La cessione a terzi di un immobile oggetto di agevolazione ‘prima casa’, in virtù di accordo di separazione omologata, non comporta la decadenza dal relativo beneficio. Risoluzione n. 80/E del 9 settembre 2019. Agenzia delle Entrate.

Risoluzione n. 80/E del 9 settembre 2019. Agenzia delle Entrate.
OGGETTO: Atto di separazione consensuale, articolo 19 legge n.74/1987 e agevolazioni ‘prima
casa’, nota II-bis, articolo 1, Tariffa, Parte I, DPR n. 131/1986
QUESITO
L’istante fa presente di aver acquistato insieme al coniuge, in data 25 giugno 2015, un immobile
abitativo sito in XXX, usufruendo dell’agevolazione ‘prima casa’, prevista dall’articolo 1 della
Tariffa, Parte prima, Nota II-bis, allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131.
In data 7 marzo 2018, l’istante si è separata consensualmente dal coniuge, come da verbale di
separazione, omologato dal Tribunale di XXX.
Tra le clausole dell’accordo di separazione è compresa la messa in vendita, prima della decorrenza
dei 5 anni dall’acquisto, della suddetta abitazione familiare, con ripartizione tra i coniugi del
ricavato nella misura del 50 per cento ciascuno.
Premesso che l’abitazione in questione è stata ceduta a terzi, con atto di compravendita del 5 giugno
2018 (registrato con applicazione delle imposte di registro, ipotecaria e catastale nella misura
prevista per gli atti di trasferimento della ‘prima casa’) e che l’interpellante non è nella possibilità
economica di acquistare una nuova abitazione entro un anno dalla cessione, l’istante chiede di
conoscere se detta cessione a terzi, in esecuzione di una clausola inserita nell’accordo di
separazione, comporti la decadenza dalle agevolazioni ‘prima casa’ fruite per l’acquisto del 2015.
L’interpellante ritiene di non decadere dalle agevolazioni ‘prima casa’ fruite, nella fattispecie
rappresentata.
A sostegno della propria tesi, richiama le disposizioni contenute nell’articolo 19 della legge 6 marzo
1987, n. 74, concernenti il regime di esenzione dalle imposte di bollo, di registro e da ogni altra
tassa, per gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di separazione o divorzio, la
cui ratio sarebbe di agevolare la sistemazione dei rapporti patrimoniali tra coniugi a seguito della
separazione o del divorzio, nonché il recente orientamento della Corte di Cassazione contenuta
nell’ordinanza n. 7966 del 21 marzo 2019.
Sulla base di tali argomentazioni, l’istante sostiene la non decadenza dal beneficio fiscale anche
nelle ipotesi di cessione a terzi dell’immobile con ripartizione del ricavato tra i coniugi.
PARERE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE
Le agevolazioni ‘prima casa’ sono disciplinate dalla Nota II-bis, posta in calce all’articolo 1 della
Tariffa, Parte prima, allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (TUR).
Ai fini in esame, appare opportuno richiamare le disposizioni contenute nel punto 4) della citata
Nota II-bis, secondo cui “4. In caso di dichiarazione mendace o di trasferimento per atto a titolo
oneroso o gratuito degli immobili acquistati con i benefici di cui al presente articolo prima del
decorso del termine di cinque anni dalla data del loro acquisto, sono dovute le imposte di registro,
ipotecaria e catastale nella misura ordinaria, nonché’ una sovrattassa pari al 30 per cento delle
stesse imposte. Se si tratta di cessioni soggette all’imposta sul valore aggiunto, l’ufficio dell’Agenzia
delle entrate presso cui sono stati registrati i relativi atti deve recuperare nei confronti degli
acquirenti la differenza fra l’imposta calcolata in base all’aliquota applicabile in assenza di
agevolazioni e quella risultante dall’applicazione dell’aliquota agevolata, nonché irrogare la
sanzione amministrativa, pari al 30 per cento della differenza medesima. Sono dovuti gli interessi
di mora di cui al comma 4 dell’articolo 55 del presente testo unico. Le predette disposizioni non si
applicano nel caso in cui il contribuente, entro un anno dall’alienazione dell’immobile acquistato
con i benefici di cui al presente articolo, proceda all’acquisto di altro immobile da adibire a
propria abitazione principale”.
1
Dunque, in linea generale, nel caso in cui si trasferisca nel quinquennio l’immobile acquistato con
le agevolazioni ‘prima casa’ e non si proceda all’acquisto entro l’anno di un nuovo immobile, da
destinare ad abitazione principale, si verifica la decadenza dall’agevolazione fruita.
Con riferimento alle disposizioni agevolative previste per i casi di divorzio o di separazione,
l’articolo 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (‘Nuove norme sulla disciplina di casi di scioglimento
del matrimonio’) prevede che “Tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al
procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio
nonché ai procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti ad ottenere la corresponsione o la
revisione degli assegni di cui agli artt. 5 e 6 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, sono esenti
dall’imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa”.
Le agevolazioni di cui alla citata legge n. 74 del 1987 sono applicabili anche nell’ambito dei
procedimenti di separazione, come sancito dalla Corte Costituzionale con sentenza del 10 maggio
1999, n. 154.
Con l’ordinanza del 21 settembre 2017, n. 22023, la Corte di Cassazione ha affermato che, con
l’esenzione in parola il legislatore ha inteso favorire gli “atti e convenzioni che i coniugi, nel
momento della crisi matrimoniale, pongono in essere nell’intento di regolare sotto il controllo del
giudice i loro rapporti patrimoniali conseguenti alla separazione o divorzio, ivi compresi gli
accordi che contengono il riconoscimento o il trasferimento della proprietà esclusiva di beni
immobili all’uno o all’altro coniuge.” Ciò, al fine “di favorire e promuovere, nel più breve tempo,
una soluzione idonea a garantire l’adempimento delle obbligazioni che gravano sui coniugi” (ex
plurimis Corte di Cassazione 22 maggio 2002, n. 7493 e Cassazione 17 febbraio 2001, n. 2347).
Per quanto riguarda, inoltre, il quesito relativo alla decadenza dalle agevolazioni ‘prima casa’ fruite
per l’acquisto dell’immobile, trasferito nel quinquennio all’altro coniuge per effetto di un accordo di
separazione, la Corte di Cassazione, con sentenza 29 marzo 2017, n. 8104, stante la ratio della
norma di cui al citato articolo 19 della legge n. 74 del 1987, ha stabilito che “non può farsi derivare
la decadenza dell’agevolazione connessa all’acquisto di un immobile dalla cessione di esso al
coniuge in sede di separazione”.
In tal senso, inoltre, la Corte di Cassazione con ordinanza 18 febbraio 2014, n. 3753 ha chiarito che
“L’attribuzione al coniuge della casa coniugale in adempimento di una condizione inserita
nell’atto di separazione consensuale, non costituisce, infatti, una forma di alienazione
dell’immobile rilevante ai fini della decadenza dei benefici prima casa; bensì una forma di
utilizzazione dello stesso ai fini della migliore sistemazione dei rapporti tra i coniugi, sia pure al
venir meno della loro convivenza (e proprio in vista della cessazione della convivenza stessa)”.
Sul punto, con la recente ordinanza del 21 marzo 2019, n. 7966, la medesima Corte ha ulteriormente
chiarito che “4.2. orbene, ritiene il collegio che il principio espresso da Cass. n. 2111 del 2016 con
riferimento ad un trasferimento immobiliare avvenuto all’interno del nucleo familiare è di portata
assolutamente generale e, dunque, non può non estendersi anche all’ipotesi per cui è causa, nella
quale i coniugi si sono determinati, in sede di accordi conseguenti alla separazione personale, a
trasferire l’immobile acquistato con le agevolazioni per la prima casa ad un terzo; 4.2.1. ed, infatti:
a) la legge n. 74 del 1987, articolo 19, dispone in via assolutamente generale l’esenzione
dall’imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa degli atti stipulati in conseguenza del
procedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio e, a seguito di Corte Cost. n. 154 del
1999, anche del procedimento di separazione personale tra coniugi, senza alcuna distinzione tra
atti eseguiti all’interno della famiglia e atti eseguiti nei confronti di terzi; b) la ratio della
menzionata disposizione è senza dubbio quella di agevolare la sistemazione dei rapporti
patrimoniali tra coniugi a seguito della separazione o del divorzio; c) recuperare l’imposta in
conseguenza della inapplicabilità dell’agevolazione fiscale sulla prima casa da parte dell’Erario
significherebbe sostanzialmente imporre una nuova imposta su di un trasferimento immobiliare
avvenuto in esecuzione dell’accordo tra i coniugi e, pertanto, andare palesemente in senso
contrario alla ratio della disposizione, così come definita sub b)”.
Alla luce di quanto precede, in linea con la ratio dell’art. 19 (volto a favorire gli atti e le
convenzioni “che i coniugi, nel momento della crisi matrimoniale, pongono in essere nell’intento di
regolare sotto il controllo del giudice i loro rapporti patrimoniali conseguenti alla separazione o
divorzio”), si ritiene che la cessione a terzi di un immobile oggetto di agevolazione ‘prima casa’, in
virtù di clausole contenute in un accordo di separazione omologato dal giudice, finalizzato alla
risoluzione della crisi coniugale (come nel caso di specie), non comporta la decadenza dal relativo
beneficio.
In tal senso, si possono ritenere superati i chiarimenti forniti con la circolare21 giugno 2012, n. 27/E
(par. 2.2) nella parte in cui si esaminano le conseguenze fiscali, in materia di decadenza
dell’agevolazione ‘prima casa’, nell’ipotesi di cessione dell’immobile a terzi.
***
Le Direzioni regionali vigileranno affinché i principi enunciati e le istruzioni fornite con la presente
risoluzione vengano puntualmente osservati dalle Direzioni provinciali e dagli Uffici dipendenti.
IL DIRETTORE CENTRALE

La casa della ex suocera va restituita, se si è acquistata altra abitazione con il nuovo compagno

Cass. civ. Sez. III, Ord., 29 agosto 2019, n. 21785 – Pres. Travaglino, Cons. Rel. Moscarini
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –
Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –
Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –
Dott. MOSCARINI Anna – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 27619-2016 proposto da:
L.F., elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO TRIESTE, 149, presso lo studio
dell’avvocato ALESSANDRO MARIA DE ANGELIS, rappresentata e difesa
dall’avvocato LUCA SBARDELLA;
– ricorrente –
contro
M.B., assistita dall’amministratore di sostegno F.M., domiciliata ex lege in ROMA,
presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e
difesa dagli avvocati AURELIO PUGLIESE, MARCO FRANCESCO ANGELETTI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 528/2015 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata
il 29/10/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/02/2019 dal
Consigliere Dott. ANNA MOSCARINI;
lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale
Dott. MATERA Marcello che ha chiesto che la Corte di Cassazione respinga il
ricorso di L.F.;
Svolgimento del processo
M.B. presentò ricorso ex art. 447 bis c.p.c. rappresentando di aver concesso in
comodato gratuito al figlio F.M., e alla convivente more uxorio L.F., un appartamento
sito in Trevi di sua proprietà senza alcun termine di durata per soddisfare le esigenze
abitative della famiglia di fatto; che la convivenza era cessata per avere la L. stretto
una relazione con un’altra persona e per aver la medesima acquistato un’altra casa in
comproprietà col nuovo compagno, detenendo l’immobile ricevuto in comodato solo
di notte; che, nel frattempo, ad essa comodante era sopravvenuto un urgente ed
imprevedibile bisogno abitativo. Sulla base di questi presupposti chiese al Tribunale
di Spoleto che ordinasse a L.F. il rilascio dell’immobile.
Il Tribunale di Spoleto, con sentenza del 21/11/2013, rigettò la domanda, ritenendo
insussistenti i presupposti per il rilascio dell’appartamento ad nutum non essendo
venuta meno la destinazione dell’abitazione a casa familiare e non risultando provato
l’urgente ed imprevedibile bisogno della comodante.
La Corte d’Appello di Perugia, adita dalla M., con sentenza n. 582 del 29/10/2015,
per quel che ancora di interesse in questa sede, accolto l’appello, prendendo solo
apparentemente le distanze dalla giurisprudenza di questa Corte, anche a Sezioni
Unite (SU n. 13063/04 e 20448/14) secondo la quale il comodato, concesso ad un
nucleo familiare, non è recedibile ad nutum avendo una durata funzionalmente legata
alla permanenza della famiglia pur se in crisi; ha ritenuto che, in mancanza di un
termine, il medesimo debba essere stabilito, in applicazione dei principi di buona fede
nell’esecuzione del contratto, con riguardo al momento in cui la coppia raggiunga una
condizione economica adeguata e sufficiente per provvedere all’abitazione familiare
in modo autonomo, di guisa da potersi configurare il diritto del comodante alla
restituzione ad nutum ex art. 1810 c.c., secondo quanto previsto anche dalla
giurisprudenza di questa Corte (Cass., n. 15877 del 2013). Ciò anche alla luce
dell’uso puramente strumentale, di notte, dell’abitazione da parte della L. che aveva,
nel frattempo, non solo interrotto la convivenza con il figlio della M. ma aveva altresì
acquistato un’altra casa con un nuovo compagno continuando a detenere quella data
in comodato solo strumentalmente di notte, ed in ragione del lungo lasso di tempo
intercorso (17 anni) dall’inizio del comodato. La conclusione dell’impugnata sentenza
è che la comodante avesse diritto alla restituzione dell’immobile senza alcun onere di
giustificazione ai sensi dell’art. 1809 c.c., comma 2. In accoglimento dell’appello la
Corte di merito ha condannato la L. al rilascio dell’immobile in favore di M.B.,
compensando integralmente tra le parti le spese dei due gradi di giudizio.
Avverso la sentenza L.F. propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.
M.B. resiste con controricorso, illustrato da memoria. Il P.G. ha depositato proprie
conclusioni scritte nel senso del rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
1.Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione
degli artt. 1809 e 1810 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma n. 3, per avere la
Corte d’Appello di Perugia ritenuto che il contratto di comodato intercorrente tra le
parti in causa, pur essendo volto a soddisfare le esigenze della famiglia di fatto,
dovesse essere ascritto al genus del contratto di comodato precario, con la
conseguente possibilità per il comodante di esigere la restituzione del bene ad nutum.
Questa tesi contrasterebbe con la giurisprudenza consolidata di questa Corte che
esclude, nel caso di comodato concesso per l’abitazione di un nucleo familiare, la
possibilità del recesso ad nutum.
Il motivo è fondato, sebbene ciò non consenta di pervenire ad una decisione di
accoglimento del ricorso perchè la sentenza si basa su più rationes decidendi, alcune
delle quali resistono ai motivi di ricorso.
Il comodato avente finalità di tutela delle esigenze abitative familiari è stato
equiparato al comodato a tempo indeterminato, a condizione che siano tutelate le
superiori esigenze della famiglia anche di fatto (Cass., U, n. 13603 del 217/2004;
Cass., 1, n. 16769 del 2/10/2012; Cass., 3, n. 13592 del 21/6/2011). Questo indirizzo
giurisprudenziale appare nel tempo mitigato dall’esigenza di valutare, fattispecie per
fattispecie, i singoli interessi in effetti in contrasto, ed in alcuni casi il tralatizio
orientamento che vede il collegamento del comodato alle esigenze della famiglia è
stato rivisto alla luce della scomposizione dell’originario nucleo familiare e della
possibilità che se ne crei uno nuovo. In tutti i casi in cui venga meno la destinazione
del comodato ad abitazione familiare per esempio in coincidenza con una crisi
familiare, è stata riconosciuta la possibilità che il medesimo sia risolto ad nutum.
Ora nel caso in esame, per quanto la ratio decidendi, se correlata alla mera
funzionalizzazione del comodato alla tutela delle esigenze familiari, avrebbe potuto
condurre astrattamente all’accoglimento del motivo di ricorso, le caratteristiche
concrete del rapporto quali dedotte in giudizio fanno invece propendere per la
cessazione del comodato in ragione del venir meno della reale destinazione della casa
concessa alla L. per esigenze familiari. E’ pacifico e non contestato in giudizio che la
L. abbia ricreato un nuovo nucleo familiare con altra persona e con questa nuova
persona abbia anche acquistato un nuovo immobile nel quale ha trasferito la propria
casa. E’ altresì incontestato che, mentre nella nuova abitazione si svolge la vita
familiare della L. e della figlia, la vecchia abitazione sia rimasta occupata, a meri fini
strumentali, per evitare cioè una pronuncia di restituzione dell’immobile alla legittima
proprietaria, soltanto di notte. Da quanto esposto deriva che le esigenze connesse
all’uso familiare dell’immobile concesso in comodato sono certamente venute meno
(Cass., U n. 20448 del 29/9/2014), con la conseguente incensurabilità del capo di
sentenza che ha escluso la possibilità che il comodato duri fino al permanere delle
esigenze della famiglia e che ha richiesto al giudice di valutare, sulla base
dell’esecuzione in buona fede del contratto, quale debba essere il termine oltre il
quale la durata del comodato diventa priva di una causa apprezzabile e meritevole di
tutela secondo l’ordinamento giuridico. Nel caso di specie la sentenza ha
correttamente attribuito rilievo decisivo all’avvenuto acquisto di un nuovo immobile
da parte della L. con il nuovo compagno, il che implica logicamente la dissoluzione
del nucleo familiare beneficiario e l’obbligo di restituzione del bene. Dunque,
ancorchè astrattamente il primo motivo dovrebbe ritenersi fondato con assorbimento
del quarto, volto a denunciare l’omesso esame di un fatto decisivo ai sensi dell’art.
360 c.p.c., comma 1, n. 5 avente ad oggetto la valutazione della portata delle
dichiarazioni rese dalla M. sulla durata del contratto, essendo del tutto irrilevante
accertare se la M. avesse o meno confessato la durata “familiare” del contratto
medesimo, il ricorso merita comunque di essere rigettato.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione
degli artt. 2697 e 2727 c.c. per avere il giudice fondato il proprio convincimento su
presunzioni tratte da fatti ignoti per stabilire la fine della convivenza (miglioramento
della condizione economica e capacità di provvedere da sè alle proprie esigenze
abitative), con ciò violando le norme sulle presunzioni.
La ricorrente nega la sussistenza di una valida prova dei fatti affermati in sentenza,
ovvero che fosse stata convenuta la cessazione del comodato al raggiungimento di
una condizione economica adeguata e sufficiente per provvedere in modo autonomo
all’abitazione familiare e che la L. avesse acquistato una nuova casa con altro
compagno, dove di fatto aveva trasferito l’abitazione propria e della figlia,
continuando ad occupare strumentalmente di notte l’appartamento della M..
2.1 Il motivo non è fondato. La ratio decidendi che resiste all’impugnazione è quella
consistente nel presumere, dal fatto noto dell’avvenuto acquisto di un secondo
immobile da parte della L., fatto provato dall’istruttoria, che fossero venute meno le
ragioni di tutela del nucleo familiare connesse al comodato del bene di proprietà M.,
essendo verosimile che l’acquisto in comune da parte della nuova coppia di un bene
immobile da destinare a propria abitazione faccia ragionevolmente presumere
l’intenzione di abitare il nuovo appartamento, determinando la cessazione
dell’esigenza abitativa connessa al comodato. Se a ciò si aggiunge che la vita
quotidiana nella nuova abitazione e l’occupazione strumentale dell’immobile in
comodato erano fatti dedotti dalla M. e non contestati dalla L. in sede di merito e
perfino provati da F.M. sia con la propria testimonianza sia con le ricevute negative
dei consumi della casa data in comodato, di fatto non abitata, se ne desume come
correttamente statuito dall’impugnata sentenza, che il comodato era cessato perchè
era venuta meno la destinazione dell’immobile alle esigenze familiari ai sensi dell’art.
1809 c.c..
Questa ratio decidendi, cui fa in parte riferimento anche il terzo motivo del ricorso
che può ritenersi assorbito (violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto
ed il pronunciato e dello stesso diritto di difesa, per avere la Corte d’Appello di
Perugia fondato il proprio convincimento su allegazioni fattuali non contenute nel
ricorso introduttivo) resiste alle censure e fonda la decisione di rigetto del ricorso.
3.Con il quinto motivo denuncia la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. in relazione
all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 in merito alla compensazione integrale delle
spese di lite di entrambi i gradi di giudizio. Il motivo è inammissibile perchè la Corte
territoriale ha dato conto delle motivazioni della compensazione delle spese con
valutazione logicamente motivata ed insindacabile in questa sede. 4.
Conclusivamente il ricorso è rigettato e la ricorrente condannata alle spese del
giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare, in favore della resistente,
le spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 2.300 (oltre Euro 200 per
esborsi), oltre accessori di legge e spese generali al 15%. Dà atto, ai sensi del D.P.R.
n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1 bis dello
stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Terza Sezione Civile, il 12
febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2019

