In caso di adozione internazionale, il congedo parentale del padre adottivo decorre dall’ingresso del minore straniero in Italia quale momento di inizio del definitivo suo inserimento all’interno del nucleo familiare

Cass. civ. Sez. lavoro, 29 maggio 2019, n. 14678
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 3827/2014 proposto da:
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli Avvocati ANTONIETTA CORETTI, VINCENZO TRIOLO, VINCENZO STUMPO;
– ricorrente –
contro
B.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA COLA DI RIENZO 69, presso lo studio dell’avvocato ROSA MAFFEI, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 838/2013 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 06/08/2013 R.G.N. 694/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/03/2019 dal Consigliere Dott. DANIELA CALAFIORE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato VINCENZO STUMPO.
Svolgimento del processo

1. La Corte d’appello di Torino, con sentenza n. 838/2013, ha accolto l’appello proposto da B.A. nei confronti dell’INPS avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato la sua domanda tesa ad ottenere il congedo parentale per astensione facoltativa per il periodo 27 dicembre 2010 – 20 febbraio 2011 relativa all’adozione, unitamente alla moglie, di un minore cittadino polacco di cui il Tribunale rionale di Wolsztyn aveva disposto l’inserimento in famiglia dal (OMISSIS) e l’adozione condecreto del 12 gennaio 2011, mentre la Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva autorizzato l’ingresso e la residenza permanente in Italia condecreto del 2 febbraio 2011.
2. Ad avviso della Corte territoriale, al contrario di quanto ritenuto dal primo giudice, ilD.Lgs. n. 151 del 2001,art.36, non vincolerebbe il diritto al congedo parentale all’ingresso del minore in Italia ma farebbe riferimento testuale all’ingresso del minore in famiglia ed inoltre, senza alcuna contestazione da parte dell’Inps, si era anche allegato che il bambino era stato affidato alla famiglia adottiva il (OMISSIS) in Polonia e che da tale data egli era rimasto ininterrottamente con la stessa famiglia. Una diversa interpretazione si esporrebbe, ad avviso della sentenza impugnata, a rilievi di incostituzionalità per contrasto conl’art. 3 Cost., giacché per l’ipotesi di adozione nazionale non vi è dubbio che il congedo parentale possa essere fruito sin dall’ingresso in famiglia del minore.
3. Avverso tale sentenza ricorre per cassazione l’INPS sulla base di un motivo illustrato da memoria. B.A. resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo di ricorso, si deduce la violazione e o falsa applicazione del combinato disposto delD.Lgs. n. 151 del 2001,artt.26,31e36, e succ. modif. con riferimentoall’art. 12 preleggi.Chiarisce l’Istituto ricorrente che la questione controversa concerne la spettanza del diritto al congedo parentale ed alla relativa indennità, ai sensi delD.Lgs. n. 151 del 2001,art.36, in caso di adozione internazionale in favore di un padre adottivo lavoratore dipendente, prima dell’ingresso del minore straniero in Italia. In particolare, la sentenza impugnata avrebbe errato in diritto ammettendo la possibilità per il padre adottivo di fruire del congedo parentale anche nel periodo trascorso all’estero in ragione della corretta interpretazione del citato art. 36, derivante dalla sua collocazione all’interno del complessivo sistema dei congedi familiari ed in particolare alla luce sia dell’art. 26, D.Lgs. cit. (che espressamente consente una fruizione anche anticipata del solo congedo di maternità nel periodo precedente all’ingresso del minore in Italia nella sola ipotesi di adozione internazionale), che dell’art. 31, D.Lgs. cit. (che estende al padre lavoratore dipendente il disposto dell’art. 26 cit.). Dal confronto di tali disposizioni con l’art. 36, D.Lgs. cit., ad avviso del ricorrente, si evince che la tutela della genitorialità, complessivamente, consiste nella possibilità per la lavoratrice madre di fruire del congedo di maternità nei cinque mesi successivi all’ingresso del minore in Italia, a seguito dell’autorizzazione rilasciata dalla Commissione per le adozioni internazionali presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri; inoltre, ferma la durata massima del periodo di astensione per maternità, la lavoratrice può fruire anche parzialmente del congedo di maternità