CONTRATTI DI PROTEZIONE

Di Gianfranco Dosi

I I contratti di protezione nel diritto di famiglia
Possono essere chiamati “contratti di protezione” nel diritto di famiglia quei contratti (tra coniugi o conviventi, ma anche tra un coniuge o convivente e un terzo) con cui si costituisce un assetto patrimoniale (art. 1321 c.c.) destinato ad avere direttamente o indirettamente effetti sostanzial¬mente di tipo protettivo (protezione dell’altro contraente, protezione reciproca, protezione di ter¬zi). L’effetto protettivo può essere anche prodotto, naturalmente, da atti unilaterali di un coniuge, di un convivente o di un terzo (art. 1324 c.c.), anche se in questa sede ci si sofferma soprattutto sugli accordi di protezione.
Non tutti gli accordi nel diritto di famiglia hanno questa prevalente finalità protettiva.
Siamo, infatti, abituati – soprattutto nell’ambito della crisi di coppia – al caso in cui l’accordo tra i coniugi è mosso non tanto da una prospettiva di protezione dell’altro o di terzi ma dal perseguimen¬to (del tutto legittimo, s’intende) soprattutto dell’interesse individuale di ciascuno dei contraenti, in linea con la tradizione del contratto come strumento sostanzialmente di tutela dei propri interessi. Il riferimento è agli accordi di separazione o di divorzio nei quali la domanda alla quale i contraenti si propongono di rispondere è soprattutto “come posso tutelare il mio interesse?”. Ciascuna parte, cioè, cerca legittimamente di perseguire propri vantaggi dall’accordo che ha natura tipicamente tran¬sattiva in quanto le parti “facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata” ovvero “prevengono una lite che può sorgere tra loro”, esattamente come avviene nel caso di accordi preventivi di separazione o di divorzio (questi ultimi, come si sa, osteggiati dalla giurisprudenza).
I contratti cosiddetti di protezione, invece, pur potendo condividere (ma non necessariamente) la medesima funzione transattiva dei tradizionali accordi di separazione e divorzio e pur potendo certamente essere caratterizzati dal perseguimento anche di interessi personali di ciascuna parte, sono caratterizzati soprattutto dalla finalità protettiva di uno dei contraenti, ovvero reciproca o di terzi. In essi la domanda alla quale ciascuna parte cerca di dare risposta è soprattutto quella di “come posso tutelare l’interesse del mio partner o dei figli o di terzi?”.
In altre parole la caratteristica strutturale e funzionale dei contratti che, nell’ambito del diritto di famiglia, possono essere chiamati “di protezione” è quella di essere orientati al perseguimento soprattutto di interessi non egoistici dei contraenti.
Allo stato attuale è forse prematuro parlare di causa tipica nei “contratti di protezione nel diritto di famiglia” a meno che non sia la legge a prevederne la funzione tipicamente protettiva (come avve¬nuto per i contratti di affidamento fiduciario previsti dalla legge 22 giugno 2016, n. 112)1. La finalità di protezione rimane, quindi, relegata nell’ambito degli interessi perseguiti tipicamente o atipica¬mente dalle parti. La causa del contratto di protezione (artt. 1322, 1325 c.c.) è, cioè, pur sempre quella tipica dello strumento contrattuale utilizzato (esempio donazione, trasferimento immobiliare) o quella atipica dell’operazione economica alla quale le parti hanno conformato il regolamento dei propri interessi. L’oggetto del contratto è la prestazione specifica mediante la quale si attua la fun¬zione protettiva (art. 1346 c.c.).
La protezione dell’altro o del terzo va considerata quindi il motivo (art. 1345 c.c.) che guida i con¬traenti all’utilizzazione di un modello contrattuale tipico o di uno schema negoziale atipico.
II L’antecedente: i contratti di protezione dei terzi in ambito sanitario e scolastico
Il contratto di protezione o ad effetti protettivi nasce come categoria individuata dalla dottrina e non ben definita dalla giurisprudenza in ambito sanitario in cui oltre al diritto alla prestazione principale, si pone l’esigenza di garantire l’ulteriore diritto a che non siano arrecati danni a terzi i quali, ove fossero danneggiati potranno agire per far valere una responsabilità di tipo contrattuale. “Il contrat¬to – come viene chiarito in dottrina – viene in tal modo integrato da obblighi che trovano il proprio fondamento nei principi della buona fede e della correttezza, superandosi così la concezione tradi¬zionale che vuole gli effetti contrattuali limitati al contenuto dell’accordo ed alle parti che lo hanno stipulato. Il presupposto dell’estensione ai terzi della tutela è che essi si trovino esposti al rischio di danni in occasione dell’esecuzione del contratto in ragione della loro particolare posizione rispetto ad una delle parti, ovvero che il creditore della prestazione abbia interesse alla loro protezione”.
La figura del contratto con effetti protettivi a favore del terzo, ricorre – nelle ipotesi finora esa¬minate dalla giurisprudenza (in ambito sanitario e scolastico) – ogniqualvolta da un determinato contratto sia ipotizzabile e plausibile l’attribuzione al terzo non già di un diritto al conseguimento della prestazione principale ma, piuttosto, un diritto alla sua esecuzione con diligenza, tale cioè da evitare danni al terzo stesso. Con la conseguenza che, ove tale obbligo di diligenza sia violato, il terzo potrebbe agire per il risarcimento dei danni
La giurisprudenza (Cass. civ. Sez. Unite, 11 gennaio 2008, n. 577; Cass. civ. Sez. III, 29 lu¬glio 2004, n. 14488; Cass. civ. Sez. III, 22 novembre 1993, n. 11503) ad esempio, qualifica come contratto con effetti protettivi a favore del terzo il contratto di ricovero ospedaliero intercorso tra la partoriente e l’ente ospedaliero, in quanto quest’ultimo è obbligato non solo a prestare alla gestante le cure necessarie in vista del parto, ma anche ad effettuare, con la dovuta diligenza, tutte le prestazioni necessarie per evitare al nascituro ogni possibile danno.
In questo ambito la prima decisione sul punto (Cass. civ. Sez. III, 22 novembre 1993, n. 11503 qualificava il contratto concluso tra la partoriente e l’ente ospedaliero come contratto con effetti protettivi a favore del terzo. Successivamente Cass. civ. Sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488 precisava che con il contratto di ricovero ospedaliero della gestante l’ente ospedaliero si obbliga non soltanto a prestare alla stessa le cure e le attività necessarie al fine di consentirle il parto, ma altresì ad effettuare, con la dovuta diligenza, tutte quelle altre prestazioni necessarie al feto (ed al neonato), sì da garantirne la nascita evitandogli – nei limiti consentiti dalla scienza – qualsiasi possibile danno. Detto contratto, intercorso tra la partoriente e l’ente ospedaliero, si atteggia come contratto con effetti protettivi a favore di terzo nei confronti del nato, alla cui tute¬la tende quell’obbligazione accessoria, ancorché le prestazioni debbano essere assolte, in parte, anteriormente alla nascita; ne consegue che il soggetto che, con la nascita, acquista la capacità giuridica, può agire per far valere la responsabilità contrattuale per l’inadempimento delle obbli¬gazioni accessorie, cui il contraente sia tenuto in forza del contratto stipulato col genitore o con
In Cass. civ. Sez. Unite, 11 gennaio 2008, n. 577 si afferma in tema di responsabilità contrat¬tuale della struttura sanitaria (per trasfusione con sangue infetto) il seguente principio di diritto: in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore, paziente danneggia¬to, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l’aggravamento della patologia, o l’insorgenza di un’affezione, e allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante.
Le Sezioni Unite come ulteriore caso di contratto ad effetti protettivi, hanno fatto anche riferimento alla responsabilità da “contatto sociale” dell’istituto scolastico per i danni dell’alunno cagionati a se stesso affermando che nel caso di danno cagionato dall’alunno a se stesso, la responsabilità dell’i¬stituto scolastico e dell’insegnante non ha natura extracontrattuale, bensì contrattuale, atteso che l’accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell’allievo alla scuola, determina per l’istituto scolastico l’instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell’istituto stesso l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni, anche al fine di evitare che l’al¬lievo procuri danno a se stesso. Anche tra insegnante e allievo si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell’ambito del quale l’insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, al fine di evitare che l’al¬lievo si procuri da solo un danno alla persona (Cass. civ. Sez. Unite, 27 giugno 2002, n. 9346).
III Se i contratti di protezione dei terzi possono essere considerati contratti “a favore di terzo” (art. 1411 c.c.)
Poiché nei contratti di protezione beneficiario dell’effetto protettivo potrebbe essere anche un terzo (per esempio il figlio dei coniugi stipulanti) ci si deve interrogare in via preliminare se in tal caso possa o meno trovare applicazione la disciplina giuridica del “contratto a favore di terzo”.

a) La figura del “contratto a favore di terzo”
Come si sa, il contratto ha forza d legge tra le parti e non può produrre effetti rispetto ai terzi se non “nei casi previsti dalla legge” (art. 1372, secondo comma, c.c.). Il “contratto a favore di terzo” fa, quindi, eccezione al principio generale della inefficacia del contratto rispetto ai terzi.
Del contratto a favore di terzo si occupa l’art. 1411 del codice civile il quale prevede che:
È valida la stipulazione a favore di un terzo, qualora lo stipulante vi abbia interesse.
Salvo patto contrario, il terzo acquista il diritto contro il promittente per effetto della stipulazione. Questa però può essere revocata o modificata dallo stipulante, finché il terzo non abbia dichiarato, anche in confronto del promittente, di volerne profittare.
In caso di revoca della stipulazione o di rifiuto del terzo di profittarne, la prestazione rimane a beneficio dello stipulante, salvo che diversamente risulti dalla volontà delle parti o dalla natura del contratto.
L’eccezione alla regola dell’inefficacia verso i terzi del contratto trova giustificazione nel fatto che il terzo, in queste ipotesi, non assume alcuna obbligazione ma acquista solo diritti. Infatti le parti del contratto (a favore di terzo) sono e rimangono lo stipulante (che contratta a favore di un terzo) e il promittente (che si obbliga verso lo stipulante ad eseguire la prestazione a favore di un terzo). Si pensi alle donazioni indirette (il padre, anziché acquistare l’immobile e poi donarlo al figlio, può comprare direttamente l’immobile a favore del figlio); nel codice sono previste alcune figure parti¬colari: anzitutto l’art. 1920 c.c prevede l’assicurazione a favore del terzo; l’art. 1689 c.c. prevede poi il contratto di trasporto a favore del terzo; ancora, l’art. 1875 c.c. prevede la rendita vitalizia a favore del terzo.
Il contratto a favore di terzo può avere il contenuto più diverso: un dare, un fare, un non fare, ov¬vero anche l’obbligo di trasferire ad un terzo un diritto reale. L’importante è che lo stipulante abbia un interesse alla stipulazione, cioè un interesse patrimoniale (essendo, per esempio, debitore del terzo) o non patrimoniale a procurare un beneficio al terzo.
La cosa importante è che dal “contratto a favore di terzo” non possono in nessun caso nascere per il terzo obbligazioni ma solo diritti. Per questo motivo la legge non prevede che il terzo debba accettare: il terzo acquista il diritto per effetto della stipulazione ma può dichiarare, come prevede l’art. 1411 c.c., di non voler profittare della stipulazione a suo favore. Ed è inoltre possibile che lo stipulante revochi la stipulazione a favore del terzo (sebbene solo fino a quando il terzo non abbia dichiarato di volerne profittare). In caso di rifiuto del terzo la prestazione rimane a beneficio dello stipulante.
Il terzo non è parte del contratto (né in senso formale né in senso sostanziale) né lo diviene dopo aver accettato (Cass. civ. Sez. Unite, 18 febbraio 2010, n. 3947; Cass. civ. Sez. III, 20 gennaio 2005, n. 1150; Cass. civ. Sez. III, 19 novembre 2004, n. 21875; Cass. civ. Sez. lavoro, 9 agosto 1996, n. 7398; Cass. civ. Sez. II, 17 marzo 1995, n. 3115; Cass. civ. Sez. III, 24 dicembre 1992, n. 13661). Il terzo si limita a ricevere gli effetti di un rapporto già validamente costituito ed operante divenendo creditore di una prestazione che gli sarà dovuta dal promittente, il quale è obbligato sia verso lo stipulante sia verso il terzo.
La dottrina prevalente sostiene che il contratto a favore di terzo non sarebbe un contratto tipico ma un contratto ordinario munito di una clausola accessoria che fa deviare gli effetti tipici di quel contratto verso il terzo. Ad esempio avremmo un normale contratto di vendita, locazione, mutuo, la cui particolarità sarebbe data dal fatto che una delle prestazioni viene diretta non verso il con¬traente ma verso il terzo. La tesi è avvalorata dalla posizione dell’istituto del codice (la disciplina generale dei contratti e non la sezione dedicata ai contratti tipici). Accanto alla causa del singolo contratto, che è tipica e interna, è individuabile poi una causa del rapporto tra stipulante e terzo, che è esterna all’accordo tra stipulante e promittente. A volte sarà una causa donandi, ma altre volte potrà essere una causa solvendi. Anche la disciplina, ovviamente, sarà quella del contratto tipico posto in essere combinata con quella del contratto a favore di terzo.
Concluso il contratto occorre distinguere la titolarità del diritto (che appartiene al terzo) dalla titolarità del rapporto contrattuale, che fa capo ai contraenti. Ciò significa che le eventuali azioni contrattuali (di invalidità, di inadempimento, ecc.) dovranno essere intentate nei confronti dello stipulante o del promittente ma non contro il terzo. Né il terzo potrà proporre le azioni contrattuali contro lo stipulante e il promittente, ad eccezione dell’azione di adempimento.
In conseguenza dell’accettazione, quindi, il terzo acquista un autonomo diritto alla prestazione verso il promittente e può farlo valere direttamente verso il medesimo (Cass. civ. Sez. II, 1 settembre 1994, n. 7622).
Secondo la dottrina il “contratto a favore di terzo” ricorre solo se il vantaggio attribuito al terzo consiste in un effettivo diritto, cioè in una prestazione; non, invece, quando il contratto si limita ad attribuire un semplice vantaggio di qualche genere. La distinzione tra un semplice diritto e un vantaggio è fondamentale per delimitare l’area del contratto a favore di terzo rispetto a pattuizioni simili, in cui il terzo è solo il punto di riferimento esterno del contratto.
In giurisprudenza si è posto il problema, per esempio, di qualificare l’accordo preso in sede di se¬parazione con cui uno dei coniugi si obbliga ad intestare un bene al figlio.
Alcune decisioni (tra cui Tribunale Siracusa, 14 dicembre 2001) lo hanno qualificato come “contratto a favore di terzo”, con la conseguenza (francamente inaccettabile) che il figlio potrebbe agire ex art. 2932 c.c. in caso di inadempimento del genitore. Contra invece Cass. civ. Sez. I, 25 settembre 1978, n. 4277 secondo cui la clausola, inserita nel verbale di separazione consen¬suale omologata, con la quale un coniuge si obblighi a mettere a disposizione dell’altro coniuge, e del figlio minore a quest’ultimo affidato, per tutta la durata della vita di entrambi, un alloggio, ad integrazione dell’assegno di mantenimento, configura una convenzione di diritto familiare che non è riconducibile nello schema del contratto, né, in particolare, del contratto a favore di terzo. Ne consegue che la portata e la durata di detto obbligo vanno determinati non alla stregua della disciplina di detta figura contrattuale (nella specie, sotto il profilo della pretesa revocabilità della stipulazione, fino a che il figlio non abbia dichiarato di volerne profittare), ma secondo i principi che presiedono ai rapporti patrimoniali fra i membri della famiglia, ed in relazione alle vicende idonee ad incidere sui medesimi (quali la sopravvenienza del divorzio fra i coniugi, la maggiore età ed autonomia economica del figlio).
Secondo Pretura Marano di Napoli, 13 marzo 1995 sarebbe anche necessaria la nomina di un curatore speciale al minore trattandosi di un caso di conflitto di interessi tra genitori e figlio (di contrario avviso in passato Cass. civ., sez. I, 5 gennaio 1985, n. 11).
Il “contratto a favore di terzo” si differenzia dal contratto per persona da nominare in quanto il terzo non è parte del contratto né lo diviene successivamente (C. 7398/1996) e in quanto, nel secondo, la nomina del terzo è solo eventuale, rappresentando l’esercizio di una mera facoltà della parte che tale nomina si è riservata: in caso di nomina mancata, invalida o intempestiva, pertanto, il contratto produce i suoi effetti fra i contraenti originari. Nel “contratto a favore di terzo”, invece, la stipula¬zione a favore del terzo deve necessariamente essere prevista nel contratto, che produrrà effetti nei confronti del terzo (salvo che intervengano la revoca della stipulazione o il rifiuto di profittarne).
b) La non riconducibilità dei contratti di protezione dei terzi al “contratto a favore di terzo”
Ove l’effetto protettivo del contratto si realizza nei confronti di un terzo (e non quindi soltanto nei confronti di entrambi i contraenti ovvero nei confronti di uno di essi) si è in presenza di un rappor¬to che in tutto e per tutto parrebbe riconducibile al “contratto a favore di terzo” (art. 1411 c.c.).
Naturalmente l’effetto protettivo potrebbe determinarsi a vantaggio di un terzo anche in seguito ad un atto unilaterale (si pensi alla trascrizione effettuata dal padre di un vincolo di destinazione su un immobile a favore di un figlio o ad una intestazione al figlio di un immobile contestualmente al suo acquisto) ma in tal caso il problema della riconducibilità di questa operazione al “contratto a favore di terzo” non si pone in radice non essendo di certo applicabile l’art. 1411 c.c. agli atti unilaterali. D’altro lato in questa sede parlando di contratti di protezione nell’ambito delle relazioni familiari si fa riferimento essenzialmente al contratto tra due soggetti a seguito del quale si determina un vantaggio in capo ad un terzo.
Ebbene si è visto che le caratteristiche del “contratto a favore di terzo” sono sostanzialmente tre: 1) il fatto che il terzo non è e non può diventare parte del contratto (in ciò sta la differenza tra il “contratto a favore di terzo” e il “contratto per persona da nominare”); 2) il fatto che il terzo ac¬quista un vero e proprio diritto alla prestazione potendo quindi proporre direttamente l’azione di adempimento; 3) il fatto che la prestazione a favore del terzo è revocabile fino a quando il terzo non abbia dichiarato di volerne profittare.
Tanto premesso vi è da dire che mentre le prime due caratteristiche sono in linea generale certa¬mente riscontrabili nei contratti di protezione che realizzano un vantaggio nei confronti di terzi 2, di certo non è ipotizzabile l’applicazione del principio di revocabilità della prestazione fino a che il terzo non dichiari di volerne profittare3. La revocabilità dei contratti di protezione nel diritto di famiglia segue la regola generale della possibile revoca solo per mutuo consenso (artt. 1328, 1333 c.c.) e non certo per iniziativa soltanto di uno dei contraenti, in particolare del contraente onerato della prestazione. Si pensi al caso in cui in un accordo di separazione il marito assume l’obbligo di intestare un immobile al figlio a titolo di mantenimento: la revoca unilaterale di tale impegno contrattuale non è certo ipotizzabile.
Pertanto i contratti di protezione nei quali l’effetto protettivo si realizza a vantaggio di un terzo non possono trovare la loro disciplina giuridica nelle norme sul “contratto a favore di terzo”.
2 Avverso l’inadempimento da parte del contrante onerato dalla prestazione quindi non può agire il terzo ma solo l’altro contraente (nel caso quindi di mancato adempimento da parte del coniuge che in sede di separazione consensuale si è impegnato al trasferimento in favore del figlio di un immobile, sarà proponibile l’azione ex art. 2932 c.c. soltanto da parte dell’altro coniuge), salvo che la legge (come avviene nell’art. 2645 ter c.c., nel trust, nei contratti di affidamento fiduciario) non preveda il diritto del terzo beneficiario ad una autonoma azione di adempimento.
3 In passato ha sostenuto questa tesi Cass. civ. Sez. I, 25 settembre 1978, n. 4277 secondo cui, considerato che la clausola, inserita nel verbale di separazione consensuale omologata, con la quale un coniuge si obblighi a mettere a disposizione dell’altro coniuge, e del figlio minore a quest’ultimo affidato un alloggio, ad integrazione dell’assegno di mantenimento non è riconducibile nello schema del contratto, né, in particolare, del contratto a favore di terzo, consegue che la portata e la durata di detto obbligo vanno determinati non alla stregua della disciplina di detta figura contrattuale (nella specie, sotto il profilo della pretesa revocabilità della stipulazione, fino a che il figlio non abbia dichiarato di volerne profittare), ma secondo i principi che presiedono ai rapporti patrimoniali fra i componenti della famiglia.
IV I singoli contratti di protezione
Sono diversi i casi di contratti di protezione ipotizzabili:
a) Contratti con effetti protettivi delle parti o di una di esse
1. Accordi nel corso della vita familiare (art. 144 c.c.) 4
2. Contratti di convivenza e contratti tra conviventi 5
4. Accordi matrimoniali e prematrimoniali in funzione predivorzile 6
5. Una tantum divorzile e altri accordi di separazione e divorzio concernenti il trasferimento di diritti reali 7
6. Accordi di costituzione del fondo patrimoniale e accordi concernenti atti di destinazione 8
7. Donazioni dirette e indirette 9
8. Cointestazione di conti correnti bancari 10
9. Accordi parasuccessori 11
b) contratti con effetti protettivi verso terzi
1. Accordi per il mantenimento dei figli 12
2. Contratti di affidamento fiduciario (legge 22 giugno 2016, n. 112) 13
4 Cfr la voce ACCORDI NEL CORSO DELLA VITA FAMILIARE
5 Cfr la voce CONTRATTI DI CONVIVENZA
6 Cfr la voce ACCORDI PREMATRIMONIALI
7 Cfr la voce TRASFERIMENTI IMMOBILIARI
8 Cfr la vice VINCOLI DI DESTINAZIONE
9 Cfr la vice DONAZIONE INDIRETTA
10 Cfr la voce CONTO CORRENTE BANCARIO COINTESTATO
11 Cfr la vice PATTI SUCCESSORI
12 Cfr laevoci MANTENIMENTIO DEI FIGLI
13 Cfr la voce CONTRATTO FIDUCIARIO
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. Unite, 18 febbraio 2010, n. 3947 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cd. polizza fideiussoria è un negozio che, sotto il profilo genetico, si distingue dalle convenzioni fideiussorie sia perché necessariamente oneroso, mentre la fideiussione può essere anche a titolo gratuito, sia perché stipulato, non tra il fideiussore e il creditore, ma, di regola, dall’appaltatore (debitore principale) su richiesta ed in favore del committente beneficiario (creditore principale); inoltre, esso è strutturalmente articolato secondo lo schema del contratto a favore di terzo, il quale non è parte né formale né sostanziale del rapporto, ed è funzional¬mente caratterizzato dall’assunzione dell’impegno, da parte di una banca o di una compagnia di assicurazione (promittente), di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo nel caso di inadempimento della prestazione a lui dovuta dal contraente.
Cass. civ. Sez. Unite, 11 gennaio 2008, n. 577 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, e di responsabilità professionale da contat-to sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l’aggravamento della patologia, o l’insorgenza di un’affezione, e allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante.
Cass. civ. Sez. III, 20 gennaio 2005, n. 1150 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel contratto in favore di terzi, che può essere costituito da un contratto di albergo, purché lo stipulante vi abbia un interesse, che può essere economico, istituzionale o anche morale, lo stipulante rimane parte contrattuale, mentre il terzo non è parte né in senso sostanziale né in senso formale e deve limitarsi a ricevere gli effetti di un rapporto già validamente costituito ed operante, senza che a suo carico possano discendere obbligazioni verso il promittente. Ne consegue che è sempre lo stipulante ad essere obbligato nei confronti del locatore alla resti¬tuzione della cosa locata da parte del terzo e, in caso di ritardo, alla corresponsione di quanto dovuto ai sensi del disposto dell’art. 1591 c.c.
Cass. civ. Sez. III, 19 novembre 2004, n. 21875 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’accordo con il quale le parti di un contratto abbiano stabilito una deroga convenzionale alla competenza territoriale non opera nei confronti di chi sia rimasto estraneo all’accordo, a nulla rilevando la sussistenza di un’ipotesi di litisconsorzio necessario, poiché per il terzo la clausola di deroga è “res inter alios acta”. Pertanto nel contratto a favore di terzo quest’ultimo, non essendo parte né in senso sostanziale né in senso formale non è tenuto a rispettare il Foro convenzionale pattuito tra i contraenti. (Fattispecie relativa a contratto di assicu¬razione per conto di chi spetta).
Cass. civ. Sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con il contratto di ricovero ospedaliero della gestante l’ente ospedaliero si obbliga non soltanto a prestare alla stessa le cure e le attività necessarie al fine di consentirle il parto, ma altresì ad effettuare, con la dovuta diligen¬za, tutte quelle altre prestazioni necessarie al feto (ed al neonato), sì da garantirne la nascita evitandogli – nei limiti consentiti dalla scienza – qualsiasi possibile danno. Detto contratto, intercorso tra la partoriente e l’ente ospedaliero, si atteggia come contratto con effetti protettivi a favore di terzo nei confronti del nato, alla cui tutela tende quell’obbligazione accessoria, ancorché le prestazioni debbano essere assolte, in parte, anteriormente alla nascita; ne consegue che il soggetto che, con la nascita, acquista la capacità giuridica, può agire per far valere la responsabilità contrattuale per l’inadempimento delle obbligazioni accessorie, cui il contraente sia tenuto in forza del contratto stipulato col genitore o con terzi, a garanzia di un suo specifico interesse.
Cass. civ. Sez. Unite, 27 giugno 2002, n. 9346 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di danno cagionato dall’alunno a se stesso, la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante non ha natura extracontrattuale, bensì contrattuale, atteso che – quanto all’istituto scolastico – l’accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell’allievo alla scuola, determina l’instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni, anche al fine di evitare che l’allievo procuri danno a se stesso; e che – quanto al precettore dipendente dell’istituto scolastico – tra insegnante e allievo si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell’ambito del quale l’insegnan¬te assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, onde evitare che l’allievo si procuri da solo un danno alla persona. Ne deriva che, nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da autolesione nei confronti dell’istituto scolastico e dell’insegnante, è applicabile il regime probatorio desumibile dall’art. 1218 c.c., sicché, mentre l’attore deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sull’altra parte incombe l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola né all’insegnante.
Tribunale Siracusa, 14 dicembre 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione consensuale tra coniugi, l’accordo con cui venga pattuito il trasferimento di un diritto reale al figlio per provvedere “una tantum” al suo mantenimento, si può configurare come un contratto a favore di terzo ex art. 1411 c.c. a titolo di liberalità, ovvero donazione indiretta a favore della prole, e pertanto non soggetto alla forma prevista dall’art. 782 c.c.
Il trasferimento immobiliare a favore del figlio, previsto in un accordo di separazione tra coniugi, non è tra-scrivibile senza l’adesione del terzo beneficiario, indefettibile “condicio iuris” sospensiva, fino al suo verificarsi, dell’acquisizione del diritto in modo irrevocabile. (Fattispecie in cui il tribunale di Siracusa ha considerato legitti¬ma la trascrizione con riserva, da parte del conservatore dei registri immobiliari, dell’accordo traslativo di bene immobile, contenuto nel decreto di omologazione della separazione consensuale dei coniugi, a favore del figlio, senza che sia stato previamente manifestato il consenso, in nome e per conto del minore, da parte del legale rappresentante nominato e autorizzato dal giudice tutelare ex art. 320 c.c.).
Cass. civ. Sez. lavoro, 9 agosto 1996, n. 7398 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel contratto in favore di terzi (art. 1411 c.c.) le parti stipulanti assumono reciprocamente degli obblighi in favo¬re di un terzo il quale assume la veste di creditore della prestazione promessa senza essere parte del contratto, né in senso formale né in senso sostanziale; ne consegue che il terzo, la cui dichiarazione di voler approfittare del contratto è necessaria solo per renderlo irrevocabile ed immodificabile, non ha alcun obbligo verso le parti stipulanti, le quali, pertanto, restano le sole vincolate per le prestazioni convenute.
Cass. civ. Sez. II, 17 marzo 1995, n. 3115 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il tratto peculiare del contratto per persona da nominare è dato dal subentrare nel contratto di un terzo – per effetto della nomina e della sua contestuale accettazione – che, prendendo il posto del contraente originario (lo stipulante), acquista i diritti ed assume gli obblighi correlativi nei rapporti con l’altro contraente (promittente) determinando, inoltre, la contemporanea fuoriuscita dal contratto dello stipulante, con effetto retroattivo, per cui il terzo si considera fin dall’origine unica parte contraente contrapposta al promittente e a questa legata dal rapporto costituito dall’originario stipulante; nel contratto a favore di terzo, invece, gli effetti si producono a favore sia dello stipulante che del terzo, il quale ultimo non acquista mai veste di parte contrattuale, né in senso formale né in senso sostanziale.
Nel contratto per persona da nominare il terzo si considera fin dall’origine unica parte del rapporto costituito dall’originario stipulante; in ciò risiede la differenza con il contratto a favore di terzo i cui effetti si producono sia a favore dello stipulante, che del terzo, il quale ultimo non acquista mai veste di parte contratuale, né in senso formale né in senso sostanziale.
Pretura Marano di Napoli, 13 marzo 1995 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Qualora i genitori stipulino un contratto di compravendita a favore del figlio minore, per rendere in suo nome la dichiarazione di voler profittare della stipulazione, è necessaria la nomina di un curatore speciale, dal momento che sussiste conflitto d’interessi tra figlio e genitori stipulanti, che in rappresentanza del primo intendano rendere contestualmente la dichiarazione di cui all’art. 1411 comma 2 c.c.
Cass. civ. Sez. III, 22 novembre 1993, n. 11503 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il contratto concluso tra la partoriente e l’ente ospedaliero si atteggia come contratto con effetti protettivi a favore del terzo.
Con il contratto di ricovero ospedaliero della gestante l’ente ospedaliero si obbliga non soltanto a prestare le cure e le attività necessarie al fine di consentirle il parto, ma altresì ad effettuare le prestazioni necessarie per evitare danni connessi alla nascita del bambino.
Cass. civ. Sez. III, 24 dicembre 1992, n. 13661 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei contratti a favore di terzi (nella specie, contratto di assicurazione fideiussoria) il terzo non è parte né in senso sostanziale, né in senso formale e si limita a ricevere gli effetti di un rapporto già costituito ed operante, sicché la sua adesione si configura quale mera condicio juris sospensiva dell’acquisizione del diritto (rilevabile per facta concludentia) restando la dichiarazione del terzo di voler profittare del contratto necessaria soltanto per renderlo irrevocabile ed immodificabile (art. 1411, 3° comma, c. c.); ne consegue che gli stati soggettivi rilevanti ai fini dell’annullabilità del contratto sia sotto il profilo della riconoscibilità dell’errore (art. 1428 c. c.) sia sotto il profilo del dolo (art. 1439 c. c.), sono esclusivamente quelli dei contraenti, mentre nessuna rilevanza assumono normalmente quelli del terzo, salvo che i raggiri in cui si sostanzia il dolo provengano dal terzo (art. 1439, 2° comma, c. c.) a cui favore il contratto è stato stipulato giusta la previsione dell’art. 1411 c. c.
Cass. civ., sez. I, 5 gennaio 1985, n. 11 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel contratto a favore di terzo, secondo la previsione dell’art. 1411 c. c., la validità ed operatività della conven¬zione medesima postula soltanto la ricorrenza di un interesse dello stipulante (art. 1411 cit., 1° comma), senza che si richieda l’osservanza delle norme sulla rappresentanza dei minori, ove stipulato dal genitore a vantaggio del figlio minore, non implicando detto contratto né l’esercizio di poteri di rappresentanza, né l’accettazione da parte del figlio (la cui mancanza, ai sensi del 3° e 4° comma del suddetto art. 1411 c. c., spiega rilievo al diverso fine dell’eventuale revoca o modifica del contratto da parte dello stipulante).
Cass. civ. Sez. I, 25 settembre 1978, n. 4277 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La clausola, inserita nel verbale di separazione consensuale omologata, con la quale un coniuge si obblighi a mettere a disposizione dell’altro coniuge, e del figlio minore a quest’ultimo affidato, per tutta la durata della vita di entrambi, un alloggio, ad integrazione dell’assegno di mantenimento, configura una convenzione di diritto familiare che non è riconducibile nello schema del contratto, né, in particolare, del contratto a favore di terzo. Ne consegue che la portata e la durata di detto obbligo vanno determinati non alla stregua della disciplina di detta figura contrattuale (nella specie, sotto il profilo della pretesa revocabilità della stipulazione, fino a che il figlio non abbia dichiarato di volerne profittare), ma secondo i principi che presiedono ai rapporti patrimoniali fra i membri della famiglia, ed in relazione alle vicende idonee ad incidere sui medesimi (quali la sopravvenienza del divorzio fra i coniugi, la maggiore età ed autonomia economica del figlio).

Ammissibile la procedura di casi speciali di adozione e l’aggiunte del reciproco cognome per i figli nati tramite fecondazione assistita da due madri unite civilmente.

Tribunale Minorenni Genova, 13 Giugno 2019. Pres., est. Villa
SENTENZA
CONCLUSIONI
Il Pubblico Ministero: accoglimento dei ricorsi e dell’accordo raggiunto quanto al
cognome
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
I due procedimenti sono stati instaurati a seguito di ricorsi contestualmente
depositati il 3.8.2017 dalle ricorrenti dai quali in sintesi emerge che:
– la relazione sentimentale tra le due madri risale al 2005;
– avviata una stabile convivenza, nel 2011 è nata YY. ZZ. N. figlia di YY. ZZ. L. con
una fecondazione assistita e tre anni dopo è nato CC. R. figlio di CC. F. e concepito
con analoga tecnica;
– le due donne hanno accudito i due minori organizzando il menage famigliare
occupandosi principalmente CC. F. delle cure dei minori, mentre CC ZZ. L. è
impegnata principalmente nell’attività lavorativa essendo amministratrice della
società ….. ;
– entrambi i figli riconoscono le due donne come madri e si reputano tra di loro
fratelli;
– a seguito dell’entrata in vigore della legge 76/16 il 4.3.2017 le ricorrenti si sono
unite civilmente.
Dalle informazioni di rito fornite dalla Questura di Imperia l’8.11.2017 non
emergono elementi di rilievo e si riferisce delle attività economiche svolte dalla
signora YY. ZZ. e del clima sereno riscontrato durante la visita domiciliare. Il 21
giugno 2018 sono pervenute relazioni dell’ASL 1 di […], nelle quali si esprime parere
favorevole alle 2 adozioni richieste, e dalle quali emerge:
– una serena accettazione da parte dei rispettivi nuclei famigliari della loro scelta di
vita;
– che la procedura di fecondazione in vitro è stata da entrambe effettuata in Spagna
([…])
– che alla visita domiciliare si è colta un’atmosfera serena, i bambini sono parsi
simpatici e a loro agio, “entrambi si rivolgono in maniera preferenziale alla propria
mamma ma dimostrano di avere un legame affettivo intenso anche con l’altra”;
– i due bambini frequentano le scuole (…) in casa condividono la stanza;
– a dire delle due madri i bambini sono a conoscenza della “loro storia e che
pertanto entrambi sono consapevoli di avere due mamme e le stesse riferiscono che
tale situazione non ha mai avuto ripercussioni negative nella loro realtà quotidiana
(inserimento alla scuola, danze, vacanze)”.
Il Tribunale, ritenendo sussistenti i presupposti di legge, per i motivi di seguito
illustrati, ritenendo che nelle relazioni dall’ASL non fosse stata sufficientemente
approfondita, così come previsto dall’art 57 l. 184/83, una analisi della personalità
delle due ricorrenti e dei minori [art 57 co 2 lett c) e lett d)], … né come si sia
sviluppato il progetto genitoriale [art 57 co 2 lett b) “i motivi per i quali l’adottante
desidera adottare il minore”], non contendo una reale osservazione delle dinamiche
famigliari e della qualità della relazione genitoriale con il genitore biologico, nè
“l’idoneità affettiva e la capacità di educare e istruire il minore” (art 57 co 2 lett a),
né la rappresentazione delle figure genitoriali che hanno i due bambini, con decreto
21 novembre 2018 ha disposto CTU nominando la dr.ssa ….. e il dr. … formulando il
seguente quesito: “(…) procedano ad un’accurata osservazione e valutazione della
struttura di personalità dei minori e delle ricorrenti (ciascuna sia come madre che
come madre adottiva), ed all’osservazione psicologica delle relazioni tra i minori e
ciascuno dei genitori, accertando e rappresentando:
1. la personalità delle due ricorrenti e dei minori;
2. le vicende che hanno caratterizzato la vita di coppia ed il progetto genitoriale, le
dinamiche famigliari e la qualità della relazione genitoriale con il genitore biologico;
3. le competenze genitoriali e la qualità della relazione tra le due mamme e ciascun
minore;
4. lo stato psicoemotivo dei bambini e la qualità della relazione tra fratelli;
5. l’idoneità affettiva e la capacità di educare e istruire i minori;
6. quale sia la rappresentazione delle figure genitoriale che hanno i due bambini;
7. quali siano lo stile di attaccamento e le risorse nello svolgimento delle funzioni
genitoriali, in relazione alle esigenze di sviluppo psicofisico e affettivo dei minori;
8. eventuali interventi di sostegno ritenuti necessari in favore dei minori e dei
genitori”.
Il 13 …..o 2019 è stata depositata la CTU e il 28 …..o 2019 sono state sentite le
ricorrenti.
All’esito le parti hanno concluso come indicato in epigrafe
MOTIVI DELLA DECISIONE
Deve premettersi che la discussione giurisprudenziale circa la legittimità
dell’adozione ex art 44 lett d) l. 184783 da partner del partner omogenitoriale (c.d.
stepchild adoption) deve ritenersi conclusa a seguito dell’intervento delle Sezioni
Unite n. 12193/19 del 6.11.2018 (dep 8.5.2019).
Pur riguardando tale sentenza una fattispecie diversa – ovvero la possibilità di
trascrivere direttamente in Italia un atto di nascita formatosi all’estero, relativa ad
un coppia di uomini e ad una paternità ottenuta con una gestazione per altri (il c.d.
utero in affitto) e quindi con una filiazione naturale indifferente per entrambi i
genitori (mentre per il genitore di intenzione si tratta di genitorialità non conforme
al dato biologico), la Corte è esplicita, e non si tratta di un mero obiter dictum
trattandosi di principio oggetto di espressa massimazione, nell’affermare la
possibilità di ricorrere in ogni caso all’adozione in casi particolari ex art 44 lett d) l.
184/83. Principio così massimato: «Il riconoscimento dell’efficacia di un
provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto
di filiazione tra un minore nato all’estero medianteil ricorso alla maternità
surrogata e il genitore d’intenzione munito della cittadinanza italiana, trova
ostacolo nel divieto di surrogazione di maternità, previsto dall’art. 12, comma 6,
della l. n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto
posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l’istituto
dell’adozione; la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti
sull’interesse del minore, nell’ambito di un bilanciamento effettuato direttamente
dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non
esclude peraltro la possibilità di conferire comunque rilievo al rapporto genitoriale,
mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione in casi particolari,
prevista dall’art. 44, comma 1, lett. d), della l. n. 184 del 1983.».
Si deve peraltro puntualizzare che il caso in esame non interessa minimamente la
questione della maternità surrogata, e la relativa contrarietà all’ordine pubblico,
trattandosi di maternità ottenuta con inseminazione di un donatore maschio
anonimo, mentre la gestazione è stata portata avanti dalla madre biologica che ha
effettuato pertanto regolare riconoscimento del figlio.
La pronuncia è però rilevante perché conferma la correttezza dell’orientamento
espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza della stessa Corte a sezione
semplice (Cass Sez. 1, Sentenza n. 12962 del 22/06/2016, Rv. 640133 – 01) che
aveva ritenuto che l’adozione ex art 44, comma 1, lett. d), della l. n. 183 del 1994,
costituisca «una clausola di chiusura del sistema, intesa a consentire l’adozione
tutte le volte in cui è necessario salvaguardare la continuità affettiva ed educativa
della relazione tra adottante ed adottando, come elemento caratterizzante del
concreto interesse del minore a vedere riconosciuti i legami sviluppatisi con altri
soggetti che se ne prendono cura, con l’unica previsione della “condicio legis” della
«constatata impossibilità di affidamento preadottivo», che va intesa, in coerenza
con lo stato dell’evoluzione del sistema della tutela dei minori e dei rapporti di
filiazione biologica ed adottiva, come impossibilità “di diritto” di procedere
all’affidamento preadottivo e non di impossibilità “di fatto”, derivante da una
situazione di abbandono (o di semi abbandono) del minore in senso tecnicogiuridico.
La mancata specificazione di requisiti soggettivi di adottante ed adottando, inoltre,
implica che l’accesso a tale forma di adozione non legittimante è consentito alle
persone singole ed alle coppie di fatto, senza che l’esame delle condizioni e dei
requisiti imposti dalla legge, sia in astratto (l’impossibilità dell’affidamento
preadottivo) che in concreto (l’indagine sull’interesse del minore), possa svolgersi
dando rilievo, anche indirettamente, all’orientamento sessuale del richiedente ed
alla conseguente relazione da questo stabilita con il proprio “partner”».
A tale pronunce è seguito peraltro un contrasto a livello giurisprudenziale di merito,
che ora si deve ritenere risolto dalla sentenza delle Sezioni Unite nell’ambito della
tipica funzione di nomofiliachia.
Conforme alla sentenza della Corte di Cassazione cfr Trib Minorenni di Milano
Camera di Consiglio del 13 luglio 2018; contra Trib. Minorenni di Milano 13.9.2016.
Ciò premesso l’indagine peritale ha confermato quanto sommariamente indicato
nelle relazioni dei servizi psicosociali.
I CTU premettono come per i minori sia importante, proprio per garantirne uno
sviluppo sereno, il riconoscimento del legame genitoriale di fatto vissuto: «il
riconoscimento legale delle coppie omosessuali della possibilità per il genitore non
biologico di adottare il proprio figlio rappresenta un passo fondamentale e
necessario a garantire questi bambini: tanto nel dare loro la sicurezza di una rete
solida di relazioni affettive di fronte alle (eventuali) avversità, quanto nell’offrire
loro il senso di completo riconoscimento, di una tutela definitiva rispetto al dubbio
che la loro famiglia sia per qualche ragione una “famiglia di serie B”».
Fatta questa premessa non emergono nelle due ricorrenti profili personologici degni
di particolare attenzione.
La signora YY. ZZ. viene descritta come “persona solida, concreta e fidabile” e ciò
anche grazie ad una solida e supportiva situazione famigliare che l’ha sostenuta
nelle sue scelte.
La signora CC. è invece parsa …..
Per entrambe l’esperienza di coppia e l’esperienza genitoriale ha costituito un
fattore di positiva maturazione …..
Di conseguenza anche a livello di coppia genitoriale i CTU non possono che
effettuare valutazioni positive: «la estensione della co-genitorialità in questo caso
non nasce da dinamiche conflittuali o separative (ipotizzando una famiglia
“tradizionale” e le eventuali storie di separazione che portano a condividere con
nuovi compagni/e le responsabilità quotidiane della crescita dei figli) bensì da una
dinamica supportata dall’amore reciproco e dall’unione e condivisione di un
“progetto di vita”, per cui i rapporti e gli “scambi” non possono che esserne facilitati
e facilitanti».
Si evidenzia in particolare come abbiano preparato e protetto i minori rispetto
all’inserimento scolastico, ovvero il primo debutto sociale dei figli, presentendo la
propria situazione agli insegnanti e così ponendoli al riparo da eventuali pregiudizi.
Assai positive inoltre le descrizioni dei minori, a conferma della positività delle
competenze della coppia genitoriale.
F. viene descritta come «molto bella, simpatica, dai modi educati e raffinati, con
una buona dotazione cognitiva. Si esprime con un linguaggio evoluto, molto ricco e
articolato, possiede buone capacità di logica e di sintesi. Appare molto femminile
negli atteggiamenti così come nell’abbigliamento». Dotata di «ottime competenze
relazionali», mostra «un buon equilibrio tra l’utilizzo di informazioni cognitive e
informazioni affettive nell’approcciare e gestire situazioni nuove. Riconosce e
esprime, modulandole, le sue emozioni anche quelle negative con competenza», ha
una «buona capacità di empatizzare e di riconoscere gli stati mentali dell’altro,
esprime anche una buona sintonizzazione da parte delle mamme rispetto a ciò che
lei prova e desidera». «Tutti questi aspetti rimandano a una esperienza di legami di
attaccamento con le sue figure genitoriali caratterizzati da reciprocità, fiducia,
responsività. (…) mostra di vivere come naturale la sua realtà familiare e di rilevare
l’assenza della figura paterna solo nel confronto con le famiglie delle sue amiche,
solo a quel punto identifica una differenza che accoglie come altra possibilità ma
non come mancanza, e che non sembra interferire nella sua percezione di famiglia
come luogo dove poter crescere e stare bene. L’unione concreta dei cognomi
rappresenta per lei un rinforzo all’unione/allo stare insieme delle persone che li
portano.
Il tema prevalente per N. non sembra essere la mancanza di qualcosa o di qualcuno
ma la necessità di continuità nella relazione con le sue figure di attaccamento, con
mamma …..e mamma ……, sue figure di riferimento significativo. Emerge più volte
il senso di appartenenza al suo nucleo familiare, la sua preoccupazione e ansia che
qualcosa possa romperne l’attuale equilibrio e la sua conseguente richiesta di
mantenerlo coeso e riconosciuto»..
R. è descritto come un «bellissimo bambino, molto simpatico, vivace e curioso, è
dotato di buone competenze cognitive. Si esprime con un linguaggio ricco per l’età,
possiede una buona coordinazione motoria e una sostenuta capacità di attenzione e
concentrazione quando esegue un disegno, guarda un libro o svolge una attività di
gioco. Allo stesso tempo mostra una vivacità motoria in linea con l’età. (…) Sia
mamma …. che mamma ….. hanno mostrato buone capacità di contenimento nei
momenti in cui R. ha espresso alcune difficoltà di tipo emotivo, entrambe si
relazionano con lui con dolcezza ed empatia ma allo stesso tempo con autorevolezza
e contenimento quando necessari.
R. riferisce di molte esperienze positive condivise con le sue mamme. Ricerca la loro
presenza ma mostra anche di saper stare e giocare da solo.
R. mostra una buona capacità di padroneggiare le situazioni di stress mettendo in
atto buone strategie adattive, funzionali dove riesce anche a utilizzare l’aiuto che gli
viene offerto. (…)
Ha mostrato una importante capacità di relazionarsi all’altro affidandosi,
mostrando di saper utilizzare rassicurazioni e spiegazioni che gli vengono fornite.
Questo rimanda alla rappresentazione dell’altro come di qualcuno che può essere
disponibile, responsivo e protettivo, sulla base di esperienze positive di
attaccamento.
Si è potuto infatti osservare una buona interazione con le sue figure genitoriali
caratterizzata da empatia, reciprocità affettiva, collaborazione e giocosità. La
comunicazione tra loro è stata verbalmente intensa e ricca di complicità di sguardi.
Rispetto al motivo della consultazione R. mostra un forte senso di appartenenza alla
sua famiglia e con spontaneità segnala di vivere positivamente la sua realtà
familiare che percepisce come fisiologica. Già si rappresenta con entrambi i
cognomi delle sue mamme.
Si osserva una definita identità di genere e il conseguente desiderio di poter
condividere con altre figure dello stesso sesso giochi e contenuti maschili. (…). Ha
segnalato, sia attraverso i suoi vissuti sia esprimendolo in modo diretto, il profondo
bisogno di stabilità e continuità nella relazione con le sue figure genitoriali».
Quanto al rapporto tra i due fratelli è stato osservato “un intenso legame, giocano
insieme, si cercano molto” ….
Nelle osservazioni con le due ricorrenti si è osservato come entrambi i minori
abbiano fatto loro riferimento «come “base sicura”, si avvicinano a loro al bisogno o
per fare rifornimento affettivo per poi ritornare a esplorare e gestire la situazione
nuova che la presenza dei consulenti impone. I bambini si rivolgono a entrambe le
madri sia per richieste di aiuto e/o di rassicurazione/conferma, sia semplicemente
per farsi coccolare o per coinvolgerle in ciò che stanno facendo. (…)
Entrambe mostrano un profondo legame affettivo nei confronti sia di N. che di R.,
ne descrivono in modo preciso le rispettive individualità e peculiarità, ne
valorizzano le competenze. Entrambe rappresentano per N. e R., figure di
attaccamento affettive, responsive e protettive».
Rispondendo al quesito i CTU evidenziano, relativamente ai due minori, come non
sia necessario alcun sostegno. Altrettanto per le due ricorrenti le quali peraltro
hanno manifestato l’intenzione di avviare un sostegno terapeutico per lavorare su
alcuni aspetti della genitorialità.
All’udienza del 28 …..o 2019 le ricorrenti hanno ripercorso, condividendole, le
valutazioni delle CTU. Ci si è soffermati unicamente su un aspetto emerso nel lavoro
peritale, e sul quale hanno avviato contatti con un terapeuta, relativamente alle
ricadute per i minori, ed in particolare N., di alcuni litigi verbali, a loro giudizio di
poco conto, che la minore N. ha colto perchè al momento vivono ancora in
un’abitazione abbastanza piccola, e che la minore ha enfatizzato temendo che tali
discussioni possano essere prodromiche di una separazione, che evidente teme e
che entrambe le ricorrenti escludono.
Tutto ciò considerato sussistono pertanto le condizioni di cui all’art. 44 lett. b)
L.184/83, realizzando l’adozione dei minori da parte delle ricorrenti il preminente
interesse dei due minori costituendo il corollario ad una situazione di fatto da
tempo vissuta nella realtà di tutti i giorni e così ponendo rimedio ad una scissione
incomprensibile tra la forma giuridica della relazione genitoriale con l’altro genitore
e la realtà dei sentimenti di attaccamento e di fratria.
Per quanto attiene alla questione del cognome, poiché l’art. 55 L.184/83 richiama la
disciplina dell’art.299 c.c., l’adottato che sia figlio naturale riconosciuto dai propri
genitori dovrebbe anteporre tale cognome al proprio cognome di origine, non
essendo prevista per tale ipotesi, alla stregua del tenore letterale della norma,
alcuna deroga alla regola del doppio cognome fissata dal primo comma del
menzionato art.299 (regola che, peraltro, costituisce conseguenza del principio,
caratterizzante l’adozione del …..orenne e quella del minorenne nei casi particolari
previsti dall’art.44 cit., secondo cui l’adottato conserva tutti i diritti e doveri verso la
sua famiglia di origine).
Nel caso di specie la pedissequa applicazione della norma avrebbe l’effetto
paradossale, ed incomprensibile per i due minori, di una pronuncia che da un lato
riconosce la fratria e contestualmente li separa semanticamente con una diversa
successione dei cognomi.
Invero l’intera disciplina del cognome è stata oggetto di recenti importanti revisioni
costituzionali se solo si pone mente a quanto deciso dalla Corte Costituzionale con
la sentenza n. 286 dell’8.11.2016 (G.U. 052 del 28/12/2016), deposito 21/12/2016
relativamente all’attribuzione del cognome paterno per i figli nati all’interno del
matrimonio “nella sola parte in cui, anche in presenza di una diversa e comune
volontà dei coniugi, i figli acquistano automaticamente il cognome del padre”.
Nel motivare la sentenza si osserva infatti, richiamati i precedenti della stessa Corte
e della CEDU , che la «piena ed effettiva realizzazione del diritto all’identità
personale, che nel nome trova il suo primo ed immediato riscontro, unitamente al
riconoscimento del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di
costruzione di tale identità personale, impone l’affermazione del diritto del figlio ad
essere identificato, sin dalla nascita, attraverso l’attribuzione del cognome di
entrambi i genitori».
La portata espansiva di tale decisione è esplicitata dalla stessa corte proprio con
riferimento alla disciplina dell’adozione e infatti si è statuito altresì «Per le
medesime ragioni, la dichiarazione di illegittimità costituzionale, ai sensi dell’art. 27
della legge n. 87 del 1953, va estesa, infine, all’art. 299, terzo comma, cod. civ., per
la parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da entrambi, di
attribuire, di comune accordo, anche il cognome materno al momento
dell’adozione».
Conseguentemente non vi è ragione per distinguere tra le varie forme di adozione e
la pronuncia della Corte impone, con una interpretazione costituzionalmente
orientata, ed in questo caso sostanzialmente “obbligata”, di assecondare la volontà
dei due genitori, tanto più che gli stessi hanno chiesto unicamente di aggiungere il
cognome dell’altro genitore, come previsto dal primo comma dell’art 299 cc e con
ciò sancendo la doppia appartenenza, e chiedendo unicamente di avere per i due
minori la medesima successione dei cognomi.
Deve pertanto essere accolto il ricorso anche con riferimento a tale domanda.
Deve infine provvedersi come da dispositivo alla liquidazione della C.T.U. a carico
delle parti, attesa la complessità del quesito peritale, del numero dei soggetti
esaminati (4) e dell’aumento del 40% trattandosi di perizia collegiale. In particolare
è previsto ex art 24 DM 30.5.2002 un onorario di Euro 387,86, aumentato sino al
doppio ex art 52 DPR 115/02 (trattandosi di accertamento particolarmente
complesso e delicato avendo ad oggetto la tutela di minori e le competenze
genitoriali degli esaminandi), moltiplicato per i soggetti esaminati (4), aumentato
del 40% trattandosi di CTU collegiale ex 53 DPR 115/02 fino a Euro 4344,03.
L’importo richiesto (Euro 3920,00, di cui 1.500,00 già versati a titolo di acconto)
rientra ampiamente nei parametri di legge.
P.Q.M.
Visti gli artt. 44 lett d) e seg. L. 184/83, come modificati dalla L. 149/01, e 299 c.c. ;
DISPONE
a) farsi luogo all’adozione della minore YY. ZZ. N. nata a […] il …..2011 da parte di
CC. F. nata a […] il ….1982 con la conseguente assunzione da parte della minore del
cognome “YY. CC. ZZ.”;
b) farsi luogo all’adozione del minore CC. R. nato a […] il …2015 da parte di YY. ZZ.
L. nata a […] il …1975 con la conseguente assunzione da parte del minore del
cognome “YY. CC. ZZ.”;
visti gli artt.2, 3, 5, 6, 7, 9,11 L.319/80, 24 D.P.R. 352/88;
liquida
ai C.T.U. dr ….. e dr.ssa ….. la somma di € 3920,00 a titolo di onorari e € 250,00 a
titolo di spese, oltre agli oneri di legge, ponendo le spese di C.T.U. a carico solidale
di entrambe le parti ricorrenti.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di sua competenza