L’obbligo di contribuzione nei confronti dei figlio maggiorenne non rivive se lo stesso perde il lavoro.

Corte d’App. Napoli, Sez. Fam., Sent. 26 luglio 2019 n. 4058 – Pres. Cocchiara, Cons. est. Sensale
La Corte d’appello di Napoli
Sezione famiglia
in persona dei magistrati
dr. Alessandro Cocchiara – presidente
dr. Massimo Sensale – consigliere est.
dr. Geremia Casaburi – consigliere
ha emesso la seguente
S E N T E N Z A
nella causa iscritta al n. 5636/2018 RG, in materia di cessazione degli effetti civili
del matrimonio (appello contro Tribunale di Nola 8 agosto 2018 n. 1506), vertente
tra
Tizio, c.f. …, elettivamente domiciliato in… , presso lo studio dell’avv…. che lo
rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso in appello,
appellante / appellato incidentale
e
Caia, c.f. …, elettivamente domiciliata in …, nello studio dell’avv. …, che lo
rappresenta e difende giusta procura in atti,
appellato / appellante incidentale
con l’intervento del
Procuratore Generale in sede.
Conclusioni
Come da verbale del 27.02.19.
Ragioni di fatto e di diritto della decisione
1 ~ Con sentenza 8.08.2018 n. 1506, il Tribunale di Nola ha pronunciato la
cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto il 19.09.1987 da Tizio e
Caia; ha attribuito a Caia un assegno divorzile di € 100,00 mensili a carico di Tizio;
ha assegnato la casa coniugale in …(Na), Via …, a Caia, perché vi abiti con la
figlia …, maggiorenne ma non ancora economicamente autonoma; ha posto a carico
1
di Tizio un contributo al mantenimento della figlia … di € 300,00 mensili con
rivalutazione Istat e rimborso del 50% delle spese straordinarie (mediche non
mutuabili, universitarie, sportive), previamente concordate e documentate; ha
compensato le spese.
In motivazione, il Tribunale ha osservato che:
~ al figlio …, maggiorenne ed economicamente autosufficiente perché impiegato
nell’esercito (seppur a termine), nulla è più dovuto a titolo di mantenimento;
~ la figlia …, maggiorenne, è studentessa universitaria e vive con la madre;
~ Caia non lavora in quanto è stata licenziata nel 2012 da un impiego che
comunque le fruttava redditi mensili molto bassi; attualmente si dedica a saltuarie e
precarie attività lavorative che non le danno abbastanza per vivere; non ha
significative prospettive di trovare un impiego per l’età non più giovanile;
~ Tizio è pensionato con un emolumento da invalidità di € 256,00 al mese;
percepisce un canone di locazione di € 380,00 al mese da un immobile proveniente
dall’eredità paterna; è comproprietario di altri cespiti immobiliari privi di rendita; è
proprietario esclusivo della casa coniugale assegnata alla Iorio.
2 ~ Tizio ha proposto appello, chiedendo che sia revocato o ridotto l’assegno
divorzile a suo carico; che di conseguenza Caia sia condannata a restituire le
somme indebitamente percepite a tale titolo; che sia ridotto l’assegno per la
figlia …; che di conseguenza la Iorio sia condannata a restituire la differenza
indebitamente percepita; e sia condannata alle spese del doppio grado.
Sostiene in particolare che:
– la prova per testi articolata in primo grado e non ammessa dal Tribunale avrebbe
provato l’indipendenza economica di Caia;
– la sentenza di separazione (11.03.14) non aveva riconosciuto a Caia alcun assegno
di mantenimento pur considerata la lettera di licenziamento del 2012 già in quella
sede prodotta in giudizio;
– la lettera di licenziamento del 2012 dimostra che fino a quella data Caia ha
lavorato come addetta alle pulizie nel parco giochi Liberty, onde l’irrilevanza,
rispetto alla capacità lavorativa, di patologie pregresse, come l’intervento risolutivo
alla tiroide risalente al 1998;
– Caia continua a svolgere in nero il medesimo lavoro, come dimostrato dalle
deposizioni dei testi … e … nel giudizio di separazione e come correttamente
ritenuto nella sentenza di separazione;
– la domanda inoltrata all’INPS da Caia per il riconoscimento dell’invalidità civile
non dimostra l’allegata invalidità;
– la sentenza impugnata, in contraddizione con quella di separazione, che non aveva
riconosciuto a Caia alcun assegno, non tiene conto del sopravvenuto
peggioramento delle condizioni economiche di esso appellante, soggetto debole
della ex coppia coniugale, per condizione fisica e psichica derivata dall’incidente
del dicembre 2002 (duplice tentativo di suicidio, dapprima ingerendo farmaci e il
giorno dopo, ricoverato in clinica, lanciandosi dal quarto piano, con conseguente
perdita degli arti inferiori, onde la totale incapacità di lavoro e dipendenza
dall’assistenza morale e materiale dell’anziana madre);
– il Tribunale non avrebbe neppure considerato la revoca della pensione di
invalidità (di € 256,00 mensili) dal dicembre 2015, per il concorso di un reddito da
locazione (€ 280,00 mensili, come da contratto registrato), con obbligo di
restituzione all’INPS dei ratei percepiti dal gennaio 2014 per complessivi €
6.703,08;
2
– nella quantificazione dell’assegno, il Tribunale non avrebbe considerato che la ex
moglie, in quanto casalinga fino alla separazione di fatto del 2002, non aveva dato
alcun contributo alla formazione del patrimonio comune, derivante interamente
dall’attività di autotrasportatore di esso appellante;
– il Tribunale avrebbe omesso di pronunciarsi sulla domanda di riduzione del
contributo di mantenimento per la figlia ….
3 ~ Nel costituirsi in giudizio, Caia ha chiesto che l’appello di Tizio sia rigettato e
che, in accoglimento di appello incidentale, l’assegno divorzile sia elevato a €
300,00 mensili e sia posto a carico di Tizio un assegno di mantenimento di €
150,00 mensili per il figlio …, disoccupato e ritornato dalla madre dopo la ferma
militare di due anni. Con vittoria di spese.
A sostegno delle proprie conclusioni, Caia ha dedotto che:
– le patologie sofferte – “ipotiroidismo grave post chirurgico e post terapia
radiometabolica con controllo di patologia neoplastica di base; eco di controllo del
21.02.18 per il pregresso tumore alla tiroide operato, mammografia di controllo
(anche perché soggetto a rischio) prenotata il 21.02.18 e fissata per il 25.02.19
(oltre un anno), visita di controllo senologico prenotata il 21.02.18 e fissata per il
15.03.19 verbale di pronto soccorso del 5.06.18, con le successive visite sostenute
(rachialgia dorsale cervicalgia demineralizzazione diffusa delle ossa, etc.)” – le
impediscono di lavorare;
– l’apparente contraddizione con la sentenza di separazione deriva dal fatto che in
quella sede nessuna domanda di assegno di mantenimento aveva formulato;
– Tizio «non presenta allo stato alcun disturbo psicopatologico degno di nota,
essendo da lungo tempo in remissione il disturbo depressivo post traumatico da cui
in precedenza è stato affetto e che non ha caratteri di gravità e di abitualità; allo
stato e da lungo tempo non assume terapia farmacologica; è in grado di occuparsi
autonomamente della cura della propria persona della vita di relazione e della
gestione dei propri interessi patrimoniali» (così nel 2008 la dr.ssa …, CTU nel
giudizio di interdizione intentato nel 2003 da Caia e definito con sentenza di rigetto
del 2009);
– Tizio è proprietario esclusivo della casa coniugale, di un immobile locato al
canone di € 380,00 al mese e di una quota (2/3 : 4 fratelli) di quattro appartamenti,
di cui uno abitato dalla madre e altri tre locati a un canone che, per la sola quota
spettante a Tizio, ammonta a € 550,00 mensili;
– il figlio …. è disoccupato e perciò non economicamente autosufficiente.
4 ~ All’udienza del 27.02.19, sulle conclusioni riportate a verbale, la Corte ha
riservato la decisione.
5 ~ La Corte premette in diritto che, dopo Cass. 11504/2017, la giurisprudenza si
è poi attestata sul diverso orientamento espresso da Cass. SS.UU. 11 luglio 2018 n.
18287, secondo cui all’assegno di divorzio deve attribuirsi una funzione
assistenziale e, in pari misura, compensativa e perequativa; per cui, ai fini del
riconoscimento dell’assegno, si deve adottare un criterio composito che, alla luce
della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali,
dia particolare rilievo al contributo fornito dall’ex coniuge richiedente alla
formazione del patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del
matrimonio, alle potenzialità reddituali future e all’età dell’avente diritto; il
parametro così indicato si fonda sui principi costituzionali di pari dignità e di
solidarietà che permeano l’unione matrimoniale anche dopo lo scioglimento del
vincolo; la sentenza sottolinea infine che il contributo fornito alla conduzione della
3
vita familiare costituisce il frutto di decisioni comuni di entrambi i coniugi, libere e
responsabili, che possono incidere anche profondamente sul profilo economico
patrimoniale di ciascuno di essi dopo la fine dell’unione matrimoniale.
6 ~ Nel caso in esame, l’assegno divorzile non è dovuto perché:
– nessuna delle parti ha redditi sufficienti che consentano un esborso mensile in
favore dell’altra;
– è documentata la revoca della pensione di invalidità di Tizio (comunicazione
INPS del 31.10.15) a decorrere da gennaio 2014 e con obbligo di restituzione della
somma di € 6.703,08 indebitamente riscossa, onde sono palesemente errati i
riferimenti a tale reddito contenuti nella sentenza impugnata e negli atti difensivi in
appello di Caia;
– è documentato dal contratto di locazione in atti che l’immobile in …, Via …, frutta
a Tizio un canone mensile di € 280,00;
– non sono documentati altri redditi di Tizio;
– le condizioni di inabilità fisica di Tizio, conseguite al tentativo di suicidio, sono
molto più gravi di quelle di Caia, considerato che l’ipotiroidismo, ancorché grave,
si compensa pienamente con l’assunzione dell’ormone tiroideo e che le visite di
controllo elencate dalla Iorio, proprio perché fissate a distanza di un anno e più,
dimostrano l’inesistenza di patologie in fase acuta o comunque di situazioni
d’urgenza;
– lo squilibrio reddituale e patrimoniale tra le parti è adeguatamente perequato dal
godimento esclusivo da parte di Caia, quale assegnataria, della ex casa coniugale di
proprietà esclusiva di Tizio.
Deve dunque riformarsi la sentenza impugnata e respingersi l’originaria domanda
per l’attribuzione di un assegno divorzile.
Tuttavia le somme erogate a tale titolo in forza della sentenza di primo grado non
sono ripetibili perché si presume, anche per la loro modesta entità, che siano state
comunque destinate a soddisfare esigenze quotidiane di mantenimento.
Resta assorbito l’appello incidentale di Caia per l’aumento dell’assegno.
7 ~ L’età della figlia …, le sue esigenze sociali e di studio universitario non
consentono di ridurre il già risicato assegno di mantenimento posto a carico del
padre. Se la revoca della pensione di invalidità ha ridotto le sue entrate, è pur vero
che Tizio da un lato non è più tenuto a pagare l’assegno divorzile, dall’altro ha
l’onere di mettere a frutto, con i germani, la proprietà ereditata pro quota dal padre.
8 ~ È infondato l’appello incidentale di Caia per il riconoscimento di un assegno
di mantenimento per il figlio…, il quale, dopo due anni di ferma militare e di
allontanamento dalla casa familiare, vi è ritornato in attesa di un nuovo impegno
lavorativo. È pacifico in giurisprudenza che l’obbligo di mantenimento a carico del
genitore, una volta estinto per effetto del raggiungimento dell’indipendenza
economica del figlio, non rivive per il sopravvenuto stato di disoccupazione, salvo
gli obblighi alimentari, sussistendone i presupposti.
9 ~ La sentenza impugnata va dunque riformata nei limiti indicati. La
soccombenza parzialmente reciproca, avuto riguardo ai due gradi del giudizio,
giustifica l’integrale compensazione delle spese.
Sussistono i presupposti di cui all’articolo 13, comma 1 quater, del DPR 30
maggio 2002 n. 115, per il versamento, da parte dell’appellante incidentale Caia, di
un ulteriore importo a titolo di contributo unificato.
Per questi motivi
4
la Corte, definitivamente pronunciando sull’appello principale di Tizio e
sull’appello incidentale di Caia avverso la sentenza del Tribunale di Nola 8 agosto
2018 n. 1506, così provvede:
a) in parziale accoglimento dell’appello principale e in parziale riforma della
sentenza impugnata, per il resto confermata, rigetta l’originaria domanda di Caia
per l’attribuzione di un assegno divorzile;
b) rigetta l’appello incidentale di Caia;
c) dichiara compensate le spese di primo e secondo grado.
d) dà atto che sussistono i presupposti di cui all’articolo 13, comma 1 quater, del
DPR 30 maggio 2002 n°115, per il versamento, da parte dell’appellante incidentale
Caia, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato.
Così deciso in Napoli il 10 aprile 2019
Il consigliere est. Il presidente
(dr. Massimo Sensale) (dr. Alessandro Cocchiara)

L’accettazione tacita dell’eredità ex art. 476 c.c. può essere desunta anche da atti che siano al contempo fiscali e civili.

