gli assegni stabiliti in sede civile. Il diritto al mantenimento scaturente dalla sentenza civile si sarebbe prescritto quindi secondo l’articolo 2948 c.c. in cinque anni dalle singole scadenze periodiche. Sennonché la sentenza di condanna penale rendeva applicabile il termine più lungo previsto nell’art. 2953 c.c. Pertanto correttamente i giudici hanno applicato il termine lungo prescrizionale per i diritti sui quali era intervenuto il giudicato penale ma non per quelli successivi per i quali riprendeva a valere la prescrizione quinquennale dalle scadenze periodiche. La sentenza appare del tutto corretta ma nella massima ufficiale che la sintetizza si parla di “prescrizione quinquennale del mantenimento” e per questo la sentenza viene utilizzata talvolta a sproposito per paralizzare la pretesa creditoria ultraquinquennale del diritto al mantenimento dei figli minori quando anche quando ancora manca un titolo che lo stabilisca, non considerando (o semplicemente ignorando) che la sentenza 18097/2005 fa riferimento ad una vicenda in cui il giudice aveva già stabilito con sentenza il diritto al mantenimento. L’azione con cui si chiede il mantenimento a favore di un figlio può iniziare fino a che non sia prescritto il relativo diritto (e fino all’autosufficienza del figlio il diritto è imprescrittibile) ma la prescrizione diventa quinquennale solo dopo la sentenza dal momento che il mantenimento stabilito in sentenza deve essere corrisposto a scadenze periodiche.
Corretta invece appare, sullo stesso punto, la decisione di Trib. Palermo Sez. I, 13 aprile 2011 nella quale si chiarisce che poiché la sentenza penale di condanna concerne esclusivamente i ratei dell’assegno di mantenimento non pagati, per i quali sia stata sporta denuncia penale, consegue che si sottraggono alla prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2953 c.c. rimanendo assoggettati alla prescrizione decennale solo i crediti per i quali sia stata sporta denuncia e non anche quelli maturati successivamente a tale data.
c) L’azione di regresso in caso di riconoscimento tardivo del figlio nato fuori dal matrimonio
Nl caso di riconoscimento tardivo di un figlio nato fuori dal matrimonio il genitore che intende promuovere iure proprio un’azione di regresso di mantenimento nei confronti del genitore inadempiente è soggetto alla prescrizione decennale ex art. 2946 c.c. anche se è discussa in giurisprudenza la decorrenza di tale prescrizione. Secondo la Corte di cassazione il diritto di regresso è collegato al giudicato (pur potendo la domanda di regresso essere azionata contestualmente a quella di riconoscimento giudiziale della genitorialità: Cass. civ. Sez. I, 30 luglio 2010, n. 17914) e pertanto la decorrenza della prescrizione decennale non può che essere quella del giudicato sullo status (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986; Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596, Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328; Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124). In altre parole pur avendo l’accertamento della filiazione natura dichiarativa, la pronuncia sullo status manterrebbe la sua efficacia costituiva dei diritti patrimoniali conseguenziali. In consapevole contrasto con questo orientamento si è posta una pronuncia del tribunale di Roma (Trib. Roma, Sez. I, 1 aprile 2014) la quale, prendendo spunto dall’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’obbligazione di mantenimento decorre dalla nascita indipendentemente dall’accertamento della genitorialità (Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652; Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205; Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 1990, n. 5633) ha ritenuto che la prescrizione dell’azione di regresso, che spetta al genitore che ha sostenuto in via esclusiva sin dalla nascita gli oneri del mantenimento del figlio, decorre dal momento in cui ogni singola spesa è stata effettuata e non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza sullo status. Questo perché, avendo il genitore, la facoltà di azionare il diritto al regresso anche prima che sia promosso l’accertamento della genitorialità, non sarebbe giusto addossare al genitore che tardivamente viene ritenuto tale il peso economico di pretese creditorie che potrebbero anche essere molto lontana nel tempo. Altre decisioni di merito (lo stesso Trib. Roma Sez. I, 17 settembre 2013 e Trib. Benevento, 22 gennaio 2008 hanno, però, ritenuto di doversi adeguare all’orientamento prevalente della Cassazione circa la decorrenza del termine prescrizionale dal giudicato sullo status.
VI La sospensione della prescrizione tra coniugi si applica anche ai coniugi separati?
L’art. 2941 c.c. prevede che la prescrizione rimane sospesa in relazione a particolari rapporti tra le parti, per esempio tra i coniugi, tra chi esercita la responsabilità genitoriale e le persone minori che vi sono sottoposte, tra il tutore e il minore ed altre ipotesi. Insomma tutte le volte in cui per la particolare relazione che sussiste tra le parti non si può pretendere che una di esse agisca nei confronti dell’altra. L’istituto della sospensione in questi casi serve a conservare in capo ad una parte il potere di agire finché dura la relazione in questione.
Il termine è certo per quanto riguarda la relazione di responsabilità genitoriale tra il genitore e il minore e quella di tutela tra il tutore e il minore ed è il raggiungimento della maggiore età del soggetto incapace.
In passato si riteneva che anche nel caso della sospensione tra coniugi il termine fosse certo e che coincidesse con il divorzio. Fino al giudicato di divorzio insomma due coniugi rimangono tali e pertanto fino al giudicato di divorzio la prescrizione tra coniugi rimane sospesa.
Questa era perlomeno l’opinione della Corte costituzionale e della giurisprudenza prevalente fino al 2014.
In particolare la Corte costituzionale era intervenuta sul tema della sospensione della prescrizione tra coniugi due volte. Una prima volta allorché proprio sul tema specifico che qui interessa ebbe a dichiarare che anche durante la separazione personale, la situazione di coniuge si differenzia da quella di ogni altro cittadino; pertanto, è infondata la questione di costituzionalità dell’art. 2941, n. 1, cod. civ., per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui dispone che rimane sospesa la prescrizione fra coniugi anche se legalmente separati, atteso che il detto articolo non attribuisce al coniuge separato un ingiustificato privilegio rispetto alla generalità degli altri cittadini (Corte cost., 19 febbraio 1976, n. 35) e una seconda volta allorché escluse l’incostituzionalità dell’art. 2941 n. 1 c.c., nella parte in cui non estende anche alla situazione di convivenza “more uxorio” la causa di sospensione della prescrizione dettata per i rapporti fra coniugi in costanza di matrimonio (Corte cost., 29 gennaio 98, n. 2).
A questa interpretazione aveva finora sempre aderito la giurisprudenza sia di legittimità (Cass. civ. Sez. III, 1 aprile 2014, n. 7533 e, in passato, Cass. civ., 23 agosto 1985, n. 4502 secondo cui l’art. 2941, n. 1 c. c., il quale prevede nei rapporti fra coniugi la sospensione della prescrizione, trova applicazione anche durante il regime di separazione personale, il quale non implica il venir meno del rapporto di coniuge, ma solo una attenuazione del vincolo) che la giurisprudenza di merito (Trib. Bologna Sez. I, 21 maggio 2004; Trib. Milano, 10 febbraio 1999). Di contrario avviso Trib. Bari Sez. II, 28 febbraio 2012 che ha affermato che la sospensione della prescrizione, disciplinata dall’art. 2941 c.c. si ritiene sussistente ed operante solo fino a quando lo stato del coniuge coincida con quello di convivente dovendo ritenersi oramai superata l’interpretazione che riteneva applicabile la sospensione anche dopo l’intervenuta separazione.
Quest’ultima è diventata ora anche l’opinione prevalente della giurisprudenza di legittimità che con due sentenze del 2014 (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981 e Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078) si è assunta la responsabilità di escludere la sospensione della prescrizione tra coniugi separati. In particolare si è affermato che l’originaria idea che “lo stato di separazione, pur rivelando una incrinatura dell’unità familiare, non ne implica la definitiva frattura”, rimanendo possibile la “ricostituzione (mediante la conciliazione) della coesione familiare” è oggi ampiamente superata, se si considera che la separazione non è più un momento di riflessione e ripensamento prima di riprendere la vita di coppia, e nemmeno solo l’anticamera del futuro divorzio, ma rappresenta il momento della “sostanziale esautorazione dei principali effetti del vincolo matrimoniale” (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981) e che, quindi, la sospensione della prescrizione tra coniugi di cui all’art. 2941 c.c., n. 1 non trova applicazione al credito dovuto per l’assegno di mantenimento previsto nel caso di separazione personale, dovendo prevalere sul criterio ermeneutico letterale un’interpretazione conforme alla ratio legis, da individuarsi alla luce dell’evoluzione della normativa e della coscienza sociale e, quindi, della valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto alla conservazione dell’unità familiare, con la conseguente tendenziale equiparazione del regime di prescrizione dei diritti post-matrimoniali e delle azioni esercitate tra coniugi separati. Nel regime di separazione, infatti, non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turbare l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state esperite le relative azioni giudiziarie, con la conseguente cessazione della convivenza, il venir meno della presunzione di paternità di cui all’art. 232 c.c. e la sospensione degli obblighi di fedeltà e collaborazione (Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078).
Pertanto allo stato attuale l’interpretazione prevalente in giurisprudenza prevede che la sospensione della prescrizione tra coniugi prevista nell’art. 2941, n. 1, c.c. non si applichi ai coniugi separati, anche se non viene chiarito nelle due sentenze sopra richiamate quale sia il termine finale del periodo di sospensione e cioè da dove cominci (o ricominci) a decorrere la prescrizione (se dalla domanda di separazione, dai provvedimenti provvisori e urgenti che autorizzano i coniugi a vivere sperati ovvero dal giudicato di separazione). Parrebbe plausibile ritenere che il termine sia costituito dal giudicato sulla separazione analogamente a quanto ritenuto dalla giurisprudenza in materia di interruzione della prescrizione (Cass. civ. Sez., I, 7 giugno 2013, n. 14427).
Naturalmente la sospensione della prescrizione non impedisce ad un coniuge di azionare la sua pretesa anche nel corso della vita matrimoniale allorché si verifichi l’evento sul quale fondare la pretesa restitutoria o creditoria.
VII La prescrizione nelle azioni di status
Nella versione riformata dalla legge 10 dicembre 2010, n. 219 e dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 dell’azione di disconoscimento della paternità e dell’azione di impugnazione per difetto di veridicità del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, risulta completamente modificato l’impianto dei termini di prescrizione delle azioni di status tendenti alla eliminazione di status difformi dalla verità biologica.
Il nuovo art. 244 c.c. prevede sempre che l’azione da parte della madre deve essere proposta nel termine di sei mesi dalla nascita del figlio (ovvero dal giorno in cui la madre è venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito al tempo del concepimento) mentre l’azione promossa dal marito di lei deve essere esercitata nel termine di un anno che decorre dal giorno della nascita quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio in caso contrario dal giorno del suo ritorno o dal giorno del ritorno nella residenza familiare; se il marito prova di aver ignorato la propria impotenza di generare ovvero l’adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza. La novità più significativa in materia di prescrizione dell’azione sta nel fatto che sia la madre che il marito di lei non possono in ogni caso proporre più l’azione oltre cinque anni dal giorno della nascita mentre per il figlio l’azione è diventata imprescrittibile. Prima della riforma del 2013 sulla filiazione il figlio era ammesso ad esercitare l’azione “entro un anno dal compimento dalla maggiore età o dal momento in cui viene successivamente a conoscenza dei fatti che rendono ammissibile il riconoscimento”).
L’ultimo comma dell’art. 244 c.c. prevede inoltre ora, dopo la riforma, che “l’azione può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto i quattordici anni [sedici prima della riforma del 2013] ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore, quando si tratta di minore di età inferiore”. Quindi oltre il quattordicesimo anno l’iniziativa non può che essere assunta dal figlio.