DONAZIONE INDIRETTA

Di Gianfranco Dosi

I. Il contratto di donazione
II. Le donazioni indirette (cosiddette liberalità non donative): le ipotesi più frequenti
III. Le differenze tra la donazione (diretta) e la donazione indiretta: i punti fermi di Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2017, n. 18725
IV. La donazione indiretta come negozio giuridico di protezione e le implicazioni nel diritto di famiglia
V. L’acquisto di un bene immobile effettuato con denaro del genitore ma con intesta¬zione al figlio
a) Se il figlio è coniugato in regime di comunione legale l’immobile entra in comunione o resta bene personale del figlio?
b) Può parlarsi di donazione indiretta se il genitore paga solo una parte del prezzo dell’immobile intestato al figlio?
c) In ambito successorio oggetto della collazione è l’immobile o la somma di denaro impiegata per l’acquisto?
d) L’azione di riduzione e di restituzione nel caso di donazioni indirette
e) La disciplina fiscale
VI. Quali sono le norme applicabili e i presupposti di validità e come si prova la dona¬zione indiretta?
VII. La cointestazione di un conto corrente bancario come possibile donazione indiretta
I Il contratto di donazione
Come è noto la donazione (diretta) è un contratto con il quale per spirito di liberalità una parte arricchisce l’altra disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo versa di essa un’ob¬bligazione (art. 769 c.c.). Potrebbe apparire non del tutto pertinente il fatto che le donazioni siano state disciplinate nell’ultimo titolo del libro delle successioni; ed in effetti – trattandosi di contratti – più adeguata ne avrebbe potuto essere la collocazione nell’ambito del diritto delle obbligazioni. Tuttavia la trasmissione della proprietà per spirito di liberalità e quella mortis causa devono essere apparse in sede di codificazione, e sono oggettivamente, unite da una medesima ragione di natura solidaristica resa evidente dalla comune mancanza di onerosità che le caratterizza. Uniformità che è anche resa evidente dalla disciplina fiscale unitaria (imposta sulle successioni sulle donazioni) e dalle interferenze in entrambi i casi con il regime successorio.
Nel sistema giuridico del codice le donazioni, analogamente, alle successioni, sono circondate da una particolare sacralità formale resa visibile, per quanto concerne la donazione (contratto tipico a forma vincolata), dalla forma solenne prescritta dall’art. 782 che impone a pena di nullità la for¬ma dell’atto pubblico e cioè dell’atto redatto con le richieste formalità dal notaio (art. 2699 c.c.). La legge notarile (legge 16 febbraio 1913, n. 89) prescrive poi la presenza irrinunciabile di due testimoni all’atto (art. 47).
La donazione ha come presupposto l’arricchimento del beneficiario con corrispondente depaupera¬mento del donante nonché lo spirito di liberalità che costituisce anche la “causa” della donazione.
Non sempre però lo spirito di liberalità comporta necessariamente la qualificazione dell’atto come donazione (tale è il caso – previsto nell’art. 770 secondo comma c.c. – della “liberalità che si suole fare in occasione di servizi resi o comunque in conformità agli usi” che non costituisce donazione) e non sempre, d’altro lato, una donazione, deve necessariamente farsi con atto pubblico (come avviene per la “donazione di modico valore” prevista nell’art. 783 c.c.).
II Le donazioni indirette (cosiddette liberalità non donative): le ipotesi più frequenti
La problematica che in questa sede si approfondisce concerne i casi in cui una liberalità è realizzata non attraverso il contratto formale di donazione ma attraverso modalità diverse che producono pur sempre l’arricchimento (giustificato) di una persona (cosiddette “liberalità non donative”).
In questi casi – ai quali fa riferimento l’art. 809 del codice civile che parla di “liberalità” che “risul¬tano da atti diversi da quelli previsti dall’art. 769” – si parla di donazione indiretta che si configura quindi tutte le volte in cui il donante raggiunge lo scopo di arricchire un’altra persona servendosi di atti che hanno una causa diversa da quella del contratto di donazione; il mezzo usato può essere il più vario, nei limiti consentiti dall’ordinamento. Spesso si tratta di più negozi tra loro collegati come hanno ben messo in luce molte sentenze (Cass. civ. Sez. II, 21 ottobre 2015, n. 21449; Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012, n. 3134; Cass. civ. Sez. II, 16 marzo 2004, n. 5333; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 1998, n. 4680). Il meccanismo del collegamento negoziale nella donazione indiretta è stato approfondito molto bene per esempio da Cass. civ. Sez. I, 14 di¬cembre 2000, n. 15778 che ha anche focalizzato la differenza in sede di teoria generale tra la donazione indiretta e il negozio indiretto. Nella sentenza in questione si afferma che a differenza del negozio indiretto – che si presenta come un unico negozio volto al conseguimento di un risul¬tato ulteriore che non è normale o tipico del negozio stesso (si fa l’esempio della vendita fiduciaria con previsione dell’obbligo di ritrasferimento del bene) – la donazione indiretta consiste in un complesso procedimento mediante il quale, per mezzo di atti diversi da quelli previsti nell’art. 769 del codice civile, ciascuno dei quali produce l’effetto diretto ad esso connaturato, viene arricchito (in modo indiretto) un soggetto per spirito di liberalità. La donazione indiretta quindi “si concreta nell’elargizione di una liberalità attuata, anziché con il negozio tipico dell’art. 769 del codice civile, mediante un negozio oneroso che produce, in concomitanza con l’effetto diretto che gli è proprio ed in collegamento con altro negozio, l’arricchimento animus donandi del destinatario della libe¬ralità medesima”.
Occorre fare attenzione a non confondere naturalmente il negozio simulato dalla donazione indi¬retta dove l’arricchimento del beneficiario è realmente voluto tra le parti. Le problematiche della donazione indiretta non hanno nulla a che fare con quelle della simulazione (per qualche consi¬derazione in proposito Cass. civ. Sez. II, 2 febbraio 2016, n. 1986; Cass. civ. Sez. II, 31 maggio 2013, n. 13861).
Sono svariati gli esempi con cui può verificarsi l’arricchimento (giustificato) di una persona senza ricorrere alla donazione vera e propria.
a) L’acquisto di un bene immobile effettuato con denaro del genitore ma con intestazio¬ne al figlio
Una delle ipotesi più diffuse di donazione indiretta nell’ambito del settore del diritto di famiglia è quella in cui il genitore corrisponde direttamente al venditore il prezzo per un immobile che viene acquistato e intestato al figlio o mette a disposizione del figlio la provvista di denaro per l’acquisto dell’immobile (Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012, n. 3134; Cass. civ. Sez. II, 25 ottobre 2005, n. 20638; Cass. civ. Sez. II, 16 marzo 2004, n. 5333; Cass. civ. Sez. II, 24 febbraio 2004, n. 3642; Cass. civ. Sez. I, 14 dicembre 2000, n. 15778; Cass. civ. Sez. II, 22 set¬tembre 2000, n. 12563; Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 1998, n. 5310; Cass. civ. Sez. III, 14 maggio 1997, n. 4231; Cass. civ. Sez. II, 22 giugno 1994, n. 5989; Cass. civ. Sez. I, 23 dicembre 1992, n. 13630; Cass. civ. Sez. Unite, 5 agosto 1992, n. 9282). Come si avrà modo di chiarire l’acquisto del bene effettuato con denaro del genitore ma con intestazione al figlio pone il problema della evidenziazione della liberalità indiretta, sia a fini fiscali sia più in generale per gli effetti giuridici talvolta problematici derivanti dall’estensione in taluni casi – e dalla disap¬plicazione in altri – alle donazioni non donative (cioè effettuate con atti diversi da quelli indicati nell’art. 769 c.c.) della disciplina prevista per le donazioni.
b) Il negozio mixtum cum donatione
Nel caso classico del negotium mixtum cum donatione una persona ne arricchisce un’altra ven¬dendogli un bene per liberalità a prezzo molto ribassato. Il fenomeno è stato approfondito da una mole significativa di decisioni di legittimità (Cass. civ. Sez. II, 17 novembre 2010, n. 23215; Cass. civ. Sez. II, 3 novembre 2009, n. 23297; Cass. civ. Sez. II, 2 settembre 2009, n. 19099; Cass. civ. Sez. II, 30 gennaio 2007, n. 1955; Cass. civ. Sez. II, 7 giugno 2006, n. 13337; Cass. civ. Sez. II, 29 settembre 2004, n. 19601; Cass. civ. Sez. III, 9 aprile 2003, n. 5584; Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2001, n. 6711; Cass. civ. Sez. II, 21 gennaio 2000, n. 642; Cass. civ. Sez. II, 21 ottobre 1992, n. 11499; Cass. civ. Sez. III, 18 luglio 1991, n. 7969; Cass. civ. Sez. II, 23 febbraio 1991, n. 1931; Cass. civ. Sez. II, 28 novembre 1988, n. 6411) e dalla giurisprudenza di merito (Trib. Padova Sez. I, 4 maggio 2012; Trib. Bassano del Grappa, 19 ottobre 2011; Trib. Benevento, 4 dicembre 2007; Trib. Napoli, 1 marzo 2002). A dispetto del nome non si tratta di un contratto misto (Cass. civ. Sez. II, 10 febbraio 1997, n. 1214) ma di una donazione indiretta attuata attraverso lo strumento della compravendita. La causa del contratto ha natura onerosa, ma il negozio commutativo stipulato dai contraenti ha anche la finalità di raggiungere, per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arricchimento, per puro spirito di liberalità, di quello dei contraenti che riceve la prestazione di maggior valore. Se la sproporzione non è voluta o lo scopo di liberalità non fosse condiviso dalle parti (rimanendo confinato nella sfera dei motivi individuali di una parte) non si potrebbe parlare di donazione indiretta e sarebbe utilizzabile il rimedio dell’azione di rescissione. Ove dovesse ri¬sultare la prevalenza dell’animus donandi ci si potrebbe trovare in presenza di una donazione o di una donazione remuneratoria (Cass. civ. Sez. I, 29 maggio 1999, n. 5265; Cass. civ. Sez. II, 13 luglio 1995, n. 7666).
c) Attribuzioni patrimoniali tra coniugi o conviventi
Una donazione indiretta potrebbe essere visibile nelle attribuzioni patrimoniali tra coniugi o con¬viventi, per esempio nell’acquisto di un immobile in comunione con il partner per quote uguali, pur essendo il prezzo corrisposto solo da uno dei due (Cass. civ. Sez. III, 4 ottobre 2018, n. 24160; Cass. civ. Sez. II, 25 marzo 2013, n. 7480). Trattandosi di donazione indiretta attuata con una compravendita del tutto regolare nessuna possibilità ha il partner disponente di chiedere la restituzione del bene fondandosi – come nella fattispecie esaminata dalla sentenza – sulla as¬serita nullità della donazione per mancanza della forma solenne utilizzata. Si vedrà nel capitolo successivo, infatti, che la giurisprudenza ritiene sufficiente per la validità della donazione indiretta la forma tipica dell’atto, nella specie compravendita, con cui la liberalità è realizzata.
d) Cointestazione di conti correnti
Può avvenire che la contestazione di un conto corrente sia una donazione indiretta, se costituita o alimentata con fondi di uno dei cointestatari per assicurare all’altro mezzi di sostentamento (Cass. civ. Sez. II, 16 gennaio 2014, n. 809); analogamente in caso di intestazione di buoni postali fruttiferi (Cass. civ. Sez. II, 9 maggio 2013, n. 10991) o di titoli (Cass. civ. Sez. I, 22 set¬tembre 2000, n. 12552). Può rinvenirsi anche nella cessione gratuita della quota di partecipa¬zione ad una cooperativa edilizia, finalizzata all’assegnazione dell’alloggio in favore del cessionario (Cass. civ. Sez. II, 3 gennaio 2014, n. 56).
e) Pagamento del debito altrui
Si ha donazione indiretta anche allorché il genitore ripiani un debito del figlio (adempimento del terzo ex art. 1180 c.c.) senza richiedere il rimborso dell’importo corrisposto ovvero allorché una persona rinunci ad agire per la riscossione di un credito oppure lo rimetta completamente, ov¬vero rinunci ad un diritto (Cass. civ. Sez. II, 27 luglio 2000, n. 9872; Cass. civ. Sez. II, 30 dicembre 1997, n. 13117; Cass. civ. 29 maggio 1974, n. 1545). Ipotesi varie di donazioni indirette sono contenute in molte pronunce della giurisprudenza di merito Trib. Roma Sez. X, 22 febbraio 2013; Trib. Bologna Sez. IV, 6 giugno 2006; Trib. Padova Sez. I, 3 maggio 2004; Trib. Napoli, 17 aprile 1996; Trib. Padova Sez. II, 28 febbraio 2003; Trib. Napoli, 17 apri¬le 1996; Trib. Napoli, 25 marzo 1996). Anche il comportamento di chi non eserciti al fine di farlo cadere appositamente in prescrizione può costituire donazione indiretta. Interessante a tale proposito una decisione che ha ipotizzato di poter desumere l’esistenza di una donazione indiretta dal contegno inerte del convenuto in un giudizio per acquisto per usucapione della proprietà di un bene (Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 2007, n. 12496). In un caso l’accollo del mutuo contratto dalla figlia da parte del padre non è stato ritenuto donazione indiretta ma diretta (Cass. civ. Sez. II, 30 marzo 2006, n. 7507).
f) La designazione del terzo beneficiario nei contratti assicurativi sulla vita
Secondo quanto hanno precisato Cass. civ. Sez. III, 19 febbraio 2016, n. 3263 e Cass. civ. Sez. III, 16 aprile 2015, n. 7683 nell’assicurazione sulla vita la designazione quale terzo bene¬ficiario di persona non legata al designante da alcun vincolo di mantenimento o dipendenza econo¬mica deve presumersi, fino a prova contraria, compiuta a spirito di liberalità, e costituisce una do¬nazione indiretta. Nella giurisprudenza di merito Tribunale Modena Sez. II, 20 ottobre 2014.
g) La rinuncia ad una quota di proprietà o all’usufrutto
Secondo quanto ha avuto modo di precisare Cass. civ. Sez. II, 25 febbraio 2015, n. 3819 co¬stituisce donazione indiretta la rinunzia alla quota di comproprietà, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comproprietari; e poiché per la realizzazione del fine di liberalità viene utilizzato un negozio, la rinunzia alla quota da parte del comunista, diverso dal contratto di dona¬zione, non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per quest’ultimo.
Ugualmente secondo Trib. Torre Annunziata Sez. II, 3 marzo 2015 la rinuncia all’usufrutto, se ispirata da animus donandi, è suscettibile di integrare una donazione indiretta a favore del nudo proprietario dei beni gravati dal diritto reale parziario rinunciato, perché, comportando un’estinzio¬ne anticipata di tale diritto, si risolve nel conseguimento, da parte di detto dominus, dei vantaggi patrimoniali inerenti all’acquisizione del godimento immediato del bene, che gli sarebbe sottratto se l’usufrutto fosse durato fino alla sua naturale scadenza: il controvalore di tali vantaggi è, per¬tanto, senz’altro passibile di convogliamento nella massa ereditaria di cui all’art. 556 c.c.
III Le differenze tra la donazione (diretta) e la donazione indiretta: i punti fermi di Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2017, n. 18725
Precisato quanto sopra è importante stabilire se la fattispecie concreta negoziale che ci si trova ad esaminare rientra nella categoria delle donazioni dirette o di quelle indirette. Ciò in quanto le norme che disciplinano la validità dell’una e3 dell’altra figura negoziale sono diverse: per le dona¬zioni dirette, come si è detto, l’art. 782 c.c. prescrive a pena di nullità la forma dell’atto pubblico, mentre per le donazioni indirette la norma in questione non trova applicazione dal momento che l’art. 809 c.c. non richiama tale articolo per le liberalità non donative.
La conseguenza – pacifica, come si dirà più oltre, in giurisprudenza – è che la donazione indiretta è pienamente valida ed efficace anche se non riveste la forma dell’atto pubblico essendo, invece, soltanto necessario il rispetto dei requisiti previsti dalla legge per la validità del negozio attraverso il quale vene realizzata.
Il problema dell’inquadramento di un atto tra le donazioni dirette o quelle indirette si pone so¬prattutto quando la liberalità viene realizzata attraverso un unico atto e in concreto si è posto per esempio in un caso di trasferimento per spirito di liberalità di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli del beneficiante a quello del beneficiario realizzato a mezzo banca, attraverso l’e¬secuzione di un ordine di bancogiro impartito dal disponente. Questa triangolazione – cioè questo inserirsi nella vicenda traslativa di un terzo (la banca) – aveva lasciato ipotizzare che si fosse in presenza di una donazione indiretta.
Chiamate dalla Seconda sezione civile della Cassazione (Cass. civ. Sez. II, 4 gennaio 2017, n. 106) ad affrontare questa fattispecie (appunto un trasferimento finanziario eseguito da una banca su ordine del disponente) le Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2017, n. 18725) hanno chiarito che tale trasferimento non rientra tra le donazioni indirette, ma configura una donazione tipica ad esecuzione indiretta (con la conseguenza che la stabilità dell’attribuzione patrimoniale presuppone la stipulazione dell’atto pubblico di donazione tra beneficiante e beneficiarlo, salvo che ricorra l’ipotesi della donazione di modico valore).
In particolare le Sezioni Unite con questa importante decisione hanno ribadito che la donazione indiretta si realizza: (a) con atti diversi dal contratto (ad esempio, con negozi unilaterali come l’adempimento del terzo o le rinunce abdicative); (b) con contratti (non tra donante e donatario: per esempio un contratto a favore di terzo) rispetto ai quali il beneficiario è terzo; (c) con contratti caratterizzati dalla presenza di un nesso di corrispettività tra attribuzioni patrimoniali; (d) con la combinazione di più negozi (come nel caso dell’intestazione di beni a nome altrui).
Ciò premesso e inquadrando tra le donazioni dirette l’attribuzione patrimoniale eseguita dalla ban¬ca su ordine del disponente a favore del beneficiario, hanno poi precisato che la configurazione del¬la donazione come un contratto tipico a forma vincolata e sottoposto a regole inderogabili obbliga a fare ricorso al contratto di donazione per realizzare il passaggio immediato per spirito di liberalità di ingenti valori patrimoniali da un soggetto ad un altro, non essendo ragionevolmente ipotizzabile che il legislatore consenta il compimento in forme differenti di uno stesso atto, imponendo, però, l’onere della forma solenne soltanto quando le parti abbiano optato per il contratto di donazione.
In pratica nella donazione indiretta l’arricchimento del beneficiario è una conseguenza ulteriore che deriva da atti o negozi giuridici che hanno una propria causa e che si aggiunge agli effetti prodotti dallo strumento giuridico utilizzato, senza che debba trarre in inganno il fatto che il tra¬sferimento a favore del donatario venga materialmente posto in essere da un terzo quale soggetto avente la materiale disponibilità del bene di cui è però titolare il disponente. In questo caso il terzo è solo uno strumento per il trasferimento della ricchezza di cui è titolare lo stesso disponente. Da un punto di vista giuridico il trasferimento delle ricchezze si realizza direttamente dal donante al donatario anche se per mezzo di una esecuzione indiretta.
IV La donazione indiretta come negozio giuridico di protezione e le implicazioni nel diritto di famiglia
La donazione indiretta costituisce un’operazione negoziale che, quando realizzata nell’ambito dei rapporti di famiglia, può essere certamente ricondotta ai negozi giuridici che attuano la protezione di un terzo, per esempio un figlio, o dell’altro coniuge o convivente. Proprio questa è la ragione che ne giustifica un approfondimento all’interno della categoria dei cosiddetti contratti di prote¬zione. Acquistare un bene e intestarlo ad un figlio, effettuare attribuzioni patrimoniali a favore del coniuge o del convivente, cointestare con il proprio partner un conto corrente bancario, pagare un debito altrui, sono tutte operazioni che non hanno di mira la tutela di un proprio interesse ma cer¬tamente la tutela dell’interesse altrui. In questo sta, appunto, la caratteristica di quelli che possono essere chiamati negozi giuridici di protezione.
Ebbene, acquisito che le donazioni indirette sono una modalità di arricchimento altrui realizzata con spirito di liberalità attraverso schemi negoziali diversi da quello della donazione, si tratta di verificare i problemi di cui occorre avere consapevolezza nell’uso di questi strumenti negoziali.
Alcune implicazioni sono indicate dalla legge. Così per esempio le donazioni indirette, come quelle dirette, sono revocabili per sopravvenienza di figli o per ingratitudine (art. 809 c.c.). Pertanto l’in¬testazione di un bene a terzi effettuata con denaro del disponente non mette al riparo da questi effetti. L’art. 809 c.c. include le donazioni indirette tra le donazioni oggetto di reintegrazione della quota riservata ai legittimari. Per questo i soggetti tenuti alla collazione in sede ereditaria (art. 737 c.c.) devono – in base a quanti prevede espressamente la disposizione in questione – “conferire ai coeredi tutto ciò che hanno ricevuto dal defunto per donazione direttamente o indirettamente” salvo le esenzioni previste (dall’art. 738 c.c. per le donazioni di modico valore e dall’art. 742 c.c. per le spese di mantenimento e di educazione e per le altre ivi indicate).
Al di fuori di queste conseguenze espresse, la prima più tradizionale implicazione nel diritto di famiglia delle donazioni indirette è nell’ambito della comunione legale. L’art. 179 del codice civile nel prevedere che non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge “i beni acquistati dopo il matrimonio per effetto di donazione… quando nell’atto di liberalità … non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione” si riferisce solo alla donazione diretta o anche a quella indiretta? Poiché, come si è visto, l’ipotesi classica della donazione indiretta si ha quando i genitori di uno o dell’altro coniuge acquistano e intestano al figlio un bene immobile del quale corrispondono il prezzo, si pone il problema di verificare se tale bene sia entrato nella comunione o, come per i beni oggetto di donazione diretta, resti bene personale del coniuge.
Altra diffusa implicazione si verifica quando i coniugi abbiano la cointestazione di un rapporto bancario (in genere di conto corrente). In che misura è possibile che la cointestazione che uno dei coniugi abbia inteso effettuare a favore dell’altro realizza una donazione indiretta?
Proprio di tutti questi problemi si parlerà nei prossimi capitoli.
V L’acquisto di un bene immobile effettuato con denaro del genitore ma con intestazione al figlio
a) Se il figlio è coniugato in regime di comunione legale l’immobile entra in comunione o resta bene personale del figlio?
L’art. 179 del codice civile nella parte in cui prevede che non costituiscono beni della comunione ma sono beni personali del coniuge “i beni acquistati dopo il matrimonio per effetto di donazione… quando nell’atto di liberalità … non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione” si riferisce solo alla donazione diretta o anche alla donazione indiretta?
La giurisprudenza ritiene che il bene acquistato da uno solo dei coniugi in regime di comunione dei beni con denaro di un terzo (immobile acquistato e pagato dal padre m intestato al figlio) e pertanto oggetto di donazione indiretta non entra nella comunione legale (Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2014, n. 21494; Cass. civ. Sez, I, 15 novembre 1997, n. 11327) non essendovi una ontologica incompatibilità della donazione indiretta con la norma di cui all’art. 179 c.c. ed in quanto, soprattutto, l’acquisizione è avvenuta senza il contributo, diretto o indiretto, del coniuge non beneficiario dell’atto (Cass. civ. Sez. I, 15 novembre 1997, n. 11327; Trib. Milano, 6 novembre 1996).
La sentenza che più ha messo in rilievo in passato i principi in base ai quali la donazione indiretta del bene esclude che quel bene possa appartenere alla comunione legale è certamente Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 1998, n. 4680 che ha esaminato una decisione della Corte d’appello di Napoli (App. Napoli, 19 luglio 1994) la quale aveva escluso che la donazione indiretta potesse rientrare nella previsione dell’art. 179 lett. b) codice civile sulla base della considerazione che “l’acquisto del diritto di proprietà da parte del beneficiario costituisce effetto immediato e diretto del contratto di vendita, mentre lo scopo di liberalità risulta estraneo alla causa di tale contratto, con la conseguen¬za che, ove si volesse ricomprendere l’atto di liberalità (indiretta) nell’ambito dei beni personali del coniuge, si applicherebbe al contratto di vendita la disciplina dettata per la donazione”.
La Cassazione ha ritenuto questo ragionamento sostanzialmente tautologico precisando che “dalla mera descrizione del fenomeno e del meccanismo negoziale con il quale si realizza non può, infatti, discendere automaticamente l’esclusione del bene, oggetto di donazione indiretta, da quelli perso¬nali del coniuge, ai sensi dell’art. 179 lett. b) c.c., occorrendo verificare se, indipendentemente dal rilievo che la proprietà dell’immobile si acquista per effetto della vendita, sia consentito limitare la portata della norma in esame alle sole donazioni regolate dall’art. 769 c.c. In altri termini, il ragionamento seguito dal giudice di merito si risolve nell’affermazione che il bene oggetto di do¬nazione indiretta deve necessariamente essere ricompreso nella comunione legale sol perché non è conseguenza di una donazione tipica (diretta) ed in quanto la forma richiesta è quella dell’atto da cui la donazione indiretta risulta: finisce, cioè, per svilire lo stesso procedimento negoziale per mezzo del quale si attua lo scopo di liberalità, senza neppure dar conto della rilevanza che assu¬me, nella formulazione dell’art. 179 lett. b) c.c., l’uso del termine “liberalità”, con riferimento alla possibilità (legislativamente prevista: art. 809 c.c.) che essa risulti da atti diversi da quelli indicati nell’art. 769 c.c. Invece, se la donazione indiretta consiste nell’elargizione di una liberalità che viene attuata, anziché con il negozio tipico dell’art. 769 c.c., mediante un negozio oneroso che pro-duce, in concomitanza con l’effetto diretto che gli è proprio ed in collegamento con altro negozio, l’arricchimento “animo donandi” del destinatario della liberalità medesima, per negare l’inclusione della donazione indiretta nell’ipotesi prevista dall’art. 179 lett. b) c.c. nessun argomento decisivo può trarsi dalla causa del contratto di vendita, che rappresenta il negozio – mezzo, produttivo dei suoi effetti normali, rispetto al c.d. negozio – fine: la donazione indiretta altro non è che la risul¬tante della combinazione di tale negozi, dalla cui funzione non può ritenersi comunque estranea la finalità di arricchimento senza corrispettivo. Quanto alla tesi, sostenuta nella sentenza impugnata, secondo cui il regime della comunione legale dei beni riveste carattere generale e deve trovare, quindi, la massima sfera di operatività, è sufficiente osservare che, come riconosce la stessa Corte napoletana, il legislatore non ha certamente ritenuto siffatto carattere ostativo all’esclusione di determinati beni: il problema, cioè, non consiste nell’interpretazione estensiva o meno della norma contenuta nell’art. 179 lett. b) c.c., ma nell’individuazione della sua effettiva portata e di precise ragioni, anche d’ordine sistematico, che eventualmente possano giustificare l’esclusione della do¬nazione indiretta (o meglio, del bene oggetto di essa) dall’ambito della norma medesima.
La formulazione letterale offre, di per sé, un argomento non secondario per l’equiparazione, ai fini che qui interessano, della donazione indiretta a quelle previste dall’art. 769 codice civile. Di sicuro rilievo, inoltre, è la considerazione che, in mancanza di espressa dichiarazione del donante (al pari di quella del testatore) di voler attribuire alla comunione legale il bene, l’inclusione di questo tra quelli personali trova fondamento nel rispetto della volontà dello stesso disponente e nel carattere strettamente personale dell’attribuzione fatta ad uno solo dei coniugi. In questo senso, infatti, è la dottrina di gran lunga prevalente, la quale ha osservato, sotto il profilo letterale, che l’ecce¬zione prevista nella parte finale della norma si riferisce all’ “atto di liberalità”, ossia a concetto più ampio di quello di donazione in senso stretto, onde sarebbe illogico ritenere che all’eccezione sia attribuito un ambito di applicazione più ampio di quello della regola; sotto il secondo profilo, che, in difetto di specifica volontà del disponente di attribuire il bene alla comunione, l’”animus donandi” non può essere obliterato, presentandosi nella donazione indiretta in modo non diverso dalla donazione diretta.
Sempre dalla dottrina, sollecitata dall’indirizzo di questa Corte in tema di collazione (per il quale cfr. Cass. 1257/94) – conclude la Cassazione – viene un ulteriore contributo: il principio secondo cui oggetto della liberalità indiretta è il bene acquistato e non il denaro versato dal disponente, pone in risalto la sufficienza del collegamento tra elargizione del denaro e acquisto del bene, ossia la finalità di arricchimento del beneficiano, sia pur realizzata con strumento diverso da quello tipico della donazione (diretta).
Si deve ritenere, allora – questa è la conclusione – che non vi sia un’ontologica incompatibilità della donazione indiretta con la norma dell’art. 179 lett. b) codice civile, onde il bene oggetto di essa non deve necessariamente rientrare nella comunione legale (Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 1998, n. 4680).
In seguito hanno ribadito queste tesi nella giurisprudenza (ormai da considerare consolidata sul punto) altre decisioni tra cui Cass. civ. Sez. I, 14 dicembre 2000, n. 15778 (secondo cui non costituisce oggetto della comunione legale il bene immobile acquistato da uno dei coniugi, duran¬te il matrimonio, con denaro proveniente da un terzo, in quanto in tale ipotesi si configura una donazione indiretta dell’immobile a favore solo ed esclusivamente del destinatario dell’elargizione della somma di danaro) e, più di recente, Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2014, n. 21494; Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 2013, n. 14197; Cass. civ. Sez. II, 9 novembre 2012, n. 19513 che hanno anche precisato opportunamente che in tema di comunione legale dei coniugi, la donazione indiretta rientra nell’esclusione di cui all’art. 179, primo comma, lett. b), codice civile, senza che sia necessaria l’espressa dichiarazione da parte del coniuge acquirente prevista dall’art. 179, pri¬mo comma, lett. f), né la partecipazione del coniuge non acquirente all’atto di acquisto e la sua adesione alla dichiarazione dell’altro coniuge acquirente ai sensi dell’art. 179, secondo comma, trattandosi di disposizione non richiamate.
Più articolata Cass. civ. Sez. I, 12 settembre 2008, n. 23545 che ha indagato sulla possibilità di inquadrare nella fattispecie della donazione indiretta l’acquisto di un bene effettuato anche con denaro dell’altro coniuge in comunione.
Nella giurisprudenza di merito hanno avuto modo di ribadire gli stessi concetti Trib. Genova Sez. III, 13 ottobre 2005; Trib. Gallarate, 24 novembre 2005; Trib. Salerno Sez. I, 29 giugno 2013.
Diverso è naturalmente il caso in cui il genitore mette a disposizione del figlio il denaro e il figlio acquisti con tale denaro un immobile. A tale proposito Cass. civ. Sez. VI – 2, 24 luglio 2018, n. 19537 ha chiarito che ove la donazione riguardi una somma di denaro impiegata dal donatario per l’acquisto della casa familiare non può ravvisarsi una donazione indiretta dell’intero immobile al donatario tale da escludere la comunione del bene tra i coniugi. Infatti, la somma di denaro donata dal genitore al figlio, coniugato in regime di comunione legale dei beni, non costituisce un’ipotesi di donazione indiretta e l’immobile acquistato con tale denaro entra a far parte del regime di co¬munione legale dei beni, anche se manca un atto che rivesta la forma richiesta dalla legge per la validità delle donazioni, e cioè l’atto pubblico stipulato alla presenza di due testimoni. Molto esplici¬te sul punto erano state anche Cass. civ. Sez. II, 24 febbraio 2004, n. 3642 e Cass. civ. Sez. I, 14 dicembre 2000, n. 15778 secondo cui la donazione diretta del denaro, successivamente impiegato dal beneficiario in un acquisto immobiliare con propria autonoma determinazione (caso in cui oggetto della donazione rimane comunque il denaro) va tenuta distinta dalla dazione del denaro quale mezzo per l’unico e specifico fine dell’acquisto dell’immobile, che integra un’ipotesi di donazione indiretta del bene.
b) Può parlarsi di donazione indiretta se il genitore paga solo una parte del prezzo dell’immobile intestato al figlio?
Avviene talvolta nella pratica che il genitore – o comunque il disponente – corrisponda soltanto una parte del prezzo, per esempio, l’acconto in contanti mentre resta a carico del beneficiario il paga¬mento della parte restante, per esempio le rate di mutuo che si è reso necessario per integrare il prezzo di acquisto.
In tale evenienza è necessario chiedersi se trovano applicazione gli stessi principi fin qui indicati dalla giurisprudenza.
In passato aveva risposto a questo interrogativo Cass. civ. Sez. II, 31 gennaio 2014, n. 2149 precisando che la donazione indiretta dell’immobile non è configurabile quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo del bene, giacché la corresponsione del denaro costituisce una di¬versa modalità per attuare l’identico risultato giuridico-economico dell’attribuzione liberale dell’im¬mobile esclusivamente nell’ipotesi in cui ne sostenga l’intero costo. Ed a questa conclusione si è adeguata la giurisprudenza di merito (Tribunale Frosinone, 30 marzo 2018).
Recentemente, però, la giurisprudenza ha cambiato orientamento ed ha precisato che si ha do¬nazione indiretta di un bene (nella specie, un immobile) anche quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo della relativa compravendita dovuto dal donatario, laddove sia dimostrato lo specifico collegamento tra dazione e successivo impiego delle somme, dovendo, in tal caso, individuarsi l’oggetto della liberalità, analogamente a quanto affermato in tema di vendita mista a donazione, nella percentuale di proprietà del bene acquistato pari alla quota di prezzo corrisposta con la provvista fornita dal donante (Cass. civ. Sez. II, 17 aprile 2019, n. 10759).
c) In ambito successorio oggetto della collazione è l’immobile o la somma di denaro impiegata per l’acquisto?
Poiché i soggetti tenuti alla collazione in sede ereditaria (art. 737 c.c.) devono “conferire ai coeredi tutto ciò che hanno ricevuto dal defunto per donazione direttamente o indirettamente” si deve verificare se l’oggetto della collazione in caso di donazioni indirette, sia il denaro utilizzato per l’acquisto o l’immobile donato?
Nella donazione ordinaria c’è coincidenza tra ciò di cui si depaupera il donante e ciò di cui si arric¬chisce il donatario. Nell’ipotesi, invece, di acquisto di un bene con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto questa coincidenza manca. Il padre che acquista un bene per il figlio si priva del denaro occorrente per acquistarlo mentre il figlio si arricchisce del bene. Questa dissociazione – come si dirà – è al centro del modo diverso di atteggiarsi dell’azione di riduzione e di restituzione in caso di donazioni indirette.
Le Sezioni unite della Cassazione nel 1992 componendo un contrasto in giurisprudenza afferma¬rono il principio che “nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il soggetto medesimo intende in tal modo beneficiare con la sua adesione, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario, e quindi integra donazione indiretta del bene stesso e non del denaro (Cass. civ. Sez. II, 30 maggio 2017, n. 13619). Pertanto in caso di collazione, secondo la previsione dell’art. 737 c.c. il conferimento deve avere ad oggetto l’immobile, non il denaro donato per il suo acquisto (Cass. civ. Sez. II, 4 settembre 2015, n. 17604; Cass. civ. Sez. Unite, 5 agosto 1992, n. 9282).
L’imputazione avviene considerando il valore dell’immobile al tempo dell’apertura della successione (art. 747 c.c.).
La giurisprudenza, dopo la decisione delle Sezioni Unite del 1992 ha ripetutamente ribadito lo stes¬so principio precisando che nell’ipotesi in cui un soggetto abbia erogato il danaro per l’acquisto di un immobile in capo al proprio figlio, si deve distinguere il caso della donazione diretta del danaro, in cui oggetto della liberalità rimane quest’ultimo, da quello in cui il danaro sia fornito quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che costituisce il fine della donazione. In tale secondo caso, il colle¬gamento tra l’elargizione del danaro da parte del genitore e l’acquisto del bene immobile da parte del figlio porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dell’immobile stesso, e non già del danaro impiegato per il suo acquisto (per esempio Cass. civ. Sez. VI, 2 settembre 2014, n. 18541; Cass. civ. Sez. I, 23 maggio 2014, n. 11491; Cass. civ. Sez. I, 12 maggio 2010, n. 11496; Cass. civ. Sez. II, 6 novembre 2008, n. 26746; Cass. civ. Sez. II, 24 feb¬braio 2004, n. 3642; Cass. civ. Sez. II, 22 settembre 2000, n. 12563; Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 1998, n. 5310; Cass. civ. Sez. III, 14 maggio 1997, n. 4231; Cass. civ. Sez. I, 15 novembre 1997, n. 11327Cass. civ. Sez. II, 8 febbraio 1994, n. 1257; Cass. civ. Sez. II, 22 giugno 1994, n. 5989 e nella giurisprudenza di merito Trib. Genova, 20 febbraio 2015; Trib. Monza Sez. I, 20 maggio 2009; Trib. Bari, 16 aprile 2008; Trib. Napoli, 20 marzo 2006; Trib. Bologna Sez. II, 7 marzo 2005; Trib. Torino Sez. II, 21 maggio 2004; Trib. Napoli, 19 gennaio 2001; Trib. Firenze, 3 ottobre 2000; Trib. Terni, 29 settembre 1998).
L’impostazione si spiega se si considera che nel caso del denaro corrisposto dal donante al do¬natario allo specifico scopo dell’acquisto del bene o mediante il versamento diretto dell’importo all’alienante o mediante la previsione della destinazione della somma donata al trasferimento immobiliare, c’è un collegamento tra l’elargizione del danaro e l’acquisto del bene da parte del beneficiario. Si deve distinguere, perciò, l’ipotesi della donazione diretta del denaro, impiegato successivamente dal beneficiario in un acquisto immobiliare con propria autonoma e distinta de¬terminazione, nel qual caso oggetto della donazione rimane il denaro stesso, da quella in cui il do¬nante fornisca il denaro quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che costituisce l’unico specifico fine, se pur mediato, della donazione.
Nel caso, infatti, in cui il denaro sia dato al precipuo scopo dell’acquisto immobiliare e, quindi, o pagato direttamente all’alienante dal disponente, presente alla stipulazione intercorsa tra acqui¬rente e venditore dell’immobile, o pagato dal beneficiario dopo averlo ricevuto dal disponente in esecuzione del complesso procedimento che quest’ultimo ha inteso adottare per ottenere il risul¬tato della liberalità, con o senza la stipulazione in proprio nome d’un contratto preliminare con il proprietario dell’immobile, il collegamento tra l’elargizione del denaro da parte del disponente e l’acquisto del bene immobile da parte del beneficiario porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dello stesso immobile e non del denaro impiegato per il suo acquisto.
Va escluso, pertanto, che la donazione indiretta dell’immobile debba necessariamente articolarsi in attività tipiche da parte del donante (pagamento diretto del prezzo all’alienante, presenza alla stipulazione, sottoscrizione d’un contratto preliminare in nome proprio), essendo necessario, ma al tempo stesso sufficiente, che sia provato il collegamento tra elargizione del denaro ed acquisto, e cioè la finalizzazione della dazione del denaro all’acquisto stesso (negli stessi termini Trib. Milano Sez. IV, 15 maggio 2010).
Non ricorre, quindi, la fattispecie quando il danaro costituisca il bene di cui il donante ha inteso beneficiare il donatario e il successivo reimpiego sia rimasto estraneo alla previsione del donante (Cass. civ. Sez. II, 6 novembre 2008, n. 26746).
I medesimi principi in tema di donazione indiretta ha affermato da ultimo anche Cass. civ. Sez. II, 20 maggio 2014, n. 11035 con riguardo all’edificazione, con denaro del genitore, su terreno intestato al figlio (a seguito di precedente donazione indiretta). Il bene donato – hanno ribadito i giudici – può ben essere identificato, non nel denaro, ma nello stesso edificio realizzato, senza che a ciò sia di ostacolo l’operatività dei principi sull’acquisto per accessione, tutte le volte in cui, tenendo conto degli aspetti sostanziali della vicenda negoziale e dello scopo ultimo perseguito dal disponente, l’impiego del denaro a fini edificatori sia compreso nel programma negoziale persegui¬to dal genitore donante.
d) L’azione di riduzione e di restituzione nel caso di donazioni indirette
Si è visto che l’art. 809 del codice civile – rubricato “norme sulle donazioni applicabili ad altri atti di liberalità” – prospetta l’esistenza, accanto alle donazioni vere e proprie (art. 769 c.c.), di liberalità che “risultano da atti diversi da quelli previsti dall’art. 769” (cosiddette liberalità non donative) che sono espressamente assoggettate da questo articolo alle “norme che regolano la revocazione delle donazioni per causa di ingratitudine e per sopravvenienza dei figli nonché a quelle sulla riduzione delle donazioni per integrare la quota dovuta ai legittimari”. Anche l’applicazione delle norme sul¬la revocazione e sulla riduzione è comunque esclusa dal secondo comma dell’art. 809 c.c. per le “liberalità previste dal secondo comma dell’art. 770” e per “quelle che a norma dell’art. 742 non sono soggette a collazione”.
Le donazioni indirette effettuate attraverso il meccanismo dell’intestazione a nome altrui del bene acquistato con denaro del disponente costituiscono dunque liberalità revocabili per ingratitudine e per sopravvenienza di figli e soggette all’azione di riduzione ove abbiano leso la legittima dei successibili necessari.
Si è già detto che ai sensi dell’art. 737 c.c. le donazioni indirette sono soggette a collazione (“i figli e i loro discendenti ed il coniuge che concorrono alla successione devono conferire ai coeredi tutto ciò che hanno ricevuto dal defunto per donazione direttamente o indirettamente…”).
Occorre considerare che a tutela dei legittimari lesi il codice prevede innanzitutto l’azione di ridu¬zione e quella di restituzione, entrambe di natura personale nel senso che sono esercitabili solo nei confronti del beneficiario della liberalità eccedente la disponibile. Solo nel caso di esito infruttuoso dell’azione di restituzione nei confronti del beneficiario della liberalità è anche esercitabile, nei confronti dell’eventuale terzo acquirente, l’azione reale di restituzione dell’immobile (art. 563 c.c. rubricato “Azione contro gli aventi causa dai donatari soggetti a riduzione” dove si prevede che il legittimario leso “premessa l’escussione dei beni del donatario, può chiedere ai successivi acqui¬renti… la restituzione degli immobili”).
Ebbene, questo meccanismo trova applicazione anche in caso di donazione indiretta?
La giurisprudenza ha affermato che l’eventuale azione di riduzione e di restituzione avanzata dagli eredi legittimi nei confronti del beneficiario della donazione non può mai coinvolgere i successivi acquirenti dell’immobile oggetto di donazione indiretta (Cass. civ. Sez. I, 12 maggio 2010, n. 11496; Trib. Roma Sez. VIII, 30 maggio 2011) in quanto è connaturato all’azione, nell’ipotesi di donazione ordinaria di immobile ex art. 560 codice civile, il principio della quota legittima in na¬tura in quanto l’azione non mette in discussione la titolarità dei beni donati e l’acquisizione riguarda il loro controvalore, mediante il metodo dell’imputazione. Pertanto mancando il meccanismo di recupero reale della titolarità del bene, il valore dell’investimento finanziato con la donazione indi¬retta dev’essere ottenuto dal legittimario leso con le modalità tipiche del diritto di credito.
Ciò significa che in caso di vendita a terzi dell’immobile oggetto della donazione indiretta, a dif¬ferenza di quanto accade per le donazioni dirette che hanno per oggetto l’immobile, i terzi acqui¬renti non potranno essere coinvolti dalle richieste di restituzione avanzate dagli eredi legittimi del donante. Anche la banca che dovesse concedere un mutuo sull’immobile oggetto di donazione indiretta non dovrà temere l’esercizio dell’azione di riduzione o di restituzione.
La sentenza 11496/2010 sopra riferita è in linea con la costante giurisprudenza dell’ultimo decen¬nio che, con alterne vicende, ha sancito nell’ipotesi di acquisto immobiliare effettuato con denaro del donante, che – come si è prima detto – l’oggetto della liberalità indiretta sia rappresentato dal bene acquisito e non già dal denaro necessario per l’acquisto dello stesso (Cass. civ. Sez. Unite, 5 agosto 1992, n. 9282).
L’affermazione che oggetto della donazione è l’immobile (cioè l’effettivo arricchimento del bene¬ficiario) e non – come si riteneva in passato – il denaro (cioè l’impoverimento del donante) ha notevoli risvolti pratici, a cominciare da quanto si è detto circa il fatto che oggetto della collazione – preliminare alla riduzione – è l’immobile.
La soluzione data dalla sentenza 11496/2010 è ragionevole tenendo conto del fatto che – come si è sopra chiarito e come è stato osservato molto bene in dottrina a commento della sentenza in questione – nelle donazioni indirette manca il nesso di derivazione dal patrimonio del donante a quello del donatario che è alla base del funzionamento del sistema di tutela dei legittimari. Infatti il bene non è mai appartenuto al disponente (a differenza di quanto avviene nelle donazioni ordi¬narie) e l’azione di riduzione non può rendere inefficace la compravendita in quanto all’inefficacia conseguente all’azione di riduzione conseguirebbe che l’immobile dovrebbe tornare a far parte del patrimonio semmai del venditore e non del disponente (che non è mai stato proprietario) mentre all’inefficacia della dazione di denaro conseguirebbe che il legittimario potrebbe soddisfarsi sul denaro rientrato nell’asse ereditario.
Ipotizziamo che il padre corrisponda il prezzo per un immobile che viene intestato al figlio e che costui venda a terzi il bene. Se l’altro figlio – alla morte del padre – intendesse denunciare la lesio¬ne della sua legittima effettuata con la donazione indiretta, con l’azione di riduzione non potrebbe dichiarare inefficace la compravendita ma solo imputare l’equivalente speso per l’acquisto nell’asse ereditario. Per questo stesso motivo sarà solo il denaro acquisito con la vendita del bene dal figlio beneficiato che costituirà il credito del legittimario leso.
Proprio per questo la Cassazione con la decisione 11496/2010, ha stabilito che nel caso di riduzio¬ne di una donazione indiretta di un immobile, realizzata mediante l’acquisto del bene con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, “non si applica il principio della quota legittima in natura (connaturata all’azione nell’ipotesi di donazione ordinaria di immobile ex art. 560 cod. civ.), poiché l’azione non mette in discussione la titolarità dei beni donati e l’acquisizione riguarda il loro controvalore, mediante il metodo dell’imputazione. Pertanto mancando il meccani¬smo di recupero reale della titolarità del bene, il valore dell’investimento finanziato con la donazio¬ne indiretta deve essere ottenuto dal legittimario leso con le modalità tipiche del diritto di credito”.
Ciò comporta anche che l’immobile oggetto di donazione indiretta, in sede di circolazione, non in¬contra più gli ostacoli tipici dei beni di provenienza donativa consistenti nel rischio di una possibile azione reale di restituzione del bene.
La Cassazione quindi ha scelto una soluzione che consente al bene di circolare liberamente anche dopo la donazione indiretta. Il terzo sub-acquirente non è più a rischio mentre il legittimario leso non perderà il suo diritto alla integrità della legittima mantenendo un corrispondente diritto di cre¬dito nei confronti del beneficiato dalla donazione indiretta.
e) La disciplina fiscale
L’art. 35, comma 22, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 convertito con legge 4 agosto 2006, n. 248 (modificato dall’art. 1 comma 48 legge 27 dicembre 2006, n. 296) prescrive che «All’atto della cessione dell’immobile, anche se assoggettata ad Iva, le parti hanno l’obbligo di rendere apposita dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà recante l’indicazione analitica delle modalità di paga¬mento del corrispettivo. Con le medesime modalità ciascuna delle parti ha l’obbligo di dichiarare se si è avvalsa di un mediatore; nell’ipotesi affermativa, ha l’obbligo di dichiarare l’ammontare della spesa sostenuta per la mediazione, le analitiche modalità di pagamento della stessa, con l’indica¬zione del numero di partita Iva o del codice fiscale dell’agente immobiliare. In caso di omessa, in¬completa o mendace indicazione dei predetti dati si applica la sanzione amministrativa da euro 500 a euro 10.000 e, ai fini dell’imposta di registro, i beni trasferiti sono assoggettati ad accertamento di valore ai sensi dell’articolo 52, comma 1, del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131».
L’evidenziazione della donazione indiretta nell’atto con cui la si effettua – indicando, anche ai fini della tracciabilità, la provenienza del denaro impiegato per l’acquisto del bene – è lo strumento principale per non esporre a rischio le conseguenze indicate nell’art. 809 c.c. (revocazione e ridu¬cibilità della donazione) oltre che l’esclusione del bene dalla eventuale comunione legale dell’acqui¬rente. Dall’atto (cosiddetto atto mezzo) sarà chiaro, quindi, che il denaro utilizzato per l’acquisto è fornito non dall’acquirente ma dal disponente. In mancanza di questa indicazione la prova della donazione indiretta, per assicurare quelle conseguenze giuridiche, potrebbe essere molto gravosa.
D’altro lato, come tra breve si dirà, l’evidenziazione serve anche ad evitare che il beneficiario della donazione indiretta venga fatto oggetto di accertamento fiscale per avere effettuato un acquisto non giustificato dal suo livello di reddito.
Vediamo qual è la disciplina fiscale della donazione indiretta.
Con il decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262 recante disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria, convertito nella legge 24 novembre 2006, n. 286, è stata reintrodotta nel nostro or¬dinamento l’imposta sulle successioni e donazioni che era stata abolita con la legge 18 ottobre 2001, n. 283.
L’imposta colpisce tutti i “trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito oltre che la “costituzione di vincoli di destinazione” con aliquote differenziate: a) per i beni devoluti a favore del coniuge e dei parenti in linea retta sul valore complessivo netto eccedente per ciascun beneficiario 1.000.000 di euro: aliquota 4%; b) per i beni devoluti a favore degli altri parenti fino al quarto grado e degli affini in linea retta, nonché degli affini in linea collaterale fino al terzo grado: aliquota 6%; c) devoluti a favore di altri soggetti: aliquota 8%.
L’imposizione indicata trova applicazione anche per le donazioni indirette.