Tribunale di Agrigento, Sez. Civ., 24 giugno 2019
Il Tribunale di Agrigento, Sezione Civile, nella persona del Giudice Vincenza
Bennici, ha pronunciato la presente
SENTENZA
nel procedimento di primo grado iscritto al n. 249/2017 degli affari civili contenziosi
TRA
B.N. S.P.A. – GRUPPO B.P.V., in persona del legale rappresentante pro tempore,
C.F.:(…) (Avv. Roberto Gambino)
Attrice
E
C.A., nato a A. il (…), C.F. (…) (Avv. Davide Lo Giudice)
Convenuto
Oggetto: azione di accertamento della qualità di erede
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con ordinanza del 6 marzo 2015, resa nella procedura esecutiva n. 121/2012
promossa da B.N. spa, il G.E., rilevato che C.A. (debitore esecutato), con atto di
opposizione proposto nell’ambito di detta procedura, aveva dedotto la sua estraneità
ad essa, per non aver accettato l’eredità di C.S. e C.A. -cui appartenevano i beni
oggetto di esecuzione- e, anzi, di avervi rinunziato in data 13 maggio 2011, assegnava
termine di giorno 60 per la proposizione del giudizio di merito, volto a accettare la
qualità di erede di C..
Con atto di citazione notificato il 23 gennaio 2017, la banca attrice conveniva in
giudizio, innanzi a questo Tribunale, C.A. chiedendo di accertare la sua qualità di
erede di C.S. (nato a C. il (…) e ivi deceduto il 16.10.96) e di C.A. (nato a C. il 2.1.23
e deceduto il 30 marzo 2001).
Si costituiva in giudizio C.A., chiedendo il rigetto della domanda attorea.
Così brevemente delineata la res litigiosa, in via preliminare, deve rilevarsi
l’infondatezza dell’eccezione, sollevata dal convenuto nella comparsa conclusionale,
secondo cui il procedimento sarebbe interrotto stante che l’attrice sarebbe stata
coinvolta nella procedura di liquidazione coatta amministrativa che avrebbe
riguardato B.P.V. S.p.A. e di V.B. S.p.A. ora, a parte il rilievo che detta procedura,
stando alle prospettazioni del convenuto non riguarderebbe direttamente l’attrice,
bensì altri soggetti, deve osservarsi, in modo dirimente, che la dichiarazione, non
provenendo dal difensore della parte interessata, non può comportare l’interruzione
del processo. Tale regola, più volte confermata in giurisprudenza, è stata ribadita da
una recente pronuncia secondo cui “Qualora un evento interruttivo colpisca la parte
costituita in giudizio (nella specie: la messa in liquidazione coatta amministrativa
della parte) e tale evento non sia stato dichiarato dal suo procuratore lo stesso non è
idoneo a causare la interruzione del processo. La dichiarazione prevista dall’articolo
300 del codice di procedura civile, infatti, non può essere sostituita da informazioni o
comunicazioni di terzi. Trattasi, in particolare, di scelta di esclusiva spettanza del
patrono – legale, il quale può avere interesse a che il processo non venga interrotto,
con la conseguente efficacia della intervenuta statuizione nei confronti del proprio
assistito, che avrebbe potuto denunziare l’evento interruttivo” (Cassazione civile sez.
II, 20/06/2018, n.16280). Né può ritenersi che nel caso in esame trovi applicazione
analogica l’articolo 43 l. fall. stante il mancato richiamo di tale norma da parte
dell’art. 200 della stessa legge.
Va poi disattesa l’eccezione secondo cui B.N. sarebbe priva della legittimazione
attiva, per essere i crediti per cui è stata promossa l’esecuzione ceduti a B.P.V. S.p.A.
e di V.B. S.p.A, trattandosi di eccezione tardiva, proposta solo con la comparsa
conclusionale.
Priva di pregiò è anche l’eccezione secondo cui l’azione sarebbe stata introdotta oltre
il termine di 60 giorni assegnato dal G.E, risultando dagli atti che l’ordinanza datata 6
marzo 2015 è stata comunicata all’attore, con pec del 22.11.2016. Ebbene, essendo la
notifica della citazione avvenuta il 23 gennaio 2017, la domanda deve ritenersi
proposta nel termine assegnato dal Giudice.
Parimenti infondata è l’eccezione di difetto di integrità del contraddittorio perché
oltremodo generica, essendosi limitato il convenuto a dedurre che “Il presente atto,
poi, avrebbe dovuto essere notificato a tutti i controinteressati e non soltanto
all’odierno opponente!” senza indicare i soggetti litisconsorti necessari.
Nel merito, la domanda attorea è fondata, dovendosi ritenere che il convenuto abbia
accettato tacitamente, ex art. 476 c.c., l’eredità dei due de cuius.
È bene ricordare, in linea generale, che non qualunque atto compiuto dal chiamato
comporta l’acquisto dell’eredità, perché la norma in esame richiede la presenza di due
presupposti, e cioè che il chiamato effettui un atto che: 1) presuppone
necessariamente la sua volontà di accettare e che 2) non avrebbe il diritto di fare se
non nella qualità di erede.
L’accettazione tacita dell’eredità può desumersi, ex articolo 476 del c.c.,
dall’esplicazione di un’attività personale del chiamato con la quale venga posto in
essere un atto di gestione incompatibile con la volontà di rinunciare all’eredità e non
altrimenti giustificabile se non nell’assunzione della qualità di erede, cioè un
comportamento tale da presupporre necessariamente la volontà di accettare l’eredità,
secondo una valutazione obiettiva condotta alla stregua del comune modo di agire
d’una persona normale (Cass. civ. Sez. II, 27/06/2005, n. 13738).
La giurisprudenza si è sovente pronunciata sulla sussistenza o meno di una
accettazione tacita mettendo in evidenza l’importanza che assume la valutazione della
volontà del chiamato che pone in essere un comportamento incompatibile con la
volontà di rinunciare o concludente e significativo della volontà di accettare.
Nella casistica giurisprudenziale è stato è ritenuto solo un elemento indiziario
liberamente valutabile unitamente a altri elementi la presentazione della dichiarazione
di successione e il pagamento della relativa imposta (C. 10796/2009; C. 4783/2007;
C. 4756/1999; C. 2711/1996, conf. a C. 178/1996); mentre è stata considerata
accettazione tacita di eredità il comportamento del chiamato che ponga in essere non
solo atti di natura meramente fiscale, come la denuncia di successione, ma anche atti
al contempo fiscali e civili, come la voltura catastale che rileva non solo dal punto di
vista tributario ma anche sotto il profilo civile per l’accertamento, legale o
semplicemente materiale, della proprietà immobiliare e dei relativi passaggi:
“L’accettazione tacita di eredità, che si ha quando il chiamato all’eredità compie un
atto che presuppone la sua volontà di accettare e che non avrebbe diritto di compiere
se non nella qualità di erede, può essere desunta anche dal comportamento del
chiamato, che abbia posto in essere una serie di atti incompatibili con la volontà di
rinunciare o che siano concludenti e significativi della volontà di accettare; ne
consegue che, mentre sono inidonei allo scopo gli atti di natura meramente fiscale,
come la denuncia di successione, l’accettazione tacita può essere desunta dal
compimento di atti che siano al contempo fiscali e civili, come la voltura catastale,
che rileva non solo dal punto di vista tributario, ma anche da quello civile” (C.
10796/2009; C. 6574/2005; C. 5226/2002; T. Milano 29.11.2017). Si è ritenuta
configurata l’accettazione anche nell’ipotesi di ricorso alla commissione tributaria
contro l’avviso di accertamento (C. 4414/1999; C. 5463/1995; A. Roma 24.2.2012) o
l’agire in giudizio del figlio del defunto nei confronti del debitore del de cuius stesso
per il pagamento di quanto al medesimo dovuto (C. 16002/2008), la riassunzione del
processo da parte del figlio del de cuius (C. 8529/2013; C. 14081/2005), nonché la
proposizione di azioni di rivendica o di azioni dirette alla difesa della proprietà o alla
richiesta di danni per la mancata disponibilità dei beni ereditari, in quanto azioni che
travalicano il mero mantenimento dello stato di fatto esistente all’atto dell’apertura
della successione e la mera gestione conservativa dei beni compresi nell’asse ex art.
460 (C. 13738/2005; in senso conforme, C. 10060/2018). Così pure determina
accettazione tacita la partecipazione del chiamato, sia pure in contumacia, a due
giudizi di merito concernenti beni del de cuius, ciò anche nel caso in cui il chiamato
in fase di appello ed informalmente abbia dichiarato il proprio disinteresse per la lite,
trattandosi di comportamento inconciliabile con la tardiva rinuncia, condizionata
dall’esito della lite (C. 13384/2007). Lo stesso dicasi quando il chiamato all’eredità si
costituisca in giudizio, dichiarando la propria qualità di erede dell’originario debitore,
senza in alcun modo contestare l’effettiva assunzione di tale qualità ed il conseguente
difetto di titolarità passiva della pretesa; in questo modo, egli compie un’attività non
altrimenti giustificabile se non con la veste di erede (C. 1183/2017). Determinano
ancora accettazione tacita il conferimento di una procura per la vendita di beni
ereditari (C. 20699/2017; A. Torino 30.10.1989) o la domanda di divisione (C.
22288/2013) e l’adesione alla stessa da parte dei coeredi, ove concreti una vera
proposta negoziale e non anche se si traduca in generiche sollecitazioni (C.
1585/1987; T. Roma 20.4.2000), nonché la riscossione di un assegno rilasciato al de
cuius (C. 12327/1999). Allo stesso modo, è stata ravvisata un’accettazione tacita nella
riscossione dei canoni di locazione di un immobile ereditario (v. tra tutte, C.
2743/2014, secondo cui “la riscossione dei canoni di locazione è senz’altro idonea a
costituire accettazione tacita dell’eredità ex art. 476 c.c.: la riscossione dei crediti ha
valenza di atto dispositivo del patrimonio ereditario, non già di atto avente valenza
meramente conservativa”) e nella stipula di un contratto di locazione” (v. Tribunale
Roma, 15/02/2014).
Ebbene, nel caso in esame, emergono dagli atti una serie di elementi dai quali poter
desumere che il convenuto ha accettato l’eredità dei due de cuius in modo tacito, ex
art. 476 c.c.
Innanzitutto il fatto che alla denuncia di successione dei due de cuius (nella quale il
convenuto è indicato come erede) sia seguita la voltura catastale dell’intestazione
degli immobili appartenenti a C.A. e C.S. in favore del convenuto. Ancora, il fatto
non contestato e comunque risultante dalla perizia del ctu Arch. Luciano Montalbano,
espletata nella procedura esecutiva, che C. abbia concesso in locazione dei beni
ereditari appartenenti ai due de cuius a C.D.; inoltre, la circostanza che il convenuto,
con un atto di permuta abbia ceduto beni ereditari di C.A.; infine, il fatto che C.,
nell’atto di opposizione a pignoramento depositata il 20/4/2010 non abbia contestato
in alcun modo la sua qualità di erede in riferimento ai beni oggetto dell’azione
esecutiva.
Tutti i predetti elementi non possono che ritenersi indice della volontà di C. di
accettare le due eredità.
Va poi chiarito che, a fronte dell’avvenuta accettazione, nessuna efficacia può
spiegare la rinuncia effettuata da C. il 13 maggio 2011, in quanto il chiamato,
divenuto erede, non può più validamente dichiarare di voler rinunziare all’eredità
(TRIB. , Milano, 2002, 203). In giurisprudenza, infatti, è costantemente affermato che
tanto l’accettazione dell’eredità, sia pure con beneficio d’inventario (C. 7695/1992; T.
Lecco 19.3.1996), quanto l’acquisto automatico dell’eredità stessa, a termini dell’art.
485 (C. 25728/2007; C. 7076/1995; Comm. Trib. I g. Rimini 4.3.1996, n. 216),
comportando l’assunzione della qualità di erede, escludono in ogni caso
l’ammissibilità e l’efficacia di una eventuale e successiva dichiarazione di rinunzia
(Cass. civ. Sez. V Sent., 10/12/2007, n. 25728). Si è, peraltro, precisato che
l’inefficacia della dichiarazione di rinunzia può derivare solo dall’accettazione, sia
pure tacita, dell’eredità stessa: ne consegue la necessità del compimento di un atto di
gestione incompatibile con la volontà di rinunziare, ma al contrario implicante un
chiaro intento di accettazione (C. 13738/2005; C. 12753/1999; C. 8123/1987), quale
la richiesta di trascrizione a proprio nome degli immobili caduti in successione
(Comm. Trib. Centr. 10.3.1989, n. 1727).
Alla luce di quanto detto, ritenuto che il convenuto abbia posto in essere atti che
hanno manifestato in modo univoco la sua volontà di accettare, con conseguente
inefficacia della successiva rinuncia, la domanda attorea deve essere accolta.
Le spese di lite, liquidate come in parte dispositiva, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il Tribunale di Agrigento, definitivamente pronunciando, respinta ogni contraria
domanda, eccezione e difesa, così provvede:
dichiara che C.A., nato a A. il (…), è erede di C.S. (nato a C. il (…) e ivi deceduto il
16.10.96) e di C.A. (nato a C. il (…) e deceduto il 30 marzo 2001);
condanna il convenuto al rimborso in favore dell’attrice delle spese di lite che si
liquidano nella complessiva somma di Euro 3.599,00, di cui Euro 3.235,00, per
compenso di avvocato e Euro 364,00 per spese, oltre accessori di legge.
Così deciso in Agrigento, il 24 giugno 2019.
Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2019.

L’elevato squilibrio economico fra le parti non giustifica ex se il contributo economico all’ex coniuge.