Poiché la legge prevede che il minore possa attivarsi per l’azione di disconoscimento (richiedendo addirittura egli stesso, se ultraquattordicenne, la nomina di un curatore) è evidente che in tal caso la rappresentanza processuale del minore non può essere lasciata alla madre o al marito di lei (cioè al padre legittimo del minore). Il conflitto di interessi è in re ipsa. Si tratta di un conflitto di interessi in verità più ampio a cui la legge con questo meccanismo pone riparo ed è il conflitto tra il diritto (imprescrittibile) attribuito al figlio e il diritto (prescrittibile) attribuito alla madre e al marito di lei. Se la madre e il marito di lei non promuovono l’azione o lasciano decorrere i termini di prescrizione, il figlio maggiorenne potrà in seguito sempre promuovere il disconoscimento mentre nel periodo della minore età la nomina di un curatore per il promovimento dell’azione può essere richiesta direttamente dal figlio ultraquattordicenne ovvero – sotto i quattordici anni – dal “Pubblico Ministero” o “dall’altro genitore”.
L’altra azione che nel contesto della filiazione (ma fuori dal matrimonio) è destinata ad eliminare lo status non veritiero è l“impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità”. Si tratta della principale – non l’unica – azione di caducazione dello status di figlio nato fuori dal matrimonio. Il primo comma dell’art. 263 c.c. prevede che “il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall’autore del riconoscimento, da colui che è stato riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse”. Chi asserisce di essere il padre biologico, in quanto soggetto che vi ha certamente interesse, è, quindi, tra i soggetti che può promuovere l’azione e partecipare poi a pieno titolo al processo.
Gli altri commi dell’art. 263 c.c. (introdotti dall’art. 18 del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154) prevedono che l’azione di impugnazione da parte dell’autore del riconoscimento deve essere proposta nel termine di un anno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita ovvero dal giorno in cui egli ne ha avuto conoscenza. L’azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento. L’azione di impugnazione da parte degli altri legittimati deve essere proposta nel termine di cinque anni che decorrono dal giorno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. Riguardo al figlio l’azione è, invece, imprescrittibile.
La scadenza del termine massimo di cinque anni previsto per l’esperibilità dell’azione di disconoscimento e dell’impugnazione del riconoscimento da parte dei legittimati diversi dal figlio renderà inattaccabile lo status a meno che il figlio non ritenga di dover esercitare il diritto imprescrittibile che la legge gli attribuisce. È anche questo un modo di risolvere un conflitto di interessi dando la prevalenza all’interesse del figlio rispetto a quello degli altri legittimati all’azione.
Sulla imprescrittibilità per il figlio dell’azione di accertamento della paternità la Corte di Cassazione ha escluso di dover sollevare questioni di legittimità costituzionale (Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960).
È anche opportuno fare un accenno alla regolamentazione della prescrizione contenuta nelle norme transitorie della riforma sulla filiazione (titolo V del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) dove si prevede all’art. 104 che “fermi gli effetti del giudicato formatosi prima dell’entrata in vigore della legge 10 dicembre 2012, n. 219, sono legittimati a proporre azioni di petizione di eredità, ai sensi dell’articolo 533 del codice civile, coloro che, in applicazione dell’articolo 74 dello stesso codice, come modificato dalla medesima legge, hanno titolo a chiedere il riconoscimento della qualità di erede” (primo comma), che “fermi gli effetti del giudicato formatosi prima dell’entrata in vigore della legge 10 dicembre 2012, n. 219, possono essere fatti valere i diritti successori che discendono dall’articolo 74 del codice civile, come modificato dalla medesima legge” (secondo comma) e che “i diritti successori che discendono dall’articolo 74 del codice civile, come modificato dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219, sulle eredità aperte anteriormente al termine della sua entrata in vigore si prescrivono a far data da suddetto termine”.
Pertanto tutti coloro che per effetto della nuova nozione di parentela (art. 74 c.c.) acquistano la qualifica di parenti e che come tali hanno acquistato con la riforma titolo alla eventuale successione, possono azionare le loro pretese nel termine prescrizionale di dieci anni decorrente dall’entrata in vigore della legge 10 dicembre 2012, n. 219 e cioè dal 1° gennaio 2013, sulle successioni apertesi prima di tale data concorrendo con coloro che prima di tale data avevano già acquistato un titolo ereditario, e quindi con effetti potenzialmente molto problematici, anche se la legge fa salvo l’eventuale giudicato già formatosi a tale data.

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Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell›art. 270 c.c. nella parte in cui prevede l›imprescrittibilità dell›azione per il riconoscimento di paternità naturale proposta dal figlio, con l›effetto di sacrificare il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo, atteso che la mancata previsione di un termine, soprattutto alla luce della previgente norma che lo prevedeva, non significa che un bilanciamento con la contrapposta tutela del figlio sia mancato, ma solo che esso è stato operato rendendo recessiva l›aspettativa del padre rispetto alle esigenze di vita e di riconoscimento dell›identità personale del figlio.
Cass. civ. Sez. I, 31 luglio 2015, n. 16222 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto all’identità personale e sociale costituisce un diritto della persona costituzionalmente garantito, sicché, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 2043 e 2059 c.c., la sua lesione, per ef¬fetto di un riconoscimento della paternità consapevolmente falso e, come tale, in seguito disconosciuto, implica il risarcimento del danno non patrimoniale così arrecato, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo costi¬tuisca o meno reato. Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni conseguenti ad un riconosci¬mento di paternità consapevolmente falso e, come tale, in seguito disconosciuto, decorre dal giorno dell’azione di impugnazione dell’atto per difetto di veridicità.
Cass. civ. Sez. I, 12 settembre 2014, n. 19319 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Pur non potendosi dubitare della natura negoziale (quand’anche non contrattuale) dell’accordo che dà sostanza e fondamento alla separazione consensuale tra i coniugi, e pur non essendo ravvisabile, nell’atto di omologa¬zione, una funzione sostitutiva o integrativa della volontà delle parti o di governo dell’autonomia dei coniugi, l’accordo di separazione dei coniugi omologato non è impugnabile per simulazione, poiché l’iniziativa proces¬suale diretta ad acquisire l’omologazione, e quindi la condizione formale di coniugi separati, è volta ad assicurare efficacia alla separazione, così da superare il precedente accordo simulatorio, rispetto al quale si pone in antitesi dato che è logicamente insostenibile che i coniugi possano “disvolere” con detto accordo la condizione di separati ed al tempo stesso “volere” l’emissione di un provvedimento giudiziale destinato ad attribuire determinati effetti giuridici a tale condizione.
Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sospensione della prescrizione non opera tra coniugi separati legalmente.
L’originaria idea che “lo stato di separazione… pur rivelando una incrinatura dell’unità familiare, non ne implica la definitiva frattura”, rimanendo possibile la “ricostituzione (mediante la conciliazione) della coesione familiare” (così Corte cost. n. 35/1976 cit.), è oggi ampiamente superata, se si considera che la separazione non è più un momento di riflessione e ripensamento prima di riprendere la vita di coppia, e nemmeno solo l’anticamera del futuro divorzio, ma rappresenta il momento della “sostanziale esautorazione dei principali effetti del vincolo matrimoniale” (così Cass. n. 7981/2014). I
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di mantenimento del figlio naturale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente azionabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, che conseguentemente costituisce il “dies a quo” della decor¬renza della ordinaria prescrizione decennale.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981 (Foro It., 2014, 6, 1, 1768)
La sospensione della prescrizione tra coniugi di cui all’art. 2941, n. 1, cod. civ. non trova applicazione al credito dovuto per l’assegno di mantenimento previsto nel caso di separazione personale, dovendo prevalere sul criterio ermeneutico letterale un’interpretazione conforme alla “ratio legis”, da individuarsi tenuto conto dell’evoluzione della normativa e della coscienza sociale e, quindi, della valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto alla conservazione dell’unità familiare e della tendenziale equiparazione del regime di prescrizione dei diritti post-matrimoniali e delle azioni esercitate tra coniugi separati. Nel regime di separazione, infatti, non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turba¬re l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state esperite le relative azioni giudiziarie, con la conseguente cessazione della convivenza, il venir meno della presunzione di paternità di cui all’art. 232 cod. civ. e la sospensione degli obblighi di fedeltà e collaborazione.
Cass. civ. Sez. III, 1 aprile 2014, n. 7533 (Foro It., 2014, 7-8, 1, 2124)
La regola della sospensione del decorso della prescrizione dei diritti tra i coniugi, prevista dall’art. 2941, primo comma, n. 1, cod. civ., deve ritenersi operante sia nel caso che essi abbiano comunanza di vita, sia ove si trovino in stato di separazione personale, implicando questa solo un’attenuazione del vincolo.
Trib. Roma, sez. I civile, 1 aprile 2014 (Giur. It., 1988, I,1, 1112)
L’esistenza degli obblighi previsti dagli artt. 148, 315-bis e 316-bis c.c. si riconnette al solo fatto della procre¬azione, a prescindere dal riconoscimento formale dello status. L’azione di regresso del genitore che abbia prov¬veduto da solo al mantenimento del figlio e quella di concorso negli oneri di mantenimento può essere azionata nei confronti dell’altro genitore a prescindere da una pronuncia sullo status passata in giudicato. La prescrizione dell’azione decorre da ogni singola spesa effettuata e il termine è quello decennale non vertendosi in materia di alimenti ma di regresso in materia di obbligazioni solidali.
Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo dei genitori di educare e mantenere i figli (artt. 147 e 148 cod. civ.) è eziologicamente connesso esclusivamente alla procreazione, prescindendo dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così de¬terminandosi un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore. Il presupposto di tale responsabilità e del conseguente diritto del figlio al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali è costituito dalla consa¬pevolezza del concepimento, che non si identifica con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, ma si compone di una serie di indizi univoci, quali, nella specie, la indiscussa consumazione di rapporti sessuali non protetti all’epoca del concepimento.
Trib. Roma Sez. I, 17 settembre 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi in cui il figlio, alla nascita, sia riconosciuto da uno soltanto dei genitori, da un lato il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non può sottrarsi all’obbligazione nei confronti del figlio per la quota parte posta a suo carico, essendo tenuto a provvedervi, sin dal momento della nascita e per altro verso il genitore che abbia provveduto in via esclusiva al mantenimento del figlio può agire nei confronti dell’altro per ottenere il rimborso pro quota, delle spese sostenute dalla nascita. Tale azione non è però, utilmente esercitabile se non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la conseguenza che detto momento segna altresì il dies a quo della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. III, 21 agosto 2013, n. 19304 (Nuova Giur. Civ., 2014, 94, nota di TAGLIASACCHI)
È valida ed efficace la clausola, apposta ad un contratto di mutuo concluso tra coniugi, mediante la quale la restituzione della somma ricevuta viene sospensivamente condizionata alla separazione personale.
È valido il mutuo tra coniugi nel quale l’obbligo di restituzione sia sottoposto alla condizione sospensiva dell’evento, futuro ed incerto, della separazione personale, non essendovi alcuna norma imperativa che renda tale condizione illecita agli effetti dell’art. 1354, primo comma, cod. civ.
