Il figlio nato da parto anonimo non può conoscere informazioni sulla madre, nemmeno se deceduta e nemmeno in presenza di fratelli e sorelle.

Tribunale per i minorenni di Genova, 13 maggio 2019

Il Tribunale per i Minorenni di Genova, riunito in camera di consiglio del 13 maggio 2019 nel-la persona dei signori:
Dr. Luca Villa Presidente rel
Dr.ssa Cinzia Miniotti Giudice
Dr.ssa Lucia Spada Giudice onorario
Dr. Giorgio Macario Giudice onorario
Ha pronunciato il seguente
DECRETO DEFINITIVO
nel procedimento ex art 28 co 5 l. 184/84 a seguito di ricorso proposto da
C. C. nata a xxx il xx.xx.1958, residente in YYYY
Esaminata l’istanza proposta dalla signora C. C., con cui si chiede l’autorizzazione ad accedere a tutte le informazioni inerenti la propria origine nonché l’identità dei propri genitori biologici e in particolare quella della propria madre biologica.
Premesso che una precedente istanza era stata dichiarata inammissibile con decreto presidenziale 30.3.2011 trattandosi di figlia di madre che non intendeva essere nomi-nata e che, alla luce della nuova pronuncia è stata presentata una nuova istanza il 22.11.2017;
Letta e richiamata la sentenza n. 278/2013 della Corte Costituzionale che ha dichiara-to l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7 della legge 184/1983 così come novellato dall’art. 24, comma 7 della legge 149/2001, “nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.p.r. 3 novembre 2000, numero 396 (regolamento per la revisione la semplificazione dell’ordinamento dello stato civi-le, a norma dell’art. 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127) – su richiesta del figlio, ai fini di un eventuale revoca di tale dichiarazione”.
Sentita la richiedente ed esaminati gli atti;
Rilevato che l’autorizzazione da parte del Tribunale per i minorenni al rilascio di in-formazioni, atti e documenti riguardanti l’origine della persona e l’identità dei genito-ri biologici della stessa è richiesta solo nel caso di persona che sia stata adottata (art. 28 L. 184 del 1983) e considerato che, nel caso di specie, l’istante risulta figlio di “donna che non consente di essere nominata” come si evince dall’atto integrale di na-scita;
Rilevato che l’istanza è stata depositata da parte di persona adottata;
Rilevato che:
 si è proceduto ad acquisire la documentazione necessaria volta ad identificare la madre biologica ed in particolare (i riferimenti saranno necessariamente generici al fine di non consentire una compiuta identificazione per le ragioni di seguito esposte) è stata acquisita la cartella clinica dalla quale emergevano le generalità della madre e che si trattava si degente “secondipara”.
 dai documenti anagrafici è così emerso:  che la donna aveva avuto una prima figlia una decida di anni prima della ri-corrente nell’ambito, probabilmente, di un primo matrimonio essendo stata riconosciuta dal padre di cui portava il relativo cognome;
 ha avuto un secondo figlio alcuni anni dopo la nascita della ricorrente, il cui re-lativo padre e marito della donna è in seguito deceduto;
 la madre biologica della ricorrente è deceduta circa 5 anni fa.
Rilevato che non si può pertanto procedere ad interpello della madre.
Rilevato che all’udienza del 2 aprile 2019 è stata sentita la ricorrente, la quale ha chiesto che al colloquio potesse partecipare la propria figlia. La ricorrente, che ha avuto un’esistenza serena, ha appreso solamente in tarda età, ed in particolare in occasione del funerale della propria madre ed in maniera del tutto fortuita, la pro-pria origine adottiva e ha preferito non chiedere al padre le ragioni di tale omessa comunicazione preferendo rivolgersi ad altri parenti. Quanto alle motivazioni della domanda ex art 28 l. adoz. ha preferito attendere la morte del proprio padre (avve-nuta nel 1998). Non sa neppure lei se è pronta a ricevere comunicazioni e in caso di revoca dell’anonimato non avrebbe delle cose specifiche da comunicare alla madre ritenendo che sarebbe lei a dover dare delle spiegazioni sull’abbandono1 (che ipotizza come dovuto a giovane età o induzione da parte di altri). Se poi il Tribunale avesse accertato che la madre fosse potenzialmente pregiudizievole preferirebbe essere contattata per poter rinunciare alla domanda.
1 “Cosa vorrei dire a mia madre nel caso in cui fossi contatta? Nulla, è lei che deve dirmi qualcosa, Come sono andate le cose”
Lette le conclusioni formulate dal PM in data 16.4.2019 (“dà parere favorevole al for-nire informazioni della ricorrente in ordine alla propria madre biologica – ormai dece-duta – omesso ogni dato che possa far risalire all’identità die fratelli biologici”).
Il Tribunale osserva.
Si ritiene di non poter autorizzare l’accesso alle informazioni sull’identità della madre.
L’evoluzione normativa e giurisprudenziale sul tema dell’accesso alle origini in presenza di madre che ha fatto la scelta dell’anonimato prende le mosse dalla Sen-tenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 25 settembre 2012 – Ricorso n.33783/09 – Godelli c. Italia. In tale pronuncia non viene minimamente preso in con-siderazione non solo l’ipotesi della presenza di fratelli, ma neppure l’ipotesi del de-cesso della madre.
Stringendo l’esame alle valutazioni della Corte al fine di individuare i principi che hanno portato a considerare una violazione dell’art 8 della Carta CEDU si possono richiamare i paragrafi 66-71:
66. La Corte deve cercare di stabilire se, nella presente causa, sia stato mantenuto un giusto equilibrio nella ponderazione dei diritti e degli interessi concorrenti ossia, da una parte, quello della ricorrente a conoscere le proprie origini e, dall’altro, quello della madre a mantenere l’anonimato.
67. La Corte ha affermato che gli Stati possono scegliere i mezzi che ritengono più idonei ad assicurare in modo equo la conciliazione tra la protezione della madre e la richiesta legittima dell’interessata di avere accesso alle sue origini nel rispetto dell’interesse generale.
68. Nella fattispecie, la Corte osserva che, contrariamente alla situazione nella cau-sa Odièvre (sopra citata, § 48), la ricorrente non ha avuto accesso a nessuna infor-mazione sulla madre e la famiglia biologica che le permettesse di stabilire alcune radici della sua storia nel rispetto della tutela degli interessi dei terzi. Senza un bi-lanciamento dei diritti e degli interessi presenti e senza alcuna possibilità di ricorso, la ricorrente si è vista opporre un rifiuto assoluto e definitivo di accedere alle pro-prie origini personali.
69. Se è vero che la ricorrente, oggi sessantanovenne, è riuscita a costruire la pro-pria personalità anche in assenza di informazioni relative all’identità della madre biologica, si deve ammettere che l’interesse che può avere un individuo a conoscere la sua ascendenza non viene meno con l’età, anzi avviene il contrario. La ricorrente ha del resto dimostrato un interesse autentico a conoscere l’identità della madre, poiché ha tentato di acquisire una certezza al riguardo. Un tale comportamento pre-suppone delle sofferenze morali e psichiche, anche se queste non vengono accertate da un punto di vista sanitario (Jäggi c. Svizzera, n. 58757/00, § 40, CEDU 2006 X).
70. La Corte osserva che, a differenza del sistema francese esaminato nella sentenza Odièvre, la normativa italiana non tenta di mantenere alcun equilibrio tra i diritti e gli interessi concorrenti in causa. In assenza di meccanismi destinati a bilancia-re il diritto della ricorrente a conoscere le proprie origini con i diritti e gli inte-ressi della madre a mantenere l’anonimato, viene inevitabilmente data una prefe-renza incondizionata a questi ultimi. Peraltro, nella sentenza Odièvre la Corte osser-va che la nuova legge del 22 gennaio 2002 aumenta la possibilità di revocare il segre-to dell’identità e agevola la ricerca delle origini biologiche grazie alla creazione di un Consiglio nazionale per l’accesso alle origini personali. Di immediata applicazio-ne, essa permette ormai alle persone interessate di chiedere la reversibilità del segreto dell’identità della madre, a condizione che quest’ultima vi acconsenta (§ 49), nonché di avere accesso a informazioni non identificative. In Italia, il progetto di legge di riforma della legge n. 184/1983 è a tutt’oggi all’esame del Parlamento dal 2008 (§ 27 supra).
71. Nel caso di specie la Corte osserva che, se la madre biologica ha deciso di man-tenere l’anonimato, la normativa italiana non dà alcuna possibilità al figlio adottivo e non riconosciuto alla nascita di chiedere l’accesso ad informazioni non identificati-ve sulle sue origini o la reversibilità del segreto. In queste condizioni, la Corte ritie-ne che l’Italia non abbia cercato di stabilire un equilibrio e una proporzionalità tra gli interessi delle parti in causa e abbia dunque oltrepassato il margine di discrezio-nalità che le è stato accordato.
Anche la già citata sentenza della Corte Costituzionale n. 278/2013, nel solco della Sentenza Godelli, non esamina in alcun passaggio l’ipotesi della madre decedu-ta.
Nel dichiarare illegittima la disciplina dell’articolo 28 della l. 184/83 la Corte si sofferma unicamente sul rapporto madre-figlio/a senza prendere in alcuna conside-razione soggetti terzi.
In particolare la Corte evidenzia:
Peraltro, in questa prospettiva, anche il diritto del figlio a conoscere le proprie origini – e ad accedere alla propria storia parentale – costituisce un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona, come pure riconosciuto in varie pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo. E il relativo bisogno di conoscenza rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l’intimo atteggiamento e la stessa vita di re-lazione di una persona in quanto tale. Elementi, tutti, affidati alla disciplina che il legislatore è chiamato a stabilire, nelle forme e con le modalità reputate più opportune, dirette anche a evi-tare che il suo esercizio si ponga in collisione rispetto a norme – quali quelle che disciplinano il diritto all’anonimato della madre – che coinvolgono, come si è detto, esigenze volte a tute-lare il bene supremo della vita.
5.(..).
Con la disposizione all’esame, l’ordinamento pare, infatti, prefigurare una sorta di “cri-stallizzazione“ o di “immobilizzazione“ nelle relative modalità di esercizio: una volta interve-nuta la scelta per l’anonimato, infatti, la relativa manifestazione di volontà assume connotati di irreversibilità destinati, sostanzialmente, ad “espropriare” la persona titolare del diritto da qualsiasi ulteriore opzione; trasformandosi, in definitiva, quel diritto in una sorta di vincolo obbligatorio, che finisce per avere un’efficacia espansiva esterna al suo stesso titolare e, dunque, per proiettare l’impedimento alla eventuale relativa rimozione proprio sul figlio, alla posizione del quale si è inteso, ab origine, collegare il vincolo del segreto su chi lo abbia ge-nerato.
Tutto ciò è icasticamente scolpito dall’art. 93, comma 2, del ricordato d.lgs. n. 196 del 2003, secondo cui «Il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler esse-re nominata avvalendosi della facoltà di cui all’articolo 30, comma 1, del decreto del Presi-dente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del do-cumento».
Ebbene, a cercare un fondamento a tale sistema – che commisura temporalmente lo spa-zio del “vincolo” all’anonimato a una durata idealmente eccedente quella della vita umana –, se ne ricava che esso riposa sulla ritenuta esigenza di prevenire turbative nei confronti della madre in relazione all’esercizio di un suo “diritto all’oblio” e, nello stesso tempo, sull’esigenza di salvaguardare erga omnes la riservatezza circa l’identità della madre, eviden-temente considerata come esposta a rischio ogni volta in cui se ne possa cercare il contatto per verificare se intenda o meno mantenere il proprio anonimato.
Ma né l’una né l’altra esigenza può ritenersi dirimente: non la prima, in quanto al perico-lo di turbativa della madre corrisponde un contrapposto pericolo per il figlio, depaupera-to del diritto di conoscere le proprie origini; non la seconda, dal momento che la maggiore o minore ampiezza della tutela della riservatezza resta, in conclusione, affidata alle diverse mo-dalità previste dalle relative discipline, oltre che all’esperienza della loro applicazione.
Sul piano più generale, una scelta per l’anonimato che comporti una rinuncia irreversibile alla “genitorialità giuridica” può, invece, ragionevolmente non implicare anche una definitiva e irreversibile rinuncia alla “genitorialità naturale”: ove così fosse, d’altra parte, risulterebbe introdotto nel sistema una sorta di divieto destinato a precludere in radice qualsiasi possibilità di reciproca relazione di fatto tra madre e figlio, con esiti difficilmente compatibili con l’art. 2 Cost.
In altri termini, mentre la scelta per l’anonimato legittimamente impedisce l’insorgenza di una “genitorialità giuridica”, con effetti inevitabilmente stabilizzati pro futuro, non appare ragionevole che quella scelta risulti necessariamente e definitivamente preclusiva anche sul versante dei rapporti relativi alla “genitorialità naturale”: potendosi quella scelta riguardare, sul piano di quest’ultima, come opzione eventualmente revocabile (in seguito alla iniziativa del figlio), proprio perché corrispondente alle motivazioni per le quali essa è stata compiuta e può essere mantenuta.
6.– La disciplina all’esame è, dunque, censurabile per la sua eccessiva rigidità.
Ciò, d’altra parte, risulta sulla base degli stessi rilievi, in sostanza, formulati dalla Corte EDU nella richiamata “sentenza Godelli”.
In essa – come accennato e nei termini di seguito precisati – si è stigmatizzato che la normativa italiana non darebbe «alcuna possibilità al figlio adottivo e non riconosciuto alla nascita di chiedere l’accesso ad informazioni non identificative sulle sue origini o la rever-sibilità del segreto», a differenza di quanto, invece, previsto nel sistema francese, scrutinato, in parte qua, nella sentenza 13 febbraio 2003, nel “caso Odièvre”.
Ora, è agevole osservare, quanto al primo rilievo, che il già citato art. 93 del d.lgs. n. 196 del 2003 prevede espressamente, al comma 3, la comunicabilità, in ogni tempo (e nel termine di cento anni fissato per il segreto), delle informazioni “non identificative” ricavabili dal certi-ficato di assistenza al parto o dalla cartella clinica, tuttavia ancorandola soltanto all’osservanza, ai fini della tutela della riservatezza della madre, delle relative «opportune cautele per evitare che quest’ultima sia identificabile».
Resta evidente che l’apparente, quanto significativa, genericità, o elasticità, della formula «opportune cautele» sconta l’ovvia – e sia pure non insormontabile – difficoltà di determinare con esattezza astratte regole dirette a soddisfare esigenze di segretezza variabili in ragione delle singole situazioni concrete. Altrettanto evidente che debba, inoltre, essere assicurata la tutela del diritto alla salute del figlio, anche in relazione alle più moderne tecniche diagnosti-che basate su ricerche di tipo genetico.
Il vulnus è, dunque, rappresentato dalla irreversibilità del segreto. La quale, risultan-do, per le ragioni anzidette, in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., deve conseguentemente esse-re rimossa.
Restano assorbiti i motivi di censura formulati in riferimento agli ulteriori parametri.
Sarà cómpito del legislatore introdurre apposite disposizioni volte a consentire la veri-fica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nomi-nata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, se-condo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica di cui innanzi si è detto.
Il tema del decesso della madre è stato invece affrontato dalla Corte di Cassa-zione in tre pronunce.