Corte di Cassazione, 9 agosto 2019 n. 21234
Cass. civ. Sez. I, Sent., 09-08-2019, n. 21234
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIANCOLA Maria C. – Presidente –
Dott. LAMORGESE Antonio – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 18838/2018 proposto da:
avverso la sentenza n. 29/2018 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, pubblicata
il 05/04/2018;
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Genova, con sentenza del 5 aprile 2018, ha rigettato il
gravame di B.L. avverso l’impugnata sentenza che aveva posto a suo carico il
pagamento di un assegno divorzile di Euro 20000,00 mensili (lordi), in favore
dell’ex moglie Ba.Pa., sulla base delle seguenti circostanze: la Ba. aveva 54
anni circa, aveva abbandonato l’attività di igienista dentale da oltre 18 anni
dopo la nascita del figlio (per il quale il B. corrispondeva un contributo di Euro
5000,00 al mese), non svolgeva attività lavorativa e le possibilità di trovare un
nuovo lavoro erano molto scarse; era invalida e le sue condizioni di salute
erano precarie; il marito le aveva donato una villa a (OMISSIS), del valore di
Euro 750000,00, ma era una casa di vacanze inidonea a permetterle di vivere
autonomamente; l’appellante non aveva fornito prova di altre fonti di reddito
della Ba.; invece i redditi di B.L., amministratore delegato della ERG, erano
molto elevati, pari complessivamente a Euro 4.493.185,00 all’anno. Pertanto,
in considerazione della rilevante disparità della situazione economica delle parti
e della durata del matrimonio (oltre venti anni), l’attribuzione dell’assegno
nell’importo indicato era giustificato, essendo idoneo a consentire alla Ba. di
condurre una “esistenza dignitosa” e importando per il B. un sacrificio “non
particolarmente gravoso”.
Avverso questa sentenza B.L. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a
quattro motivi, cui si oppone la Ba.. Le parti hanno presentato memorie.
Motivi della decisione
1.- Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e
della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, per avere attribuito l’assegno
divorzile, senza che la Ba. avesse assolto all’onere di fornire prova
dell’impossibilità di trovare una occupazione lavorativa, non avendo nemmeno
allegato di avere cercato di reinserirsi nel mondo del lavoro come igienista
dentale, nè di essere inidonea all’attività lavorativa per motivi di salute e per
avere ritenuto che l’appellante non avesse provato ulteriori fonti di reddito
della Ba., con l’effetto di invertire il criterio legale dell’onere della prova,
essendo a carico del richiedente l’onere di provare di avere diritto all’assegno.
Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c.,
comma 2, n. 4 e art. 111 Cost., comma 6, per avere ritenuto apoditticamente
1
che la Ba. non potesse riprendere la sua precedente attività lavorativa, che
consisteva in una professione che implicava un’attività (di igienista dentale)
non soggetta a rapida obsolescenza; per avere fatto surrettizia applicazione del
criterio del tenore di vita matrimoniale, come si desumeva dal fatto che la
Corte d’appello aveva confermato la sentenza del Tribunale che esplicitamente
aveva fatto applicazione di quel criterio per l’attribuzione e la quantificazione
dell’assegno; per avere omesso di valutare il profilo dell’indipendenza
economica della Ba., concentrando l’attenzione soltanto sui redditi del B. (tra
l’altro sovrastimati) e omettendo di valutare se la richiedente versasse in una
situazione di impossibilità di condurre con i propri mezzi un’esistenza
economicamente autonoma e dignitosa.
Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 6,
cit., per avere determinato l’assegno in misura comunque ben superiore a
quella necessaria a mantenere inalterato il pregresso tenore di vita
matrimoniale e a garantire un livello di indipendenza economica adeguato a
uno standard di vita medio, per avere avuto riguardo alla posizione del coniuge
obbligato anzichè a quella del coniuge richiedente l’assegno, per avere
trascurato la rilevanza dell’attribuzione alla ex moglie di una casa di notevole
valore economico e di ulteriori elargizioni economiche, per avere utilizzato un
parametro sfornito di supporto normativo (quello della percentuale, ritenuta
modesta, di incidenza dell’assegno sul complessivo ammontare dei redditi
dell’obbligato) e per avere omesso di valutare lo scarso contributo personale e
patrimoniale dato dalla consorte al rapporto matrimoniale.
2.1.- I motivi in esame, da valutare congiuntamente, sono fondati nei termini
che si diranno.
2.2.- La L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, contiene un parametro – la
disponibilità di “mezzi adeguati” o “comunque (l’impossibilità di) procurarseli
per ragioni oggettive” – e alcuni criteri da utilizzare per l’attribuzione e la
determinazione dell’assegno divorzile a favore del coniuge richiedente: le
condizioni e i redditi dei coniugi, le ragioni della decisione, il contributo
personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla
formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune, tutti da valutare
anche in rapporto alla durata del matrimonio.
2.3.- La nozione di adeguatezza dei mezzi è stata intesa dalla giurisprudenza
tradizionale come finalizzata alla conservazione (tendenziale) del tenore di vita
matrimoniale, come desumibile dalle condizioni economiche del coniuge
destinatario della domanda, all’esito, in sostanza, del cosiddetto confronto
reddituale tra i coniugi al momento della decisione (a partire da Cass. SU n.
11490 e 11492 del 1990).
Sono note le numerose e fondate critiche al suddetto parametro che hanno
indotto la giurisprudenza a sostituirlo con quello, intrinsecamente inerente alla
nozione di adeguatezza dei mezzi, di indipendenza economica, intesa come
possibilità di vita dignitosa (Cass. n. 11504 del 2017): la Corte ha precisato
che “per determinare la soglia dell’indipendenza economica occorrerà avere
riguardo alle indicazioni provenienti, nel momento storico determinato, dalla
coscienza collettiva e, dunque, nè bloccata alla soglia della pura sopravvivenza
nè eccedente il livello della normalità” (Cass. n. 3015 del 2018).
2.4.- Il Collegio ritiene che questo esito interpretativo non sia stato sovvertito
2
dalle Sezioni Unite n. 18287 del 2018, ma solo in parte corretto, e che quindi si
debba ribadire, con le precisazioni che si faranno di seguito.
2.5.- Le Sezioni Unite hanno confermato che: a) il parametro (della
conservazione) del tenore di vita non ha più cittadinanza nel nostro sistema; b)
l’onere di provare l’esistenza delle condizioni legittimanti l’attribuzione e la
quantificazione dell’assegno grava sul coniuge richiedente l’assegno, mentre in
passato si poneva l’onere di provare l’insussistenza delle relative condizioni a
carico del coniuge potenzialmente obbligato; c) l’assegno svolge una finalità
(anche o principalmente) assistenziale.
Per altro verso, le Sezioni Unite hanno: a) evidenziato l’ulteriore e concorrente
finalità compensativa o perequativa dell’assegno, nei casi in cui vi sia la prova –
di cui è onerato il coniuge richiedente l’assegno, trattandosi di fatto costitutivo
del diritto azionato – che la sperequazione reddituale in essere all’epoca del
divorzio sia direttamente causata dalle scelte concordate di vita degli ex
coniugi, per effetto delle quali un coniuge abbia sacrificato le proprie
aspettative professionali e reddituali per dedicarsi interamente alla famiglia, in
tal modo contribuendo decisivamente alla conduzione familiare ed alla
formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune (da ultimo, Cass. n.
10781 e 10782 del 2019, n. 6386 del 2019); b) le Sezioni Unite non hanno
condiviso la rigida distinzione tra criteri di attribuzione (an debeatur) e di
quantificazione (quantum debeatur) dell’assegno, in tal modo innovando
rispetto al precedente orientamento consolidato, con l’effetto che per
l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e
dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, devono applicarsi i criteri
equiordinati di cui alla prima parte dell’art. 5, comma 6, al fine di decidere sia
sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno.
2.6.- Ad avviso del Collegio, risulta confermata la imprescindibile finalità
assistenziale dell’assegno, con la quale può concorrere, in determinati casi,
quella compensativa.
E’ sufficiente constatare che in tutti i casi in cui l’assegno non sia riconosciuto,
non ricorrendo in concreto le condizioni per valorizzare la ricordata funzione
compensativa. è perchè il coniuge richiedente, evidentemente, si trova in
condizioni di “autosufficienza economica” (cfr. Cass. n. 6386 del 2019).
L’esistenza di un obbligo di pagamento dell’assegno implica un perdurante
legame di dipendenza (economica) tra gli ex coniugi che non c’è quando detto
obbligo non sussista, cioè quando (e proprio perchè) entrambi sono
“indipendenti economicamente”.
E’ opportuno precisare che l’assegno non è comunque dovuto qualora entrambi
i coniugi non abbiano mezzi propri adeguati per vivere dignitosamente, pure in
presenza di un relativo squilibrio delle rispettive condizioni reddituali e
patrimoniali.
2.7.- La funzione assistenziale dell’assegno, come si è detto, può anche
concorrere con (o essere assorbita dalla) funzione compensativa-perequativa,
a determinate condizioni, entrambe costituenti espressione della solidarietà
post-coniugale valorizzata dalle Sezioni Unite.
Il parametro della (in)adeguatezza dei mezzi o della (im)possibilità di
procurarseli per ragioni oggettive va quindi riferito sia alla possibilità di vivere
autonomamente e dignitosamente (e, quindi, all’esigenza di garantire detta
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possibilità al coniuge richiedente), sia all’esigenza compensativa del coniuge
più debole per le aspettative professionali sacrificate, per avere dato, in base
ad accordo con l’altro coniuge, un dimostrato e decisivo contributo alla
formazione del patrimonio comune e dell’altro coniuge.
La suddetta valutazione, da operare con riferimento ai criteri indicati dalla
norma (art. 5, comma 6), tra i quali la durata del matrimonio, deve tenere
conto delle predette esigenze che integrano il parametro dell’adeguatezza, con
effetti sul piano anche della quantificazione dell’assegno in concreto.
2.8.- Nell’ambito di questo accertamento, lo squilibrio economico tra le parti e
l’alto livello reddituale del coniuge destinatario della domanda non
costituiscono, da soli, elementi decisivi per l’attribuzione e la quantificazione
dell’assegno.
Il mero dato della differenza reddituale tra i coniugi è coessenziale alla
ricostituzione del tenore di vita matrimoniale, che è però estranea alle finalità
dell’assegno nel mutato contesto.
L’attribuzione e la quantificazione dello stesso non sono variabili dipendenti
soltanto dall’alto (o dal più alto) livello reddituale di uno degli ex coniugi, non
trovando alcuna giustificazione l’idea che quest’ultimo sia comunque tenuto a
corrispondere all’altro tutto quanto sia per lui “sostenibile” o “sopportabile”,
quasi ad evocare un prelievo forzoso in misura proporzionale ai suoi redditi.
Un esito interpretativo di questo genere si risolverebbe in una imposizione
patrimoniale priva di causa, che sarebbe arduo giustificare in nome della
solidarietà post-coniugale.
2.9.- Non varrebbe evocare in senso contrario l’esigenza (che si assume
inerente all’assegno divorzile) “riequilibratrice” delle condizioni reddituali degli
ex coniugi, la quale non trova una specifica conferma come funzione autonoma
dell’istituto nel testo della norma (art. 5, comma 6, cit.). La suddetta esigenza
era coerente, piuttosto, nella diversa prospettiva della conservazione del tenore
di vita matrimoniale, rispetto alla quale il riequilibrio dei redditi costituiva
l’esito finale di quel confronto reddituale che costituiva il fulcro di ogni
valutazione in ordine alla attribuzione e quantificazione dell’assegno.
E tuttavia, una volta superata la suddetta prospettiva, il (parziale) riequilibrio
dei redditi altro non è che l’effetto pratico dell’imposizione patrimoniale
realizzata con l’attribuzione dell’assegno alle condizioni date (non indipendenza
economica e/o necessità di compensazione del particolare contributo dato da
un coniuge durante la vita matrimoniale).
3.- Nella specie, la ratio decidendi posta a fondamento della decisione, con la
quale la Corte genovese ha riconosciuto alla Ba. un assegno mensile di Euro
20000,00 (lordi), ritenuto adeguato a consentirle di “condurre una esistenza
dignitosa”, si articola nei seguenti passaggi argomentativi: a) vi è una
“rilevante disparità della situazione economica delle parti”, essendo il B. un
top-manager e titolare di redditi estremamente elevati, sui quali l’incidenza di
detto assegno sarebbe percentualmente irrisoria (intorno al cinque per cento),
sicchè il relativo onere economico sarebbe per lui sopportabile; b) la Ba. aveva
abbandonato il lavoro di igienista dentale per dedicarsi alla famiglia e non
potrebbe agevolmente riprenderlo nè trovare una utile collocazione nel mondo
del lavoro, in considerazione della sua età (oggi di 55 anni) e delle sue non
buone condizioni di salute; c) il marito aveva acquistato per la Ba. una villa del
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valore di Euro 750000,00 che però costituiva casa per le vacanze; e) il B. non
aveva dimostrato ulteriori fonti di reddito della Ba.; d) il matrimonio era durato
venti anni.
3.1.- La suddetta ratio, in parte, contrasta con i principi che regolano la
materia, come forgiati nella richiamata giurisprudenza di legittimità, ed è
anche affetta da motivazione apparente, quindi al di sotto del minimo
costituzionale e censurabile, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
La Corte di merito ha affermato di voler fare applicazione del parametro della
adeguatezza dei mezzi con riferimento al canone della “esistenza dignitosa”,
richiamando la sentenza n. 11504 del 2017, ma in realtà ha fatto surrettizia
applicazione del parametro, ormai superato anche dopo l’intervento delle SU
del 2018, della conservazione del tenore di vita matrimoniale, avendo
confermato il medesimo importo che il giudice di primo grado aveva disposto
con riferimento esplicito al tenore di vita.
La Corte, inoltre, rilevando che il B. non ha dimostrato le fonti di reddito della
controparte, è incorsa in violazione dei principi in tema di riparto dell’onere
della prova, essendo a carico del richiedente l’assegno l’onere di dimostrare la
mancanza di mezzi adeguati “o comunque (l’impossibilità di) procurarseli per
ragioni oggettive” (art. 5, comma 6).
Se è vero che l’assegno può essere attribuito anche solo per finalità di tipo
compensativo, avendo la Ba. rinunciato alla sua attività professionale per
dedicarsi alla famiglia, è tuttavia da escludere che la quantificazione
dell’assegno possa consistere in una percentuale dei redditi del coniuge più
abbiente – come invece accaduto nella specie -, dovendo parametrarsi al
contributo personale dato alla formazione del patrimonio comune e dell’altro
coniuge e alle esigenze di vita dignitosa del coniuge richiedente.
La sentenza impugnata ha apoditticamente escluso ogni rilevanza
all’attribuzione in favore della Ba. di un immobile del valore di Euro 750000,00
e, pur riferendo di una erogazione di Euro 600000,00 effettuata dal B., non ha
chiarito se detta somma sia servita per acquistare la suddetta villa o le sia
stata data in aggiunta, omissione questa che rende la motivazione apparente
su un punto potenzialmente decisivo, ai fini del’a ricostruzione delle
disponibilità e, quindi, dell’adeguatezza dei mezzi della Ba..
4.- Il quarto motivo è inammissibile per difetto di interesse: il ricorrente ha
imputato alla Corte cenovese di avere esaminato nel merito l’appello
incidentale della Ba., il quale tuttavia è stato rigettato.
5.- In conclusione, la sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte
d’appello di Genova per un nuovo esame, alla luce dei principi indicati, e per
provvedere sulle spese della presente fase.
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi tre motivi del ricorso e dichiara inammissibile il
quarto; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Genova, in
diversa composizione, anche per le spese.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli
altri dati identificativi.
Così deciso in Roma, il 4 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2019

L’inizio di un’attività lavorativa e la capacità di produrre reddito escludono il mantenimento per il figlio maggiorenne; la successiva perdita dell’occupazione non comporta la reviviscenza dell’obbligo del genitore al mantenimento

Cass. civ. Sez. VI – 1, 22 luglio 2019, n. 19696
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
C.G., elettivamente domiciliato in Roma, via del Tintoretto 88, presso lo studio dell’avv. Katia De Nicola, rappresentato e difeso, per procura speciale allegata al ricorso dall’avv. Sergio Perotta, (p.e.c. sergio.perotta.avvocatiavellinopec.it; fax n. 0825/23273); – ricorrente –
nei confronti di:
T.P., domiciliata in Roma, via Montello 30, presso lo studio dell’avv. Giulia De Virgilio Vicenzi, rappresentata e difesa, per procura speciale allegata al controricorso, dall’avv. Alfredo Giannella (p.e.c. alfredo.giannella.avvocatiaveltinopec.it, fax 0825/760763);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 542/2017 della Corte di appello di Napoli emessa il 2 novembre 2016 e depositata il 6 febbraio 2017, R.G. n. 2766/2015;
sentita la relazione in camera di consiglio del relatore cons. Giacinto Bisogni.
Svolgimento del processo
CHE:
1. Il Tribunale di Avellino, con sentenza n. 9/2015, ha pronunciato la separazione personale dei coniugi T.P. e C.G., con addebito della separazione a carico di quest’ultimo e rigetto della sua domanda di addebito. Il Tribunale ha revocato l’obbligo di mantenimento a favore dei figli gravante sul sig. C. rilevando che entrambi i figli ormai maggiorenni avevano iniziato a lavorare e avevano dimostrato la capacità di produrre reddito. Ha revocato in conseguenza dell’accertamento della acquisita indipendenza economica la assegnazione della casa familiare alla sig.ra T..
2. Ha proposto appello la sig.ra T. rilevando che il percepimento di reddito relativo agli anni 2008 e 2009 da parte del figlio minore, C., nato nel 1985 non giustifica la revoca dell’assegno di mantenimento dato che negli anni successivi sino al 2013 egli ha percepito redditi di molto inferiori o praticamente inesistenti.
Quanto al figlio maggiore, N., nato nel 1978, l’appellante ha rilevato che non aveva ancora completato la sua formazione professionale e ha affermato che lo svolgimento di attività occasionale di tecnico del suono in occasione di concerti estivi non poteva considerarsi circostanza idonea al raggiungimento di una situazione di autosufficienza economica. L’appellante ha poi rilevato che il mancato raggiungimento di una condizione di indipendenza economica non era imputabile a rifiuto del lavoro o negligenza nella ricerca di una occupazione da parte dei figli. Ha chiesto pertanto il ripristino dell’obbligo di contribuzione al mantenimento dei figli nella misura di 150 Euro mensili per ciascun figlio e dell’assegnazione della casa familiare nonchè la revoca, disposta dal provvedimento impugnato, del dissequestro di beni immobili del C. fino alla concorrenza dell’importo di 50.000 Euro conseguente al mancato pagamento dell’assegno di mantenimento. Ha chiesto altresì l’imposizione al C. di un assegno mensile (pari a 300 Euro) di mantenimento in suo favore a causa delle ripercussioni negative della revoca della assegnazione della casa familiare in cui era ubicato il locale in cui esercitava l’attività di parrucchiera.
3. La Corte di Appello di Napoli con sentenza n. 542/2017 ha accolto l’appello della sig.ra T. e respinto l’appello incidentale del sig. C. di revoca della dichiarazione di addebito della separazione a suo carico. Quanto alla motivazione della statuizione relativa al mantenimento dei figli la Corte di appello ha rilevato che non risulta provata l’acquisizione di una condizione di autosufficienza nè la responsabilità dei figli per tale mancata acquisizione.
4. Avverso la sentenza della Corte d’appello il ricorrente propone ricorso per cassazione, illustrato con memoria difensiva e affidato a due motivi con i quali deduce l’omesso esame di un fatto decisivo e la violazione dell’art. 316 bis c.c. Il ricorrente rileva che già all’udienza dell’11.10.2015 aveva prodotto documentazione attestante la proprietà di una autovettura e di un furgone in capo al figlio N. che utilizzava i due mezzi per lo svolgimento della sua attività di tecnico del suono, esercitata in base alla disponibilità gratuita, concessagli dalla società Italiana Service s.n.c., di una attrezzatura per la strumentazione musicale e per l’illuminazione dei palchi. La Corte di appello non aveva valutato tale documentazione come attestativa di una raggiunta capacità lavorativa idonea a rendere indipendente il figlio dai genitori anche per l’acquisizione di una specifica competenza professionale avendo C.N. ottenuto la laurea breve di tecnico del suono. Rileva poi il ricorrente, quanto al figlio C., che lo svolgimento di attività part time che gli ha consentito di percepire negli anni 2008 e 2009 un reddito di circa 500 Euro mensili avrebbe dovuto indurre la Corte di appello a confermare la decisione del Tribunale di revoca dell’assegno in coerenza con la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. n. 6509/2017) secondo cui una volta raggiunta una adeguata capacità lavorativa, e quindi l’indipendenza economica, la successiva perdita della occupazione non comporta la reviviscenza dell’obbligo del genitore al mantenimento.
5. Si difende con controricorso P.T..