Cass. civ. Sez. I, 7 giugno 2013, n. 14427 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La proposizione di una domanda giudiziale ha effetto interruttivo della prescrizione, protraentesi fino al pas¬saggio in giudicato della sentenza che definisca il giudizio decidendo il merito o eventuali questioni processuali di carattere pregiudiziale, con riguardo a tutti i diritti da essa coinvolti o che si ricolleghino, con stretto nesso di causalità, al rapporto cui essa inerisce, sicché una siffatta efficacia, relativamente al termine decennale di prescrizione afferente il conguaglio della indennità di espropriazione e di occupazione giudizialmente invocato, può essere attribuita alla precedente domanda di opposizione alla stima solo in presenza di una correlazione so¬stanziale o processuale tra le decisioni che abbiano definito i rispettivi giudizi. (Nella specie la S.C., confermando la sentenza impugnata, ha escluso una tale correlazione avendo il giudizio di opposizione alla stima riguardato, originariamente, indennità relative a porzioni di terreno diverse da quella per la quale era stato successivamente richiesto il suddetto conguaglio, ed essendo, altresì, rimasto incensurato il diniego di valenza interruttiva della prescrizione attribuito alla statuizione di inammissibilità concernente la domanda tardivamente ivi formulata anche con riguardo a quest’ultima).
Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2013, n. 11985 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di applicazione degli artt. 2943, primo comma, e 2945, secondo comma, cod. civ., la nullità della noti¬ficazione dell’atto introduttivo del giudizio impedisce l’interruzione della prescrizione e la conseguente sospen¬sione del suo corso fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, a nulla rilevando, in senso contrario, la mera possibilità che la nullità sia successivamente sanata, e fermo restando che, qualora la sanatoria processuale abbia poi effettivamente luogo, i relativi effetti sul corso della prescrizione decorrono dal momento della sanatoria medesima, senza efficacia retroattiva.
Trib. Milano Sez. III, 9 giugno 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I ratei mensili degli assegni di mantenimento per i figli, così come gli assegni di separazione e di divorzio per il coniuge, rappresentando prestazioni che debbono essere pagate periodicamente in termini inferiori all’anno, ai sensi dell’art. 2948, n. 4, c.c. si prescrivono in cinque anni. In tal senso, è irrilevante, al fine dell’operatività della citata norma, anziché di quella dell’art. 2953 c.c., il fatto che essi siano dovuti in forza di sentenza di separazione o divorzio passata in giudicato.
Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2012, n. 23713 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito di una stretta solidarietà tra i coniugi, può ipotizzarsi che i rapporti di dare e avere patrimoniale subiscano, sul loro accordo, una sorta di quiescenza, una sospensione che cesserà in caso di “fallimento” del ma¬trimonio, e con il venir meno, provvisoriamente con la separazione, e definitivamente con il divorzio, dei doveri e diritti coniugali. Ciò detto, ove venga stipulato un contratto “atipico”, quale espressione dell’autonomia negoziale dei coniugi, con il quale questi abbiano stabilito che, in caso di fallimento del matrimonio l’uno dovrà cedere all’altro un suo immobile, quale indennizzo delle spese sostenute da quest’ultimo per la ristrutturazione di altro immobile da adibirsi a casa coniugale, esso deve sicuramente considerarsi volto a realizzare interessi meritevoli di tutela, ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c. e la condizione del “fallimento” di certo lecita.
Trib. Bari Sez. II, 28 febbraio 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla riscossione dell’assegno alimentare soggiace al termine di prescrizione breve quinquennale, ver¬tendosi in un’ipotesi di prestazioni periodiche in termini inferiori all’anno, disciplinate dall’art. 2948, n. 4 c.c. La sospensione della prescrizione, disciplinata dall’art. 2941 c.c., invece, si ritiene sussistente ed operante solo fino a quando lo stato del coniuge coincida con quello di convivente dovendo ritenersi oramai superata l’interpretazio¬ne che riteneva applicabile la sospensione anche dopo l’intervenuta separazione non costituendo la separazione un definitivo momento di rottura dell’unità familiare che poteva sempre ricostituirsi.
Cass. civ. Sez. I, 30 dicembre 2011, n. 30196 (Famiglia e Diritto, 2013, 2, 174, nota di SERRA)
Il provvedimento relativo al mantenimento del figlio minore delle parti nel giudizio di separazione può essere assunto d’ufficio e, pertanto, la domanda del genitore, per la prima volta, nel giudizio di secondo grado, non contrasta con il disposto dell’art. 345 c.p.c., trattandosi di allegazione di omessa pronuncia.
Trib. Roma Sez. I, 5 luglio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla percezione dei ratei scaduti dell’assegno di mantenimento tanto del coniuge quanto dei figli, si prescrive dalle singole scadenze delle prestazioni dovute nel termine quinquennale disposto dall’ art. 2948 c.c, in quanto assimilabile – come tutte le prestazioni volte al sostentamento di terzi da eseguirsi periodicamente – alle pensioni alimentari, senza che possa invocarsi, trattandosi di credito scaturente da decreto di omologa delle condizioni della separazione consensuale ovvero da sentenza esecutiva, la conversione prevista dall’art. 2953 c.c. per effetto del passaggio in giudicato della sentenza di condanna e la conseguente applicabilità del termine di ordinaria prescrizione decennale.
Trib. Palermo Sez. I, 13 aprile 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In merito all’opposizione a decreto ingiuntivo, proposta in relazione all’omessa corresponsione dell’assegno di mantenimento in favore dei figli minori, è fondata l’eccezione di prescrizione quinquennale, sollevata dall’op¬ponente, limitatamente ai ratei maturati successivamente alla sentenza penale di condanna emessa in seguito all’accertamento del reato previsto e punito dall’art. 12 sexies della legge n. 898 del 1970 La sentenza penale, concernendo esclusivamente i ratei dell’assegno di mantenimento non pagati, per i quali sia stata sporta denun¬cia penale, ne consegue che si sottraggono alla prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2953 c.c. rimanendo assoggettati alla prescrizione decennale. Difatti, la sentenza penale che condanni l’obbligato ai sensi dell’art. 570 c.p. comporta che sono soggetti alla prescrizione decennale solo i crediti per i quali sia stata sporta denuncia e non anche quelli maturati successivamente a tale data.
Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2010, n. 20273 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema d’impresa familiare i crediti del lavoratore familiare al mantenimento secondo la condizione patrimo¬niale della famiglia e alla partecipazione agli utili dell’impresa familiare si prescrivono in dieci anni, giacché, in relazione ad essi, deve trovare applicazione, in assenza di una disposizione diversa, la regola generale stabilita dall’art. 2946 cod. civ.
Trib. Monza Sez. III, 16 settembre 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di mantenimento va assimilato alle prestazioni con scadenza periodica di cui all’art. 2948 c.c. e come tale soggetto alla prescrizione breve quinquennale.
Cass. civ. Sez. I, 30 luglio 2010, n. 17914 (Famiglia e Diritto, 2011, 2, 129, nota di ORTORE)
In materia di mantenimento del figlio naturale, la domanda di rimborso delle somme anticipate da un genitore può essere proposta nel giudizio di accertamento della paternità o maternità naturale, mentre
l’esecuzione del titolo e la conseguente decorrenza della prescrizione del diritto a contenuto patrimoniale richie¬dono la preventiva definitività della sentenza di accertamento dello “status”.
Trib. Trani, 22 aprile 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ art. 2953 c.c. prevede espressamente che siano soggetti alla prescrizione breve quinquennale i ratei relativi alle pensioni alimentari alle quali vanno assimilati le prestazioni alimentari di natura periodica inferiori all’anno, quali l’assegno di mantenimento stabilito in sede di separazione o divorzio.
Trib. Bologna Sez. I, 16 gennaio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di mantenimento stabilito dal giudice in sede di separazione dei coniugi, come tutte le prestazioni che devono essere pagate periodicamente, ha un termine di prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 2948 c.c..
Trib. Benevento, 22 gennaio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rapporto di filiazione, sia esso legittimo o naturale, pone a carico di entrambi i genitori l’obbligo di provvedere al mantenimento del figlio, perdurante fino alla intervenuta completa autosufficienza economica dello stesso. In particolare, nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore, per il periodo anteriore alla pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato da parte di entrambi i genitori. Da ciò con¬segue, per un verso, che il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non può sottrarsi alla obbligazione nei confronti del figlio per la quota parte posta a suo carico, ma è tenuto a provvedere, sin dal momento della nascita e, per altro verso, che il genitore il quale ha provveduto in via esclusiva al mantenimento del figlio ha azione nei confronti dell’altro per ottenere il rimborso pro quota delle spese sostenute dalla nascita. Tale azione non è tuttavia utilmente esercitabile se non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione naturale atteso che soltanto per effetto di tale pronuncia si costituisce lo status di figlio naturale, sia pure con effetti retroagenti alla data della nascita, con la conseguenza che detto momento segna altresì il dies a quo della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596 (Foro It., 2007, 1, 1, 86)
Il termine decennale di prescrizione del diritto del genitore naturale al rimborso da parte dell’altro genitore, coobbligato, delle spese sostenute per il mantenimento del figlio decorre dal riconoscimento da parte di detto coobbligato ovvero dal passaggio in giudicato della sentenza di accertamento giudiziale della paternità o della maternità che, in quanto attributiva dello “status” di figlio naturale, costituisce il presupposto per l’accoglimento della domanda in oggetto.
Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2006, n. 20692 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento del diritto, agli effetti interruttivi della prescrizione ai sensi dell’art. 2944 cod. civ. pur non richiedendo formule speciali, deve tuttavia consistere in una ricognizione chiara e specifica del diritto altrui, uni¬voca e incompatibile con la volontà di non riconoscere il diritto stesso, e l’indagine diretta a stabilire se una certa dichiarazione costituisca riconoscimento, ai sensi della norma richiamata, rientra nei poteri del giudice di merito, il cui accertamento non è sindacabile in sede di legittimità quando è sorretto da una motivazione sufficiente e non contraddittoria.
Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 cod. civ., e, quindi, a norma dell’art. 261 cod. civ., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 cod. civ. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale e assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 cod. civ.), ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 cod. civ. nei rapporti fra condebitori solidali. Tuttavia, in considerazione dello stato di incertezza che precede la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente esercitabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la conseguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 10 marzo 2006, n. 5302 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, i reciproci rapporti economici in relazione al futuro ed eventuale divorzio con riferimento all’assegno divorzile sono nulli per illiceità della causa, avuto riguardo alla natura assistenziale di detto assegno, previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il diritto a richiederlo. Ne consegue che la disposizione dell’art. 5, ottavo comma della legge n. 898 del 1970 nel testo di cui alla legge n. 74 del 1987 – a norma del quale, su accordo delle parti, la corresponsione dell’assegno divorzile può avvenire in un’unica soluzione, ove ritenuta equa dal tribunale, senza che si possa, in tal caso, proporre alcuna successiva domanda a contenuto economico – , non è applicabile al di fuori del giudizio di divorzio, e gli accordi di separazione, dovendo essere interpretati “secundum ius”, non possono implicare rinuncia all’assegno di divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo di mantenere i figli sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori. Con¬seguentemente, il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non può sottrarsi alla sua obbligazione nei confronti del figlio per la quota posta a suo carico, ma è tenuto a provvedere sin dal momento della nascita, attesa la natura dichiarativa della pronuncia che accerta la filiazione naturale. Il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è tuttavia utilmente esercitabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la con¬seguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2005, n. 20290 (Fam. Pers. Succ., 2007, 2, 107, nota di ZUCCHI)
In tema di separazione personale consensuale, le modificazioni pattuite dai coniugi successivamente all’omo¬logazione trovano fondamento nell’art. 1322 c.c., e devono ritenersi valide ed efficaci anche a prescindere dal controllo dell’Autorità giudiziaria, sempre che i loro contenuti si mantengano nei limiti dei diritti e dei doveri inderogabili delineati dall’art. 160 c.c.