Nella prime due (Cass sezione I civile, sentenza n. 15024 dep. 21.7.2016, est Bi-sogni e sentenza sezione I civile 9 novembre 2016, n. 22838 est Acierno), in seguito richiamate sul tema generale dalla Sentenza delle Sezioni Unite n 1946/17 del 20.12.2016 (dep. 25.1.2017), non si esamina in alcun caso l’ipotesi della presenza di eredi o di fratelli biologici, mentre nella terza (Cass Sez. 1 6963 del 29.5.2017, dep. 20.3.2018, est. Acierno) tale ipotesi è trattata, ma riguarda in realtà una vicenda di adozione di minore nato da genitore noto, e non da madre che aveva scelto l’anonimato, e nel quale la richiesta riguardava direttamente la conoscenza dei fratelli la cui esistenza era reciprocamente nota.
In particolare la sentenza n. 22838/2016 evidenzia come in caso di decesso non si possa procedere all’interpello con le modalità adottate dai Tribunali per i mi-norenni: “Tale procedimentalizzazione è inutilizzabile, tuttavia, nella fattispecie dedotta nel presente giudizio, dal momento che è impossibile procedere all’interpello della madre “natu-rale”, perché non più in vita. In tale ipotesi, non appare, prima facie, possibile procedere ad alcun bilanciamento d’interessi. L’alternativa sembra porsi in modo radicale. Se si riconosce all’adottato anche in questa peculiare ipotesi il diritto di conoscere le proprie origini, si can-cella lo speculare diritto all’anonimato della madre biologica, ancorché’ il legislatore abbia voluto preservarlo fino a cento anni dalla nascita del figlio ex articolo 93 sopra citato. Se in-vece si conserva il diritto all’anonimato, in mancanza della possibilità dell’interpello della madre, si vanifica del tutto il diritto del figlio a conoscere le proprie origini, nonostante il ri-conoscimento di esso imposto dalle pronunce sopra illustrate”.
La corte così pertanto prosegue ritenendo di risolvere a priori tale bilanciamento:
«5.3 Il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini deve essere garantito anche nel caso in cui non sia più’ possibile procedere all’interpello della madre naturale. A tale inevitabile conclusione, imposta dal delineato quadro costituzionale e convenzionale, è già’ pervenuta questa Corte con la recentissima sentenza n. 15024 del 2016. L’irreversibilità del segreto sull’identità della madre naturale non è più’ compatibile con l’attuale configurazione del di-ritto all’identità personale così come desumibile dall’interpretazione integrata dell’articolo 2 Cost. e dell’articolo 8 Cedu, nella parte in cui tutela il diritto alla vita privata. Lo sbarramento temporale imposto dal Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 93, alla rivelabilità dell’identità della donna che ha scelto l’anonimato al momento della nascita del figlio, non è temperato, nella specie, dalla possibilità di verifica della eventuale sopravvenuta volontà di revoca della scelta compiuta alla nascita.
L’interpretazione della norma che identifichi nell’intervenuta morte della donna, un ostacolo assoluto al riconoscimento del diritto a conoscere le proprie origini da parte dell’adottato, determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra i figli nati da donne che han-no scelto l’anonimato ma non sono più in vita e i figli di donne che possono essere interpel-late sulla reversibilità della scelta operata alla nascita. Tale opzione ermeneutica sarebbe, inoltre, viziata di irragionevolezza perché sottoporrebbe il riconoscimento e l’esercizio di un diritto della persona di primario rilievo ad un fattore meramente eventuale quale quello del momento in cui si chiede il riconoscimento del proprio diritto».
Aderendo questo tribunale a tale principio di diritto il tribunale per i Minorenni di Genova ha già consentito l’accesso all’identità della madre deceduta, ma si è trat-tato di ipotesi nelle quali non risultava la presenza di eredi.
Il tema dei fratelli è stato invece trattato nella sentenza della Corte di Cassa-zione n. 6963/17 ed è interessante e pertinente perché il tema del diritto alla riserva-tezza dei fratelli viene affrontato, seppur in ipotesi non sovrapponibile.
Come accennato, dalla lettura emerge chiaramente che il minore non era stato partorito da donna che intendeva rimanere anonima, in quanto il ricorrente è a cono-scenza di essere andato in adozione in famiglia diversa da quella individuata per i propri fratelli.
Se ne ricava agevolmente, sebbene non espressamente affermato, che si è trattato di un procedimento ex art 8 e segg l. 184/83 all’esito del quale più fratelli so-no stati dichiarati adottabili ed in seguito collocati in diverse famiglie.
L’istanza ex art 28 non riguardava infatti la conoscenza delle generalità della madre ma quella delle proprie sorelle, fattispecie non espressamente contemplata dalla disciplina dell’art 28 e per tale ragione la domanda era stata rigettata dalla Cor-te d’Appello di Torino.
Con sviluppo argomentativo che questo tribunale condivide, la Corte di Cassa-zione ha ritenuto che, nel solco delle pronunce CEDU e della Corte di legittimità, non direttamente ostensibili tali dati, ma ha ritenuto possibile garantire un bilanciamento tra gli interessi dei vari fratelli procedendo, in maniera analoga al parto in anonimo, ad un interpello degli stessi.
In particolare ritiene la Corte che il diritto a conoscere le proprie origini “costi-tuisce un’espressione essenziale del diritto all’identità personale. Lo sviluppo equilibrato della personalità individuale e relazionale si realizza soprattutto attraverso la costruzione della propria identità esteriore, di cui il nome e la discendenza giuridicamente rilevante e ricono-scibile costituiscono elementi essenziali, e di quella interiore” e può richiedere “la cono-scenza e l’accettazione della discendenza biologica e della rete parentale più prossima”. Ag-giunge la Corte che tale diritto si compone di una “pluralità di elementi anche dialettici (…) quali il diritto a conoscere la verità sulla propria storia personale e quello a conservare la costruzione preesistente dell’identità propria e dei terzi eventualmente coinvolti”.
Tale diritto peraltro non è assoluto, ma deve essere contemperato attraverso “l’interpello della madre biologica al fine di verificarne il consenso all’eventuale revoca della scelta dell’anonimato fatta al momento della nascita. Il diritto di quest’ultima a conservare l’identità costruita anche mediante il segreto sull’abbandono del figlio al momento del parto è stato ritenuto rilevante nel bilanciamento d’interessi compiuto dalla Corte ma è stata eli-minata l’intangibilità della scelta, sul rilievo dell’intrinseca mutabilità delle tappe dello svi-luppo e consolidamento della personalità umana”.
A tal fine si è ritenuto di estendere il principio dell’interpello, ma si riconosce la non sovrapponibilità delle due situazioni evidenziando che “Nei confronti dei genitori biologici, il legislatore ha svolto una valutazione generale ex ante sulla netta preminenza del diritto dell’adottato rispetto a quello dei genitori biologici tale da escludere alcun bilanciamento d’interessi da eseguirsi ex post. La scelta del legislatore in ordine ai genitori biologici consegue alla peculiare natura del loro ruolo nel complesso processo che conduce allo status filiationis dell’adottato. La medesima soluzione non è, tuttavia, automaticamente applica-bile anche al diritto di conoscere l’identità delle proprie sorelle e fratelli, in considerazione della radicale diversità della loro posizione rispetto a quella dei genitori biologici con riferi-mento sia alle ragioni della decisione riguardante lo status di figlio adottivo del richiedente sia all’incidenza di questa decisione sullo sviluppo della sua personalità. Può legittimamente determinarsi una contrapposizione tra il diritto del richiedente di conoscere le proprie ori-gini, e quello delle sorelle e dei fratelli a non voler rivelare la propria parentela biologica ed a non voler mutare la costruzione della propria identità attraverso la conoscenza d’in-formazioni ritenute negativamente incidenti sul raggiunto equilibrio di vita. Soltanto nei confronti dei genitori biologici, di conseguenza, il diritto del soggetto adottato adulto che vo-glia accedere alle informazioni sulle proprie origini si può configurare alla stregua di un dirit-to potestativo. Nei confronti delle sorelle e dei fratelli deve, invece, ritenersi necessario pro-cedere, in concreto, al bilanciamento degli interessi tra chi chiede di conoscere le proprie ori-gini e chi, per appartenenza al medesimo nucleo biologico familiare, può soddisfare tale esi-genza, ancorché riconosciuta come diritto fondamentale. Per realizzare in questa peculiare ipotesi il corretto bilanciamento tra le due posizioni almeno astrattamente in conflitto si deve ricorrere alla medesima modalità procedimentale che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 278 del 2013, e le S.U. di questa Corte, con la sentenza n. 1946 del 2017, hanno individuato come lo strumento idoneo a non impedire l’esercizio del diritto a conoscere le proprie origini anche nei confronti di soggetti diversi dai genitori biologici i quali, a differenza di questi ulti-mi, possono non assentire alla richiesta ma devono essere interpellati al riguardo. Le infor-mazioni che si vogliono conoscere, in quanto legate ad una comune origine biologica, hanno natura ontologicamente riservata, trattandosi di dati personali sensibili e sono, di conse-guenza, protette in via generale dalle ingerenze di terzi. D’altra parte, il diritto a conoscere la propria origine da parte dell’adottato adulto (infra o ultraventicinquenne, nel primo caso il diritto è condizionato in funzione dell’esclusivo interesse del richiedente, nel secondo manca di limitazioni) gode di un riconoscimento costituzionale, convenzionale e di diritto positivo (art. 28) non comprimibile (con esclusione dei genitori biologici) se non mediante il dissenso espresso del possessore delle informazioni richieste. Pur non sussistendo per le sorelle ed i fratelli un divieto espresso a far conoscere la propria identità, come quello che vige (con il forte temperamento individuato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità sopra illu-strata) per la madre biologica che ha scelto l’anonimato al momento del parto, deve ricono-scersi anche ai predetti componenti del nucleo familiare originario il diritto di essere interpel-lati in ordine all’accesso alle informazioni sulla propria identità, trovandosi a confronto posi-zioni giuridiche soggettive di pari rango e di contenuto omogeneo sulle quali non vi è stata alcuna predeterminazione legislativa della graduazione gerarchica dei diritti e degli interessi da comporre, come invece previsto nei commi 5 e 6 dell’art. 28, con riferimento all’adottato maggiorenne che voglia conoscere l’identità dei propri genitori biologici”.
Prima di calare tali principi nella vicenda in esame si deve evidenziare come nelle procedure sinora esaminate da questo e da altri Tribunali per i Minorenni, la de-cisione della madre di revocare o meno l’anonimato sia spesso influenzata e determi-nata dalla presenza o meno di eredi ed in particolare dalla conoscenza da parte degli stessi della vicenda adottiva. Così si è assistito a madri che non hanno revocato l’anonimato non avendo mai rappresentato ai propri figli la dolorosa vicenda che l’aveva portata a non riconoscere un figlio (frequente che neppure accettino di presentarsi in Tribunale), così come è frequente che, ricevuta la prima comunicazione, le madri chiedano un rinvio prima di revocare l’anonimato, proprio per spiegare ai figli, che nulla sapevano, quanto era successo e condividere la revoca dell’anonimato.
Ritiene il collegio che non possa accogliersi la soluzione offerta dal PM (rivelare le generalità della madre senza fornire le generalità dei fratelli), perchè per la ricor-rente sarebbe assai semplice effettuare tale verifica e poi entrare in contatto con i fratelli, senza che gli stessi siano stati preparati e informati, né che si possa procedere all’interpello dei fratelli così come ritenuto dalla Corte di Cassazione.
Si potrebbe infatti procedere all’interpello in presenza di elementi certi dai quali desumere che gli stessi siano a conoscenza della vicenda adottiva, ma tale dato non è desumibile in alcun modo nella vicenda in esame, perchè l’unico soggetto de-positario di tale possibile “segreto” è la madre ormai deceduta. Né si può ovviamen-te procedere all’interpello degli stessi al solo fine di apprendere la conoscenza o me-no di tale vicenda perché ciò comporterebbe inevitabilmente la comunicazione di tale dato particolarmente sensibile.
Si ritiene che non siano necessarie eccessive dissertazioni per comprendere le potenzialmente gravi ricadute psicologiche del rivelare ad una persona, che mai ha saputo dalla propria madre che in epoca antecedente o successiva la propria nascita (nel caso in esame sono presenti entrambe le ipotesi), che la stessa tenne celata una gravidanza decidendo di non riconoscere il figlio mandandolo in adozione.
Il Tribunale non sa quale sia stata la narrazione famigliare, quale rappresenta-zione la madre abbia voluto dare di sé ai propri figli con scelte che lo Stato non può sindacare rendendosi altrimenti responsabile di una grave ingerenza nella vita privata dei fratelli e/o della madre, con evidente violazione dell’art 8 CEDU.
Anche la vicenda in esame insegna come l’apprendere la propria origine adot-tiva in maniera del tutto casuale e senza la possibilità di chiedere alla madre le ragioni della sua scelta, senza poter essere aiutati pertanto a ricostruire l’intera propria vi-cenda e la rappresentazione che la madre ha fornito di sé stessa e delle proprie vi-cende mentre era in vita, è notizia che apre conflitti emotivi e scenari traumatici che non possono essere superati con la mera convinzione che si è tratta da alcune ricer-che delle origini concluse con l’auspicato lieto fine.
Si consideri ad esempio, come è avvenuto nel caso di specie, che la ricorrente è nata quando il/la primo/a figlio/a si trovava in preadolescenza e quindi sicuramente in grado di discernere. Ed è verosimile – o comunque possibile come è esperienza di questo e di altri giudici minorili – che la madre sia riuscita a tenere celata la gravidan-za. E’ intuibile pertanto la quantità di domande che l’attuale adulto vorrebbe poter fare alla madre sul come e sul perché abbia deciso di non riconoscere tale figlio o la necessità di rileggere le vicende famigliari (i 2 fratelli sono figli di 2 padri diversi e l’istante potrebbe essere figlia di un terzo padre) senza avere alcun soggetto al quale potersi rivolgere e non potendo di certo trovare spiegazioni dalla conoscenza del fra-tello andato in adozione a seguito del non riconoscimento.
Il collegio ritiene pertanto di non poter dare accesso alle proprie origini non rinvenendo il Collegio una soluzione che possa bilanciare i contrapposti interessi – e qui tralasciando che sia nell’istanza, che nel verbale di udienza, la ricorrente mai ha evidenziato un interesse alla presenza di eventuali fratelli – e ritenendo che in questo specifico caso sia necessario limitare il diritto alla conoscenza delle proprie origini non potendosi comunicare le generalità della madre senza coinvolgere soggetti terzi po-tenzialmente portatori di interessi contrapposti.
Peraltro, essendo stata acquisita, a seguito della istanza, copia degli atti relati-vi al richiedente attraverso l’acquisizione della Cartella Clinica e copia dell’atto inte-grale di nascita, ben può accedersi alla domanda di accesso a detti atti, con omissione di ogni dato utile alla identificazione della madre e degli altri parenti della stessa.
PQM
Visto l’art. 28 legge 184/1983 e successive modifiche;
DICHIARA
non potersi procedere in ordine all’istanza del ricorrente relativa all’accesso alle in-formazioni riguardanti l’identità dei genitori biologici
AUTORIZZA
il rilascio di copia dell’acquisito atto integrale di nascita e la visone ed eventuale estrazione di copia della Cartella sanitaria relativi al richiedente con omissione di ogni atto utile alla identificazione della madre
INCARICA
il Giudice Onorario dr. Lucia Spada per l’accompagnamento alla visione e per l’estrazione degli atti.