Infatti, salvo le nuove aliquote (4%, 6% e 8%) – che sono più alte di quelle previste nel testo unico originario (D. Lgs 31 ottobre 1990, n. 346) che erano del 3%, 5% e 7% – la riforma del 2006 richiama in vita, in quanto applicabili, le altre disposizioni previste nel testo unico alla data del 24 ottobre 2001 in cui ne era cessata l’applicazione. Tra queste l’art. 1, comma 4-bis di quel testo unico che riguarda proprio l’estensione della tassazione alle donazioni indirette. La norma così dispone: “Ferma restando l’applicazione dell’imposta alle liberalità indirette risultanti da atti soggetti a registrazione, l’imposta non si applica nei casi di donazioni o di altre liberalità collegate ad atti concernenti il trasferimento o la costituzione di diritti immobiliari ovvero il trasferimento di aziende, qualora per l’atto sia prevista l’applicazione dell’imposta di registro in misura proporzio¬nale, o dell’imposta sul valore aggiunto”.
Il che significa come principio generale che l’atto o il negozio con il quale è realizzata o da cui ri¬sulta la liberalità indiretta sconta l’imposta sulle successioni e sulle donazioni con le aliquote sopra indicate, esattamente come la donazione tipica.
Non sempre però l’imposta sulle donazioni è dovuta – ed è questa l’importanza della norma – in quanto per le donazioni indirette realizzate attraverso un negozio di trasferimento soggetto all’im¬posizione di registro proporzionale ordinaria (e quindi per le donazioni indirette più diffuse, effet¬tuate mediante acquisto di un bene immobile con denaro del disponente ma intestazione ad altro soggetto) non troverà applicazione l’imposta sulle successioni e sulle donazioni ma solo quella pre¬vista per l’atto mezzo utilizzato e cioè per la compravendita. Ed è evidente il motivo: si tratterebbe, in caso contrario, di una doppia imposizione: una sull’atto di compravendita e una sulla donazione indiretta. Il che evidentemente sarebbe del tutto iniquo. L’imposta è quindi assolta mediante la sola imposizione dell’atto mezzo impiegato per realizzare l’intento liberale (dal 1° gennaio 2014 con imposta di registro del 9% o del 2% se prima casa).
Acquisita quindi l’inapplicabilità (ex art. 1, comma 4-bis, testo unico 346/1990) alle donazioni indirette dell’imposta sulle donazioni allorché il negozio mezzo è autonomamente tassato con l’im¬posta di registro proporzionale o con l’iva (per il principio dell’alternatività tra imposta di registro/ iva e imposta sulle donazioni) si deve precisare che l’imposta sulle donazioni non sarà mai dovuta in queste ipotesi, anche se la liberalità indiretta non dovesse risultare evidenziata nell’atto, cioè anche se nell’atto non è indicato che il prezzo è corrisposto da un terzo. Il fisco si “accontenta” co¬munque della sola imposizione ordinaria di registro. In tal caso sarà, però, la prova della liberalità indiretta ai fini dell’applicazione degli istituti richiamati dall’art. 809 c.c. ad essere più complessa, essendo necessario provare in giudizio, in difetto di evidenziazione nell’atto, che la provvista per l’acquisto è stata corrisposta non dall’acquirente ma dal terzo disponente.
Deve essere anche richiamata un’altra norma di rilievo che trova applicazione in tutti i casi in cui la liberalità indiretta non è stata già tassata con l’imposta sulle donazioni o con l’imposta di registro/ iva applicata al negozio di compravendita utilizzato. Cioè in tutti i casi in cui di fatto l’imposizione è stata evasa. Si riferisce a queste ipotesi l’art. 56-bis del testo unico 346/1990. Si tratta di un sistema di accertamento e di registrazione volontaria delle liberalità indirette teso a far emergere gli incrementi patrimoniali tassabili, con lo scopo di evitare l’evasione dell’imposta sulle donazioni in caso di liberalità indirette. La norma stabilisce al primo comma che le liberalità non donative (diverse cioè dalle donazioni tipiche) e diverse da quelle già tassate, anche attraverso la tassa¬zione dell’atto mezzo, sono accertate e sottoposte ad imposta se ricorrono due condizioni: a) che l’interessato dichiari l’esistenza della liberalità nell’ambito di un procedimento di accertamento di tributi diversi dall’imposta sulle successioni e sulle donazioni b) se siano di valore superiore ad una certa soglia (la franchigia era nel testo unico del 1990 di 350.000.000 di lire). Secondo il richiamo normativo fatto dall’art. 56-bis del Testo Unico originario, l’aliquota di imposta sarebbe quella mas¬sima prevista nel regime precedente alla riforma del 2006 (7%), ma sembra pacifico che debba trovare ovviamente applicazione l’aliquota massima nuova (8%) ed ugualmente le franchigie sa¬ranno quelle attuali (a seconda del rapporto che lega il disponente alla persona arricchita).
In pratica la previsione di questo meccanismo serve a consentire al contribuente sotto accertamen¬to fiscale – in caso di liberalità indiretta (che non sia stata già tassata) – di corrispondere l’imposta di donazione se “confessa” la liberalità indiretta; in tal caso subendo in chiave sanzionatoria la tassazione massima dell’8% (sempre per il valore superiore alla franchigia).
Per capire il senso di questa norma si deve considerare che un contribuente titolare di una situa¬zione patrimoniale incompatibile con i suoi redditi può legittimamente determinare nell’ammini¬strazione finanziaria il promovimento di un accertamento sintetico.
Il contribuente per vincere la presunzione di aver acquisito quella patrimonialità con redditi oc¬cultati, potrà dichiarare l’esistenza della liberalità indiretta di cui ha beneficiato (Cass. civ. Sez. VI, 17 ottobre 2012, n. 17805) subendo la tassazione della liberalità indiretta sia pure nella misura massima prevista (8%) ma verosimilmente più mite di quella che graverebbe altrimenti sul maggior reddito derivante dall’accertamento sintetico. La dichiarazione può essere resa nel corso dell’attività di verifica o in seguito alla notifica dell’avviso di accertamento sintetico. L’ammi¬nistrazione finanziaria non ha il potere autonomo di accertare la liberalità indiretta in difetto della dichiarazione confessoria del contribuente il quale quindi può decidere se mandare avanti l’accer¬tamento in materia di imposte sul reddito oppure dichiarare la liberalità indiretta e bloccare così l’accertamento, ma con l’onere di dover corrispondere l’imposta sulla donazione.
Gli atti di liberalità non donativi rientrano pertanto – come le donazioni contrattuali tipiche – nella sfera applicativa dell’imposta sulle donazioni, sempre che la liberalità non sia stata effettuata con un atto mezzo tassato con l’imposta di registro proporzionale.
È opportuno quindi che il professionista, chiamato a redigere atti ai quali si collegano potenziali fenomeni di attribuzione liberale indiretta, renda sempre edotte le parti in ordine alle conseguenze tributarie della evidenziazione o della mancata evidenziazione della liberalità.
VI Quali sono le norme applicabili e i presupposti di validità e come si prova la donazione indiretta?
Pur non essendo espressamente richiamati dall’art. 809 c.c. – che dichiara applicabili alle dona¬zioni indirette le norme sulla revocazione e sull’azione di riduzione – si ritengono applicabili alle donazioni indirette anche altre norme, tra le quali l’art. 437 e 438 c.c. in materia di obbligo degli alimenti, essendo comune alle donazioni indirette la ratio dell’obbligo di riconoscenza che è con¬nesso all’individuazione del donatario come soggetto tenuto agli alimenti con precedenza su ogni altro obbligato; l’art. 771 c.c. sul divieto di donazione di beni futuri, l’art. 778 c.c. sul divieto di mandato a donare, le norme sulla incapacità a donare (art. 774 ss c.c.), sull’errore sul motivo (art. 787 c.c.) e sul motivo illecito (art 788 c.c.), l’art. 2901 c.c. sull’azione revocatoria ordinaria e l’art. 64 legge fallimentare in tema di revocatoria fallimentare degli atti a titolo gratuito compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento (disposizione non toccata dalla riforma del fallimento del 2005).
Il mancato richiamo nell’art. 809 c.c. alle norme sulla forma dell’atto ha portato la giurisprudenza ad affermare ormai in modo consolidato il principio che per la validità delle donazioni indirette non è richiesta la forma dell’atto pubblico, essendo sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità (Cass. civ. Sez. II, 15 luglio 2016, n. 14551; Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 2013, n. 14197; Cass. civ. Sez. II, 25 marzo 2013, n. 7480; Cass. civ. Sez. I, 12 maggio 2010, n. 11496; Cass. civ. Sez. II, 14 gennaio 2010, n. 468; Cass. civ. Sez. II, 3 novembre 2009, n. 23297; Cass. civ. Sez. II, 30 gennaio 2007, n. 1955; Cass. civ. Sez. II, 7 giugno 2006, n. 13337; Cass. civ. Sez. II, 16 marzo 2004, n. 5333; Cass. civ. Sez. II, 21 gennaio 2000, n. 642 e molte altre precedenti).
Nella giurisprudenza di merito Trib. Bari Sez. I, 21 ottobre 2013; App. L’Aquila, 7 giugno 2013; Trib. Pesaro, 28 febbraio 2009; Trib. Torino Sez. II, 21 maggio 2004, Trib. Brescia Sez. I, 24 ottobre 2003; Trib. Catania, 25 marzo 1993).
Pertanto ove la donazione indiretta consista nell’acquisto di un bene immobile con denaro del di¬sponente ma con intestazione ad altro soggetto, sarà sufficiente che vi sia la forma prescritta per l’atto di compravendita (e non l’atto pubblico con due testimoni). Altrettanto nel negotium mixtum cum donatione.
Da quanto si è detto deriva che la donazione indiretta, ove nell’atto non risulti evidenziato il pa¬gamento del prezzo da parte del genitore, si può provare attraverso due elementi. In primo luogo documentando l’atto (con il quale è stata realizzata l’attribuzione patrimoniale) che deve avere, come detto, la forma prescritta per la validità di tale attribuzione e cioè nel caso di compravendita, l’atto scritto ad substantiam (artt. 1325 e 1350 c.c.), che può essere preceduto o meno dal con¬tratto preliminare nel quale il promissario acquirente può dichiarare che il definitivo verrà stipulato per persona da nominare. In secondo luogo provando che la provvista è stata corrisposta dal disponente e non dall’intestatario del bene. L’intento liberale è proprio desumibile dal pagamento effettuato dal disponente a favore del venditore del bene.
In linea generale in ogni caso l’onere probatorio è ripartito nel senso che spetta al soggetto che agisce in giudizio dimostrare la sussistenza, nella fattispecie concreta, degli elementi costitutivi della liberalità, ovvero dell’arricchimento unilaterale non remunerato e dell’animus donandi in capo al disponente, mentre è compito del beneficiario dell’attribuzione dedurre elementi idonei a delineare una diversa giustificazione causale del trasferimento (Tribunale Torino Sez. II, 29 gennaio 2018).
VII La cointestazione di un conto corrente bancario come possibile donazione indiretta
Il secondo comma dell’art. 1298 c.c. stabilisce per il conto cointestato la presunzione di uguaglian¬za delle quote di comproprietà tra i correntisti. Pertanto al prelievo ingiustificato da parte di uno dei cointestatari di una quota maggiore di quella spettantegli per presunzione può legittimamente seguire da parte dell’altro la richiesta di reintegrazione del deposito o di restituzione della metà del saldo attivo. Salvo, sempre, che il conto non sia stato aperto nel solo interesse di un correntista o non sia alimentato soltanto da uno dei correntisti. Provando queste circostanze la presunzione di comproprietà viene vinta (art. 1298 c.c.).
La presunzione di contitolarità potrebbe anche essere vinta – come alcune vicende giudiziarie dimostrano – dando la prova che la cointestazione integra, nei confronti di uno correntista, una donazione indiretta. Anche in tale eventualità la pretesa restitutoria dell’altro correntista potreb¬be essere paralizzata. La domanda che ci si pone è quindi la seguente: può un correntista, per esempio uno dei coniugi, provare che l’apertura di un conto corrente cointestato e quindi il deposito della provvista iniziale, ovvero le rimesse successive nel conto, sono state effettuate con spirito di liberalità nei suoi confronti e costituiscono quindi donazioni indirette?
In una vicenda in cui la Corte di appello di Venezia aveva ritenuto che il marito avesse inteso realizzare in favore della moglie – con l’apertura di un conto cointestato a sé e alla moglie stessa – una donazione indiretta del cinquanta per cento delle somme via via versate sul conto stesso, la Cassazione recentemente ha non solo richiamato la nullità della donazione di beni futuri sancita dall’art. 771 c.c. (con riferimento alle rimesse successive all’apertura del conto, ove inquadrate nell’ambito della donazione), ma ha ritenuto che l’animus donandi non poteva essere riconosciuto sulla sola base della cointestazione; viceversa la Corte di merito avrebbe dovuto motivare specifi¬camente sullo spirito di liberalità che assisteva ogni versamento (Cass. civ. Sez. II, 16 gennaio 2014, n. 809).
Più volte la Corte di Cassazione ha, in ogni caso, affermato che la possibilità che costituisca dona¬zione indiretta l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito – qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei contestatari può essere qualificato come donazione indi¬retta solo quando sia verificata l’esistenza dell’animus donandi, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità (Cass. civ. Sez. II, 28 febbraio 2018, n. 4682; Cass. civ. Sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983).
Sul punto, negli stessi termini, si sono espressi Tribunale Ferrara, 4 aprile 2018; Tribunale Roma Sez. I, 6 giugno 2017; Trib. Vicenza, 5 giugno 2012; Trib. Torino Sez. II, 5 agosto 2008; Trib. Monza, 25 gennaio 2001.
Analogamente si era espressa Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2000, n. 12552 relativamente alla cointestazione di un contratto di deposito in custodia e amministrazione di titoli al portatore, affermando che da tale cointestazione non discende la comproprietà dei titoli acquistati con denaro appartenente ad uno solo dei cointestatari, tranne che le circostanze del caso concreto rivelino in maniera univoca la volontà delle parti di realizzare una donazione.
Il problema è stato affrontato anche in una articolata decisone di merito (Trib. Mondovì, 15 febbraio 2010) dove si è affermato, sul presupposto che la cointestazione attribuisce un recipro¬co diritto di rendicontazione, che la cointestazione di un conto corrente bancario non costituisce donazione indiretta, se non venga provata l’esistenza della funzione donativa attraverso una di¬smissione dei diritti del correntista sorretta da un intento liberale. Nella vicenda specifica non era stato dimostrata, secondo il tribunale, la rinuncia alle pretese di rendicontazione e di restituzione delle somme prelevate.
In precedenza anche Cass. civ. Sez. I, 1 ottobre 1999, n. 10850 aveva chiarito che la sola coin¬testazione del contratto di custodia e amministrazione di titoli a coniugi in regime di separazione dei beni non è sufficiente a dimostrare la volontà del coniuge, con il denaro del quale i titoli sono stati acquistati, di disporre della metà dei beni a titolo di liberalità.
Quindi la possibilità che si possa parlare di donazione indiretta, in caso di cointestazione di un con¬to corrente bancario, non è di per sé esclusa. Occorre però dare la prova che la provvista di denaro sia stata sorretta da un intento di liberalità.
DONAZIONE INDIRETTA
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. II, 17 aprile 2019, n. 10759 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Si ha donazione indiretta di un bene (nella specie, un immobile) anche quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo della relativa compravendita dovuto dal donatario, laddove sia dimostrato lo specifico collega¬mento tra dazione e successivo impiego delle somme, dovendo, in tal caso, individuarsi l’oggetto della liberalità, analogamente a quanto affermato in tema di vendita mista a donazione, nella percentuale di proprietà del bene acquistato pari alla quota di prezzo corrisposta con la provvista fornita dal donante.
Cass. civ. Sez. II, 19 marzo 2019, n. 7681 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei contratti di scambio, la donazione indiretta è configurabile solo a condizione che le parti abbiano volutamen¬te stabilito un corrispettivo di gran lunga inferiore a quello che sarebbe dovuto, con l’intento, desumibile dalla notevole entità della sproporzione tra il valore reale del bene e la misura del corrispettivo, di arricchire la parte acquirente per la parte eccedente quanto pattuito.
Corte d’Appello Catania Sez. II, 8 gennaio 2019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La donazione indiretta consiste nell’elargizione di una liberalità che viene attuata, anziché con il negozio ti-pico dell’art. 769 c.c., mediante un negozio oneroso che produce, in concomitanza con l’effetto diretto che gli è proprio ed in collegamento con altro negozio, l’arricchimento animo donandi del destinatario della liberalità medesima.
Cass. civ. Sez. III, 4 ottobre 2018, n. 24160 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’attività con la quale il marito fornisce il denaro affinché la moglie divenga con lui comproprietaria di un im¬mobile è riconducibile nell’ambito della donazione indiretta, così come sono ad essa riconducibili, finché dura il matrimonio, i conferimenti patrimoniali eseguiti spontaneamente dal donante, volti a finanziare lavori nell’im¬mobile, giacché tali conferimenti hanno la stessa causa della donazione indiretta. Tuttavia, dopo la separazione personale dei coniugi, analoga finalità non può automaticamente attribuirsi ai pagamenti fatti dal marito o alle spese sostenute per l’immobile in comproprietà, poiché in tale ultimo caso non può ritenersi più sussistente la finalità di liberalità e tali spese dovranno considerarsi sostenute da uno dei comproprietari in regime di comu¬nione, con l’applicazione delle regole ordinarie ad essa relative. Conseguentemente, il coniuge comproprietario potrà ripetere il 50% delle spese che ha sostenuto per la conservazione ed il miglioramento della cosa comune, purché abbia avvisato preliminarmente l’altro comproprietario e purché questi, a fronte di un intervento neces¬sario, sia rimasto inerte.
Cass. civ. Sez. VI – 2, 24 luglio 2018, n. 19537 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ove la donazione riguardi una somma di denaro impiegata dal donatario per l’acquisto della casa familiare e ove detto acquisto sia condiviso con il coniuge, il donatario in tal modo dona al coniuge il 50% della proprietà con¬sentendone l’intestazione allo stesso. Non può pertanto ravvisarsi una donazione indiretta dell’intero immobile al donatario tale da escludere la comunione del bene tra i coniugi. (Nella fattispecie, la Corte ha respinto il ricorso proposto dall’ex marito contro la ex moglie al fine di vedersi riconosciuta l’esclusiva proprietà dell’immobile oggetto, a suo dire, di donazione indiretta da parte della madre la quale gli aveva fornito il denaro necessario all’acquisto.)
La somma di denaro donata dal genitore al figlio, coniugato in regime di comunione legale dei beni, non costi¬tuisce un’ipotesi di donazione indiretta e l’immobile acquistato con tale denaro entra a far parte del regime di comunione legale dei beni, anche se manca un atto che rivesta la forma richiesta dalla legge per la validità delle donazioni, e cioè l’atto pubblico stipulato alla presenza di due testimoni.
Tribunale Ferrara, 4 aprile 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’atto di cointestazione con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito-qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei contestatari, può essere qualificato come donazione indiretta solo quando sia verificata l’esistenza dell’animus donandi.
Tribunale Frosinone, 30 marzo 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’acquisto di un immobile da parte di una persona con denaro di altra persona integra gli estremi di una dona¬zione indiretta, se il denaro, quale corrispettivo della vendita, viene corrisposto, nella sua interezza, dal donante al donatario allo specifico scopo dell’acquisto del bene, oppure mediante il versamento diretto dell’importo al venditore.
Tribunale Firenze, 16 marzo 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La domanda volta alla revoca della pretesa donazione indiretta, in conseguenza di grave ingiuria e/o grave pregiudizio dolosamente arrecato al proprio patrimonio quale donante, da parte del donatario, non può trovare accoglimento in assenza di una prova adeguata della esistenza di una donazione a ed a fronte di una dichiara¬zione confessoria delle parti di segno contrario e non revocabile.
Tribunale Trani, 13 marzo 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negotium mixtum cum donatione costituisce una donazione indiretta attuata attraverso l’utilizzazione della compravendita al fine di arricchire il compratore della differenza tra il prezzo pattuito e quello effettivo, per la quale non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per la donazione diretta, essendo invece sufficiente la forma dello schema negoziale adottato.
Cass. civ. Sez. II, 28 febbraio 2018, n. 4682 (Famiglia e Diritto, 2018, 8-9, 745 nota di BONAMINI)
La cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito, è qualificabile come donazione indiretta qualora detta somma, all’atto della cointestazione, risulti esse¬re appartenuta ad uno solo dei cointestatari, rilevandosi che, in tal caso, con il mezzo del contratto di deposito bancario, si realizza l’arricchimento senza corrispettivo dell’altro cointestatario: a condizione, però, che sia veri¬ficata l’esistenza dell’”animus donandi”, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità.
Tribunale Torino Sez. II, 29 gennaio 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di donazione indiretta, l’onere probatorio è ripartito nel senso che spetta al soggetto che agisce in giudizio dimostrare la sussistenza, nella fattispecie concreta, degli elementi costitutivi della liberalità, ovvero dell’arricchimento unilaterale non remunerato e dell’animus donandi in capo al disponente, mentre è compito del beneficiario dell’attribuzione dedurre elementi idonei a delineare una diversa giustificazione causale del tra¬sferimento.
Trib. Taranto Sez. II, 1 agosto 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Deve escludersi che il contratto di assicurazione sulla vita in favore dell’erede legittimo o testamentario possa qualificarsi quale donazione indiretta del contraente in favore dei terzi designati. Infatti, la corresponsione dell’indennità in favore del beneficiario, pur se derivante dal contratto stipulato dal contraente assicurato a favore del terzo designato, non determina un corrispondente depauperamento del patrimonio del contraente assicurato e, pertanto, non può ritenersi costituire oggetto di un atto di liberalità ai sensi dell’art. 809 c.c., assoggettabile alle norme sulla riduzione delle donazioni per integrare la quota dovuta ai legittimari. II solo depauperamento che si verifica nel patrimonio del contraente assicurato è costituito dal versamento dei premi assicurativi da lui eseguito in vita e, pertanto, solo le somme versate a tale titolo possono considerarsi oggetto di liberalità indiretta a favore del terzo designato come beneficiario, con conseguente assoggettabilità all’azione di riduzione proposta dagli eredi legittimi.
Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2017, n. 18725 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il trasferimento per spirito di liberalità di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli del beneficiante a quello del beneficiario realizzato a mezzo banca, attraverso l’esecuzione di un ordine di bancogiro impartito dal di¬sponente, non rientra tra le donazioni indirette, ma configura una donazione tipica ad esecuzione indiretta. Ne deriva che la stabilità dell’attribuzione patrimoniale presuppone la stipulazione dell’atto pubblico di donazione tra beneficiante e beneficiarlo, salvo che ricorra l’ipotesi della donazione di modico valore.
La donazione indiretta non si identifica totalmente con la donazione, cioè con il contratto rivolto a realizzare la specifica funzione dell’arricchimento diretto di un soggetto a carico di un altro soggetto, il donante, che nulla ottiene in cambio, in quanto agisce per spirito di liberalità. Si tratta di liberalità che si realizzano: (a) con atti diversi dal contratto (ad esempio, con negozi unilaterali come l’adempimento del terzo o le rinunce abdicative); (b) con contratti (non tra donante e donatario) rispetto ai quali il beneficiario è terzo; (c) con contratti caratte¬rizzati dalla presenza di un nesso di corrispettività tra attribuzioni patrimoniali; (d) con la combinazione di più negozi (come nel caso dell’intestazione di beni a nome altrui). La configurazione della donazione come un con¬tratto tipico a forma vincolata e sottoposto a regole inderogabili obbliga infatti a fare ricorso a questo contratto per realizzare il passaggio immediato per spirito di liberalità di ingenti valori patrimoniali da un soggetto ad un altro, non essendo ragionevolmente ipotizzabile che il legislatore consenta il compimento in forme differenti di uno stesso atto, imponendo, però, l’onere della forma solenne soltanto quando le parti abbiano optato per il contratto di donazione.
Cass. civ. Sez. VI – 2, 7 giugno 2017, n. 14203 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 785 c.c., la donazione obnuziale, essendo un negozio formale e tipico caratterizzato dall’espres¬sa menzione, nell’atto pubblico, delle finalità dell’attribuzione patrimoniale eseguita da uno degli sposi o da un terzo in riguardo di un futuro, “determinato”, matrimonio, è incompatibile con l’istituto della donazione indiret¬ta, in cui lo spirito di liberalità viene perseguito mediante il compimento di atti diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c.; infatti, la precisa connotazione della causa negoziale, che deve espressamente risultare dal contesto dell’atto, non può rinvenirsi nell’ambito di una fattispecie indiretta, nella quale la finalità suddetta, ancorché in concreto perseguita, può rilevare solo quale motivo finale degli atti di disposizione patrimoniale fra loro collegati ma non anche quale elemento tipizzante del contratto, chiaramente delineato dal legislatore nei suoi requisiti di forma e di sostanza, in vista del particolare regime di perfezionamento, efficacia e caducazione che lo contrad¬distingue dalle altre donazioni.
La donazione obnuziale ha un carattere necessariamente formale, che richiede la specifica indicazione di un determinato matrimonio, in vista del quale la donazione è effettuata, e risulta, pertanto, incompatibile con il meccanismo della donazione indiretta.
Tribunale Roma Sez. I, 6 giugno 2017 (Famiglia e Diritto, 2018, 7, 687 nota di Restuccia)
La possibilità che la cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito, qualora appartenuta ad uno solo dei cointestatari, possa costituire donazione indiretta è legata all’apprezzamento dell’esistenza dell’animus donandi, consistente nell’accertamento che, al momento del¬la cointestazione, il proprietario del denaro non avesse altro scopo che quello di liberalità. Ciò vale per il denaro giacente sul conto al momento in cui avvenga la cointestazione, mentre nel diverso caso in cui i versamenti da parte di uno dei correntisti siano effettuati successivamente alla cointestazione, la donazione indiretta sarebbe preclusa dal divieto di donazione di beni futuri sancito dall’art. 771 c.c.
Cass. civ. Sez. II, 30 maggio 2017, n. 13619 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con danaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente intende in tal modo beneficiare, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario e, quindi, integra – anche ai fini della collazione – donazione indiretta del bene stesso e non del danaro.
Trib. Lucca, 25 marzo 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella donazione indiretta l’attribuzione gratuita viene attuata con un negozio oneroso che corrisponde alla reale intenzione delle parti che lo pongono in essere; in tal caso il negozio commutativo stipulato tra i contraenti ha lo scopo di raggiungere per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arricchimento, per puro spirito di libe¬ralità, di quello tra i contraenti che riceve la prestazione di maggior valore.
Cass. civ. Sez. II, 4 gennaio 2017, n. 106 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La Seconda Sezione ha trasmesso gli atti al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, della questione, oggetto di contrasto, concernente gli strumenti utilizzabili onde porre in essere una donazione indiretta, ex art. 809 c.c., ed il relativo meccanismo di funzionamento.
Cass. civ. Sez. II, 15 luglio 2016, n. 14551 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per la validità della donazione indiretta, non è necessaria la forma della donazione (atto pubblico a pena di nulli¬tà), bensì quella prescritta per lo schema negoziale effettivamente adottato dalle parti. Infatti, l’art. 809 c.c., nel sancire l’applicabilità delle norme sulle donazioni agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c., non richiama l’art. 782 c.c., che prescrive la forma dell’atto pubblico per la donazione
Cass. civ. Sez. V, 24 giugno 2016, n. 13133 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla donazione indiretta effettuata dal padre ai figli di un assegno di circolare dell’ammontare di euro 2.500.000 si applica l’imposta di successione e donazione secondo le franchigie previste dall’art. 56-bis del D.Lgs. n. 346/1990 ratione temporis applicabili.
Cass. civ. Sez. III, 19 febbraio 2016, n. 3263 (Famiglia e Diritto, 2018, 1, 19 nota di Perillo)
Nell’assicurazione sulla vita la designazione quale terzo beneficiario di persona non legata al designante da alcun vincolo di mantenimento o dipendenza economica deve presumersi, fino a prova contraria, compiuta a spirito di liberalità, e costituisce una donazione indiretta. Ne consegue che è ad essa applicabile l’art. 775 c.c., e se compiuta da incapace naturale è annullabile a prescindere dal pregiudizio che quest’ultimo possa averne risentito. Deve peraltro precisarsi che il donatum originario è costituito dai premi versati all’assicuratore giacché il pagamento del premio ha integrato il c.d. negozio-mezzo (l’assicurazione) utilizzato per conseguire il negozio-fine (la donazione), mentre il pagamento dell’indennizzo da parte dell’assicuratore ha costituito il risultato finale utile dell’operazione per il beneficiario.
Cass. civ. Sez. II, 2 febbraio 2016, n. 1986 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di acquisto di un immobile da parte di un soggetto, con denaro fornito da un terzo per spirito di libe¬ralità, si configura una donazione indiretta, che si differenzia dalla simulazione giacché l’attribuzione gratuita viene attuata, quale effetto indiretto, con il negozio oneroso che corrisponde alla reale intenzione delle parti ed alla quale, pertanto, non si applicano i limiti alla prova testimoniale – in materia di contratti e simulazione – che valgono, invece, per il negozio tipico utilizzato allo scopo.
Cass. civ. Sez. II, 21 ottobre 2015, n. 21449 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La donazione indiretta si caratterizza per il fine perseguito e non già per lo strumento negoziale adottato a tal scopo, che dunque può essere costituito da qualunque negozio o da più negozi collegati. Il negozio indiretto, dunque, è il risultato del collegamento tra i due negozi. In particolare, la donazione indiretta consiste nell’elar¬gizione di una liberalità che viene attuata, anziché con il negozio tipico descritto nell’art. 769 c.c., mediante un negozio oneroso che produce, in concomitanza con l’effetto diretto che gli è proprio ed in collegamento con altro negozio, l’arricchimento animo donandi del destinatario della liberalità medesima.
Cass. civ. Sez. II, 4 settembre 2015, n. 17604 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente medesimo intenda in tal modo beneficiare, si configura la donazione indiretta dell’immobile e non del denaro impiegato per l’acquisto, sicché, in caso di collazione, secondo le previsioni dell’art. 737 c.c., il conferimento deve avere ad oggetto l’immobile e non il denaro.
Trib. Treviso, 15 giugno 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel cosiddetto “negotium mixtun cum donatione, la causa del contratto ha natura onerosa, ma il negozio com¬mutativo stipulato dai contraenti ha la finalità di raggiungere, per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’ar¬ricchimento, per puro spirito di liberalità, di quello dei contraenti che riceve la prestazione di maggior valore, con ciò realizzando il negozio posto in essere una fattispecie di donazione indiretta.
Cass. civ. Sez. III, 16 aprile 2015, n. 7683 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’assicurazione sulla vita la designazione quale terzo beneficiario di persona non legata al designante da alcun vincolo di mantenimento o dipendenza economica deve presumersi, fino a prova contraria, compiuta a titolo di liberalità e costituisce una donazione indiretta; ne consegue che, se compiuta da un incapace naturale, è annullabile a prescindere dal pregiudizio che quest’ultimo possa averne risentito.
Trib. Torre Annunziata Sez. II, 3 marzo 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La rinuncia all’usufrutto, se ispirata da animus donandi, è suscettibile di integrare una donazione indiretta a favore del nudo proprietario dei beni gravati dal diritto reale parziario rinunciato, perché, comportando un’estin¬zione anticipata di tale diritto, si risolve nel conseguimento, da parte di detto dominus, dei vantaggi patrimoniali inerenti all’acquisizione del godimento immediato del bene, che gli sarebbe sottratto se l’usufrutto fosse durato fino alla sua naturale scadenza: il controvalore di tali vantaggi è, pertanto, senz’altro passibile di convogliamento nella massa ereditaria di cui all’art. 556 c.c.
Cass. civ. Sez. II, 25 febbraio 2015, n. 3819 (Nuova Giur. Civ., 2015, 7-8, 577 nota di MAZZARIOL)
Costituisce donazione indiretta la rinunzia alla quota di comproprietà, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comproprietari; e poiché per la realizzazione del fine di liberalità viene utilizzato un nego¬zio, la rinunzia alla quota da parte del comunista, diverso dal contratto di donazione, non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per quest’ultimo.
La rinuncia abdicativa della quota di comproprietà di un bene, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comunisti, mediante eliminazione dello stato di compressione in cui il diritto di questi ultimi si trovava a causa dell’appartenenza in comunione anche ad un altro soggetto, costituisce donazione indiretta, senza che sia all’uopo necessaria la forma dell’atto pubblico, essendo utilizzato per la realizzazione del fine di liberalità un negozio diverso dal contratto di donazione. (Rigetta, App. Roma, 11/02/2009)
La rinuncia alla quota di comproprietà di un bene, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comproprietari, costituisce donazione indiretta e come tale non richiede la forma dell’atto pubblico.
Trib. Genova, 20 febbraio 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia successoria, nel caso in cui un soggetto abbia erogato il denaro per l’acquisto di un immobile al pro¬prio figlio, deve distinguersi la donazione diretta del danaro, ove l’oggetto della liberalità rimane il denaro, dal caso in cui il denaro sia il mezzo fornito per l’acquisto della casa. In tale ipotesi, il collegamento tra l’elargizione del denaro e l’acquisto dell’immobile porta a ritenere che si è in presenza di una donazione indiretta dell’immo¬bile stesso e non già del denaro impiegato per il suo acquisto.
Tribunale Modena Sez. II, 20 ottobre 2014 (Famiglia e Diritto, 2015, 4, 396 nota di MASTROBERARDINO)
L’assicurazione sulla vita stipulata a beneficio di terzi integra i requisiti della donazione indiretta, laddove non vi siano rapporti pregressi tra assicurato e beneficiario. L’assenza di qualsivoglia legame di carattere economico o sociale tra assicurato e beneficiario è indice di sussistenza dello spirito di liberalità. Ciò viene avvalorato nel caso in cui sia designato, quale beneficiario, un ente dedito a fini assistenziali. Il premio versato dall’assicurato, costituente il diretto impoverimento del donante, fornisce la causa dell’arricchimento del donatario. Per la dichia¬razione di incapacità naturale del contraente è sufficiente un perturbamento psichico, anche solo transitorio, tale da menomarne gravemente, pur senza escluderle, le facoltà intellettive.
Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2014, n. 21494 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elargizione di una somma di denaro quale mezzo per l’unico e specifico fine dell’acquisto di un immobile da parte del destinatario, che il disponente intenda in tal modo beneficiare, si configura come una liberalità che, in quanto avente ad oggetto l’immobile e non già la somma di denaro, è qualificabile come donazione indiretta, con la conseguenza che, ove il donatario risulti coniugato in regime di comunione legale, il bene non resta as¬soggettato al predetto regime, ai sensi dell’art. 179, primo comma, lett. b), c.c., senza che risulti necessario, a tal fine, che l’attività del donante si articoli in attività tipiche, essendo invece sufficiente la dimostrazione del collegamento tra il negozio-mezzo e l’arricchimento del soggetto onorato per spirito di liberalità.
L’elargizione di una somma di denaro finalizzata all’acquisto di un immobile da parte del beneficiario si configura come donazione indiretta, con la conseguenza che, qualora il donatario sia coniugato in regime di comunione legale, il bene acquistato è escluso da detto regime, ai sensi dell’art. 179, lett. b), c.c. Per la validità della do¬nazione indiretta non è richiesta la forma dell’atto pubblico, ma è necessaria la prova dell’effettiva dazione del relativo importo al donatario o direttamente all’alienante.
Cass. civ. Sez. VI, 2 settembre 2014, n. 18541 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La dazione di una somma di denaro configura una donazione indiretta d’immobile ove sia effettuata quale mezzo per l’unico e specifico fine dell’acquisto del bene, dovendosi altrimenti ravvisare soltanto una donazione diretta del denaro elargito, per quanto poi successivamente utilizzato in un acquisto immobiliare. (Cassa con rinvio, App. Ancona, 12/09/2011).
Nel caso di soggetto che abbia erogato il denaro per l’acquisto di un immobile in capo ad uno dei figli si deve distinguere l’ipotesi della donazione diretta del denaro, impiegato successivamente dal figlio in un acquisto immo¬biliare, in cui, ovviamente, oggetto della donazione rimane il denaro stesso, da quella in cui il donante fornisce il denaro quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che costituisce il fine della donazione. In tal caso, il collegamento tra l’elargizione del denaro paterno e l’acquisto del bene immobile da parte del figlio porta a concludere che si è in presenza di una donazione (indiretta) dello stesso immobile e non del denaro impiegato per il suo acquisto.
Cass. civ. Sez. I, 23 maggio 2014, n. 11491 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le donazioni di denaro finalizzate all’acquisto di un bene (nella specie, azioni) costituiscono donazione indiretta di quel bene poiché, in presenza di collegamento tra la messa a disposizione del denaro e il fine specifico dell’acqui¬sto del bene, la compravendita costituisce lo strumento del trasferimento del bene, oggetto dell’arricchimento del patrimonio del destinatario.
Cass. civ. Sez. II, 20 maggio 2014, n. 11035 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente medesimo intenda in tal modo beneficiare, con la sua adesione, la compravendita costituisce stru¬mento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario, e, quindi, integra donazione indiretta del bene stesso, non del denaro, sicché, in caso di collazione, secondo le previsioni dell’art. 737 c.c., il conferimento deve avere ad oggetto l’immobile, non il denaro impiegato per il suo acquisto. Alla base di questa soluzione – convalidata anche dalla giurisprudenza successiva – vi è la sottolinea¬tura che, nel caso del denaro corrisposto dal donante al donatario allo specifico scopo dell’acquisto del bene o mediante il versamento diretto dell’importo all’alienante o mediante la previsione della destinazione della somma donata al trasferimento immobiliare, c’è un collegamento tra l’elargizione del danaro e l’acquisto del bene da parte del beneficiario. Ha errato la Corte d’appello a ritenere che, mancando la contestualità tra acquisto del ter¬reno ed edificazione che ne è seguita, il principio dell’accessione costituisca un ostacolo alla configurabilità della donazione indiretta dell’edificio, e che sia predicabile, al più, un atto di liberalità con riguardo al pagamento del corrispettivo contrattualmente pagato dal genitore in favore delle figlie già intestatarie, per effetto di donazione indiretta, del terreno. Così decidendo, la Corte territoriale ha risolto il problema dell’identificazione del bene donato prescindendo, non solo da ogni riferimento all’interesse a donare dello stipulante, ma anche dagli aspetti sostanziali della vicenda negoziale, omettendo in particolare di indagare se, con riferimento all’edificazione, lo schema contrattuale utilizzato fosse rivolto a far pervenire alle figlie la proprietà dell’immobile anziché il dena¬ro di cui il genitore stipulante si è privato. A quegli aspetti sostanziali della vicenda negoziale, invece, la Corte avrebbe dovuto avere riguardo, valutando se l’effetto ultimo, voluto dal disponente, non fosse piuttosto l’arric¬chimento, senza corrispettivo, delle destinatarie dell’acquisto, sicché l’oggetto della donazione fosse l’oggetto stesso dell’arricchimento, ossia l’immobile acquistato per accessione.
In tema di donazione indiretta, con riguardo alla vicenda dell’edificazione, con denaro del genitore, su terreno intestato a figli (a seguito di precedente donazione indiretta), il bene donato può ben essere identificato, non nel denaro, ma nello stesso edificio realizzato – senza che a ciò sia di ostacolo l’operatività dei principi sull’acquisto per accessione -, tutte le volte in cui, tenendo conto degli aspetti sostanziali della vicenda negoziale (nella specie alternativamente indicata dal giudice del merito come appalto o come contratto a favore di terzi) e dello scopo ultimo perseguito dal disponente, l’impiego del denaro a fini edificatori sia compreso nel programma negoziale perseguito dal genitore donante.
Cass. civ. Sez. II, 31 gennaio 2014, n. 2149 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La donazione indiretta dell’immobile non è configurabile quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo del bene, giacché la corresponsione del denaro costituisce una diversa modalità per attuare l’identico risultato giuridi¬co-economico dell’attribuzione liberale dell’immobile esclusivamente nell’ipotesi in cui ne sostenga l’intero costo.
Cass. civ. Sez. II, 16 gennaio 2014, n. 809 (Notariato, 2014, 1, 51)
In tema di donazione indiretta, la cointestazione di un conto corrente ad uso esclusivo che, ai sensi dell’art. 1854 c.c., attribuisce agli intestatari la qualità di creditori o di debitori solidali dei saldi del conto fa sì presumere, sia nei confronti dei terzi che nei rapporti interni, la contitolarità dell’oggetto del contratto ma non è prova definitiva di aver posto in essere con tale atto una donazione indiretta.
La cointestazione di un conto corrente, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto (art. 1854 c.c.) sia nei confronti dei terzi, che nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto (art. 1298 c.c., comma 2), ma tale presunzione da luogo soltanto all’inversione dell’o¬nere probatorio, e può essere superata attraverso presunzioni semplici – purché gravi, precise e concordanti – dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa.
L’animus donandi non può essere riconosciuto sulla sola base della cointestazione di un conto corrente. Il giudice deve motivare sullo spirito di liberalità che assiste ogni versamento.
Cass. civ. Sez. II, 3 gennaio 2014, n. 56 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cessione gratuita della quota di partecipazione ad una cooperativa edilizia, finalizzata all’assegnazione dell’al¬loggio in favore del cessionario, integra donazione indiretta dell’immobile, soggetta, in morte del donante, alla collazione ex art. 746 cod. civ., tale quota esprimendo non una semplice aspettativa, ma un vero e proprio cre¬dito all’attribuzione dell’alloggio.
Trib. Bari Sez. I, 21 ottobre 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di acquisto della proprietà di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad un altro soggetto che il disponente intende in tal modo beneficiare, si verifica una donazione indiretta per la quale non è necessaria la forma dell’atto pubblico prevista per la donazione, essendo sufficiente che risultino rispettati i requisiti di forma richiesti per l’atto dal quale la donazione indiretta risulta.
Trib. Salerno Sez. I, 29 giugno 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il bene acquistato da un coniuge separatamente durante il matrimonio costituisce oggetto della comunione le¬gale, ai sensi dell’art. 177, comma l lett. a), c.c., salvo che si tratti di beni personali ricorrendo una delle ipotesi tassativamente indicate dall’art. 179 c.c.; sono esclusi dalla comunione legale anche i beni acquistati separata¬mente dal coniuge mediante donazione indiretta, per acquisto del bene il cui prezzo sia stato pagato da un terzo.
App. L’Aquila, 7 giugno 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La validità della donazione indiretta non presuppone la forma solenne della donazione, bensì quella prescritta per lo schema negoziale effettivamente adottato dalle parti. La previsione normativa di cui all’art. 809 c.c., invero, nel sancire l’applicabilità delle norme sulle donazioni agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c., non richiama l’art. 782 c.c. che prescrive la forma dell’atto pubblico per la dona¬zione, anche perché, essendo la norma da ultimo richiamata volta a tutelare il donante, essa, a differenza delle norme che tutelano i terzi, non può essere estesa a quei negozi che perseguono l’intento di liberalità con schemi negoziali previsti per il raggiungimento di finalità diverse.
Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 2013, n. 14197 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per la validità delle donazioni indirette, cioè di quelle liberalità realizzate ponendo in essere un negozio tipico diverso da quello previsto dall’art. 782 cod. civ., non è richiesta la forma dell’atto pubblico, essendo sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità, dato che l’art. 809 cod. civ., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 cod. civ., non richiama l’art. 782 cod. civ., che prescrive l’atto pubblico per la donazione.
In tema di comunione legale dei coniugi, la donazione indiretta rientra nell’esclusione di cui all’art. 179, primo comma, lett. b), cod. civ., senza che sia necessaria l’espressa dichiarazione da parte del coniuge acquirente prevista dall’art. 179, primo comma, lett. f), cod. civ., né la partecipazione del coniuge non acquirente all’atto di acquisto e la sua adesione alla dichiarazione dell’altro coniuge acquirente ai sensi dell’art. 179, secondo comma, cod. civ., trattandosi di disposizione non richiamate.
Cass. civ. Sez. II, 31 maggio 2013, n. 13861
Nella donazione indiretta il negozio di attribuzione a titolo gratuito è esonerato dalle forme stringenti della dona¬zione tipica ma non sfugge alla necessità di rispettare la forma propria del negozio mezzo che, quanto meno per ciò che riguarda la pretesa compravendita tra fratello – divenuto proprietario per effetto della donazione paterna-e la sorella, non può dirsi osservata, di tal che dell’esistenza e del contenuto di tale contratto si voleva dar prova per testimoni; il coordinamento poi tra i vari negozi, per essere considerato – nella prospettiva unificatrice della causa “in concreto” – espressione di un collegamento negoziale, presuppone che tutti siano voluti per i loro effetti tipici e quindi non può realizzarsi tra negozi simulati e dissimulati, essendo di per sé la simulazione già deputata al perseguimento di scopi estranei a quelli del negozio formalmente posto in essere.
Cass. civ. Sez. II, 9 maggio 2013, n. 10991 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cointestazione di buoni postali fruttiferi, nella specie operata da un genitore per ripartire fra i figli anticipata¬mente le proprie sostanze, può configurare, ove sia accertata l’esistenza dell’”animus donandi”, una donazione indiretta, in quanto, attraverso il negozio direttamente concluso con il terzo depositario, la parte che deposita il proprio denaro consegue l’effetto ulteriore di attuare un’attribuzione patrimoniale in favore di colui che ne diventa beneficiario per la corrispondente quota, essendo questi, quale contitolare del titolo nominativo a firma disgiunta, legittimato a fare valere i relativi diritti.
Cass. civ. Sez. II, 25 marzo 2013, n. 7480 (Famiglia e Diritto, 2013, 6, 554, nota di OBERTO)
L’attribuzione patrimoniale effettuata dalla convivente more uxorio che, nel corso della relazione paramatrimo¬niale, ha proceduto all’acquisto di un immobile in comunione con il partner per quote uguali, pur avendo sborsato l’intero prezzo per l’acquisto, è qualificabile alla stregua di una donazione indiretta della quota dell’immobile stesso. Tale liberalità è valida malgrado il mancato rispetto delle forme solenni previste per la donazione, inap¬plicabili alla donazione indiretta. Nessuna forma d’invalidità è poi riconducibile al fatto che il denaro impiegato per l’acquisto fosse stato conseguito dalla donna quale provento della sua attività di prostituta, atteso che tale profilo attiene ad una fase pregressa rispetto alla donazione, che è invece frutto dello spirito di liberalità con il quale la donna aveva inteso arricchire il suo convivente.
Trib. Roma Sez. X, 22 febbraio 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Si configura la donazione indiretta qualora il donante raggiunga lo scopo di arricchire un’altra persona servendosi di atti che hanno una causa diversa da quella del contratto di donazione. E così si ha donazione indiretta nel caso di pagamento di un debito altrui, di remissione del debito, ovvero di acquisto di un bene con denaro proveniente da un terzo e corrisposto per l’acquisizione della res da parte del beneficiario. Quando il denaro sia donato come tale, si è in presenza di una donazione diretta avente ad oggetto il denaro medesimo.