Cass. civ. Sez. III, 12 settembre 2005, n. 18097 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza penale passata in giudicato che, ai sensi dell’art. 570 cod. pen., condanni l’obbligato in relazione all’omessa corresponsione dell’assegno di mantenimento con riferimento ai mesi per i quali fu sporta denunzia penale comporta che sono soggetti a prescrizione decennale ai sensi dell’art. 2953 cod. civ.. soltanto i crediti oggetto del giudicato penale e non anche quelli successivi a tale data. Infatti tali prestazioni, avendo natura periodica, sono assimilabili alla nozione di “pensioni alimentari” e soggette alla prescrizione quinquennale decor¬rente dalle singole scadenze, in relazione alle quali sorge l’interesse all’adempimento.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975 (Guida al Diritto, 2005, 16, 39, nota di FIORINI)
Il diritto di percepire gli assegni di mantenimento riconosciuti, in sede di divorzio, all’ex coniuge da sentenze pas¬sate in giudicato per i figli minori a lui affidati può essere modificato, ovvero estinguersi del tutto, solo attraverso la procedura prevista dall’art. 710 c.p.c. (oltre che per accordo tra le parti), con la conseguenza che la raggiunta maggiore età e la raggiunta autosufficienza economica del figlio non sono, di per sé, condizioni sufficienti a le¬gittimare, “ipso facto”, la mancata corresponsione dell’assegno.
Il diritto a percepire gli assegni di mantenimento riconosciuti, in sede di separazione, con sentenze passate in giudicato, può essere modificato o estinguersi, solo attraverso la procedura prevista dall’art. 710 c.p.c. con la conseguenza che la raggiunta maggiore età del figlio e la raggiunta autosufficienza economica del medesimo non sono condizioni sufficienti a legittimare, ipso fatto, in mancanza di un accertamento giudiziale, la mancata corresponsione dell’assegno.
In tema di separazione e di divorzio, il diritto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento per il coniuge, così come il diritto agli assegni di mantenimento per i figli, in quanto aventi a oggetto prestazioni autonome, di¬stinte e periodiche, non si prescrivono a decorrere da un unico termine rappresentato dalla data della pronuncia della sentenza di separazione o di divorzio, ma dalle singole scadenze delle prestazioni dovute, in relazione alle quali sorge di volta in volta il diritto all’adempimento.
Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124 (Foro It., 1986, I, 2679)
Il riconoscimento del figlio naturale comporta l’assunzione di tutti i diritti e doveri propri della procreazione legit¬tima, ivi compreso l’obbligo di mantenimento, che, per il suo carattere essenzialmente patrimoniale, esula dallo stretto contenuto della potestà genitoriale, e in relazione al quale, pertanto, non rileva, come, invece, avviene con riguardo a quest’ultima, a norma dell’art. 317-bis c.c.., la circostanza che i genitori siano o no conviventi, incombendo detto obbligo su entrambi, in quanto nascente dal fatto stesso della procreazione. Ne consegue che, nell’ipotesi in cui al mantenimento abbia provveduto, integralmente o comunque al di là delle proprie sostan¬ze, uno soltanto dei genitori, a lui spetta il diritto di agire in regresso, per il recupero della quota del genitore inadempiente, secondo le regole generali del rapporto tra condebitori solidali, come si desume, in particolare, dall’art. 148 c.c., richiamato dall’art. 261 c.c., che prevede l’azione giudiziaria contro il genitore inadempiente, e senza, pertanto, che sia configurabile un caso di gestione di affari altrui. L’obbligo in esame, non avendo natura alimentare, e decorrendo dalla nascita, dalla stessa data deve essere rimborsato “pro quota”.
In tema di riconoscimento di figlio naturale, il diritto al rimborso delle spese sostenute, spettante al genitore che ha allevato il figlio nei confronti del genitore che procede al riconoscimento, non è utilmente esercitabile se non dal giorno del riconoscimento stesso (soltanto il riconoscimento comportando, ex art. 261 c.c., gli effetti tipici connessi dalla legge allo status giuridico di figlio naturale), con la conseguenza che detto giorno segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Trib. Bologna Sez. I, 21 maggio 2004 (Guida al Diritto, 2005, 2, 78)
L’articolo 2941 del c.c. che dispone la sospensione della prescrizione tra coniugi deve applicarsi, attesa la tas¬satività dei casi di sospensione previsti dagli articoli 2941 e 2942 del c.c., sia nel caso che i coniugi abbiano comunanza di vita sia allorché si trovino in stato di separazione personale. Al coniuge non proprietario dei beni per i quali sono stati effettuati esborsi con denaro comune ovvero con suo esclusivo, compete un diritto di credito quantificabile, in assenza di prova contraria, nella metà della spesa sostenuta a vantaggio del bene non facente parte della comunione ma in proprietà esclusiva dell’altro coniuge, sul quale trattandosi di debito di valuta, sono dovuti i soli interessi legali dalla messa in mora, sino al saldo effettivo.
Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2004, n. 336 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio, in quanto avente ad oggetto più prestazioni periodiche, distinte ed autonome, si prescrive non a decorrere da un unico termine costituito dalla sentenza che ha pro¬nunciato sul diritto stesso, ma dalle scadenze delle singole prestazioni imposte dalla pronuncia giudiziale, in relazione alle quali sorge di volta in volta l’interesse del creditore all’adempimento. Ne consegue che, dovendo tali prestazioni essere erogate alle scadenze fissate e sino al momento della diversa determinazione del giudice in sede di revisione, ovvero fino alla morte dell’ex coniuge onerato, non può profilarsi al momento del decesso una prescrizione del diritto all’ultimo assegno spettante, tale da estinguere il diritto alla sua percezione, e quindi da impedire il sorgere del diritto alla quota della pensione di reversibilità.
Cass. civ. Sez. I, 20 novembre 2003, n. 17607 (Famiglia e Diritto, 2004, 473 nota di CONTE)
Pur non potendosi dubitare della natura negoziale (quand’anche non contrattuale) dell’accordo che dà sostanza e fondamento alla separazione consensuale tra i coniugi, e pur non essendo ravvisabile, nell’atto di omologa¬zione, una funzione sostitutiva o integrativa della volontà delle parti o di governo dell’autonomia dei coniugi, è da escludere l’impugnabilità per simulazione dell’accordo di separazione una volta omologato, giacché l’ini¬ziativa processuale diretta ad acquisire l’omologazione, e quindi la condizione formale dei coniugi separati, con le conseguenti implicazioni giuridiche, si risolve in una iniziativa nel senso della efficacia della separazione che vale a superare il precedente accordo simulatorio, ponendosi in antitesi con esso, essendo logicamente insoste¬nibile che i coniugi possano “disvolere” con detto accordo la condizione di separati ed al tempo stesso “volere” l’emissione di un provvedimento giudiziale destinato ad attribuire determinati effetti giuridici a detta condizione.
L’accordo di separazione ha natura negoziale e a esso possono applicarsi, nei limiti della loro compatibilità, le norme del regime contrattuale che riguardano in generale la disciplina del negozio giuridico o che esprimono principi generali dell’ordinamento, come quelle in tema di vizi del consenso e di capacità delle parti. È tuttavia inammissibile l’impugnazione della separazione per simulazione quando i coniugi abbiano chiesto al tribunale l’omologazione della loro (simulata) separazione. In tal caso, la volontà di conseguire lo status di separati – dal quale la legge fa derivare effetti irretrattabili tra le parti e nei confronti dei terzi, salve le ipotesi della riconcilia¬zione e dello scioglimento definitivo del vincolo – è effettiva e non simulata.
L’atto che dà sostanza e fondamento alla separazione consensuale ha natura negoziale. In tale accordo, infatti, si dispiega pienamente l’autonomia dei coniugi e la loro valutazione della gravità della crisi coniugale, con esclu¬sione di ogni potere di indagine del giudice sui motivi della decisione di separarsi e di valutazione circa la validità di tali motivi, in piena coerenza con la centralità del principio del consenso nel modello di famiglia delineato dalla legge di riforma e in ragione del tasso di negozialità dalla stessa legge riconosciuto in relazione ai diversi mo¬menti e aspetti della dinamica familiare. Quanto precede non esclude, peraltro, che non è ammissibile dedurre la natura simulata di un siffatto accodo. Nel momento, infatti, in cui i coniugi convengono, nello spirito e nella pro¬spettiva della loro intesa simulatoria, di chiedere al tribunale l’omologazione della loro apparente separazione esse in realtà concordano nel volere conseguire il riconoscimento di un nuovo status e la volontà di conseguire quest’ultimo è effettiva e non simulata, per cui appare logicamente insostenibile che i coniugi possano disvolere con detto accordo la condizione di separati e, al tempo stesso, volere l’emissione di un provvedimento giudiziale destinato ad attribuire determinati effetti giuridici a detta condizione: l’antinomia tra tali determinazioni non può trovare altra composizione che nel considerare l’iniziativa processuale come atto incompatibile con la volontà di avvalersi della simulazione.
Cass. civ. Sez. I, 9 ottobre 2003, n. 15064 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ogni patto stipulato in epoca antecedente al divorzio volto a predeterminare il contenuto dei rapporti patrimoniali del divorzio stesso deve ritenersi nullo; è consentito, invece, che le parti, in sede di divorzio, dichiarino espres¬samente che, in virtù di una pregressa operazione (ad es. trasferimento immobiliare) tra di esse, l’assegno di divorzio sia già stato corrisposto una tantum con conseguente richiesta il giudice di stabilire conformemente l’assegno medesimo, ma in assenza di tale inequivoca richiesta è inibito al giudice di determinare l’assegno riconoscendone l’avvenuta corresponsione in unica soluzione. Del tutto diversa è l’ipotesi in cui le parti abbiano già regolalo i propri rapporti patrimoniali e nessuna delle due richieda un assegno (tale regolamento, infatti non necessariamente comporta la corresponsione di un assegno una tantum potendo le parti avere regolato diversa¬mente i propri rapporti patrimoniali e riconosciuto, sulla base di ciò, la sussistenza di una situazione di equilibrio tra le rispettive condizioni economiche con conseguente non necessità della corresponsione di alcun assegno), nel qual caso l’accordo è valido per l’attualità, ma non esclude che successivi mutamenti della situazione patri¬moniale di una delle due parti possa giustificare la richiesta di corresponsione di un assegno a carico dell’altra. (Nella fattispecie la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale, escluso che i coniugi avessero dichiarato l’avvenuta corresponsione una tantum dell’assegno di divorzio in virtù di una precedente operazione di trasfe¬rimento immobiliare, aveva proceduto alla determinazione dell’assegno medesimo su richiesta di modifica delle condizioni di cui alla sentenza di divorzio presentata da uno degli ex coniugi).
Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2079 (Famiglia e Diritto, 2003, 344)
Il principio secondo il quale gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio, sono nulli per illiceità della causa, anche nella parte in cui concernono l’assegno divorzile – che per la sua natura assistenziale è indisponibile – in quanto diretti, implicitamente o esplicitamente, a circoscrivere la libertà di difendersi nel giudizio di divorzio, trova fondamento nell’esigenza di tutela del coniu¬ge economicamente più debole, la cui domanda di assegnazione dell’assegno divorzile potrebbe essere da detti accordi paralizzata o ridimensionata. (Nella specie si trattava della dichiarazione del coniuge economicamente più debole che liberava, in vista del divorzio, l’altro coniuge da ogni obbligazione patrimoniale nei suoi confronti).
Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2076 (Famiglia e Diritto, 2003, 4, 344, nota di PICCALUGA)
L’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando, al momento del divorzio, l’inadegua¬tezza dei mezzi del coniuge richiedente in rapporto al tenore di vita avuto in costanza di matrimonio, e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso, non essendo necessario uno stato di bisogno dell’avente diritto e rilevando, invece, l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche. Il principio secondo il quale gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio, sono nulli per illiceità della causa, anche nella parte in cui concernono l’assegno divorzile – che per la sua natura assistenziale è indisponibile – in quanto diretti, implicitamente o esplicitamente, a circoscrivere la libertà di difendersi nel giudizio di divorzio, trova fondamento nell’esigenza di tutela del coniuge economicamente più debole, la cui domanda di assegnazione dell’assegno di¬vorzile potrebbe essere da detti accordi paralizzata o ridimensionata. (Nella specie si trattava della dichiarazione del coniuge economicamente più debole che liberava, in vista del divorzio, l’altro coniuge da ogni obbligazione patrimoniale nei suoi confronti).
Cass. civ. Sez. I, 1 dicembre 2000, n. 15349 (Giust. Civ. 2001, I, 1592)
La nullità, per illiceità della causa, degli accordi economici con cui i coniugi, in occasione della loro separazione, fissano il regime del loro futuro ed eventuale divorzio può essere invocata esclusivamente in sede di divorzio, a tutela di chi richiede le prestazioni economiche, nel caso che il coniuge onerato invochi quegli accordi al fine di escludere il diritto dell’altro.
Cass. civ. Sez. I, 25 ottobre 2000, n. 14022 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rito adottato dal legislatore, con l’art. 9 della legge sul divorzio, ai fini della modificazione dell’assegno divorzi¬le, risulta regolato, in via generale, dagli art. 737 e ss. del c.p.c., e, quanto alle forme, in parte risulta disciplinato espressamente da tale normativa, mentre, nella parte non regolata, risulta rimesso nel suo svolgimento – che è attuato con impulso di ufficio – alla disciplina concretamente dettata dal giudice la quale dovrà garantire il rispet¬to del principio del contraddittorio e di quello del diritto di difesa. Da ciò deriva, quanto al procedimento di primo grado, che in esso non vigano le preclusioni previste per il giudizio di cognizione ordinario, con la conseguenza che in esso: 1) potranno essere proposte per tutto il corso di esso domande nuove, anche riconvenzionali, in con¬formità delle direttive dettate dal giudice nella gestione del processo, senza con ciò peraltro che la loro eventuale mancata proposizione possa impedirne la proposizione in separato giudizio; 2) potranno essere ammesse altresì prove nuove, anche in correlazione con i fatti sopravvenuti dedotti nel corso del processo; fatti che – peraltro – anche in questo caso il giudice dovrà e potrà prendere in esame se ed ove dedotti e sempre nei limiti delle domande proposte. Più in particolare trattasi di un procedimento svolgentesi nell’interesse delle parti ed anche nel quale – diversamente da quanto accade nel caso in cui si tratti di modifica dell’assegno di mantenimento di figli minori – vige il principio della domanda e della corrispondenza fra il “chiesto” ed il “pronunciato”, investendo l’”officiosità del procedimento” unicamente il profilo dell’impulso al suo svolgimento, ed, in certa misura (ai sensi dell’art. 738, comma 3) l’acquisizione di materiale probatorio. Quanto poi al giudizio di secondo grado nascente dal “reclamo”, fermo che quest’ultimo costituisce un mezzo di impugnazione avente carattere “devolutivo” e come tale ha per oggetto la revisione della decisione di primo grado nei limiti del “devolutum” e delle censure formulate ed in correlazione alle domande formulate in quella sede, in esso giudizio, mentre possono essere allegate – stante la libertà di forme proprie del procedimento – fatti nuovi, non possono essere proposte domande nuove, in quanto queste ultime snaturerebbero la natura del reclamo quale mezzo di impugnazione e, come tale, avente la funzione di rimuovere vizi del precedente provvedimento.
Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2000, n. 8109 (Foro It., 2001, I, 1318 nota di RUSSO, CECCHERINI)
Il principio secondo il quale gli accordi dei coniugi, diretti a fissare, in sede di separazione, il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio, sono nulli per illiceità della causa, anche nella parte in cui concernono l’assegno divorzile – che per la sua natura assistenziale è indisponibile – in quanto diretti, implicitamente o esplicitamente, a circoscrivere la libertà di difendersi nel giudizio di divorzio, trova fondamento nell’esigenza di tutela del coniuge economicamente più debole, la cui domanda di attribuzione dell’assegno divorzile potrebbe essere da detti ac¬cordi paralizzata o ridimensionata. Il richiamato principio, pertanto, non trova applicazione, ove invocato, al fine di ottenere l’accertamento negativo del diritto dell’altro coniuge, da quello che dall’accordo preventivo potrebbe ricevere un aggravio dell’onere cui sia tenuto. Né può essere fatta valere, in sede di divorzio, la nullità di un accordo transattivo, ancorché parzialmente trasfuso nella separazione consensuale, già raggiunto tra i coniugi al solo scopo di porre fine ad una controversia di natura patrimoniale, tra gli stessi insorta, senza alcun riferimento, esplicito od implicito, al futuro assetto dei rapporti economici conseguenti all’eventuale pronuncia di divorzio. Siffatto accordo, peraltro, acquisterebbe rilievo su detti rapporti, sotto il profilo della necessaria considerazione, da parte del giudice, della complessiva situazione reddituale delle parti, risultante, tra l’altro, dal credito di uno dei coniugi cui corrisponde il debito dell’altro.
Trib. Napoli, 28 gennaio 2000 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto al mantenimento del minore o del figlio maggiorenne non autosufficiente è, di per sé, imprescrittibile, ma non è imprescrittibile il diritto ai singoli ratei scaduti dell’assegno di mantenimento, trovando applicazione il termine quinquennale di cui all’art. 2948 c.c., ovvero, allorché il diritto in parola discende da una sentenza divor¬zile passata in giudicato, il termine decennale di cui all’art. 2953 c.c. (fermo che per i ratei e gli interessi scaduti successivamente alla sentenza continua ad applicarsi la prescrizione breve ex art. 2948 cit.).
Trib. Milano, 10 febbraio 1999 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La prescrizione tra coniugi è sospesa di diritto durante il matrimonio e tale regola trova applicazione anche durante la separazione personale, che non implica il venire meno del rapporto di coniugio, ma soltanto un’atte¬nuazione del vincolo.
Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 1998, n. 12333 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione dei coniugi e di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il diritto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento, in quanto avente ad oggetto più prestazioni autonome, distinte e periodiche, si prescrive non a decorrere da un unico termine rappresentato dalla data della pronuncia della sentenza di sepa¬razione o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, bensì dalle singole scadenze di pagamento, in relazione alle quali sorge, di volta in volta, l’interesse del creditore a ciascun adempimento.
Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 1998, n. 5829 (Guida al Diritto, 2004, 38, 45)
Le modificazioni degli accordi, convenuti tra i coniugi, successive all’omologazione della separazione ovvero alla pronuncia presidenziale di cui all’art. 708 c.p.c., trovando legittimo fondamento nel disposto dell’art. 1322 c.c. devono ritenersi valide ed efficaci, a prescindere dall’intervento del giudice ex art. 710 c.p.c., qualora non superino il limite di derogabilità consentito dall’art. 160 c.c. e, in particolare, quando non interferiscano con l’accordo omologato ma ne specifichino il contenuto con disposizioni maggiormente rispondenti, all’evidenza, con gli interessi ivi tutelati.
Corte cost., 29 gennaio 1998, n. 2 (Famiglia e Diritto, 1998, 214, nota di FIGONE)
L’art. 2941 n. 1 c.c., nella parte in cui non estende anche alla situazione di convivenza “more uxorio” la causa di sospensione della prescrizione dettata per i rapporti fra coniugi in costanza di matrimonio, non contrasta con l’art. 2 cost., in quanto, per un verso, la disposizione codicistica si riferisce a rapporti di carattere patrimoniale, difficilmente ricadenti sotto il parametro costituzionale che presuppone l’inviolabilità dei diritti, e, per altro verso, l’assimilazione della convivenza di fatto alle formazioni sociali si risolve in un’esplicitazione della pretesa violazio¬ne del principio di eguaglianza, insussistente per difetto di un adeguato “tertium comparationis”.
Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 1997, n. 5244 (Famiglia e Diritto, 1997, 6, 576)
Gli accordi economici intervenuti fra i coniugi al momento della separazione non possono spiegare efficacia pre¬clusiva alla determinazione giudiziale dell’assegno di divorzio, atteso che, ove la causa di tali accordi fosse la li¬quidazione preventiva e forfettaria dell’assegno di divorzio, essi sarebbero nulli, sia per l’indisponibilità dell’asse¬gno di divorzio (rafforzata dalla legge n. 74 del 1987 che ha conferito al suddetto assegno natura eminentemente assistenziale), sia per illiceità della causa (avendo tali accordi sempre l’effetto di condizionare il comportamento delle parti nel giudizio concernente uno “status”); diverso è il caso delle intese economiche prospettate dalle parti con la domanda congiunta di divorzio ai sensi dell’art. 4 l. n. 74 del 1987, poichè tali intese (che vanno pur sempre sottoposte ad una valutazione giudiziale) si riferiscono ad un divorzio che le parti hanno già deciso di conseguire e non semplicemente prefigurato.
Corte cost., 25 giugno 1996, n. 214 (Famiglia e Diritto, 1996, 5, 424, nota di CARBONE)
È costituzionalmente illegittimo – per contrasto con l’art. 30 comma 3 cost. – l’art. 70 c.p.c., nella parte in cui non prescrive l’intervento obbligatorio del p.m. nei giudizi tra genitori naturali che comportino “provvedimenti relativi ai figli”, nei sensi di cui agli art. 9 l. 1 dicembre 1970 n. 898 e 710 c.p.c., come risulta a seguito della sentenza n. 416 del 1992.
Corte cost., 9 novembre 1992, n. 416 (Giur. It., 1993, I,1, 1152, nota di DALMOTTO)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 710 c.p.c., nel testo precedente a quello sostituito dall’art. 1 l. 29 luglio 1988 n. 331, nella parte in cui non prevede l’intervento del p.m. per la modifica dei provvedimenti riguardanti la prole dei coniugi separati.
Cass. civ. Sez. I, 6 dicembre 1991, n. 13128 (Giust. Civ., 1992, I, 1239, nota di CAVALLO)
Il carattere di indisponibilità dell’assegno di divorzio è stato rafforzato a seguito della nuova disciplina di cui alla l. n. 74 del 1987; essa ha infatti conferito a tale assegno natura eminentemente assistenziale e ha quindi escluso per i soggetti interessati il potere di determinare in via preventiva e autonoma gli effetti patrimoniali del divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 20 settembre 1991, n. 9840 (Dir. Famiglia, 1992, 562)
L’accordo fra coniugi separati, con cui si preveda la persistente operatività di patti aventi contenuto economico anche in regime di divorzio, è nullo per illiceità della causa pure in riferimento al godimento della casa familiare, non assumendo rilievo la circostanza che questa sia oggetto di comproprietà fra i coniugi medesimi, purché si verta in tema di convenzione sui rapporti correlati al matrimonio e non di contratto modificativo dell’assetto dominicale o costitutivo di diritti reali implicanti detto godimento.
Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 1990, n. 5633 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel quadro normativo delineato dall’art. 30 cost., dall’art. 279 c. c. e dalle convenzioni internazionali ratificate e rese esecutive in Italia, l’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio trova la sua fonte immediata nel fatto della procreazione, anche se accertato incidenter tantum e non nello status formale del figlio naturale; pertanto, non ha causa illecita per contrarietà a norme imperative o all’ordine pubblico, bensì è pienamente valido, in quanto informato alla detta normativa, il contratto con il quale un genitore naturale, am¬mettendo che un soggetto è stato da lui procreato, si obblighi a mantenerlo, in una misura convenzionalmente determinata, indipendentemente dal suo riconoscimento formale.
Cass. civ. Sez. I, 26 febbraio 1988, n. 2043 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il contributo di mantenimento cui il coniuge non affidatario è tenuto a favore dei figli in caso di separazione o di divorzio non è governato né dal principio di disponibilità né dal principio della domanda, presupposti dell’ordina¬rio processo civile, essendo il giudice titolare al riguardo di un potere-dovere improntato a difesa di un superiore interesse dello stato alla tutela e alla cura dei minori; nell’esercizio di tale potere, pertanto, il giudice non ha bisogno di domanda, né è vincolato dagli accordi fra i coniugi, sia per la determinazione dell’assegno, sia per la sua eventuale indicizzazione, potendo procedere d’ufficio alla sua rivalutazione anche in appello
Corte cost., 14 luglio 1986, n. 185 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è fondata, in riferimento agli art. 3, 1° e 2° comma, 24, 2° comma, e 30 cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, 1° comma (in relazione all’art. 6, 2° comma) l. 1° dicembre 1970, n. 898 (disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e dell’art. 708 c. p. c. (in relazione all’art. 155 c. c., nella parte in cui, rispet¬tivamente nel giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio e nel giudizio di separazione personale dei coniugi, non prevedono la nomina di un curatore speciale che rappresenti in giudizio il minore figlio delle parti, in ordine alla pronuncia sull’affidamento e ad ogni altro provvedimento che lo riguardi; i giudizi in questione, infatti, non attengono né si riflettono sullo status dei figli, ed inoltre, essendo preordinati a scegliere la soluzione migliore per gli interessi del minore, gli interessi di quest’ultimo non rimangono senza tutela, ma sono garantiti da una serie non indifferente di misure.
Cass. civ., 23 agosto 1985, n. 4502 (Dir. Famiglia, 1985, 934)
L’art. 2941, n. 1 c. c., il quale prevede nei rapporti fra coniugi la sospensione della prescrizione, trova applicazio¬ne anche durante il regime di separazione personale, il quale non implica il venir meno del rapporto di coniuge, ma solo una attenuazione del vincolo.
Cass. civ., 22 aprile 1982, n. 2481 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I patti modificativi delle condizioni economiche previste in sede di separazione consensuale sono validi ed ef¬ficaci, anche senza la omologazione del tribunale, qualora essi non siano lesivi del diritto di mantenimento o di alimenti, riconducibile al diritto-dovere di assistenza (art. 143 c. c.), avente natura inderogabile (art. 160 c. c.), ma la parte che lamenta tale lesione per il superamento dei limiti della derogabilità, che non è ravvisabile quando tale diritto sia maggiormente tutelato, può provocare il relativo accertamento giudiziale (nella specie: il marito aveva convenuto di corrispondere alla moglie consensualmente separata una somma mensile doppia rispetto a quella fissata in sede di omologazione a titolo di mantenimento, ma successivamente aveva dedotto la nullità di tale pattuizione; il giudice del merito aveva ritenuto valido il patto modificativo e la suprema corte ha confermato tale pronuncia).
Corte cost., 19 febbraio 1976, n. 35 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche durante la separazione personale, la situazione di coniuge si differenzia da quella di ogni altro cittadino; pertanto, è infondata la questione di costituzionalità dell’art. 2941, n. 1, cod. civ., per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui dispone che rimane sospesa la prescrizione fra coniugi anche se legalmente separati, atteso che il detto articolo non attribuisce al coniuge separato un ingiustificato privilegio rispetto alla generalità degli altri cittadini.

L’art. 570 co. 2 prevede come soggetti passivi solo i figli minori o inabili al lavoro

Cass. pen. Sez. VI, 23 febbraio 2018, n. 8883
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
F.D., nato il (OMISSIS) avverso la sentenza del 03/03/2017 della CORTE APPELLO di TORINO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere LAURA SCALIA;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LUCA TAMPIERI;
Il Proc. Gen. conclude per l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
1. La Corte di appello di Torino, con sentenza del 3 marzo 2017, ha confermato quella resa dal locale Tribunale che aveva condannato l’imputato, F.D., per il reato di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 81, comma 2, art. 12-sexies,art. 570 c.p., comma 2, per avere egli, con più condotte omissive ed in esecuzione del medesimo disegno criminoso, fatto mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore, Matteo, affidato alla madre, omettendo di versare la somma mensile di duecentocinquantamila lire fissata per il mantenimento, dal Tribunale civile di Torino, con la sentenza di divorzio.
2. Ricorre in cassazione nell’interesse dell’imputato il difensore di fiducia con due motivi di annullamento.
3. La Corte di appello avrebbe, con errato apprezzamento delle prove, ritenuto la credibilità della persona offesa per una non ammissibile integrazione delle lacunose ed imprecise dichiarazioni rese dalla prima in sede di esame dibattimentale, con i contenuti della sporta denuncia-querela.
Sarebbe rimasto in tal modo inosservato il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità per il quale la querela vale solo ad accertare l’esistenza di una condizione di procedibilità e non può dare invece ricostruzione del fatto restando in tal caso integrata la violazione del principio che vuole che la prova si formi in dibattimento, nel contraddittorio tra le parti.
3.1. Un attento esame della sentenza emessa nei confronti del F. per identiche condotte, e che era stata prodotta dalla difesa al solo fine di determinare il trattamento sanzionatorio, avrebbe evidenziato l’identità delle dichiarazioni – comunque generiche e prive di ogni riferimento temporale – rese dall’offesa in entrambi i giudizi e quindi la non riferibilità dei fatti esposti nel presente giudizio all’intervallo di tempo dedotto in querela.
3.2. Il richiamo effettuato in sentenza ai contenuti della querela a sostegno dell’accertamento dello stato di bisogno della parte offesa – e tale sarebbe stata la circostanza riferita dall’ex coniuge di aver subito uno sfratto – e della sua eziologica riconducibilità all’omissione contributiva dell’imputato non avrebbe comunque integrato l’indicato presupposto.
4. Con il secondo motivo si fa valere violazione della legge penale in relazioneall’art. 570 c.p., eL. n. 898 del 1970,art.12 sexies, per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto, in adesione alla formulata imputazione, che il richiamo contenuto nell’art. 12 sexies, cit.all’art. 570 c.p., dovesse riferirsi al secondo e non al comma 1.
L’art. 12 sexies, cit. come stabilito dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 23866 del 31/01/2013 avrebbe infatti ed invece rinviato, nella finalità di individuare la sanzione applicabile all’autonoma fattispecie di cui alla richiamata normativa speciale,all’art. 570 c.p., comma 1, ed alla pena alternativa ivi prevista, in quanto opzione più favorevole all’imputato.
Il primo commadell’art. 570 c.p., sanziona penalmente la condotta di chi si sottragga agli obblighi di assistenza inerenti la potestà dei genitori o la qualità di coniuge obblighi che, destinati a collocarsi al di là di quello di non far mancare i mezzi di sussistenza, sono disciplinatidall’art. 29 Cost., e dagliartt. 143 e 147 c.c..
La nozione dei mezzi di sussistenza che implica uno stato di bisogno del soggetto passivo, chiamata ad integrare la diversa fattispecie di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, non avrebbe dovuto confondersi con quella di mantenimento, di matrice civilistica, integrativa della diversa fattispecie di cui all’art. 12 sexies cit., per la quale la pena applicabile avrebbe dovuto essere quella, alternativa, di cui al primo commadell’art. 570 c.p..
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile perché aspecifico.
Con il proposto mezzo si denuncia l’inattendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa in sede di deposizione testimoniale che nella loro genericità resterebbero non integrabili per i contenuti della proposta denuncia-querela, incorrendo altrimenti la Corte di appello di Torino per impugnata sentenza pena nella violazione del principio secondo il quale la prova deve formarsi in dibattimento, nel contraddittorio tra le parti.
L’indicato argomento non si confronta in modo concludente con i contenuti della sentenza impugnata, nella parte in cui quest’ultima avrebbe ritenuto integrato – si assume in ricorso – lo stato di bisogno del coniuge dell’imputato per avere il primo subito uno sfratto, evidenza contenuta in querela ed illegittimamente utilizzata al fine di integrare le lacunose dichiarazioni rese in sede di esame dibattimentale dalla persona offesa.
Non sono indicate le lacune delle argomentazioni sviluppate dalla Corte di appello e la centralità della segnalata oggettiva evidenza ad integrare l’estremo dello stato di bisogno.
2. Non è fondato il secondo motivo di ricorso in quanto diretto a dedurre l’illegittimità della pena applicata per una errata commistione tra la disciplina di cuiall’art. 570 c.p., e L. cit. n. 898 del 1970, art. 12 sexies, cui sarebbe pervenuta la Corte di appello di Torino nel dare quantificazione alla pena.
L’art. 12 sexies, Legge cit. delinea una fattispecie di reato autonoma rispetto a quelle definiteall’art. 570 c.p., commi 1 e 2, tra le quali solo quella prevista dal comma 1, si pone in una posizione di affinità con il reato di cui all’art. 12 sexies.
Sull’indicata premessa (Sez. U, n. 23866 del 31/01/2013, S., Rv. 255271), il reato previsto dall’art. 570, comma 1, cit. si configura tutte le volte in cui un soggetto violi i doveri di assistenza materiale in veste di coniuge e di genitore, previsti dalle norme del codice civile.
Diversamente, l’art. 570 cit., comma 2, appresta tutela ai vincoli di solidarietà nascenti dal rapporto di coniugio – che risultano attenuati nel caso di separazione o di allentamento del vincolo – che si sostanziano nel non far mancare i “mezzi di sussistenza” necessari.
Se nel primo caso si assiste ad una violazione di obblighi materiali, nel secondo invece, la punibilità della condotta non può prescindere da una valutazione sullo stato di necessità dell’avente diritto.
La Corte di appello nella determinazione della pena non è incorsa nel dedotto errore, ingenerato da un improprio richiamo alla previsione di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, al fine di determinare il trattamento sanzionatorio previsto per la diversa e contestata fattispecie di cui allaL. n. 898 del 1970, art.12 sexies, e successive modifiche, rispetto alla quale viene in applicazione invece la pena alternativa di cuiall’art. 570 c.p., comma 1.
Ed infatti il coniuge separato che faccia mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori violal’art. 570 c.p., comma 2, e per siffatta condotta va pertanto applicato il relativo trattamento sanzionatorio.
Per costante giurisprudenza di legittimità (tra le molte: Sez. 6, n. 34080 del 13/06/2013, M., Rv. 257416; Sez. 6, n. 41832 del 30/09/2014, S.), in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, sia l’obbligo morale sanzionatodall’art. 570 c.p., comma 1, che quello economico, sanzionato dal comma secondo della medesima disposizione, presuppongono la minore età del figlio, non inabile al lavoro, e sono destinate a venir meno con l’acquisizione della capacità di agire da parte del minore dovuta al raggiungimento della maggiore età, per una conclusione che è sostenuta, nel primo caso, dal richiamo dell’esercizio della potestà genitoriale e, nel secondo, dal riferimento testuale ai “discendenti di età minore”, con una previsione che differenzia la fattispecie da quella di cui allaL. n. 898 del 1970,art.12 sexies.