Il figlio beneficiario del fondo patrimoniale può agire in giudizio per far valere i propri interessi.

Cass. civ. Sez. I, Ord del 4 settembre 2019, n. 22069; Pres. Genovese; Rel. Tricomi.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 29395/2015 proposto da:
M.C., M.F. e R.R., elettivamente domiciliati in Roma, Via di Ripetta n. 70, presso lo studio
dell’avvocato Borrelli Achille, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Albertini Mauro,
giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Banca Antonveneta S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in Roma, Lung.ne Arnaldo da Brescia n. 9, presso lo studio dell’avvocato Mannocchi
Massimo, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato De Poli Matteo, giusta procura in
calce al controricorso incidentale;
– controricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 2332/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il
08/10/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16/11/2018 dal cons. TRICOMI
LAURA;
lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
SORRENTINO Federico, che ha chiesto l’inammissibilità del ricorso principale promosso da M.F. e
R.R., l’inammissibilità del ricorso principale promosso da M.C. per sopravvenuta carenza di
interesse, assorbito l’esame del ricorso incidentale.
Svolgimento del processo
CHE:
M.F. e R.R. avevano contratto matrimonio nel 1990; in data 15/10/1996 era nato il figlio M.C.;
l’8/10/1999 i coniugi, con atto rogato dar notaio C.C., avevano costituito un fondo patrimoniale,
destinandovi gli immobili siti in (OMISSIS) l’immobile adibito a casa familiare e l’immobile adibito
a studio dell’arch. M..
Nell’atto di costituzione del fondo, all’art. 4 venne inserita la clausola secondo la quale era
espressamente convenuto che i beni costituiti in fondo patrimoniale potevano “essere alienati,
ipotecati e dati in pegno o comunque vincolati con il solo consenso di entrambi i coniugi, senza
necessità di alcuna autorizzazione giudiziale”.
In data 7/6/2002 i coniugi stipularono un contratto di mutuo con la Banca Antonveneta con
concessione di garanzia ipotecaria per l’importo di Euro 1.080.000,00 sui beni immobili siti in
Venezia, Castello, senza richiedere l’autorizzazione del Giudice Tutelare, in forza del citato art. 4.
In data 20/7/2004 i coniugi stipularono un nuovo contratto di mutuo con la banca di Euro
1.050.000,00, destinato ad assorbire il precedente finanziamento, anch’esso garantito con la
concessione di garanzia ipotecaria sui medesimi beni di (OMISSIS), sempre senza richiedere
autorizzazione del Giudice tutelare.
Con atto di citazione notificato in data 16/4/2009 il figlio minorenne M.C. (nato nel 1996),
rappresentato dai genitori M.F. e R.R., aveva quindi convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di
Venezia la Banca Antonveneta SPA (ora Monte dei Paschi di Siena SPA) per far accertare
l’invalidità della clausola contenuta nell’atto costituivo del fondo patrimoniale, nella parte in cui
escludeva che il compimento di atti di disposizione dei beni del fondo fosse subordinato alla
preventiva autorizzazione del Giudice Tutelare, in presenza di beneficiario minore di età e, quindi,
per far accertare l’invalidità della garanzia ipotecaria rilasciata senza previa autorizzazione del G.T.
In primo grado la domanda proposta da M.C. era dichiarata inammissibile perché formulata
direttamente contro la banca, mentre, secondo il Tribunale, avrebbe dovuto essere proposta nei
confronti dei genitori, previa autorizzazione del GT e nomina di un curatore speciale.
La Corte di appello ha confermato la prima decisione con diversa motivazione.
In primis ha affermato, sulla scorta del ragionamento svolto in Cass. n. 17811 dell’8/8/2014 che i
figli minori sono legittimati a dedurre l’invalidità degli atti di disposizione del fondo patrimoniale,
in quanto titolari di una posizione giuridicamente tutelata attesa la configurabilità di uno specifico
interesse degli stessi ad interloquire sulle operazioni effettuate dai titolari del diritto di proprietà dei
beni costituiti nel fondo patrimoniale in ragione delle possibili conseguenze degli stessi sulla
consistenza del patrimonio istituzionalmente destinato esclusivamente al soddisfacimento dei
bisogni della famiglia, senza che ciò sia inciso dalla facoltà espressamente riconosciuta ai coniugi
dal legislatore di derogare convenzionalmente al previsto divieto di alienazione dei beni del fondo,
stabilito in via generale dall’art. 169 c.c., comma 1.
Ha quindi ravvisato tale legittimazione ad agire in capo a M.C., riconoscendola nei confronti della
banca, in relazione alla domanda principale volta ad ottenere la dichiarazione di invalidità dell’atto
costitutivo dell’ipoteca, ritenendo che la valutazione della legittimità della clausola di esonero dalla
necessità di previa autorizzazione giudiziale, introdotta dai genitori nell’atto di costituzione del
fondo, costituiva oggetto di un esame incidentale.
Passando, quindi, all’esame della clausola derogatoria dell’autorizzazione giudiziale in questione, ne
ha ravvisato la legittimità, sulla base dell’interpretazione dell’art. 169 c.c., comma 1. Sul punto ha
affermato che “L’espressa previsione normativa non può certo leggersi in forma dicotomica, per cui
la deroga all’autorizzazione può valere solo per evitare la necessità di ottenere il consenso di
entrambi i coniugi la fine di rendere validi gli atti di disposizione del fondo, ma non per rendere
possibili gli atti di disposizione posti in essere in presenza di figli minori” (fol.7 della sent. imp.) e
ne ha tratto la conclusione che il legislatore ha riservato alla volontà dei costituenti la facoltà di
limitare il potere dispositivo sui beni del fondo.
M.C., M.F. e R.R. propongono ricorso per cassazione con due mezzi. La banca replica con
controricorso e ricorso incidentale condizionato con un mezzo.
Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e art.
380 bis 1 c.p.c..
Il PG ha presentato conclusioni scritte chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso proposto da
M.F. e R.R. ed inammissibile il ricorso proposto da M.C., assorbito il ricorso incidentale.
Motivi della decisione
CHE:
1.1. Preliminarmente osserva la Corte che vanno esaminate con priorità le questioni pregiudiziali di
rito proposte dalla banca nel controricorso ed il motivo di ricorso incidentale, anche se definito
condizionato.
1.2. La prima questione pregiudiziale risulta fondata. Va, infatti, dichiarato inammissibile, come
eccepito dalla controricorrente, il ricorso per cassazione promosso in proprio da M.F. e R.R., dopo
il raggiungimento della maggiore età da parte del figlio, perché nei precedenti gradi di giudizio essi
non erano presenti in proprio, in quanto si erano costituiti solo nella qualità di rappresentanti del
figlio minore e questi, divenuto maggiorenne, ha proposto ricorso per cassazione personalmente
(Cass. Sez. U. n. 21670/2013).
1.3. La seconda questione riguarda la posizione di M.C. Questi, minorenne all’epoca
dell’introduzione del giudizio di primo grado, è divenuto maggiorenne in epoca antecedente alla
presentazione del ricorso per cassazione.
La controricorrente sostiene che vi sarebbe una carenza di interesse alla pronuncia ex art. 100 c.p.c.
perché, in ragione del raggiungimento della maggiore età, questi non avrebbe più interesse alla
pronuncia in merito alla denunciata violazione dell’art. 169 c.c., – con riferimento alla clausola
derogativa della disciplina codicistica che prevede che gli atti di straordinaria amministrazione
siano autorizzati dal giudice, in presenza di figli minori – poiché tale pronuncia anche, se
favorevole, non potrebbe produrrebbe alcun effetto in suo favore, perché da maggiorenne, non
potrebbe più invocare l’applicazione dell’art. 169 c.c., e, anche se convivente con i genitori, non
avrebbe che aspettative di mero fatto all’impiego, in suo favore, del bene e dei frutti recuperati con
la restituzione del prezzo a suo tempo ricevuto, richiamando all’uopo la sentenza della S.C. n. 12497
del 21/5/2010.
La questione dovrà essere affrontata all’esito della disamina del motivo di ricorso concernente il
lamentato difetto di legittimazione attiva di M.C.
1.4. Infine la controricorrente ha eccepito la nullità del giudizio sostenendo che questo era stato
introdotto in primo grado dai genitori in rappresentanza del figlio, nonostante vi fosse un palese
conflitto di interessi, poiché l’ipoteca volontaria di cui è stato chiesto l’annullamento era stata accesa
proprio dai genitori.
L’eccezione è infondata, giacché “La verifica del conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in
giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale va operata in concreto, alla stregua degli
atteggiamenti assunti dalle parti nella causa, e non in astratto ed “ex ante”, ponendosi una diversa
soluzione in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo.” (Cass. n. 8438 del
05/04/2018; Cass. n. 1721 del 29/01/2016) e nel caso concreto, pur in assenza della nomina di un
curatore speciale, non sussiste la ricorrenza di tale conflitto tra il figlio minore ed i genitori, attesa
l’attività processuale effettivamente svolta da questi ultimi in favore del figlio, il quale, raggiunta la
maggiore età, ha proposto ricorso per cassazione, insieme ai genitori, insistendo nelle medesime
domande.
2.1. Va quindi esaminato con priorità, il ricorso incidentale della banca, nonostante risulti proposto
in via condizionata all’eventuale riforma della decisione impugnata, stante la priorità logica e
giuridica della questione affrontata.
2.2. La ricorrente incidentale, rimarcando di avere eccepito la carenza di legittimazione attiva in
capo a M.C. dinanzi alla Corte territoriale, lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 81
c.p.c., per avere erroneamente ritenuto che questi, rappresentato dai suoi genitori, avesse la
legittimazione attiva per agire in giudizio.
A parere della ricorrente incidentale, M.C. non era legittimato a proporre l’azione di annullamento
dell’iscrizione ipotecaria, non vantando alcun diritto soggettivo sui beni colpiti dall’ipoteca
(impugnata) costituita sui beni di proprietà esclusiva dei genitori, pur essendo destinato a ricevere,
quale appartenente alla famiglia nel suo complesso, i vantaggi della costituzione del fondo
patrimoniale. Sostiene che i figli minori non sono titolari di una pretesa giuridicamente tutelabile,
ma solo portatori di un semplice interesse e che per tale motivo non siano abilitati a far valere in
giudizio un diritto del quale non hanno la piena disponibilità e titolarità.
2.3. Il motivo è infondato.
2.4. Osserva la Corte che la costituzione del fondo patrimoniale (art. 167 c.c.) è funzionale a far
fronte ai bisogni della famiglia, intesi come esigenze di vita dei suoi componenti considerate anche
con una certa ampiezza, ricomprendendo in esso, oltre alle esigenze primarie attinenti alla vita della
famiglia (mantenimento, abitazione, educazione della prole e dei componenti il nucleo, cure
mediche, ecc.), in conformità con il potere di indirizzo della vita familiare in capo ai coniugi, anche
i bisogni relativi allo sviluppo stesso della famiglia, nonché al potenziamento della sua capacità
lavorativa.
La norma non si riferisce alla così detta famiglia parentale bensì alla famiglia nucleare; in essa sono
compresi i figli legittimi, naturali ed adottivi dei coniugi, minori e maggiorenni non autonomi
patrimonialmente, nonché, secondo la dottrina, gli affiliati ed i minori in affidamento temporaneo;
in quest’ultimo caso in considerazione del fatto che i coniugi sono tenuti al mantenimento di tali
soggetti.
Al riguardo occorre quindi considerare, come già evidenziato da questa Corte, che “la disciplina del
fondo patrimoniale, istituto introdotto dalla legge di Riforma del diritto di famiglia in sostituzione
del preesistente patrimonio familiare, non risulta esaustiva, avendo il legislatore ad essa dedicato
soltanto cinque articoli, all’interno dei quali non sono puntualmente delineate e distinte le diverse
fasi della costituzione, della gestione, della modificazione e dell’estinzione del fondo. Non solo, ma
nella disciplina adottata sono ravvisabili profili di dubbia coerenza fra i quali, per la parte di
interesse, va evidenziato quello individuabile nella disposta attenuazione dei vincoli di inalienabilità
ed inespropriabilità dei beni, rispetto alla precedente disciplina dettata in tema di patrimonio
familiare (art. 167 c.c., comma 2 nella previgente formulazione). Tale attenuazione non risulta
infatti in totale e assoluta sintonia con la funzione che il fondo è destinato a svolgere,
incontestabilmente consistente nella istituzione di un patrimonio a sé (prescindendo in questa sede
da ogni considerazione in ordine alla sua qualificazione come autonomo o separato), con vincolo di
destinazione dei beni a far fronte ai bisogni della famiglia e ad adempiere alle eventuali
obbligazioni sorte per il soddisfacimento della detta esigenza. Più precisamente i vincoli in
questione sono individuabili rispettivamente nelle limitazioni nell’amministrazione e
nell’alienazione dei beni del fondo indicate dall’art. 169 c.c., (in deroga alla regola generale dettata
dall’art. 1379 c.c.), nonché in quella consistente nella previsione di inespropriabilità per alcuni
crediti contemplata dall’art. 170 c.c. (in deroga all’art. 2740 c.c.) e costituiscono lo strumento
attraverso il quale l’istituto realizza nel concreto la funzione economico – sociale che il legislatore
ha inteso attribuirgli” (Cass. n. 17811 del 08/08/2014).
Invero, la ragione ispiratrice dell’istituto è individuabile nell’obiettivo di assicurare un sostegno
patrimoniale alla famiglia e di realizzare una situazione di vantaggio per tutti i suoi diversi
componenti: quanto alla posizione dei figli, due sono le disposizioni che, nel pur scarno apparato
normativo dedicato all’istituto, vi fanno esplicito riferimento: l’art. 169 c.c., comma 1, in tema di
atti di straordinaria amministrazione, secondo il quale “Se non è stato espressamente consentito
nell’atto di costituzione, non si possono alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare
beni del fondo patrimoniale se non con il consenso di entrambi i coniugi e, se vi sono figli minori,
con l’autorizzazione concessa dal giudice, con provvedimento emesso in camera di consiglio, nei
soli casi di necessità od utilità evidente” e l’art. 171 c.c., in tema di cessazione ex lege del fondo,
secondo il quale “(1) La destinazione del fondo termina a seguito dell’annullamento o dello
scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio. (2) Se vi sono figli minori il
fondo dura fino al compimento della maggiore età dell’ultimo figlio. In tale caso il giudice può
dettare, su istanza di chi vi abbia interesse, norme per l’amministrazione del fondo. (3) Considerate
le condizioni economiche dei genitori e dei figli ed ogni altra circostanza, il giudice può altresì
attribuire ai figli, in godimento o in proprietà, una quota dei beni del fondo.”.
Alla luce di tali disposizioni, se è vero che la costituzione del fondo non determina per ciò solo la
perdita della proprietà dei singoli beni da parte dei coniugi che ne sono titolari e che gli stessi
possono riservarsi nell’atto di costituzione la facoltà di alienazione, è pur vero che la detta
istituzione (peraltro concretizzata per effetto di una libera scelta dalle parti) determina un vincolo di
destinazione per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia (e quindi di tutti i suoi componenti, in
essi compresi i figli), che il legislatore ha inteso assicurare proprio con la previsione di una serie di
misure di sostegno in favore dei componenti più deboli, fra le quali particolarmente significativa
risulta quella sopra citata per la quale, ricorrendone le prescritte condizioni, il giudice può attribuire
in proprietà ai figli una quota dei beni (art. 171 c.c, comma 3), così legittimando, sostanzialmente,
una espropriazione per tale causa (in proposito, cfr. Cass. n. 17811 del 08/08/2014).
2.5. Orbene la previsione di dette misure di protezione, anche ove ne sia prevista la derogabilità (art.
169 c.c., comma 1) è sintomatica del riconoscimento da parte del legislatore di un interesse
qualificato in capo ai figli che risulta inconciliabile, perché intimamente in conflitto con la ratio
normativa, con l’esclusione della legittimazione ad agire per far valere in giudizio il proprio
interesse nella qualità di beneficiario del fondo nelle forme ordinarie e ad interloquire sulle opzioni
operative eccedenti l’ordinaria amministrazione effettuate dai titolari del diritto di proprietà dei beni
facenti parte del fondo, atteso che per i componenti del nucleo familiare non è certamente
irrilevante la consistenza del patrimonio istituzionalmente destinato all’esclusivo soddisfacimento
dei relativi bisogni (Cass. n. 17811 del 08/08/2014).
2.6. Si deve quindi affermare che le disposizioni codicistiche a tutela del figlio, quali beneficiario
del fondo, sono strumenti di protezione che non escludono, e quindi consentono, che il figlio sia
anche legittimato ad agire in giudizio per far valere un proprio interesse in relazione agli atti
eccedenti l’ordinaria amministrazione.
2.7. Ciò vale anche per il figlio maggiorenne, ovvero divenuto maggiorenne nel corso del giudizio,
come nel presente caso, non potendosi ritenere solo perciò che non abbia più interesse ad agire, in
assenza di elementi da cui desumere che il figlio è uscito dalla famiglia ove, come nel presente
caso, il fondo patrimoniale non sia cessato ed egli ne continui a beneficiare, di guisa che emerge
anche l’infondatezza della questione riassunta al par.1.3.
In proposito, quanto affermato da Cass. n. 12497 del 21/5/2010, richiamata dalla ricorrente
incidentale, per sostenere la carenza di interesse ad agire del figlio divenuto maggiorenne in
relazione alla domanda concernente l’inosservanza dell’art. 169 c.c., comma 1, – e cioè che la
retroattività della pronuncia giudiziale non varrebbe a ripristinare la situazione alla quale il
legislatore avrebbe in tesi accordato la speciale tutela diretta, perché essa si limiterebbe a restituire
il bene, con i relativi frutti, alla disponibilità dei coniugi in piena autonomia, sottratta ormai al
controllo autorizzativo del giudice, laddove i figli divenuti maggiorenni, qualora pure fossero
ancora conviventi, non avrebbero che aspettative di mero fatto all’impiego, in loro favore, del bene
e dei frutti recuperati con la restituzione del prezzo a suo tempo ricevuto – risulta evidentemente
superato dai principi enunciati da Cass. n. 17811 del 08/08/2014, che ricostruiscono in termini più
ampi e convincenti l’interesse perseguito attraverso l’istituzione del fondo patrimoniale e
riconoscono in relazione allo stesso anche il diritto di azione”.
2.8. Tale conclusione, riferita al figlio maggiorenne, trova conferma nel complesso quadro
normativo che disciplina i rapporti familiari.
Innanzi tutto, la norma che autorizza la costituzione del fondo patrimoniale non pone alcuna
limitazione in relazione all’età dei figli (art. 167 c.c.): ciò si evince dal dato letterale e trova
riscontro in una lettura sistematica delle norme che regolano la responsabilità genitoriale ed i diritti
e doveri del figlio (artt. 315 c.c. e ss.), la disciplina degli alimenti (art. 433 c.c.) e le altre norme che
eimpfirsano il fondo patrimoniale.
Nell’ambito delle disposizioni che genitoriale il legislatore utilizza, di regola, il termine “figlio”,
salvo a precisare – laddove necessario – che la disposizione si riferisce al “figlio minore”, ovvero ad
indicare gli effetti del raggiungimento della maggiore età. In proposito va osservato che il diritto al
mantenimento è previsto a favore del “figlio”, senza alcuna limitazione, (art. 315 bis c.c., art. 316
bis c.c.), anche se alla luce della elaborazione giurisprudenziale maturata soprattutto in caso di
separazione e divorzio, il diritto del maggiorenne è circoscritto al caso in cui non abbia raggiunto
l’autonomia economica: invero l’obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il
raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora questi, senza sua colpa, divenuto
maggiorenne, sia tuttavia ancora dipendente dai genitori (Cass. n. 32529 del 14/12/2018; Cass. n.
5088 del 05/03/2018); per altro verso è previsto, per il figlio minore, il divieto di abbandonare la
casa di genitori (art. 318 c.c.), anche se – significativamente – non si riscontra alcuna disposizione
che limiti la convivenza del figlio maggiorenne presso la casa dei genitori.
Anche la disciplina del diritto agli alimenti, che riguarda i componenti della famiglia nucleare (ma
non solo, ex art. 433 c.c.), attribuisce la facoltà di richiedere gli alimenti, non in ragione dell’età, ma
della ricorrenza dello stato di bisogno e della incapacità del richiedente a provvedere al proprio
mantenimento (art. 438 c.c.).
La previsione dello strumento di protezione per il minore, riconosciuto dell’art. 169 c.c., comma 1,
alla luce di questo quadro normativo, non osta a che un figlio che abbia raggiunto la maggiore età
possa continuare ad essere beneficiato dal fondo patrimoniale ancora in essere, a maggior ragione se
non sia emerso alcun elemento da cui desumere che lo stesso sia “economicamente autosufficiente”
ed autonomo rispetto alla famiglia di origine, e che possa far valere il proprio interesse in via
giudiziaria.
Anche la previsione dell’art. 171 c.c. non può condurre a diversa conclusione. Il riconoscimento
dell’efficacia ultrattiva del fondo, qualora vi siano figli minori, fino al raggiungimento della
maggiore età di questi, nel caso in cui la destinazione sarebbe dovuta terminare ex lege, a seguito
dell’annullamento o dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio,
costituisce un’altra fattispecie di tutela rafforzata a favore del soggetto debole che, per la sua
specificità, non consente affatto di dedurre, al contrario che il raggiungimento della maggiore età
del figlio determini, nel diverso ed ordinario caso in cui il fondo patrimoniale sia in essere, la sua
sostanziale estromissione, di guisa che permane inalterato l’interesse a che i beni restino vincolati ai
bisogni della famiglia.
2.9. Il motivo risulta pertanto infondato, dovendosi affermare il principio secondo il quale “I figli,
quali beneficiari del fondo patrimoniale, sono legittimati ad agire in giudizio in relazione agli atti
dispositivi eccedenti l’ordinaria amministrazione che incidano sulla destinazione dei beni del
fondo.”.
3.1. Si deve quindi passare all’esame del ricorso principale.
3.2. Con il primo motivo si sostiene la violazione e falsa applicazione dell’art. 169 c.c., per avere la
Corte di appello erroneamente ritenuto che la stessa consentisse ai soggetti costituenti il fondo
patrimoniale di omettere il controllo giudiziale sugli atti di disposizione di beni del fondo in
presenza di minori, assumendo che tale previsione comportava la nullità della clausola in parte qua.
3.3. Con il secondo motivo si ripropongono le domande dichiarate assorbite in appello.
3.4. Il primo motivo è infondato.
Invero, se non è stato espressamente consentito nell’atto di costituzione, non si possono alienare, per
la durata del fondo patrimoniale, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare i beni del fondo
patrimoniale se non con il consenso di entrambi i coniugi e, se vi sono figli minori, al consenso
deve aggiungersi l’autorizzazione concessa dal giudice, con provvedimento emesso in camera di
consiglio, nei soli casi di necessità od utilità evidente. Pur in presenza di figli minori, infatti, si deve
ritenere che la disciplina legale sancita dall’art. 169 c.c. – e quindi la preventiva autorizzazione del
giudice alla alienazione di beni del fondo – si renda applicabile solo in mancanza di deroga prevista
nell’atto di costituzione del fondo patrimoniale (in questi sensi, Cass. n. 13622 del 4/6/2010).
Nel caso in esame la clausola risponde al modello normativo derogatorio ed il motivo va respinto.
Nel motivo peraltro non vi è riferimento alla questione dell’utilità dell’operazione che, comunque,
riguardando l’attuazione data al potere di disposizione attribuito con la clausola, non avrebbe potuto
mai comportare la nullità della clausola (per la quale agiscono), ma un inadempimento da parte dei
soggetti costituenti il fondo patrimoniale.
3.5. Il secondo motivo è assorbito dal rigetto del primo.
4.1. Il rigetto del motivo di ricorso principale consente di ritenere assorbita la questione sollevata
dal Procuratore Generale in merito alla denunciata nullità dell’intero giudizio per difetto di
contraddittorio nei confronti dei coniugi – quali parti necessarie nel giudizio promosso dal figlio al
fine di invalidare la clausola del fondo patrimoniale (Cass. n. 19330 del 03/08/2017) -, alla luce del
principio della ragionevole durata del processo, giacché, essendo il ricorso prima facie infondato,
risulta prioritario definirlo con immediatezza senza provvedere all’integrazione del contraddittorio,
trattandosi di attività processuale ininfluente sull’esito del giudizio (Cass. n. 11287 del 10/5/2018;
Cass. n. 29843 del 13/12/2017).
5. In conclusione va dichiarato inammissibile il ricorso proposto in proprio da M.F. e da R.R.; il
ricorso principale proposto da M.C. va rigettato e così anche il ricorso incidentale.
Le spese del giudizio di legittimità si compensano.
Sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. 30.05.2002 n. 115, sia per i
ricorrenti principali che per la ricorrente incidentale.
P.Q.M.
– Dichiara inammissibile il ricorso proposto da M.F. e R.R.;
– Rigetta il ricorso principale proposto da M.C. ed il ricorso incidentale;
– Compensa le spese di giudizio tra le parti;
– Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti principali che della ricorrente incidentale,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del
comma 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 16 novembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 4 settembre 2019

Il diritto di credito scaturente dalla conclusione di un preliminare di compravendita non cade in comunione legale ai sensi dell’art. 177 c.c. pertanto, il coniuge del promissario acquirente non può vantare una pretesa giuridicamente tutelata per effetto del contratto concluso dall’altro coniuge