prima dell’ingresso del minore in Italia e ciò al fine di consentirle la permanenza all’estero per l’incontro con il minore e gli adempimenti necessari per la procedura adottiva; il periodo non fruito prima dell’ingresso in Italia del minore va fruito entro i cinque mesi successivi a tale momento; la lavoratrice nei periodi di permanenza all’estero, in alternativa all’anticipo di cui si è detto, può avvalersi di periodi di congedo dal lavoro non retribuiti nè indennizzati, in entrambi i casi, la permanenza all’estero della lavoratrice va certificata dall’ente autorizzato incaricato di espletare la procedura di adozione; in alternativa alla lavoratrice madre, in caso di impossibilità di fruizione della stessa per decesso, grave infermità, ecc. ovvero in caso di rinuncia, ai sensi dell’art. 31, commi 1 e 2, D.Lgs. cit., tali diritti spettano al padre adottivo alle medesime condizioni previste per la madre; ad entrambi i genitori, infine, spetta il congedo parentale nel periodo e per la durata indicati alD.Lgs. n. 151 del 2001,art.36, decorrenti dall’ingresso del minore in famiglia. Dalla complessiva considerazione di tale sistema di tutele si ricaverebbe, dunque, l’insussistenza del diritto del padre adottivo di minore di nazionalità straniera ad ottenere il congedo parentale prima dell’ingresso del minore in Italia, anche se prima di tale di momento il minore sia stato affidato alla famiglia adottiva in territorio estero.
2. Il motivo è fondato.
3. La questione va esaminata verificando se la peculiarità e complessità dell’istituto dell’adozione internazionale (di cui allaL. n. 476 del 1998, di ratifica ed esecuzione della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta a L’Aja il 29 maggio 1993, contenente modifiche allaL. 4 maggio 1983, n. 184) incida ed in che termini sui contenuti del diritto alla fruizione del congedo parentale da parte del padre adottivo in ipotesi di adozione nazionale.
4. Il tessuto normativo di cui si discute trae le proprie origini dallaL. n. 903 del 1977,artt.6e7, sulla parità di trattamento, in riferimento alle adozioni e agli affidamenti pre-adottivi. Tali disposizioni furono estese all’affidamento familiare temporaneo dalla legge sulle adozioni e affidi (L. n. 184 del 1983,art.80, comma 2, sulla disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori) e poi adattate ad opera della Corte costituzionale, soprattutto, con le sentenze n. 332 del 1988 e n. 341 del 1991.
5. La disciplina di tutela è stata adeguata a quella prevista per la nascita in sede di riforma ad opera dellaL. n. 53 del 2000, con un intervento limitato a un solo comma che non tiene conto delle modifiche quasi contemporaneamente apportate, per le adozioni e gli affidi preadottivi internazionali, dalla legge di ratifica della Convenzione dell’Aja (la n. 476 del 1998, che ha inserito l’art. 39 quater, all’interno dellaL. n. 184 del 1983).
6. Nel corso del 2001, mantenendosi una divaricazione già segnalata in dottrina tra disciplina lavoristica e civilistica in tema di adozione internazionale, sono stati varati contestualmente, in chiusura della tredicesima legislatura, il Testo unico (D.Lgs. n. 151 del 2001) e l’ultima riforma della disciplina in materia di adozioni e affidi (L. n. 149 del 2001, che ha dettato ulteriori modifiche allaL. n. 184 del 1983, in particolare sostituendo l’art. 80).
7. La disciplina contenuta nel testo unico n. 151 del 2001, che costituisce un’opera di riordino e riorganizzazione della previgente normativa, comprese le innovazioni e abrogazioni già intervenute prima della sua adozione, per grandi linee, prevede: a) il riconoscimento di una astensione dal lavoro a favore della madre (Capo III t.u.), definita congedo di maternità (art. 2, comma 1, lett. a, tu.), nonché del padre (Capo IV t.u.), definita congedo di paternità (art. 2, comma 1, lett. b, t.u.); b) una successiva astensione a titolo di congedo parentale (art. 2, comma 1, lett. c, t.u.), riconosciuto a entrambi i genitori (Capo V t.u.).
8. La disciplina del Testo unico attribuisce rilevanza alla filiazione giuridica e la inserisce specificamente all’interno della disciplina che ciascun capo dedica ai diversi tipi di congedo. La separazione di disciplina tra adozioni e affidi nazionali ed adozioni e affidi internazionali è limitata a poche differenze di trattamento, derivanti dalla regolamentazione dell’istituto delle adozioni.