Ne discende, secondo quanto chiarito da questa Suprema Corte, chel’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, prevede come soggetti passivi solo i figli minori o inabili al lavoro sicché non integra tale reato la diversa violazione dell’obbligo di assicurare i mezzi di sussistenza ai figli maggiorenni, non inabili al lavoro, anche se studenti.
LaL. 1 dicembre 1970, n. 898, all’art. 12 sexies, punisce il mero inadempimento dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento stabilito dal giudice, in sede di divorzio, in favore dei figli senza limitazione di età, purché economicamente non autonomi (Sez. 6, n. 34270 del 31/05/2012, M., Rv. 253262).
Il motivo è quindi, come articolato, diretto a dedurre una questione non fondata risultando la fattispecie in esame, secondo contestazione, relativa ad ipotesi in cui il genitore fa mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore di età, ipotesi per la quale vengono in considerazione gli estremi del reato di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, e, per gli stessi, la pena congiunta ivi prevista.
3. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2018

La sanzione dell’annullamento degli atti compiuti senza il consenso dell’altro coniuge, non opera per i beni non ricadenti nella comunione

Cass. civ. Sez. II, 22 febbraio 2018, n. 4302
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 12566/2012 proposto da:
M.G., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MARIO FANI 37, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELE CAUDULLO, rappresentato e difeso dall’avvocato MARIAGRAZIA CARUSO;
– ricorrente –
contro
G.S., elettivamente domiciliata in ROMA, P.ZZA CAVOUR presso la CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NATALE NAPOLI;
– controricorrente –
e contro
L.V.R.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 314/2012 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 23/02/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/06/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO ORICCHIO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto,che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
L.V.R. conveniva nel 1999 in giudizio innanzi al Tribunale di Catania – Sezione Distaccata di Giarre M.G. e G.S..
L’attrice esponeva che con scrittura privata del 22 settembre 1989 il M., coniugato in regime di comunione dei beni con la G., aveva promesso di venderle due unità immobiliari site in (OMISSIS) ed in atti specificamente individuate e che, al fine di varie vicende, il promittente venditore e la di lui coniuge non si presentavano – sebbene diffidati – a stipulare l’atto pubblico di trasferimento dei beni promessi in vendita.
L’attrice chiedeva, quindi, l’emissione di sentenza ex art. 2932 c.c., in proprio favore salvo il diritto all’eventuale risoluzione del contratto preliminare del 1999.
Costituitosi in giudizio, il M. non si opponeva alle domande attorea ed instava affinché la G. rispondesse del fatto che egli non aveva potuto adempiere.
La G. chiedeva il rigetto delle domande poste nei suoi confronti in quanto priva di qualsiasi legittimazione passiva.
L’adito Tribunale di prima istanza con sentenza in data 8/9 giugno 2009, dichiarava risolto il preliminare de quo per inadempimento del promittente venditore e rigettava le domande proposte nei confronti della G..
Avverso la suddetta sentenza, di cui chiedeva la riforma, interponeva appello il M. insistendo nelle istanze già formulate in primo grado e comunque perché in ogni caso le condanne emesse in favore della L.V. fossero poste anche a carico della G..
L’adita Corte di Appello di Catania, con sentenza n. 314/2012, accoglieva parzialmente l’appello del M. rideterminando la somma dovuta, a titolo di restituzione, in Euro 26.000,42, accoglieva l’appello incidentale della G. con condanna della L.V. alla refusione in favore della prima delle spese di lite di primo grado, nonché con condanna del M. e della L.V. alla refusione in favore dell’Erario delle spese sostenute per la difesa della G. nel giudizio di secondo grado, compensando le spese del giudizio fra il M. e la L.V.. Per la cassazione della suddetta sentenza della Corte etnea il M. ricorre con atto affidato a due articolati e promiscui motivi, resistito con controricorso dalla G..
Non ha svolto attività difensiva la rimanente parte intimata.
Come da ordinanza interlocutoria del 10 novembre 2016 la causa, già fissata per la trattazione in pubblica udienza, veniva rinviata a nuovo ruolo stante la necessità della formazione di un collegio con differente composizione.
Motivi della decisione
1.- Con l’articolato primo motivo del ricorso si censura promiscuamente il vizio di “violazione e falsa applicazione dell’art. 177 c.c., dell’art. 180 c.c., dell’art. 184 c.c. e dell’art. 2932 c.c. con riferimento all’art. 360, nn. 3 e 5, nonché violazione di legge, motivazione erronea, insufficiente e contraddittoria su di un punto decisivo della controversia”.
2.- Con il secondo motivo del ricorso si deduce il vizio di “violazione e falsa applicazione dell’art. 180 c.c., art. 115 c.p.c., art. 116 c.p.c., art. 184 c.c., art. 184 bis c.p.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, nonché violazione di legge, motivazione errata, insufficiente e contraddittoria su un fatto decisivo della controversia.
3.- I due motivi, stante la loro connessione, possono essere trattati congiuntamente.
Le doglianze, nel loro complesso sottese ad entrambi i motivi, attengono, in sostanza, alla lamentata esclusione della G. dal dover rispondere nei confronti della L.V. – in via solidale con il ricorrente – per il mancato perfezionamento del preliminare de quo.
La censura non è fondata.
E’ corretto, infatti, il rigetto della pretesa del M., secondo cui doveva rispondere dell’inadempimento lamentato dalla L.V. anche la G..
Stanti gli effetti meramente obbligatori del contratto preliminare sottoscritto dal M. (che ebbe a promettere in vendita alla L.V. la stessa unità immobiliare oggetto di precedente preliminare, cui la G. era estranea, con tale Mo.) è del tutto infondata la pretesa del M. di cui al motivo.
Del tutto irrilevante è, poi, il riferimento di cui al ricorso in esame alla circostanza del consenso che sarebbe stato prestato dalla coniuge G. al contratto preliminare per cui è causa, atteso – come già detto – gli effetti meramente obbligatori nascenti da quest’ultimo.
Il riferimento alla norma, invocata dal ricorrente, di cui all’art. 184 c.c., è, per di più, del tutto errato in quanto quella norma si riferisce ad altra fattispecie ovvero all’ipotesi in cui vi sia stato trasferimento di bene già entrato a far parte della comunione legale fra coniugi, ma ceduto da uno solo dei due coniugi (peraltro in tale ipotesi, comunque differente da quella in esame, l’atto posto in essere dal singolo coniuge sarebbe valido ed efficace e soggetto, ai sensi della detta norma, alla sola annullabilità richiesta tempestivamente dall’altro coniuge).
In tal senso risulta corretto il riferimento al relativo principio enunciato dall’impugnata sentenza e di cui a Cass. n. 1252/1995. Peraltro quel principio risulta più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis: Cass. n.ri 12923/2012 e 9888/2016), né parte ricorrente ha enunciato altri principi né esposto valide ragioni idonee a mutare il consolidato orientamento di questa Corte.
I motivi, in quanto infondati, vanno perciò respinti.
4.- Il ricorso deve, dunque, essere rigettato.
5.- Le spese seguono la soccombenza e si determinano così come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio, determinate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 giugno 2017.
Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2018

È configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia – per cui è sufficiente il dolo generico – anche nella forma del concorso mediante omissione

Cass. pen. Sez. VI, 9 marzo 2018, n. 10763
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto dalle parti civili:
1. D.D., in proprio e nella qualità di genitore esercente la potestà su figlia minore;
2. C.I., in proprio e nella qualità di genitore esercente la potestà su figlia minore;
nei confronti di:
A.A., nata a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 13/12/2016 della Corte d’appello di Bologna;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Antonio Corbo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore generale Dott. FODARONI Maria Giuseppina, che ha concluso per l’annullamento con rinvio;
udito, per i ricorrenti, l’avvocato Cinzia Passero, in sostituzione dell’avvocato Giulio Canobbio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito, per l’imputata, l’avvocato Giacomo Foschini, che ha concluso per il rigetto del ricorso, o, in subordine, per l’annullamento senza rinvio.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza emessa in data 13 dicembre 2016, la Corte d’appello di Bologna, in riforma della sentenza del Tribunale di Ravenna, ha dichiarato A.A. colpevole del reato di omessa denuncia di cuiall’art. 361 c.p., e non, invece, di quello di maltrattamenti in famiglia, ritenuto in primo grado, condannandola alla multa di euro 300,00; ha inoltre revocato le statuizioni civili contenute nella prima sentenza e respinto gli appelli proposti dalle parti civili.
L’imputata è stata condannata perché, quale dipendente comunale con funzioni di educatrice presso l’asilo nido dell’ente territoriale, e referente del comune nella struttura, aveva omesso di denunciare le educatrici M.M. e B.M. e l’ausiliaria N.A. per reiterati episodi di maltrattamenti in danno di bambini dell’asilo, nonostante di tali fatti fosse venuta a conoscenza nell’esercizio delle sue funzioni per avervi assistito personalmente o per esserne stata informata da altro personale in servizio presso la struttura. In particolare, la Corte d’appello ha escluso il concorso per omissione nel reato di maltrattamenti in famiglia, osservando che l’imputata, pur mantenendo consapevolmente il silenzio sui fatti, non aveva la volontà di coadiuvare le condotte illecite delle colleghe, anzi esplicitamente disapprovate e non condivise, ed era inoltre convinta di avere scarse possibilità di intervenire. I giudici di secondo grado, inoltre, hanno revocato le statuizioni civili per interruzione del nesso eziologico tra le condotte dell’imputata ed i danni subiti dai minori: “non può fondatamente sostenersi che i danni riportati dai minori n ragione del comportamento violento tenuto da M., B. e N. si sarebbero evitati completamente ove la A. avesse denunciato il comportamento stesso non appena venutane a conoscenza (e pertanto non necessariamente all’inizio della condotta lesiva)”.
2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe, con un unico atto, l’avvocato Giulio Canobbio, difensore di fiducia delle parti civili costituite D.D. ed C.I., in proprio e quali genitori esercenti la potestà sulla minore D.G., articolando un unico motivo, con il quale si denuncia vizio di motivazione, a normadell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), avendo riguardo alla sussistenza del fatto di maltrattamenti in famiglia.
Si premette che l’interesse all’impugnazione della qualificazione giuridica del fatto deriva dall’eliminazione delle statuizioni civili disposte in primo grado. Si deduce, poi, che il concorso dell’imputata mediante omissione nel reato di maltrattamenti in famiglia era desumibile dalla “conoscenza, e non certo per un giorno, delle condotte poste in essere dalle sue colleghe”, e dalla mancata adozione di comportamenti positivi. Si aggiunge che le condotte in contestazione “hanno una durata notevole pari a circa quattro anni” e che la Corte d’appello ha applicato l’istituto della continuazione al reato di cuiall’art. 361 c.p., senza però specificare il numero di episodi di cui dovrebbe rispondere l’imputata.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito precisate.
2. Le censure formulate nel ricorso, finalizzate all’affermazione della responsabilità civile dell’imputata, richiedono due precisazioni di carattere generale, una concernente la configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia anche nella forma del concorso mediante omissione, ed il contenuto dell’elemento psicologico necessario a tal fine, l’altra relativa alla ammissibilità di responsabilità civile derivante dal reato di omessa denuncia.