Cass. civ. Sez. II, 9 settembre 2019, n. 22458
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 20932-2016 proposto da:
L.N.A., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DELLA LIBERTA’ 20, presso lo studio dell’avvocato SALVATORE SICA, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
T.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 9, presso lo studio dell’avvocato ANTONELLA MASTROCOLA, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO DEL MANTO in virtù di procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
e contro
T.C.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 296/2016 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 06/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/06/2019 dal Consigliere Dott. MAURO
CRISCUOLO;
udito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. CELESTE ALBERTO, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo di ricorso ed assorbimento del secondo;
udito l’Avvocato Francesco Anelli, per delega dell’Avvocato Salvatore Sica per la ricorrente, e l’Avvocato Antonio Del Manto per il controricorrente.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. La ricorrente conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Salerno T.A. e T.C., affinché fosse accertato che il preliminare di compravendita concluso dal primo con la seconda, con scrittura privata del 29 giugno 1998, era stato stipulato anche in nome e per conto dell’attrice, coniugata con il promissario acquirente in regime di comunione legale, con conseguente ordine al Conservatore di disporre la trascrizione della sentenza.
Nella resistenza del convenuto, il Tribunale rigettava la domanda con la sentenza n. 2014 del 2008, ravvisando la carenza di legittimazione attiva dell’attrice, atteso che i diritti di credito nascenti dal preliminare di vendita concluso da uno solo dei coniugi non rientrano nella comunione legale.
Avverso tale sentenza proponeva appello L.N.A. istando altresì per l’adozione della pronuncia costituiva exart. 2932 c.c., laddove il T. proponeva appello incidentale lamentando l’omessa pronuncia sulla domanda di cessazione della materia del contendere, atteso che nelle more il bene compromesso in vendita era stato alienato ad un terzo soggetto.
La Corte d’Appello di Salerno con la sentenza n. 296 del 6 giugno 2016 rigettava il gravame.
Dopo aver precisato che le domande da delibare erano unicamente quelle oggetto dell’atto di citazione, essendo le altre successivamente proposte inammissibili, come appunto rilevato dal Tribunale alla pag. 4 della motivazione, senza che tale statuizione fosse stata oggetto di specifico gravame, riteneva che la critica mossa dall’appellante principale non potesse essere accolta.
A tal fine richiamava la costante giurisprudenza di legittimità che, nel corso degli anni, aveva ribadito l’esclusione dal novero dei beni suscettibili di ricadere in comunione legale il diritto di credito scaturente dalla conclusione di un preliminare di compravendita, dovendosi quindi escludere che il coniuge del promissario acquirente possa vantare una pretesa giuridicamente tutelata per effetto del contratto concluso dall’altro coniuge.
I precedenti richiamati attenevano a differenti ipotesi di diritto di credito, quali acquisti di diritti azionari o obbligazionari, che possono comunque esser assimilati in senso lato all’acquisto di beni, trattandosi di entità che hanno una componente patrimoniale suscettibile di acquisire un valore di scambio, a differenza del diritto di credito alla stipula del definitivo.
Andava altresì rigettato il motivo di appello con il quale si contestava la condanna alle spese, posto che si trattava di una corretta applicazione del principio di soccombenza, nonché l’appello incidentale del T., in quanto per la cessazione della materia del contendere è necessario che via sia l’accordo di tutte le parti circa il verificarsi di tale evento.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso L.N.A. sulla base di due motivi.
T. Amedeo ha resistito con controricorso.
T.C. non ha svolto difese in questa fase.
La Sesta sezione con ordinanza interlocutoria n. 15720/2018 ha ritenuto opportuna la trattazione della causa alla pubblica udienza.
Il controricorrente ha depositato memorie in prossimità dell’udienza.
2. Il primo motivo denunzia la violazione e falsa applicazione degliartt. 177 e 2932 c.c., contestandosi la correttezza della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che fossero esclusi dalla comunione legale gli eventuali diritti scaturenti a favore del coniuge in regime di comunione legale, a seguito della conclusione di un preliminare di compravendita immobiliare.
Si sollecita nella sostanza, pur nella consapevolezza dell’esistenza di una serie di precedenti di legittimità di segno contrario alla tesi invece sostenuta dalla ricorrente, un ripensamento di tale orientamento, al fine di estendere l’ambito dei diritti suscettibili di rientrare nella comunione legale exart. 177 c.c.a tutti i diritti di credito, idonei a determinare un mutamento effettivo dell’assetto patrimoniale, ed in una prospettiva di incremento della massa patrimoniale comune.
In tale ottica anche il diritto de quo dovrebbe quindi entrare a far parte della comunione legale, con la conseguente legittimazione della ricorrente ad agire per l’esecuzione in forma specifica.
Ad avviso del Collegio il motivo è privo di fondamento, avendo i giudici di merito deciso la controversia conformemente alla costante giurisprudenza di questa Corte, senza che le ragioni addotte dalla ricorrente, e peraltro poste a fondamento dell’atto di appello (e sulle quali la sentenza gravata ha avuto ampiamente modo di diffondersi, corredando la soluzione negativa con ampi ed appropriati riferimenti giurisprudenziali), e senza che quindi sia dato ravvisare validi argomenti per discostarsi dalla stessa.
Peraltro, ed in epoca successiva alla pronuncia della sentenza oggi impugnata, questa Corte ha avuto modo di ritornare sulla questione, e sebbene in relazione alla questione concernente l’acquisto dell’immobile avvenuto in epoca successiva alla cessazione del regime di comunione legale, ma sulla base di un preliminare di compravendita concluso nella vigenza della stessa comunione, ha affermato che (cfr. Cass. n. 11504/2016) la comunione legale fra i coniugi, di cuiall’art. 177 c.c., riguarda gli acquisti, cioè gli atti implicanti l’effettivo trasferimento della proprietà della “res” o la costituzione di diritti reali sulla medesima, non quindi i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, i quali, per la loro stessa natura relativa e personale, pur se strumentali all’acquisizione di una “res”, non sono suscettibili di cadere in comunione (v. Cass. n. 1548/2008).
In tal senso si veda da ultimo anche Cass. n. 13570/2018, secondo cui in tema di assegnazione di alloggi di cooperative edilizie a contributo statale, il momento determinativo dell’acquisto della titolarità dell’immobile da parte del singolo socio, onde stabilire se il bene ricada, o meno, nella comunione legale tra coniugi, è quello della stipula del contratto di trasferimento del diritto dominicale (contestuale alla convenzione di mutuo individuale), poiché solo con la conclusione di tale negozio il socio acquista, irrevocabilmente, la proprietà dell’alloggio (assumendo, nel contempo, la veste di mutuatario dell’ente erogatore), mentre la semplice qualità di socio, e la correlata “prenotazione”, in tale veste, dell’alloggio, si pongono come vicende riconducibili soltanto a diritti di credito nei confronti della cooperativa, inidonei, come tali, a formare oggetto della “communio incidens” familiare.
I precedenti invocati dalla ricorrente, nella parte in cui hanno esteso il regime primario patrimoniale della famiglia anche a determinati diritti di credito, hanno sempre avuto cura di ribadire la natura peculiare delle situazioni ivi contemplate, ponendo delle chiare limitazioni che non consentono di estendere la loro portata applicativa anche al diritto di credito alla stipula del definitivo.
Né appare pertinente il richiamo a quanto affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 17952/2007 la quale ha affermato la sussistenza del litisconsorzio necessario per l’ipotesi affatto speculare a quella oggi in esame, in cui il preliminare veda il coniuge in regime di comunione legale come promittente venditore, e non già quale promissario acquirente, poiché solo nel primo caso la sentenza costituitavi appare idonea a ripercuotersi, ed in maniera evidentemente pregiudizievole, anche in danno del coniuge non contraente.
Né infine appaiono rilevare ai fini di una diversa decisione le modalità che la ricorrente sostiene essere state seguite per reperire la provvista per il pagamento del corrispettivo del preliminare, posto che, anche laddove risultassero veritiere, al più rileverebbero nei rapporti interni tra i coniugi, ma non potrebbero invero incidere sul regime dettato dalla legge in tema di acquisti exart. 177 c.c..
3. Al rigetto del primo motivo consegue altresì l’evidente carenza di interesse in ordine alle doglianze di cui al secondo motivo, con il quale si denunzia la violazione degliartt. 99, 112, 113, 115, 342 e 345 c.p.c.laddove la Corte d’Appello ha ritenuto che, in assenza di uno specifico motivo di impugnazione circa quanto affermato a pag. 4 dal Tribunale, in ordine alla individuazione del thema decidendum quale limitato alle sole domande espressamente contenute in citazione, sostenendosi che al contrario, sulla base di una corretta interpretazione della domanda originaria, dovesse reputarsi proposta anche la richiesta di sentenza costitutiva exart. 2932 c.c.in favore della ricorrente.
Tuttavia, il rigetto del primo motivo, con la conseguente negazione dell’esistenza di un diritto scaturente dal preliminare in favore della coniuge non contraente, rende priva di qualsivoglia fondamento anche l’eventuale pretesa alla sentenza di trasferimento exart. 2932 c.c..
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
4. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Nulla per le spese per l’intimata che non ha svolto attività difensiva.
5. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dellaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui alD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore del controricorrente che liquida in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori come per legge;
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, inserito dallaL. n. 228 del 2012,art.1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 4 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2019

Il diritto all’assegno di divorzio non discende più soltanto dalla mancanza di autosufficienza economica in chi lo richiede.

Tribunale di Rieti, 23 luglio 2019 – Pres. Est. Morabito
Tribunale Ordinario Di Rieti
Il Tribunale in composizione collegiale, nelle persone dei seguenti magistrati:
Gianluca Morabito – Presidente est.
Francesca Sbarra – Giudice
Roberta Della Fina – Giudice
riunito nella camera di consiglio, ha emesso la seguente
SENTENZA
nella causa civile in primo grado iscritta al n. 241/2017 RGAC, posta in deliberazione
all’udienza del 09.04.2019 e vertente
TRA
T.F. (C.F. (…)), elettivamente domiciliato in Rieti, Piazza V. Emanuele II n. 15, presso
lo studio dell’Avv.to Carlo Gianfelice, che lo rappresenta e difende come da separato
mandato
Ricorrente
E
A.S. (C.F. (…)), elettivamente domiciliata in Rieti, via delle Ortensie n. 8, presso lo
studio dell’Avv.to Cecilia Rocca, che la rappresenta e difende in virtù di delega in
calce all’istanza di ammissione al gratuito patrocinio
Resistente
– con l’intervento in causa del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Rieti.
Oggetto: Cessazione effetti civili matrimonio religioso
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con ricorso ritualmente depositato e notificato T.F., premesso di aver contratto
matrimonio concordatario con A.S. il 07.10.1995 a R. (trascritto nel Registro degli
Atti di Matrimonio di detto Comune al n. 123, parte II, serie A, ufficio 1, anno 1995),
unione dalla quale erano nati i figli P. ((…)), C. ((…)) ed A. ((…)), che con sentenza
del Tribunale di Rieti n. 409/05 era stata pronunciata la separazione giudiziale, che i
figli erano stati affidati alla madre con residenza nella casa coniugale, che la
separazione si era protratta per oltre tre anni dalla comparizione dei coniugi davanti al
Presidente del Tribunale di Rieti e che non vi era possibilità di riconciliazione,
chiedeva pronunciarsi la cessazione degli effetti civili del matrimonio, alle condizioni
già sancite in sede di separazione.
A.S., costituitasi in giudizio, non si opponeva alla pronuncia di cessazione degli
effetti civili del matrimonio, ma contestava la ricostruzione dei fatti avversaria
deducendo, tra l’altro: di aver dovuto subire, negli anni, le vessazioni del marito, che
non aveva mai mancato di farle pesare la propria disoccupazione; che detta
condizione era stata, peraltro, causata dall’indebitamente che in costanza di
matrimonio essa resistente era stata costretta a fronteggiare; che all’epoca dei fatti, di
cui sopra essa resistente aveva utilizzato i guadagni provenienti dal suo negozio di
fiori al fine di far fronte alla difficile situazione debitoria scaturita dalla assoluta
mancanza di contribuzione economica da parte dell’ex coniuge; che con il tempo tale
comportamento la aveva costretta a chiudere l’attività commerciale; che il ricorrente
la aveva in pratica obbligata a farsi carico di un mutuo al fine di avviare una nuova
attività commerciale, con l’apertura di un ulteriore chiosco di fiori, attività poi non
andata a buon fine ed anzi cessata in perdita; che la propria sopravvenuta indigenza la
aveva costretta, per amore dei figli, a chiedere ai suoi genitori di poter tornare ad
abitare presso la casa paterna al fine, tra l’altro, di essere supportata economicamente;
di essere attualmente disoccupata, al contrario del F., impiegato presso la “Società
appalti e costruzioni a.s. di Z.D.C.”.
La resistente concludeva, pertanto, per la pronuncia di cessazione degli effetti civili
del matrimonio, per la previsione in proprio favore di un assegno di mantenimento di
Euro500,00 mensili e per l’aumento del mantenimento dovuto dal padre in favore dei
figli ad Euro200,00 ciascuno, oltre al concorso del genitore alle spese straordinarie
relative agli stessi in misura pari al 50%.
All’udienza presidenziale comparivano entrambe le parti.
Verificata l’impossibilità di ogni riconciliazione, erano emessi i provvedimenti
provvisori, con sostanziale conferma degli accordi di separazione, fatto salvo per
l’aumento ad Euro500,00 dell’ammontare del mantenimento dovuto dal ricorrente per
i figli e su richiesta concorde delle parti il Presidente rimetteva la causa al Collegio
per la decisione sullo status, all’esito dell’emissione della quale il fascicolo era
rimesso in istruttoria per il prosieguo.
Respinte, infine, le richieste istruttorie, la causa veniva rimessa definitivamente al
Collegio per la decisione, previa assegnazione alle parti dei termini di legge per il
deposito di conclusionali e repliche.
1. Affidamento dei figli minori, assegnazione della ex casa coniugale ed esercizio del
diritto di visita da parte del genitore non collocatario
Va premesso in linea generale che lo strumento dell’affido condiviso è oggi
espressamente contemplato, con specifico riferimento, tra l’altro, alla materia della
cessazione degli effetti civili del matrimonio, dalle disposizioni di cui agli artt. 337bis
ss. c.c., in tema di “Esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di
separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del
matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori dal
matrimonio”.
Trattasi di strumento che il legislatore mostra chiaramente di privilegiare, disponendo
l’art. 337ter c.c. al I co. che il minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato
e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, istruzione e assistenza
morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i
parenti di ciascun ramo genitoriale e al II co. che il Giudice, per realizzare le finalità
sopra indicate, nei procedimenti ex art. 337bis c.c. adotta i provvedimenti relativi alla
prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa e valutando,
prioritariamente, la possibilità che i figli minori restino affidati ad entrambi i genitori.
Nella specie, non vi è luogo a provvedere sul punto avuto riguardo alla posizione dei
figli P. e C., ormai maggiorenni, i quali potranno decidere, pertanto, autonomamente
le modalità di frequentazione con il padre.
In ordine alla figlia A., ancora (per pochi giorni) minorenne, entrambe le parti hanno
chiesto la conferma dell’affidamento condiviso stabilito in sede di separazione e del
collocamento prevalente della stessa presso la madre nella ex casa coniugale.
Al Collegio non resta, pertanto, che prendere atto della concorde volontà delle parti in
tal senso e disporre in conformità, con conferma delle modalità di esercizio di visita
da parte del F., come statuite in sede di separazione e con conferma, altresì, della
assegnazione della ex casa coniugale alla resistente, alla stregua dei principi vigenti
in materia (v. in part. art. 337sexies c.c.).
2. Mantenimento dei figli
E’ pacifico il dovere del sig. F. di concorrere al mantenimento dei figli anche a
seguito della pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio, trattandosi di
obbligo scaturente, a carico dei genitori, dal fatto in sé della procreazione, atteso il
principio sancito dall’art. 30, I co., Cost. secondo cui è, tra l’altro, dovere dei genitori
mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio.
Costituisce, del resto, orientamento condiviso in giurisprudenza quello (senz’altro
estensibile, stante l’identità di ratio, alla cessazione degli effetti civili del matrimonio)
secondo cui a seguito della separazione tra i genitori, anche la prole ha diritto ad un
mantenimento tale da garantire un tenore di vita corrispondente alle risorse
economiche della famiglia, continuando a trovare applicazione l’art. 147 c.c. che,
imponendo il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, obbliga i genitori a far
fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare,
ma estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario e sociale, all’assistenza
morale e materiale, alla opportuna predisposizione, fin quando l’età dei figli stessi lo
richieda, di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le
necessità di cura e di educazione (Cass. civ. n. 21273/13).
La regola generale sopra esplicata deve essere, peraltro, estesa anche alla posizione
dei figli maggiorenni, con la precisazione, tuttavia, che l’obbligo di cui all’art. 147 c.c.
cessa, in tale ipotesi, ove si provi il raggiungimento del presupposto
dell’indipendenza economica da parte del figlio e cioè il raggiungimento di uno status
di autosufficienza economica consistente nella percezione di un reddito
corrispondente alla professionalità acquisita, in relazione alle normali e concrete
condizioni di mercato (Cass. civ. n. 18974/13).
Ciò posto e venendo alla presente fattispecie, non essendo contestata la mancanza di
autonomia economica dei figli maggiorenni P. e C., si ritiene di confermare quanto
stabilito in sede di provvedimenti provvisori e, quindi, di prevedere a carico del
ricorrente in versamento, a titolo di mantenimento dei tre figli, della somma
complessiva di Euro 500,00 mensili annualmente rivalutabili in base agli indici
ISTAT, da corrispondersi alla resistente a mezzo vaglia postale o altro strumento
equivalente entro il giorno 5 di ogni mese.
Trattasi, peraltro, di importo (Euro166,6 per ciascun figlio) oggettivamente non
riducibile, tenuto conto che l’obbligo gravante su entrambi i genitori di contribuire al
mantenimento dei figli nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali ed
aspirazioni, deve tradursi nella previsione di importi economicamente apprezzabili e
non meramente simbolici, come tali palesemente inidonei a soddisfare l’esigenza
presa di mira dal legislatore, ovvero il bene superiore della tutela del figlio nel
percorso di crescita.
Al riguardo, è appena il caso di rilevare che la provata situazione di difficoltà
economica per giurisprudenza costante non esime il genitore dall’obbligo legale di
contribuire al mantenimento dei figli tenuto conto, tra l’altro, del fatto che
l’ordinamento appresta una serie di strumenti al fine di venire incontro alle necessità
di chi versi in stato di indigenza, primo fra tutti quello degli alimenti ex artt. 433 ss.
c.c..
Nella specie viene, peraltro, in considerazione – lo si accennava poc’anzi – una somma
quasi simbolica, nella determinazione del cui ammontare si è tenuto conto proprio
della attuale situazione di difficoltà economica del sig. F..
Quanto sopra concorre, in definitiva, a ritenere del tutto congruo l’importo sopra
indicato di Euro500,00 mensili complessivi.
Il ricorrente dovrà essere, del pari, dichiarato tenuto a concorrere in misura pari al
50% alle spese straordinarie mediche non coperte dal SSN, scolastiche e ricreative
relative ai figli, purché opportunamente documentate.
3. Assegno divorzile
Sul tema, va premesso in linea generale che ai sensi dell’art. 5, VI co., L. n. 898 del
1970 con la sentenza che pronuncia, tra l’altro, la cessazione degli effetti civili del
matrimonio il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della
decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione
familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del
reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata
del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a
favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque
non può procurarseli per ragioni oggettive.
Va aggiunto che per giurisprudenza costante, pur risultando la determinazione
dell’importo dell’assegno alla stregua dell’art. 5 L. n. 898 del 1970 indipendente dalle
statuizioni patrimoniali operanti in vigenza di separazione dei coniugi – poiché data la
diversità delle discipline sostanziali, della natura, struttura e finalità dei relativi
trattamenti, l’assegno divorzile è indipendente dagli obblighi di mantenimento
operanti in regime di separazione e costituisce effetto diretto della pronuncia di
divorzio -, l’assetto economico relativo alla separazione può comunque rappresentare
indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di
valutazione (Cass. civ. n. 1631/15).
Del resto, ai sensi dell’art. 5, VI co., L. n. 898 del 1970, tra gli elementi dei quali il
giudice deve tener conto al fine di determinare la spettanza e l’ammontare
dell’assegno de quo vi è proprio quello della situazione reddituale di entrambi i
coniugi.
Occorre, peraltro, dar conto del recentissimo orientamento giurisprudenziale (Cass.
civ., SS.UU., n. 18287/2018), secondo cui la sussistenza del diritto all’assegno di
divorzio va valutata in base ad un criterio composito che tenga anche conto del tenore
di vita goduto durante il matrimonio.
Le Sezioni Unite hanno affermato, al riguardo, il principio secondo il quale l’assegno
di divorzio ha natura assistenziale, compensativa e perequativa e che ai fini del
riconoscimento dell’assegno si deve, pertanto, adottare un criterio composito che, alla
luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economicopatrimoniali,
dia particolare rilievo al contributo fornito dall’ex coniuge richiedente
alla formazione del patrimonio comune e personale.
I parametri su cui fondare l’entità del mantenimento consistono, in definitiva, nella
durata del matrimonio, nelle potenzialità reddituali future e nell’età dell’avente diritto.
Secondo i Giudici di Piazza Cavour, il contributo fornito alla conduzione della vita
familiare costituisce il frutto di decisioni comuni di entrambi i coniugi, libere e
responsabili che possono incidere sul profilo economico-patrimoniale di ciascuno di
essi dopo la fine dell’unione matrimoniale: pertanto, anche al coniuge
economicamente più debole va riconosciuto l’impegno e il contributo personale alla
conduzione del ménage familiare.
Il nuovo criterio individuato dalla Corte valorizza quindi i sacrifici del coniuge
debole in considerazione degli anni di durata del matrimonio.
Alla luce di tale decisione, il diritto all’assegno di divorzio non dipende più soltanto
dalla mancanza di autosufficienza economica in chi lo richiede o dall’esigenza di
consentire al coniuge, privo di mezzi adeguati, il ripristino del tenore di vita goduto
in costanza di matrimonio, poiché il diritto sorge anche quando si tratta di porre
rimedio allo squilibrio esistente nella situazione economico-patrimoniale delle parti.
In altre parole, l’assegno ha una funzione compensativa, poiché funge da strumento di
protezione per il coniuge più debole economicamente che ha comunque contribuito
alla conduzione della vita familiare.
Viene così offerta dalle Sezioni Unite una nuova lettura dell’articolo 5 della legge sul
divorzio che indica come applicare i criteri previsti dal legislatore per il
riconoscimento dell’assegno divorzile in un’ottica che si discosta sia da quanto deciso
dalla Cassazione con la nota sentenza n. 11504/2017, sia dall’orientamento
tradizionale radicato da decenni nella giurisprudenza di merito e di legittimità.
In sostanza, l’assegno non viene più considerato un mezzo per consentire al coniuge il
ripristino del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma nemmeno un mero
strumento assistenziale per assicurare al coniuge privo di mezzi un’esistenza libera e
dignitosa: le Sezioni Unite ne hanno, quindi, valorizzato la funzione compensativa
senza tuttavia fargli perdere la sua naturale funzione assistenziale.
Inoltre, l’attribuzione dell’assegno non dipende più dall’accertamento di uno stato di
bisogno, ma assicura tutela in chiave perequativa alle situazioni caratterizzate da un
dislivello reddituale conseguente alle comuni determinazioni assunte dalle parti nella
conduzione della vita familiare.
In tale prospettiva, nella specie è pacifico che la resistente ha svolto in passato attività
commerciale, mentre non è stata data prova alcuna – come correttamente già rilevato
in sede di provvedimenti urgenti, rispetto ai quali non sono emerse, sotto tale profilo,
indicazioni di segno contrario all’esito del giudizio – in ordine alle ragioni che
avrebbero determinato la cessazione della stessa.
La S. appare, del resto, versare – come, del pari, già rilevato in sede di provvedimento
presidenziale – in condizioni di piena capacità lavorativa, non essendovi prova che
l’asserita patologia (peraltro, risalente agli anni 2014-2015 e, quindi, ad epoca in cui
le parti erano unite in matrimonio e la S. prestava attività lavorativa) risultante dalle
certificazioni in atti sia ostativa all’esercizio, appunto, di attività lavorativa.
Si aggiunga che la resistente non ha contestato di essere proprietaria di immobili,
come tali astrattamente fonte di reddito, laddove il F. non risulta a sua volta titolare di
cespiti immobiliari.
Si osservi, ancora, che in questa sede dovrà confermarsi l’assegnazione della ex casa
coniugale alla S., stante la concorde richiesta delle parti in tal senso, circostanza della
quale deve necessariamente tenersi conto nella regolazione dei rapporti economici tra
i genitori, ai sensi e per gli effetti dell’art. 337sexies, I co., c.c..
A fronte di ciò, vi è prova documentale della sopravvenienza, rispetto alla data
(02.07.2017) di adozione del provvedimento presidenziale, di una circostanza
modificativa in senso peggiorativo della posizione economica del ricorrente, che
risulta essere stato licenziato dalla società presso la quale prestava attività lavorativa
in data 16.11.2017.
Stante quanto sopra e tenuto conto del fatto che a fronte dei seri indizi deponenti in
favore della sussistenza di una certa capacità lavorativa in capo alla S., sarebbe stato
onere della resistente provare l’impossibilità oggettiva di procurarsi redditi propri in
base al disposto del citato art. 5, VI co., L. n. 898 del 1970, ciò che non si è in alcun
modo verificato, nonché della ulteriore circostanza che il Pubblico Ministero, con
parere reso il 18.04.2019, ha concluso per l’accoglimento integrale del ricorso, si
ritiene ragionevolmente di escludere la sussistenza dei presupposti per il
riconoscimento, in favore della resistente, del diritto a percepire un assegno divorzile.
Dovrà, infine autorizzarsi – in mancanza di esplicito consenso – il rilascio e/o il
rinnovo del passaporto a nome di ciascuna delle parti.
Il fatto di avere entrambe le parti concordato sulla pronuncia di affido condiviso con
collocamento prevalente dei figli pressa la madre e la soccombenza reciproca – stante,
da un lato, il rigetto della domanda resistente, volta ad ottenere un contributo
economico da parte dell’ex coniuge e, dall’altro, l’accoglimento della richiesta della
stessa di aumento del mantenimento dovuto dal padre per i minori – giustificano,
infine, la compensazione integrale delle spese di lite tra le parti, ai sensi e per gli
effetti dell’art. 92, II co., c.p.c..
P.Q.M.
il Tribunale, definitivamente pronunciando, così provvede:
– non luogo a provvedere sull’affidamento dei figli P. e C.;
– conferma l’affidamento condiviso della figlia A. ad entrambi i genitori, collocandola
in via prevalente presso la sig.ra A.S. nella ex casa coniugale, di cui si conferma, del
pari, l’assegnazione alla resistente e presso la quale continueranno a viere anche gli
altri figli P. e C.;
– conferma, quanto alle modalità di esercizio del diritto di visita del padre ad A.,
quanto stabilito dal Tribunale di Rieti con la sentenza di separazione n. 409/05;
– dispone che il F. corrisponda alla S. – a mezzo vaglia postale o altro strumento
equivalente – per il mantenimento dei tre figli, entro il giorno 5 di ogni mese, la
somma mensile complessiva di Euro500,00 (Euro166,6 per ciascun figlio), con
rivalutazione annua in base agli indici ISTAT, nonché contribuisca in misura pari al
50% alle spese straordinarie mediche non coperte dal SSN, scolastiche e ricreative
relative ai figli, purché opportunamente documentate;
– respinge la domanda della S., tesa al riconoscimento del diritto a percepire un
assegno divorzile dall’ex coniuge;
– autorizza – in mancanza di reciproco consenso – il rilascio e/o il rinnovo del
passaporto dei minori a nome di ciascun coniuge;
– compensa integralmente tra le parti le spese di lite.
Così deciso in Rieti, il 20 luglio 2019.
Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2019.