9. In via di sintesi, può affermarsi che nel caso di minori stranieri:
– quando si parla di affidamento, ci si riferisce solo all’affidamento pre-adottivo, posto che non può verificarsi il caso dell’affidamento provvisorio o temporaneo;
– è previsto il diritto alla permanenza all’estero di ciascuno degli aspiranti genitori per tutto il tempo necessario, così come certificato dall’ente autorizzato (art. 27, commi 2 e 3, per la lavoratrice, e art. 31, comma 2, per il lavoratore,D.Lgs. n. 151 del 2001); si tratta di un congedo che ovviamente può essere fruito assieme da parte dei due lavoratori, ma che non dà diritto a copertura economica né previdenziale, essendo solo garantita la salvaguardia del rapporto di lavoro subordinato; questo congedo preliminare, alle diverse condizioni di tutela previste, costituisce deroga al principio – previsto per le adozioni nazionali- che i congedi decorrono solo successivamente all’ingresso del bambino nel nucleo familiare; a questi fini, la durata del periodo di permanenza all’estero è certificata dall’ente autorizzato che ha ricevuto l’incarico di curare la procedura di adozione;
– se si tratta di adozione nazionale, il congedo di maternità (obbligatorio) da fruire spetterà per i primi cinque mesi successivi all’effettivo ingresso del minore in famiglia, mentre in caso di adozione internazionale, il congedo – a scelta della lavoratrice o del lavoratore – potrà essere goduto sempre nel limite temporale complessivo dei cinque mesi predetti): a) prima dell’ingresso del minore in Italia, durante il periodo di permanenza all’estero per l’incontro con il minore e gli adempimenti della procedura adottiva; b) entro i cinque mesi successivi all’ingresso del minore in Italia;
– quanto alla disciplina del congedo parentale (facoltativo) e del congedo per la malattia del figlio è la medesima sia per l’adozione internazionale che per quella nazionale e la separazione della disciplina in due articoli (artt. 36 e 37) nel capo sui congedi parentali, rispettivamente per le adozioni e affidi nazionali e per quelli internazionali, pare dovuta alla necessità che il Testo unico includesse anche la disciplina prevista in altra sede (rispetto all’art. 39 quater e, precisamente, nell’art. 31, comma 3, lett. n) della legge sulle adozioni e di precisare che l’ente autorizzato deve limitarsi a certificare la durata del congedo stesso, senza possibilità di intervenire sulla sua estensione.
10. Ciò premesso, al fine di giungere alla soluzione della questione oggetto del ricorso, il quadro va completato con gli specifici riferimenti alla complessa procedura di adozione internazionale che, in esecuzione della Convenzione dell’Aja come sopra ricordata, è stata introdotta con laL. n. 476 del 1998, che, modificando laL. n. 183 del 1984, sulle adozioni, ha previsto l’intervento della commissione centrale per le adozioni internazionali quale organismo che presiede alle fasi amministrative del procedimento di adozione.
11. Tale commissione verifica l’opera degli enti autorizzati che sono i soli abilitati dalla legge a curare le procedure di adozione internazionale. In particolare, ai sensi dellaL. n. 476 del 1998,art.3, che ha sostituito il Capo I del Titolo III dellaL. 4 maggio 1983, n. 184, l’ente autorizzato ” (…) informa immediatamente la Commissione, il tribunale per i minorenni e i servizi dell’ente locale della decisione di affidamento dell’autorità straniera e richiede alla Commissione, trasmettendo la documentazione necessaria, l’autorizzazione all’ingresso e alla residenza permanente del minore o dei minori in Italia; h) certifica la data di inserimento del minore presso i coniugi affidatari o i genitori adottivi; i) riceve dall’autorità straniera copia degli atti e della documentazione relativi al minore e li trasmette immediatamente al tribunale per i minorenni e alla Commissione; l) vigila sulle modalità di trasferimento in Italia e si adopera affinché questo avvenga in compagnia degli adottanti o dei futuri adottanti; m) svolge in collaborazione con i servizi dell’ente locale attività di sostegno del nucleo adottivo fin dall’ingresso del minore in Italia su richiesta degli adottanti; n) certifica la durata delle necessarie assenze dal lavoro, ai sensi dell’art. 39 quater, comma 1, lett. a) e b), nel caso in cui le stesse non siano determinate da ragioni di salute del bambino, nonché la durata del periodo di permanenza all’estero nel caso di congedo non retribuito ai sensi del medesimo art. 39 quater, comma 1, lett. c) (…).