Motivi della decisione

CHE:
6. Il ricorso è fondato. La sentenza della Corte di appello fa consistere l’obbligo di mantenimento nei confronti dei figli maggiorenni nel sostegno economico cui sono tenuti i genitori sino al raggiungimento e al mantenimento della loro indipendenza economica. Inoltre pone sostanzialmente a carico del genitore la prova della effettiva e stabile autosufficienza o della responsabilità del figlio per la mancata acquisizione di una occupazione che lo renda indipendente. Tale linea interpretativa non è coerente con la giurisprudenza di legittimità e non è condivisa da questo Collegio. L’obbligo del mantenimento dei genitori consiste infatti nel dovere di assicurare ai figli, anche oltre il raggiungimento della maggiore età, e in proporzione alle risorse economiche del soggetto obbligato, la possibilità di completare il percorso formativo prescelto e di acquisire la capacità lavorativa necessaria a rendersi autosufficiente. La prova del raggiungimento di un sufficiente grado di capacità lavorativa è ricavabile anche in via presuntiva dalla formazione acquisita e dalla esistenza di un mercato del lavoro in cui essa sia spendibile. La prova contraria non può che gravare sul figlio maggiorenne che pur avendo completato il proprio percorso formativo non riesca ad ottenere, per fattori estranei alla sua responsabilità, una sufficiente remunerazione della propria capacità lavorativa. Tuttavia anche in questa ipotesi vanno valutati una serie di fattori quali la distanza temporale dal completamento della formazione, l’età raggiunta, ovvero gli altri fattori e circostanze che incidano comunque sul tenore di vita del figlio maggiorenne e che di fatto lo rendano non più dipendente dal contributo proveniente dai genitori. Inoltre l’ingresso effettivo nel mondo del lavoro con la percezione di una retribuzione sia pure modesta ma che prelude a una successiva spendita dalla capacità lavorativa a rendimenti crescenti segna la fine dell’obbligo di contribuzione da parte del genitore e la successiva l’eventuale perdita dell’occupazione o il negativo andamento della stessa non comporta la reviviscenza dell’obbligo del genitore al mantenimento (cfr. Cass. civ. VI-1 N. 6509 del 14 marzo 2017 secondo cui il diritto del coniuge separato di ottenere un assegno per il mantenimento del figlio maggiorenne convivente è da escludere quando quest’ultimo abbia iniziato ad espletare una attività lavorativa).
7. Nel caso in esame e con specifico riferimento al primo motivo di ricorso la Corte di appello non ha valutato, alla luce della giurisprudenza di legittimità, la conclusione da parte del figlio N. del percorso formativo i cui frutti egli utilizza in una attività a carattere professionale, quale quella di tecnico musicale e assistente alla illuminazione di concerti e spettacoli musicali, connotata dall’impiego di mezzi, propri e in comodato, di non modesto valore e che secondo una valutazione presuntiva ben potrebbe costituire una fonte di reddito idonea a garantire l’autosufficienza economica a chi la presta. Mentre quanto al secondo motivo e al figlio C., cui in particolare si riferisce, la Corte di appello non ha valutato la circostanza dell’acquisizione di una capacità lavorativa tale da assicurargli una retribuzione stabile nell’arco di due anni. Né la Corte di appello ha preso in considerazione ulteriori rilevanti circostanze come l’effettività o meno della convivenza dei figli con la madre, la età ormai ampiamente superiore ai trent’anni di entrambi i figli, il tenore di vita di cui dispongono. Circostanze sulle quali si sarebbe dovuto attivare l’onere probatorio gravante sulla richiedente il contributo al mantenimento.
8. Il ricorso per cassazione va pertanto accolto con conseguente cassazione, in relazione ai motivi accolti, della decisione impugnata e rinvio alla Corte di appello di Napoli al fine di consentire al giudice del merito l’esame delle circostanze indicate e l’applicazione della giurisprudenza di legittimità richiamata.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Napoli che, in diversa composizione, deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
Dispone che in caso di pubblicazione della presente ordinanza siano omesse le generalità e gli altri elementi identificativi delle parti.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 5 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2019

In caso di divorzio il parametro a cui fare riferimento per l’assegno non può essere costituito dal tenore di vita pregresso.

Cass. civ. Sez. I, 9 agosto 2019, n. 21228
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 17744/2017 proposto da:
F.P., domiciliato in Roma, piazza Adriana 5, presso lo studio dell’avvocato Michele Rossetti, che lo rappresenta e difende, unitamente all’avvocato Lorenzo Iacobbi, giusta procura in atti;
– ricorrente –
contro
C.C.;
– intimata –
Avverso sentenza della CORTE D’APPELLO DI ROMA, depositata il 28/04/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/07/2019 dal cons. Dott. MAURO DI MARZIO;
Udito il Pubblico Ministero che ha concluso per il rigetto.
Svolgimento del processo
1. – Con sentenza del 28 aprile 2017 la Corte d’appello di Roma ha respinto gli appelli proposti in via principale da C.C. ed in via incidentale da F.P. avverso la sentenza del Tribunale di Velletri che, per quanto ancora rileva, aveva dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario contratto dai due, ponendo a carico del F. un assegno divorzile della misura di Euro 300,00 mensili, da rivalutarsi annualmente secondo gli indici Istat.
Ha osservato la Corte territoriale:
-) che nel periodo di convivenza coniugale la coppia aveva mantenuto un buon tenore di vita grazie al patrimonio immobiliare, successivamente diviso tra i due in forza di accordo transattivo, e dalla retribuzione del F., ufficiale della Guardia di Finanza, mentre la C. aveva svolto l’attività di parrucchiera soltanto nei primi anni di matrimonio, essendosi in seguito dedicata alla famiglia;
-) che occorreva accertare se la C. fosse nelle condizioni di poter mantenere analogo tenore di vita attraverso i suoi mezzi attuali anche potenziali;
-) che ella non aveva oneri locativi, poiché abitava uno degli appartamenti di cui era divenuta proprietaria esclusiva, era proprietaria di ulteriori due immobili, suscettibili di essere messi a reddito, e svolgeva inoltre l’attività di parrucchiera sia presso la propria abitazione che al domicilio delle clienti;
-) che i guadagni realizzabili attraverso l’attività di parrucchiera dovevano presumersi modesti e dunque inidonei ad assicurare alla C. il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, con conseguente suo diritto all’assegno di divorzio;
-) che il F. doveva contribuire al mantenimento di un figlio nato da una nuova unione;
-) che, in definitiva, poteva confermarsi la statuizione del primo giudice in ordine alla quantificazione dell’assegno della misura di Euro 300 mensili, tenuto conto della disparità reddituale tra gli ex coniugi e del nuovo onere familiare del F..
2. – Per la cassazione della sentenza F.P. ha proposto ricorso per due mezzi.
C.C. non ha spiegato difese.
3. – Con ordinanza del 28 marzo 2019, numero 8705, questa Corte ha rinviato la causa alla pubblica udienza ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., u.c., ritenendo che essa dovesse essere discussa con specifico riferimento alla questione della compatibilità della sentenza impugnata con la sentenza delle Sezioni Unite numero 18287 dell’11 luglio 2018, secondo cui la funzione riequilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostruzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi.
4. – Il P.G. ha concluso per il rigetto.
Motivi della decisione
1. – Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, così come modificata dallaL. n. 74 del 1987, avendo la Corte d’appello erroneamente ritenuto che la C. abbia diritto all’assegno di divorzio in quanto priva di mezzi di sostentamento adeguati ove rapportati al tenore di vita tenuto dalla coppia in costanza di matrimonio.
Il secondo motivo denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte d’appello omesso di considerare adeguatamente la modificazione del quadro degli oneri familiari del F. in ragione della nascita nel 2016 di un figlio nato dalla relazione con l’attuale compagna.
2. – Il ricorso va accolto nei limiti che seguono.
2.1. – Il primo motivo va accolto.
La sentenza impugnata, pronunciata prima di Cass. 10 maggio 2017, n. 11504 e, da ultimo, di Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287, ha fondato la propria decisione sull’orientamento giurisprudenziale, all’epoca discusso in dottrina, ma sufficientemente fermo in giurisprudenza, sulla scia di Cass., Sez. Un., 29 novembre 1990, n. 11490, secondo cui l’assegno di divorzio, nonostante la molteplicità di parametri indicati dallaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6nel testo tuttora vigente, ha natura assistenziale e deve essere concesso tutte le volte in cui il coniuge richiedente non dispone di mezzi sufficienti a mantenere il “tenore di vita” goduto durante la vita coniugale.
E’ cosa nota che la citata pronuncia del 2017, ha sancito l’abbandono dell’indirizzo di cui si è detto, secondo il quale il giudizio di adeguatezza previsto dal citato art. 5, comma 6 (“dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”) andrebbe formulato in relazione al parametro del “tenore di vita”, ed ha stabilito, in breve, che, in punto di an, l’assegno non spetta al coniuge economicamente autosufficiente: il giudizio di adeguatezza, che per le Sezioni Unite del 1990 andava rapportato al “tenore di vita”, va viceversa parametrato, per la decisione del 2017, all’autosufficienza economica del coniuge richiedente.
L’aspetto saliente della decisione del 2017, la quale si pone in continuità con il precedente del 1990, laddove attribuisce all’assegno funzione essenzialmente assistenziale, risiede in ciò, che il giudizio in ordine al diritto all’assegno si articola in due fasi nettamente distinte, l’una, attinente all’an, incentrata sul principio di autoresponsabilità e tradotta nella regola applicativa testé menzionata, fondata sulla verifica dell’autosufficienza economica del coniuge richiedente, l’altra, concernente il quantum, e destinata ad avere ingresso solo in caso di esito positivo della prima, e cioè di non autosufficienza del coniuge, basata sull’applicazione dei criteri elencati dalla norma al fine della concreta determinazione dell’assegno: condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio.
Le Sezioni Unite hanno per gli aspetti centrali dato continuità alla decisione del 2017, mentre, per altri aspetti, hanno integrato i principi da essa formulati:
-) la continuità sta in ciò, che la decisione delle Sezioni Unite ha confermato il definitivo abbandono del parametro del “tenore di vita”, e, profilo non meno significativo, ha condiviso il riparto degli oneri probatori definito nel 2017, sicché il coniuge richiedente deve provare la situazione che giustifica la corresponsione dell’assegno;
-) la novità sta in ciò, che la sentenza del 2018 ha riconosciuto all’assegno di divorzio una funzione non già soltanto assistenziale (qualora la situazione economico-patrimoniale di uno degli ex coniugi non gli garantisca l’autosufficienza), ma anche riequilibratrice, ovvero, come pure vi si afferma, compensativo-perequativa, ove ne sussistano i presupposti (ossia alla condizione, necessaria ma come si dirà non sufficiente, che le situazioni economico-patrimoniali dell’uno e dell’altro coniuge, all’esito del divorzio, siano squilibrate, quantunque entrambi versino in situazione di autosufficienza), per la cui verifica è bandita la separazione tra criteri attributivi, tali da incidere sull’an del diritto all’assegno, e criteri determinativi, da utilizzarsi solo successivamente ai fini della fissazione del quantum.
Ferma in ogni caso la funzione assistenziale, in ipotesi di ex coniuge non economicamente autosufficiente, volendo sintetizzare, le Sezioni Unite hanno giudicato eccessivamente rigido il congegno fissato nel 2017, scandito dalla netta separazione del giudizio sull’an da quello sul quantum, ed hanno evidenziato taluni aspetti non coperti dall’applicazione del nuovo indirizzo, in particolare non idoneo a far fronte a quei casi in cui l’ex coniuge richiedente, massime nel quadro di un rapporto matrimoniale protrattosi per lungo tempo, pur versando all’esito del divorzio in situazione di autosufficienza economica, si trovi rispetto all’altro in condizioni economico-patrimoniali deteriori per aver rinunciato, in funzione della contribuzione ai bisogni della famiglia, ad occasioni in senso lato reddituali, attuali o potenziali, ed abbia in tal modo sopportato un sacrificio economico, a favore del coniuge, che meriti un intervento, come è stato detto, compensativo-perequativo. Difatti, affermano le Sezioni Unite, “l’impegno all’interno della famiglia può condurre all’esclusione o limitazione di quello diretto alla costruzione di un percorso professionale-reddituale”, sicché occorre tener “conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente”.
Ora, se è pur vero che la pronuncia delle Sezioni Unite riafferma, in tal modo, l’esistenza di un dovere di solidarietà post-coniugale (Cass. 23 aprile 2019, n. 11178) che la decisione del 2017 aveva circoscritto entro un ambito ridotto, quello della correzione delle sole situazioni di non autosufficienza, sarebbe tuttavia un errore enfatizzare eccessivamente tale aspetto e leggere nella pronuncia delle Sezioni Unite una netta presa di distanza, un’inversione di tendenza rispetto a quella del 2017. Le Sezioni Unite, difatti, confermano e ribadiscono, come si diceva, il punto centrale, ossia, se così si può dire, che ciò che è finito è finito, quod vides perisse perditum ducas, sicché non ha alcun fondamento la pretesa di un ex coniuge di mantenere il tenore di vita precedente: “L’accertamento del giudice non è conseguenza di un’inesistente ultrattività dell’unione matrimoniale, definitivamente sciolta tanto da determinare una modifica irreversibile degli status personali degli ex coniugi”, sicché: “il… profilo perequativo non si fonda su alcuna suggestione criptoindissolubilista… ma esclusivamente sul rilievo che tale principio assume nella norma regolativa dell’assegno”, occorrendo infine prendere atto della “piena ed incondizionata reversibilità del vincolo coniugale”. E dunque, sciolto il vincolo coniugale, ciascun ex coniuge, almeno in linea di principio, volendo esprimere il concetto con le parole del BGB, deve provvedere al proprio mantenimento. In forza della norma sull’assegno tuttavia, tale principio è derogato, oltre che nel caso di non autosufficienza di uno degli ex coniugi, nel caso in cui il matrimonio sia stato causa di uno spostamento patrimoniale divenuto ingiustificato ex post dall’uno all’altro coniuge, spostamento patrimoniale che, in tal caso, e solo in tal caso, va corretto attraverso l’assegno, in funzione compensativo-perequativa.
In breve, l’assegno risponde anzitutto e per lo più ad un’esigenza assistenziale, esigenza che – il punto non ha bisogno di essere sottolineato – le Sezioni Unite non hanno affatto inteso cancellare e danno invece per scontata (v. sul profilo assistenziale Cass. 5 marzo 2019, n. 6386). In taluni casi, però, l’assegno può rispondere, in tutto o in parte, ad una finalità compensativo-perequativa, tanto in ipotesi in cui il coniuge richiedente sia economicamente autosufficiente, ed allora la finalità sarà solo compensativo-perequativa, tanto in ipotesi in cui il coniuge richiedente non sia economicamente autosufficiente, ed allora la finalità sarà compensativo-perequativa ed assorbirà quella assistenziale.
Nell’esaminare la domanda di assegno occorre perciò procedere come segue:
-) il giudice deve verificare se, a seguito del divorzio, si sia determinata tra gli ex coniugi, come dicono le Sezioni Unite, una “rilevante disparità della situazione economico-patrimoniale”, sicché, se non v’è disparità, o se la disparità non è rilevante, non v’è assegno;
-) se invece la disparità c’è, può darsi che l’uno dei coniugi versi in situazione di non autosufficienza economica, autosufficienza, beninteso non certo da intendere quale parametrata allo standard della mera sussistenza, come ritenuto da qualche fin troppo zelante decisione di merito, ma ancorata ad un criterio di normalità (Cass. 7 febbraio 2018, n. 3015), come tale necessariamente relativo, avuto riguardo alla concreta situazione del coniuge richiedente nel contesto in cui egli vive, nel qual caso l’assegno deve essere adeguato a colmare lo scarto tra detta situazione ed il livello dell’autosufficienza come individuato dal giudice di merito;
-) in presenza di una situazione di “rilevante disparità della situazione economico-patrimoniale”, può accadere altresì che detto squilibrio sia “da ricondurre eziologicamente alle determinazioni comuni ed ai ruoli endofamiliari”, e cioè che gli allora coniugi abbiano, di comune accordo, convenuto che uno di essi sacrificasse le proprie realistiche prospettive professionali-reddituali agli impegni casalinghi, così da ritrovarsi, a matrimonio finito, nella condizione di casalingo-casalinga e non in quella alla quale tale coniuge avrebbe potuto ambire;
-) occorre in tale eventualità stabilire se tale squilibrio economico-patrimoniale abbia le sue radici nelle scelte compiute dagli allora coniugi nell’indirizzare l’assetto del mènage matrimoniale, tali da sacrificare le prospettive economico-patrimoniali dell’uno a favore di quelle dell’altro, sicché non rilevano squilibri economico-patrimoniali, pur sopravvenuti al matrimonio, che abbiano altra fonte, qual è, tra le altre, la maggiore attitudine dell’uno a produrre ricchezza;
-) nell’eventualità ora menzionta, tenuto conto delle circostanze del caso, e comunque della durata del matrimonio e dell’età del richiedente, ove il contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole abbia inciso sulla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi, l’assegno è dovuto in misura adeguata ad operare il necessario riequilibrio, riequilibrio che, mirando a porre il coniuge richiedente nella posizione in cui si sarebbe trovato se non avesse affrontato il sacrificio di cui si è detto, assorbe, come accennato, la funzione assistenziale.
Ora, è del tutto evidente che l’accertamento che il giudice effettuava nello scrutinate il tenore di vita non è l’accertamento che occorre compiere al fine di verificare se sussistano i presupposti per il riconoscimento dell’assegno in funzione compensativo-perequativa (in tal senso v. già Cass. 23 aprile 2019, n. 11178, in motivazione).
Nell’un caso era necessario e sufficiente stabilire quale fosse il tenore di vita della coppia in costanza di matrimonio e quale fosse il tenore di vita che poteva permettersi l’ex coniuge richiedente dopo il divorzio. Nell’altro caso occorre oggi stabilire, superato lo scrutinio del profilo dell’autosufficienza, ove vi sia una prospettazione in tal senso, se, a causa del matrimonio, si sia determinato uno spostamento patrimoniale, meritevole di riequilibrio attraverso l’assegno, da un coniuge all’altro. Per il che, come accennato, bisogna verificare:
i) se tra gli ex coniugi, a seguito del divorzio, si sia determinato o aggravato uno squilibrio economico-patrimoniale prima inesistente ovvero di minori proporzioni;
ii) se, in costanza di matrimonio, gli allora coniugi abbiano convenuto che uno di essi sacrificasse le proprie prospettive economico-patrimoniali per dedicarsi al soddisfacimento delle incombenze familiari;
iii) se tali scelte abbiano inciso sulla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi, giacché, in c. contrario, non vi è alcuno spostamento patrimoniale da riequilibrare, con la precisazione che l’onere della prova sul punto ricade sul coniuge richiedente, il quale potrà se del caso avvalersi del sistema delle presunzioni, purché nel rispetto del paradigma di gravità, precisione e concordanza, sicché non potrà il giudice di merito presumere, così e semplicemente, che il non avere un coniuge svolto alcuna attività lavorativa sia da ascrivere ad una concorde scelta comune ad entrambi i coniugi, e men che meno che abbia senz’altro contribuito al successo professionale dell’altro;
iv) quale sia l’entità concreta dello spostamento patrimoniale, e la conseguente esigenza di riequilibrio, causalmente rapportabile “alle determinazioni comuni ed ai ruoli endofamiliari”;
v) se e in che misura l’esigenza di riequilibrio non sia già coperta dal regime patrimoniale prescelto, giacché, se i coniugi abbiano optato per la comunione, ciò potrà aver determinato un incremento del patrimonio del coniuge richiedente, tale da escludere o ridurre la detta esigenza.
Insomma, la correzione delle Sezioni Unite non sta a significare, mai e in nessun caso, che l’uno ex coniuge possa vivere a rimorchio dell’altro, ma soltanto che nessuno dei due ex coniugi può lucrare sulle rinunce dell’altro.
In definitiva, il giudice deve quantificare rassegno rapportandolo non al pregresso tenore di vita familiare, ma in misura adeguata innanzitutto a garantire, in funzione assistenziale, l’indipendenza economica del coniuge non autosufficiente, intendendo l’autosufficienza in una accezione non circoscritta alla pura sopravvivenza, ed inoltre, ove ne ricorrano i presupposti, a compensare il coniuge economicamente più debole, in funzione perequativo-compensativa, del sacrificio sopportato per aver rinunciato, in funzione della contribuzione ai bisogni della famiglia, a realistiche occasioni professionali-reddituali, attuali o potenziali, rimanendo in ciò assorbito, in tal caso, l’eventuale profilo assistenziale.
Nel caso in esame, alla Corte territoriale è stato sufficiente, in applicazione dell’indirizzo giurisprudenziale al tempo seguito, osservare che la richiedente, la quale aveva svolto l’attività di parrucchiera nei primi anni di matrimonio, per poi dedicarsi all’organizzazione familiare, aveva ripreso a svolgere la stessa attività, ma solo presso la propria abitazione o a domicilio, ricavandone presumibilmente un reddito modesto. Con la conseguenza che la donna non poteva godere del tenore di vita preesistente.
Occorre invece stabilire, in ossequio all’indirizzo segnato dalle Sezioni Unite, e nel rispetto del riparto degli oneri probatori cui si è accennato: a) se tra i coniugi vi sia uno squilibrio nella situazione economico patrimoniale; b) se tale squilibrio sia rilevante; c) se esso preesistesse al matrimonio oppure se sia stato determinato dall’avere i coniugi convenuto, in costanza di matrimonio, che la C. lasciasse la propria attività per dedicarsi alle incombenze della vita familiare; d) se l’avere la C. lasciato la propria attività abbia inciso sulla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi; e) quale sia l’ipotetica, eventuale misura che l’assegno debba avere, tenuto conto dell’insieme dei parametri normativamente considerati, nonché dell’assetto economico che, nella vicenda in discorso, le parti si sono date.
Tra i detti parametri – occorre osservare per il rilievo che il punto ha in riferimento al secondo motivo – sono considerate anche le “condizioni dei coniugi”, le quali hanno ad oggetto molteplici aspetti, tra cui è senz’altro ricompresa anche l’eventualità che ciascuno di essi abbia formato una nuova famiglia, con tutto quanto ne consegue in ordine alla considerazione degli oneri economici da tenere a mente per i fini della verifica della sussistenza della situazione di disparità economico-patrimoniale.
2.2. – Di guisa che, nella specie, il secondo motivo è assorbito.
3. – La sentenza impugnata è cassata e rinviata alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che si atterrà a quanto dianzi indicato e provvederà anche sulle spese di questo giudizio di legittimità.
4. – Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione; dispone l’oscuramento.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile il 4 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2019