Il credito nato per i bisogni della famiglia è il fatto generativo degli obblighi e bisogni della famiglia

Tribunale Ordinario di Lodi, sent. 11 luglio 2019 – Giudice Latella
Tribunale Ordinario di Lodi
il Giudice, Dr.ssa Maria Teresa Latella ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Nella causa tra
M.V. ( cf (…))
Con l’avv.Marco Mascheroni del foro di Lodi
Contro
Equitalia Servizi di Riscossione spa -ora A.E.R. spa
Con l’avv. Anna Maria Taddeo del foro di Milano
Avente ad oggetto cancellazione di ipoteca esattoriale
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con citazione 21.7.2016 la signora M.V. ha convenuto Equitalia Servizi Riscossioni
deducendo di aver acquistato assieme al sig.D.L. un immobile sito in S. G. M. B. di
B. in data 6.4.2015. Successivamente, l’ 11.3.2016 , contraeva matrimonio con il L.,
dalla cui unione precedentemente era nata la figlia M.E..
Il 1 marzo.2011 i coniugi costituivano fondo patrimoniale sull’immobile ma il
9.3.2016 , a seguito di dissapori e di deposito di ricorso congiunto del 30.12.2015
presso il Tribunale di Lodi, addivenivano allo scioglimento del matrimonio .Tra le
condizioni era prevista la cessione in favore della M. della metà dell’immobile dietro
corresponsione di Euro 20.000,00 ma al momento dell’acquisto mediante concessione
di mutuo la M. si avvedeva che sull’immobile era stata iscritta ipoteca legale da parte
di Equiralia per la quota di 1/2 per debiti dell’ex marito. Chiedeva pertanto dichiararsi
l’illegittimità dell’iscrizione perché apposta su bene costituito in fondo patrimoniale.
Si è costituita Equitalia eccependo in via preliminare l’inammissibilità della domanda
per incompetenza per materia, ritenendo il giudizio devoluto alla cognizione delle
Commissioni Tributarie, e comunque perché tardiva ex art.617 c.p.c. , dovendo
qualificarsi l’impugnazione proposta alla stregua di opposizione agli atti esecutivi.
In ogni caso, essendo legittima l’iscrizione da parte dell’esattore sui beni appartenenti
al coniuge ( o al terzo) conferiti in fondo patrimoniale- così come affermato anche di
recente dalla Corte di Cassazione-, sosteneva essere onere dell’opponente medesimo
provare la prova che il debito era stato contratto per scopi estranei ai bisogni della
famiglia.
Nel corso del giudizio, scambiate le parti le memorie ex art.183 c.VI c.p.c., il GI ha
ammesso parzialmente la prova orale richiesta dall’attrice ed invitato le parti a
precisare le conclusioni . All’udienza del 29.3.2019 la causa era dunque assunta in
decisione.
La domanda è solo parzialmente fondata.
Si premettono alcune considerazioni in diritto alla luce degli orientamenti più recenti
formatisi in merito alle questioni trattate.
Quanto al fondo patrimoniale va in primo luogo ribadito che per la sua opponibilità ai
creditori non rileva la trascrizione nei registri immobiliari ( che nella specie ha valore
di mera pubblicità notizia ,) ma solo l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio
nei registri di stato civile prevista dagli art.167 e 162 c.c ( Cass. 24.3.2016 n.5889),
giacchè la costituzione di fondo patrimoniale è assimilabile alle altre convenzioni
matrimoniali la cui opponibilità ai terzi è appunto condizionata all’annotazione ex
art.162 c.III codice civile ( Cass.sez.unite 13.10.2009 n. 21658).
E’ poi in generale – e sotto il profilo probatorio – onere di chi vuol far valere
l’impignorabilità dimostrare che il creditore conosceva l’estraneità ai bisogni della
famiglia, ciò sia perché i fatti negativi non possono essere oggetto di prova, sia
perché esiste una presunzione di inerenza del debito ai bisogni della famiglia (Cass.
5684 del 15.3.2016, cass.11.7.2014 n. 15886 e Cass.19.2.2013 n.4011). Con
riferimento poi al contenuto della prova, è principio consolidato in giurisprudenza
che il criterio identificativo del credito nato per i bisogni della famiglia va ricercato
non già nella natura delle obbligazioni, legali o contrattuali, ma nella relazione
esistente tra il fatto generativo e gli obblighi e bisogni della famiglia, valutati in senso
ampio e con riferimento al suo benessere generale oltre che al potenziamento della
capacità professionale dei suoi membri , essendo irrilevante viceversa l’anteriorità o
posteriorità del sorgere del credito rispetto alla costituzione del fondo, essendo infatti
salva in ogni caso l’esperibilità dell’azione revocatoria (cass. 15862 del 2009 , cass.
19.6.2018 n.16176 e specialmente, Cass. 11.7.2014 n.15886)
Fatte tali premesse in linea generale e venendo ora alle questioni più specificamente
connesse all’esecuzione esattoriale, ove essa sia preceduta dall’iscrizione di ipoteca ex
art. 77 D.P.R. 3 marzo 1973, n. 603, la prevalente giurisprudenza di legittimità ,
anche di recente ribadita, ha confermato la legittimità dell’iscrizione ipotecaria sul
fondo patrimoniale per crediti fiscali finalizzata all’esecuzione esattoriale , purchè si
tratti di debiti fiscali strumentali alle esigenze della famiglia ovvero nell’ipotesi in cui
il creditore non ne conoscesse l’estraneità a tali bisogni (cfr. cass. 23876 del 2015 e
cass.11.4.2018 n.8881).
In particolare, poi la Cassazione, sotto il profilo qui ulteriormente affrontato
dell’individuazione del giudice competente a decidere in merito a tale illegittimità, ha
con una recente pronuncia -emessa in caso esattamente analogo -ribadito due ulteriori
principi ormai comunemente accettati e cioè che:.
– qualora i crediti garantiti dall’ipoteca abbiano natura tributaria la causa deve essere
devoluta al giudice tributario in quanto il D.Lgs. n. 546 del 1992, all’art.19 lett.e bis,
include l’iscrizione ipotecaria ex art. 77 tra gli atti impugnabili dinanzi al giudice
tributario ( Cfr.Cass 31.3.2017 n.8428 Cass.16.1.2015 n.641). Trattandosi invece di
sanzioni ( ad esempio per violazione del Codice della Strada o previdenziali), la
competenza è del giudice ordinario e del lavoro. Nel caso infine che il ruolo riguardi
entrambe le tipologie la competenza spetterà ad entrambi i giudici;
– che l’attuale norma, così come novellata dall’art.7 c 2 lett.u bis D.L. n. 70 del 2011
prevede il necessario invio al contribuente di una preventiva comunicazione di
iscrizione ipotecaria (Cfr. Cass 31.3.2017 n.8428), indipendente dalla natura
esecutiva o meno dell’iscrizione medesima
Gli ulteriori sviluppi id tali due principi comportano poi che, sotto il primo profilo ,
qualora la natura tributaria del credito garantito non sia contestata e sia richiesta la
cancellazione per illegittimità dell’iscrizione , opera la devoluzione al giudice
tributario; mentre, qualora sia dedotto il comportamento illecito dell’amministrazione
come causa di danni e con richiesta del relativo risarcimento , opera la giurisdizione
del giudice ordinario ( Cass.sez.unite n.20426 dell’11.10.2016).
Per altro verso, e sotto il secondo profilo, sebbene l’art.50 riguardi la necessità di
avviso nel caso di mancato inizio dell’esecuzione nel termine di un anno, tuttavia al
contribuente destinatario di un provvedimento potenzialmente lesivo dei propri
interessi deve sempre essere garantito il contraddittorio, in modo tale da consentirgli
di formulare osservazioni a pena di nullità. Ciò in osservanza anche dei principi
previsti agli art. 41,47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
(Cfr. Cass..sez..unite n.19667 del 18.9.2014; cass..22.2.2017 n.4587)
Ciò premesso, si osserva in primo luogo che nella fattispecie risultano correttamente
assolte le formalità in ordine all’opponibilità del fondo patrimoniale ai terzi e
creditori.
Quanto alla preliminare questione sulla competenza (rectius: giurisdizione), risulta
che i crediti garantiti, per come emerso dalle produzioni di parte convenuta, hanno ad
oggetto in parte tributi ed in parte sanzioni per violazioni al codice della strada. Ne
consegue che quanto ai primi deve essere declinata la giurisdizione in favore del
giudice tributario.
Dunque, in relazione all’iscrizione ipotecaria per il ruolo 611/2013 (cartella
esattoriale (…) notificata a L.D. il 8.4.2013) deve dichiararsi il difetto di giurisdizione
in favore della competente Commissione Tributaria di primo grado, con possibilità di
translatio iudicii dinanzi al medesimo giudice (cfr. Corte Cost. 77/2007 e Cass. Sez.
Unite 4109/2007).
Il presente giudizio ha ad oggetto infatti – alla luce del complessivo contenuto
dell’atto di citazione – l’illegittimità del provvedimento e la conseguente richiesta di
cancellazione, non invece il comportamento illecito dell’amministrazione cui
consegua una richiesta di risarcimento del danno.
E tuttavia non può non tenersi conto, in relazione alla sentenza declinatoria, ed ai fini
delle spese di lite, che parte attrice solo in sede giudiziaria ha avuto contezza della
natura di crediti tributari, come si vedrà meglio oltre a proposito del mancato
ricevimento di alcun preavviso di iscrizione da parte della medesima.
Venendo all’iscrizione ipotecaria per il ruolo n. (…) (cartella esattoriale n.(…)
notificata a L.D. il 21.6.203) avente ad oggetto sanzioni per violazioni del codice
della strada, sussiste come già detto – alla luce dei principi più sopra richiamati-, la
giurisdizione e competenza di questo giudice.
Qualora poi si voglia qualificare la presente azione come opposizione agli atti
esecutivi ex art. 617 c.p.c. (operazione peraltro non del tutto univoca non essendo
pacifica in giurisprudenza la natura “pre”esecutiva dell’iscrizione ex art.77, talora
ritenuta solo latamente cautelare) l’attrice ha dato prova , mediante l’escussione del
teste P. , della tempestiva proposizione della stessa, avendo avuto contezza
dell’iscrizione solo successivamente al 13.7.2016 e precisamente il 17.7.2016.
Tale circostanza, è del resto del tutto credibile ( e la teste risulta attendibile) alla luce
del fatto che solo poco tempo prima la M. aveva depositato ricorso congiunto per la
pronuncia del divorzio: con la conseguenza che da tempo i rapporti tra la medesima
ed il L. – a cui il preavviso di iscrizione era stato notificato il 28.11.2014 – dovevano
ormai ritenersi deteriorati.
Non è del resto contestato, ed anche tali risultanze lo comprovano, che la M. non ha
mai ricevuto alcuna informazione in ordine all’iscrizione ipotecaria , come dalla
stessa apertamente sostenuto in giudizio.
In ogni caso, non vi è agli atti preavviso di iscrizione ipotecaria alla medesima
notificato, che alla luce dei principi giurisprudenziali sopra enunciati doveva invece
ritenersi necessario, in analogia del resto con quanto accade nell’esecuzione
immobiliare per l’ avviso al comproprietario.
Sotto tale profilo, deve pertanto ritenersi l’illegittimità della medesima iscrizione e la
domanda può essere accolta con ordine di cancellazione dell’ipoteca relativamente al
ruolo n.(…) (cartella esattoriale n.(…) notificata a L.D. Il 21.6.2013).
Tale declaratoria rende poi superfluo l’esame dell’ulteriore questione e prova circa
l’estraneità del credito ai bisogni della famiglia ( ancorchè la natura delle sanzioni per
violazione al Codice della strada appaia già di per sé tale).
Infine, sotto il profilo delle spese di lite, attesa la reciproca soccombenza ed alla luce
delle considerazioni più sopra svolte in ordine alla tardiva conoscenza della natura
del credito garantito , sussistendo gravi motivi , le stesse possono essere
integralmente compensate.
P.Q.M.
Il Giudice, disattesa ogni diversa istanza, eccezione e deduzione, definitivamente
pronunciando,
-DICHIARA
il difetto di giurisdizione in favore del giudice tributario quanto alla richiesta per il
ruolo 611/2013 ( cartella esattoriale (…) notificata .a L.D. Il (…)
– previo accertamento della relativa illegittimità per le causali di cui in parte motiva
ORDINA
la cancellazione dell’ipoteca iscritta da Equitalia Servizio Riscossioni spa presso
Agenzia delle Entrate Milano 2 con presentazione del 17.9.2015 , nota n.90764
reg.gen/ n. 15999 reg.part sugli immobili siti in S. G. milanese f.(…) p.lla (…) sub (…)
e (…) e p.lla (…) sub (…), limitatamente al ruolo n.9160/2013 ( cartella esattoriale n.
(…) notificata a L.D. il 21.6.2013)
Compensa integralmente le spese di lite tra le parti
Così deciso in Lodi, il 8 luglio 2019.
Depositata in Cancelleria il 11 luglio 2019.

Il completamento del percorso di studi universitari e l’inizio dell’attività professionale di avvocato (con modesta entità degli introiti percepiti) non è di per sé situazione idonea al conseguimento della autosufficienza economica

Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2019, n. 19135
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
M.G., elettivamente domiciliato in Roma, piazza Verbano 16, presso lo studio dell’avv. Giovanni Conte, che lo rappresenta e difende nel presente giudizio, giusta procura speciale per atto del notaio L.G. dell'(OMISSIS), e dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo alla p.e.c. giovanniconte-ordineavvocatiroma.org e al fax n. 06/9170808;
– ricorrente –
nei confronti di:
Q.M., elettivamente domiciliata in Roma, piazza Monte Gennaro 24, presso lo studio dell’avv. Pompilia Rossi che la rappresenta e difende nel presente giudizio in virtù di procura speciale a margine del controricorso e dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo al fax n. 06/871800023 e alla p.e.c. pompiliarossi-ordineavvocatiroma.org;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4313/2015 della Corte di appello di Roma, emessa il 26 giugno 2015 e depositata il 16 luglio 2015, n. 4536/2013 R.G.;
lette le conclusioni scritte del P.G., dell’11 luglio 2018, con le quali il sostituto procuratore generale, cons. Dott. Sorrentino Federico, ha chiesto il rigetto del ricorso;
sentita la relazione in camera di consiglio del relatore cons. Dott. Giacinto Bisogni.
Svolgimento del processo
che:
1. Il Tribunale di Roma, dopo aver pronunciato la separazione dei coniugi Q.M. e M.G. ha accolto la domanda di addebito proposta dalla sig.ra Q., ha imposto al sig. M. il versamento mensile di 600 Euro, a titolo di assegno di mantenimento della moglie, e di 300 Euro, a titolo di contributo al mantenimento della figlia maggiorenne, ma non ancora indipendente economicamente, M.M.. Ha assegnato la casa familiare alla Q. in ragione della sua coabitazione con la figlia. Ha rigettato la domanda di addebito della separazione proposta dal sig. M. che ha condannato al pagamento delle spese processuali, liquidandole in 6.000 Euro, oltre oneri di legge.
2. La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 4313/2015, in parziale accoglimento dell’appello proposto dal sig. M. ha ridotto l’ammontare dell’assegno mensile in favore della sig.ra Q. a 500 Euro. Ha dichiarato inammissibile l’appello relativo alla determinazione dell’ammontare delle spese del primo grado liquidate dal Tribunale.
3. Ricorre per cassazione M.G. affidandosi a sei motivi di impugnazione illustrati con comparsa di costituzione del nuovo difensore e con memoria exart. 378 c.p.c.4. Si difende con controricorso Q.M. e deposita memoria difensiva exart. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