12. Dal punto di vista delle tutele previdenziali, dunque la copertura apprestata dall’ordinamento alla presenza dei lavoratori – futuri genitori presso lo Stato estero ed anche il concreto affidamento dell’adottando, propedeutico alla definita adozione del minore ai medesimi genitori adottanti, costituiscono previsioni specifiche e del tutto peculiari. Ciò è vero sia per la possibilità di fruire, in parte, del congedo (obbligatorio) di maternità/paternità indennizzato economicamente (ai sensi delD.Lgs. n. 151 del 2001,art.26, comma 3) che per la copertura ai fini lavorativi e contributivi derivante dalla permanenza all’estero di ciascuno degli aspiranti genitori per tutto il tempo necessario, così come certificato dall’ente autorizzato (art. 27, commi 2 e 3, per la lavoratrice, e art. 31, comma 2, per il lavoratore,D.Lgs. n. 151 del 2001).
13. Tali tutele non sono espressione di un principio di corrispondenza tra avvicinamento della famiglia al minore in suolo estero ed “ingresso dello stesso in famiglia”, al fine di far ritenere che anche nella fase di sviluppo della procedura in territorio estero possa essere integrata la condizione voluta dalla legge per la fruizione del congedo parentale da parte del padre, non ancora, adottivo ai sensi delD.Lgs. n. 151 del 2001,art.36.
14. L’ingresso del minore e dei genitori adottanti nel territorio nazionale realizza l’evento giuridico che deve essere considerato come momento di inizio del definitivo inserimento all’interno del nucleo familiare, mentre tale situazione non può dirsi giuridicamente presente nelle fasi antecedenti, pur se è già avvenuto il contatto umano che non è venuto meno nel tempo.
15. In questo senso, dunque, la difformità di fruizione del congedo parentale da parte del padre nell’ipotesi di adozione nazionale ed internazionale è più apparente che reale e non suscita alcun dubbio di incostituzionalità per disparità di trattamento, giacché in quest’ultimo caso è al momento dell’ingresso in territorio nazionale che può dirsi definitivamente realizzato, anche per legge, l’effettivo e stabile inserimento del minore nella famiglia che lo ha adottato.
16. La sentenza impugnata, dunque, ha in effetti violato le norme denunciate giacché ha ritenuto equiparabile all’ingresso in famiglia del minore adottato all’interno del territorio nazionale, la diversa ipotesi dell’affidamento del minore straniero nel territorio d’origine del medesimo in periodo precedente al trasferimento definitivo, unitamente alla famiglia adottiva, presso il territorio dello Stato italiano.
17. Per tale ragione, la sentenza deve essere cassata e rinviata alla stessa Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, che esaminerà la domanda proposta da B.A. alla luce del seguente principio di diritto: “In ipotesi di adozione internazionale, il congedo parentale da parte del padre adottivo di minore straniero, ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001,art.36, non può essere fruito prima dell’ingresso del minore nel territorio nazionale dello Stato italiano perché solo dopo tale evento avviene il definitivo ingresso del minore in famiglia ed inizia a decorrenza l’arco temporale previsto dal medesimo articolo per la fruizione del congedo”.
18. Il giudice del rinvio provvederà anche a regolare le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, cui demanda la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 7 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2019

Il ritardato adempimento dell’obbligazione modale contenuta nel testamento, ancorché coercibile ex art 614 bis c.p.c., non determina il risarcimento del danno non patrimoniale da lesione della memoria del defunto

Cass. civ. Sez. II, 3 giugno 2019, n. 15110
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 21663/2015 proposto da:
R.G.M., rappresentato e difeso dall’Avvocato LUIGI CECCHINI, presso il cui studio a Firenze, via La Marmora 55, elettivamente domicilia per procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
B.S., rappresentato e difeso dall’Avvocato MASSIMO FRANCESCO DOTTO, presso il cui studio a Roma, via Lazio 20/B, elettivamente domicilia per procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1301/2014 del TRIBUNALE di FIRENZE, depositata il 24/4/2014;
udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 15/3/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO;
sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale della Repubblica, Dott. CAPASSO Lucio, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso;
sentito, per il controricorrente, l’Avvocato MASSIMO FRANCESCO DOTTO.