Impedire l’accertamento della paternità porta al risarcimento del danno a favore del padre e del figlio.

Corte d’Appello di Venezia, 11 settembre 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Corte D’Appello di Venezia
Sezione Terza Civile
La Corte, riunita in camera di consiglio nelle persone dei magistrati:
dott. Fabio Laurenzi Presidente
dott. Giovanna Sanfratello Consigliere
dott. Enrico Stefani Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
nella causa civile promossa da:
CAIA con l’avv. P. L. e l’avv. D.S.G. con domicilio presso il difensore;
APPELLANTE
contro
TIZIO con l’avv. M. A., con domicilio eletto presso lo studio del
difensore;
B.M. L. CURATORE DEL MINORE SEMPRONIO con l’avv. L.B. M., con domicilio
eletto presso lo studio del difensore;
APPELLATI
P.G. presso la Corte d’Appello di Venezia che ha concluso per la conferma
integrale della sentenza gravata.
Oggetto: Appello avverso la sentenza del Tribunale di Verona n. 1343/2017
del 23.5.2017, pubblicata in data 30.5.2017.
Conclusioni di parte appellante. Il procuratore della sig.ra CAIA precisa le
seguenti conclusioni: In via preliminare: disporsi la sospensione della
provvisoria esecutorietà dell’impugnata sentenza del Tribunale di Verona n.
1343/2017 del 23.5.2017, pubblicata in data 30.5.2017, notificata in data
11.7.2017; Nel merito: riformarsi l’impugnata sentenza del Tribunale di
Verona n. 1343/2017 del 23.5.2017, pubblicata in data 30.5.2017, notificata
in data 11.7.2017, all’esito della controversia iscritta al n. 8982/2014
R.G. e per l’effetto in via principale: – dichiararsi nulla e/o annullabile
la sentenza impugnata, nel capo in cui procede all’automatica aggiunta del
cognome paterno a quello attuale del minore Sempronio ed, in ogni caso,
revocarsi l’aggiunta del cognome Tizio a quello attuale del minore
Sempronio, confermandosi in capo al minore Sempronio l’attribuzione del
solo cognome materno; revocarsi la condanna della convenuta Caia al
pagamento, in favore di Tizio, della somma di euro 6.500,00, nonché al
pagamento della somma di euro 6.500,00 in favore del figlio Sempronio, ex
art. 96 co 3 c.p.c.; – compensarsi le spese del giudizio di primo grado
tra le parti. In ogni caso: – con compensazione delle spese del secondo
grado di giudizio (anche in via di rimborso forfettario) e competenze di
lite, oltre accessori previdenziali e fiscali. In via istruttoria: Con
riserva di ulteriormente e dedurre anche in via istruttoria, anche in
considerazione del comportamento processuale delle parti appellate. Si
rifiuta il contraddittorio sulle domande nuove.
Conclusioni di parte appellata TIZIO. 1. Rigettarsi la richiesta di
sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza n. 1343/17 emessa dal
Tribunale di Verona e pubblicata il 30.5.2017; Dichiararsi inammissibile la
domanda volta ad ottenere la nullità, ovvero l’annullamento della sentenza
o comunque la revoca nel capo in cui prevede l’aggiunta del cognome paterno
a quello attuale del minore Sempronio, per difetto di interesse ad agire o
comunque di legittimazione attiva in capo all’appellante;
In via principale: Rigettarsi l’appello promosso dalla CAIA avverso il
dispositivo della sentenza n. 1343/2017, pubblicata il 30.5.2017 dal
Tribunale di Verona relativamente al capo in cui prevede l’aggiunta del
cognome paterno a quello attuale del minore Sempronio, nonché ai capi
contenenti la condanna al risarcimento per lite temeraria in favore del
sig. Tizio per l’importo di € 6.500,00, la condanna alla rifusione delle
spese di lite in favore del medesimo Tizio per l’importo di € 3.284,00
oltre 15% spese generali, iva e epa e la condanna alla rifusione delle
spese sostenute dal sig. Tizio per la c.t.u. disposta, per i motivi su
indicati e comunque perché infondato e per l’effetto confermarsi
integralmente la sentenza impugnata. In ogni caso: Con vittoria di compensi
e spese di lite, oltre rimborso forfettario 15%, c.p.a. ed IVA come per
legge per il primo e secondo grado di giudizio.
Conclusioni di parte appellata Sempronio. 1. Respingersi la richiesta di
sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza del Tribunale di
Verona n. 1343/2017 pubblicata il 30 maggio 2017 nel procedimento RG n.
8982/2014, non sussistendo gravi e fondati motivi richiesti dall’art. 283
epe.
2. Condannarsi Caia alla corresponsione di una pena pecuniaria ex art. 283,
II comma, cpc. rimessa nel quantum alla determinazione di Codesto Giudice.
Nel merito: 3. Respingersi l’appello promosso da Caia siccome infondato in
fatto ed in diritto per le ragioni sopra esposte e per l’effetto
confermarsi la sentenza del Tribunale di Verona n. 1343/2017 pubblicata il
30 maggio 2017 nel procedimento RG n. 8982/2014.
4. Spese di lite di primo e secondo grado integralmente rifuse.
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.
1. Il giudizio in esame ha ad oggetto la dichiarazione giudiziale di
paternità ed ha avuto inizio con atto di citazione del curatore speciale
del minore Sempronio (nato a Verona il 22 luglio 2011) curatore speciale
nominato su richiesta del Pubblico Ministero attesa la non coincidenza
dell’interesse del minore con quello della madre – onde procedere
all’accertamento della paternità del minore stesso.
Si costituiva Tizio affermando di aver intrattenuto una relazione
sentimentale con CAIA in un periodo di tempo compatibile col concepimento e
la successiva nascita del minore; proseguiva esponendo che durante la
gravidanza la Caia aveva dichiarato a Tizio che egli era il padre del
bambino che portava in grembo, successivamente l’aveva negato.
In seguito aveva tenuto un comportamento contraddittorio e altalenante al
proposito, sicché egli si era visto costretto a richiedere l’intervento del
Pubblico Ministero in difesa del suo ruolo genitoriale e della condizione
del figlio.
Si costituiva la Caia resistendo alla domanda e formulando una serie di
eccezioni processuali; si opponeva all’espletamento di qualsiasi indagine
clinica volta ad accertare l’eventuale paternità del Tizio sul bambino nel
frattempo nato.
Il tribunale disponeva c.t.u. ematologica i cui esiti accertavano
inconfutabilmente (probabilità di paternità pari a 99,9999%) la paternità
del Tizio; valutava negativamente il comportamento della madre che aveva a
più riprese apertamente ostacolato l’accertamento della verità della
paternità del minore e assumeva pertanto i provvedimenti di seguito
indicati.
In esito al giudizio il tribunale così statuiva: “1) accerta e dichiara che
Sempronio, nato a Verona il 22 luglio 2011, è figlio di Tizio, nato a Verona il 27 maggio 1981,
disponendo 1’aggiunta del cognome Tizio a quello attuale del minore Sempronio; 2) dispone la
trasmissione di copia autentica della presente sentenza all’ufficiale di stato civile territorialmente
competente affinché provveda alle annotazioni di legge; 3) dispone 1’intervento urgente dei servizi
sociali affinché adottino iniziative necessarie all’instaurazione del rapporto padre – figlio indicandone
le modalità più adeguate nell’interesse del minore; 4) condanna la convenuta Caia al pagamento in
favore di Tizio , della somma di €6500,00, nonché al pagamento della somma di € 6500,00 in favore
del figlio Sempronio, ex art. 96 comma 3 c.p.c.; 5) condanna la convenuta Caia alla rifusione delle
spese di lite in favore delle controparti che liquida… 6) pone integralmente a carico della convenuta
Caia le spese di CTU, come liquidate in giudizio, con condanna della stessa alla rifusione di quanto
dalle controparti eventualmente anticipato a tale titolo; 7) dispone la trasmissione degli atti alla
procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni di Venezia per accertamenti sulla
capacità genitoriale di CAIA; 8) dispone la trasmissione degli atti alla procura della Repubblica
presso il tribunale di Verona per quanto di competenza in ordine all’ipotesi di reato di tentativo di
alterazione di stato del minore, nei confronti di Caia e Tullio.
2) avverso la sentenza proponeva appello la Caia che formulava le
seguenti censure: 1) violazione dell’art. 112 c.p.c.; vizio di
ultrapetizione in relazione alla statuizione che dispone l’aggiunta del
cognome Tizio a Caia; 2) condanna ex art. 96, comma terzo, c.p.c. relativa
al pagamento in favore di Tizio e di Sempronio della somma di € 6500
ciascuno; 3) erronea condanna della convenuta alla rifusione delle spese in
favore delle controparti.
Si è costituito il curatore speciale del minore e Tizio, che hanno
resistito al gravame e ne hanno chiesto il rigetto in quanto infondato in
fatto e diritto e hanno concluso come in epigrafe.
Il procuratore Generale ha concluso per il rigetto dell’appello.
2. Il primo motivo è manifestamente infondato essendo l’attribuzione
del patronimico scelta, anche officiosa, rimessa al prudente apprezzamento
di merito del giudice il quale deve effettuare al proposito le valutazioni
del caso orientate nel senso del preminente interesse del minore ad una
tale attribuzione.
In tal senso è univocamente orientata la copiosa e costante la
giurisprudenza della suprema corte1 sulla base del testo dell’arte 262,
comma quarto, c.c.
Solo in ipotesi di figlio oramai divenuto maggiorenne2 si può porre la
questione della possibilità di una statuizione officiosa.
Gli arresti citati in nota, in particolare il primo e quelli ivi
richiamati, evidenziano come nei confronti di un minore in tenera età
l’esclusione del diritto al cognome paterno potrebbe essere decisa solo in
caso di pregiudizio che ad esso l’attribuzione potrebbe recare, per motivi
che devono essere espressamente enunciati ed essere inerenti ad un
plausibile del danno che al minore ne deriverebbe.
Ad esempio per il discredito sociale che il patronimico porta con sé oppure
in relazione alla situazioni reali di sofferenza o di conflitto
sviluppatesi intorno alla storia di quella singolo nucleo familiare, o,
infine, per altre ragioni parimenti rilevanti e significative tra le quali,
ad esempio, il consolidamento di una identità definitiva del minore nei
suoi rapporti personali e sociali sulla base del solo matronimico.
Nulla di tutto questo emerge – e nemmeno è eccepito in nessun grado – dagli
atti del giudizio.
1 ” Secondo la giurisprudenza di questa Corte, richiamata dallo stesso ricorrente, i criteri di individuazione del cognome
del minore riconosciuto in tempi diversi dai genitori, si pongono in funzione del suo interesse, che è quello di evitare un
danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, sicché la scelta (anche
officiosa) del giudice è ampiamente discrezionale, con esclusione di qualsiasi automaticità e non può essere
condizionata né dal favor per il patronimico né per un prevalente rilievo della prima attribuzione (v. Cass. n. 12640 del
2015, n. 2644 del 2011, n. 12670 e 23635 del 2009)…”. Estratto dalla motivazione di Cassazione civile sez. VI, 11/07/2017,
n.17139.
2 Cassazione civile sez. I, 02/10/2015, n.1973
3. Gli altri motivi – che per ragioni di connessione logica possono
essere trattati congiuntamente – sono parimenti infondati.
Il tribunale ha ampiamente motivato in relazione tanto alla condanna alle
spese del giudizio, quanto alla condanna ex art. 96, comma terzo, c.p.c.
La specifica pronuncia appare coerente con le evenienze processuali atteso
il comportamento della madre, contraddittorio, altalenante, immotivato
nell’escludere il padre dalla vita del figlio e pregiudizievole per il
figlio stesso, al punto da rendere necessario l’intervento del pubblico
ministero e la nomina di un curatore speciale per promuovere il giudizio
per l’accertamento e la tutela di un diritto ad essa ben noto eppure
reiteratamente negato con condotte finanche ostruzionistiche.
È pur vero che dopo gli esiti degli esami ematologici, la allora convenuta
ha desistito dalla propria condotta, ma è altresì vero che malgrado il
promovimento del giudizio essa ha ancora una volta tentato di impedire
l’accertamento della vera paternità del figlio sostenendo un tardivo
riconoscimento da parte di un soggetto del tutto estraneo alla vicenda, con
espressa richiesta di decisione urgente in ordine a tale riconoscimento.
In un tale agire, la Caia non ha evidentemente ben ponderato gli esiti
della manovra intentata, chiaramente posticcia, che se avesse avuto
successo, avrebbe imposto al minore una paternità falsa.
Se per un verso tale iniziativa è apertamente contraria all’interesse del
figlio, per altro verso ha causato inutili e onerose attività giudiziarie
al padre e al figlio – in tal senso, si osserva che la Caia ha rifiutato la
ragionevole proposta del curatore speciale di Sempronio di procedere ad un
accertamento non contenzioso della paternità del minore – e postergato
senza alcun costrutto l’esito di un giudizio che, anche per lei stessa, era
ben noto.
Le censure proposte appaiono dunque manifestamente infondate e vanno
respinte.
4. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in
dispositivo.
P.Q.M.
La Corte d’Appello di Venezia, definitivamente pronunciando sull’appello
proposto da CAIA contro TIZIO avverso la sentenza del Tribunale di Verona
n. 1343/2017 del 23.5.2017, così dispone:
1) respinge l’appello e per l’effetto conferma integralmente la sentenza
impugnata.
2) Condanna l’appellante al pagamento delle spese di lite in
favore degli appellati costituiti che liquida per competenze
professionali nel presente grado in € 6.615,00, oltre alle spese generali
nella misura del 15% di cui all’art. 2, 2° co., D.M. 55/2014, oltre agli
oneri previdenziali e fiscali se e nella misura del dovuto.
3) Sussistono i presupposti previsti dall’art. 13, comma 1 quater, T.U.S.G.
per l’applicazione a carico di parte appellante dell’obbligo di versare
un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
dovuto per la stessa impugnazione a norma del comma 1 bis.
Così deciso in Venezia, il 15/07/2019.
Il pres. rei. est.
dott. Fabio Laurenzi

Il giudice può provvedere in merito all’educazione religiosa del minore nel giudizio di separazione.