che:
5. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente censura la decisione della Corte di appello relativamente alla conferma della statuizione sulla domanda di addebito proposta dalla Q. essendosi basata la Corte di appello su una sentenza non ancora passata in giudicato e sulle deposizioni delle figlie da sempre ostili al padre. Sostiene che, anche a voler ritenere provato il comportamento ascrittogli, lo stesso dovrebbe comunque essere valutato in una ottica complessiva che prenda in considerazione il comportamento dell’altro coniuge e l’insieme della relazione che, nella specie, era ormai da tempo assimilabile a quella di coniugi separati in casa.
6. Il motivo è infondato alla luce della giurisprudenza costante di questa Corte secondo cui le reiterate violenze fisiche e morali, inflitte da un coniuge all’altro, costituiscono violazioni talmente gravi dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé sole, non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti la intollerabilità della convivenza, ma anche la dichiarazione della sua addebitabilità all’autore di esse. Il loro accertamento esonera il giudice del merito dal dovere di procedere alla comparazione, ai fini dell’adozione delle relative pronunce, col comportamento del coniuge che sia vittima delle violenze, trattandosi di atti che, in ragione della loro estrema gravità, sono comparabili solo con comportamenti omogenei (Cass. civ. sez. VI-1 n. 3925 del 19 febbraio 2018, n. 433 del 12 gennaio 2016; Cass. civ. sez. I n. 817 del 14 gennaio 2011). La Corte di appello ha reso una motivazione esauriente e congrua sulla base sia dell’accertamento penale che delle dichiarazioni delle figlie le quali vengono senza alcuna prova ritenute dal ricorrente ostili e schierate da sempre con la madre mentre lo stesso ricorrente non contesta l’episodio del maggio 2008 di aggressione fisica che ha provocato lesioni alla persona della moglie.
7. Con il secondo motivo di ricorso si censura la decisione della Corte di appello relativamente alla conferma della statuizione di rigetto della domanda di addebito proposta dal ricorrente il quale lamenta di non aver potuto provare i fatti su cui aveva basato la propria richiesta di addebito. Afferma che la crisi coniugale è ascrivibile alla totale disaffezione e al comportamento prevaricatore e umiliante tenuto dalla moglie nel corso del matrimonio.
8. Il motivo è inammissibile. Il ricorrente afferma, per un verso, che è non è stato consentito l’espletamento della prova contraria sulle circostanze dedotte dalla Q. laddove la sentenza impugnata afferma invece che il M. ha rinunciato all’escussione dei testi. Per altro verso il ricorrente assume di essere stato impedito a provare il comportamento violativo dei doveri coniugali della moglie ma non indica neanche il contenuto delle prove articolate come più ampiamente si dirà relativamente al quinto motivo di ricorso.
9. Con il terzo motivo di ricorso si censura la insoddisfacente, perché modesta, riduzione dell’ammontare dell’assegno di mantenimento liquidato in favore della sig.ra Q. nonostante la prova della riduzione dei redditi del ricorrente a causa del suo collocamento in mobilità.
10. Il motivo è in larga parte inammissibile perché propone una diversa valutazione del materiale istruttorio che la Corte di appello ha effettuato compiendo non solo un raffronto fra le rispettive situazioni reddituali ed economiche ma anche tenendo conto della ripartizione dei ruoli lavorativi e di contributo alla cura familiare e alla formazione del patrimonio nel corso del matrimonio. La Corte distrettuale ha ritenuto che la separazione ha posto la Q. in una difficile situazione economica dalla quale sta cercando di affrancarsi con prestazioni professionali sebbene non sufficienti a garantirle una situazione di piena autosufficienza economica. Per altro verso il motivo è infondato laddove afferma che la Corte di appello non ha preso in esame la messa in mobilità del ricorrente.
11. Con il quarto motivo di ricorso si censura la decisione di conferma dell’assegno di mantenimento in favore della figlia trentenne (all’epoca della sentenza di appello) e esercente la professione di avvocato.
12. Il motivo deve ritenersi infondato alla luce della giurisprudenza secondo cui la dichiarazione della cessazione dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni che non siano ancora autosufficienti deve essere suffragata da un accertamento di fatto che abbia riguardo all’acquisizione di una condizione di indipendenza economica (Cass. civ. ord. n. 17738 del 7 settembre 2015), all’età, all’effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all’impegno rivolto verso la ricerca di un’occupazione lavorativa nonché, in particolare, alla complessiva condotta personale tenuta, dal raggiungimento della maggiore età, da parte dell’avente diritto (Cass. civ. sez. VI-1 n. 5088 del 5 marzo 2018 e Cass. civ. sez. I n. 12952 del 22 giugno 2016). In particolare il giudice di merito è tenuto a valutare, con prudente apprezzamento, caso per caso, e con criteri di rigore proporzionalmente crescenti in rapporto all’età dei beneficiari, le circostanze che giustificano il permanere del suddetto obbligo, fermo restando che tale obbligo non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, poiché il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione, nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni e aspirazioni che devono tuttavia essere compatibili con le condizioni economiche dei genitori (Cass. civ. sez. I n. 18076 del 20 agosto 2014).
13. Nella specie la Corte di appello ha accertato che all’epoca della sua decisione la figlia dell’odierno ricorrente aveva completato il suo percorso formativo e aveva anche iniziato a svolgere l’attività professionale di avvocato ma ancora gli introiti percepiti non la rendevano autosufficiente economicamente. La decisione presa in considerazione della situazione attuale da parte della Corte di Appello non appare censurabile in sede di legittimità salva la possibilità per l’odierno ricorrente di riproporre la propria domanda di revoca dell’assegno di mantenimento in favore della figlia all’esito della presumibile acquisizione da parte di quest’ultima di un livello reddituale idoneo a farle acquisire l’autosufficienza economica.
14. Con il quinto motivo si censura la decisione della Corte di appello perché ha omesso completamente la motivazione in ordine alla censura relativa alla mancata ammissione in primo grado della richiesta istruttoria che sarebbe stata riformulata anche nei motivi di appello. Rileva il ricorrente che all’udienza del 24 novembre 2009 il giudice istruttore non ha ammesso la sua prova diretta in quanto non articolata per capitoli specifici e carente nell’indicazione dei testi da escutersi capitolo per capitolo. Alla successiva udienza dell’8 giugno 2010 l’odierno ricorrente chiedeva al G.I. di revocare la propria ordinanza in quanto i testi già indicati potevano riferire su tutti i capitoli. Secondo il ricorrente, nella stessa udienza, il G.I. non prendeva alcuna decisione su tale richiesta, sentiva i testi di parte attrice per poi introdurre i testi del M. in prova contraria. Nè la sentenza di primo grado nè quella di appello ha dato motivazione sulla richiesta istruttoria presentata anche nelle rispettive conclusioni.
15. Il motivo è inammissibile in primo luogo perché non impugna la ratio decidendi. Dalla lettura della sentenza impugnata non risulta che la censura relativa alla mancata ammissione della prova diretta abbia costituito uno specifico motivo di appello, tuttavia la Corte di appello ha ribadito che la prova diretta per testimoni richiesta dal M. non è stata giustamente ammessa perché non articolata in capitoli specifici e carente della indicazione dei testi da escutersi capitolo per capitolo, secondo quanto prescrittodall’art. 244 c.p.c., mentre, come si è detto, la prova contraria, benché ammessa, non è stata espletata avendo il M. rinunciato ai testimoni.
Il ricorrente non riproduce il testo della prova diretta nel ricorso per cassazione nè specifica se ha riproposto la richiesta di ammissione di tale prova, modificando la sua stesura, all’esito della contestazione da parte del giudice istruttore della mancata articolazione della stessa in capitoli. Anche sotto questo profilo pertanto la censura è inammissibile (cfr. Cass. civ. S.U. n. 21670 del 23 settembre 2013 e Cass. civ. sez. II n. 23896 del 23 novembre 2016) e comunque infondata dato che sulla base delle stesse argomentazioni e deduzioni del ricorrente deve ritenersi che egli abbia fatto acquiescenza al provvedimento negativo del giudice istruttore. Va inoltre rilevato che, secondo la giurisprudenza di legittimità, la censura contenuta nel ricorso per cassazione, relativa alla mancata ammissione della prova testimoniale, è inammissibile qualora con essa il ricorrente si dolga della valutazione, specificamente rimessa al giudice del merito, sulla non pertinenza della denunciata mancata ammissione della prova orale rispetto ai fondamenti della decisione, senza allegare le ragioni che avrebbero dovuto indurre ad ammettere tale prova, nè adempiere agli oneri di allegazione necessari a individuare la decisività del mezzo istruttorio richiesto e la tempestività e ritualità della relativa istanza di ammissione (Cass. sez. lavoro, n. 8204 del 4 aprile 2018).
16. Con il sesto motivo di ricorso si censura la decisione sul motivo di appello relativo alla liquidazione delle spese processuali in primo grado.
17. Il motivo è inammissibile. La Corte di appello ha motivato esaurientemente la dichiarazione di inammissibilità del gravame relativo alla liquidazione delle spese del primo grado di giudizio richiamando la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. n. 22287 del 21 ottobre 2009 e n. 24635 del 19 novembre 2014) secondo cui l’impugnazione del capo di sentenza relativo alla liquidazione delle spese giudiziali non può essere accolta se con essa non vengono specificate le singole voci che la parte assume come alla stessa spettanti e non riconosciute, non essendo il giudice del gravame vincolato in alcun modo da eventuali determinazioni quantitative formulate dalla medesima parte impugnante in difetto della individuazione degli specifici errori che essa attribuisce al giudice come commessi nella decisione impugnata. Alla luce di questa giurisprudenza la Corte di appello ha rilevato che l’appellante si è limitato a censurare la liquidazione delle spese del primo grado ritenendola afflittiva e ingiustificata senza dedurre che la stessa è errata per l’applicazione di uno scaglione non corrispondente al valore della controversia ovvero perchè ha riconosciuto voci della parcella non dovute. A fronte di questa chiara e corretta motivazione il ricorrente propone delle censure generiche che attengono astrattamente al rispetto dei criteri di valutazione dell’attività svolta e alla obbligatorietà del rispetto delle tariffe professionali nella liquidazione. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, in sede di ricorso per cassazione, la determinazione del giudice di merito, relativa alla liquidazione delle spese processuali, può essere censurata solo attraverso la specificazione delle voci in ordine alle quali lo stesso giudice sarebbe incorso in errore, sicché è generico il mero riferimento a prestazioni, che sarebbero state riconosciute in violazione della tariffa massima, senza la puntuale esposizione delle voci in concreto liquidate dal giudice, con derivante inammissibilità dell’inerente motivo (Cass. civ., sez. III, n. 10409 del 20 maggio 2016).
18. Per le ragioni sin qui esposte va respinto il ricorso con condanna al pagamento delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in complessivi 3.200 Euro di cui 200 per spese, oltre spese forfettarie e accessori di legge. Dispone omettersi qualsiasi riferimento alle generalità e agli altri elementi identificativi delle parti nella pubblicazione della presente sentenza.
Ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 14 settembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2019

Il comodato della casa familiare cessa quando le esigenze connesse all’uso familiare dell’immobile vengono meno

Cass. civ. Sez. III, 29 agosto 2019, n. 21785
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 27619-2016 proposto da:
L.F., elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO TRIESTE, 149, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO MARIA DE ANGELIS, rappresentata e difesa dall’avvocato LUCA SBARDELLA;
– ricorrente –
contro
M.B., assistita dall’amministratore di sostegno F.M., domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati AURELIO PUGLIESE, MARCO FRANCESCO ANGELETTI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 528/2015 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 29/10/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/02/2019 dal Consigliere Dott. ANNA MOSCARINI;
lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello che ha chiesto che la Corte di Cassazione respinga il ricorso diL.F.;
Svolgimento del processo
M.B. presentò ricorso ex art. 447 bis c.p.c. rappresentando di aver concesso in comodato gratuito al figlio F.M., e alla convivente more uxorioL.F., un appartamento sito in Trevi di sua proprietà senza alcun termine di durata per soddisfare le esigenze abitative della famiglia di fatto; che la convivenza era cessata per avere la L. stretto una relazione con un’altra persona e per aver la medesima acquistato un’altra casa in comproprietà col nuovo compagno, detenendo l’immobile ricevuto in comodato solo di notte; che, nel frattempo, ad essa comodante era sopravvenuto un urgente ed imprevedibile bisogno abitativo. Sulla base di questi presupposti chiese al Tribunale di Spoleto che ordinasse aL.F.il rilascio dell’immobile.
Il Tribunale di Spoleto, con sentenza del 21/11/2013, rigettò la domanda, ritenendo insussistenti i presupposti per il rilascio dell’appartamento ad nutum non essendo venuta meno la destinazione dell’abitazione a casa familiare e non risultando provato l’urgente ed imprevedibile bisogno della comodante.
La Corte d’Appello di Perugia, adita dalla M., con sentenza n. 582 del 29/10/2015, per quel che ancora di interesse in questa sede, accolto l’appello, prendendo solo apparentemente le distanze dalla giurisprudenza di questa Corte, anche a Sezioni Unite (SU n. 13063/04 e 20448/14) secondo la quale il comodato, concesso ad un nucleo familiare, non è recedibile ad nutum avendo una durata funzionalmente legata alla permanenza della famiglia pur se in crisi; ha ritenuto che, in mancanza di un termine, il medesimo debba essere stabilito, in applicazione dei principi di buona fede nell’esecuzione del contratto, con riguardo al momento in cui la coppia raggiunga una condizione economica adeguata e sufficiente per provvedere all’abitazione familiare in modo autonomo, di guisa da potersi configurare il diritto del comodante alla restituzione ad nutum exart. 1810 c.c., secondo quanto previsto anche dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., n. 15877 del 2013). Ciò anche alla luce dell’uso puramente strumentale, di notte, dell’abitazione da parte della L. che aveva, nel frattempo, non solo interrotto la convivenza con il figlio della M. ma aveva altresì acquistato un’altra casa con un nuovo compagno continuando a detenere quella data in comodato solo strumentalmente di notte, ed in ragione del lungo lasso di tempo intercorso (17 anni) dall’inizio del comodato. La conclusione dell’impugnata sentenza è che la comodante avesse diritto alla restituzione dell’immobile senza alcun onere di giustificazione ai sensidell’art. 1809 c.c., comma 2. In accoglimento dell’appello la Corte di merito ha condannato la L. al rilascio dell’immobile in favore di M.B., compensando integralmente tra le parti le spese dei due gradi di giudizio.
Avverso la sentenzaL.F.propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. M.B. resiste con controricorso, illustrato da memoria. Il P.G. ha depositato proprie conclusioni scritte nel senso del rigetto del ricorso.

Motivi della decisione

1.Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degliartt. 1809 e 1810 c.c., in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma n. 3, per avere la Corte d’Appello di Perugia ritenuto che il contratto di comodato intercorrente tra le parti in causa, pur essendo volto a soddisfare le esigenze della famiglia di fatto, dovesse essere ascritto al genus del contratto di comodato precario, con la conseguente possibilità per il comodante di esigere la restituzione del bene ad nutum. Questa tesi contrasterebbe con la giurisprudenza consolidata di questa Corte che esclude, nel caso di comodato concesso per l’abitazione di un nucleo familiare, la possibilità del recesso ad nutum.
Il motivo è fondato, sebbene ciò non consenta di pervenire ad una decisione di accoglimento del ricorso perché la sentenza si basa su più rationes decidendi, alcune delle quali resistono ai motivi di ricorso.
Il comodato avente finalità di tutela delle esigenze abitative familiari è stato equiparato al comodato a tempo indeterminato, a condizione che siano tutelate le superiori esigenze della famiglia anche di fatto (Cass., U, n. 13603 del 217/2004; Cass., 1, n. 16769 del 2/10/2012; Cass., 3, n. 13592 del 21/6/2011). Questo indirizzo giurisprudenziale appare nel tempo mitigato dall’esigenza di valutare, fattispecie per fattispecie, i singoli interessi in effetti in contrasto, ed in alcuni casi il tralatizio orientamento che vede il collegamento del comodato alle esigenze della famiglia è stato rivisto alla luce della scomposizione dell’originario nucleo familiare e della possibilità che se ne crei uno nuovo. In tutti i casi in cui venga meno la destinazione del comodato ad abitazione familiare per esempio in coincidenza con una crisi familiare, è stata riconosciuta la possibilità che il medesimo sia risolto ad nutum.
Ora nel caso in esame, per quanto la ratio decidendi, se correlata alla mera funzionalizzazione del comodato alla tutela delle esigenze familiari, avrebbe potuto condurre astrattamente all’accoglimento del motivo di ricorso, le caratteristiche concrete del rapporto quali dedotte in giudizio fanno invece propendere per la cessazione del comodato in ragione del venir meno della reale destinazione della casa concessa alla L. per esigenze familiari. E’ pacifico e non contestato in giudizio che la L. abbia ricreato un nuovo nucleo familiare con altra persona e con questa nuova persona abbia anche acquistato un nuovo immobile nel quale ha trasferito la propria casa. E’ altresì incontestato che, mentre nella nuova abitazione si svolge la vita familiare della L. e della figlia, la vecchia abitazione sia rimasta occupata, a meri fini strumentali, per evitare cioè una pronuncia di restituzione dell’immobile alla legittima proprietaria, soltanto di notte. Da quanto esposto deriva che le esigenze connesse all’uso familiare dell’immobile concesso in comodato sono certamente venute meno (Cass., U n. 20448 del 29/9/2014), con la conseguente incensurabilità del capo di sentenza che ha escluso la possibilità che il comodato duri fino al permanere delle esigenze della famiglia e che ha richiesto al giudice di valutare, sulla base dell’esecuzione in buona fede del contratto, quale debba essere il termine oltre il quale la durata del comodato diventa priva di una causa apprezzabile e meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Nel caso di specie la sentenza ha correttamente attribuito rilievo decisivo all’avvenuto acquisto di un nuovo immobile da parte della L. con il nuovo compagno, il che implica logicamente la dissoluzione del nucleo familiare beneficiario e l’obbligo di restituzione del bene. Dunque, ancorché astrattamente il primo motivo dovrebbe ritenersi fondato con assorbimento del quarto, volto a denunciare l’omesso esame di un fatto decisivo ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 avente ad oggetto la valutazione della portata delle dichiarazioni rese dalla M. sulla durata del contratto, essendo del tutto irrilevante accertare se la M. avesse o meno confessato la durata “familiare” del contratto medesimo, il ricorso merita comunque di essere rigettato.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degliartt. 2697 e 2727 c.c.per avere il giudice fondato il proprio convincimento su presunzioni tratte da fatti ignoti per stabilire la fine della convivenza (miglioramento della condizione economica e capacità di provvedere da sé alle proprie esigenze abitative), con ciò violando le norme sulle presunzioni.
La ricorrente nega la sussistenza di una valida prova dei fatti affermati in sentenza, ovvero che fosse stata convenuta la cessazione del comodato al raggiungimento di una condizione economica adeguata e sufficiente per provvedere in modo autonomo all’abitazione familiare e che la L. avesse acquistato una nuova casa con altro compagno, dove di fatto aveva trasferito l’abitazione propria e della figlia, continuando ad occupare strumentalmente di notte l’appartamento della M..
2.1 Il motivo non è fondato. La ratio decidendi che resiste all’impugnazione è quella consistente nel presumere, dal fatto noto dell’avvenuto acquisto di un secondo immobile da parte della L., fatto provato dall’istruttoria, che fossero venute meno le ragioni di tutela del nucleo familiare connesse al comodato del bene di proprietà M., essendo verosimile che l’acquisto in comune da parte della nuova coppia di un bene immobile da destinare a propria abitazione faccia ragionevolmente presumere l’intenzione di abitare il nuovo appartamento, determinando la cessazione dell’esigenza abitativa connessa al comodato. Se a ciò si aggiunge che la vita quotidiana nella nuova abitazione e l’occupazione strumentale dell’immobile in comodato erano fatti dedotti dalla M. e non contestati dalla L. in sede di merito e perfino provati da F.M. sia con la propria testimonianza sia con le ricevute negative dei consumi della casa data in comodato, di fatto non abitata, se ne desume come correttamente statuito dall’impugnata sentenza, che il comodato era cessato perché era venuta meno la destinazione dell’immobile alle esigenze familiari ai sensidell’art. 1809 c.c..
Questa ratio decidendi, cui fa in parte riferimento anche il terzo motivo del ricorso che può ritenersi assorbito (violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato e dello stesso diritto di difesa, per avere la Corte d’Appello di Perugia fondato il proprio convincimento su allegazioni fattuali non contenute nel ricorso introduttivo) resiste alle censure e fonda la decisione di rigetto del ricorso.
3.Con il quinto motivo denuncia la violazione degliartt. 91 e 92 c.p.c.in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 in merito alla compensazione integrale delle spese di lite di entrambi i gradi di giudizio. Il motivo è inammissibile perché la Corte territoriale ha dato conto delle motivazioni della compensazione delle spese con valutazione logicamente motivata ed insindacabile in questa sede. 4. Conclusivamente il ricorso è rigettato e la ricorrente condannata alle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare, in favore della resistente, le spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 2.300 (oltre Euro 200 per esborsi), oltre accessori di legge e spese generali al 15%. Dà atto, ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Terza Sezione Civile, il 12 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2019

I messaggi telefonici costituiscono prova ai fini del rimborso delle spese straordinarie.