Svolgimento del processo
R.G.M. ha convenuto in giudizio, innanzi al tribunale di Firenze, B.S. per ottenere la condanna di quest’ultimo al risarcimento dei danni conseguenti alla lesione del suo interesse morale a veder tutelata la figura e la memoria dell’avv. Carlo Fedeli, deceduto a (OMISSIS), al quale l’attore era legato da un’intesa amicizia risalente nel tempo, per la sofferenza soggettiva e l’intimo patimento derivanti dal constatare la mancata esecuzione della sentenza con la quale, nel 2010, il tribunale di Firenze aveva condannato il convenuto alla costituzione del “Centro Studi F.”. L’avv. Fedeli, in effetti, con testamento, aveva istituito, quale suo unico erede, G.L., disponendo in favore del R. un legato remuneratorio, avente ad oggetto beni sul Lago Maggiore, e nominando il B. quale esecutore testamentario. A distanza di tre mesi, però, era deceduta anche G.L., la quale, a sua volta, aveva istituito, come suo unico erede, lo stesso B., con l’onere di realizzare, presso l’appartamento in (OMISSIS), un “Centro Studi F.” secondo “la sua sensibilità, il suo rispetto per la memoria di C., la sua onestà”. Il tribunale di Firenze, infatti, con sentenza del 2010, passata in giudicato, in accoglimento della domanda proposta dallo stesso R., ha condannato il B. a dare esecuzione alla indicata disposizione testamentaria. A tale sentenza, tuttavia, nonostante l’atto di precetto che l’attore aveva notificato al convenuto l’11/11/2010, non era seguito alcun adempimento spontaneo.
B.S., dal suo canto, si è costituito in giudizio ed ha resistito alla domanda proposta dall’attore, deducendo, per un verso, di aver costituito, con atto notarile del 25/1/2011, il “Centro Studi in memoria dell’avv. Carlo Fedeli” e, per altro verso, che, a norma dell’art. 614 bis c.p.c., il R. avrebbe potuto ottenere l’attuazione coercitiva dell’obbligo.
Il tribunale, con sentenza depositata il 24/4/2014, ha rigettato la domanda proposta dal R..
Il tribunale, in particolare, – dopo aver dato atto che il R., con sentenza poi confermata dalla corte d’appello nel 2011, era stato condannato a restituire all’asse ereditario la somma di Lire 521.000.000, a lui in precedenza affidata dall’avv. Fedeli, e che tale sentenza aveva probabilmente costituito per l’attore un “argomento” per indicare solo all’udienza di precisazione delle conclusioni l’importo da liquidare a titolo di risarcimento dei danni nella misura di un milione di Euro, “senza peraltro rammentare i criteri di calcolo di un così elevato pretium doloris” – ha rilevato, per un verso, che, a norma dell’art. 614 bis c.p.c., il R., dopo la notifica del precetto in data 11/11/2010, avrebbe ben potuto adire il giudice dell’esecuzione ed ottenere, in quella sede, ogni tutela, essendo peraltro legittimato attivo a fruirne in quanto legatario, anche in considerazione della rilevanza giuridica di un’eventuale pronuncia di condanna ottenuta in quella sede in caso di persistente inadempimento del debitore, e, per altro verso, che non si era verificato alcun inadempimento e che, dunque, non sussisteva alcuna condotta causativa di danno, nemmeno sotto il profilo del ritardo nella costituzione del Centro Studi: innanzitutto, ha osservato il tribunale, la disposizione testamentaria era rimessa, quanto ai tempi e ai modi della sua esecuzione, alla discrezionalità del B., il quale, peraltro, non risulta aver venduto il complesso dei beni mobili e dell’universalità di mobili custodite all’interno dell’appartamento di (OMISSIS); inoltre, ha aggiunto il tribunale, il convenuto, una decina di giorni prima dell’iscrizione della causa a ruolo, ha provveduto spontaneamente alla costituzione del Centro Studi F., con atto notarile in ordine al quale il giudice non è stato chiamato (né poteva esserlo) ad effettuare alcun accertamento circa la sua validità od efficacia.