Cass. civ. Sez. II, 9 novembre 2012, n. 19513 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La dichiarazione di assenso ex art. 179, secondo comma, cod. civ. del coniuge formalmente non acquirente, ma partecipante alla stipula dell’atto di acquisto, relativa all’intestazione personale del bene immobile o mobile registrato all’altro coniuge, può assumere natura ricognitiva e portata confessoria – quale fatto sfavorevole al dichiarante e favorevole all’altra parte – sebbene esclusivamente di presupposti di fatto già esistenti, laddove sia controversa, tra i coniugi stessi, l’inclusione del medesimo bene nella comunione legale. Analoga efficacia in favore del coniuge formalmente acquirente non può, invece, attribuirsi ad una tale dichiarazione nel diverso giudizio fra i coeredi di colui che l’aveva resa, terzi rispetto al suddetto atto, in cui si discuta della configurabilità del menzionato acquisto come una donazione indiretta di quello stesso bene in favore del coniuge da ultimo indicato, nonché della sussistenza dei presupposti per il suo conferimento nella massa ereditaria del “de cuius”. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva qualificato come donazione indiretta, conseguentemente assoggettandola a collazione, l’acquisito di un immobile successivamente al matrimonio da parte di uno dei coniugi, in relazione al quale era stato provato il diretto versamento del prezzo all’alienante ad opera dell’altro, negando rilievo alla contraria dichiarazione di quest’ultimo contenuta nell’atto di acquisto).
Cass. civ. Sez. VI, 17 ottobre 2012, n. 17805 (Fisco, 2012, 42, 6771, nota di BORGOGLIO)
L’accertamento fondato sulla spesa patrimoniale può essere confutato dimostrando che il denaro sborsato per la spesa medesima è in realtà stato elargito da terzi. In tal modo, infatti, non vi è alcuna manifestazione di capacità contributiva occultata, in quanto, al massimo, ciò può essere ravvisato in capo al soggetto che ha fornito il de¬naro. Pertanto, nel caso di acquisto di immobile effettuato dal figlio, ove il genitore, comparso in atto, ha di fatto elargito il denaro, si è in presenza di una donazione indiretta non del denaro ma dell’immobile, con tutto ciò che ne può conseguire in merito alla prova contraria sull’accertamento fondato sulla spesa patrimoniale.
Nel caso di acquisto di un bene immobile con denaro proprio del disponente e intestazione ad altro soggetto che il disponente stesso intende beneficiare, si configura la donazione indiretta dell’immobile e non del denaro usato per l’acquisto. Detto atto simulato, avente causa gratuita, può costituire prova contraria dell’accertamento effettuato ex art. 38 del D.P.R. n. 600/1973.
Trib. Vicenza, 5 giugno 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La possibilità che l’atto di contestazione con firma e disponibilità disgiunte di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito, costituisca donazione indiretta, ricorre solo quando sia verificata l’esistenza dell’a¬nimus donandi, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della con¬testazione, altro scopo che quello di liberalità. E’ da escludere una tale volontà laddove appaia evidente come il de cuius, vivendo da solo ed avviandosi verso la vecchiaia, aveva inteso cointestare i suoi rapporti bancari con le sorelle, al solo scopo di fronteggiare una qualche evenienza negativa che potesse impedirgli di dettare per¬sonalmente disposizioni alla Banca, sentendosi, però, sempre il titolare esclusivo dei rapporti, disponendone a suo piacimento e non preoccupandosi di ottenere il consenso delle cointestatarie prima di ordinare una qualche operazione.
Trib. Padova Sez. I, 4 maggio 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel negotium mixtum cum donatione la causa del contratto ha natura onerosa, ma il negozio commutativo stipulato tra i contraenti ha lo scopo di raggiungere per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa ed ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arric¬chimento, per puro spirito di liberalità, di quello tra i contraenti che riceve la prestazione di maggior valore, così realizzandosi una donazione indiretta.
Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012, n. 3134 (Trust, 2012, 6, 633)
La donazione indiretta è caratterizzata dal fine perseguito di realizzare una liberalità, e non già dal mezzo, che può essere il più vario, nei limiti consentiti dall’ordinamento, ivi compresi più negozi tra loro collegati, come nel caso in cui un soggetto, stipulato un contratto di compravendita, paghi o si impegni a pagare il relativo prezzo e, essendosene riservata la facoltà nel momento della conclusione del contratto, provveda ad effettuare la di¬chiarazione di nomina, sostituendo a sé, come destinatario degli effetti negoziali, il beneficiario della liberalità, così consentendo a quest’ultimo di rendersi acquirente del bene ed intestatario dello stesso. Né la configurabilità della donazione indiretta è impedita dalla circostanza che la compravendita sia stata stipulata con riserva della proprietà in favore del venditore fino al pagamento dell’ultima rata di prezzo, giacché quel che rileva è che lo stipulante abbia pagato, in unica soluzione o a rate, il corrispettivo, oppure abbia messo a disposizione del be¬neficiario i mezzi per il relativo pagamento.
L’intestazione fiduciaria di un bene, frutto della combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti ob¬bligatori a vantaggio del fiduciante, ha luogo solo ove il trasferimento vero e proprio in favore del fiduciario sia limitato dall’obbligo, inter partes, del ritrasferimento al fiduciante o al beneficiario da lui indicato, in ciò espli¬candosi il contenuto del pactum fiduciae. Manca, dunque, nell’istituto qualsiasi intento liberale del fiduciante verso il fiduciario e la posizione di titolarità creata in capo a quest’ultimo è soltanto provvisoria e strumentale al ritrasferimento a vantaggio del fiduciante. Qualora, dunque, l’effetto reale non risulta essere accompagnato da alcun patto contenente l’obbligo della persona nominata di modificare la posizione ad essa facente capo a favore dello stipulante o di altro soggetto da costui designato, non può intendersi posto in essere il menzionato negozio. Stante quanto innanzi, la fattispecie dell’acquisito di un’azienda da parte del nominato con denaro del preteso fiduciante, stipulante, deve correttamente qualificarsi come donazione indiretta e non come intesta¬zione fiduciaria.
Affinché si verifichi l’intestazione fiduciaria di un bene, che deriva dalla combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti obbligatori a vantaggio del fiduciante, è necessario che il trasferimento in favore del fidu¬ciario sia limitato dall’obbligo, inter partes, del ritrasferimento al fiduciante o al beneficiario da lui indicato, in ciò esplicandosi il contenuto del pactum fiduciae, in mancanza del quale non si può ritenere sussistente l’intestazio¬ne fiduciaria del bene, bensì una donazione indiretta.
Trib. Bassano del Grappa, 19 ottobre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel cosiddetto negotium mixtun cum donatione, la causa del contratto ha natura onerosa, ma il negozio commu¬tativo stipulato dai contraenti ha la finalità di raggiungere, per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arric¬chimento, per puro spirito di liberalità, di quello dei contraenti che riceve la prestazione di maggior valore, con ciò realizzando il negozio posto in essere una fattispecie di donazione indiretta. Ne consegue che la compraven¬dita ad un prezzo inferiore a quello effettivo non integra, di per sé stessa, un negotium mixtum cum donatione, essendo, all’uopo, altresì necessario non solo la sussistenza di una sproporzione tra prestazioni, ma anche la significativa entità di tale sproporzione, oltre alla indispensabile consapevolezza, da parte dell’alienante, dell’in¬sufficienza del corrispettivo ricevuto rispetto al valore del bene ceduto, funzionale all’arricchimento di contropar¬te acquirente della differenza tra il valore reale del bene e la minore entità del corrispettivo ricevuto. Incombe poi alla parte che intenda far valere in giudizio la simulazione relativa nella quale si traduce il negotium mixtum cum donatione, l’onere di provare sia la sussistenza di una sproporzione di significativa entità tra le prestazioni, sia la consapevolezza di essa e la sua volontaria accettazione da parte dell’alienante in quanto indotto al trasferimento del bene a tali condizioni dall’animus donandi nei confronti dell’acquirente. A tal proposito deve rilevarsi come la consulenza tecnica d’ufficio non sia mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze. Ne consegue che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed e quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati.
Trib. Roma Sez. VIII, 30 maggio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di donazione indiretta di un immobile, realizzata mediante l’acquisto del bene con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente medesimo intenda in tal modo beneficiare, la compravendita costituisce lo strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario, che ha quindi ad oggetto il bene e non già il denaro. Tuttavia, alla riduzione di siffatta liberalità indiretta non si applica il principio della quota legittima in natura (connaturata all’azione nell’i¬potesi di donazione ordinaria di immobile ex art. 560 c.c.), poiché l’azione non mette in discussione la titolarità dei beni donati e l’acquisizione riguarda il loro controvalore, mediante il metodo dell’imputazione; pertanto mancando il meccanismo di recupero reale della titolarità del bene, il valore dell’investimento finanziato con la donazione indiretta dev’essere ottenuto dal legittimario leso con le modalità tipiche del diritto di credito.
Cass. civ. Sez. II, 17 novembre 2010, n. 23215 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel negotium mixtum cum donatione, la causa del contratto ha natura onerosa ma il negozio commutativo stipu¬lato tra i contraenti ha lo scopo di raggiungere per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le presta¬zioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arricchimento, per puro spirito di liberalità, di quello tra i contraenti che riceve la prestazione di maggior valore realizzandosi così una donazione indiretta. Per la validità di tale “negotium” non é necessaria la forma della donazione ma quella prescritta per lo schema negoziale effettivamente adottato dalle parti, sia perché l’art. 809 cod. civ., nel sancire l’applicabilità delle norme sulle donazioni agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 cod. civ., non richiama l’art. 782 cod. civ., che prescrive la forma dell’atto pubblico per la donazione, sia perché, essendo la norma appena richiamata volta a tutelare il donante, essa, a differenza delle norme che tutelano i terzi, non può essere estesa a quei negozi che perseguono l’intento di liberalità con schemi negoziali previsti per il raggiungimento di finalità diverse.
Trib. Milano Sez. IV, 15 maggio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi in cui una dazione di denaro costituisca il mezzo per lo specifico fine dell’acquisto di un immobile si è in presenza di un’ipotesi di donazione, indiretta del bene immobile, fattispecie la cui configurazione non richiede la necessaria articolazione in attività tipiche da parte del donante (pagamento diretto del prezzo all’alienante, presenza alla stipulazione, sottoscrizione d’un contratto preliminare in nome proprio), necessario e sufficiente al riguardo essendo la prova del collegamento tra elargizione del denaro ed acquisto, e cioè la finalizzazione della dazione del denaro all’acquisto.
Cass. civ. Sez. I, 12 maggio 2010, n. 11496 (Famiglia e Diritto, 2011, 4, 348, nota di MARI, RIDELLA)
L’acquisto di un immobile con denaro del disponente e intestazione ad altro soggetto (che il primo intende, in tal modo, beneficiare) integra una donazione indiretta dell’immobile e non del denaro. All’azione di riduzione di liberalità indirette è inapplicabile il principio della quota legittima in natura, cosicché il legittimario leso deve far valere le sue pretese con le modalità tipiche del diritto di credito. Fallito il donatario, la domanda deve essere sottoposta al rito concorsuale dell’accertamento del passivo ex art. 52 e 93 della legge fallimentare – R.D. n. 267/1942.
Nell’ipotesi di donazione indiretta di un immobile, realizzata mediante l’acquisto del bene con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente medesimo intenda in tal modo beneficiare, la compravendita costituisce lo strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario, che ha quindi ad oggetto il bene e non già il denaro. Tuttavia, alla riduzione di siffatta liberalità indiretta non si applica il principio della quota legittima in natura (connaturata all’azione nell’ipotesi di donazione ordinaria di immobile ex art. 560 cod. civ.), poiché l’azione non mette in discussione la titolarità dei beni donati e l’acquisizione riguarda il loro controvalore, mediante il metodo dell’imputazione; pertanto mancando il meccanismo di recupero reale della titolarità del bene, il valore dell’investimento finanziato con la donazione indiretta dev’essere ottenuto dal legittimario leso con le modalità tipiche del diritto di credito, con la conseguenza che, nell’ipotesi di fallimento del beneficiario, la domanda è sottoposta al rito concorsuale dell’accertamento del passivo ex artt. 52 e 93 della legge fallimentare.
Trib. Mondovì, 15 febbraio 2010 (Famiglia e Diritto, 2010, 7, 709, nota di CORDIANO)
La cointestazione di un conto corrente bancario, relativa a somme già depositate e originariamente appartenenti ad uno dei cointestatari, non costituisce donazione indiretta, se non venga provata l’esistenza della funzione do¬nativa, nella specie integrata da un atto di rinuncia alle pretese di rendicontazione e di restituzione delle somme prelevate, che indichi una dismissione dei diritti sorretta da un intento liberale.
Cass. civ. Sez. II, 14 gennaio 2010, n. 468
Occorre premettere, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte e ricordato dalla sentenza impugnata, che “per la validità delle donazioni indirette, cioè di quelle liberalità realizzate ponendo in essere un negozio tipico diverso da quello previsto dall’art. 782 c.c. non è richiesta la forma dell’atto pubblico, essendo sufficiente l’os¬servanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità, dato che l’art. 809 c.c. nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c., non richiama l’art. 782 c.c., che prescrive l’atto pubblico per la donazione”.
Perché possa ravvisarsi una donazione, peraltro, è necessario che chi assume di essere beneficiario della dona¬zione, fornisca la prova della volontà del preteso donante di porre in essere un atto di liberalità. Invero, Orbene, la Corte d’appello, con motivazione immune dai denunciati vizi logici e giuridici, ha escluso la sussistenza, in capo a D.M.C., dell’animus donandi, non ravvisabile in astratto nella delega del titolare di un conto corrente a terzi ad operare sul conto medesimo e sul deposito titoli, ancorché senza obbligo di rendiconto, essendo la delega stata conferita dalla D. M. al ricorrente B.L. in occasione del suo ricovero in ospedale, a distanza di meno di un mese dalla morte; e ciò, ha sottolineato la Corte d’appello, “per l’evidente ragione che non avrebbe più potuto effettuare operazioni bancarie per le sue gravi condizioni di salute”. In tale contesto, la Corte ha altresì ritenuto che la prova, anche presuntiva, che la delega integrasse un atto di liberalità in contrasto con le ultime volontà espresse nel testamento non poteva essere desunta dalla isolata dichiarazione di un teste, resa nel corso del procedimento per sequestro conservativo.
Cass. civ. Sez. II, 3 novembre 2009, n. 23297 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel negotium mixtum cum donatione, la causa del contratto ha natura onerosa ma il negozio commutativo stipu¬lato tra i contraenti ha lo scopo di raggiungere per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arricchimento, per puro spirito di liberalità, di quello tra i contraenti che riceve la prestazione di maggior valore realizzandosi così una donazione indiretta. Per la validità di tale “negotium” non é necessaria la forma della donazione ma quella prescritta per lo schema negoziale effettivamente adottato dalle parti, sia perché l’art. 809 cod. civ., nel sancire l’applicabilità delle norme sulle donazioni agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 cod. civ., non richiama l’art. 782 cod. civ., che prescrive la forma dell’atto pubblico per la donazione, sia perché, essendo la norma appena richiamata volta a tutelare il donante, essa, a differenza delle norme che tutelano i terzi, non può essere estesa a quei negozi che perseguono l’intento di liberalità con schemi negoziali previsti per il raggiungimento di finalità diverse.
Cass. civ. Sez. II, 2 settembre 2009, n. 19099 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di atti di liberalità, il “negotium mixtum cum donatione” costituisce una donazione indiretta in quanto, attraverso la utilizzazione della compravendita, si realizza il fine di arricchire il compratore della differenza tra il prezzo pattuito e quello effettivo; pertanto, non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per la donazione diretta, essendo, invece, sufficiente la forma dello schema negoziale adottato; poiché, l’art. 809 cod. civ., nel sancire l’applicabilità delle norme sulle donazioni agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 cod. civ., non richiama l’art. 782 cod. civ., che prescrive l’atto pubblico per la donazione.
Trib. Monza Sez. I, 20 maggio 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di donazioni, l’oggetto della liberalità va individuato nel bene effettivamente conseguito al donatario e non, invece, nella depauperazione del donante. Pertanto, nel caso specifico di dazione di denaro operata da un terzo per l’acquisto di un bene immobile, poi effettivamente acquistato, si parla di donazione indiretta dell’im¬mobile compravenduto.
Trib. Pesaro, 28 febbraio 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La forma richiesta per la donazione indiretta è la stessa del negozio – mezzo utilizzato.
Cass. civ. Sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983 (Foro It., 2009, 4, 1, 1103)
La possibilità che costituisca donazione indiretta l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito – qualora la predetta somma, all’atto della cointe¬stazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari – può essere qualificato come donazione indiret¬ta solo quando sia verificata l’esistenza dell’”animus donandi”, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità.
La S.C., in una fattispecie nella quale gli eredi di una defunta chiedevano il rimborso alla cointestataria di un libretto di risparmio del 50 per cento della somma portata dal libretto, da quest’ultima incassata per intero, ha enunciato il principio per cui la possibilità che costituisca donazione indiretta l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito – qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari – è legata all’apprez¬zamento dell’esistenza dell’ “animus donandi”, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità.
Non si configura una liberalità d’uso, né una donazione indiretta in caso di cointestazione di un libretto bancario su cui erano state in precedenza depositate somme di denaro appartenenti ad uno solo dei cointestatari, allor¬quando difetti la prova che, all’atto della cointestazione, il proprietario del denaro non avesse altro scopo che quello di liberalità (nella specie, è stata confermata la pronuncia di merito secondo cui la cointestataria non pro¬prietaria del denaro originariamente versato non aveva fornito la dimostrazione di un atto volontario e spontaneo di disposizione patrimoniale in suo favore da parte di chi aveva aperto il libretto, in considerazione dell’assistenza morale e materiale ricevuta).
Cass. civ. Sez. II, 6 novembre 2008, n. 26746 (Fam. Pers. Succ., 2009, 5, 410, nota di MASSELLA DUCCI TERI)
Ai fini della configurabilità della donazione indiretta d’immobile, è necessario che il denaro venga corrisposto dal donante al donatario allo specifico scopo dell’acquisto del bene o mediante il versamento diretto dell’importo all’alienante o mediante la previsione della destinazione della somma donata al trasferimento immobiliare. Non ricorre, pertanto, tale fattispecie quando il danaro costituisca il bene di cui il donante ha inteso beneficiare il donatario e il successivo reimpiego sia rimasto estraneo alla previsione del donante.
Cass. civ. Sez. I, 12 settembre 2008, n. 23545 (Nuova Giur. Civ., 2009, 4, 1, 355, nota di FAROLFI)
Accertata la natura personale del bene acquistato in regime di comunione da uno dei coniugi con denaro in parte proveniente dal patrimonio dell’altro coniuge, è necessario qualificare giuridicamente il titolo della dazione al fine di verificare se sussistano i presupposti dell’obbligo di restituzione della metà del denaro versato a titolo di prez¬zo, potendo tale fattispecie integrare una donazione diretta del denaro o una donazione indiretta del bene, nel caso di dazione del denaro quale mezzo per l’unico e specifico fine dell’acquisto, oppure un contratto di mutuo.
Trib. Torino Sez. II, 5 agosto 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Costituisce donazione indiretta la cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di danaro depositata presso un istituto di credito, qualora la detta somma, all’atto della cointestazione risulti essere appar¬tenuta ad uno solo dei contestatari.
Trib. Bari, 16 aprile 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La dazione di somme di denaro da parte della moglie al marito, utilizzate da questo per l’acquisto di un immobile, costituisce valida donazione indiretta. Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto che il disponente stesso intende in tal modo beneficiare, si verifica una dona¬zione indiretta dell’immobile (non del denaro) per la quale non è necessaria la forma dell’atto pubblico prevista per la donazione, ma basta l’osservanza della forma richiesta per l’atto da cui la donazione indiretta risulta.
Trib. Benevento, 4 dicembre 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per l’esistenza, in favore del proprietario coltivatore diretto del fondo rustico confinante con quello ceduto, del diritto di prelazione e del correlativo diritto di riscatto, per il combinato disposto di cui all’art. 8, comma 1, L. n. 590/1965 e dell’art. 7, comma 2, L. n. 817/1971, è necessario che il trasferimento sia a titolo oneroso, mentre se la compravendita è utilizzata al fine di arricchire il compratore della differenza tra il valore del bene ed il prezzo stabilito, è configurarle un negotium mixtum cum donatione, che costituisce donazione indiretta e, pertanto, la predetta disciplina è inapplicabile.
Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 2007, n. 12496 (Fam. Pers. Succ., 2008, 8-9, 701, nota di MONTEVERDE)
Al fine di accertare l’esistenza o meno di una donazione indiretta deve sempre verificarsi la sussistenza dello spirito di liberalità, requisito comunque necessario per la configurabilità come donazione indiretta del comportamento proces¬sualmente inerte del proprietario di un determinato immobile in relazione alla domanda proposta nei suoi confronti da parte di un terzo di accertamento dell’avvenuto acquisto per usucapione della proprietà di quello stesso bene.
Cass. civ. Sez. II, 30 gennaio 2007, n. 1955 (Contratti, 2007, 8-9, 753, nota di CERIO)
Nel cosiddetto “negotium mixtun cum donatione” la causa del contratto ha natura onerosa ma il negozio com¬mutativo stipulato dai contraenti ha la finalità di raggiungere, per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’ar¬ricchimento, per puro spirito di liberalità, di quello dei contraenti che riceve la prestazione di maggior valore. Pertanto, realizza una donazione indiretta, per la quale è sufficiente la forma prescritta per il tipo di negozio adottato dalle parti e non è necessaria quella prevista per la donazione diretta, il contratto preliminare con cui, allo scopo di arricchire il promissario acquirente, il promittente venditore consapevolmente si obblighi a vendere l’immobile per un prezzo pari al valore catastale).
Cass. civ. Sez. II, 7 giugno 2006, n. 13337 (Obbl. e Contr., 2006, 12, 1033, nota di GENNARI)
In tema di atti di liberalità, il “negotium mixtum cum donatione” costituisce una donazione indiretta in quanto, attraverso la utilizzazione della compravendita, si realizza il fine di arricchire il compratore della differenza tra il prezzo pattuito e quello effettivo; pertanto, non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per la donazione diretta, essendo, invece, sufficiente la forma dello schema negoziale adottato; poiché, l’art. 809 cod. civ., nel sancire l’applicabilità delle norme sulle donazioni agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 cod. civ., non richiama l’art. 782 cod. civ., che prescrive l’atto pubblico per la donazione.
Trib. Bologna Sez. IV, 6 giugno 2006 (Obbl. e Contr., 2006, 12, 1037, nota di SCHIAVONE)
Nella delegazione di pagamento, qualora non sussista alcun rapporto obbligatorio tra delegante e delegato, si versa in un’ipotesi di delegazione “allo scoperto”. In tale ipotesi, l’atto solutorio posto in essere dal delegato nei confronti del delegatario si qualifica nei confronti del delegante o come mutuo o come atto di liberalità o come mandato. Se manca un corrispettivo o altro elemento di utilità per il delegato, si tratta di donazione indiretta, in quanto tale revocabile, in caso di fallimento del donante, ai sensi dell’art. 64 legge fallimentare (R.D. n. 267/1942).
Cass. civ. Sez. II, 30 marzo 2006, n. 7507 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché con la donazione indiretta le parti realizzano l’intento di liberalità utilizzando uno schema negoziale aven¬te causa diversa, configura piuttosto una donazione diretta l’accollo interno con cui l’accollante, allo scopo di arricchire la figlia con proprio impoverimento, si sia impegnato nei confronti di quest’ultima a pagare all’Istituto di credito le rate del mutuo bancario dalla medesima contratto, atteso che la liberalità non è un effetto indiretto ma la causa dell’accollo, sicché l’atto – non rivestendo i requisiti di forma prescritti dall’art. 782 cod. civ.- deve ritenersi inidoneo a produrre effetti diversi dalla “soluti retentio” di cui all’art. 2034 cod. civ.
Trib. Napoli, 20 marzo 2006 (Corriere del Merito, 2006, 12, 1392)
La dazione di somme di danaro da parte della moglie al marito, utilizzate da queste per l’acquisto di un immobile, costituisce valida donazione indiretta, sempre che siano rispettate le forme di legge, né rileva l’eventuale suc¬cessiva separazione dei coniugi, perché la causa del negozio, lo spirito di liberalità, va valutato con riferimento al momento della dazione.
Trib. Gallarate, 24 novembre 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Qualora sia stata data prova che l’acquisto di un immobile è avvenuto attraverso esborsi effettuati dai genitori di uno dei coniugi, il bene è qualificabile come bene personale di costui e l’operazione posta in essere dai primi ha natura di donazione indiretta; pertanto, l’immobile deve essere considerato bene escluso dalla comunione legale ai sensi dell’art. 179, lett. b), c.c.
Cass. civ. Sez. II, 25 ottobre 2005, n. 20638 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente medesimo intenda in tal modo beneficiare, si configura la donazione indiretta dell’immobile e non del denaro impiegato per l’acquisto; pertanto, in caso di collazione, secondo le previsioni dell’art. 737 cod. civ., il conferimento deve avere ad oggetto l’immobile e non il denaro.
Trib. Genova Sez. III, 13 ottobre 2005 (Obbl. e Contr., 2006, 3, 266, nota di SCHIAVONE)
Qualora la donazione di denaro sia finalizzata all’acquisto di un immobile, il quale sia individuato dallo stesso donante, senza alcuna autonoma determinazione da parte del donatario, l’atto si qualifica come donazione in¬diretta dell’immobile. Di conseguenza il relativo bene non rientra nella comunione legale dei coniugi ma è bene personale del coniuge donatario.
Qualora, dalle prove assunte in corso di causa, emerga che l’immobile in contestazione è oggetto di donazione indiretta da parte del de cuius a favore della figlia, lo stesso non cade nella comunione dei beni con l’ex marito della stessa. Infatti, la donazione indiretta deve essere ricompresa, nella previsione di cui all’art. 179 c.c., lett. b).
Trib. Bologna Sez. II, 7 marzo 2005 (Guida al Diritto, 2005, 36, 79)
Nell’ipotesi di donazione di una somma di denaro cui faccia seguito l’acquisto di un immobile da parte del be¬neficiario, occorre distinguere l’ipotesi in cui tale somma venga utilizzata da quest’ultimo in virtù di una propria autonoma determinazione da quella in cui il donante fornisca il denaro quale mezzo per l’acquisto dell’immobile e questo sia l’unico specifico fine, se pur mediato, della donazione perché ove il denaro venga dato a quel pre¬cipuo scopo il collegamento tra l’elargizione della somma da parte del disponente e l’acquisto del bene da parte del. beneficiario porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dello stesso immobile e non di una donazione del denaro impiegato per il suo acquisto. Né la donazione indiretta di un immobile deve arti¬colarsi in attività tipiche da parte del donante (pagamento diretto del prezzo all’alienante, presenza alla stipula, sottoscrizione di un contratto preliminare in nome proprio) essendo necessario, ma anche sufficiente, che sia provato il collegamento tra l’elargizione del denaro e l’acquisto e cioè la finalizzazione della dazione del denaro all’acquisto stesso.
Cass. civ. Sez. II, 29 settembre 2004, n. 19601 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel cosiddetto negotium mixtum cum donatione la causa del contratto ha natura onerosa, ma il negozio com¬mutativo stipulato dai contraenti ha la finalità di raggiungere, per via indiretta, attraverso la voluta sproporzio¬ne tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa ed ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arricchimento, per puro spirito di liberalità, di quello dei contraenti che riceve la prestazione di maggior valore, con ciò realizzando il negozio posto in essere una donazione indiretta. Ne consegue che la compravendita ad un prezzo inferiore al valore effettivo non integra, di per sé, un negotium mixtum cum donatione, essendo all’uopo altresì necessaria non solo la sussistenza di una sproporzione tra le prestazioni, ma anche la significativa entità di tale sproporzione, oltre all’indispensabile consapevolezza, da parte dell’alienante, dell’insufficienza del corrispettivo ricevuto rispetto al valore del bene ceduto, funzionale all’arricchimento di controparte acquirente; tali elementi costitutivi del negotium mixtum cum donatione debbono essere provati dalla parte che intenda far valere in giudizio la simulazione relativa quale esso si traduce.
Trib. Torino, 15 luglio 2004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La forma solenne dell’atto pubblico alla presenza dei testimoni ex art. 782 c.c. e art. 48, comma 1, legge n. 89 del 1913 non è necessaria per la validità della donazione indiretta di bene immobile.
Trib. Torino Sez. II, 21 maggio 2004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso in cui il denaro sia dato al precipuo scopo dell’acquisto immobiliare e, quindi, o pagato direttamente all’alienante dal disponente, presente alla stipulazione intercorsa tra acquirente e venditore dell’immobile, o pa¬gato al beneficiario dopo averlo ricevuto dal disponente in esecuzione del complesso procedimento che quest’ul¬timo ha inteso adottare per ottenere il risultato della liberalità, con o senza la stipulazione in proprio nome di un contratto preliminare con il proprietario dell’immobile, il collegamento tra l’elargizione del denaro da parte del disponente e l’acquisto del bene da parte del beneficiario porta a concludere che si è in presenza di una dona¬zione indiretta dello stesso immobile.
Per la validità della donazione indiretta non è necessaria la forma solenne dell’atto pubblico alla presenza dei testimoni, ai sensi dell’art. 782 c.c. e art. 48, primo comma, L. n. 89/1913 (legge notarile).
Trib. Padova Sez. I, 3 maggio 2004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il pagamento con versamenti diretti all’agenzia o al venditore di una parte del prezzo di acquisto di un immobile, volta ad estinguere (parzialmente) il debito che la promissoria acquirente aveva assunto con la società venditrice per effetto del contratto preliminare di compravendita, costituisce liberalità attuata mediante adempimento del debito altrui ex art. 1180 c.c., ossia una tipica figura di donazione indiretta – il cui oggetto dovrebbe ritenersi il denaro, ma ciò è poco rilevante ai fini della causa – e come tale non soggetta agli oneri di forma del contratto di donazione.
Cass. civ. Sez. II, 16 marzo 2004, n. 5333 (Guida al Diritto, 2004, 15, 60, nota di SACCHETTINI)
La donazione indiretta è caratterizzata dal fine perseguito di realizzare una liberalità, e non già dal mezzo, che può essere il più vario, nei limiti consentiti dall’ordinamento; realizzazione dunque che può venire attuata anche mediante un collegamento tra più negozi, ossia un preliminare e il pagamento del prezzo, procurando in tal modo al destinatario della liberalità il diritto di rendersi intestatario del bene, non essendo necessaria la forma dell’atto pubblico prevista per la donazione, ma bastando l’osservanza della forma richiesta per l’atto da cui la donazione indiretta risulta.
La donazione indiretta, realizzata attraverso un collegamento negoziale il cui scopo complessivo è l’attuazione di una liberalità a favore del beneficiario, è soggetta soltanto ai requisiti formali che la legge prescrive per i singoli negozi, e non anche a quelli richiesti per la donazione diretta.
La donazione indiretta è caratterizzata dal fine perseguito, che è quello di realizzare una liberalità, e non già dal mezzo, che può essere il più vario, nei limiti consentiti dall’ordinamento, e può essere costituito anche da più negozi tra loro collegati, come nel caso in cui un soggetto, stipulato un preliminare di compravendita di un immobile in veste di promissario acquirente, paghi il relativo prezzo e sostituisca a sé, nella stipulazione del definitivo con il promittente venditore, il destinatario della liberalità, così consentendo a quest’ultimo di rendersi acquirente del bene ed intestatario dello stesso.
Nella donazione indiretta realizzata attraverso l’acquisto del bene da parte di un soggetto con denaro messo a disposizione da altro soggetto per spirito di libertà, l’attribuzione gratuita viene attuata con il negozio oneroso che corrisponde alla reale intenzione delle parti che lo pongono in essere, differenziandosi in tal modo dalla simula¬zione; tale negozio produce, insieme all’effetto diretto che gli è proprio, anche quello indiretto relativo all’arricchi¬mento del destinatario della liberalità, sicché non trovano applicazione alla donazione indiretta i limiti alla prova testimoniale – in materia di contratti e simulazione – che valgono invece per il negozio tipico utilizzato allo scopo.
Cass. civ. Sez. II, 24 febbraio 2004, n. 3642 (Guida al Diritto, 2004, 16, 51)
Nell’ipotesi di donazione di somma di denaro occorre distinguere l’ipotesi in cui questo sia impiegato successi¬vamente dal beneficiario in un acquisto immobiliare con propria autonoma e distinta determinazione, nel qual caso oggetto della donazione rimane il denaro stesso, da quella in cui il donante fornisca il denaro quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che costituisce l’unico specifico fine, se pur mediato, della donazione. Nel caso in cui il denaro sia dato al precipuo scopo dell’acquisto immobiliare e, quindi, o pagato direttamente all’alienante dal disponente, presente alla stipulazione intercorsa tra acquirente e venditore dell’immobile, o pagato dal be¬neficiario dopo averlo ricevuto dal disponente in esecuzione del complesso procedimento che quest’ultimo ha inteso adottare per ottenere il risultato della liberalità, con o senza la stipulazione in proprio nome d’un contratto preliminare con il proprietario dell’immobile, il collegamento tra l’elargizione del denaro da parte del disponente e l’acquisto del bene da parte del beneficiario porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dello stesso immobile e non del denaro impiegato per il suo acquisto. Va escluso, pertanto, che la donazione indiretta dell’immobile debba necessariamente articolarsi in attività tipiche da parte del donante, essendo neces-sario, ma al tempo stesso sufficiente, che sia provato il collegamento tra elargizione del denaro e acquisto, cioè la finalizzazione della dazione del denaro all’acquisto stesso.
La donazione diretta del denaro, successivamente impiegato dal beneficiario in un acquisto immobiliare con pro¬pria autonoma determinazione (caso in cui oggetto della donazione rimane comunque il denaro) va tenuta distinta dalla dazione del denaro quale mezzo per l’unico e specifico fine dell’acquisto dell’immobile, che integra un’ipotesi di donazione indiretta del bene, fattispecie la cui configurazione non richiede peraltro la necessaria articolazione
in attività tipiche da parte del donante (pagamento diretto del prezzo all’alienante, presenza alla stipulazione, sot¬toscrizione d’un contratto preliminare in nome proprio), necessario e sufficiente al riguardo essendo la prova del collegamento tra elargizione del denaro ed acquisto, e cioè la finalizzazione della dazione del denaro all’acquisto. Nel fare applicazione dei suindicati principi, la S.C. ha ritenuto che integri una fattispecie di donazione indiretta dell’immobile, e non già di donazione diretta del denaro impiegato per il suo acquisto, l’ipotesi caratterizzata dalla dazione del denaro con il precipuo scopo dell’acquisto immobiliare, in ragione del ravvisato collegamento tra l’e¬largizione del denaro da parte del disponente e l’acquisto del bene immobile da parte del beneficiario, indifferente al riguardo reputando che la prestazione in favore dell’alienante venga effettuata direttamente dal disponente (presente alla stipulazione intercorsa tra acquirente e venditore dell’immobile) ovvero dallo stesso beneficiario (dopo aver ricevuto il denaro dal disponente ed in esecuzione del complesso procedimento da quest’ultimo inteso adottare per ottenere il risultato della liberalità), con o senza stipulazione in nome proprio d’un contratto prelimi¬nare con il proprietario dell’immobile. Ed ha, d’altro canto, ritenuto al riguardo non indispensabile, bensì solamen¬te utile ad abundatiam, desumere (anche) dall’emissione di assegni non trasferibili tratti direttamente all’ordine del venditore la dimostrazione che oggetto dell’animus donandi manifestato dal disponente nel caso fossero le quote societarie e non già il denaro, unitamente alla considerazione della concomitanza della relativa dazione sia con l’acquisto di tali quote sia con il separato acquisto di rimanenti quote da parte del coniuge del beneficiario e figlio del disponente (di guisa da consentire agli acquirenti la disponibilità in parti eguali dell’intero capitale socia¬le, e, a tale stregua, dell’immobile unico cespite societario); la Corte, peraltro, ha ritenuto al riguardo viceversa irrilevante l’accertarsi se il disponente avesse consegnato al beneficiario assegni in bianco ovvero a favore del medesimo intestati, in ragione della raggiunta conclusione che non già il denaro (quale ne fosse la modalità di trasferimento), bensì le quote sociali hanno nel caso costituito l’oggetto della liberalità, la compravendita delle stesse pertanto assumendo mera funzione strumentale per il conseguimento del fine perseguito.
Trib. Brescia Sez. I, 24 ottobre 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla donazione indiretta non debbono applicarsi né le norme sulla donazione diretta previste dall’art. 769 c.c. – eccezion fatta per la revocazione e la riduzione di cui all’art. 809 c.c. – né, per quanto concerne la forma, quella prevista dall’art. 782 c.c. dovendosi ritenere che essa si sottrae al requisito dell’atto pubblico rimanendo soggetta alla forma prescritta per il tipo contrattuale effettivamente utilizzato e cioè, ex art. 1350 c.c., alla sola forma scritta.
Trib. Padova Sez. II, 28 febbraio 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’estinzione ad opera del padre del debito del figlio risultante dal contratto d’appalto sottoscritto da quest’ultimo con l’impresa esecutrice dei lavori, configura adempimento dell’obbligo altrui e determina donazione indiretta della somma. In conseguenza detta donazione, se lede la quota spettante agli altri legittimari costituisce pre¬supposto per l’accoglimento dell’azione di riduzione.
L’estinzione ad opera del padre del debito del figlio risultante dal contratto d’appalto sottoscritto da quest’ultimo con l’impresa esecutrice dei lavori, configura adempimento dell’obbligo altrui e determina donazione indiretta della somma e non dell’immobile. Il progetto edificatorio non risulta, infatti, riferibile ad iniziativa del “de cuius” bensì frutto di scelte e pattuizioni del figlio proprietario del terreno, fissate nella descrizione dei lavori e nel pre¬ventivo contenuti nella convenzione sottoscritta con la ditta esecutrice, sicché l’apporto paterno deve intendersi riferibile sostanzialmente alla sola estinzione del debito avente ad oggetto il corrispettivo dell’appalto e di tale valore si è arricchito il patrimonio del beneficiato.
Trib. Napoli, 1 marzo 2002 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il “negotium mixtum” con donazione integra una donazione indiretta attuata attraverso l’utilizzazione dello sche¬ma di una compravendita a prezzo di favore; in tale caso, l’arricchimento del beneficiario ricorre limitatamente alla differenza tra il valore di mercato del bene e il prezzo pagato, di guisa che nell’azione di riduzione la sussi¬stenza della lesione della quota spettante per legge ai legittimari va valutata nei limiti della liberalità indiretta.
Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2001, n. 6711 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per l’esistenza, a favore del proprietario coltivatore diretto del fondo rustico confinante con quello ceduto, del diritto di prelazione, e del correlato diritto di riscatto, per il combinato disposto di cui agli art. 8, comma 1, l. 26 maggio 1965 n. 590 e 7, comma 2, n. 2, l. 14 agosto 1971 n. 817, è necessario che il trasferimento sia a titolo oneroso, mentre se la compravendita è utilizzata al fine di arricchire il compratore della differenza tra il valore del bene ed il prezzo stabilito, è configurabile un negotium mixtum cum donatione, che costituisce donazione indiretta, e, pertanto, la predetta disciplina è inapplicabile.
Per l’esistenza, a favore del proprietario coltivatore diretto del fondo rustico confinante con quello ceduto, del diritto di prelazione, e del correlato diritto di riscatto, per il combinato disposto di cui agli art. 8, comma 1, l. 26 maggio 1965 n. 590 e 7, comma 2, n. 2, l. 14 agosto 1971 n. 817, è necessario che il trasferimento sia a titolo oneroso, mentre se la compravendita è utilizzata al fine di arricchire il compratore della differenza tra il valore del bene ed il prezzo stabilito, è configurabile un negotium mixtum cum donatione, che costituisce donazione indiretta, e, pertanto, la predetta disciplina è inapplicabile.
Trib. Monza, 25 gennaio 2001 (Nuova Giur. Civ., 2002, I, 46, nota di MORLOTTI)
Il prelevamento, in forza di regolare delega, del denaro depositato sul conto corrente del padre, prima della di lui morte ed in osservanza del suo desiderio di compensare la figlia per l’assistenza che gli ha prestato, deve essere considerato come una donazione indiretta remuneratoria; la somma così acquisita dalla figlia, non può formare oggetto di divisione ereditaria, ma può, però, essere ridotta al fine di integrare la quota di riserva spettante a sua sorella.
Trib. Napoli Sent., 19 gennaio 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di acquisto di un immobile con denaro del disponente ed intestazione al beneficiario, la configurabilità di una donazione indiretta dell’immobile presuppone il collegamento tra elargizione di denaro e acquisto, ossia la finalizzazione dell’elargizione all’acquisto.
Cass. civ. Sez. I, 14 dicembre 2000, n. 15778 (Famiglia e Diritto, 2001, 136, nota di CIANCI)
Nella ipotesi in cui un soggetto abbia erogato il danaro per l’acquisto di un immobile in capo al proprio figlio, si deve distinguere il caso della donazione diretta del danaro, in cui oggetto della liberalità rimane quest’ultimo, da quello in cui il danaro sia fornito quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che costituisce il fine della donazio¬ne. In tale secondo caso, il collegamento tra l’elargizione del danaro paterno e l’acquisto del bene immobile da parte del figlio porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dell’immobile stesso, e non già del danaro impiegato per il suo acquisto. Ne consegue che, in tale ipotesi, il bene acquisito successivamente al matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, è ricompreso tra quelli esclusi da detto regime, ai sensi dell’art. 179, lett. b), c.c., senza che sia necessario che il comportamento del donante si articoli in attività tipiche, essendo, invece, sufficiente la dimostrazione del collegamento tra il negozio – mezzo con l’arricchimento di uno dei coniugi per spirito di liberalità. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la S.C. ha escluso che fosse ricompreso nel regime di comunione legale l’immobile acquisito successivamente al matrimonio da uno dei coniugi, in relazione al quale era stato documentalmente provato il diretto versamento di somme alla coopera¬tiva, da parte del genitore di questo, all’atto dell’assegnazione dell’immobile stesso – senza che potesse assu¬mere rilievo la circostanza, risultante dall’atto pubblico di assegnazione, e ritenuta, invece, dai giudici di merito ostativa alla configurabilità di una donazione indiretta, che il restante maggior prezzo dovesse essere versato dall’intestatario del bene mediante accollo della quota di mutuo di pertinenza dell’immobile, avuto riguardo al comprovato versamento, da parte del genitore, delle relative rate).
Nell’ipotesi in cui un soggetto abbia erogato il danaro per l’acquisto di un immobile in capo al proprio figlio, si deve distinguere il caso della donazione diretta del danaro, in cui oggetto della liberalità rimane quest’ultimo, da quello in cui il danaro sia fornito quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che costituisce il fine della donazio¬ne. In tale secondo caso, il collegamento tra l’elargizione del danaro paterno e l’acquisto del bene immobile da parte del figlio porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dell’immobile stesso e non già del danaro impiegato per il suo acquisto. Ne consegue che, in tale ipotesi, il bene acquisito successivamente al matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale è compreso tra quelli esclusi da detto regime, ai sensi dell’art. 179, lett. b, c.c., senza che sia necessario che il comportamento del donante si articoli in attività tipiche, essendo, invece, sufficiente la dimostrazione del collegamento tra il negozio – mezzo con l’arricchimento di uno dei coniugi per lo spirito di liberalità.
Non costituisce oggetto della comunione legale il bene immobile acquistato da uno dei coniugi, durante il matri¬monio, con denaro proveniente da un terzo, in quanto in tale ipotesi si configura una donazione indiretta dell’im¬mobile a favore solo ed esclusivamente del destinatario dell’elargizione della somma di danaro.
La donazione indiretta del bene immobile non deve necessariamente articolarsi in attività tipiche da parte del donante (pagamento diretto del prezzo all’alienante, presenza alla stipula ed accollo del mutuo, assunzione dell’obbligo di rivalere il figlio di quanto avrebbe pagato), essendo necessario (ma al tempo stesso sufficiente) che venga provato il collegamento tra elargizione del denaro e acquisto, e cioè la finalizzazione della dazione del denaro all’acquisto stesso.
Il bene acquistato da uno solo dei coniugi in regime di comunione legale con denaro di un terzo è oggetto di donazione indiretta e rientra tra i beni personali.
Nell’ipotesi in cui un soggetto (il padre) abbia erogato il denaro occorrente per l’acquisto di un immobile in capo ad un soggetto (il figlio, in comunione legale con il proprio coniuge), si deve distinguere il caso della donazione diretta del denaro, in cui oggetto della liberalità rimane la somma, dal caso in cui il denaro sia stato fornito quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che costituisce il fine della donazione; in tale secondo caso, il collegamento tra la elargizione del denaro paterno e l’acquisto del bene da parte del figlio porta a concludere che si sia in presenza di una donazione indiretta dell’immobile e non già del denaro impiegato per l’acquisto: ne consegue che, in tale ipotesi, il bene acquistato, dopo il matrimonio, dal figlio è escluso dal regime di comunione legale, ai sensi dell’art. 179 lett. b) c.c., senza che sia necessario che il comportamento del donante si articoli in attività tipiche, essendo necessaria, ma sufficiente la dimostrazione del collegamento tra il c. d. negozio – mezzo e l’ar¬ricchimento del coniuge onorato per spirito di liberalità
Trib. Firenze, 3 ottobre 2000 (Arch. Civ., 2001, 1268, nota di SANTARSIERE)
Nel caso di acquisto di un immobile, che si intesti ad altro soggetto per liberalità, la vendita costituisce lo stru¬mento per attuare l’arricchimento del destinatario, quale donazione indiretta del bene, il cui valore al tempo dell’apertura della successione formerà oggetto del conferimento in collazione.
Cass. civ. Sez. II, 22 settembre 2000, n. 12563 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto che il disponente intende in tal modo beneficiare, l’atto integra una donazione indiretta del bene stesso co¬stituendo strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario.
Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2000, n. 12552 (Giur. It., 2001, 757, nota di DIMARTINO)
Dalla cointestazione di un contratto di deposito in custodia e amministrazione di titoli al portatore non discende la comproprietà dei titoli acquistati con denaro appartenente ad uno solo dei cointestatari, tranne che le circostanze del caso concreto rivelino in maniera univoca la volontà delle parti di realizzare una donazione.
Cass. civ. Sez. II, 27 luglio 2000, n. 9872 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sopravvenienza dell’”animus donandi” alla realizzazione di un’opera su suolo altrui, può configurare una dona¬zione indiretta a favore del proprietario del suolo lasciando prescrivere il diritto all’indennità ex art. 936, comma 2, c.c. ovvero rinunciando all’indennità.
Cass. civ. Sez. II, 21 gennaio 2000, n. 642 (Contratti, 2000, 7, 653, nota di RADICE)
Con il negotium mixtum cum donatione le parti, attraverso un contratto tipico oneroso, attuano anche una dona¬zione indiretta; pertanto, non è necessaria la forma solenne prescritta per la donazione diretta, ma è sufficiente la forma propria del negozio oneroso effettivamente utilizzato.