Corte di Cassazione 17 luglio 2019 n. 19155
Cass. civ. Sez. I, Ord., (ud. 13-06-2019) 17-07-2019, n. 19155
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –
Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
avverso la sentenza n. 273/2018 del TRIBUNALE di MANTOVA, depositata il
19/04/2018;
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Mantova, con sentenza n. 273/2018, – in controversia
concernente un’opposizione promossa da K.M.Y. nei confronti di G.E., dinanzi al
Giudice di Pace di Mantova, avverso decreto ingiuntivo emesso nel 2016 con il
quale si era ingiunto, al primo, di pagare, alla seconda, la somma di Euro
2.684,43, oltre interessi legali, a titolo di rimborso delle spese straordinarie
sostenute da quest’ultima nell’interesse del figlio minore S., nato dalla
relazione sentimentale dei due, quale contributo ulteriore (versando il padre
già Euro 250,00 al mese) per le rette dell’asilo-nido, ha riformato la decisione
di primo grado, che aveva, in accoglimento dell’opposizione, revocato il decreto
ingiuntivo.
In particolare, i giudici d’appello, rigettando l’opposizione a decreto ingiuntivo,
hanno sostenuto che, dagli “sms” prodotti dalla G., inviati a quest’ultima dallo
Y., documenti questi non contestati, quanto a provenienza e contenuto,
dall’opponente tempestivamente (se non, tardivamente, in comparsa
conclusionale), emergeva l’adesione di quest’ultimo all’iscrizione del minore
all’asilo nido e l’accollo da parte del padre della metà della retta dovuta,
accordo comunque rispondente all’interesse dl figlio.
Avverso la suddetta pronuncia, K.M.Y. propone ricorso per cassazione, affidato
a tre motivi, nei confronti di G.E. (che non svolge attività difensiva).
Motivi della decisione
1. Il ricorrente lamenta:1) con il primo motivo, la violazione ed errata
applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 2702 e 2712 c.c., per avere il
Tribunale riconosciuto efficacia probatoria, quale scrittura privata, a tre
messaggi telefonici riprodotti meccanicamente, attribuendoli erroneamente allo
Y., quale presunto autore, pur essendo privi di sottoscrizione e del numero di
cellulare del soggetto che li aveva inviati e del soggetto che li aveva ricevuti;
2) con il secondo motivo, la violazione ed errata applicazione, ex art. 360
c.p.c., n. 4, dell’art. 115 c.p.c., non avendo il Tribunale rilevato che lo Y.,
all’udienza del 16/11/2016, davanti al Giudice di Pace di Mantova, di prima
comparizione delle parti, aveva tempestivamente contestato “le produzioni”
della G. e quindi l’unico documento prodotto dalla stessa con la costituzione in
giudizio, contestazione questa sufficiente, trattandosi di documenti privi di
sottoscrizione che non dovevano essere formalmente disconosciuti ai sensi
degli artt. 214 e 215 c.p.c.; 3) con il terzo motivo, la violazione ed errata
1
applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 4, dell’art. 116 c.p.c., per avere il Tribunale
attribuito efficacia probatoria piena alla riproduzione meccanica dei tre
messaggi telefonici e non efficacia meramente indiziaria, in presenza di
contestazione della parte contro cui era stata prodotta, con conseguente
erronea valutazione del contenuto degli stessi messaggi.
2. La seconda censura, di rilievo pregiudiziale, è infondata.
Questa Corte ha di recente statuito (Cass. 5141/20119) che “lo “short
message service” (“SMS”) contiene la rappresentazione di atti, fatti o dati
giuridicamente rilevanti ed è riconducibile nell’ambito dell’art. 2712 c.c., con la
conseguenza che forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui
contro il quale viene prodotto non ne contesti la conformità ai fatti o alle cose
medesime. Tuttavia, l’eventuale disconoscimento di tale conformità non ha gli
stessi effetti di quello della scrittura privata previsto dall’art. 215 c.p.c., comma
2, poichè, mentre, nel secondo caso, in mancanza di richiesta di verificazione e
di esito positivo della stessa, la scrittura non può essere utilizzata, nel primo
non può escludersi che il giudice possa accertare la rispondenza all’originale
anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni” (nella specie,
veniva in questione il disconoscimento della conformità ad alcuni “SMS” della
trascrizione del loro contenuto). Sempre questa Corte (Cass.11606/2018), in
tema di efficacia probatoria dei documenti informatici, ha precisato che “il
messaggio di posta elettronica (cd. e-mail) costituisce un documento
elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati
giuridicamente rilevanti che, seppure privo di firma, rientra tra le riproduzioni
informatiche e le rappresentazioni meccaniche di cui all’art. 2712 c.c. e,
pertanto, forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro
il quale viene prodotto non ne disconosca la conformità ai fatti o alle cose
medesime”.
Ora, sempre in tema di efficacia probatoria delle riproduzioni informatiche di
cui all’art. 2712 c.c., il disconoscimento idoneo a fare perdere ad esse la
qualità di prova, pur non soggetto ai limiti e alle modalità di cui all’art. 214
c.p.c., deve tuttavia essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi
concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra
realtà fattuale e realtà riprodotta, anche se non ha gli stessi effetti del
disconoscimento previsto dall’art. 215 c.p.c., comma 2, perchè mentre questo,
in mancanza di richiesta di verificazione e di esito positivo di questa, preclude
l’utilizzazione della scrittura, il primo non impedisce che il giudice possa
accertare la conformità all’originale anche attraverso altri mezzi di prova,
comprese le presunzioni (cfr. Cass. 3122/2015, nella quale questa Corte ha
confermato la sentenza impugnata, laddove aveva ritenuto utilizzabile un DVD
contenente un filmato, considerato che la parte aveva contestato del tutto
genericamente la conformità all’originale della riproduzione informatica
prodotta e che il giudice di merito aveva ritenuto l’assenza di elementi che
consentissero di ritenere il documento non rispondente al vero; conf.
17526/2016; in termini, Cass.1250/2018).
Il Tribunale di Mantova ha dato rilievo al contenuto di tre SMS (la cui
trascrizione era stata prodotta dalla G., in sede di costituzione nel giudizio di
opposizione a decreto ingiuntivo), ritenuti di chiaro tenore (soprattutto il
primo) in ordine all’impegno del padre di accollarsi la metà delle spese relative
2
alla retta dell’asilo-nido, osservando che l’invio ed il contenuto di tali messaggi
non erano stati contestati dall’opponente, comparso personalmente all’udienza
di prima comparizione, senza rilevare alcunchè, se non tardivamente ed
inammissibilmente con la comparsa conclusionale. Il ricorrente assume nel
motivo del presente ricorso di avere comunque “contestato” l’unica produzione
avversaria. Ma non era sufficiente una generica contestazione del documento,
atteso che il disconoscimento, da effettuare nel rispetto delle preclusioni
processuali, anche di documenti informatici aventi efficacia probatoria ai sensi
dell’art. 2712 c.c., deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito e
concretizzarsi nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra
la realtà fattuale e quella riprodotta.
La sentenza impugnata risulta pertanto conforme ai principi di diritto sopra
enunciati.
Peraltro, come osservato anche da questa Corte (Cass.3680/2019), “nel vigore
del novellato art. 115 c.p.c., a mente del quale la mancata contestazione
specifica di circostanze di fatto produce l’effetto della “relevatio ad onere
probandi”, spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di
fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non
contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte”.
3. Il primo motivo è di conseguenza assorbito.
4. Il terzo motivo è inammissibile.
Invero, in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio
del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è
apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di
motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), e deve emergere
direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di
causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 14627/2006; Cass.
24434/2016;Cass. 23934/2017).
Sempre questa Corte, ha poi affermato che la deduzione della violazione
dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile,ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4,
ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una
risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione
normativa – secondo il suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle
un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una
differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale),
nonchè, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione,
abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente
apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male
esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è
consentita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con conseguente
inammissibilità della doglianza che sia stata prospettata sotto il profilo della
violazione di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (Cass. 13960/2014; cfr
Cass. 11892/2016; Cass.27000/2016; Cass.23940/2017).
L’art. 116 c.p.c.. infatti prescrive che il giudice deve valutare le prove secondo
prudente apprezzamento, a meno che la legge non disponga altrimenti. La sua
violazione è concepibile solo se il giudice di merito valuta una determinata
prova, ed in genere una risultanza probatoria, per la quale l’ordinamento non
prevede uno specifico criterio di valutazione diverso dal suo prudente
3
apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, ovvero il
valore che il legislatore attribuisce ad una diversa risultanza probatoria, ovvero
se il giudice di merito dichiara di valutare secondo prudente apprezzamento
una prova o risultanza soggetta ad altra regola, così falsamente applicando e,
quindi, violando detta norma (cfr. Cass. 8082/2017; Cass. 13960 /2014; Cass.,
20119/ 2009).
4. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Non v’è luogo a
provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimata svolto attività
difensiva. Essendo il procedimento esente, non si applica il D.P.R. n. 115 del
2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso.
Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52 siano omessi le
generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente
provvedimento.
Così deciso in Roma, il 13 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2019

I criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione del suo interesse, che è quello di evitare un danno alla sua identità personale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., del 13 agosto 2019, n. 21349 – Pres. Giancola, Rel. Tricomi
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 33023/2018 proposto da:
C.M., elettivamente domiciliata in Roma, Via Farfa n. 8, presso lo studio dell’avvocato Belli Maria
Concetta, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
Contro
P.A.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 4980/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 17/07/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/07/2019 dal cons. Dott.
TRICOMI LAURA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MISTRI CORRADO, che ha
concluso per l’inammissibilità, in subordine rigetto;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato Belli Maria che ha chiesto l’accoglimento.
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Latina, pronunciando sul ricorso presentato da P.A. per chiedere, ai sensi dell’art.
520 c.c. il consenso al riconoscimento della minore C.A.A. (nata il (OMISSIS)), in luogo di quello
mancante dell’altro genitore, C.M., per quanto interessa, con sentenza n. 1177/2015, accoglieva la
domanda e, per l’effetto, ordinava all’Ufficiale di Stato civile di provvedere alle relative trascrizioni,
disponendo che la minore conservasse il cognome materno all’esito dell’audizione della minore e
dell’espletamento di CTU. P. proponeva impugnazione chiedendo, tra l’altro, che il cognome
paterno venisse aggiunto al cognome materno della minore.
La Corte di appello di Roma, accogliendo sul punto l’appello, ha disposto che alla minore sia
attribuito il cognome C. P., in luogo di C.
C.M. ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi. P. è rimasto intimato.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c.,
comma 2, per irriducibile contraddittorietà della motivazione, atteso che la Corte di appello pur
avendo dato atto delle difficoltà emerse nei rapporti padre/figlia, culminati nel rifiuto della minore
di incontrare il padre, ha tuttavia ritenuto di accogliere l’impugnativa concernente l’attribuzione del
cognome paterno, affermando che la conseguente aggiunta “è in linea con la realtà della minore”
(fol. 8).
2. Con il secondo motivo si denuncia la nullità della sentenza per violazione art. 132 c.c., comma 2,
per irriducibile illogicità della decisione laddove, dopo avere evidenziato i rischi di una
marginalizzazione della figura paterna, ha ritenuto che la mancata previsione del cognome paterno
avrebbe potuto contrastare con la necessità della minore di “costruirsi un’autonoma identità,
nell’ottica del “paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione di tale
identità”” (fol. 8).
3. Con il terzo motivo, in via subordinata, si denuncia l’omessa valutazione di un fatto storico
decisivo.
La ricorrente si duole che la Corte di appello, nel giustificare l’interesse della minore
all’acquisizione del cognome del padre biologico, abbia fatto leva sul processo di costruzione della
sua identità personale senza tenere conto dell’età della minore, già quindicenne, al momento della
decisione, e quindi in piena adolescenza e con un’identità ben definita nell’ambito delle relazioni
sociali; a ciò aggiunge che la minore aveva dimostrato di essere molto legata alla famiglia che
aveva aiutato sia lei che la madre negli anni e che il padre biologico non assolveva nemmeno gli
obblighi di mantenimento.
4.1. I motivi, da trattarsi congiuntamente perché intimamente connessi, sono fondati e vanno
accolti.
4.2. L’art. 262 c.c., (come riformulato a seguito del D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 27,
comma 1, lett. a), a decorrere dal 7 febbraio 2014 ai sensi di quanto disposto dal medesimo D.L.gs.
n. 154 del 2013, art. 108, comma 1) così disciplina l’attribuzione del cognome al figlio nato fuori
del matrimonio:
“Il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto (c.c. 258). Se il
riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il
cognome del padre.
Se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata o riconosciuta successivamente al
riconoscimento da parte della madre, il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo,
anteponendolo o sostituendolo a quello della madre (6).
Se la filiazione nei confronti del genitore è stata accertata o riconosciuta successivamente
all’attribuzione del cognome da parte dell’ufficiale dello stato civile, si applica il primo e il comma 2
del presente articolo; il figlio può mantenere il cognome precedentemente attribuitogli, ove tale
cognome sia divenuto autonomo segno della sua identità personale, aggiungendolo, anteponendolo
o sostituendolo al cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto o al cognome dei genitori
in caso di riconoscimento da parte di entrambi.
Nel caso di minore età del figlio, il giudice decide circa l’assunzione del cognome del genitore,
previo ascolto del figlio minore, che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove
capace di discernimento.”.
4.3. Questa Corte, con costante giurisprudenza, ha chiarito, in tema di attribuzione giudiziale del
cognome al figlio nato fuori dal matrimonio e riconosciuto non contestualmente dai genitori, che i
criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione del suo interesse, che è
quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua
personalità sociale, avente copertura costituzionale assoluta; che la scelta, anche officiosa, del
giudice è ampiamente discrezionale e deve avere riguardo al modo più conveniente di individuare il
minore in relazione all’ambiente in cui è cresciuto fino al momento del successivo riconoscimento,
non potendo essere condizionata dall’esigenza di equiparare il risultato a quello derivante dalle
diverse regole, non richiamate dall’art. 262 c.c., che presiedono all’attribuzione del cognome al
figlio nato nel matrimonio (Cass. civ. sez. I n. 12640 del 18/6/2015). Il giudice è investito dall’art.
262 c.c., commi 2 e 3, del potere-dovere di decidere su ognuna delle possibilità previste da detta
disposizione avendo riguardo, quale criterio di riferimento, unicamente all’interesse del minore e
con esclusione di qualsiasi automaticità, che non riguarda né la prima attribuzione, essendo
inconfigurabile una regola di prevalenza del criterio del “prior in tempore”, né il patronimico, per il
quale non sussiste alcun “favor” in sé nel nostro ordinamento (Cass. civ. sez. I n. 2644 del 3/2/2011;
Cass. n. 14232 del 05/06/2013).
Ciò, perché il diritto al nome costituisce uno dei diritti fondamentali della persona e ciò che rileva
non è l’esigenza di rendere la posizione del figlio nato fuori dal matrimonio quanto più simile
possibile a quella del figlio di coppia coniugata, quanto piuttosto quella di garantire l’interesse del
figlio a conservare il cognome originario se questo sia divenuto autonomo segno distintivo della sua
identità personale in una determinata comunità (Cass. n. 17139 del 11/07/2017).
4.4. Nella specie, la Corte territoriale, pur avendo richiamato in linea di massima i principi
enunciati, non vi ha dato corretta applicazione; infatti ha considerato il grave deterioramento dei
rapporti padre/figlia culminato nel rifiuto così espresso da parte di quest’ultima “Biologicamente è
mio padre, ma lo non lo voglio. Nessuno me ne ha parlato male…. Non lo voglio e basta. lo non ci
riesco a volerlo. Non lo vedo da mesi, lo sto bene senza di lui…” e la circostanza dell’avvenuto
riconoscimento si era arrestata allo stadio di diritto, senza tradursi in una affectio genitoriale e filiale
nonostante i tentativi condotti anche con l’ausilio dei Servizi sociali (fol. 5 della sent. imp.)
osservando tuttavia, in palese contraddizione, trasmutatasi in illogicità assoluta – e dunque – nella
nullità della pronuncia, che la scelta dell’attribuzione del cognome paterno era il linea con la realtà
della minore, senza spiegarne le ragioni se non mediante formule che, per la loro asettica
formulazione, appaiono di stile – da un lato, osservando sic et simpliciter che ciò non poteva
costituire un danno, e, dall’altro, adombrando che l’attribuzione del cognome potesse, di per sè sola,
incidere positivamente sulla maturazione del rapporto padre/figlia, contrastando la
marginalizzazione paterna e contribuendo ad assicurare il rilievo di entrambe le figure genitoriali al
processo di costruzione dell’identità personale, nonostante l’ostilità manifestata dalla figlia.
Invero non emerge dalla sentenza impugnata che siano stati utilizzati correttamente i criteri prima
enunciati volti a preservare l’interesse della minore ad evitare un danno alla sua identità personale,
intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, giacché risultano trascurate sia la
contraria volontà della minore, sia il fatto storico costituito dall’età della stessa, già in fase
preadolescenziale/adolescenziale, sintomatico di un potenziale e consolidato inserimento in una rete
di relazioni sociali e della capacità ad avere una marcata cognizione identitaria del sè, espressa dal
cognome materno che la individuava dalla nascita.
5. In conclusione il ricorso va accolto, la decisione impugnata va cassata e rinviata alla Corte di
appello di Roma in diversa composizione per il riesame e la liquidazione delle spese anche del
presente grado.
Va disposto che in caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità delle parti e
dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.
P.Q.M.
– Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Roma in diversa
composizione anche per provvedere sulle spese di legittimità;
– Dispone che in caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità delle parti e
dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.
Così deciso in Roma, il 4 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2019

Gli accordi di separazione pur trovando la loro occasione nella separazione consensuale, non hanno causa in essa.