Il R. ha proposto appello al quale ha resistito il B..
La corte d’appello di Firenze, tuttavia, con ordinanza pronunciata a norma dell’art. 348 bis c.p.c., in data 3/6/2014, ha dichiarato l’inammissibilità dell’appello ed ha condannato l’appellante al pagamento, in favore dell’appellato, delle spese del giudizio nonché, a normadell’art. 96 c.p.c., comma 3, della somma di Euro 1.000,00, “per avere insistito colpevolmente in tesi giuridiche reputate manifestamente infondate dal primo giudice”.
La corte, in particolare, ha ritenuto che l’appello proposto dal R. fosse manifestamente infondato “a fronte della corretta esclusione da parte del giudice di prime cure di un inadempimento causativo di un danno…” e del “chiaro tenore della disposizione testamentaria che ha rimesso forma, modalità e tempi di realizzazione del “Centro Studi Fedeli” alla discrezionalità dell’onerato”. La corte, peraltro, ha osservato che l’attore, nonostante l’onere previsto a suo caricodall’art. 2697 c.c., non aveva offerto alcuna prova del danno lamentato, “né in punto di esistenza né in punto di consistenza”, laddove l’esercizio del potere, conferito al giudicedall’art. 1226 c.c., di liquidazione del danno in via equitativa presuppone già assolto l’onere di provarne la sussistenza e l’entità materiale.
R.G.M., a seguito della comunicazione dell’ordinanza in data 4/6/2015, con ricorso notificato il 31/8/2015, ha chiesto, per quattro motivi, la cassazione della sentenza resa dal tribunale.
B.S. ha resistito con controricorso notificato in data 6/10/2015, deducendo, tra l’altro, l’inammissibilità, a norma dell’art. 348 ter c.p.c., delle censure fondatesull’art. 360 c.p.c., n. 5.
Il controricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione degli artt. 612, 614 bis e 101 c.p.c.,art. 24 Cost., comma 1 eart. 111 Cost., in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui il tribunale ha ritenuto che l’attore, dopo la notifica del precetto in data 11/11/2010, avrebbe ben potuto adire il giudice dell’esecuzione e ottenere, in quella sede, ogni tutela, essendo peraltro legittimato attivo a fruirne in quanto legatario, anche in considerazione della rilevanza giuridica di un’eventuale pronuncia di condanna ottenuta in quella sede in caso di persistente inadempimento del debitore. In realtà, ha osservato il ricorrente, il tribunale avrebbe dovuto escludere l’obbligo del R., dopo l’infruttuosa notifica del precetto, di rivolgersi al giudice dell’esecuzione ai sensidell’art. 612 c.p.c.: l’art. 614 bis c.p.c., infatti, è stato introdotto quale strumento di coercizione indiretta al fine di incentivare l’adempimento spontaneo degli obblighi che non sono coercibili e, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, non presuppone l’esperimento della procedura previstadall’art. 612 c.p.c., la quale, infatti, regola l’esecuzione in forma specifica della condanna per inadempimento di un obbligo di fare o di non fare che può essere attuata forzatamente in quanto fungibile. L’art. 614 bis c.p.c., al contrario, prevede che, in caso di prestazione infungibile, il creditore, nel corso del giudizio introdotto per l’ottenimento di una sentenza di condanna ad un fare infungibile, può chiedere al giudice la condanna alla sanzione prevista. Il tribunale, quindi, ha proseguito il ricorrente, ha escluso la proponibilità o l’ammissibilità dell’azione risarcitoria sul falso presupposto della competenza del giudice dell’esecuzione, in sede di ricorso ai sensidell’art. 612 c.p.c., all’emissione di una statuizione di condanna a norma dell’art. 614 bis c.p.c.. L’attore, al contrario, non aveva alcun onere di intraprendere il procedimento per la determinazione delle modalità esecutive di cuiall’art. 612 c.p.c., poiché tale norma si applica agli obblighi di fare fungibili mentre, nel caso di specie, la sentenza del 2010 aveva posto a carico dell’onerato un’obbligazione di fare infungibile.
2. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la motivazione assente, solo apparente, illogica, in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui il tribunale ha ritenuto che il convenuto, avendo costituito il Centro Studi F. qualche giorno prima dell’iscrizione a ruolo della causa, aveva spontaneamente adempiuto al dovere di dare esecuzione alla volontà testamentaria, escludendo anche il ritardo nella costituzione del Centro Studi posto che la disposizione testamentaria era rimessa, quanto ai tempi e alle modalità esecutive, alla discrezionalità del B.. Così facendo, però, ha osservato il ricorrente, il tribunale non ha correttamente esaminato il testamento di G.L. in relazione all’atto di costituzione del Centro Studi F.: il B., infatti, ha costituito un’associazione finalizzata alla raccolta e alla conservazione di materiale prevalentemente in campo fallimentare, laddove l’oggetto dell’onere testamentario era quello di sistemare lo studio Fedeli con quelle peculiari caratteristiche delineate nel testamento, vale a dire con riferimento, oltre che ai circa 4.000 volumi, anche al materiale non solo libraio e non solo in campo fallimentare che costituiva la biblioteca dell’avv. Fedeli, come i mobili, i quadri e i tappeti che quest’ultimo aveva raccolto in oltre trent’anni di attività professionale. Il tribunale, inoltre, non ha esaminato il fatto, rappresentato dalla costituzione di tale Centro a distanza di lustri dall’apertura della successione di G.L., alla luce di quanto accertato dalla sentenza del tribunale del 2010, che, con valore di giudicato, aveva accertato l’inadempimento del B. alla disposizione testamentaria. Il giudice di merito, inoltre, ha proseguito il ricorrente, ha erroneamente attribuito al testamento un significato non proprio, neppure sotto il profilo del comune sentire, poiché, rimettendo al volere dell’onerato i modi e i tempi di esecuzione dell’onere, ha operato un’interpretazione forzata della volontà testamentaria che sfugge ad ogni ragionevolezza. Del tutto incomprensibile e illogica, ha concluso il ricorrente, è, infine, l’affermazione secondo la quale il giudice di primo grado non era chiamato – né poteva esserlo – ad effettuare alcun accertamento circa la validità e l’efficacia dell’atto del 25/1/2011 con il quale il B. ha preteso di aver adempiuto all’onere su di lui gravante.
3. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando la nullità della sentenza, in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui il tribunale non ha osservato, sul punto dell’adempimento del B., l’obbligo di motivazione, avendo espresso al riguardo argomentazioni inconciliabili, posto che, se l’adempimento spontaneo del B. è ricondotto al 25/1/2011, non si comprende perché non sia ascrivibile al medesimo una condotta causativa di danno al R. nemmeno sotto il profilo del ritardo nella costituzione del Centro F. e, comunque, oggettivamente incomprensibili, non comprendendosi la ragione per cui il giudice non era chiamato – né poteva esserlo – ad accertare la validità e l’efficacia dell’atto notarile del 25/1/2011 se il R., ottenuta già nel 2010 una sentenza definitiva di condanna del B., aveva poi agito per il risarcimento dei danni sul presupposto che il B. non aveva adempiuto a tale suo dovere di facere infungibile.
4. Con il quarto motivo, il ricorrente, lamentando la violazionedell’art. 2667 c.c.(rectius: art. 2697), artt. 2043, 646 e 648 c.c., in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui il tribunale ha erroneamente ripartito l’onere della prova posto che, in caso di inadempimento di un’obbligazione, il creditore che agisca per il risarcimento del danno o per l’adempimento, può limitarsi, anche in caso di inesatto adempimento, ad allegare la circostanza dell’inadempimento della controparte, spettando al debitore convenuto la prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’esatto adempimento. Il tribunale, inoltre, ha proseguito il ricorrente, ha omesso di accertare se, nella fattispecie, sussistevano gli elemento costitutivi dell’illecito, quali si ricavanodall’art. 2043 c.c., vale a dire la condotta, il nesso causale e l’evento di danno, non avendo affatto spiegato le ragioni per cui ha ritenuto assolto il suo compito con l’accertamento della formale costituzione del Centro F., senza considerare che il B., erede di G.L., era onerato alla realizzazione del Centro Sudi e che è rimasto inerte ed inadempiente per lungo periodo e che il R. ha visto ingiustamente