Il negotium mixtum cum donatione costituisce una donazione indiretta attuata attraverso la utilizzazione della compravendita al fine di arricchire il compratore della differenza tra il prezzo pattuito e quello effettivo, per la quale non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per la donazione diretta, essendo, invece, sufficiente la forma dello schema negoziale adottato.
Cass. civ. Sez. I, 1 ottobre 1999, n. 10850 (Foro It., 2000, I, 2919)
La sola cointestazione del contratto di custodia e amministrazione di titoli a coniugi in regime di separazione dei beni non è sufficiente a dimostrare la volontà del coniuge, con il denaro del quale i titoli sono stati acquistati, di disporre della metà dei beni a titolo di liberalità.
Cass. civ. Sez. I, 29 maggio 1999, n. 5265 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La disciplina del negotium mixtum cum donatione obbedisce al criterio della prevalenza, nel senso che ricorre la donazione remuneratoria (che esige la forma solenne richiesta per le donazioni tipiche) quando risulti la pre¬valenza dell’animus donandi, laddove si avrà invece un negozio a titolo oneroso, che non abbisogna della forma solenne, quando l’attribuzione patrimoniale venga effettuata in funzione di corrispettivo o in adempimento di una obbligazione derivante dalla legge o in osservanza di un dovere nascente dalle comuni norme morali e sociali che si riveli assorbente rispetto all’animus donandi. (Nella specie, la convivente di un soggetto sieropositivo al virus HIV aveva ricevuto da quest’ultimo una somma di danaro prima che la convivenza avesse termine: i giudici di merito, con sentenza confermata dalla S.C., qualificato l’atto come negotium mixtum cum donatione, ne avevano evidenziato la prevalenza dell’aspetto risarcitorio su quello di liberalità, rigettando la richiesta di restituzione del ricorrente).
Trib. Terni, 29 settembre 1998 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso in cui un coniuge paghi al venditore con denaro proprio il prezzo di un immobile che venga però intestato all’altro coniuge, è configurabile una donazione indiretta dell’immobile, essendosi comunque realizzato lo schema della donazione, consistente nell’arricchimento del donatario, con corrispondente depauperamento del donante.
Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 1998, n. 5310 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con danaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente intende in tal modo beneficiare, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario e, quindi, integra donazione indiretta del bene stesso, non del danaro.
Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 1998, n. 4680 (Famiglia e Diritto, 1998, 4, 323 nota di GIOIA)
La donazione indiretta consiste nell’elargizione di una liberalità che viene attuata, anziché con il negozio tipico dell’art. 769 c.c., mediante un negozio oneroso che produce, in concomitanza con l’effetto diretto che gli è pro¬prio ed in collegamento con altro negozio, l’arricchimento animo donandi del destinatario della liberalità medesi¬ma. Ne deriva che non sussiste un’ontologica incompatibilità della donazione indiretta con la norma dell’art. 179 lett. b) c.c., sicché il bene oggetto di essa non deve necessariamente rientrare nella comunione legale.
Muovendo dalla premessa che, nel caso di specie, si configurava la donazione indiretta dell’immobile, ossia un atto di liberalità attuato, anziché con il contratto tipico previsto dall’art. 769 c.c., mediante un procedimento costituito da più negozi tra loro collegati, la Corte di merito ha escluso che detta donazione potesse rientrare nella previsione dell’art. 179 lett. b) c.c., sulla base della considerazione che l’acquisto del diritto di proprietà da parte del beneficiario costituisce effetto immediato e diretto del contratto di vendita, mentre lo scopo di liberalità risulta estraneo alla causa di tale contratto, con la conseguenza che, ove si volesse ricomprendere l’atto di libe¬ralità (indiretta) nell’ambito dei beni personali del coniuge, si applicherebbe al contratto di vendita la disciplina dettata per la donazione.
Trattasi, all’evidenza, di ragionamento sostanzialmente tautologico: dalla mera descrizione del fenomeno e del meccanismo negoziale con il quale si realizza non può, infatti, discendere automaticamente l’esclusione del bene, oggetto di donazione indiretta, da quelli personali del coniuge, ai sensi dell’art. 179 lett. b) c.c., occorrendo ve¬rificare se, indipendentemente dal rilievo che la proprietà dell’immobile si acquista per effetto della vendita, sia consentito limitare la portata della norma in esame alle sole donazioni regolate dall’art. 769 c.c. In altri termini, il ragionamento seguito dal giudice di merito si risolve nell’affermazione che il bene oggetto di donazione indiretta deve necessariamente essere ricompreso nella comunione legale sol perché non è conseguenza di una donazione tipica (diretta) ed in quanto la forma richiesta è quella dell’atto da cui la donazione indiretta risulta: finisce, cioé, per svilire lo stesso procedimento negoziale per mezzo del quale si attua lo scopo di liberalità, senza neppure dar conto della rilevanza che assume, nella formulazione dell’art. 179 lett. b) c.c., l’uso del termine “liberalità”, con riferimento alla possibilità (legislativamente prevista: art. 809 c.c.) che essa risulti da atti diversi da quelli indicati nell’art. 769 c.c. Se la donazione indiretta consiste nell’elargizione di una liberalità che viene attuata, anziché con il negozio tipico dell’art. 769 c.c., mediante un negozio oneroso che produce, in concomitanza con l’effetto diretto che gli è proprio ed in collegamento con altro negozio, l’arricchimento “animo donandi” del desti¬natario della liberalità medesima (cfr. Cass. 5410/89 e la fondamentale SS.UU. 9282/92), per negare l’inclusione della donazione indiretta nell’ipotesi prevista dall’art. 179 lett. b) c.c. nessun argomento decisivo può trarsi dalla causa del contratto di vendita, che rappresenta il negozio – mezzo, produttivo dei suoi effetti normali, rispetto al c.d. negozio – fine: la donazione indiretta altro non è che la risultante della combinazione di tale negozi, dalla cui funzione non può ritenersi comunque estranea la finalità di arricchimento senza corrispettivo.
Quanto alla tesi, sostenuta nella sentenza impugnata, secondo cui il regime della comunione legale dei beni riveste carattere generale e deve trovare, quindi, la massima sfera di operatività, è sufficiente osservare che, come riconosce la stessa Corte napoletana, il legislatore non ha certamente ritenuto siffatto carattere ostativo all’esclusione di determinati beni: il problema, cioé, non consiste nell’interpretazione astensiva o meno della norma contenuta nell’art. 179 lett. b) c.c., ma nell’individuazione della sua effettiva portata e di precise ragioni, anche d’ordine sistematico, che eventualmente possano giustificare l’esclusione della donazione indiretta (o meglio, del bene oggetto di essa) dall’ambito della norma medesima. A ciò si aggiunga che questa Corte, con la recente sentenza n. 11327/97, ha posto in rilievo, sulla scorta di opinione largamente prevalente in dottrina, come la “ratio” della disciplina della comunione sia quella di rendere comuni i beni alla cui acquisizione entrambi i coniugi abbiano contribuito, onde sarebbe iniquo (e, va precisato, contrario allo stesso principio informatore della comunione legale) ricomprendervi le liberalità a favore di uno solo dei coniugi, trattandosi di acquisti per i quali nessun apporto è stato sicuramente dato dall’altro coniuge. E’ stato osservato in dottrina, poi, che un’acritica applicazione del “favor communionis” finirebbe per impedire di concepire una liberalità indiretta a favore di uno solo dei coniugi (in regime di comunione legale), così annullando gli stessi effetti della donazione indiretta, quale procedimento negoziale del tutto legittimo per la realizzazione di scopi ulteriori rispetto a quelli perseguibili con una donazione diretta.
Una volta rimosse le ragioni addotte, in via di principio, dalla Corte di merito per non estendere alla donazione indiretta la norma di cui all’art. 179 lett. b) c.c., resta da verificare se sussistano altri ostacoli a ricomprendere tale complesso procedimento (diverso, va detto, dal negozio indiretto, attesa la pluralità degli strumenti giuridici collegati) nell’ambito della disposizione in esame: al quesito si deve dare risposta negativa.
La formulazione letterale offre, di per sé, un argomento non secondario per l’equiparazione, ai fini che qui inte¬ressano, della donazione indiretta a quelle previste dall’art. 769 c.c.: di sicuro rilievo, inoltre, è la considerazione che, in mancanza di espressa dichiarazione del donante (al pari di quella del testatore) di voler attribuire alla comunione legale il bene, l’inclusione di questo tra quelli personali trova fondamento nel rispetto della volontà dello stesso disponente e nel carattere strettamente personale dell’attribuzione fatta ad uno solo dei coniugi. In questo senso, infatti, è la dottrina di gran lunga prevalente, la quale ha osservato, sotto il profilo letterale, che l’eccezione prevista nella parte finale della norma si riferisce all’ “atto di liberalità”, ossia a concetto più ampio di quello di donazione in senso stretto, onde sarebbe illogico ritenere che all’eccezione sia attribuito un ambito di applicazione più ampio di quello della regola; sotto il secondo profilo, che, in difetto di specifica volontà del disponente di attribuire il bene alla comunione, l’ “animus donandi” non può essere obliterato, presentandosi nella donazione indiretta in modo non diverso dalla donazione diretta.
Sempre dalla dottrina, sollecitata dall’indirizzo di questa Corte in tema di collazione (per il quale cfr. Cass. 1257/94), viene un ulteriore contributo: il principio secondo cui oggetto della liberalità indiretta è il bene acqui¬stato e non il denaro versato dal disponente, pone in risalto la sufficienza del collegamento tra elargizione del denaro e acquisto del bene, ossia la finalità di arricchimento del beneficiano, sia pur realizzata con strumento diverso da quello tipico della donazione (diretta).
Non ha decisivo rilievo, inoltre, l’affermazione della sentenza impugnata sul non rispetto, in caso di donazione indiretta, dei paradigmi negoziali indicati nell’art. 179 c.c., tutti improntati, secondo l’assunto della Corte di merito, al soddisfacimento delle esigenze di tutela dei terzi: coglie nel segno, infatti, la critica del ricorrente, quando osserva come sia da dimostrare che i criteri dettati per la qualificazione dei beni come personali offrano assoluta certezza nelle ipotesi diverse da quella contemplata nella lett. b); dovendosi aggiungere che l’assenza di adempimenti formali per l’esclusione dell’oggetto della donazione (indiretta) dalla comunione è frutto di una precisa scelta legislativa, l’art. 179, 2° comma, c.c. avendo previsto l’intervento dell’altro coniuge, al fine di non far ricadere in comunione l’acquisto di un bene immobile o mobile registrato, soltanto per le ipotesi di cui alle lett. c), d) ed f).
Quanto all’impossibilità, in via di principio, di ricomprendere la donazione indiretta nella previsione dell’art. 179 lett. b) c.c., perché la fattispecie acquisitiva sarebbe regolata dalle norme vigenti per il negozio utilizzato (os¬sia la vendita), va rilevato che dall’art. 809 c.c. può sicuramente desumersi che per la validità della donazione indiretta non è necessaria la forma dell’atto pubblico, voluta dall’art. 782 c.c. per la donazione, essendo suffi¬ciente l’osservanza di quella richiesta per l’atto da cui la donazione indiretta risulta (tra le altre, Cass. 1214/97 e 13630/92), ma non che il legislatore abbia voluto escludere il bene oggetto di donazione indiretta dall’ambito di quelli personali del coniuge sol perché la forma dell’acquisto è quella del negozio – mezzo: ancora una volta, non si può non richiamare l’elaborazione della prevalente dottrina, alla cui stregua non sussistono ragioni per ritenere inapplicabile alla donazione indiretta una serie di norme dettate in tema di donazione, quali gli artt. 776, 777, 779, 786-88, 797-98 (e, più problematicamente, gli artt. 778 e 437, quest’ultimo concernente l’obbligo del donatario agli alimenti).
Non può essere condiviso, infine, l’argomento della non configurabilità per ragioni strutturali, in ordine alla dona¬zione indiretta, della specificazione con la quale il bene venga attribuito alla comunione: al riguardo, il Collegio aderisce pienamente all’affermazione contenuta nella citata sentenza n. 11327/97, secondo cui tale specificazio¬ne non è requisito essenziale per produrre l’effetto previsto dall’art. 179 lett. b) c.c., in quanto il legislatore si è limitato a prevedere la rilevanza della dichiarazione di voler destinare la liberalità alla comunione, allo scopo di escludere il bene donato dall’ambito di quelli personali, e con la precisazione che il procedimento negoziale non impedisce necessariamente l’effettuazione della dichiarazione, sia pure al di fuori di un atto di liberalità (che, come singolo atto, non esiste).
Si deve ritenere, allora, che non vi sia un’ontologica incompatibilità della donazione indiretta con la norma dell’art. 179 lett. b) c.c., onde il bene oggetto di essa non deve necessariamente rientrare nella comunione lega¬le: a tale conclusione questa Corte è pervenuta, sebbene sotto altro profilo, anche con la sentenza n. 7470/97, secondo cui, nel regime della comunione legale fra i coniugi, l’acquisto di un bene personale effettuato da uno di essi per donazione fattogli da un terzo, si sottrae al regime della comunione, a norma dell’art. 179, 1° comma, lett. b) c.c. ancorché la donazione sia dissimulata da una vendita, potendo l’acquirente opporre all’altro coniuge il carattere simulato di quest’ultima.
Cass. civ. Sez. II, 30 dicembre 1997, n. 13117 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La rinuncia all’usufrutto, se ispirata da “animus donandi”, è suscettibile di integrare una donazione indiretta a favore del nudo proprietario dei beni gravati dal diritto reale parziario rinunciato, perché, comportando un’estin¬zione anticipata di tale diritto, si risolve nel conseguimento da parte di detto “dominus” dei vantaggi patrimoniali inerenti all’acquisizione del godimento immediato del bene, che gli sarebbe sottratto se l’usufrutto fosse durato fino alla sua naturale scadenza: il controvalore di tali vantaggi è, pertanto, senz’altro passibile di convogliamento nella massa ereditaria di cui all’art. 556 c.c.
Cass. civ. Sez. I, 15 novembre 1997, n. 11327 (Foro It., 1999, I, 994)
Il bene acquistato da uno solo dei coniugi in regime di comunione dei beni, con denaro di un terzo, e pertanto oggetto di donazione indiretta, non entra nella comunione legale, ancorché il terzo non abbia dichiarato esplici¬tamente di voler destinare il denaro stesso in favore del solo coniuge acquirente.
Nel caso di soggetto che abbia erogato il denaro per l’acquisto di un immobile in capo ad un figlio (ancorché coniugato in regime di comunione legale) si deve distinguere l’ipotesi della donazione diretta del denaro, impie¬gato successivamente dal figlio in un acquisto immobiliare, in cui, ovviamente, oggetto della donazione rimane il denaro stesso, da quella in cui il donante fornisce il denaro quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che co¬stituisce il fine della donazione. In tale caso il collegamento tra l’elargizione del denaro paterno e l’acquisto del bene immobile da parte del figlio porta a concludere che si è in presenza di una donazione (indiretta) dello stesso immobile e non del denaro impiegato per il suo acquisto.
Il tenore letterale dell’art. 179 lett. b), c.c. che parla di “liberalità” e non di “donazione” non consente di limitarne la portata alle sole liberalità previste dall’art. 769 c.c. Consegue che la peculiare struttura della donazione indi¬retta non è assolutamente incompatibile con l’applicazione dell’art. 179 lett. b c.c.).
Cass. civ. Sez. III, 14 maggio 1997, n. 4231 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto che il disponente stesso intende in tal modo beneficiare, si verifica una donazione indiretta dell’immobile (non del denaro) per la quale non è necessaria la forma dell’atto pubblico prevista per la donazione ( art. 782 c.c.), ma basta l’osservanza della forma richiesta per l’atto da cui la donazione indiretta risulta.
Cass. civ. Sez. II, 10 febbraio 1997, n. 1214 (Contratti, 1997, 3, 297)
Il negotium mixtum cum donatione non è un contratto innominato, formato da elementi di due schemi negoziali tipici (cosiddetto contratto misto), bensì costituisce una donazione indiretta, attuata attraverso l’utilizzazione della compravendita al fine di arricchire il compratore della differenza tra il prezzo pattuito e quello effettivo; per¬ciò esso non deve rivestire la forma prevista per il contratto tipico, nel cui schema sono riconducibili gli elementi prevalenti, bensì quella dell’atto effettivamente adottato.
Per la validità di una donazione indiretta è sufficiente l’osservanza delle prescrizioni di forma richieste per l’atto da cui essa risulta, in quanto l’art. 809 c.c., mentre assoggetta le liberalità risultanti da atti diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c. alle stesse norme che regolano la revocazione delle donazioni, non richiama l’art. 782 c.c., che prescrive l’atto pubblico per la donazione.
L’art. 782 c.c., che prescrive la forma dell’atto pubblico per la donazione diretta onde tutelare il donante, non può essere esteso, a differenza delle norme che tutelano i terzi, alla donazione indiretta perché l’arricchimento non è l’effetto tipico del negozio che le parti adottano per realizzarlo.
Trib. Milano, 6 novembre 1996 (Famiglia e Diritto, 1997, 5, 469, nota di D’ADDA)
La quota di immobile acquistata da un coniuge per donazione indiretta è da qualificarsi come bene personale ai sensi dell’art. 179 lett. b) c.c., e non rientra quindi nel regime di comunione legale dato che l’acquisizione è avvenuta senza il contributo, diretto o indiretto, del coniuge non beneficiario dell’atto.
Trib. Napoli, 17 aprile 1996 (Pluris, Wolters Kluwer Italia
Qualora tra fideiussore e debitore garantito esistano stretti vincoli di parentela, sempre in ipotesi di mancato esercizio dell’azione di regresso, può escludersi alla fideiussione la natura di conferimento qualora la si consideri come donazione indiretta purché vi sia la prova dell’”animus donandi”.
Trib. Napoli, 25 marzo 1996 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Posto che l’”affectio familiaris” e l’”affectio maritalis” possono senz’altro assurgere ad indici sintomatici della volontà di eseguire, mercè l’utilizzazione dello schema negoziale tipico della fideiussione, una donazione indiret¬ta, ne consegue che la qualificazione in termini di conferimento delle garanzie personali gratuite e sistematiche prestate dal coniuge ovvero da uno stretto congiunto, richiede pur sempre l’assolvimento dell’onere della dimo¬strazione, gravante a carico di chi invoca il fallimento del fideiussore coniuge o congiunto, della sostanziale par¬tecipazione di quest’ultimi alla maggior quota di utili conseguiti e corrispondenti, all’apporto di capitale ottenuto grazie alla prestazione di garanzia e prima ancora, la dimostrazione dell’attività di partecipazione del fideiussore, coniuge o congiunto, alla gestione dell’impresa sociale.
Cass. civ. Sez. II, 13 luglio 1995, n. 7666 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La disciplina del negotium mixtum cum donatione obbedisce al criterio della prevalenza, nel senso che ricorre la donazione remuneratoria (che esige la forma solenne richiesta per le donazioni tipiche) quando risulti la pre¬valenza dell’animus donandi, laddove si avrà invece un negozio a titolo oneroso, che non abbisogna della forma solenne, quando l’attribuzione patrimoniale venga effettuata in funzione di corrispettivo o in adempimento di una obbligazione derivante dalla legge o in osservanza di un dovere nascente dalle comuni norme morali e sociali che si riveli assorbente rispetto all’animus donandi.
App. Napoli, 19 luglio 1994 (Giur. di Merito, 1996, 78)
In caso di donazione indiretta di un immobile, da parte del genitore al figlio coniugato in regime di comunione dei beni, l’immobile stesso entra a far parte della comunione legale dei beni, non essendo invocabile l’art. 179 lett. b) c.c. che, riferendosi alla sola donazione, non è applicabile a differenti atti (nel caso di specie compravendita) pur se posti in essere per spirito di liberalità.
Cass. civ. Sez. II, 22 giugno 1994, n. 5989 (Giur. It., 1995, I,1, 1558 nota di MASUCCI)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente e di intestazione dello stesso bene ad altro soggetto che il disponente abbia inteso così beneficiare, il conferimento ai fini della collazione deve avere ad oggetto l’immobile, non già il denaro impiegato per il suo acquisto, trattandosi di donazione indiretta dell’im¬mobile.
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente e di intestazione dello stesso bene ad un altro soggetto, che il disponente stesso abbia inteso in tal modo beneficiare, costituendo la vendita mero
formale di trasferimento della proprietà del bene per l’attuazione di un complesso procedimento di arricchimento del destinatario del detto trasferimento, si ha donazione indiretta non già del danaro ma dell’im¬mobile, poiché, secondo la volontà del disponente, alla quale aderisce il donatario, di quest’ultimo bene viene arricchito il patrimonio del beneficiario; conseguentemente il conferimento, ai sensi dell’art. 737 c.c., avrà ad oggetto l’immobile e non il danaro impiegato per l’acquisto, all’uopo considerando il valore acquisito dall’immo¬bile stesso al tempo dell’apertura della successione.
Cass. civ. Sez. II, 8 febbraio 1994, n. 1257 (Foro It., 1995, I, 614, nota di DE LORENZO)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con danaro proprio del disponente e di intestazione dello stesso bene ad altro soggetto, che il disponente abbia inteso in tale modo beneficiare, costituendo la vendita mero strumento formale di trasferimento della proprietà del bene per l’attuazione di un complesso procedimento di arricchimento del destinatario del detto trasferimento, si ha donazione indiretta non già del denaro ma dell’immobile poiché, secondo la volontà del disponente, alla quale aderisce il donatario, di quest’ultimo bene viene arricchito il patri¬monio del beneficiario; conseguentemente, il conferimento, ai sensi dell’art. 737 c.c., avrà ad oggetto l’immobile, con il valore acquisito al tempo dell’apertura della successione e non il denaro impiegato per l’acquisto.
Trib. Catania, 25 marzo 1993 (Foro It., 1995, I, 696)
Ai fini della validità di una donazione indiretta è sufficiente la forma propria del singolo negozio scelto per attuare la liberalità atipica (nella specie, è stata ritenuta valida di donazione indiretta effettuata mediante cointestazio¬ne di libretti di deposito bancario e successivi versamenti di somme di denaro su libretti di deposito bancario cointestati).
Deve considerarsi perfezionata una donazione indiretta effettuata mediante versamenti eseguiti su libretti di deposito bancario, e ciò anche in assenza della consegna materiale dei libretti da parte del donante.
Cass. civ. Sez. I, 23 dicembre 1992, n. 13630 (Dir. Famiglia, 1994, 1, 112)
Nel caso in cui una persona paghi al venditore, con denaro proprio, il prezzo di un immobile che risulti acquistato da altri (nella specie, la moglie), si verifica una donazione indiretta dell’immobile (che in tal modo entra a far parte del patrimonio del destinatario della liberalità), per la quale non è necessaria la forma dell’atto pubblico, prescritta dall’art. 782 c. c. per la donazione, ma basta l’osservanza della forma richiesta per l’atto da cui la donazione indiretta risulta.
Cass. civ. Sez. II, 21 ottobre 1992, n. 11499 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con riguardo a compravendita a prezzo di favore, integrante negotium mixtum cum donatione, l’atto di liberalità (indiretta), e, correlativamente, l’arricchimento del beneficiario sono configurabili limitatamente alla differenza fra il valore di mercato del bene ed il suddetto prezzo; ne consegue, in caso di revocazione della liberalità, che solo quella differenza deve essere restituita al venditore-donante.
Cass. civ. Sez. Unite, 5 agosto 1992, n. 9282 (Foro It., 1993, I, 1544, nota di DE LORENZO, FABIANO)
Nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il soggetto medesimo intende in tal modo beneficiare con la sua adesione, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario, e quindi integra donazione indiretta del bene stesso e non del denaro. Pertanto in caso di collazione, secondo la previsio¬ne dell’art. 737 c.c. il conferimento deve avere ad oggetto l’immobile non il denaro donato per il suo acquisto.
Cass. civ. Sez. III, 18 luglio 1991, n. 7969 (Giust. Civ., 1992, I, 726)
La vendita di un fondo eseguita a prezzo di favore, ove consegua il previsto e voluto risultato di arricchire il com¬pratore della differenza tra il valore del bene ed il prezzo stabilito configura un negotium mixtum cum donatione, che costituisce donazione indiretta con riferimento alla quale non può essere esercitato il diritto di prelazione agraria.
Cass. civ. Sez. II, 23 febbraio 1991, n. 1931 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel negotium mixtum cum donatione, che deve rivestire la forma non della donazione, ma dello schema negozia¬le effettivamente adottato dalle parti, la causa del contratto è onerosa, ma il negozio commutativo adottato viene dai contraenti posto in essere per raggiungere in via indiretta, attraverso la voluta sproporzione delle prestazioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella di scambio, consistente nell’arricchimento, per puro spirito di liberalità, di quello dei contraenti che riceve la prestazione di maggior valore, con ciò venendo il negozio posto in essere a realizzare una donazione indiretta; pertanto la vendita ad un prezzo inferiore a quello effettivo non realizza di per sé un negotium mixtum cum donatione, dovendo la insufficienza del corrispettivo essere devoluta ed orientata al fine di arricchire la controparte avvantaggiata.
Cass. civ. Sez. II, 28 novembre 1988, n. 6411 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negotium mixtum cum donatione, è caratterizzato dal concorso di una causa onerosa con l’animus donandi mediante l’adozione di uno schema negoziale commutativo posto in essere dai contraenti per raggiungere in via indiretta, attraverso la voluta sproporzione delle prestazioni corrispettive, una finalità diversa ed ulteriore rispet¬to a quella di scambio, consistente nell’arricchimento, per mero spazio di liberalità, di quello dei contraenti che riceve la prestazione di maggior valore; tale negozio, pertanto, realizzando una ipotesi di donazione indiretta, non deve rivestire la forma della donazione ma quella dello schema negoziale effettivamente adottato dalle parti.