2.1. Per quanto attiene al primo profilo, va innanzitutto rilevato che costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, in relazione al quale non emergono ragioni per dissentire, quello secondo cui il reato di maltrattamenti in famiglia può essere realizzato anche mediante concorso per omissione in condotte commissive (cfr.: Sez. 3, n. 47968 del 14/09/2016, D’A., Rv. 268496; Sez. 6, n. 3965 del 17/10/1994, Fiorillo, Rv. 199476 e 199477; Sez. 6, n. 394 del 30/05/1990, dep. 1991, Cosco, Rv. 186202 e 186205). Nell’ambito di questo orientamento, si è pure evidenziato che il delitto di maltrattamenti per omissione può verificarsi all’interno di una struttura di pubblica assistenza (così Sez. 6, n. 39655 del 1994, cit., nonché Sez. 6, n. 394 del 1991, cit.) ed è configurabile anche in assenza di un rapporto diretto tra reo e vittima (per questa precisazione, v. Sez. 6, n. 39655 del 1994, cit.).
Occorre poi precisare che l’elemento soggettivo richiesto per la configurabilità del reato di cuiall’art. 572 c.p., è costituito dal dolo generico, da ravvisarsi nella coscienza e nella volontà di sottoporre la persona di famiglia ad un’abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza (in questo senso è l’univoco orientamento giurisprudenziale; cfr., tra le decisioni specificamente massimate in proposito, Sez. 6, n. n. 15680 del 28/03/2012, F. Rv. 252586, e Sez. 6, n. 27048 del 18/03/2008, D.S., Rv. 240879). Sulla base di questa premessa, diventa irrilevante valutare le specifiche motivazioni che inducono l’agente ad assumere il comportamento rilevante: del resto, proprio sul presupposto della sufficienza del dolo generico, si è anche ritenuto che il reato di maltrattamenti in famiglia sia configurabile anche quando l’intento perseguito consiste nella volontà di agire esclusivamente per finalità educative (Sez. 6, n. 39927 del 22/09/2005, Agugliaro, Rv. 233478).
Né i motivi che orientano la volontà dell’agente diventano rilevanti quando il reato è commesso mediante omissione, stante l’assenza di puntuali disposizioni o di principi generali in tale senso.
In questo senso è costante l’orientamento della giurisprudenza, secondo la quale, anche per i reati imputati ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p., l’elemento psicologico si configura secondo i principi generali, sicché è sufficiente che il “garante” abbia conoscenza dei presupposti fattuali del dovere di attivarsi per impedire l’evento e si astenga, con coscienza e volontà, dall’attivarsi, con ciò volendo o prevedendo l’evento nei delitti dolosi ovvero provocandolo per negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme nei delitti colposi e nelle contravvenzioni in genere (così, per limitarsi a pronunce affermative di un principio di carattere generale, Sez. 3, n. 6208 del 09/04/1997, Ciciani, Rv. 208804); anzi, ancor più specificamente, si è osservato che, nei reati commissivi mediante omissione, la stessa consapevolezza del non porre in essere la condotta positiva richiesta, implica la volontà di non attivarsi nel modo richiesto e, quindi, di non fare ciò che si è tenuti a fare (così Sez. 1, n. 11322 del 22/09/1998, Aquino, Rv. 211597).
2.2. Per quanto concerne il secondo profilo, poi, la giurisprudenza, ad avviso del Collegio condivisibilmente, non esclude in linea di principio che il reato di omessa denuncia possa essere fonte di responsabilità civile, ma richiede che si accerti l’esistenza di un nesso causale tra l’inadempimento dell’obbligo ed il fatto dannoso, e che quest’ultimo si ponga come conseguenza immediata e diretta dell’illecito (cfr. Sez. 6, n. 11295 del 02/12/2014, dep. 2015, Vignati, Rv. 263170).
3. La sentenza impugnata svolge un’analisi articolata con riferimento alla ricostruzione del fatto, alla qualificazione giuridica dello stesso ed alle conseguenze civili al medesimo riferibili.
3.1. Con riguardo alla ricostruzione del fatto, si evidenzia, innanzitutto, che indiscutibili sono le plurime condotte “violente e fortemente vessatorie” poste in essere dalle educatrici M.M. e B.M. e dall’ausiliaria N.A. ai danni dei minori iscritti alla “Sezione Rossa” dell’asilo nido di (OMISSIS), anche strattonandoli, schiaffeggiandoli, colpendoli alla testa con corpi contundenti, coprendoli con coperte o cuscini fino ad impedirne una corretta respirazione, tirandoli per i capelli, sollevandoli bruscamente da terra.
Si rileva poi che l’imputata A., educatrice della contigua sezione del medesimo nido, non solo aveva omesso ogni denuncia alle autorità pubbliche, ma aveva anche negato espressamente di essere a conoscenza diretta o per sentito dire di tali episodi, anche dopo l’emersione del problema, davanti all’assessore comunale alle politiche sociali, alla dirigente dell’area servizi ed alla segretaria comunale, davanti ai quali era stata appositamente convocata.
Si osserva, inoltre, che la medesima donna aveva una “posizione di garanzia” in quanto “ricopriva in fatto il ruolo di referente del Comune all’interno del nido di (OMISSIS)”, e si relazionava con le autorità scolastiche e comunali rappresentando le esigenze della struttura e relazionando in ordine alle programmazioni educative della stessa. Si precisa, in dettaglio, che l’imputata, “alla stregua del regolamento dei servizi educativi deliberato nel 2005, era stata individuata in linea generale dall’ente territoriale come portavoce dell’asilo”, e, a partire dal 2010, allorché era rimasta l’unica educatrice dipendente del Comune, “si occupava quasi quotidianamente del raccordo con le autorità comunali, cui riferiva (sia di persone sia telefonicamente) in modo sintetico gli intenti educativi e le problematiche interne al gruppo educativo, tenendo la regia del gruppo”.
Si aggiunge, ancora, che “tutte le dipendenti del nido (ausiliarie ed educatrici) escusse in dibattimento” hanno riferito “di avere assistito per anni alle violenze perpetrate dalla M. e dalle altre educatrici della Sezione rossa” e “di avere più e più volte riportato tali fatti alla A.”. Si rappresenta, anzi, che l’imputata deve ritenersi aver assistito anche personalmente a tali condotte, sia perché alcune di queste avvenivano durante l’orario dei pasti, “quando ad esempio le coimputate costringevano i bimbi inappetenti a mangiare addirittura il proprio stesso vomito”, sia perché le grida provenivano da locali molto vicini, sia perché tutte le altre operatrici attive nella struttura si erano accorte di quanto sistematicamente accadeva nella stessa.
3.2. Relativamente alla qualificazione giuridica, la sentenza impugnata segnala, preliminarmente, che indiscutibile è la “volontà di omettere indebitamente la denuncia degli accadimenti che si verificavano ormai da molti e molti mesi all’interno dell’asilo di (OMISSIS)”.
Si rappresenta, però, che tale condotta integra gli estremi del delitto di omissione di denuncia, e non, invece, quelli del delitto di maltrattamenti in famiglia. Si precisa che alla configurabilità del reato di cuiall’art. 572 c.p., osta la ragione posta a base della decisione di tacere, “coniugabile con l’intento omertoso di tutelare prima di tutto se stessa, le proprie coadiutrici ed i minori a lei direttamente affidati, con buona pace dei danni contemporaneamente subiti dai piccoli delle altre sezioni, ma non certamente con la volontà di coadiuvare le illecite azioni delle colleghe, comunque da lei esplicitamente disapprovate e mai concretamente condivise, e rispetto alle cui condotte ella (con errore penalmente inescusabile) riteneva di avere scarsa possibilità di incidere”.
3.3. Per quanto concerne le conseguenze civili, la sentenza impugnata esclude il nesso eziologico tra la condotta e l’evento dannoso.
Si osserva che, muovendo anche dalla riqualificazione giuridica del fatto, “non può fondatamente sostenersi che i danni riportati dai minori in ragione del comportamento violento tenuto da M., B. e N. si sarebbero evitati completamente ove la A. avesse denunciato il comportamento stesso non appena venutane a conoscenza (…)”.
4. In considerazione dei principi giuridici richiamati e degli elementi fattuali esposti nella sentenza impugnata, erronea risulta la motivazione di essa sia con riguardo alla qualificazione giuridica del fatto, sia, in ogni caso, con riferimento alla esclusione del nesso eziologico tra la condotta omissiva comunque ascritta all’imputata ed il danno subito dai minori.
4.1. Per quanto attiene alla qualificazione giuridica del fatto, per escludere la sussistenza del reato di cuiall’art. 572 c.p., la sentenza impugnata ha valorizzato le motivazioni della condotta dell’imputata, in quanto costituite da un “intento omertoso di tutelare prima di tutto sé stessa, le proprie coadiutrici ed i minori a lei direttamente affidati” e non, invece, dalla “volontà di coadiuvare le illecite azioni delle colleghe”.
Tale profilo della motivazione, tuttavia, si pone in contrasto con i principi giuridici applicabili, secondo i quali, da un lato, è configurabile il concorso per omissione nella realizzazione del delitto di maltrattamenti in famiglia, e, dall’altro, ai fini dell’elemento psicologico necessario per l’integrazione della fattispecie di cuiall’art. 572 c.p., anche nella forma del concorso nel reato commissivo mediante omissione, è sufficiente il dolo generico, per la cui sussistenza sono irrilevanti i motivi.
Impropria, perciò, per escludere il reato di maltrattamenti in famiglia, è stata la valorizzazione dell’intento specificamente perseguito dall’imputata.
4.2. Con riferimento alla esclusione del nesso eziologico tra la condotta omissiva comunque ascritta all’imputata, anche a titolo di omessa denuncia exart. 361 c.p., e l’evento dannoso, la sentenza impugnata ha affermato che “non può fondatamente sostenersi che i danni riportati dai minori in ragione del comportamento violento tenuto da M., B. e N. si sarebbero evitati completamente ove la A. avesse denunciato il comportamento stesso non appena venutane a conoscenza (…)”.
Anche questo aspetto della motivazione risulta viziato. Da un lato, infatti, la conclusione secondo cui i danni riportati dai minori non sarebbero stati evitati in caso di denuncia è affermazione che non risulta supportata da alcun argomento, ed è, pertanto, indimostrata. Dall’altro, poi, affermare che, con la denuncia, i danni per i minori non si sarebbero evitati “completamente” significa riconoscere – in immediata contraddizione con la conclusione pienamente liberatoria in tema di responsabilità civile – che il comportamento omesso ha comunque spiegato, sia pure parzialmente, una efficacia eziologica diretta rispetto all’evento pregiudizievole.
5. In conclusione, posto che l’impugnazione è stata proposta esclusivamente da parti civili, la sentenza impugnata, fermi restandone gli effetti penali, deve essere annullata per nuovo giudizio davanti al giudice civile competente per valore in grado di appello, a normadell’art. 622 c.p.p..
Il nuovo giudizio dovrà in primo luogo procedere ad una corretta qualificazione giuridica del fatto in contestazione, tenendo conto dei principi precedentemente indicati in materia di configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia anche nella forma del concorso mediante omissione, e di dolo necessario ai fini dell’integrazione di tale fattispecie. In secondo luogo, poi, dovrà comunque valutare se, eventualmente anche solo in misura parziale, il fatto dannoso debba essere considerato come una conseguenza immediata e diretta della continuativa condotta omissiva dell’imputata.
P.Q.M.
Fermi gli effetti penali, in accoglimento del ricorso della parte civile, annulla la sentenza impugnata e rinvia al giudice civile competente per valore in grado di appello a normadell’art. 622 c.p.p..
Così deciso in Roma, il 1 febbraio 2018.
Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2018