Cass. civ. Sez. III, Ord. 30 agosto 2019, n. 21839; Pres. Travaglino; Rel. Guizzi
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 8963-2017 proposto da:
B.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CELIMONTANA 38 presso lo studio dell’avvocato
PAOLO PANARITI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANDREA CARLO
POMA giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
M.A.M., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE DON MINZONI, 9, presso lo studio
dell’avvocato ENNIO LUPONIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CORRADO
FERRI giusta procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
e contro
BI.LU.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1036/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il
15/03/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/12/2018 dal Consigliere Dott.
STEFANO GIAIME GUIZZI.
Svolgimento del processo
1. B.D. ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 1036/16, del 15 marzo
2016, della Corte di Appello di Milano, che – rigettando il gravame incidentale da essa esperito
contro la sentenza n. 747/13, del 30 agosto 2013, del Tribunale di Pavia (e, per quanto qui ancora di
interesse, quello principale di Bi.Lu.) – ha confermato, oltre alla condanna del Bi. a corrispondere
all’odierna ricorrente la somma di Euro 2.227.828,00, oltre interessi legali, anche la reiezione della
domanda della B., volta a far dichiarare la natura simulata e l’inefficacia, ai sensi degli artt. 1414 e
ss. c.c., degli accordi patrimoniali raggiunti in sede di separazione personale tra il Bi. e la moglie
M.A.M., ovvero, subordinatamente, la declaratoria di inefficacia degli stessi, ex art. 2901 c.c.,
2. Riferisce, in punto di fatto, la ricorrente di aver proposto, nella qualità di vedova (ed unica erede
legittima) di G.G.I.M., domanda di risarcimento dei danni nei confronti di Bi.Lu., resosi
responsabile di condotte illecite nei confronti del G., in ordine alle quali era intervenuta una
sentenza di applicazione della pena su richiesta, ex art. 444 c.p.p., per il delitto di appropriazione
indebita aggravata. Alla domanda risarcitoria era connessa altra, volta a far accertare il carattere
simulato, e quindi l’inefficacia, degli accordi patrimoniali raggiunti dal medesimo Bi. e la moglie
M.A.M., in sede di separazione personale, ovvero, in subordine, a conseguire la revoca degli stessi
ai sensi dell’art. 2901 c.c., all’uopo, pertanto, convenendosi in giudizio, oltre al Bi., anche la M..
Riferiva, infatti, la B. che il Bi., presentatosi – sin dal 1994 – quale sedicente consulente finanziario,
era riuscito rapidamente a carpire la fiducia del di lei marito, facendosi consegnare dallo stesso
ingenti somme di denaro da investire, ivi compreso il ricavato della vendita (avvenuta tra il 2002 ed
il 2003) di un grosso podere sito in (OMISSIS), già di proprietà del G., e ciò col pretesto di far
confluire anche tale importo presso una banca svizzera, dove sarebbe stato custodito il denaro
maturato quale profitto delle operazioni finanziarie in precedenza asseritamente compiute.
Essendosi il G. avveduto, successivamente, che nessun conto risultava intestato a suo nome presso
il predetto istituto di credito elvetico, sporgeva denuncia-querela dell’accaduto alla Procura della
Repubblica presso il Tribunale di Pavia.
Rinviato a giudizio per il reato di appropriazione indebita aggravata, il Bi. – come detto – chiedeva
pronunciarsi sentenza di patteggiamento, ex art. 444 c.p.p..
Orbene, per conseguire il risarcimento del danno subito dal proprio dante causa, l’odierna ricorrente
adiva il Tribunale pavese, al quale rivolgeva anche domanda volta a far dichiarare l’inefficacia degli
accordi patrimoniali intervenuti – non casualmente, secondo la B., proprio nell’anno 2003 – in sede
di separazione personale tra il Bi. e la M., ed in forza dei quali, in particolare, il primo aveva
trasferito alla seconda la proprietà di ben tre appartamenti di pregio siti nel Comune di Milano, di
uno dei quali (per la quota indivisa di un mezzo) egli era cointestatario.
Ciò premesso, il primo giudice, mentre accoglieva la domanda risarcitoria proposta dall’attrice,
condannando il Bi. al pagamento della somma suddetta di Euro 2.227.828,00, rigettava l’ulteriore
domanda proposta nei confronti di entrambi i convenuti.
Esperito gravame principale dal Bi., per conseguire la riforma della condanna al risarcimento dei
danni comminata a suo carico, nonché gravame incidentale dall’odierna ricorrente, che insisteva,
invece, per la declaratoria di inefficacia degli accordi suddetti, la Corte meneghina respingeva
entrambi gli appelli, ritenendo, in particolare, inammissibile l’iniziativa della B.. Conclusione,
questa, cui perveniva sul presupposto della non impugnabilità per simulazione dell’accordo di
separazione, una volta che risulti intervenuta omologazione da parte dell’autorità giudiziaria.
3. Avverso tale ultima decisione ha proposto ricorso per cassazione la B., sulla base di tre motivi.
3.1. Il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c.,, comma 1, n. 4) – ipotizza nullità della
sentenza, o del procedimento, in relazione all’art. 112 c.p.c.
Assume la ricorrente di aver proposto, innanzi al giudice di appello, gravame incidentale volto a
domandare l’accertamento e la declaratoria della natura simulata, e conseguentemente l’inefficacia,
dell’accordo patrimoniale che ha accompagnato la separazione personale consensuale dei coniugi
Bi. e M., accordo in forza del quale il primo, allo scopo di assolvere “i propri obblighi nei confronti
della moglie”, aveva trasferito alla stessa la proprietà di tre diversi beni immobili.
La sentenza impugnata ha ritenuto tale domanda inammissibile, sul rilievo che sia da escludere
l’impugnabilità, per simulazione, dell’accordo di separazione, una volta omologato. Tuttavia, la
Corte milanese non si sarebbe avveduta che la domanda proposta dall’odierna ricorrente non
riguardava la separazione personale consensuale, bensì l’accordo patrimoniale che l’ha
accompagnata, omettendo, così, di pronunciarsi sulla domanda effettivamente proposta.
Rileva, al riguardo, la ricorrente che è sulla base della stessa giurisprudenza di legittimità citata
dalla Corte territoriale (il riferimento è a Cass. Sez. 1, sent. 20 novembre 2003, n. 17607) che
occorre distinguere l’accordo patrimoniale, quale atto essenzialmente negoziale ed espressione della
capacità dei coniugi di autodeterminarsi responsabilmente, e la separazione personale che al primo
può eventualmente accompagnarsi, stante la differenza ontologica e concettuale esistente tra tali
atti.
3.2. Il secondo motivo – nuovamente proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – ipotizza
nullità della sentenza, o del procedimento, in relazione all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), nonché
all’art. 118 disp. att. c.p.c., commi 1 e 2, ed infine all’art. 111 Cost., comma 6.
Si censura la sentenza impugnata in quanto conterrebbe “affermazioni apodittiche ed
incomprensibili”, prive del benché minimo supporto motivazionale, avendo statuito “in termini
assolutamente astratti e generici” per quale ragione anche agli accordi patrimoniali possono
estendersi le stesse argomentazioni che valgono ad escludere l’impugnabilità per simulazione
dell’accordo separativo, e ciò in considerazione della già segnalata diversità dei primi dal secondo e
la loro assoggettabilità alle norme contrattuali, ivi comprese quelle contenute nell’art. 1414 c.c.
3.3. Infine, con il terzo motivo, si deduce – ex art. 360 c.p.c.,, comma 1, n. 5) – omesso esame circa
un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
Si rileva come la sentenza impugnata si sia limitata ad affermare l’inammissibilità della domanda
volta alla declaratoria di inefficacia dell’accordo patrimoniale intervenuto in occasione della
separazione personale dei coniugi, mentre questa domanda avrebbe dovuto essere presa in
considerazione, valutata e decisa, sulla base degli innumerevoli elementi di prova addotti a
dimostrazione della sua fondatezza (e volti, in particolare, a comprovare che il Bi., a dispetto
dell’avvenuto trasferimento di residenza in Montecarlo, continuasse a vivere nella ex casa
coniugale, ovvero uno dei tre appartamenti la cui proprietà aveva trasferito alla moglie), elementi
dei quali, pertanto, si lamenta la mancata disamina.
4. Ha resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione la sola M.A.M., chiedendone la
declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza.
L’inammissibilità viene eccepita, in particolare, ai sensi dell’art. 360bis c.p.c.,, comma 1, n. 1),
giacché la ricorrente, nel sostenere che gli accordi patrimoniali sarebbero del tutto autonomi rispetto
a quelli separativi, non avrebbe offerto alcuna dimostrazione argomentativa, specifica e plausibile,
idonea a superare il consolidato orientamento giurisprudenziale, di segno opposto, espresso da
questa Corte.
Si dà conto, inoltre, ad ulteriore conferma dell’inammissibilità o infondatezza del ricorso,
dell’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza di cessazione degli effetti civili del
matrimonio tra i coniugi M. e Bi., nonché della definitiva assegnazione in proprietà, a quest’ultima,
dell’immobile già casa coniugale.
Quanto, infine, agli altri motivi, si rileva come nessuna anomalia motivazionale presenti la sentenza
impugnata, uniformatasi, come detto, ad un costante indirizzo giurisprudenziale in materia,
dovendosi, infine, escludere anche la ricorrenza del vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il
giudizio. La Corte di Appello di Milano, infatti, ha dato conto degli elementi su cui si fondava la
declaratoria di inefficacia proposta dalla odierna ricorrente, salvo poi ritenere la stessa
inammissibile, per le ragioni già illustrate.
5. Hanno presentato memoria entrambe le parti, ciascuna insistendo nelle proprie argomentazioni e
replicando a quelle avversarie.
Motivi della decisione
6. Il ricorso va accolto, sebbene nei limiti di seguito precisati. 6.1. Il primo motivo di ricorso non è
fondato.
6.1.1. Non sussiste, infatti, il denunciato vizio di “omessa pronuncia”, alla stregua
dell’interpretazione che della sua ricorrenza ha fornito questa Corte.
Ed invero, il “vizio di omessa pronuncia su una domanda o eccezione di merito, che integra una
violazione del principio di corrispondenza tra chiesto pronunciato ex art. 112 c.p.c., ricorre quando
vi sia omissione di qualsiasi decisione su di un capo di domanda, intendendosi per capo di domanda
ogni richiesta delle parti diretta ad ottenere l’attuazione in concreto di una volontà di legge che
garantisca un bene all’attore o al convenuto e, in genere, ogni istanza che abbia un contenuto
concreto formulato in conclusione specifica, sulla quale deve essere emessa pronuncia di
accoglimento o di rigetto” (cfr. da ultimo, “ex multis”, Cass. Sez. 6-5, ord. 27 novembre 2017, n.
28308, Rv. 646428-01), essendosi anche precisato che “il giudice di merito, nell’indagine diretta
all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è
tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma
deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come
desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante” (Cass. Sez. 6-1,
sent. 7 gennaio 2016, n. 118, Rv. 638481-01).
Alla luce di questi principi, dunque, la decisione della Corte milanese si sottrae alla censura in
esame. Essa, invero, ha interpretato, quella proposta dall’attrice, come richiesta di accertamento del
carattere simulato dell’accordo di separazione, ritenendo, poi, la stessa inammissibile e, dunque,
pronunciandosi su di essa. Altra è diversa questione – su cui insistono, invece, gli altri due motivi di
ricorso – è se tale conclusione possa ritenersi corretta.
6.2. Il secondo motivo è, invece, fondato, sebbene nei termini che si andranno, di seguito, ad
indicare.
6.2.1. Attraverso di esso, come visto, la ricorrente si duole del fatto che la sentenza impugnata non
ha tenuto conto dell’esistenza di una differenza, ontologica e concettuale, tra separazione
consensuale dei coniugi ed accordi patrimoniali raggiunti, tra gli stessi, in occasione della prima,
tanto che in relazione a questi ultimi non è stata esclusa la possibilità di esperire l’azione di
simulazione o quella diretta a far valere vizi del consenso (cfr. Cass. Sez. 1, sent. 20 marzo 2008, n.
7450, Rv. 602581-01).
Al riguardo, tuttavia, occorre chiarire a quali condizioni possa affermarsi l’autonomia di detti
accordi patrimoniali rispetto al negozio di separazione.
Sul punto va richiamato quanto, di recente, affermato da questa Corte, ovvero che “la separazione
consensuale è un negozio di diritto familiare avente un contenuto essenziale – il consenso reciproco
a vivere separati, l’affidamento dei figli, l’assegno di mantenimento ove ne ricorrano i presupposti –
ed un contenuto eventuale, non direttamente collegato al precedente matrimonio, ma costituito dalle
pattuizioni che i coniugi intendono concludere in relazione all’instaurazione di un regime di vita
separata, a seconda della situazione pregressa e concernenti le altre statuizioni economiche” (così,
in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 19 agosto 2015, n. 16909, Rv. 636506-01). Su tali basi, quindi, si
è ritenuto che “l’accordo mediante il quale i coniugi pongono consensualmente termine alla
convivenza può racchiudere ulteriori pattuizioni, distinte da quelle che integrano il suo contenuto
tipico predetto e che ad esso non sono immediatamente riferibili: si tratta di quegli accordi che sono
ricollegati, si potrebbe dire, in via soltanto estrinseca con il patto principale, relativi a negozi i quali,
pur trovando la loro occasione nella separazione consensuale, non hanno causa in essa, risultando
semplicemente assunti “in occasione” della separazione medesima, senza dipendere dai diritti e
dagli obblighi che derivano dal perdurante matrimonio, ma costituendo espressione di libera
autonomia contrattuale (nel senso che servono a costituire, modificare od estinguere rapporti
giuridici patrimoniali: art. 1321 c.c.), al fine di regolare in modo tendenzialmente completo tutti i
pregressi rapporti, e che sono del tutto leciti, secondo le ordinarie regole civilistiche negoziali e
purché non ledano diritti inderogabili”. Da ciò deriva l’ulteriore conseguenza che “ben possono
allora dette pattuizioni – quelle aventi causa concreta e quelle aventi mera occasione nella
separazione, le prime volte ad assolvere ai doveri di solidarietà coniugale per il tempo
immediatamente successivo alla separazione e le seconde finalizzate semplicemente a regolare
situazioni patrimoniali che non è più interesse delle parti mantenere invariate – convivere nello
stesso atto: esse si configurano come del tutto autonome e riguardano profili fra di loro pienamente
compatibili, sebbene diverso ne sarà il trattamento” (così, nuovamente, Cass. Sez. 1, sent. n. 16909
del 2015, cit.).
6.2.2. Orbene, siffatta constatazione giova all’odierna ricorrente, considerando che l’accordo avverso
il quale ella ha esperito l’azione di simulazione, come risulta anche dalla sentenza impugnata,
costituiva adempimento “una tantum” di tutti gli obblighi del marito verso la moglie (e non soltanto
di quell’obbligo di mantenimento, facente parte, come già evidenziato, del “contenuto essenziale”
dell’accordo di separazione), recando, pertanto, una regolamentazione complessiva dei loro rapporti.
Non casualmente, infatti, attraverso di esso, il Bi. ha disposto, in favore della M., non del solo
immobile già adibito a casa coniugale, ma del suo intero patrimonio immobiliare, realizzando,
pertanto, un atto dispositivo che – per il suo ampio contenuto – va ben oltre la necessità di definire
l’obbligo di mantenimento, comprendendo quelle “altre statuizioni economiche” che integrano,
secondo il summenzionato arresto di questa Corte, il contenuto “eventuale” dell’accordo di
separazione.
Rispetto, dunque, a tale pattuizione, con la quale i predetti Bi. e M. hanno inteso dare, come detto,
un assetto generale alle loro relazioni, non possono valere le argomentazioni – ostative
all’impugnabilità per simulazione della separazione (ad avvenuta omologazione giudiziale della
stessa) – individuate dalla giurisprudenza di legittimità, richiamata nella sentenza oggi impugnata, e
basate sul rilievo che “l’iniziativa processuale diretta ad acquisire l’omologazione, e quindi la
condizione formale di coniugi separati, è volta ad assicurare efficacia alla separazione, così da
superare il precedente accordo simulatorio, rispetto al quale si pone in antitesi dato che è
logicamente insostenibile che i coniugi possano “disvolere” con detto accordo la condizione di
separati ed al tempo stesso “volere” l’emissione di un provvedimento giudiziale destinato ad
attribuire determinati effetti giuridici a tale condizione” (così Cass. Sez. 1, sent. 12 settembre 2014,
n. 19319, Rv. 632564-01).
6.2.2. Né, d’altra parte, l’accoglimento del motivo in esame potrebbe essere escluso sul rilievo che la
ricorrente ha denunciato un vizio di motivazione, ormai, ipotizzabile solo in caso di “apparenza”
della stessa, ovvero di radicale contraddittorietà delle affermazioni in cui essa si sostanzia. Ai sensi,
infatti, dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – nel testo “novellato” dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art.
54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile
“ratione temporis” al presente giudizio) – il sindacato di questa Corte è destinato ad investire la parte
motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014,
n. 8053, Rv. 629830-01, nonché, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv.
637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01). Lo scrutinio di questa Corte
è, dunque, ipotizzabile solo in caso di motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che
nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benché graficamente esistente, non
renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni
obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del
proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01), o
perché affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940,
Rv. 645828-01), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav.,
ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di
“sufficienza” della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01).
Nondimeno, come si notava, la prospettazione, da parte della ricorrente, di un vizio motivazionale
non osta all’accoglimento del motivo in esame, giacché – nella sostanza – ciò che viene censurato è
un vizio di sussunzione, censurandosi la sentenza impugnata laddove ha escluso l’applicabilità delle
norme contrattuali, ed in particolare della disciplina sulla simulazione negoziale, agli accordi
accessori alla separazione consensuale.
Sulla scorta, pertanto, di tale rilievo è sufficiente ribadire – sulla base di quanto chiarito dalle
Sezioni Unite di questa Corte – come l’onere della “specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4),
secondo cui il ricorso deve indicare “i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione
delle norme di diritto su cui si fondano” non debba essere inteso quale assoluta necessità di formale
ed esatta indicazione dell’ipotesi, tra quelle elencate nell’art. 360 c.p.c., comma 1, cui si ritenga di
ascrivere il vizio, né di precisa individuazione degli articoli, codicistici o di altri testi normativi (nei
casi di deduzione di violazione o falsa applicazione di norme sostanziali o processuali),
comportando invece l’esigenza di una chiara esposizione, nell’ambito del motivo, delle ragioni per le
quali la censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta, che
consentano al giudice di legittimità di individuare la volontà dell’impugnante e stabilire se la stessa,
così come esposta nel mezzo d’impugnazione, abbia dedotto un vizio di legittimità sostanzialmente,
ma inequivocamente, riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di cui all’art. 360″ citato (così,
in motivazione, Cass. Sez. Un., sentenza 24 luglio 2013, n. 17931, Rv. 627268-01).
Nella specie, come reso evidente dalle argomentazioni addotte a sostegno dei motivi secondo, terzo
e quarto, ciò che la B. ha inteso censurare è proprio un’errata applicazione degli artt. 1414 e ss. c.c..
6.3. Il terzo motivo è, infine, inammissibile.
6.3.1. Infatti, va segnalato che – essendo stato il gravame, esperito dall’odierno ricorrente avverso la
decisione del giudice di prime cure, indirizzato contro una sentenza resa in data 30 agosto 2013 –
l’atto di appello risulta, per definizione, proposto con ricorso depositato o con citazione di cui sia
stata richiesta la notificazione posteriormente all’11. settembre 2012.
Orbene, siffatta circostanza determina l’applicazione “ratione temporis” dell’art. 348-ter c.p.c., u.c.,
(cfr. Cass. Sez. 5, sent. 18 settembre 2014, n. 26860, Rv. 633817-01; in senso conforme, Cass. Sez.
6-Lav., ord. 9 dicembre 2015, n. 24909, Rv. 638185-01, nonché Cass. Sez. 6-5, ord. 11 maggio
2018, n. 11439, Rv. 648075-01), norma che preclude, in un caso – qual è quello presente – di cd.
“doppia conforme di merito”, la proposizione di motivi di ricorso per cassazione formulati ai sensi
dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
Il tutto non senza rilevare che le circostanze delle quali sarebbe stato omesso l’esame, nella loro
ampiezza ed eterogeneità, non possono ricondursi alla nozione di “fatto” decisivo di cui alla norma
testé menzionata. Invero, come è già stato affermato, nitidamente, da questa Corte, ai sensi del
“novellato” testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) “è evidente l’inammissibilità di censure”, come
quelle attualmente prospettate dalla ricorrente, “che evochino una moltitudine di fatti e circostanze
lamentandone il mancato esame o valutazione da parte della Corte d’appello ma in realtà
sollecitandone un esame o una valutazione nuova da parte della Corte di cassazione, così chiedendo
un nuovo giudizio di merito, oppure chiamando “fatto decisivo”, indebitamente trascurato dalla
Corte d’appello, il vario insieme dei materiali di causa” (così, in motivazione, Cass. Sez. Lav., sent.
21 ottobre 2015, n. 21439, Rv. 637497-01).
7. All’accoglimento del ricorso, nei termini di seguito precisati, segue la cassazione della sentenza
impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, affinché decida nel
merito, in relazione alla proposta domanda di simulazione, provvedendo anche alla liquidazione
delle spese di lite, ivi comprese quelle del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie ìl secondo e dichiara inammissibile il terzo e,
per l’effetto, cassa la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Milano, in diversa
composizione, per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese processuali.
Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di
Cassazione, il 4 dicembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 30 agosto 2019