Cass. civ. 30 agosto 2019, n. 21916; Pres. Giancola; Rel. Bisogni.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
L.E., elettivamente domiciliata in Roma, via Giulio Aristide Sartorio 60, presso lo studio dell’avv.
Marco Camarda, che la rappresenta e difende nel presente giudizio, giusta procura speciale in calce
al ricorso, unitamente all’avv. Valerio Borghesiani e dichiara di voler ricevere le comunicazioni
relative al processo agli indirizzi p.e.c. marcocamarda(at)ordineavvocatiroma.org e
valerio.borghesiani(at)ordineavvocatibo.pec;
– ricorrente –
nei confronti di:
M.V.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 3332/2016 della Corte di appello di Milano, emessa il 29 giugno 2016 e
depositata il 25 agosto 2016, n. 2107/2015 R.G.;
sentita la relazione in camera di consiglio del relatore cons. Dott. Giacinto Bisogni;
letta la requisitoria del P.G., in data 11 luglio 2018, con la quale il sostituto procuratore generale,
cons. Dott. SORRENTINO Federico ha chiesto l’accoglimento per quanto di ragione del ricorso.
Svolgimento del processo
Che:
1. Con sentenza n. 2028/2014 il Tribunale di Como ha pronunciato la separazione personale dei
coniugi L.E. e M.V., affidato il figlio minore G. (nato il (OMISSIS)) congiuntamente ai due
genitori, con le precisazioni di cui in motivazione circa la sua educazione religiosa, ha fissato la sua
residenza presso la madre e disciplinato il diritto di visita del padre cui ha imposto un assegno
mensile di 600 Euro a titolo di contributo al mantenimento del figlio, oltre al 50% delle spese di
istruzione, cura ed educazione. Ha compensato interamente le spese processuali.
2. Ha rilevato il Tribunale che il sig. M. ha espresso decisamente il proprio dissenso a che il
bambino (che è stato battezzato nella Chiesa Cattolica) riceva dalla madre l’istruzione religiosa
propria della dottrina geovista e partecipi con lei alle relative cerimonie presso la Sala del Regno
frequentata dalla L. preferendo che egli esperisca fino alla Cresima il percorso di educazione
religiosa e introduzione ai sacramenti della Chiesa Cattolica, sì da poter conoscere i fondamenti di
detta fede e poter effettuare, da adulto, una scelta consapevole. Ha ritenuto quindi il Tribunale che
stante il contrasto fra i genitori spetta al giudicante la decisione ex art. 337 ter c.c. e ha pertanto
affermato che, “pur astenendosi da ogni intento di discriminazione per ragioni religiose deve
ritenersi che la scelta paterna sia maggiormente rispondente all’interesse del piccolo, consentendogli
più agevolmente la integrazione nel tessuto sociale e culturale del contesto di appartenenza, il quale,
benché notoriamente secolarizzato, resta pur sempre di matrice cattolica (basti pensare al
patrimonio artistico italiano ispirato alla dimensione religiosa cattolica, alla aggregazione giovanile
suscitata a livello parrocchiale con iniziative per bambini e adolescenti legate al catechismo,
oratorio, grest, ecc.); pur con il dovuto rispetto per le credenze della L. non può sottacersi la natura
settaria della comunità religiosa cui ella aderisce, chiusa in sé stessa e ostile al confronto con
qualsivoglia altro interlocutore, essendo legata a una interpretazione formalistica e parziaria di
taluni testi vetero-testamentari, che non ha ispirato (almeno in Italia) alcun prodotto letterario o
artistico avente dignità culturale.
Ovviamente il padre, coerentemente con la sua dichiarata intenzione anche con sacrificio personale
dovrà accompagnare il bambino nel percorso di educazione religiosa da lui prescelto, favorendone
l’inserimento nella comunità parrocchiale di appartenenza e la frequenza alla pratica religiosa via
via richiestagli anche in giornate e orari diversi dal protocollo di visita, se necessario; mentre
correlativamente la madre dovrà responsabilmente astenersi, onde non destabilizzare il bambino,
dall’impartirgli ulteriori insegnamenti della dottrina geovista e dal condurlo alle relative cerimonie”.
3. Ha proposto appello la sig.ra L.E. censurando unicamente le prescrizioni in ordine all’educazione
religiosa del figlio di cui ha chiesto la sospensione e la revoca. Ha affermato l’appellante che
l’ordine impartitole contrasta con i principi della Costituzione italiana e con quello della laicità dello
Stato e, in mancanza di individuazione dell’effettivo, concreto e grave pregiudizio che
dall’insegnamento della dottrina da lei professata deriverebbe al minore, anche con le norme del
diritto comunitario e internazionale. Secondo l’appellante la sentenza è del tutto carente con
riguardo alla motivazione del provvedimento inibitorio, non individuando alcun pregiudizio che il
minore subirebbe per effetto degli insegnamenti religiosi materni; essa inoltre si pone in contrasto
con il principio di bi-genitorialità e con il diritto della madre di trasmettere i propri valori così da
consentire al figlio, una volta raggiunta la necessaria maturità, di effettuare una scelta consapevole
in merito al credo religioso. Infine la sentenza è nulla in quanto affetta dal vizio di ultrapetizione
perché basata sulla necessità di dirimere un conflitto fra i genitori, in realtà insussistente.
4. Il sig. M.V. si è costituito contestando la fondatezza dell’appello e ne ha chiesto il rigetto. Ha
rilevato che il conflitto era insorto dopo la cessazione della convivenza fra i genitori e in seguito
alla adesione della L. alla confessione dei testimoni di Geova. M.G. aveva ricevuto esclusivamente
una educazione religiosa cattolica ed era stato di comune accordo battezzato secondo il rito
cattolico. Ha giustificato la propria opposizione alla trasmissione degli insegnamenti della dottrina
geovista e alla frequentazione delle cerimonie religiose presso la Sala del Tempio ribadendo il
proprio convincimento in ordine all’inopportunità di esporre il bambino a insegnamenti contrastanti
e confusivi.
5. La Corte di appello di Milano, con sentenza n. 3332/2016 ha respinto l’impugnazione della sig.ra
L. e ha compensato interamente le spese processuali anche per il giudizio di appello. La Corte di
appello ha escluso la dedotta nullità per vizio di ultrapetizione essendo emerso chiaramente un
conflitto genitoriale nel corso del giudizio. Ha ritenuto accertato che G. sia stato battezzato secondo
il rito cattolico e che la scelta comune dei genitori, sino all’adesione, successiva alla fine della
convivenza, della L. alla dottrina geovista, sia stata quella di inserire il figlio nella comunità della
Chiesa Cattolica. Ha ritenuto la Corte territoriale che sia rispondente all’interesse del minore
mantenere tale iniziale libera e comune scelta dei genitori consentendo a G. di completare la
formazione religiosa cattolica sino al sacramento della Cresima (e cioè sino ai 12-13 anni), senza
ricevere altri insegnamenti contrastanti con quelli della religione cattolica e senza frequentare
contemporaneamente le adunanze della Sala del Regno.
6. Ricorre per cassazione L.E. affidandosi a tre motivi di impugnazione illustrati da memoria
difensiva.
7. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione del preminente interesse del minore ad una
relazione significativa con entrambi i genitori e a ricevere la loro eredità culturale e religiosa, in
assenza di danni per il minore e dei presupposti legali per proibire alla mamma di G. di coinvolgerlo
nelle sue attività religiose di Testimone di Geova.
8. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione della libertà religiosa, del principio di non
discriminazione e di laicità; violazione degli artt. 3, 7, 8, 9, 10, 19, e 101 Cost., degli artt. 8, 9, 14
della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in
relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
9. Con il terzo motivo di ricorso si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame di un
fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e cioè che la sig.ra L. è
sempre stata Cristiana Testimone di Geova sin da prima il matrimonio e ha trasmesso i suoi valori
religiosi al figlio sin dalla nascita.
10. Non svolge difese M.V.
11. Con requisitoria scritta, depositata in data 11 luglio 2018, il Pubblico Ministero ha chiesto
l’accoglimento per quanto di ragione del ricorso sulla base delle seguenti motivazioni che qui si
riportano: “in materia di famiglia fondata sul matrimonio, vige il principio costituzionale secondo
cui “il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti
dalla legge a garanzia dell’unità familiare” (ex art. 29 Cost., comma 2). Prima ancora, è tra gli stessi
diritti inviolabili dell’uomo che si annovera il diritto di libertà religiosa, garantito dalla Costituzione
sia come singolo sia nelle formazioni sociali (art. 2 Cost), in ciò includendosi la famiglia, quale
primo nucleo di naturale aggregazione sociale dell’uomo (ad es. C. Cost. n. 138/2010). Tale diritto
involabile trova anche una sua duplice declinazione da un lato nell’affermazione del principio di
eguaglianza, là dove espressamente garantito (dall’art. 3 Cost.,) anche sotto il profilo religioso,
stante la pari dignità davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8 Cost., comma 1),
dall’altro nella specifica affermazione della libertà religiosa (“tutti hanno diritto di professare
liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda
e di esercitarne in privato o in pubblico il culto”, cfr. art. 19 Cost.) Tale diritto di libertà del
singolo cui corrisponde un diritto-dovere di ciascun genitore di istruire ed educare i figli (art. 30
Cost ., comma 1) può incontrare un limite proprio nel pari diritto dell’altro genitore che abbia un
credo religioso diverso, e, quindi, in un possibile contrasto tra i genitori stessi sul punto, limite che,
là dove sfoci in un insanabile stallo, appare superabile alla luce delle specifiche disposizioni di
legge, adottate sulla base della previsione costituzionale secondo cui si prevede che “nei casi di
incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti” (cfr. art. 30 Cost.,
comma 2) e, comunque, in modo da assicurare adeguata protezione dell’interesse del minore (cfr.
art. 31 Cost., comma 2). Ed è in forza di tali generali disposizioni costituzionali che è prevista
dall’art. 316 c.c.) e, in caso di separazione, dall’art. 337 ter c.c., la soluzione, affidata al giudice, del
contrasto insorto tra i genitori su questioni di particolare importanza (qual è quella appunto relativa
all’educazione religiosa del figlio minore), soluzione che, per legge, va adottata “con esclusivo
riferimento all’interesse morale e materiale” dei figli ad una crescita sana ed equilibrata (cfr. art.
337-ter c.c.), “sicché il perseguimento di tale obiettivo può comportare anche l’adozione di
provvedimenti” limitativi di pratiche o incontri propri di una determinata confessione religiosa,
come tali “contenitivi o restrittivi di diritti individuali di libertà dei genitori, ove la loro
esteriorizzazione determini conseguenze pregiudizievoli per il figlio che vi presenzi,
compromettendone la salute psico-fisica o lo sviluppo” (Cass. n. 12954/2018). Detti principi di
eguaglianza e di libertà di religione sono garantiti anche, come invocato dalla ricorrente, dalla
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (artt. 14, 8 e 9),
principi di libertà che, secondo la stessa CEDU, possono essere limitati dalla legge da misure
“necessarie, in una società democratica, per la sicurezza pubblica, la protezione dell’ordine, della
salute o della morale pubblica o la protezione dei diritti e delle liberà altrui” (si veda la sentenza
della Corte EDU, del 12 febbraio 2013, Vojnity v. Hungary, secondo cui, in materia di contrasto tra
genitori sull’educazione religiosa da impartire a figli minori, si è ritenuto non accettabile un
“differente trattamento, senza un’obiettiva e ragionevole giustificazione” ovvero basato “sulla sola
differenza di religione”). Orbene, la Corte di appello di Milano (pure superando la motivazione del
giudice di primo grado, che era fondata anche su un’inaccettabile valutazione di disvalore della
religione dei Testimoni di Geova, è incorsa ugualmente in una falsa applicazione dei richiamati
principi di eguaglianza e di libertà religiosa, dando rilievo preminente alla originaria scelta di
entrambi i genitori di battezzare il proprio figlio. Invero la libertà di religione, quale diritto
inviolabile dell’uomo, implica anche la piena libertà di mutare le proprie credenze, senza che
pregresse determinazioni o convinzioni possano costituire un pregiudizio o un limite all’esercizio di
tale libertà. Ciò è del resto esplicitato dall’art. 9, primo paragrafo, della CEDU allorché si stabilisce
che “ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; questo diritto
importa la libertà di cambiare religione o pensiero (…)”. La valutazione dunque della Corte di
appello di ancorare la propria decisione ad una scelta pregressa (anche) della madre (quella cioè di
acconsentire al battesimo), senza considerare l’attualità delle determinazioni religiose della stessa,
non sembra rispettosa dei richiamati principi di libertà. Inoltre la Corte di appello è incorsa in una
seconda falsa applicazione di legge (segnatamente dell’art. 315 bis c.c., comma 3, ed anche dell’art.
336-bis e del combinato disposto di cui agli 337-ter e 337-octies c.c.) allorquando ha ritenuto, nella
valutazione dell’interesse del minore, di adottare il provvedimento inibitorio di cui trattasi (e cioè di
inibire alla madre di “impartire al figlio (prendendo ella stessa l’iniziativa) insegnamenti contrastanti
con quelli della religione cattolica) sulla base di mere affermazioni, non riscontrate da adeguati
elementi: la Corte di appello motiva infatti la decisione “al fine di non creare confusione nel minore,
proponendogli contemporaneamente insegnamenti differenti, con il rischio di disorientarlo, e al
contempo di non “appesantirlo” eccessivamente sotto il profilo della formazione religiosa, con la
contemporanea frequenza sia del catechismo, sia delle riunioni dei Testimoni di Geova”. Anche in
disparte il fatto che la asserita “confusione” o il “rischio di disorientamento” o di “appesantimento”
non individuano, in sé, una scelta di campo tra le due professioni religiose, se non in forza di un
“pregiudizio” nei confronti della religione geovista rispetto a quella cattolica, la ricorrente
fondatamente sottolinea con il primo motivo che “non vi è nessuna prova che le pratiche religiose
della L. siano pregiudizievoli” e con il secondo motivo che “i giudici di merito non hanno ritenuto
necessario né disporre l’audizione del minore né richiedere l’ausilio di una consulenza tecnica
d’ufficio che era stata addirittura richiesta dal M.”. In effetti, il procedimento in questione è stato
instaurato in primo grado in data 5/10/2011 e quindi anteriormente al 1/1/2013 data di entrata in
vigore della legge. n. 219 del 2012, abrogativa dell’art. 155- sexies c.c.. Dalla predetta nuova
disciplina normativa l’ascolto del minore è previsto dall’art. 315-bis c.c., comma 3, e, dopo l’entrata
in vigore (7 febbraio 2014) del D.L.gs. n. 154 del 2013, anche dall’art. 336-bis e dagli 337-ter e
337-octies c.c.. Peraltro l’obbligatorietà dell’audizione del minore anche nel regime giuridico
previgente era stata sancita dal fermo orientamento della Corte (tra le più recenti Cass. 11687 del
2013, ribadito da Cass. n. 6129/2015). In particolare è stato affermato (cfr. Cass. 19202 del 2014,
richiamata da cit. Cass. n. 6129/2015) che l’audizione è “una caratteristica strutturale del
procedimento, diretta ad accertare le circostanze rilevanti al fine di determinare quale sia l’interesse
del minore ed a raccoglierne opinioni e bisogni in merito alla vicenda in cui è coinvolto”. L’iniziale
qualificazione giuridica dell’ascolto come un elemento necessario dell’istruzione probatoria nei
procedimenti riguardanti i minori è stata ritenuta del tutto riduttiva al fine di comprendere la natura
e la funzione dell’adempimento. L’ascolto costituisce una modalità, tra le più rilevanti, di
riconoscimento del diritto fondamentale del minore ad essere informato ed esprimere la propria
opinione e le proprie opzioni nei procedimenti che lo riguardano, costituendo tale peculiare forma
di partecipazione del minore alle decisioni che lo investono uno degli strumenti di maggiore
incisività al fine del conseguimento dell’interesse del medesimo, tanto che anche nella vigenza
dell’art. 155 sexies c.c., l’audizione doveva essere disposta in caso di minore dodicenne ovvero
anche se di età inferiore ove ritenuto capace di discernimento (Cass. S.U. 22238 del 2009; 5547 del
2013, 11687 del 2013). L’importanza dell’obbligo di ascolto del minore infradodicenne capace di
discernimento – direttamente da parte del giudice ovvero, su mandato di questi, di un consulente o
del personale dei servizi sociali -, è tale che, secondo Cass. n. 19327 del 2015 (proprio in tema di
separazione personale), esso “costituisce adempimento previsto a pena di nullità ove si assumano
provvedimenti che lo riguardino, salvo che il giudice non ritenga, con specifica e circostanziata
motivazione, l’esame manifestamente superfluo o in contrasto con l’interesse del minore” (cfr. da
ultimo anche Cass. n. 12957/2018). Orbene, al tempo del giudizio di appello conclusosi nel 2016 il
minore aveva già compiuto sette anni, ma la Corte di appello (a ciò obbligata, Cass. n. 15365/2015)
non ha proceduto ad alcuna audizione, né direttamente, né attraverso esperti, non dando alcuna
contezza di tale mancanza. In effetti, nei più recenti precedenti della Corte di cassazione, che hanno
affrontato analoghe questioni di contrasto nell’educazione religiosa di figli minori tra genitori di
differente credo religioso (cattolico e geovista), i giudici di merito avevano sempre proceduto a
c.t.u. sul minore (anche di anni 4/5, Cass. n. 9546/2012, nonché Cass. n. 12954/2018) ovvero
acquisendo una relazione da parte dei servizi sociali del Comune (Cass. n. 24683/2013). In carenza
di tali elementi il ricorso appare fondato anche sotto i menzionati profili.
Motivi della decisione
Che:
12. I tre motivi di ricorso devono essere esaminati congiuntamente per la loro evidente connessione.
13. La Corte ritiene la requisitoria del Procuratore Generale pienamente condivisibile e coerente alla
giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ., sezione I, n. 12594 del 24 maggio 2018, n. 9546 del 12
giugno 2012, n. 24683 del 4 novembre 2013) secondo, cui in tema di affidamento dei figli, il
criterio fondamentale cui deve attenersi il giudice nel fissare le relative modalità, in caso di conflitto
genitoriale, è quello del superiore interesse del minore, stante il suo diritto preminente ad una
crescita sana ed equilibrata, sicché il perseguimento di tale obiettivo può comportare anche
l’adozione di provvedimenti, relativi all’educazione religiosa, contenitivi o restrittivi dei diritti
individuali di libertà dei genitori, ove la loro esplicazione determinerebbe conseguenze
pregiudizievoli per il figlio, compromettendone la salute psico-fisica o lo sviluppo.
14. Tuttavia la possibilità di adottare simili provvedimenti restrittivi, in presenza di una situazione
di conflitto fra i due genitori che intendano entrambi trasmettere la propria educazione religiosa e
non siano in grado di rendere compatibile il diverso apporto educativo derivante dall’adesione a un
diverso credo religioso, non può essere disposta dal giudice sulla base di una astratta valutazione
delle religioni cui aderiscono i genitori e che esprima un giudizio di valore precluso all’autorità
giudiziaria dal rilievo costituzionale e convenzionale Europeo del principio di libertà religiosa. Né
tale possibilità può basarsi sulla considerazione della adesione successiva di uno dei due genitori a
una religione diversa rispetto a quella che precedentemente era seguita e praticata da entrambi e
che, originariamente, è stata trasmessa al figlio o ai figli come religione comune della famiglia
perché tale criterio astratto lederebbe il mantenimento di un rapporto equilibrato e paritario con
entrambi i genitori rimanendo insensibile alle scelte di vita in divenire dei genitori. Ne deriva che la
possibilità da parte del giudice di adottare provvedimenti contenitivi o restrittivi dei diritti
individuali di libertà dei genitori in tema di libertà religiosa e di esercizio del ruolo educativo è
strettamente connessa e può dipendere esclusivamente dall’accertamento in concreto di conseguenze
pregiudizievoli per il figlio che ne compromettano la salute psico-fisica e lo sviluppo e tale
accertamento non può che basarsi sull’osservazione e sull’ascolto del minore in quanto solo
attraverso di esse tale accertamento può essere compiuto.
15. Il ricorso va pertanto accolto affinché la Corte di appello rivaluti la controversia alla luce dei
principi di diritto sopra enunciati.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Milano
che, in diversa composizione, deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione. Dispone
omettersi qualsiasi riferimento alle generalità e agli altri elementi identificativi delle parti nella
pubblicazione della presente sentenza.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 settembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 30 agosto 2019