Per l’effettiva verifica dell’attualità dell’opinione del minore, il giudice deve rinnovarne l’ascolto non potendo fare riferimento alle sue precedenti già rese dichiarazioni

Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 2019, n. 15728
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 3316/2018 proposto da:
D.A., rappresentata e difesa dall’avv. Giulio Cesare Bonazzi come da procura speciale in calce al ricorso, elettivamente domiciliata in Roma, via Giuseppe Pisanelli 2, presso lo studio dell’avv. Stefano Di Meo;
– ricorrente –
contro
O.O., rappresentato e difeso dagli avvocati Piercarlo Portieri e Ilaria Romagnoli come da procura speciale in calce al controricorso, elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultima, in Roma, via Livio Andronico 24;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Brescia in data 8 novembre 2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16-5-2019 dal cons. FRANCESCO TERRUSI.
Svolgimento del processo
Il tribunale di Brescia, dopo aver pronunciato sentenza non definitiva di scioglimento del matrimonio tra O.O. e D.A., dal quale matrimonio era nata la figlia Gloria (classe 2006), ritenuta la giurisdizione del giudice italiano disponeva, con sentenza definitiva del 312-2016, l’affido esclusivo della figlia al padre; disponeva inoltre che la frequentazione tra la minore e la madre avvenisse solo con incontri protetti e poneva a carico della madre un assegno di mantenimento per la figlia.
La decisione, impugnata dalla D., veniva confermata dalla corte d’appello di Brescia con sentenza resa pubblica l’8-11-2017, avverso la quale la medesima D. propone adesso ricorso per cassazione in sei motivi.
O. replica con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
I. – Coi primi tre mezzi, tutti relativi alla statuizione in punto di giurisdizione e per questo connessi e suscettibili di unitario esame, la ricorrente si duole dell’omesso esame di fatti decisivi a proposito (i) della residenza abituale della minore nel principato di Monaco a far data dal 2013, (ii) della ritenuta illiceità del mancato rientro di essa in Italia a seguito di provvedimento del giudice istruttore della causa di divorzio, nonchè (iii) della violazione o falsa applicazione delle convenzioni dell’Aja del 1996 e del 1961 a proposito della competenza ad adottare misure urgenti per la protezione del minore e dei suoi beni.
I motivi – incentrati sull’affermazione che la residenza abituale della minore era da intendere quella fissata nel principato di Monaco a partire dal mese di settembre 2013, quando la madre era stata autorizzata dal giudice istruttore della causa di divorzio a trasferirsi con la figlia – sono inammissibili e per alcuni tratti manifestamente infondati.
II. – Va in parte corretta, ai sensidell’art. 384 c.p.c., la motivazione con la quale la corte d’appello ha disatteso la questione.
La corte d’appello ha insistito sul fatto che il trasferimento era stato autorizzato provvisoriamente e in via sperimentale e che con provvedimento di pochi mesi successivo (del 9-6-2014) l’autorizzazione era stata revocata assieme alla revoca di ogni anteriore provvedimento in tema di affido, giacché la minore era stata affidata al padre ed era stato ordinato alla madre di consegnarla al genitore affidatario. Su tale base ha ritenuto che la minore, per effetto dell’autorizzazione a un trasferimento solo provvisorio e sperimentale, non avesse mai assunto una residenza abituale nel principato di Monaco; donde si sarebbe dovuto far riferimento, ai fini della giurisdizione, alla residenza in Brescia, avuta al momento della domanda introduttiva del giudizio di divorzio. Ha aggiunto che, a seguito dell’inottemperanza al citato provvedimento del giugno 2014, il mancato rientro della minore era da considerare illecito, e dunque non suscettibile di esser posto a fondamento della pretesa dimora abituale nello stato monegasco.
III. – Questa serie di considerazioni non possiedono una grande rilevanza. Quel che unicamente interessa osservare è che – come d’altronde la sentenza riferisce – la causa di scioglimento del matrimonio, nell’ambito della quale erano da assumere le statuizioni accessorie concernenti l’affidamento e la collocazione della minore, era già pendente al momento del trasferimento (della madre e) della minore all’estero.
L’art. 5 c.p.c., pone la regola secondo la quale “la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo”. Poiché la domanda relativa all’affidamento e alla collocazione della figlia minore era stata proposta nel contesto del giudizio di divorzio instaurato in data 8-10-2012, lo stato di fatto rilevante onde determinare la giurisdizione non poteva che essere quello anteriore alla ripetuta ordinanza del giudice istruttore, che (seppur provvisoriamente) aveva autorizzato la D. a trasferire la residenza propria e della minore nel principato di Monaco.
Questa Corte ha già puntualizzato, anche a sezioni unite (e tale è la ragione per la quale, exart. 374 c.p.c., la questione può essere decisa dalla sezione semplice), il senso del principio di irrilevanza delle sopravvenienze in tema di giurisdizione: tale principio, trattodall’art. 5 c.p.c., è diretto a favorire la perpetuatio iurisdictionis, non a impedirla; sicché proprio esso trova applicazione nel caso di sopravvenuta carenza di giurisdizione del giudice originariamente adito, a fronte invece del mutamento dello stato di diritto o di fatto comportante l’attribuzione della giurisdizione al giudice che ne era privo al momento della proposizione della domanda (cfr. Cass. Sez. U n. 18125-05, cui adde Cass. n. 21221-14 e molte altre).
IV. – E’ appena il caso di aggiungere che, nella memoria, la ricorrente ha richiamato la sentenza delle sezioni unite di questa Corte n. 32359-18, sopravvenuta tra le medesime parti.
Questa sentenza è di sicuro rilievo (come si dirà), ma non per stabilire la giurisdizione.
Testualmente emerge dalla motivazione che essa è stata pronunciata nell’ambito del giudizio de potestate introdotto da O. contro la moglie, nell’anno 2017, ai sensidell’art. 330 c.c..
In quella sede, e in quel contesto, le sezioni unite hanno affermato il principio secondo il quale, in materia giustappunto di decadenza dalla potestà genitoriale, qualora i genitori risiedano in Stati diversi, la competenza giurisdizionale deve essere individuata con riferimento al criterio della residenza abituale del minore al momento della proposizione della domanda, il cui accertamento si risolve in una quaestio facti, con valutazione da svolgersi anche in chiave prognostica, che può essere effettuata direttamente dalla Suprema Corte sulla base dei dati emergenti dagli atti processuali.
Hanno anche affermato che occorre così valorizzare circostanze quali la frequenza della scuola e il conseguimento di un ottimo rendimento scolastico in un determinato Stato, l’apprendimento della lingua, l’inserimento nel contesto sociale e anche la entusiasta volontà del minore di rimanere in un certo luogo, accertata mediante l’ascolto del minore medesimo.
Ora la ricorrente assume che i principi costì espressi debbano essere applicati anche al caso di specie, “ai fini dell’accoglimento dei primi tre motivi di gravame”. Non si avvede, però, che la fattispecie è del tutto diversa, essendo la questione di giurisdizione qui incentrata sulle domande di responsabilità genitoriale accessorie a quella di scioglimento del matrimonio, tutte formulate nel 2012.
Proprio seguendo l’assunto della dianzi citata sentenza, il trasferimento e le propensioni manifestate nell’anno 2013 erano da considerate irrilevanti per modificare la giurisdizione già esistente, con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto al momento della precitata domanda. La specifica rilevanza della domanda ai fini indicati è invero confermata dalla sentenza n. 32359-18, ed è certo che la D. non ha mai dedotto, e non lo ha fatto neppure in questa sede, di non avere avuto essa come la figlia – la residenza in Italia al momento della proposizione del giudizio di divorzio (L. n. 218 del 1995,art.3).
V. – In base all’art. 8 del Regolamento (CE) n. 2201 del 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che ha abrogato ilregolamento (CE) n. 1347/2000, “le autorità giurisdizionali di uno Stato membro sono competenti per le domande relative alla responsabilità genitoriale su un minore, se il minore risiede abitualmente in quello Stato membro alla data in cui sono aditi”.
Sempre le sezioni unite, con specifico riferimento alle domande proposte nel contesto del giudizio di separazione, hanno avuto modo di considerare che la giurisdizione sulle domande relative all’affidamento dei figli e al loro mantenimento, ove pure proposte congiuntamente a quella di separazione, appartiene al giudice del luogo in cui il minore risiede abitualmente, a norma dell’art.8delRegolamento (CE) n. 2201/2003del Consiglio del 27 novembre 2003 (Cass. Sez. U n. 30646-11).
Il principio va esteso anche all’ipotesi di divorzio. Ma nello specifico senso che, ove nel giudizio di divorzio introdotto innanzi al giudice italiano siano avanzate domande inerenti alla responsabilità genitoriale (relative all’affidamento o al diritto di visita) e al mantenimento di figli minori, solo se i detti figli non siano al momento residenti abitualmente in Italia soccorre il criterio della residenza abituale dei minori, col fine di salvaguardare l’interesse superiore e preminente dei medesimi a che i provvedimenti che li riguardano siano adottati dal giudice più vicino al luogo di residenza effettiva degli stessi, nonché di realizzare, così, la tendenziale concentrazione di tutte le azioni li riguardano.
Poiché tanto non risulta esser stato mai neppure prospettato, e anzi poiché le allegazioni di parte ricorrente sono sempre state nel senso opposto – che cioè la residenza del minore all’estero era sopravvenuta rispetto alla formulazione della domanda – ne segue che i primi tre motivi vanno dichiarati inammissibili.
VI. – Anche il quarto e il quinto motivo possono essere esaminati unitariamente.
Col quarto motivo la ricorrente denunzia l’omesso esame di fatto decisivo a proposito del formulato giudizio di carente capacità genitoriale di essa madre, ai fini del regime di affidamento della figlia e delle conseguenze economiche.
Col quinto motivo la ricorrente ulteriormente denunzia l’omesso esame di fatto decisivo e la violazione o falsa applicazione dell’art. 12 della convenzione di New York sui diritti del fanciullo e dell’art. 6 della omologa convenzione di Strasburgo, non avendo la corte d’appello tenuto conto della espressa volontà della figlia di rimanere con la madre nel principato di Monaco, nonché della capacità di discernimento della minore, né avendo ritenuto di ascoltarla.
Il quinto motivo è fondato, e tanto determina l’assorbimento del quarto.
VII. – Come noto (v. per tutte Cass. Sez. U n. 22238-09), l’audizione dei minori, già prevista nell’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che li riguardano e, in particolare, in quelle relative al loro affidamento ai genitori, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con laL. n. 77 del 2003; ne segue che l’ascolto del minore di almeno dodici anni, e anche di età minore ove capace di discernimento, costituisce una modalità di riconoscimento del suo diritto fondamentale a essere informato e a esprimere le proprie opinioni nei procedimenti suddetti, nonché un elemento di primaria importanza nella valutazione del suo interesse (ex aliis Cass. n. 6129-15).
Nel caso specifico, risulta dalla sentenza che G. (oggi ultradodicenne) era stata sentita solo dall’autorità giudiziaria del principato di Monaco, nel contesto – peraltro – del procedimento de potestate.
La corte d’appello ne ha criticamente valutato le dichiarazioni, osservando che in quel momento la bimba aveva appena dieci anni e che le dichiarazioni erano state fatte in un ambito peculiare di esclusione del padre: segnatamente ne ha disconosciuto l’affidabilità per essere l’ascolto avvenuto “in un contesto di massima ingerenza della madre (..) e di esclusione del padre”.
Tuttavia non ha provveduto a riascoltarla, onde avere conferme o smentite di quanto a suo tempo dichiarato, anche al fine di poter stabilire fino a che punto la volontà manifestata fosse decisa e costante sulla base di una visione non alterata della realtà.
Codesta omissione non è giustificabile, poiché l’ascolto non è al fine mai avvenuto dinanzi al giudice del divorzio, con riferimento alla questione dell’affidamento intraneo alla controversia. Giova rammentare che rispetto alla controversia sul divorzio la posizione del minore (v. ancora Cass. Sez. U n. 22238-09) è quella di soggetto portatore di interessi diversi (se non in qualche caso contrapposti) a quelli dei genitori.
Ed è importante sottolineare che risulta dalla già citata sentenza n. 32359-18 delle sezioni unite di questa Corte, in forza di un accertamento direttamente svolto in quella sede tra le medesime parti, la cui rilevanza si impone anche nel presente giudizio quanto alla effettività e storicità dei fatti, che la minore si era radicata a Monaco assieme alla madre almeno dal 2016 e che la stessa aveva affermato, dinanzi al giudice monegasco, non solo di esser felice di vivere lì (con la madre), ma anche (e soprattutto) di volervi rimanere. Con chiara manifestazione, cioè, di una volontà avversa alla convivenza col padre.
Di tanto la corte d’appello non avrebbe potuto non tener conto.
La sua decisione è intervenuta a novembre del 2017, e l’ascolto rappresenta una modalità di riconoscimento del diritto di ogni minore di esprimere la propria opinione e le proprie opzioni nei procedimenti che lo riguardano. Ne consegue che l’impugnata sentenza va in questa specifica prospettiva cassata, dovendo il giudice del rinvio – che si designa nella medesima corte d’appello di Brescia, seppure in diversa composizione provvedere ad ascoltare la bambina proprio allo scopo di appurarne la libera volontà. A tal fine dovrà essere svolta un’attività informativa pertinente e appropriata, con riferimento all’età e al grado di sviluppo della bambina stessa, onde verificare se sia ancora attuale la già resa opzione per il suo collocamento.
VIII. – Resta assorbito il sesto motivo, in ordine alla sorte delle spese processuali.
Difatti le spese del giudizio di merito dovranno essere oggetto di nuova regolazione da parte del giudice del rinvio, il quale peraltro provvederà anche sulle spese del giudizio svoltosi in questa sede di legittimità.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibili i primi tre motivi di ricorso, accoglie il quinto motivo e dichiara assorbiti gli altri; cassa l’impugnata sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla corte d’appello di Brescia.
Dispone che, in caso di diffusione della presente ordinanza, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 16 maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2019

Non sono fondate per erroneità del presupposto interpretativo, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge 22 dicembre 2017, n. 219 in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost. poiché le norme censurate non attribuiscono ex lege a ogni amministratore di sostegno che abbia la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario anche il potere di esprimere o meno il consenso informato ai trattamenti sanitari di sostegno vitale; è il giudice tutelare che, con il decreto di nomina, individua l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario

Corte cost., 13 giugno 2019, n. 144
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.3, commi 4 e 5, dellaL. 22 dicembre 2017, n. 219(Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), promosso dal Tribunale ordinario di Pavia, nel procedimento relativo a G. A., in qualità di amministratore di sostegno di A. T., con ordinanza del 24 marzo 2018, iscritta al n. 116 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e dell’U.G.C. e U.G.;
udito nella camera di consiglio del 20 marzo 2019 il Giudice relatore Franco Modugno.
1.- Il giudice tutelare del Tribunale ordinario di Pavia, con ordinanza del 24 marzo 2018, ha sollevato, in riferimento agliartt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art.3, commi 4 e 5, dellaL. 22 dicembre 2017, n. 219(Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), nella parte in cui stabilisce che l’amministratore di sostegno, la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (d’ora in avanti: DAT), possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato.
1.1.- Il giudice rimettente premette che, in favore di A. T., è stato già nominato, sin dall’ottobre 2008, un amministratore di sostegno, cui allo stato non è attribuita né l’assistenza necessaria, né la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario. La relazione clinica del 21 febbraio 2018, tuttavia, ha certificato che A. T. risulta attualmente “in stato vegetativo in esiti di stato di male epilettico in paziente affetto da ritardo mentale grave da sofferenza cerebrale perinatale in sindrome disformica recte: dismorfica” nonché “portatore di PEG”. Il giudice a quo rileva che, pertanto, si rende necessario integrare il decreto di nomina, ai sensidell’art. 407, comma 4, del codice civile, ai fini dell’individuazione dei poteri in ambito sanitario; in particolare – preso atto delle condizioni di salute, anche personalmente verificate – “si profila come indispensabile l’attribuzione della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, non residuando alcuna capacità in capo all’amministrato”.
Ciò premesso, il giudice tutelare osserva che, entrato in vigore l’art.3, commi 4 e 5, dellaL. n. 219 del 2017, è quest’ultimo articolo a disciplinare “le modalità di conferimento, all’amministratore di sostegno, e di conseguente esercizio dei poteri in ambito sanitario”. Ne conseguirebbe che l’attribuzione all’amministratore di sostegno di detti poteri (nella specie, sotto forma di rappresentanza esclusiva) “ricomprende necessariamente il potere di rifiuto delle cure, ancorché si tratti di cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato”; l’amministratore di sostegno, pertanto, avrebbe “il potere di decidere della vita e della morte dell’amministrato” senza che tale potere possa essere “sindacato dall’autorità giudiziaria”.
Il giudice rimettente riferisce, dunque, che è chiamato a fare applicazione del censurato art. 3, comma 5, dovendo decidere sull’attribuzione all’amministratore di sostegno di A. T. della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario.
1.2.- Ai fini del giudizio sulla rilevanza, il giudice a quo reputa “logicamente preliminare” l’esegesi dell’art.3, comma 5, dellaL. n. 219 del 2017, osservando, in particolare, che l’espressione “rifiuto delle cure”, in considerazione della locuzione “in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento”, non può non concernere anche i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita; altrimenti detto, il rifiuto delle cure può interessare “tutti i trattamenti sanitari astrattamente oggetto delle DAT”.
Per escludere tale opzione ermeneutica – prosegue il giudice rimettente – potrebbe ipoteticamente farsi leva sull’espressione “cure proposte”, sostenendo che i trattamenti necessari al mantenimento in vita non possano essere inquadrati in termini di cure, di talché il rifiuto non potrebbe riguardarli. Si tratterebbe, tuttavia, di un’interpretazione incompatibile sia con la ratio legis, volta a valorizzare la libertà di autodeterminazione anche nell’ipotesi di trattamenti sanitari di fine vita, sia “con l’acquisizione, tra i diritti inviolabili exart. 2 Cost., di un diritto a decidere sui trattamenti di fine vita”: in quanto tale, essa appare al giudice rimettente non praticabile.
Lo stato d’incapacità, per altro verso, non potrebbe di per sé escludere il diritto a decidere sui trattamenti necessari al mantenimento in vita, poiché ciò determinerebbe la violazione degli artt. 2, 3 recte: 13 e 32 Cost. L’incapace è, infatti, persona e “nessuna limitazione o disconoscimento dei suoi diritti si prospetterebbe come lecita”: deve pertanto essergli riconosciuto, e ricevere tutela, il diritto all’autodeterminazione e al rifiuto delle cure, potendo la condizione d’incapacità influire soltanto sulle modalità di esercizio del diritto.
Una volta appurata la possibilità che siano rifiutati anche i trattamenti necessari al mantenimento in vita, il giudice rimettente rileva che l’art.3, comma 5, dellaL. n. 219 del 2017prevede espressamente che, in caso di opposizione del medico all’interruzione delle cure, è possibile l’intervento del giudice tutelare, mentre deve ritenersi, a contrario, che detto intervento non sia possibile nel caso in cui il medico non si opponga.
1.3.- Il giudice tutelare precisa, poi, che la circostanza che il procedimento abbia natura di volontaria giurisdizione non esclude la possibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale. In tal senso deporrebbe la giurisprudenza costituzionale: vengono richiamate le sentenze n. 258 del 2017, n. 121 del 1974 e, in particolare, la n. 129 del 1957.
1.4.- Nell’argomentare in punto di non manifesta infondatezza, il giudice rimettente esordisce ricordando che “la libertà di rifiutare le cure presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte, che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche) extra-giuridiche, quindi squisitamente soggettive” (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 3 marzo-20 aprile 2005, n. 8291). Ciò implica che in tale ambito vengono in rilievo “valutazioni personalissime”, indissolubilmente legate al soggetto interessato e alle sue convinzioni, insuscettibili d’essere vagliate oggettivamente o in base al parametro del best interest (adottato invece dalla House of Lords inglese, decisione del 4 febbraio 1993, Airedale NHS Trust v. Bland).
La dichiarazione di rifiuto delle cure è costituita di due momenti essenziali: quello concernente la formazione dell’intimo convincimento, intrasferibile in capo a terzi, e quello rappresentato dalla manifestazione di volontà, cedibile invece ad altri. E poiché l’amministratore di sostegno non è investito di un potere incondizionato di disporre della salute della persona incapace (Corte di cassazione, sezione prima civile, 16 ottobre 2007, n. 21748), ne consegue che il rifiuto delle cure che egli manifesti deve essere la rappresentazione della volontà dell’interessato e dei suoi orientamenti esistenziali: l’amministratore non deve decidere né “al posto dell’incapace, né per l’incapace”, perché il diritto personalissimo a rifiutare le cure è “la logica simmetria della indisponibilità altrui e dell’intrasferibilità del diritto alla vita”.
Il giudice a quo osserva, pertanto, che, affinché la decisione sul rifiuto delle cure sia espressione dell’interessato e non di chi lo rappresenta, questa deve risultare dalle DAT o, in assenza di queste, deve ricorrersi alla ricostruzione della volontà dell’incapace, per mezzo di “una pluralità di indici sintomatici, di elementi presuntivi, mediante l’audizione di conoscenti dell’interessato o strumenti di altra natura”, in modo da assicurare che la “scelta in questione non sia espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante” (è novamente richiamata Cass., n. 21748 del 2007).
Secondo il rimettente, si tratterebbe di un processo di ricerca serio e complesso, il quale renderebbe “imprescindibile” l’intervento di un soggetto terzo e imparziale quale è il giudice, teso a tutelare il “carattere personalissimo e la speculare indisponibilità altrui del diritto di rifiuto delle cure e del diritto alla vita”. Se si consentisse all’amministratore di sostegno di ricostruire autonomamente la volontà dell’interessato, “si sentenzierebbe il concreto annichilimento della natura personalissima del diritto a decidere sulla propria vita”, poiché si configurerebbe “surrettiziamente” il potere dell’amministratore di assumere la propria volontà a fondamento del rifiuto delle cure.
Conseguentemente, sarebbe incostituzionale l’attribuzione all’amministratore di sostegno, determinata dalle disposizioni censurate, “di un potere di natura potenzialmente incondizionata e assoluta attinente la vita e la morte, di un dominio ipoteticamente totale, di un’autentica facoltà di etero-determinazione”.
L'”insanabile contrasto” sarebbe, innanzitutto, con gliartt. 2, 13 e 32 Cost.Il diritto a rifiutare le cure troverebbe fondamento in tali norme costituzionali e dovrebbe considerarsi inviolabile, con la conseguenza che sarebbe negata ad altri la possibilità di violarlo; il suo essere diritto “intrinsecamente correlato al singolo interessato” escluderebbe che il momento della formazione della volontà possa essere delegato a terzi, pena un suo inesorabile disconoscimento. Le modalità d’esercizio di rifiuto delle cure previste dalle disposizioni censurate sarebbero, pertanto, “radicalmente inidonee a salvaguardare compiutamente la natura eminentemente soggettiva del diritto in questione”, negandone l’essenza personalissima e determinandone la violazione.
Non varrebbe a superare il vulnus la possibilità d’intervento del giudice, in caso di rifiuto opposto dal medico all’interruzione dei trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita dell’interessato: si tratterebbe innegabilmente di un intervento giudiziale “meramente ipotetico ed accidentale”, subordinato all’eventuale esistenza di un dissidio tra rappresentante e medico. Né, ancora, potrebbe opporsi che, a ben vedere, le norme censurate attribuiscono la valutazione finale circa il rifiuto delle cure al medico, il quale potrebbe effettuare un controllo sulle determinazioni dell’amministratore di sostegno: si tratterebbe, infatti, pur sempre di una valutazione medica “imperniata su canoni obiettivi di “appropriatezza” e “necessità””, che disconoscono la natura personalissima e soggettiva del diritto di rifiutare le cure, non avendo il medico, d’altra parte, la possibilità di ricostruire la volontà dell’interessato e di accertare la conformità a quest’ultima della decisione del rappresentante.
Le norme censurate sarebbero, inoltre, in contrasto conl’art. 3 Cost.in quanto manifestamente irragionevoli. La loro applicazione, infatti, determinerebbe “un’incoerenza di ingiustificabile significanza all’interno dell’architettura di sistema delineata dall’istituto dell’amministrazione di sostegno”: ciò perché, se ai sensidell’art. 411 cod. civ.è necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare per il compimento degli atti indicati agliartt. 374 e 375 cod. civ., attinenti alla sfera patrimoniale, sarebbe irrazionale non prevedere analoga autorizzazione per manifestare il rifiuto delle cure, “sintesi ed espressione dei diritti alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona”, in quanto in tal modo l’ordinamento appresterebbe a interessi d’ordine patrimoniale una salvaguardia superiore a quella riconosciuta ai richiamati diritti fondamentali. Inoltre, a conferma dell’incongruenza interna al sistema dell’amministrazione di sostegno, il giudice a quo osserva come la giurisprudenza (è richiamato il decreto del Tribunale ordinario di Cagliari, 15 giugno 2010) riconosca la necessità dell’autorizzazione del giudice tutelare perché il rappresentante avanzi la domanda di separazione, atto personalissimo, mentre le disposizioni censurate non prevedono l’intervento giudiziale per autorizzare l’atto personalissimo del rifiuto delle cure, “coinvolgente valori egualmente rilevanti e dalle implicazioni certamente superiori”.
Quale ulteriore profilo di irragionevolezza, il rimettente osserva che, se laL. n. 219 del 2017è tutta fondata “sull’intento di valorizzare ed accordare centralità alle manifestazioni di volontà dei singoli”, tanto da prevedere formalità e procedure per la loro espressione, non si comprende perché venga meno “la più elementare attenzione” per tale elemento volontaristico, non prevedendosi, quando si tratti di soggetti incapaci, meccanismo alcuno di tutela o controllo.
1.5.- Il giudice tutelare di Pavia, infine, chiede alla Corte – ove venissero accolte le questioni di legittimità costituzionale – di dichiarare l’illegittimità costituzionale in via conseguenziale, ai sensi dell’art. 27, secondo periodo, dellaL. 11 marzo 1953, n. 87(Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), delle disposizioni impugnate anche nella parte in cui prevedono che il rappresentante legale della persona interdetta oppure inabilitata, in assenza delle DAT, o il rappresentante legale del minore possano rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato.
2.- È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque sia, non fondate.
2.1.- L’interveniente rileva, innanzitutto, che il giudice a quo – oltre a non avere mosso censure in relazione a ciascuno dei parametri costituzionali evocati, il che costituirebbe autonoma ragione d’inammissibilità per difetto di motivazione – non ha argomentato circa l’impossibilità di interpretare le disposizioni censurate in senso conforme a Costituzione, come invece richiesto dalla giurisprudenza costituzionale “univoca e ormai consolidata”. Interpretazione conforme a Costituzione che, a suo avviso, sarebbe invece possibile.
Succintamente ricostruita la recente disciplina in materia di consenso informato e di DAT, il Presidente del Consiglio dei ministri rileva che i diritti ivi riconosciuti devono essere garantiti anche a chi non è più in grado di opporre il rifiuto alle cure ma che, quando ne era capace, aveva chiaramente manifestato volontà in tale senso. In tale prospettiva, si pone in evidenza che gliartt. 357 e 424 cod. civ.individuano nel tutore il soggetto interlocutore dei medici con riferimento ai trattamenti sanitari, mentre gli artt. 404 e seguenti cod. civ. sanciscono il potere di cura del disabile anche in capo all’amministratore di sostegno, secondo i poteri conferitigli con il decreto di nomina: al diritto di ogni persona di “manifestare validamente la propria volontà in merito all’accettazione o al rifiuto dei possibili trattamenti sanitari” conseguirebbe l’obbligo per il rappresentante legale di dare corso a tale volontà.
Si tratterebbe di approdi che trovano conferma, oltre che nel diritto internazionale (si richiama l’art. 6 della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina: Convenzione sui Diritti dell’Uomo e la biomedicina, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata e resa esecutiva con laL. 28 marzo 2001, n. 145, di seguito: Convenzione di Oviedo), nella giurisprudenza della Corte di cassazione (oltre alla già richiamata sentenza n. 21748 del 2007, sono citate Corte di cassazione, terza sezione civile, sentenza 15 gennaio 1997, n. 364, e sentenza 25 novembre 1994, n. 10014). In particolare, la giurisprudenza di legittimità avrebbe precisato che il tutore deve agire nell’esclusivo interesse dell’incapace, ricostruendone la volontà “tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche” (Cass., n. 21748 del 2007, citata).
Una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate dovrebbe, pertanto, portare a ritenere che, essendo il diritto alla salute un diritto personalissimo, la rappresentanza legale “non trasferisce sul tutore e sull’amministratore di sostegno un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza”. D’altra parte, l’art.3, comma 4, dellaL. n. 219 del 2017espressamente prevede che l’amministratore di sostegno deve tenere conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere, quando la nomina comprenda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario: circostanza, questa, che implicherebbe un vaglio specifico da parte del giudice.
Molteplici sarebbero, pertanto, gli elementi che depongono per una possibile interpretazione conforme delle disposizioni censurate o, comunque sia, per l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale: l’obbligo per il rappresentante, nel rifiutare le cure, di agire nell’interesse dell’incapace, ricostruendone la volontà; la valutazione del medico, in base alle sue competenze, sulla natura necessaria e appropriata delle cure; l’intervento del giudice in caso di opposizione del medico e su ricorso di qualsiasi soggetto interessato laddove l’amministratore di sostegno non abbia tenuto nella dovuta considerazione la volontà del beneficiario.
2.2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri reputa, poi, inammissibile, o altrimenti infondata, la richiesta del giudice a quo di estendere in via conseguenziale la dichiarazione d’illegittimità costituzionale ad altre norme parimente poste dalle disposizioni censurate.
Osserva l’interveniente che questa Corte, con la sentenza n. 138 del 2009, ha affermato che l’art. 27, seconda parte, dellaL. n. 87 del 1953non sottrae il rimettente dall’onere di motivare in ordine alle ragioni “che lo inducono a sospettare dell’esistenza dell’illegittimità costituzionale” di ciascuna delle disposizioni legislative che viene a censurare: onere cui l’odierno rimettente non avrebbe adempiuto.
3.- Hanno depositato un comune atto di intervento nel giudizio le associazioni U.G.C. e U.G., chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano accolte.
3.1.- In punto di legittimazione all’intervento, la difesa delle associazioni afferma che, in considerazione degli scopi sociali, sarebbe evidente il concreto interesse delle intervenienti “a portare il proprio contributo e ad interloquire” dinanzi a questa Corte. Il “prevalente interesse etico” sottostante le questioni di legittimità costituzionale dovrebbe consentire una più larga partecipazione di associazioni “espressioni della società civile” nel giudizio costituzionale, a maggior ragione in considerazione del “carattere giusnaturalistico delle moderne costituzioni occidentali”, le quali, compresa la Costituzione italiana, rimanderebbero a un ordinamento che “precede” quello della legge statale e che “trova il suo più solido e profondo fondamento nell’ordine naturale delle cose, vale a dire nel diritto naturale”.
3.2.- Nel merito, le intervenienti osservano come, in base alla giurisprudenza di legittimità e a quanto disposto nella Convenzione di Oviedo, dovrebbe escludersi la possibilità di sacrificare la salute o il bene supremo della vita di persona incapace di dare consenso, “in assenza di eventi ineluttabili quali una malattia che non possa essere contrastata se non incorrendo nell’accanimento terapeutico”. La disposizione censurata, pertanto, favorirebbe “gli abusi, con rifiuto delle cure e conseguente soppressione di pazienti incapaci” per interessi che possono essere i più diversi, estranei al best interest del malato.
3.3.- Ripercorsi i dubbi, condivisi, di legittimità costituzionale del giudice a quo, le intervenienti osservano che l'”inadeguatezza” della normativa censurata persisterebbe anche nel caso in cui questa Corte ritenesse possibile l’interruzione delle cure solo una volta ricostruita, per opera del giudice tutelare, la volontà dell’incapace: sarebbe evidente, infatti, “il carattere di fictio iuris di una tale metodologia”, irrispettosa della “reale e ipoteticamente diversa volontà che il paziente potrebbe esprimere attualmente, da sé, se ne fosse in grado”.
A parere delle intervenienti, infatti, un valido consenso o rifiuto delle cure “non può insorgere anteriormente al verificarsi del quadro patologico rispetto al quale si pone la necessità di dare l’informativa”. Il problema della valutazione della persistenza del rifiuto delle cure, dunque, esisterebbe e permarrebbe, secondo questa prospettiva, anche in caso di DAT “proprio per la naturale volatilità della volontà delle persone rispetto ai fatti ed alle stagioni della vita”: funzione del giudice tutelare, pertanto, dovrebbe essere, in ogni caso, quella di autorizzare terapie che non costituiscano accanimento terapeutico e che salvaguardino, in ossequio al principio di precauzione, i beni della salute e della vita.
3.4.- La difesa delle intervenienti dà altresì conto di una nota dell’associazione di Pavia, che ritiene utile riportare nella “esatta consistenza testuale”, nella quale vengono delineati ulteriori aspetti di illegittimità costituzionale.
Si afferma, in particolare, che la possibilità per l’amministratore di sostegno, anche se in presenza di DAT, di rifiutare o interrompere l’alimentazione, l’idratazione o la ventilazione artificiale sarebbe in contrasto con la dignità umana (art. 2 Cost.), con il diritto alla salute (perchél’art. 32 Cost.si riferisce ai trattamenti sanitari ed è dibattuta la possibilità di ricomprendervi gli anzidetti trattamenti), conl’art. 3 Cost.(perché laL. n. 219 del 2017equipara irragionevolmente terapie mediche e trattamenti di mero sostegno vitale). L’art.3, comma 4, dellaL. n. 219 del 2017, poi, sarebbe costituzionalmente illegittimo perché, consentendo all’amministratore di sostegno di dover solo tenere conto della volontà del soggetto amministrato in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere, lederebbe il diritto personalissimo alla vita e alla salute che solo il titolare può esercitare (art. 2 Cost.) ed equiparerebbe irragionevolmente chi è totalmente incapace e chi, anche solo parzialmente, può invece manifestare la propria volontà (artt. 3 e 32 Cost.).Sono rappresentati, infine, vizi di costituzionalità ritenuti ancora più radicali, dubitandosi della legittimità costituzionale della privazione di trattamenti sanitari salvavita, siano o no presenti le DAT.

Motivi della decisione

1.- Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il giudice tutelare del Tribunale ordinario di Pavia ha sollevato, in riferimento agliartt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art.3, commi 4 e 5, dellaL. 22 dicembre 2017, n. 219(Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), nella parte in cui stabilisce che l’amministratore di sostegno, la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (d’ora in avanti: DAT), possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato.
Secondo il giudice rimettente, le norme censurate si porrebbero in contrasto, innanzitutto, con gliartt. 2, 13 e 32 Cost., in quanto sarebbe necessario che, in assenza delle DAT, la volontà di esercitare il diritto inviolabile e personalissimo di rifiutare le cure, che troverebbe fondamento in tali norme costituzionali, sia ricostruita in modo da salvaguardare la natura soggettiva del diritto medesimo: salvaguardia che sarebbe garantita solo con l’intervento di un soggetto terzo e imparziale quale è il giudice.
Le disposizioni censurate, poi, si porrebbero in contrasto conl’art. 3 Cost.sotto plurimi profili. Innanzitutto, poiché nell’amministrazione di sostegno, ai sensidell’art. 411 del codice civile, è necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare per il compimento degli atti, attinenti alla sfera patrimoniale, indicati agli artt. 374 e 375 del medesimo codice, sarebbe irragionevole che analoga autorizzazione non sia prevista per il rifiuto delle cure, “sintesi ed espressione dei diritti alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona”. In secondo luogo, dal momento che secondo la giurisprudenza è necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare perché il rappresentante avanzi la domanda di separazione coniugale, sarebbe costituzionalmente illegittimo che non sia invece previsto l’intervento giudiziale per autorizzare il rifiuto delle cure, del pari atto personalissimo “coinvolgente valori egualmente rilevanti e dalle implicazioni certamente superiori”. Infine, sarebbe irragionevole che, se si tratta di soggetti incapaci, non venga apprestata “la più elementare attenzione” per la loro volontà, non prevedendosi meccanismo alcuno di tutela o controllo, quando invece laL. n. 219 del 2017è tutta fondata “sull’intento di valorizzare ed accordare centralità alle manifestazioni di volontà dei singoli”, tanto da prevedere formalità e procedure per la loro espressione.
2.- Deve essere preliminarmente dichiarato inammissibile l’intervento delle associazioni U.G.C. e U.G..
2.1.- Al giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale possono partecipare, secondo quanto previsto dall’art.25dellaL. 11 marzo 1953, n. 87(Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), e dall’art. 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, le parti del giudizio a quo e, secondo che sia censurata una norma di legge statale o di legge regionale, il Presidente del Consiglio dei ministri o il Presidente della Giunta regionale. Il richiamato art. 4 delle Norme integrative prevede, altresì, la possibilità di derogare a tale regola, ferma restando la competenza di questa Corte a giudicare sull’ammissibilità degli interventi di altri soggetti: secondo la costante giurisprudenza, tali interventi sono ammissibili, senza venire in contrasto con il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità, soltanto quando i terzi siano “titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura” (ex plurimis, sentenze n. 98 e n. 13 del 2019, n. 217, e n. 180 del 2018; nello stesso senso, sentenza n. 213 del 2018).
Nel caso di specie le associazioni intervenienti – le quali hanno, altresì, dedotto questioni di legittimità costituzionale ulteriori rispetto all’ordinanza di rimessione, per ciò solo inammissibili – non possono essere considerate titolari di un tale interesse qualificato, posto che l’odierno giudizio di legittimità costituzionale non è destinato a produrre, nei loro confronti, effetti immediati, neppure indiretti. Esse, infatti, non vantano una posizione giuridica suscettibile di essere pregiudicata dalla decisione di questa Corte sulle norme oggetto di censura, ma soltanto un generico interesse connesso al perseguimento dei loro scopi statutari.
3.- Il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale, perché il rimettente non avrebbe prospettato “specifiche censure con riguardo a ciascun parametro costituzionale richiamato”, con conseguente difetto di motivazione.
3.1.- L’eccezione è palesemente destituita di fondamento.
Il giudice rimettente, evocando a parametro congiuntamente gliartt. 2, 13 e 32 Cost., ha in tutta evidenza ritenuto che l’addizione richiesta a questa Corte sarebbe imposta dal combinato disposto di tali norme costituzionali. Del resto, non solo la giurisprudenza di questa Corte ha già riconosciuto che il principio del consenso informato trova fondamento proprio nelle norme costituzionali ora in discorso (sentenza n. 438 del 2008 e ordinanza n. 207 del 2018), ma è la stessaL. n. 219 del 2017a definirsi funzionale alla tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona, nel rispetto, tra gli altri, dei principi di cui agliartt. 2, 13 e 32 Cost.
Autonomamente e adeguatamente motivate, poi, sono le censure in riferimentoall’art. 3 Cost.
4.- Il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale anche sotto un ulteriore profilo: il giudice rimettente non avrebbe “argomentato in ordine all’impossibilità di dare alle disposizioni impugnate un’interpretazione conforme a Costituzione”.
4.1.- L’eccezione non è fondata.
Il giudice tutelare di Pavia si è diffuso ampiamente sull’interpretazione delle disposizioni censurate, soffermandosi in particolare sul significato da attribuire alla locuzione “rifiuto delle cure”, la quale ricomprenderebbe, alla luce della ratio legis e del diritto costituzionale all’autodeterminazione, anche il rifiuto delle cure necessarie al mantenimento in vita; non solo, il giudice a quo ha espressamente escluso di poter interpretare detta locuzione come non comprensiva del rifiuto di tali cure. L’iter argomentativo della ordinanza di rimessione si fonda, dunque, su una seria e approfondita attività ermeneutica concernente la disposizione censurata, conclusasi con un’attribuzione a quest’ultima di un significato normativo che al giudice rimettente appare in contrasto con gli evocati parametri costituzionali.
Il giudice a quo, dunque, ha implicitamente escluso, all’esito dell’attività interpretativa posta in essere, di poter ricavare dalle disposizioni oggetto di censura norme conformi a Costituzione. Se, poi, l’esito dell’attività esegetica del giudice rimettente sia condivisibile, o no, è profilo che attiene al merito, e non più all’ammissibilità, delle questioni di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 78 e n. 12 del 2019, n. 132 e n. 15 del 2018, n. 69, n. 53 e n. 42 del 2017, n. 221 del 2015).
5.- Nel merito, le questioni di legittimità costituzionale non sono fondate.
Il giudice tutelare rimettente (legittimato a sollevare questioni di legittimità costituzionale: da ultimo, sentenza n. 258 del 2017) impernia i dubbi di costituzionalità sul seguente assunto: in ragione di quanto previsto dalle disposizioni censurate, l’amministratore di sostegno, al quale, in assenza delle DAT, sia stata affidata la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, ha per ciò solo, sempre e comunque, anche il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza del beneficiario, senza che il giudice tutelare possa diversamente decidere e senza bisogno di un’autorizzazione di quest’ultimo per manifestare al medico il rifiuto delle cure.
Si tratta di un presupposto interpretativo erroneo.
5.1.- Deve innanzitutto osservarsi che laL. n. 219 del 2017, come si evince sin dal suo titolo, dà attuazione al principio del consenso informato nell’ambito della “relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico” (art. 1, comma 2).
Per quanto qui rileva, il principio – previsto da plurime norme internazionali pattizie, oltre che dall’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e da diverse leggi nazionali che disciplinano specifiche attività mediche – ha fondamento costituzionale negliartt. 2, 13 e 32 Cost.e svolge la “funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative” (sentenza n. 438 del 2008; nello stesso senso, sentenza n. 253 del 2009 e ordinanza n. 207 del 2018). In attuazione delle norme costituzionali, laL. n. 219 del 2017, pertanto, dopo aver sancito che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge” (art. 1, comma 1), promuove e valorizza la relazione di cura e fiducia tra medico e paziente che proprio sul consenso informato deve basarsi (art. 1, comma 2), esplicita le informazioni che il paziente ha diritto di ricevere (art. 1, comma 3), stabilisce le modalità di espressione del consenso e del rifiuto di qualsivoglia trattamento sanitario, anche (ma non solo) necessario alla sopravvivenza (art. 1, commi 4 e 5), prevede l’obbligo per il medico di rispettare la volontà espressa dal paziente (art. 1, comma 6).
LaL. n. 219 del 2017ha poi introdotto, ovviamente in correlazione al diritto all’autodeterminazione in ambito terapeutico, l’istituto delle DAT, prevedendo che ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di determinarsi, possa esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, a tale scopo indicando un “fiduciario”, che faccia le sue veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie (art. 4, comma 1). Il medico è tenuto al rispetto delle DAT (che devono essere redatte secondo quanto disposto dall’art. 4, comma 6), potendo egli disattenderle, in accordo con il fiduciario, soltanto “qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita” (art. 4, comma 5).
5.1.1.- L’art.3dellaL. n. 219 del 2017reca la disciplina – concernente tanto il consenso informato quanto le DAT – applicabile nel caso in cui il paziente sia non una persona (pienamente) capace di agire (art. 1, comma 5), ma una persona minore di età, interdetta, inabilitata o beneficiaria di amministrazione di sostegno.
Le norme oggetto del presente giudizio di costituzionalità regolano, in particolare, quest’ultimo caso, stabilendo, da un lato, che, quando la nomina dell’amministratore di sostegno prevede l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, “il consenso informato è espresso o rifiutato anche dall’amministratore di sostegno ovvero solo da quest’ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere” (art. 3, comma 4); dall’altro, che, qualora non vi siano DAT, se l’amministratore di sostegno rifiuta le cure e il medico le reputa invece appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare, su ricorso dei soggetti legittimati a proporlo (art. 3, comma 5). Le norme censurate, dunque, sono volte a disciplinare casi particolari di espressione o di rifiuto del consenso informato, anche – ma non soltanto – laddove questo riguardi trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza.
Contrariamente a quanto sostenuto dal giudice rimettente, però, esse non hanno disciplinato “le modalità di conferimento, all’amministratore di sostegno, e di conseguente esercizio dei poteri in ambito sanitario”, le quali, invece, restano regolate dagli artt. 404 e seguenti cod. civ., come introdotti dallaL. 9 gennaio 2004, n. 6(Introduzione nel libro primo, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degliarticoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civilein materia di interdizioni e di inabilitazione, nonché relative norme di attuazione, di coordinamento e finali). Le norme oggetto dell’odierno sindacato di questa Corte, altrimenti detto, non disciplinano l’istituto dell’amministrazione di sostegno, ma regolano il caso in cui essa sia stata disposta per proteggere una persona che è sottoposta, o potrebbe essere sottoposta, a trattamenti sanitari e che, pertanto, deve esprimere o no il consenso informato a detti trattamenti.
L’esegesi dell’art.3, commi 4 e 5, dellaL. n. 219 del 2017deve essere condotta, pertanto, alla luce dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, richiamato dalle norme censurate: segnatamente, è in base alla disciplina codicistica che devono essere individuati i poteri spettanti al giudice tutelare al momento della nomina dell’amministratore di sostegno, i quali non sono affatto contemplati dalla richiamataL. n. 219 del 2017.
5.2.- Questa Corte, già all’indomani dellaL. n. 6 del 2004, rilevò che “l’ambito dei poteri dell’amministratore è puntualmente correlato alle caratteristiche del caso concreto” (sentenze n. 51 del 2010 e n. 440 del 2005), secondo quanto previsto dal giudice tutelare nel provvedimento di nomina, che deve contenere, tra le altre indicazioni, quelle concernenti l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario (art. 405, quinto comma, numero 3, cod. civ.), nonché la periodicità con cui l’amministratore di sostegno deve riferire al giudice circa l’attività svolta e le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario (art. 405, quinto comma, numero 6, cod. civ.).
Più di recente, anche sulla scia dell’interpretazione e dell’applicazione dell’amministrazione di sostegno da parte della giurisprudenza di legittimità, questa Corte ha osservato che tale istituto “si presenta come uno strumento volto a proteggere senza mortificare la persona affetta da una disabilità, che può essere di qualunque tipo e gravità (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 27 settembre 2017, n. 22602)” (sentenza n. 114 del 2019). Esso consente al giudice tutelare “di adeguare la misura alla situazione concreta della persona e di variarla nel tempo, in modo tale da assicurare all’amministrato la massima tutela possibile a fronte del minor sacrificio della sua capacità di autodeterminazione (in questo senso, Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 11 maggio 2017, n. 11536; 26 ottobre 2011, n. 22332; 29 novembre 2006, n. 25366 e 12 giugno 2006, n. 13584; ma si veda anche Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 11 settembre 2015, n. 17962)” (sentenza n. 114 del 2019).
L’amministrazione di sostegno è, insomma, un istituto duttile, che, proprio in ragione di ciò, può essere plasmato dal giudice sulle necessità del beneficiario, anche grazie all’agilità della relativa procedura applicativa (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 11 settembre 2015, n. 17962; 26 ottobre 2011, n. 22332; 1 marzo 2010, n. 4866; 29 novembre 2006, n. 25366 e 12 giugno 2006, n. 13584). Con il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno, difatti, il giudice tutelare “si limita, in via di principio, a individuare gli atti in relazione ai quali ne ritiene necessario l’intervento” (sentenza n. 114 del 2019), perché è chiamato ad affidargli, nell’interesse del beneficiario, i necessari strumenti di sostegno con riferimento alle sole categorie di atti al cui compimento quest’ultimo sia ritenuto inidoneo (Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenza 29 novembre 2006, n. 25366).
Attribuendo al giudice tutelare il compito di modellare l’amministrazione di sostegno in relazione allo stato personale e alle condizioni di vita del beneficiario, il legislatore ha inteso limitare “nella minore misura possibile” (sentenza n. 440 del 2005) la capacità di agire della persona disabile: il che marca nettamente la differenza con i tradizionali istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, la cui applicazione attribuisce al soggetto uno status di incapacità, più o meno estesa, connessa a rigide conseguenze legislativamente predeterminate. Il maggior rispetto dell’autonomia e della dignità della persona disabile assicurata dall’amministrazione di sostegno è alla base di quelle recenti decisioni, anche di questa Corte, che hanno escluso si estendano a tali soggetti – in ragione d’una generalizzata applicazione, in via analogica, delle limitazioni dettate per l’interdetto o l’inabilitato – i divieti di contrarre matrimonio (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 11 maggio 2017, n. 11536) o di donare (sentenza n. 114 del 2019; Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 21 maggio 2018, n. 12460): il beneficiario di amministrazione di sostegno può sì essere privato della capacità di porre in essere tali atti personalissimi, quando ciò risponda alla tutela di suoi interessi, ma sempre che ciò sia espressamente disposto dal giudice tutelare – nel provvedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno o anche in una sua successiva revisione – con esplicita clausola ai sensidell’art. 411, quarto comma, cod. civ.
È fuor di dubbio, infine, che possa ricorrersi all’amministrazione di sostegno anche laddove sussistano soltanto esigenze di “cura della persona” – come d’altra parte recitano gliartt. 405, quarto comma, e 408, primo comma, cod. civ.- in quanto esso non è istituto finalizzato esclusivamente ad assicurare tutela agli interessi patrimoniali del beneficiario, ma è volto, più in generale, a soddisfarne i “bisogni” e le “aspirazioni” (art. 410, primo comma, cod. civ.), così garantendo adeguata protezione alle persone fragili, in relazione alle effettive esigenze di ciascuna (Corte di cassazione, sesta sezione civile, ordinanza 26 luglio 2018, n. 19866; sul ricorso all’amministrazione di sostegno per l’esercizio di scelte connesse al diritto alla salute, anche Corte di cassazione, prima sezione civile, ordinanza 15 maggio 2019, n. 12998).
5.3.- La ricostruzione del quadro normativo concernente l’amministrazione di sostegno, anche alla luce degli approdi della giurisprudenza di questa Corte e della Corte di cassazione, rivela l’erroneità del presupposto interpretativo su cui si fondano le questioni di legittimità costituzionale proposte dal giudice tutelare di Pavia.
Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente, le norme censurate non attribuiscono ex lege a ogni amministratore di sostegno che abbia la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario anche il potere di esprimere o no il consenso informato ai trattamenti sanitari di sostegno vitale.
Nella logica del sistema dell’amministrazione di sostegno è il giudice tutelare che, con il decreto di nomina, individua l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario. Spetta al giudice, pertanto, il compito di individuare e circoscrivere i poteri dell’amministratore, anche in ambito sanitario, nell’ottica di apprestare misure volte a garantire la migliore tutela della salute del beneficiario, tenendone pur sempre in conto la volontà, come espressamente prevede l’art.3, comma 4, dellaL. n. 219 del 2017. Tali misure di tutela, peraltro, non possono non essere dettate in base alle circostanze del caso di specie e, dunque, alla luce delle concrete condizioni di salute del beneficiario, dovendo il giudice tutelare affidare all’amministratore di sostegno poteri volti a prendersi cura del disabile, più o meno ampi in considerazione dello stato di salute in cui, al momento del conferimento dei poteri, questi versa. La specifica valutazione del quadro clinico della persona, nell’ottica dell’attribuzione all’amministratore di poteri in ambito sanitario, tanto più deve essere effettuata allorché, in ragione della patologia riscontrata, potrebbe manifestarsi l’esigenza di prestare il consenso o il diniego a trattamenti sanitari di sostegno vitale: in tali casi, infatti, viene a incidersi profondamente su “diritti soggettivi personalissimi” (Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenza 7 giugno 2017, n. 14158; più di recente, anche Corte di cassazione, prima sezione civile, ordinanza 15 maggio 2019, n. 12998), sicché la decisione del giudice circa il conferimento o no del potere di rifiutare tali cure non può non essere presa alla luce delle circostanze concrete, con riguardo allo stato di salute del disabile in quel dato momento considerato.
La ratio dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, pertanto, richiede al giudice tutelare di modellare, anche in ambito sanitario, i poteri dell’amministratore sulle necessità concrete del beneficiario, stabilendone volta a volta l’estensione nel solo interesse del disabile. L’adattamento dell’amministrazione di sostegno alle esigenze di ciascun beneficiario è, poi, ulteriormente garantito dalla possibilità di modificare i poteri conferiti all’amministratore anche in un momento successivo alla nomina, tenendo conto, ove mutassero le condizioni di salute, delle sopravvenute esigenze del disabile: il giudice tutelare, infatti, deve essere periodicamente aggiornato dall’amministratore circa le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario (art. 405, quinto comma, numero 6, cod. civ.), può modificare o integrare, anche d’ufficio, le decisioni assunte nel decreto di nomina (art. 407, quarto comma, cod. civ.), può essere chiamato a prendere gli opportuni provvedimenti – su ricorso del beneficiario, del pubblico ministero o degli altri soggetti di cuiall’art. 406 cod. civ.- in caso di contrasto, di scelte o di atti dannosi ovvero di negligenza dell’amministratore nel perseguire l’interesse o nel soddisfare i bisogni o le richieste della persona disabile (art. 410, secondo comma, cod. civ.).
5.3.1.- L’esegesi dell’art.3, commi 4 e 5, dellaL. n. 219 del 2017, tenuto conto dei principi che conformano l’amministrazione di sostegno, porta allora conclusivamente a negare che il conferimento della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario rechi con sé, anche e necessariamente, il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita. Le norme censurate si limitano a disciplinare il caso in cui l’amministratore di sostegno abbia ricevuto anche tale potere: spetta al giudice tutelare, tuttavia, attribuirglielo in occasione della nomina – laddove in concreto già ne ricorra l’esigenza, perché le condizioni di salute del beneficiario sono tali da rendere necessaria una decisione sul prestare o no il consenso a trattamenti sanitari di sostegno vitale – o successivamente, allorché il decorso della patologia del beneficiario specificamente lo richieda.

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile l’intervento delle associazioni U.G.C. e U.G.;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art.3, commi 4 e 5, dellaL. 22 dicembre 2017, n. 219(Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), sollevate, in riferimento agliartt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, dal giudice tutelare del Tribunale ordinario di Pavia con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 marzo 2019.
Depositata in Cancelleria il 13 giugno 2019.

Nel giudizio di accertamento negativo della provenienza della scrittura, la prova dell’autenticità del testamento olografo grava sulla parte che la contesta

Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 2019, n. 14700
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1195-2015 proposto da:
S.F.O., S.M., in rappresentazione (nella qualità di erede legittima) di S.G., G.D., in rappresentazione (nella qualità di erede legittima) di S.F., S.A., in proprio (quale erede testamentari di S.O.) e in rappresentazione (nella qualità di erede legittima) di S.F., L.G.S., nella qualità di erede di S.G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA PIAVE 52, presso lo studio dell’avvocato RENATO CARCIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato MASSIMO FRICANO;
– ricorrenti –
contro
G.V., e G.A. in qualità di eredi di S.E., P.G., P.A. e P.S., S.G., S.M., S.A., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE 22, presso lo studio dell’avvocato GUIDO MARIA POTTINO, rappresentati e difesi dall’avvocato NICOLO’ CASSATA;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 692/2014 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 24/04/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/11/2018 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE TEDESCO;
lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo, assorbiti i restanti.
Svolgimento del processo
che:
– il Tribunale di Palermo è stato investito della domanda, proposta successibili ex lege di S.O. (la sorella S.E., i figli del fratello premorto S.G. ( S.G., n. il (OMISSIS)) il S.M., S.A.) e figli della sorella premorta S.A. ( P.A., P.G. e P.S.), volta a far dichiarare la nullità del testamento olografo con il quale il defunto aveva disposto delle proprie sostanze nominando eredi i nipoti S.G. (n. il (OMISSIS)) e S.A. e legando al S.F., figlio di S.G. e L.G.S. l’immobile di cui era proprietario al momento della morte;
– in aggiunta alla domanda volta a fare dichiarare la nullità del testamento, con la conseguente devoluzione dell’eredità agli eredi legittimi, compresi i convenuti, il tribunale è stato chiamato a decidere sulla domanda volta a far dichiarare l’indegnità dei medesimi convenuti, per avere fatto uso di un testamento falso;
– il tribunale, eseguita consulenza tecnica, rigettava ambedue le domande, ordinando ai convenuti il rilascio dei beni;
– contro la sentenza i convenuti hanno proposto appello;
– la corte ha ordinato la rinnovazione delle consulenze tecnica;
– quindi, rilevando che il consulente aveva riconosciuto che, pur essendo la firma in calce al testamento probabilmente autografa, non era possibile giungere “ad un giudizio di attribuzione o non attribuzione di olografia testamentaria a cagione della mancanza di autografia in corsivo omografe necessarie per una conducente analisi grafica”;
– ha inoltre osservato che la sentenza di primo grado era corretta anche nella parte in cui ha ordinato il rilascio dei beni ereditari;
– la concorrente qualità dei convenuti, di successibilì ex lege al pari degli attori, non era stata fatto valere nel giudizio di primo grado, per cui l’argomento introduceva in appello un tema di indagine nuovo;
-per la cassazione della sentenza hanno proposto rìcorso S.A., S.F.O., L.G.S. e G.D. (le ultime due nella qualità di erede di S.G. n. il (OMISSIS)), affidato a tre motivi;
-hanno resistito con controricorso G.V. e G.A. (eredi di S.E.) S.G. (n. il (OMISSIS)), S.M., S.A., P.G., P.A. e P.S.;
-le parti hanno depositato memoria;

Motivi della decisione
che:
Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto, sotto il profilo che la contestazione dell’autenticità del testamento implica proposizione della querela di falso, ricadendo in ogni caso l’onere di provare la falsità su chi la deduce;
-il motivo è fondato;
-le Sezioni Unite di questa Corte ha stabilito in materia il seguente principio di diritto: “la parte che contesti l’autenticità del testamento olografo deve proporre domanda di accertamento negativo della provenienza della scrittura, e grava su di essa l’onere della relativa prova, secondo i principi generali dettati in tema di accertamento negativo” (Cass., S.U., n. 12307/2015; conf. n. 109/2017);
-la corte di merito non si è attenuta a tale principio;
-emerge con chiarezza che la corte ha ragionato e valutato gli esiti dell’istruzione compiuta sulla scheda in base a un diverso criterio di ripartizione dell’onere probatorio, risolvendo il dubbio sulla autenticità della scheda in favore della parte che ne aveva negato l’autenticità;
-il secondo motivo e il terzo motivo denunciano la sentenza nella parte in cui la corte d’appello ha ordinato ai convenuti il rilascio dei beni, in conseguenza della dichiarazione di nullità del testamento;
– essi sono assorbiti;
– la sentenza è cassata in relazione al primo motivo, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Palermo, affinché provveda a nuovo esame attenendosi al principio di cui sopra e liquidi le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
accoglie il primo motivo; dichiara assorbiti i restanti motivi; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Palermo anche per le spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione civile, il 21 novembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2019

La prova della qualità di chiamato all’eredità può essere data anche con la dichiarazione sostitutiva di atto notorio

Cass. civ. Sez. II, 31 maggio 2019, n. 15026
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 3256-2016 proposto da:
L.R.R., R.E., R.A., Ri.Em., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA BUCCARI 3, presso lo studio dell’avvocato EMILIO RINALDI, anche quale difensore di se stesso che rappresenta e difende gli altri ricorrenti giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
PICCOLA OPERA DIVINA PROVVIDENZA DON ORIONE, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TACITO 39, presso lo studio dell’avvocato GIULIO FAVINO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARMINE PUNZI giusta procura a margine del controricorso;
– ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 3901/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 25/06/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/01/2019 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Udito il Pubblico Ministero nella persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE ALESSANDRO che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e per l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato;
udito l’Avvocato Emilio Rinaldi per i ricorrenti e l’Avvocato Antonio D’Alessio per delega dell’Avvocato Carmine Punzi per la controricorrente.

Svolgimento del processo
R.E. e R.M. con citazione del 7 aprile 2006 convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma la — chiedendo, nell’asserita qualità di parenti di sesto grado del de cuius, R.G., la risoluzione della disposizione testamentaria gravante sull’istituzione di erede in favore della convenuta, la quale prevedeva la creazione, presso l’abitazione del de cuius, a cura della stessa convenuta, di una casa di riposo per vecchi professionisti, di preferenza ingegneri, con intestazione della medesima ai genitori del testatore.
Assumevano che l’erede beneficiata non si era attivata per l’adempimento dell’onere, nonostante fosse decorso un considerevole tempo dall’apertura della successione (risalente al 1967), così che andava disposta la risoluzione della previsione modale, ovvero ne andava dichiarata la nullità. Nella resistenza della convenuta, interrottosi il giudizio per il decesso dell’attore R.M., e subentrati i suoi eredi, L.R., Ri.Em. e R.A., il Tribunale con la sentenza n. 17729 del 14 maggio 2009 ha rigettato la domanda, rilevando che gli istanti non avevano dimostrato l’inesistenza di altri successibili di grado poziore al loro, assumendo altresì che l’azione di risoluzione era prescritta.
Avverso tale sentenza hanno proposto appello gli attori e, sempre nella resistenza della Piccola Opera della Divina Provvidenza di Don Orione, la Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 3901 del 25 giugno 2015, ha rigettato l’appello, condannando gli appellanti anche al rimborso delle spese del giudizio di secondo grado.
Dopo avere dato atto della novità, e conseguente inammissibilità della domanda di risarcimento del danno derivante dal depauperamento del patrimonio ereditario per effetto di alienazioni poste in essere dalla convenuta nel corso degli anni, rilevava che legittimati a richiedere la risoluzione nonché la nullità della disposizione testamentaria modale sono solo coloro destinati a subentrare nella posizione giuridica dell’onerato inadempiente.
Gli appellanti non avevano fornito la prova di essere i parenti legittimi del testatore di grado più stretto, non avendo dimostrato l’assenza di parenti di grado poziore, il che escludeva che fossero legittimati ad agire.
Analogo difetto di legittimazione era riscontrato anche per la domanda di adempimento dell’onere testamentario, atteso che la stessa compete non agli eredi in quanto tali, ma ai prossimi congiunti, stante l’esigenza con tale azione di soddisfare un interesse morale dello stesso testatore che in realtà si trasferisce ai prossimi congiunti.
Ne derivava che, poiché vi era la prova dell’esistenza di parenti legittimi del defunto di grado più prossimo rispetto a quello (sesto) vantato dagli appellanti, questi ultimi erano privi di legittimazione ad agire.
Era del pari disatteso il secondo motivo di appello concernente la liquidazione delle spese di lite, come operata dal Tribunale, in quanto il mezzo di impugnazione non specificava le ragioni in base alle quali la liquidazione sarebbe dovuta avvenire sulla scorta di uno scaglione diverso da quello riferibile al valore della domanda attorea, che era stato individuato in citazione nell’importo dei beni immobili caduti in successione (comprensivi di quelli già alienati per oltre diciotto milioni di Euro, e di quelli residui, di valore pari ad oltre ventuno milioni di Euro, senza considerare la redditività degli immobili stessi). Nemmeno fondata era la contestazione circa l’insussistenza della soccombenza, in quanto alcune delle domande attoree erano state reputate assorbite.
In relazione ai motivi che investivano l’apprezzamento dell’esistenza di parenti di grado più vicino a quello vantato dagli appellanti, la decisione d’appello rilevava che era onere degli stessi attori fornire la prova dell’inesistenza di parenti di grado viciniore, osservando altresì che in realtà l’esistenza di parenti aventi tale grado risultava da una precedente azione esercitata in giudizio nei confronti della convenuta, come emergeva anche dalla rinuncia alla stessa di cui all’atto del 13 dicembre 1981, alla quale aveva fatto richiamo il Tribunale.
Infine, era fondato anche il quinto motivo di appello che verteva sulla prescrizione, dovendosi reputare che nella specie la stessa andava fatta decorrere dalla data di apertura della successione (19 febbraio 1967) ovvero dalla data di accettazione dell’eredità da parte della convenuta (1969), occorrendo comunque considerare che l’azione intentata dagli altri eredi e conclusa con la rinuncia del 1981 avrebbe dovuto indurre gli appellanti a considerare la volontà dell’ente beneficiario di non dare corso alle disposizioni testamentarie (e ciò anche a tacere del fatto che la documentazione prodotta dimostrava le attività poste in essere dalla Opera Pia al fine di dare attuazione all’onere testamentario).
Per la cassazione di tale sentenza propongono ricorso R.E., L.R., Ri.Em. e R.A., sulla base di quattordici motivi.
Resiste con controricorso la Piccola Opera della Divina Provvidenza di Don Orione, che a sua volta propone ricorso incidentale condizionato affidato ad un motivo.
I ricorrenti principali hanno resistito con controricorso al ricorso incidentale.
Entrambe le parti hanno depositato memorie exart. 378 c.p.c.in prossimità dell’udienza.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso principale si denuncia ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza nella parte relativa alla disamina dell’eccezione di prescrizione, essendosi disatteso in maniera implicita il motivo di appello con il quale si denunciava la nullità dell’eccezione di prescrizione stante la mancata indicazione da parte della convenuta della data di decorrenza, e ciò ai sensidell’art. 112 c.p.c.,art. 132 c.p.c., n. 4,art. 156 c.p.c., comma 2,art. 118 disp. att. c.p.c.,artt. 24 e 111 Cost..
Si deduce che secondo i principi affermati da questa Corte, è onere della parte che eccepisce la prescrizione indicare il momento di decorrenza della stessa, laddove nel caso in esame nella comparsa di risposta in primo grado tale indicazione era stata del tutto omessa, essendo stata oggetto di integrazione solo nella comparsa di risposta in appello, e peraltro in maniera del tutto generica.
Il secondo motivo deduce, sempre in relazione all’accoglimento dell’eccezione di prescrizione, la violazione e falsa applicazione degliartt. 2934 e 2935 c.c., in quanto la Corte d’Appello avrebbe riscontrato la prescrizione facendo riferimento a ben tre distinte date di decorrenza della stessa (data di apertura della successione, data di accettazione dell’eredità da parte della convenuta, data della rinuncia alla precedente azione intentata da altri parenti del R.).
Il terzo motivo di ricorso lamenta la nullità dello stesso capo di sentenza per la violazione degliartt. 132 e 156 c.p.c.,art. 118 disp. att. c.p.c.eartt. 24 e 111 Cost.per la motivazione apparente e comunque perplessa, quanto all’individuazione della data di decorrenza della prescrizione.
Il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazionedell’art. 2938 c.c., nonché degliartt. 112 e 183 c.p.c.in quanto la Corte d’Appello avrebbe individuato il dies a quo della prescrizione in momenti non indicati dalla parte eccipiente, che si era limitata a far riferimento alla data di apertura della successione ed alla successiva data di autorizzazione dell’erede testamentaria all’accettazione dell’eredità.
Il quinto motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 648, 1218 e 1453 e ss. c.c.,artt. 2697 e 2935 c.c., in quanto la Corte d’appello ha fatto decorrere la prescrizione da un momento in cui il diritto azionato non poteva essere fatto valere.
Infatti, al momento dell’apertura della successione, in mancanza di accettazione, non poteva reclamarsi da parte della convenuta l’adempimento dell’onere apposto alla sua istituzione, mentre in relazione alla diversa data di accettazione dell’eredità, occorreva tenere conto della complessità delle attività necessarie a dare attuazione alla volontà del de cuius, attesa anche l’assenza di un termine assegnato dal de cuius per l’adempimento dell’onere.
Infine, quanto alla data della conclusione della precedente controversia, doveva escludersi che sussistesse la certezza dell’inadempimento definitivo della controparte, tale da imporre già a quel momento di dover agire per la risoluzione.
Il sesto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degliartt. 2697, 565 e 572 c.c.eart. 113 c.p.c., comma 1 per avere la Corte d’Appello sostenuto che fosse onere degli appellanti provare l’inesistenza di parenti di grado viciniore.
In parte qua la decisione gravata ha confermato quanto statuito dal Tribunale trascurando che le norme in materia di successione legittima attribuiscono la vocazione ereditaria a tutti i parenti, sebbene con la graduazione prevista dalla stessa legge.
L’esistenza di parenti di grado più prossimo a quello vantato dagli attori costituisce una condizione ostativa dell’accoglimento della domanda, il cui onere probatorio incombeva sulla convenuta, non potendosi quindi esigere che i ricorrenti dovessero altresì farsi carico di dimostrare l’inesistenza di tali parenti di grado poziore.
Il settimo motivo lamenta la violazione e falsa applicazionedell’art. 167 c.p.c., comma 1,artt. 101 e 112 c.p.c.eart. 116 c.p.c., comma 2 edell’art. 2697 c.c., per avere la Corte considerato come una contestazione di un fatto (l’inesistenza di altri parenti) quella invece di un diritto, in quanto la convenuta nella comparsa di risposta non aveva contestato l’assenza di parenti di grado poziore, ma si era limitata a dedurre che gli attori fossero privi di legittimazione, con la conseguenza che la circostanza della assenza di altri parenti era ormai al di fuori del thema probandum.
L’ottavo motivo denuncia la nullità parziale della sentenza per violazionedell’art. 112 c.p.c.eart. 132 c.p.c., n. 4,art. 156 c.p.c., comma 2,art. 118 disp. att. c.p.c.,artt. 24 e 111 Cost.per motivazione apparente in ordine al contenuto della contestazione sollevata dalla convenuta, in quanto non ha adeguatamente illustrato in quale parte della sua tesi difensiva la convenuta avesse contestato il fatto che non vi fossero parenti di grado più vicino a quello vantato dai ricorrenti.
Il nono motivo lamenta la violazione e falsa applicazione degliartt. 2697 e 2702 c.c.,artt. 101 e 214 c.p.c.,artt. 24 e 111 Cost., laddove la Corte d’Appello ha attribuito valenza probatoria ad uno scritto proveniente da soggetti estranei al giudizio senza altri elementi di convincimento.
La sentenza gravata ha, infatti, reputato che fosse stata offerta la prova dell’esistenza di parenti di grado poziore sulla scorta della rinunzia agli atti del precedente giudizio recante la data del 13 dicembre 1981 (rectius 15 dicembre 1981), la quale però contiene unicamente delle dichiarazioni rese da soggetti estranei al presente giudizio, sicché non poteva fondare di per sé sola il convincimento del giudice circa la prova dell’effettiva veridicità di quanto dichiarato.
Il decimo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione degliartt. 449, 451 e 452 c.c.in quanto la Corte d’Appello ha utilizzato come prova di convincimento circa l’esistenza del rapporto di parentela un atto diverso dagli atti di stato civile. L’undicesimo motivo lamenta la violazione e falsa applicazionedell’art. 456 c.c.,art. 457 c.c., comma 2,artt. 459, 476, 565 e 572 c.c.in quanto la Corte d’Appello ha attribuito la qualità di eredi legittimi a soggetti che non potevano rivestirla attesa la natura testamentaria della successione.
Poiché il testamento redatto dal de cuius aveva attribuito alla Opera Pia la qualità di erede universale, non poteva essere invocata dai parenti, ancorché di grado più vicino a quello vantato da parte degli attori, una chiamata alla successione, essendo quindi del tutto irrilevante la loro eventuale accettazione tacita.
Il dodicesimo motivo denuncia la nullità parziale della sentenza per la violazionedell’art. 112 c.p.c.,artt. 24 e 111 Cost.per l’omessa pronuncia sul motivo di appello con il quale si sosteneva che la valutazione circa l’esistenza di parenti di grado viciniore andasse effettuata non già alla data di apertura della successione, ma alla diversa data di proposizione della domanda.
Il tredicesimo motivo denuncia la nullità parziale della sentenza per motivazione apparente nonché per violazione e falsa applicazione degliartt. 74, 76, 77, 572 e 2697 c.c.eart. 115 c.p.c., comma 1, per avere la Corte d’Appello affermato l’esistenza di parenti di grado più prossimo a quello dei ricorrenti, senza conoscere né accertare quale fosse effettivamente tale grado e sulla base di un documento che non contiene alcuna indicazione al riguardo, come appunto la dichiarazione di rinuncia del 1981.
Il quattordicesimo motivo denuncia infine la violazione e falsa applicazione delD.M. n. 55 del 2014,art.5, dellaL. n. 247 del 2012,art.13, comma 6e dell’art. 2233 c.c. in quanto la Corte d’Appello ha liquidato le spese di lite sulla base di un’erronea determinazione del valore della controversia.
I giudici di appello avrebbero liquidato le spese applicando lo scaglione di valore tra 16 e 32 milioni di Euro, tenuto conto del fatto che trattavasi di una pronuncia di rigetto.
Si adduce, in senso contrario che la domanda aveva ad oggetto la risoluzione della disposizione testamentaria per inadempimento dell’onere nonché una correlata domanda risarcitoria.
La prima domanda era però di valore indeterminabile, mentre per la seconda, poiché la somma attribuita a titolo di risarcimento era pari a zero, non poteva tenersi conto dell’importo richiesto.
Anche la ulteriormente correlata domanda risarcitoria presentava un valore indeterminato, con la conseguenza che la liquidazione doveva avvenire considerando la causa di valore indeterminabile, atteso anche il principio matematico per cui cumulando una causa di valore determinato ad una di valore indeterminato si ottiene sempre un valore indeterminato.
1.1 L’unico motivo di ricorso incidentale condizionato denuncia l’omessa disamina di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti rappresentato dal mancato esame della contestazione circa la titolarità da parte degli attori di un valido rapporto di parentela.
Si rileva che la nozione di parentela non può prescindere dall’esistenza di un vincolo legittimo, il che porta ad escludere dal novero dei parenti quei soggetti legati da meri rapporti di consanguineità, generati al di fuori del matrimonio. Nella specie gli attori avevano dedotto di essere figli di R.E., a sua volta figlio di R.A., figlio di R.G.B., figlio di R.P. che però era il padre di R.C., padre del de cuius.
Poiché R.E. padre degli attori è figlio naturale di R.A., e poiché il matrimonio tra R.E. e M.G. è stato dichiarato nullo dal Tribunale ecclesiastico, ne consegue che non esiste un rapporto di parentela suscettibile di far includere gli istanti tra i soggetti legittimati a vantare diritti successori.
2. In limine litis deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del controricorso sollevata nelle memorie exart. 378 c.p.c.dai ricorrenti sul presupposto del conferimento della procura speciale da parte dell’Economo Generale, in contrasto con quanto previsto dall’art. 638p.3 del codex iuris canonici che per i soggetti sottoposti alla disciplina di tale codice prevede, secondo il testo risultante dalla traduzione riportata nella stessa memoria che “per la validità dell’alienazione e di qualunque negozio da cui la situazione patrimoniale della persona giuridica potrebbe subire detrimento si richiede la licenza scritta rilasciata dal superiore competente con il consenso del suo consiglio”.
Si deduce che nella fattispecie il conferimento dell’incarico difensivo agli odierni patrocinatori della controricorrente poiché prevede la contemporanea assunzione di un onere economico implica la conclusione di un negozio idoneo potenzialmente a portare detrimento all’ente, essendo quindi necessario il consenso del Superiore Generale, la cui assenza rende invalidi la procura ed il sottostante mandato difensivo.
Rileva il Collegio che non appare più applicabile alla vicenda de qua la precedente giurisprudenza di questa Corte che in passato aveva affermato che (cfr. ex multis Cass. S.U. n. 6918/1983) le autorizzazioni canoniche o governative, richieste affinché gli enti ecclesiastici possano stare in giudizio, sono rivolte esclusivamente ad assicurare esigenze di tutela degli enti medesimi, sicché la loro mancanza, integrando una nullità relativa, può essere fatta valere soltanto dall’ente interessato. (conf Cass. n. 2989/81, Cass. n. 2512/70), atteso che si tratta di orientamento maturato in un diverso contesto normativo.
Alla fattispecie è invece destinata a trovare applicazione la nuova disciplina di cui allaL. n. 222 del 1985,art.18(adottata all’esito della revisione dei Patti Lateranensi) che recita che “Ai fini dell’invalidità o inefficacia di negozi giuridici posti in essere da enti ecclesiastici non possono essere opposte a terzi. che non ne fossero a conoscenza, le limitazioni dei poteri di rappresentanza o l’omissione di controlli canonici che non risultino dal codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche”.
Tale nuova disposizione normativa è stata intesa nel senso che (cfr. Cass. n. 2117/2015) gli amministratori di beni ecclesiastici, in mancanza del permesso scritto del superiore competente, non possono validamente compiere atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, impegnando l’ente con riguardo ad un negozio (nella specie, un contratto preliminare di vendita immobiliare) idoneo a procurare allo stesso un detrimento patrimoniale, essendo la limitazione del diritto canonico opponibile anche ai terzi.
Tuttavia ad escludere la invalidità della procura e del sottostante mandato difensivo conferito dalla convenuta ai difensori nominati in questa sede è l’impossibilità di ricondurre tali atti alle ipotesi per le quali a mente del menzionato canone 683 p.3 si imponga la licenza scritta del superiore competente. Infatti, in disparte l’espresso riferimento all’applicabilità della norma ad atti negoziali, ciò che appare carente nella fattispecie è la ricorrenza del pericolo di potenziale detrimento derivante dall’incarico defensionale de quo, atteso che, una volta esclusa la ricorrenza di un’ipotesi di alienazione, atteso l’esito della lite nei precedenti gradi di giudizio, che ha visto sempre vittoriosa la Piccola Opera della Provvidenza, che in tal modo si è assicurata la stabilità degli effetti successori in suo favore, anche la difesa nel giudizio di legittimità appare funzionale alla salvaguardia di un interesse preminentemente conservativo che non consente di ravvisare la potenziale dannosità dell’incarico.
Né vale addurre che dal conferimento del mandato scaturirebbero oneri economici, nella specie corrispondente ai compensi dovuti ai difensori, perché ad opinare in questo modo qualsiasi attività negoziale che preveda la nascita di un’obbligazione, ancorché a carattere corrispettivo a carico dell’ente ecclesiastico dovrebbe essere sottoposta alla licenza scritta del superiore competente, e ciò in evidente contrasto con quanto prevede la stessa regola di diritto canonico che richiede che l’attività negoziale, quando non abbia carattere traslativo di diritti dell’ente, debba essere autorizzata dal superiore solo se l’ente possa subire un detrimento da intendersi come un pregiudizio che ecceda la semplice insorgenza di un’obbligazione a carattere corrispettivo.
3. Ritiene il Collegio che l’ordine logico delle questioni imponga la previa disamina dei motivi che investono direttamente la titolarità del diritto in capo ai ricorrenti di poter far valere l’invalidità ovvero la risoluzione o l’adempimento dell’onere testamentario (atteso che ove venisse confermata la valutazione resa sul punto dalla Corte d’Appello, risulterebbero assorbiti i motivi di ricorso che attengono invece al riscontro della maturata prescrizione, relativa peraltro alla sola domanda di risoluzione exart. 648 c.c.).
In tal senso appare possibile, attesa l’evidente connessione, la disamina congiunta del sesto, settimo, ottavo, nono, decimo e tredicesimo motivo di ricorso.
I giudici di appello hanno ritenuto, con affermazione in diritto che non risulta essere censurata con i motivi proposti, che la risoluzione o la nullità della disposizione testamentaria modale possano essere richieste solo da coloro che sono destinati a subentrare nella posizione giuridica dell’onerato inadempiente, aggiungendo specificamente che non può farsi distinzione tra azione di nullità ed azione di risoluzione.
Da tale premessa hanno quindi tratto la conclusione che gli attori erano privi di legittimazione.
Oltre a sottolineare che mancava la prova dell’assenza di eredi di grado più prossimo rispetto a quello invocato dai ricorrenti (sesto), a pag. 6 della sentenza hanno altresì affermato che sussisteva per converso la prova, adeguatamente valorizzata dal Tribunale, dell’esistenza di eredi di grado viciniore al de cuius, affermazione questa che risulta ribadita anche alla pag. 7, alla fine del paragrafo 4.1.1, dove si precisa che esistendo la prova di congiunti di grado più prossimo, gli attori non potevano ritenersi legittimati, in quanto non portatori dell’interesse che il testatore intendeva perseguire (cfr. Cass. n. 2306/1975 nonché Cass. n. 4936/1980, cui anche da ultimo Cass. n. 4444/2016 che ribadisce che anche l’azione di adempimento compete, oltre che ai beneficiari dell’onere, ai prossimi congiunti, in quanto tutori degli interessi più strettamente connessi alla persona del defunto).
La questione concernente la prova della qualità di erede e del relativo grado risulta poi esaminata anche nel paragrafo 4.3 della sentenza, ma accanto all’affermazione secondo cui sarebbe onere di chi agisce in giudizio quale erede dimostrare anche l’inesistenza di eredi di grado poziore (in quanto elemento costitutivo della pretesa), al successivo paragrafo 4.4 si precisa che “l’esistenza di parenti di grado più vicino risulta dall’azione esercitata in giudizio nei confronti del Don Orione, quale risulta dalla rinuncia all’azione agli atti di giudizio del 13 dicembre 1981 (rectius 15 dicembre 1981), debitamente richiamata nella sentenza impugnata” (valga solo ricordare che la sentenza del Tribunale, nella parte riportata nella ricostruzione dei fatti di causa operata dai giudici di appello, riferiva di una domanda proposta da una serie di soggetti iure hereditatis nei confronti della stessa convenuta con atto di citazione del 24-28 maggio 1968, aggiungendo che tale giudizio formò oggetto di rinuncia con la detta dichiarazione del 15 dicembre 1981, sottoscritta da alcuni degli originari attori ed aventi causa, nella dichiarata e confermata qualità di attuali ed esclusivi aventi causa dell’ing. R.G., sicché “l’introduzione di quel giudizio e la successiva transazione, atti compiuti manifestamente iure hereditario, fanno venire meno in radice una legittimazione attiva degli odierni attori ed intervenuti per le azioni da essi proposte”).
Atteso il tenore delle motivazioni spese sul punto dal giudice di appello, che non appaiono suscettibili di configurare il vizio di nullità della sentenza per difetto di motivazione, ovvero per motivazione perplessa irrimediabilmente contraddittoria (come richiesto dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite a seguito della riforma di cuiall’art. 360 c.p.c., comma 1, novellato n. 5 cfr. Cass. SS.UU. nn. 8053-8054/2014), risulta evidente come in effetti la decisione gravata, ancorché contenga l’affermazione censurata con il sesto, settimo ed ottavo motivo in punto di corretta ripartizione dell’onere della prova circa la presenza di eredi di grado più prossimo, tenuto conto anche dell’atteggiamento difensivo della controparte, abbia però affermato che era stata fornita la prova in concreto dell’esistenza dei detti parenti.
Anche laddove si dovesse ritenere erroneamente affermata la regola di riparto dell’onere della prova quanto alla circostanza dedotta in ricorso, e si escludesse che la contestazione compiuta dalla convenuta nella comparsa di risposta in primo grado imponesse effettivamente di reputare la circostanza contestata e quindi necessitante di prova (in realtà la lettura di tale atto, al punto 2. denota come la contestazione della legittimazione attiva fosse accompagnata dalla specificazione che a detta della controricorrente non era stata fornita la prova della discendenza dal de cuius e del grado di parentela con lo stesso, investendo quindi specifici fatti, essendo ricollegata al punto 3. al richiamo alla precedente vicenda giudiziaria iniziata nel 1968, che aveva visto parti attive soggetti qualificatisi a loro volta come eredi, ben potendosi ritenere incensurabile alla luce di tali elementi l’affermazione del giudice di appello secondo cui l’ente ecclesiastico aveva sempre contestato la legittimazione degli attori), il rigetto della domanda attorea resterebbe comunque supportato dalla diversa affermazione circa il fatto che fosse stata offerta effettivamente la prova dell’esistenza di eredi di grado poziore.
Di ciò risulta peraltro consapevole anche parte ricorrente che appunto mira ad inficiare la correttezza di tale valutazione con il nono, il decimo ed il tredicesimo motivo, che tuttavia non possono essere accolti.
Quanto alla modalità con la quale fornire la prova della qualità di erede legittimo, proprio alla luce di quanto affermato da Cass. S.U. n. 12065/2014, sebbene la modalità preferibile sia quella del ricorso agli atti dello stati civile, lo stesso ragionamento sposato dalla sentenza ora citata, in riferimento alla possibilità che anche una dichiarazione sostituiva di atto notorio possa contribuire a formare il convincimento del giudice alla luce dell’atteggiamento della controparte, impone di ritenere che non viga un principio di esclusività della detta prova, rappresentata dagli atti dello stato civile, ma che invece sia possibile fornire la dimostrazione della qualità di erede (rectius di chiamato) anche tramite elementi probatori diversi, purché sottoposti al prudente apprezzamento del giudice (cfr. altresì Cass. n. 7276/2006, per l’ipotesi di assenza degli atti dello stato civile).
Tornando al caso in esame, l’errore di prospettiva nel quale si pongono le censure dei ricorrenti è quello di guardare alla valutazione di congruità dell’apprezzamento degli elementi istruttori operata dal giudice di merito avuto riguardo al solo contenuto dell’atto di rinuncia del 15 dicembre 1981 (il cui testo risulta trascritto a pag. 28 del ricorso), trascurando però di considerare, come si rileva dai brani della motivazione della sentenza d’appello sopra riportati, anche nella parte in cui fa rinvio al contenuto della sentenza del Tribunale – cui dichiara di aderire – che in realtà l’affermazione circa la prova dell’esistenza di parenti di grado più prossimo si fonda sulla complessiva valutazione delle vicende giudiziarie intraprese con la citazione del 1968, vicende poi conclusesi tra le parti ivi coinvolte con il richiamato atto di rinuncia.
Fonte del convincimento del giudice di appello non è il solo atto de quo, ma “l’introduzione di quel giudizio” (pag. 3 della sentenza impugnata che richiama il tenore della decisione di prime cure) o, come poi aggiunto a pag. 9, paragrafo 4.4., l’azione esercitata in giudizio nei confronti del Don Orione, quale risulta dalla rinuncia all’azione agli atti del giudizio.
Le critiche dei ricorrenti, nella parte in cui si concentrano unicamente sulla disamina del contenuto di tale atto di rinuncia, assumendone la carenza di efficacia probatoria nel presente giudizio, in quanto atto proveniente da soggetti terzi, peccano evidentemente del requisito di specificità, in quanto mirano a contestare l’idoneità probatoria di uno solo degli elementi di prova dei quali si è avvalso il provvedimento gravato, che però ha inteso valorizzare tutti gli elementi che comunque emergevano dalla proposizione del preesistente giudizio.
In tale direzione colgono nel segno le osservazioni di cui a pag. 22 del controricorso, laddove si sottolinea la necessità di dover valutare tutti i documenti relativi alla vicenda giudiziaria più risalente nel tempo, ed in tale corretta prospettiva non può non evidenziarsi che, se effettivamente la rinuncia non reca una specifica indicazione del grado di parentela dei rinuncianti, la sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Roma nel corso del giudizio di cui sopra (Tribunale Roma n. 14680/1974, presente negli atti di causa), a pag. 9 contiene la specifica affermazione secondo cui era stata offerta prova dagli allora attori di essere parenti del defunto di quarto grado, in quanto figli di fratello o sorella dei genitori del testatore.
Ne deriva che l’accertamento tipicamente riservato al giudice di merito, concernente il corretto apprezzamento delle risultanze istruttorie, non risulta adeguatamente censurato, stante l’erroneo convincimento di parte ricorrente che il giudizio circa la prova positiva dell’esistenza di eredi di grado poziore fosse stata ricavata dalla sola rinuncia, e non anche dal complesso degli elementi probatori ricavabili dalla vicenda giudiziaria che quest’ultima aveva portato a termine.
4. Va disatteso l’undicesimo motivo di ricorso, in quanto si fonda sull’erroneo presupposto che, trattandosi di vicenda che attiene a successione regolata per testamento, non sarebbe dato discorrere di eredi legittimi.
In effetti, tenuto conto proprio dello specifico risultato cui mirava la domanda degli attori, volta appunto a far venir meno la portata del testamento, con la conseguente apertura della successione legittima, e proprio alla luce di quanto sopra precisato circa l’individuazione della legittimazione a promuovere l’azione di risoluzione della disposizione testamentaria gravata da onere, è evidente che, ai fini della verifica della titolarità del diritto azionato in capo agli attori, fosse necessario verificare se gli stessi attori rientravano tra i beneficiari della chiamata successoria ex lege, ancorché la stessa fosse destinata ad operare in via subordinata.
L’individuazione dei chiamati ulteriori e specificamente di quelli dotati di grado poziore tra i soggetti beneficiari della vocazione legittima, costituiva un accertamento necessario ed imprescindibile per valutare la proponibilità della domanda oggetto di causa, dovendosi escludere che il solo fatto che la pur prevalente chiamata testamentaria fosse esitata nell’accettazione dell’eredità da parte dell’erede designata per testamento, non potendosi reputare che tale devoluzione dei beni relitti faccia di per sé perdere la qualità di chiamati a coloro che lo sono in via subordinata (cfr. a conforto di tale conclusione, quanto dettatodall’art. 480 c.c., comma 3, che nel prevedere che per i chiamati ulteriori il termine per accettare l’eredità decorra, in caso di accettazione da parte dei chiamati di grado precedente, solo dal giorno in cui l’acquisto di questi ultimi è venuto meno, presuppone implicitamente che la qualità di chiamato permanga, sebbene non sia sottoposta a prescrizione la peculiare sua estrinsecazione concretantesi nell’accettazione dell’eredità).
5. Anche il dodicesimo motivo deve essere rigettato.
Ed, invero deve innanzi tutto escludersi che ricorra un’ipotesi di omessa pronuncia come denunciato in rubrica, atteso che l’argomento sviluppato nel motivo in esame, lungi dal costituire un autonomo motivo di appello rappresentava una delle argomentazioni che erano state poste a sostegno del motivo di gravame volto a confutare l’affermazione circa il difetto di titolarità del diritto in capo agli attori (in tal senso si riferisce che la questione rappresentava un secondo concorrente profilo di critica alla decisione del Tribunale).
Ne consegue che non è dato discorrere di omessa pronuncia exart. 112 c.p.c., in quanto nella redazione della motivazione della sentenza, il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, essendo necessario e sufficiente che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con il percorso argomentativo seguito (Cass. n. 24542/2009; Cass. n. 25509/2014).
Il motivo è comunque infondato nel merito, in quanto l’affermazione dei ricorrenti secondo cui per stabilire chi fossero i parenti di grado viciniore occorreva avere riguardo alla data di proposizione della domanda introduttiva del presente giudizio, e non anche a quella di apertura della successione, oltre a contrastare con il principio secondo cui la qualità di chiamato va individuata in relazione al momento dell’apertura della successione, non si confronta con il contenuto effettivo della sentenza impugnata la quale ha accertato che con l’esercizio della precedente azione giudiziaria da parte dei soggetti ritenuti essere parenti di grado poziore, era stata posta in essere un’attività nella evidente qualità di pretesi eredi, tale da concretare un’accettazione quantomeno tacita, che sebbene inefficace in presenza dell’accettazione posta in essere dall’erede testamentario, sarebbe comunque destinata ad operare ove venisse meno la chiamata testamentaria, assicurando quindi la prevalenza dell’acquisto del titolo di erede in capo agli allora rinunzianti alla lite.
6. Il rigetto dei precedenti motivi, per effetto del quale risulta non più contestabile l’affermazione circa il difetto di legittimazione (rectius titolarità) del diritto di proporre le domande di nullità, risoluzione ed adempimento dell’onere in capo ai ricorrenti, determina altresì l’assorbimento dei motivi da 1 a 5 che investono la diversa affermazione dei giudici di appello secondo cui, ancorché in rifermento alla sola azione di risoluzione, sarebbe comunque maturata la prescrizione del diritto azionato dai ricorrenti (per l’affermazione secondo cui il diritto de quo, distinguendosi dalla petitio hereditatis, è sottoposto alle comuni regole in tema di prescrizione, Cass. n. 11430/1993; Cass. n. 4145/1976).
7. Infine va rigettato anche il quattordicesimo motivo di ricorso in punto di corretta liquidazione delle spese di lite.
Quanto all’assunto di parte ricorrente secondo cui, pur a fronte di una domanda risarcitoria quantificata in oltre 18 milioni di Euro, per i beni venduti dalla convenuta, ed in oltre 21 milioni di Euro per i beni residui (e ciò senza considerare la redditività degli stessi beni) occorrerebbe invece considerare un valore pari a zero, stante il rigetto della domanda risarcitoria, lo stesso contrasta palesemente con la giurisprudenza di questa Corte che anche di recente ha ribadito che (cfr. Cass. n. 28417/2018) in caso di rigetto della domanda, nei giudizi per pagamento di somme o risarcimento di danni, il valore della controversia, ai fini della liquidazione degli onorari di avvocato a carico dell’attore soccombente, è quello corrispondente alla somma da quest’ultimo domandata, dovendosi seguire soltanto il criterio del “disputatum”, senza che trovi applicazione il correttivo del “decisum” (conf. Cass. n. 25553/2011).
Ne consegue che alla domanda volta a conseguire la risoluzione della disposizione testamentaria, ritenuta di valore indeterminabile viene a cumularsi una domanda di condanna al pagamento di somme o liquidazione danni il cui importo risulta invece determinato.
Da tale considerazione si trae quindi il corollario secondo cui (cfr. Cass. n. 4187/2017) in tema di liquidazione degli onorari di avvocato, il principio per il quale, ove siano state proposte più domande, alcune di valore indeterminabile ed altre di valore determinato, la controversia deve essere ritenuta, nel complesso, di valore indeterminabile, opera solo laddove l’applicazione dello scaglione tariffario previsto per le cause di valore indeterminabile consenta il riconoscimento di compensi superiori rispetto a quelli che deriverebbero facendo applicazione dello scaglione applicabile in ragione del cumulo delle domande di valore determinato (conf. Cass. n. 9975/2016), risultando quindi incensurabile la decisione del giudice di appello di procedere alla liquidazione delle spese di lite sulla scorta dello scaglione di valore e secondo le indicazioni di cui a pag. 10 della sentenza gravata.
8. Il ricorso principale deve quindi essere rigettato, e ciò determina l’assorbimento del ricorso incidentale, espressamente qualificato come condizionato.
9. Le spese seguono la soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.
10. Poiché il ricorso principale è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dellaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui alD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti principali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la loro impugnazione.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale; condanna i ricorrenti principali, in solido tra loro, al rimborso delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 15.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, inserito dallaL. n. 228 del 2012,art.1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti principali del contributo unificato dovuto per i rispettivi ricorsi a norma dell’art. 1 bis, stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 17 gennaio 2019.
Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2019

La cancellazione dell’ipoteca può essere richiesta da chiunque vi abbia interesse.