Il genitore non può usare violenza fisica e morale quale strumento correttivo verso il figlio; tale condotta integra il reato di maltrattamenti in famiglia e non quello di abuso dei mezzi di correzione

Cass. pen. Sez. VI, 2 settembre 2019, n. 36832
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Procuratore generale presso la Corte di appello di Torino;
nel procedimento a carico di:
S.M., nato in (OMISSIS);
avverso la sentenza del 11/12/2018 della Corte di appello di Torino;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere, Dott.ssa Ersilia Calvanese;
udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. Pinelli Mario Maria Stefano, che ha concluso chiedendo che la sentenza sia annullata con rinvio;
udita la parte civile, avv. Luca Icardi, che ha depositato conclusioni scritte e nota spese;
udito il difensore, avv. Domenico Mangone, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso e la conferma della sentenza impugnata.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Torino riformava la sentenza che aveva dichiarato S.M. colpevole dei reati di cui agliartt. 572 e 582 c.p., assolvendolo dai reati a lui ascritti perché il fatto non sussiste.
All’imputato era contestato di aver maltrattato la figlia minorenne (che secondo l’età ufficiale aveva 15 anni all’epoca dei fatti) con aggressioni verbali e fisiche (colpendola con pugni e, in due occasioni, con la cinghia) e di averle provocato in un’occasione lesioni personali con una prognosi di guarigione di sette giorni.
Secondo la Corte di appello, i comportamenti dell’imputato venivano a collocarsi nel difficile rapporto tra padre e figlia, fatto di incomprensioni e incomunicabilità, nel quale il primo esprimeva il suo disappunto e disagio per una figlia che aveva sposato una cultura troppo moderna, mentre quest’ultima era attratta da figure di riferimento ostili a quella paterna propense ad offrirle maggiori spazi di libertà.
L’imputato non aveva quindi agito per “umiliare” o “annientare” la figlia, in quanto le frasi risultavano essere state da lui pronunciate in momenti di particolare tensione e concitazione per i litigi tra i due a causa sia dei limiti imposti alla figlia (non frequentare gli amici) sia per le disubbidienze di quest’ultima (aveva portato in casa vestiti e trucchi rubati, si era fatta sorprendere a casa con un amico, aveva marinato la scuola).
Secondo la Corte di appello, andavano anche considerati elementi di segno contrario all’ipotesi accusatoria, come la decisione della ragazza di far rientro nella casa paterna, a dimostrazione che il loro rapporto non fosse irrimediabilmente incrinato e che la stessa avesse subito abituali maltrattamenti; un foglio scritto, ancorché non datato, nel quale la ragazza aveva espresso al padre il suo affetto; il timore della ragazza di essere portata in (OMISSIS) con la famiglia; nonché il diario di quest’ultima, nel quale non vi era traccia di vessazioni, sofferenze e disagi.
Tale quadro consentiva di ritenere tutti i protagonisti della vicenda delle “vittime” di una situazione familiare difficile e dolorosa, anche in ragione della loro incapacità di fronteggiarla efficacemente con serenità.
Relativamente alle lesioni, la Corte di appello rilevava che il referto medico non attestava lesioni “visibili” e che nessuna contusione era stata vista dalla persona che aveva accompagnato la ragazza, quale sua unica confidente, a dispetto della dinamica dei fatti riferiti nella denuncia (colpi inferti con una cinghia).
Secondo la Corte territoriale, andava considerato che al momento in cui la ragazza aveva inteso sporgere la denuncia contro il padre per non fare rientro in casa le era stata detto della necessità di un certificato medico. In tale contesto, ad avviso dei Giudici del gravame, non poteva escludersi che la ragazza avesse ingigantito i fatti.
2. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore presso la Corte di appello di Torino, denunciando i motivi di seguito enunciati nei limiti di cuiall’art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Vizio di motivazione.
La Corte di appello non ha indicato i motivi per cui ha superato il giudizio di piena attendibilità della persona offesa formulato in primo grado dal Tribunale, considerati i riscontri al suo narrato; ha parcellizzato le condotte ascritte all’imputato, limitandosi ad analizzare anche al fine del dolo le sole condotte ingiuriose, astraendole dal contesto di violenza e di sopraffazione, di isolamento in cui viveva la ragazza, e degli abusi sessuali subiti.
La Corte di appello ha valorizzato l’animus corrigendi dell’imputato, dimenticando che, secondo la giurisprudenza di legittimità, questo non può escludere il reato di cuiall’art. 572 c.p.in presenza di una condotta del genitore caratterizzata dall’uso sistematico della violenza nei confronti del figlio.
Risulterebbe travisato poi il dato del comportamento negligente della persona offesa e illogica la conclusione che la ragazza fosse mossa da intenti preordinati di entrare in comunità (non risultando questi ultimi luoghi di svago).
Anche illogico è il ragionamento là dove utilizza una serie di circostanze prive di intrinseca significatività (come lo scritto senza data) anche alla luce di dinamiche familiari (come il rientro casa) o travisate (come il diario, in cui la ragazza aveva scritto che il padre la controllava costringendola a stare a casa).
Parimenti viziata è la motivazione in ordine al reato di lesioni, in quanto il certificato documenta le stesse e lo stesso imputato aveva ammesso di aver fatto uso di una cintura.
3. Con memoria depositata il 12 giugno 2019, la parte civile ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato e va accolto.
2. È appena il caso di rammentare le coordinate esegetiche in tema di motivazione della sentenza che in appello pervenga ad un esito assolutorio rispetto ad una sentenza di condanna pronunciata in primo grado.
Come da ultimo hanno chiarito le Sezioni Unite (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, in motivazione), mentre nel caso di riforma della sentenza assolutoria al giudice d’appello si impone l’obbligo di argomentare circa la plausibilità del diverso apprezzamento come l’unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano inficiato la permanente sostenibilità del primo giudizio, per il ribaltamento della sentenza di condanna, al contrario, il giudice d’appello può limitarsi a giustificare la perdurante sostenibilità di ricostruzioni alternative del fatto, sulla base di un’operazione di tipo essenzialmente demolitivo.
Deve trattarsi, peraltro, di ricostruzioni non solo astrattamente ipotizzabili in rerum natura, ma la cui plausibilità nella fattispecie concreta risulti ancorata alle risultanze processuali, assunte nella loro oggettiva consistenza. E’ dunque necessario che il dubbio ragionevole risponda non solo a criteri dotati di intrinseca razionalità, ma sia suscettibile di essere argomentato con ragioni verificabili alla stregua del materiale probatorio acquisito al processo.
Il giudice d’appello è tenuto infatti a strutturare la motivazione della decisione assolutoria in modo rigoroso, dando puntuale ragione delle difformi conclusioni assunte: anche quando riforma in senso radicale la condanna di primo grado pronunciando sentenza di assoluzione, sussiste per il giudice l’obbligo di confutare in modo specifico e completo le precedenti argomentazioni, essendo necessario scardinare l’impianto argomentativo-dimostrativo di una decisione assunta da chi ha avuto diretto contatto con le fonti di prova.
Ne discende quindi che il giudice di appello, nel riformare la condanna pronunciata in primo grado con una sentenza di assoluzione, dovrà confrontarsi con le ragioni addotte a sostegno della decisione impugnata, giustificandone l’integrale riforma senza limitarsi ad inserire nella struttura argomentativa della riformata pronuncia delle generiche notazioni critiche di dissenso, ma riesaminando, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice e quello eventualmente acquisito in seguito, per offrire una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia adeguata ragione delle difformi conclusioni assunte.
3. Ciò premesso, deve osservarsi in primo luogo che effettivamente, come ha rilevato il ricorrente, la sentenza impugnata ha finito per rendere una motivazione inadeguata e parziale rispetto alla complessiva trama argomentativa del primo giudice.
La Corte di appello ha infatti omesso di prendere in considerazione tutti gli episodi narrati dalla vittima.
La condotta contestata era consistita infatti non solo in “aggressioni verbali”, ma anche in violenze fisiche realizzate ai suoi danni con “pugni sul corpo” e con l’uso della cinghia.
In primo grado, tali episodi violenti, che si era ripetuti sin dall’epoca ((OMISSIS)) in cui l’imputato conviveva con la C., erano stati puntualmente accertati attraverso il racconto della vittima, che era risultato corroborato da riscontri sia diretti che mediati.
Ebbene, la Corte di appello ha analizzato le dichiarazioni della persona offesa soffermandosi solo sugli insulti e sulle umiliazioni verbali subite ad opera dell’imputato e sull’episodio di lesioni del (OMISSIS), tralasciando tutto il resto.
4. In secondo luogo, la Corte di appello, dopo aver così immotivatamente “ridimensionato” e alleggerito la vicenda, ha ritenuto sufficiente inquadrare i fatti sotto una forma di eccesso “educativo” per escluderne la punibilità.
Al riguardo va tuttavia ribadito il pacifico principio, richiamato anche dal primo giudice, che pur aveva esaminato questo aspetto, secondo cui non può ritenersi lecito l’uso sistematico da parte del genitore di violenza fisica e morale, come ordinario trattamento del figlio minore, anche se sorretto da “animus corrigendi” – integrando in tal caso il più grave reato di maltrattamenti in famiglia e non quello di abuso dei mezzi di correzione (per tutte, Sez. 3, n. 17810 del 06/11/2018, dep. 2019, B., Rv. 275701). Né tali comportamenti maltrattanti possono ritenersi compatibili e giustificabili con un intento correttivo ed educativo proprio della concezione culturale di cui l’agente è portatore (tra tante, Sez. 6, n. 48272 del 07/10/2009, E.F., Rv. 245329).
5. Inoltre, la Corte di appello ha posto in discussione la credibilità della persona offesa in relazione ai fatti narrati, facendo leva su argomenti che non venivano tuttavia ad incrinare la diversa valutazione compiuta in primo grado o che risultavano poco significativi in dinamiche di tipo familiare.
Così il timore della ragazza di essere riportata in (OMISSIS), che poteva giustificare il suo allontanamento da casa e portarla ad “ingigantire” i fatti patiti, mal si conciliava con le confidenze effettuate dalla ragazza nell’immediatezza dei fatti sulle violenze subite ad opera dell’imputato e che erano state valorizzate dal primo giudice come riscontro della sua credibilità.
Così il rientro a casa della ragazza, lungi dall’essere sintomatico della “normalità” dei pregressi rapporti intrattenuti con l’imputato, costituiva un elemento – secondo massime di esperienza – non inconciliabile con il configurato reato di maltrattamenti. Risponde invero all’id plerumque accidit il tentativo della vittima di questa tipologia di reati di riallacciare i rapporti familiari con l’autore dei fatti illeciti. Pertanto, tali comportamenti non hanno di per sé valore probante dell’inattendibilità delle dichiarazioni della vittima, soprattutto se queste ultime risultavano corroborate da plurimi elementi esterni di conferma.
In tale prospettiva deve essere collocato anche l’altro elemento valorizzato dalla Corte di appello delle frasi scritte dalla vittima sul foglio rinvenuto, considerato che le stesse non erano neppure collocabili dal punto di vista temporale.
In definitiva, la alternativa lettura del materiale probatorio offerta dalla Corte di appello – che ha introdotto il dubbio ragionevole sul reale accadimento dei fatti – sembra non essere stata argomentata con ragioni dotate di intrinseca razionalità.
6. Per le considerazioni sin qui svolte, la sentenza impugnata risulta affetta da vizi sia giuridici che motivazionali che ne impongono l’annullamento.
Pertanto, in accoglimento del ricorso proposto dal Procuratore Generale della Corte di appello di Torino, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Torino per nuovo giudizio, anche per le eventuali statuizioni in ordine alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute in questo grado e nei precedenti gradi di giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Torino, anche per le eventuali statuizioni in ordine alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute in questo grado e nei precedenti gradi di giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, il 2 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2019