Cassazione civile, sez. I, 27 ottobre 1998
SENTENZA
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 4 settembre 1992 B. Giuseppe esponeva che:
1) si era impegnato a pagare tutti i creditori ammessi al passivo del fallimento di P. Vincenzo e quest’ultimo, a titolo di controprestazione, si era impegnato a trasferirgli, dopo la chiusura della procedura fallimentare, l’immobile di sua proprietà sito in G. alla via Lupis n. 78, ad eccezione di una parte che sarebbe rimasta in sua proprietà;
2) con atto per notar Serrone del 21 maggio 1990, in occasione del pagamento effettuato in favore del Banco di Napoli, P. Teodora, figliuola del debitore, era stata surrogata nell’iscrizione ipotecaria eseguita il 1° ottobre 1985 dal predetto istituto di credito;
3) in quella occasione, con apposita dichiarazione, la P. aveva riconosciuto che il pagamento in favore del Banco di Napoli era stato effettuato, in realtà, da esso B. che pertanto restava surrogato in tutte le azioni nei confronti di P. Vincenzo e del suo fallimento;
4) dopo la chiusura del fallimento, Vincenzo P., con atto per notar Guaranella del 26 luglio 1990, gli aveva trasferito la proprietà dell’intero compendio immobiliare ma, con separata scrittura, egli si era impegnato a trasferire a Teodora P. la parte del compendio che era stata riservata all’alienante;
5) aveva realizzato nuove costruzioni e ristrutturazioni nel compendio ed aveva promesso in vendita a terzi varie unità immobiliari, ma per la stipula degli atti definitivi occorreva la cancellazione dell’ipoteca iscritta a favore del banco di Napoli, al quale era subentrata fittiziamente per surrogazione la P., che aveva rifiutato il suo consenso al riguardo.
Tutto ciò premesso, l’attore evocava in giudizio davanti al Tribunale di Bari Teodora P., per sentir dichiarare che era tenuta a dare il suo consenso per la cancellazione della predetta iscrizione ipotecaria e per sentir ordinare la cancellazione della stessa, ed infine per sentirla condannare al pagamento delle spese.
Resistendo alla domanda, la convenuta ne chiedeva il rigetto assumendo che:
1) pendeva davanti al Tribunale di Bari altro giudizio che aveva instaurato contro il B. per ottenere l’esecuzione in forma specifica degli accordi di cui alle convenzioni del 5 dicembre 1990 e del 26 luglio 1990, e per la connessione che riteneva sussistente fra i due giudizi, ne chiedeva la riunione;
2) aveva provveduto con proprio denaro all’estinzione dell’obbligazione nei confronti del Banco di Napoli e con i menzionati accordi era stato stabilito che l’ipoteca sarebbe stata cancellata soltanto dopo l’adempimento delle obbligazioni del B.. Chiedeva, pertanto, la riunione dei giudizi e, comunque, il rigetto della domanda di simulazione proposta dall’attore ribadendo che ella aveva il diritto di mantenere l’iscrizione ipotecaria fino all’adempimento, da parte del B., delle obbligazioni suindicate.
Disattese l’istanza dell’attore volta all’emissione di un provvedimento ex art. 700 c.p.c. e quella della convenuta di riunione dei giudizi, la causa veniva decisa dal Tribunale con sentenza n. 4059 del 1993 dichiarata provvisoriamente esecutiva, la quale accoglieva la domanda e ordinava al Conservatore dei Registri Immobiliari di Bari di provvedere alla cancellazione dell’ipoteca, ponendo le spese a carico della convenuta.
Appellando questa decisione, Teodora P. deduceva che:
1) l’azione di cui all’art. 2884 c.c. è proponibile solo dal debitore nei confronti del creditore ipotecario e pertanto non poteva essere proposta dal B. che intendeva soltanto liberare l’immobile di sua proprietà dall’iscrizione;
2) per l’azione di simulazione, per interposizione fittizia di persona, P. Vincenzo era litisconsorte necessario;
3) quand’anche fosse era ravvisabile la proposizione di un’azione surrogatoria da parte del B., al giudizio doveva partecipare Vincenzo P.. Chiedeva, pertanto, in riforma della decisione impugnata e previa revoca o sospensione della provvisoria esecuzione, che la decisione venisse dichiarata nulla per la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti del predetto litisconsorte necessario.
Con sentenza in data 1-19 luglio 1996, la Corte d’Appello di Bari rigettava l’impugnazione condannando la P. al pagamento delle spese processuali.
La Corte formulava, in particolare, le seguenti osservazioni:
a) la cancellazione dell’iscrizione ipotecaria presuppone che sia intervenuta una causa estintiva del rapporto sostanziale cui inerisce, e legittima a far valere il diritto alla cancellazione sono, secondo la migliore dottrina, oltre il “datore” dell’ipoteca, il terzo acquirente e gli acquirenti successivi;
b) l’assunto dell’appellante, secondo cui soltanto il debitore può chiedere la cancellazione, non è conforme ai principi generali richiamati né trova riferimento nel testo dell’art. 2884 c.c.;
c) nella specie, è provato documentalmente il soddisfacimento del credito garantito dall’ipoteca (scrittura privata autenticata il 21 maggio 1990 contenente quietanza del Banco di Napoli per il pagamento a saldo della somma transattivamente concordata), ed è provato che (atto per notar Guaranella del 26 luglio 1990) il B. acquistò il compendio immobiliare da P. Vincenzo;
d) è, dunque, evidente, sulla base dei principi menzionati, che il B. avrebbe potuto chiedere al Banco di Napoli, beneficiario della garanzia, la cancellazione dell’iscrizione, e poiché, con il primo degli atti suindicati, l’istituto di credito dichiarò solennemente di surrogare la signora P. Teodora in tutti i propri diritti ragion ed azioni “verso P. Vincenzo e il fallimento dello stesso”, ed in particolare “nell’ipoteca accesa il 1° ottobre 1985”, è evidente (art. 1201 c.c.) che la domanda di cancellazione non poteva che essere proposta dal B. nei confronti della P..
e) il B., il quale aveva provveduto al pagamento del debito garantito, doveva ritenersi subentrato per surrogazione convenzionale, nella posizione del debitore garantito;
f) per effetto della mancata contestazione della documentazione, non si è discusso nella prima fase del giudizio, sulla interposizione fittizia della P. perché l’interposizione risultava chiaramente dalla “controdichiarazione” acquisita al processo;
g) non vi è necessità della partecipazione al giudizio di tutti gli interessati quando la simulazione debba essere accertata solo incidenter tantum e non come oggetto principale della lite e, non risulta, comunque, proposta una specifica domanda dal B. volta a far dichiarare la simulazione relativa del predetto atto;
h) inoltre, parti del negozio simulato furono solo il B. e la P. e non anche il padre di quest’ultima, che sottoscrisse l’atto per conferma ed accettazione, il quale sostanzialmente non era più interessato dopo il soddisfacimento del credito garantito dall’ipoteca e la vendita del compendio immobiliare al B.;
i) in ordine alla prospetta inammissibilità della domanda perché, se si ritenesse il B. effettivo creditore ipotecario, egli stesso potrebbe prestare il consenso alla cancellazione dell’iscrizione, è sufficiente considerare che, ancorché non sia stata eseguita l’annotazione di cui all’art. 2843 c.c. – necessaria solo nei confronti dei terzi – beneficiaria dell’iscrizione ipotecaria sulla base della scrittura privata registrata il 19 maggio 1990, risultava solo P. Teodora, sicché era lei l’unica tenuta a dare il consenso per la cancellazione e, quindi, passivamente legittima in caso di rifiuto;
l) il ordine al mancato rispetto del litisconsorzio necessario relativamente alla domanda di simulazione, per effetto della surrogazione, formalmente risultante dall’atto autenticato dal notaio Serrone, il Banco di Napoli, oltre che Vincenzo P., debitore originario, hanno perduto ogni interesse ed anche la titolarità con riferimento al rapporto negoziale.
Avverso la sentenza d’appello Teodora P. ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di due motivi.
Giuseppe B. ha resistito con controricorso, depositando una memoria illustrativa.

Motivi della decisione
1. Con il primo mezzo d’impugnazione, la ricorrente lamenta violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 con riferimento agli artt. 2844 e 2843 c.c.
La Corte di Bari, nel considerare il B. legittimato a richiedere la cancellazione del gravame ipotecario, ha ritenuto la sussistenza di tale facoltà in virtù del fatto che il B. quale acquirente dell’immobile ipotecato aveva un interesse in tal senso. La stessa Corte ha ritenuto, poi, in motivazione che, pur non essendo stata eseguita l’annotazione ex art. 2843 c.c., necessaria nei confronti dei terzi, beneficiaria della iscrizione era solo la P. Teodora.
L’assunto secondo la ricorrente sarebbe infondato sotto l’aspetto del diritto e conterrebbe una motivazione erronea e contraddittoria su un punto decisivo della controversia.
1.A. PRIMO ASPETTO: Violazione dell’art. 360, n. 3, c.p.c. con riferimento all’art. 2844 c.c.: il Giudice a quo ha ritenuto l’odierno resistente legittimato a proporre la domanda sul presupposto che esso è l’acquirente del bene ipotecato ed ha, in tale veste, interesse a richiedere la cancellazione del gravame. La norma ex art. 2844 C.C. non stabilisce assolutamente che l’acquirente dell’immobile ipotecato abbia un diritto ad ottenere la cancellazione del gravame e, se tanto comunque l’acquirente volesse fare, dovrebbe agire in surroga al debitore inerte in quanto la sua legittimazione deriverebbe dalla mancata attività del debitore.
Nella specie, invece, il resistente, qualificandosi creditore del P. Vincenzo, e non acquirente, ha esperito una tipica azione surrogatoria senza però convenire in giudizio il debitore inerte. La legittimazione del B., secondo la sua chiara impostazione, deriva non dal fatto dell’acquisto del bene ipotecato, ma dal fatto che egli avrebbe corrisposto il denaro necessario alla estinzione del debito garantito da ipoteca e in tale veste esso non aveva titolo per richiedere la cancellazione della garanzia ipotecaria.
1.B. SECONDO ASPETTO: Violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 con riferimento all’art. 2843 c.c.: la Corte di merito ha considerato ammissibile la domanda malgrado la surroga ipotecaria eseguita in favore della ricorrente non sia mai stata annotata, ritenendo, il Giudice di Bari, che era necessario solo il consenso della P. Teodora perché tra le parti valeva la controdichiarazione esibita, mentre l’annotazione ex art. 2843 c.c. aveva rilevanza solo nei confronto dei terzi. Il ragionamento seguito dal Giudice è viziato e contraddittorio nonché contrario a norma di diritto.
1.B.1. Violazione dell’art. 360, n. 3, c.p.c.: se invero la garanzia o meglio la surroga nella garanzia ipotecaria non è stata annotata – e, infatti, in atti non si rinviene prova alcuna di tale annotazione – e l’iscrizione risulta a favore del Banco di Napoli originario creditore, quale sarebbe l’ammissibilità dell’azione proposta dal B., posto che la garanzia risulta iscritta ancora a favore dell’Istituto bancario?
La ratio della norma ex art. 2843 c.c. invocata dalla Corte poggia proprio sul presupposto che P. Teodora sia stata surrogata e che tale surroga sia stata annotata, in difetto, in virtù della semplice scrittura privata, la ricorrente è assolutamente impossibilitata a prestare il dovuto consenso. Invero la ratio della cancellazione del gravame ipotecario, contrariamente a quanto ritenuto dal Giudice a quo, ha valore proprio nei confronti dei terzi, e non tra le parti in causa, per le quali è assolutamente irrilevante che l’ipoteca risulti iscritta a favore del Banco di Napoli o della P..
Se la surroga non è stata annotata ex art. 2843 c.c., come ha rilevato la Corte, e come risulta dalle visure ipotecarie prodotte ex adverso, la legittimazione passiva della ricorrente è carente sotto ogni aspetto, non rilevando nella cancellazione del gravame ipotecario il momento interno, bensì proprio il momento di rilevanza all’esterno e nei confronti dei terzi di detto gravame.
In conclusione solo chi risulta creditore iscritto presso la Conservatoria competente è legittimato a prestare il consenso, e non il creditore effettivo.
1.B.2. TERZO ASPETTO. Violazione dell’art. 360, n. 5, c.p.c. per errata o contraddittoria motivazione: la Corte di Bari con ragionamento contorto ed errato sotto il profilo logico ha ritenuto la P. legittimata passiva per la sua opposizione alla domanda, malgrado la mancata annotazione della surroga presso la conservatoria competente.
Il ragionamento è frutto di una vistosa contraddizione in fato, prima ancora che in diritto. L’opposizione della P., invero, deriva proprio dalla sua carenza di legittimazione e interesse al presente giudizio, non risultando essa la creditrice iscritta a cui favore l’ipoteca deve giovare. Invero, se il creditore iscritto è ancora il Banco di Napoli e se la surroga non risulta annotata, a che titolo la P. viene convenuta nel presente giudizio? È assurdo logicamente e giuridicamente pretendere la cancellazione di un gravame ipotecario da un soggetto a cui favore il gravame non risulta annotato.
Se a tanto si aggiunge, poi, che la P. non è nemmeno la creditrice effettiva, a che titolo essa viene convenuta in giudizio?
La Corte di Bari è caduta, invero, in una contraddizione insanabile su un punto decisivo della controversia, confondendo il creditore effettivo con il creditore ipotecario e ritenendo che il primo, sebbene non surrogato nei diritti del secondo, potesse prestare il consenso alla cancellazione di un gravame di cui presso la Conservatoria non risulta, peraltro, nemmeno titolare.
2. Il motivo non è fondato sotto nessuno degli aspetti prospettati.
Per quanto riguarda il primo, questa Corte (Cass., 7 dicembre 1973, n. 3335) ha ritenuto che la cancellazione dell’ipoteca possa essere richiesta da chiunque vi abbia interesse e, quindi, in primo luogo dall’attuale proprietario della cosa, indubbiamente interessato a liberarla da vincoli che ne intralcino la circolazione. Si è sottolineato in quella sede che l’art. 2882 c.c. richiede soltanto il consenso delle parti interessate e, in particolare, l’assenso del creditore, ma non limita a particolari soggetti la legittimazione all’istanza di cancellazione. Con riferimento alla diversità degli effetti del vincolo ipotecario nei confronti delle parti e dei terzi, è stato anche posto in luce che, se nei confronti del creditore può ammettersi che l’estinzione dell’obbligazione estingua anche la garanzia ipotecaria che l’assista, verso i terzi è certamente necessaria la cancellazione dell’ipoteca, poiché il permanere dell’iscrizione nonostante l’estinzione del credito può ben essere di pregiudizio al proprietario, in quanto determina un intralcio per il commercio giuridico del bene (Cass., 26 luglio 1994, n. 6658, in motivazione, la quale richiama Cass., n. 3938 del 1975 e n. 897 del 1962).
Correttamente, quindi, il giudice di appello ha considerato il B. legittimato a richiedere la cancellazione, tenuto conto che egli era terzo acquirente del compendio immobiliare ed inoltre aveva, in realtà, provveduto al pagamento del credito garantito.
2.1. Con il secondo e terzo aspetto del motivo in esame la ricorrente, sul presupposto di fatto che la surroga nella garanzia ipotecaria non era stata annotata, contesta la decisione impugnata nella parte in cui l’ha ritenuta legittimata passivamente nei confronti della domanda proposta dal B..
Osserva sul punto il controricorrente che l’annotazione della surroga (con formalità n. 33471 dell’11 settembre 1990) risultava dall’atto introduttivo del giudizio (conclusione n. 2) e che di tale annotazione aveva preso atto il Tribunale, il quale aveva ordinato al competente conservatore dei registri immobiliari di Bari di provvedere alla cancellazione dell’ipoteca n. 28421 dell’1 ottobre 1985 in favore del Banco di Napoli e successiva surroga per atto Serrone del 21 maggio 1990 in favore di P. Teodora (annot. n. 33471 dell’11 settembre 1990).
Ora, ritiene il Collegio che non avendo la P. contestato in appello la sussistenza dell’annotazione, non possano in questa sede prospettarsi questioni che si basano sulla mancanza dell’annotazione stessa.
Il riferimento all’annotazione contenuto nella sentenza impugnata (“… ancorché non sia stata eseguita l’annotazione di cui all’art. 2843 c.c. …”) non costituisce un’affermazione di contenuto decisorio su un punto in contestazione tra le parti, ma solo un’ipotesi argomentativa utilizzata contro la tesi dell’appellante, secondo la quale la domanda del B. sarebbe stata inammissibile perché, qualora il medesimo potesse ritenersi l’effettivo creditore ipotecario, egli steso avrebbe potuto prestare il consenso alla cancellazione dell’iscrizione.
Le censure contenute nel secondo e terzo aspetto del primo motivo risultano, quindi, inammissibili.
3. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 360, n. 3, c.p.c. con riferimento all’art. 102 c.p.c., art. 1414 c.c. e art. 2900 c.c.
La Corte di merito, esaminando l’eccezione di nullità del giudizio di 1° grado per mancata integrazione del contraddittorio, ha ritenuto inutile la detta integrazione in quanto la simulazione doveva essere accertata solo in via incidentale e non vi era domanda del B. volta ad un tale accertamento; infine, P. Vincenzo avrebbe sottoscritto la controdichiarazione solo per conferma e accettazione.
Secondo la ricorrente i rilievi adottati dalla Corte per salvare il giudizio di 1° grado non sono fondati. Innanzitutto non risponde ad esattezza che la simulazione non sia stata proposta in via di azione del B..
Con l’atto introduttivo del giudizio, infatti, B. Giuseppe aveva richiesto, alle conclusioni sub 1°): “Dare atto che la Sig.ra P. Teodora era ed è tenuta a prestare il proprio consenso alla cancellazione della ipoteca n. 28.421 del 1° ottobre 1985 nella quale essa Sig.ra P. era stata fittiziamente surrogata con atto Serrone del 21 maggio 1990 e che alla prestazione di tale consenso la medesima Sig.ra P. si era rifiutata”.
Non risulta esatto dunque che non sia stata proposta azione di simulazione per interposizione fittizia, perché, invece, l’attore richiese specificatamente l’accertamento di detta simulazione quale presupposto per ottenere la detta cancellazione nei confronti del simulato creditore e nel quale giudizio era parte sostanziale il debitore P. Vincenzo.
Del resto la ricorrente aveva ed ha un preciso interesse ad essere estromessa dal presente giudizio nel quale essa non riveste alcuna specie ed in cui il litisconsorte necessario pretermesso nella persona del genitore P. Vincenzo era ed è l’unico soggetto interessato sul quale dovevano cadere le eventuali conseguenze del giudizio stesso (spese, danni, ecc.).
Non pare tanto meno fondato il rilievo della Corte di merito relativo alla sottoscrizione della controdichiarazione da parte di P. Vincenzo per mera conferma e conoscenza. Se, infatti, è vero che prima della sottoscrizione del litisconsorte pretermesso vi è una tale dicitura, è soprattutto vero che la sottoscrizione dell’originario debitore non aveva valore di semplice conoscenza e conferma, ma rivestiva il più rilevante significato di legale scienza della surroga effettuata. In tale corretta ricostruzione dei fatti, pure, invero, inconcepibile che la posizione di P. Vincenzo possa essere ignorata e che il presente giudizio possa svolgersi senza la sua presenza, soprattutto in considerazione del fatto che P. Vincenzo conserva, purtroppo, rilevanti ragioni di credito nei confronti del resistente e per tale unico motivo quest’ultimo non intende convenirlo in giudizio. Non è esatto sostenere, dunque, che il litisconsorte pretermesso ha perso interesse alla lite dopo il soddisfacimento dell’obbligazione (del P. verso il Banco di Napoli) perché con la cessione del complesso del P. al B. erano sorte in capo a quest’ultimo ed a favore del primo, obbligazioni e crediti che sconsigliavano al B. di convenire in giudizio esso P. Vincenzo.
Secondo la ricorrente dovrebbe pronunciarsi la Cassazione della sentenza di secondo grado, essendo la domanda inammissibile, e dovrebbe dichiararsi la nullità delle sentenze di primo e secondo grado per violazione del principio del contraddittorio.
4. Il secondo motivo non merita accoglimento.
Correttamente la sentenza impugnata ha escluso la sussistenza di un litisconsorzio necessario nei confronti di Vincenzo P..
La domanda proposta dal B. era diretta ad ottenere la cancellazione dell’ipoteca.
Il proprietario dell’immobile per poter ottenere la cancellazione dell’ipoteca iscritta sul bene doveva presentare al conservatore l’atto contenente il consenso del creditore, ai sensi dell’art. 2882 c.c.
Era, quindi, necessario il consenso di colei che risultava creditrice in base all’atto di surroga, della cui annotazione si è già detto.
Essendo il consenso della P. stato rifiutato, nonostante che il debito fonte dell’ipoteca fosse stato adempiuto (da parte dello stesso B.), si rendeva necessario ottenere dal giudice una pronunzia che ordinasse la cancellazione dell’ipoteca pur in assenza di tale consenso.
In questa situazione, la posizione di Vincenzo P. non assumeva rilievo.
Quanto alla circostanza – attestata dalla dichiarazione di Teodora P., sottoscritta anche (per conferma e accettazione), da Vincenzo P. – che il pagamento alla banca era stato effettuato con denaro del B. e che quindi quest’ultimo era surrogato in tutti i diritti nei confronti di Vincenzo P., essa è stata dedotta dal B. come presupposto del suo diritto alla cancellazione dell’ipoteca e non ha formato oggetto di contestazione nel corso del giudizio.
D’altra parte, dalla dichiarazione in questione si ricavava un accordo tra Teodora P. ed il B. in ordine al quale Vincenzo P. rimaneva in una posizione di estraneità.
Né appare configurabile una situazione di simulazione per interposizione fittizia di persona che coinvolgesse Vincenzo P..
Il pagamento, quale atto materiale non può essere oggetto di simulazione, mentre la simulazione per interposizione fittizia della surroga convenzionale – nel senso che la surroga sarebbe stata simulata a favore di Teodora P. mentre in effetti era a favore del B. – avrebbe eventualmente potuto coinvolgere la banca, ma non Vincenzo P..
In ogni caso, il giudice di merito ha escluso che nel giudizio fosse stata introdotta una domanda di simulazione.
5. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato. Le spese del giudizio di Cassazione, liquidate come nel dispositivo, vanno poste a carico della ricorrente in considerazione della soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di Cassazione in lire 223.200, oltre a lire 5.000.000 per onorari.
Così deciso in Roma il 24 marzo 1998.
Depositata in cancelleria il 27 ottobre 1998.

L’assegno periodico di mantenimento può contenere più voci di spesa.

Tribunale di Verona 14 giugno 2019
Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:
dr. Ernesto D’Amico Presidente
dr. Lara Ghermandi giudice
dr. Luigi Edoardo Fioroni rel./est. giudice
SENTENZA
nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 7282/2016 R.G. promossa da:
XY (C.F. ), con l’aw. P. V.,
RICORRENTE
contro
XX (C.F. ), con l’aw. L. B. M.,
CONVENUTA
con l’intervento ex lege del
PUBBLICO MINISTERO, in persona del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Verona.
in punto a: Divorzio contenzioso – Cessazione effetti civili
CONCLUSIONI
All’udienza del 18 settembre 2018 le parti hanno rassegnato le seguenti conclusioni:
Parte ricorrente: “accertarsi che la Signora XX è persona economicamente autosufficiente o comunque parzialmente
autosufficiente e, tenuto conto della disponibilità del Signor XY a corrispondere alla Signora XX la somma mensile
nella misura massima di € 1.000,00 a titolo di assegno divorzile, disporsi un contributo a favore della stessa nella
misura non superiore ad € 1.000,00 mensili.
Spese di lite ed onorari di causa interamente rifusi”.
Parte resistente: “Dichiararsi la cessazione degli effetti civili del matrimonio celebrato tra XY e XX in Manfredonia
(FG) il 20 settembre 1975, trascritto nel registro Atti di Matrimonio del medesimo comune, anno 1975, parte II, serie
A, n. 334. 2. Confermarsi i provvedimenti di cui all’ordinanza presidenziale del 25 novembre 2016, segnatamente: –
XY corrisponda a XX € 1.500,00 mensili a titolo di assegno divorzile, da corrispondersi a mezzo bonifico bancario con
valuta fissa entro il giorno 15 di ogni mese a decorrere dal 15 febbraio 2013 (data di stesura della scrittura privata).
Tale somma è da rivalutarsi annualmente secondo gli indici Istat a decorrere dal febbraio 2014 – XY provveda al
pagamento del canone mensile di locazione ed agli oneri condominiali per l’abitazione ubicata in Verona, attualmente
condotta in locazione dalla sig.ra XX (dalla data di stesura della scrittura privata 15 febbraio 2013). 3. Disporsi la
condanna di controparte alle spese di lite.
In data 20 settembre 2018, il Pubblico Ministero ha concluso: “conferma provvedimenti provvisori”.
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione
Preliminarmente, si dà atto che con sentenza del 31 maggio 2017 è stata pronunciata da questo
Tribunale la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto tra le parti.
Posto quanto precede, si osserva, ancora, che la presente decisione verte esclusivamente sulla spettanza
o meno a favore della parte resistente dell’assegno divorzile (essendo l’unica figlia della coppia
maggiorenne ed economicamente autosufficiente) e, ove risolta in termini positivi la questione che
precede, sulla determinazione del detto assegno.
Ritiene il Collegio che sussistano nel caso di specie i presupposti per la fissazione a carico di XY di un
assegno divorzile in favore dell’ex coniuge, dovendosi a questo fine valutare: i) la durata del vincolo
matrimoniale (matrimonio contratto in data 20 settembre 1975 e separazione omologata 1’8 febbraio
2012); ii) 1’esistenza di un’evidente sproporzione reddituale tra le parti (recando la dichiarazione dei
redditi del ricorrente relativa al 2017 un reddito imponibile – già depurato, quindi, degli oneri
deducibili, fra cui rientra il mantenimento all’ex coniuge – di € 65.932,00, a fronte di un’imposta netta
di € 20.964,00, per una disponibilità media mensile di € 3.747,00; e recando, invece, la dichiarazione dei
redditi di XX dello stesso aiuto un reddito imponibile di € 18.000,00, corrispondente alla sommatoria
degli importi corrisposti mensilmente dal coniuge a titolo di mantenimento);
iii) l’incontestata affermazione secondo cui ad oggi la signora XX non svolge attività lavorativa e, in
ragione della sua età (66 anni), nonché delle sue condizioni di salute (risultandole diagnosticato, per
stessa ammissione di parte ricorrente, di cui a p. 5 del ricorso introduttivo del presente giudizio, un
disturbo affettivo bipolare tipo II che ha richiesto la necessità dì molteplici ricoveri presso la struttura
Villa Santa Chiara di Verona che si occupa di cura e assistenza nelle patologie psichiatriche), faticherebbe
a trovare un’occupazione.
Non rilevano ai fini della ricorrenza di una dedotta autosufficienza economica, come tale idonea ad
elidere ogni obbligo in capo al XY, né la possibilità – allo stato solo astratta e teorica, e comunque non
incidente sulla capacità reddituale della parte resistente – che la signora XX possa percepire
emolumenti in ragione della sua invalidità, né il fatto che la stessa sia intestataria di un immobile in
Sardegna, posto che, nella prospettazione di parte ricorrente (la quale ha eccepito che il detto immobile
potrebbe essere messo a reddito nei mesi estivi), non sono stati fomiti elementi utili per poter valutare
con adeguata certezza il reddito ricavabile dal bene de quo, e pertanto l’idoneità di questo a garantire
alla resistente l’autosufficienza economica necessaria ad elidere l’obbligo in capo all’ex coniuge di
provvedere al di lei sostentamento.
Accertato l’an dell’invocato assegno divorzile, si deve osservare, con riferimento al quantum, che, in
data 15 febbraio 2013, le parti si sono accordate per la modifica delle condizioni di separazione nel
seguente modo: “il dott. XY corrisponderà alla sig.ra XX esclusivamente l’importo di € 1.500,00 mensili a
titolo di mantenimento e provvederà al pagamento del canone mensile di locazione ed agli oneri
condominiali in relazione all’abitazione ubicata in Verona, attualmente condotta in locazione dalla sig.ra
XX. Ogni ulteriore spesa, ivi comprese quelle inerenti l’abitazione in Palau e tutte quelle di ordinaria e
straordinaria manutenzione, di bollo e di assicurazione dell’auto saranno ad esclusivo carico della sig.ra
XX”.
In sede di udienza ex art. 4, comma 7, 1.898/1970, il Presidente, sottolineando che la situazione esistente
al 2016 era sostanzialmente identica a quella del 2013, ha, in via provvisoria e urgente disposto nel
seguente modo: “recepisce facendole proprie le condizioni della scrittura intercorsa tra le parti il
15.22013 e prodotta da parte ricorrente con l’atto introduttivo sub 4. Orbene, ritiene il Collegio che non
siano state offerte dal ricorrente (in pensione dal 2010) prove di un deterioramento della sua
condizione economica, nel lasso di tempo che intercorre tra l’udienza presidenziale e la data della
presente decisione, sicché si reputa congruo confermare in questa sede le determinazioni già assunte
nell’ordinanza ex art. 4, comma 8,1. 898/1970.
Non osta a siffatta decisione il fatto che una componente del contributo al mantenimento, ossia quella
corrispondente al canone di locazione dell’immobile di Verona, non sia costituita da una somma di
denaro, atteso che deve ritenersi applicabile all’assegno divorzile l’orientamento giurisprudenziale –
pur se relativo all’assegno di mantenimento – secondo cui il giudice ha facoltà di determinare l’assegno
periodico di mantenimento, che un coniuge è obbligato a versare in favore dell’altro, in una somma di
denaro unica o in più voci di spesa, le quali, nel loro insieme e correlate tra loro, risultino idonee a
soddisfare le esigenze del coniuge in cui favore l’assegno è disposto, rispettando il requisito generale di
determinatezza e determinabilità dell’obbligazione (art 1346 c.c.), potendo pertanto il coniuge essere
obbligato a corrispondere, oltre a un assegno determinato in somma di denaro, anche altre spese, quali
quelle relative al canone di locazione e ai relativi oneri condominiali, purché queste spese abbiano
costituito oggetto di specifico accertamento (Cassazione civile sez. I, 30/07/1997, n. 7127)
A tal fine, è incontestabile che l’importo corrispondente agli oneri condominiali e al canone di
locazione, se non previamente determinato, è comunque oggettivamente determinabile, essendo
pacifica e incontestata tra le parti l’ubicazione dell’immobile a cui si riferisce, stante il tenore letterale
dell’accordo dalle stesse sottoscritto in data 15 febbraio 2013 sopra richiamato, a cui nella presente
sede si intende dare continuità.
XY, pertanto, dovrà essere condannato a corrispondere ad XX la somma di € 1.500,00, oltre
rivalutazione ISTAT annuale, oltre oneri condominiali e canone di locazione dell’immobile di Verona,
come da accordo sottoscritto tra le parti in data 15 febbraio 2013.
In relazione alle spese si osserva che l’integrale accoglimento delle conclusioni formulate dalla parte
convenuta, determina la soccombenza della parte attrice e dunque la condanna di quest’ultima alla
rifusione delle spese processuali, quantificate in dispositivo ex d.m. 55/2014, avendo riguardo alla
natura solo documentale della presente controversia.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così
dispone:
CONFERMA integralmente i provvedimenti presidenziali, ponendo a carico di XY un assegno
divorzile in favore di XX di € 1.500,00 mensili, oltre rivalutazione ISTAT annuale ed oltre oneri
condominiali e canone di locazione dell’immobile condotto da XX, sito in Verona, di cui all’accordo
sottoscritto dalle parti in data 15 febbraio 2013.
DICHIARA TENUTO e CONDANNA XY a rifondere ad XX le spese processuali, che si liquidano in €
3.000,00 per compensi, oltre I.VA., C.P.A. e spese generali al 15% come per legge.
Così deciso in Verona nella camera di consiglio del giorno 11 giugno 2019.

L’indennizzo sofferto dal de cuius ingiustamente detenuto spetta anche ai suoi congiunti (non necessariamente eredi) senza dover dimostrare, per tale situazione, di aver subito un loro personale pregiudizio

Cass. pen. Sez. IV, 15 maggio 2019, n. 20845
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
D.G., nato a (OMISSIS);
D.L., nato a (OMISSIS);
D.F., nato a (OMISSIS);
A.R., nato a (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del 28/06/2018 della CORTE APPELLO di NAPOLI;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. DANIELA DAWAN;
lette le conclusioni del PG.
Svolgimento del processo
1. Con ordinanza del 19/06/2018, la Corte di appello di Napoli ha liquidato a D.G., D.L., D.F., A.R., la somma complessiva di Euro 12.000,00 da ripartirsi in misura eguale tra loro e, dunque, la somma di Euro 3.000,00 per ciascuno, in ordine all’ingiusta detenzione patita in carcere dal 19/05/2003 al 13/08/2003 ed agli arresti domiciliari dal 14/08/2003 al 20/11/2003 dal de cuius D.C., deceduto il (OMISSIS). Questi fu sottoposto a custodia cautelare in carcere in forza di ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip di Napoli per il delitto di cui allaL. n. 356 del 1992,art. 12-quinquies; la custodia in carcere venne sostituita con gli arresti domiciliari dal Tribunale di Napoli exart. 310 c.p.p.il 14/08/2003, a loro volta revocati per sopravvenuta carenza di esigenze cautelari in sede di nuovo appello ai sensi dell’art. 310 cod. di rito il 20/11/2003. Era, infine, assolto dal Tribunale di Torre Annunziata per insussistenza del fatto con sentenza confermata dalla Corte di appello di Napoli divenuta irrevocabile il 09/06/2008.
2. Avverso la citata ordinanza, gli anzidetti congiunti di D.C., D.G., D.L., D.F., A.R., tutti rappresentati e assistiti dal loro difensore, propongono ricorso articolando due motivi.
2.1. Con il primo, deducono inosservanza o erronea applicazione degliartt. 314, 315 e 644 c.p.p.per aver la Corte territoriale ritenuto che, essendo il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione dei prossimi congiunti jure proprio e non già jure successionis, si debba, ai fini della commisurazione dell’indennizzo, tener conto delle sofferenze autonomamente patite dagli stessi. Benché l’art. 644 cod. di rito attribuisca agli eredi un diritto spettante jure proprio, questo è comunque commisurato a quello della persona defunta e ingiustamente detenuta come espressamente previsto dalla norma con la conseguenza che i prossimi congiunti possono far valere in giudizio il danno subito dal defunto, essendo esonerati dal provare il loro personale pregiudizio patito a causa dell’ingiusta detenzione dei congiunti.
2.2. Con il secondo motivo, eccepiscono l’illogicità della motivazione laddove prima afferma che in favore dell’istante vanno liquidati 32.000,00 Euro complessivi e poi liquida la somma di Euro 12.000,00 a titolo di equo indennizzo ai congiunti, pur espressamente ritenendo che gli stessi abbiano patito sofferenze analoghe a quelle del parente deceduto.
Motivi della decisione
1. I ricorsi sono fondati e vanno accolti.
2. Il dispostodell’art. 315 c.p.p., comma 3, dispone che, nel procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione, si applicano (ovviamente per quanto non specificamente disposto) “in quanto compatibili, le norme sulla riparazione dell’errore giudiziario”. La norma sulla riparazione dell’errore giudiziario che disciplina il caso della premorienza del titolare del diritto è costituitadall’art. 644 c.p.p., comma 1, secondo cui “se il condannato muore, anche prima del procedimento di revisione, il diritto alla riparazione spetta al coniuge, ai discendenti e ascendenti….”; il comma 2 precisa che a queste persone non può essere liquidata una somma maggiore di quella che sarebbe spettata al prosciolto.
La tesi secondo cui il rinvio alle norme sulla riparazione dell’errore giudiziario si riferirebbe alle sole norme procedimentali è stata rifiutata dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 28 del 14/12/1994 (dep. 20/04/1995) Libranti ed altri, Rv. 200511) e questa soluzione è stata condivisa da tutta la successiva giurisprudenza di legittimità. La medesima sentenza ha affrontato anche il problema della compatibilità di queste norme con l’istituto per la riparazione dell’ingiusta detenzione risolvendolo positivamente dato che gli effetti pregiudizievoli dell’ingiusta detenzione, come quelli dell’errore giudiziario, sono naturalmente destinati a propagarsi nell’ambito familiare, legittimando, nel caso della morte della persona che ha subito l’ingiusto provvedimento, una pretesa riparatoria dei congiunti. Ma, ciò che più interessa, la norma è idonea a risolvere il problema proposto indipendentemente dall’inquadramento teorico che si voglia dare all’istituto della riparazione, e alla natura ad esso riconosciuta, sotto il profilo della personalità del diritto maturato.
Secondo la comune accezione, la riparazione per l’ingiusta detenzione non ha natura di risarcimento del danno ma di semplice indennità o indennizzo in base a principi di solidarietà sociale per chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale; e ciò in applicazionedell’art. 24 Cost., comma 4, oltre che dell’art. 5, comma 5, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e dell’art. 9, n. 5 del Patto internazionale dei diritti civili e politici. Si tratta di uno dei casi di indennità previsti per ipotesi nelle quali il pregiudizio deriva da una condotta conforme all’ordinamento che però ha prodotto un danno che deve comunque essere riparato e per i quali si è fatto ricorso alla figura dell’atto lecito dannoso: l’atto è stato infatti emesso nell’esercizio di un’attività legittima (e doverosa) da parte degli organi dello Stato anche se, in tempi successivi, ne è stata dimostrata (non l’illegittimità ma) l’ingiustizia.
Posta dunque nei predetti termini la natura dell’istituto dell’equa riparazione di cuiall’art. 314 c.p.p., il relativo indennizzo è pacificamente riconosciuto anche ai congiunti (non necessariamente eredi, Sez. 4, n. 5637 del 04/12/2013 (dep. 04/02/2014), Tisti e altro, Rv. 258896) in forza del dispostodell’art. 644 c.p.p., comma 1 (ex multis, Sez. 4, n. 76 del 22/11/2012 Ud. (dep. 02/01/2013), Pansini e altro, Rv. 254377; Sez. 4, n. 22502 del 04/05/2007, Fioletti,Rv. 237013;Sez. 4, n. 20916 del 19/04/2005, Pirrera ed altri, Rv. 231655) cui viene attribuito un diritto iure proprio e non iure hereditario (Sez. U, n. 28 del 14/12/1994, cit.), commisurato a quello della persona defunta, con la conseguenza che i prossimi congiunti possono far valere in giudizio il danno subito dal defunto.
Né i ricorrenti sono onerati di dimostrare le ricadute della situazione di detenzione del congiunto sulla propria persona in termini di disagio e sofferenza. Costoro, infatti, nel riassumere o proseguire la causa interrotta, per effetto dell’intervenuto decesso del congiunto, subentrano nel diritto all’indennità originariamente dovuta a quest’ultimo e non già ad una nuova e diversa indennità commisurata alle ripercussioni dell’ingiusta detenzione nella propria sfera personale.
Invero, gli eredi dell’autore della domanda di riparazione per l’ingiusta detenzione sono legittimati a proseguire il giudizio in caso di decesso dell’interessato nelle more del giudizio, trovando applicazione nel caso, dato il carattere economico del petitum, la disciplina processualcivilistica, che ricollega l’estinzione del processo non alla morte della parte ma alla mancata prosecuzione o riassunzione in termini dello stesso da parte dei successori aventi diritto (sull’applicabilità della disciplina del processo civile, Sez. 4, n. 268 del 22/01/1998, De Rachewiltz ed altro, Rv. 210627).
3.In conclusione, poiché l’art. 620, lett. l) cod. di rito, consente alla Corte di cassazione di poter decidere allorché non siano necessari ulteriori accertamenti in fatto e possano in conseguenza essere adottati i provvedimenti necessari, superfluo quindi risultando il rinvio, e tenuto conto che il provvedimento impugnato fornisce già una articolata motivazione in ordine alla quantificazione dell’indennizzo che sarebbe spettato al de cuius e una compiuta determinazione dei criteri di ripartizione in modo uguale tra tutte le parti richiedenti, l’ordinanza impugnata va annullata senza rinvio limitatamente alla liquidazione dell’indennizzo che va determinato nella soma di Euro 32.000,00 da ripartirsi in pari misura tra D.G., D.L., D.F. e A.R..
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata limitatamente alla liquidazione dell’indennizzo determinandolo nella somma di Euro 32.000,00 da ripartirsi in pari misura tra D.G., D.L., D.F. e A.R..
Così deciso in Roma, il 6 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2019