frustrate, pur a seguito di più azioni giudiziarie volte ad obbligare il convenuto all’adempimento, le sue legittime aspettative di veder effettivamente rispettate le ultime volontà della G. e preservata la memoria dell’avv. Fedeli, in tal modo incorrendo, oltre che in un radicale vizio di motivazione, che è causa di nullità della sentenza, nella violazionedell’art. 2043 c.c..Il tribunale, poi, ha proseguito il ricorrente, è incorso in violazione di legge laddove ha ritenuto che l’adempimento dell’onere fosse rimesso al mero volere dell’onerato, quanto ai modi e ai tempi, laddove, al contrario, il testamento era molto preciso nei modi e la legge sui tempi, omettendo, in subordine, di valutare il ritardo nell’adempimento anche laddove, per mera ipotesi, fosse stato ritenuto assolto l’obbligo, alla cui realizzazione il B. era tenuto sin dall’apertura della successione della G. nel 1998. Il tribunale, inoltre, ha aggiunto il ricorrente, ha omesso di considerare, in violazionedell’art. 324 c.p.c.eart. 2909 c.c., che la sentenza del 2010 aveva valore di giudicato tra le parti, sia formale che sostanziale, e che, con tale decisione, il giudice aveva accertato l’inadempimento del B., tant’è che lo ha condannato all’adempimento dell’onere, pronunciando una sentenza che non avrebbe potuto essere emessa se l’allora convenuto avesse provato di non essere ancora tenuto all’adempimento perché il termine non era ancora scaduto o di non esserlo con le modalità volute dalla testatrice. In realtà, ha proseguito il ricorrente, la sentenza ha accertato che, all’epoca, il B. per ben nove anni dall’apertura della successione non aveva ottemperato all’onere. Il tribunale, quindi, nel rispettodell’art. 324 c.p.c.eart. 2909 c.c., avrebbe dovuto ritenere che l’inadempimento (o almeno il grave ritardo) era già stato accertato con la sentenza del 2010 e si erano, pertanto, già verificati al momento dell’introduzione della domanda, senza limitarsi a rimettere all’onerato la decisione circa i tempi e i modi per l’esecuzione dell’onere. Il tribunale, infine, ha concluso il ricorrente, una volta rigettato la domanda attrice per l’an, non avrebbe dovuto esaminarla sotto il profilo del quantum, laddove, al contrario, la sentenza impugnata ha erroneamente imputato al R. di non aver omesso l’indicazione dei criteri di calcolo del danno richiesto. In realtà, ha aggiunto il ricorrente, l’attore, nel promuovere il giudizio, aveva invocato l’interpretazione costituzionalmente orientatadell’art. 2059 c.c., chiedendo al giudice la condanna del B. al risarcimento, in suo favore, del danno patrimoniale subito in conseguenza dell’inadempimento, da parte del convenuto, dell’obbligazione di istituire il Centro Studi F., per avere, con tale condotta illecita, leso interessi inerenti alla persona di rilevanza costituzionale e provocato, per l’effetto, un danno ingiusto, del quale, non essendo possibile la prova nel suo preciso ammontare, aveva chiesto la liquidazione equitativa.
5. Il secondo, il terzo ed il quarto motivo, da trattare congiuntamente per l’intima connessione dei temi trattati, sono, in parte, inammissibili ed, in parte, infondati, con assorbimento del primo. Intanto, sono inammissibili tutte le censure che il ricorrente ha articolato in relazione a vizi riconducibili alla norma di cuiall’art. 360 c.p.c., n. 5: l’art. 348 ter c.p.c., comma 5 – applicabile, ai sensi delD.L. n. 83 del 2012,art.54, comma 2, conv. inL. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello che, come quello di specie, sono stati introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione a partire dall’11/9/2012 (Cass. n. 11439 del 2018) – stabilisce, infatti, che, ove l’inammissibilità dell’appello sia stata pronunciata sulla base delle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, della decisione impugnata, il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di primo grado può essere proposto esclusivamente per i motivi di cuiall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4): con esclusione, quindi, dei vizi previsti dal n. 5 dello stesso articolo. Nel caso in esame, come visto, il tribunale ha ritenuto che il B., prima ancora dell’iscrizione della causa a ruolo, aveva spontaneamente provveduto, con atto notarile stipulato in data 25/1/2011, alla costituzione del “Centro Studi F.” e che, pertanto, lo stesso non avesse dato luogo ad alcuna condotta causativa di un danno, neppure sotto il profilo del ritardo nell’adempimento dell’obbligazione modale, se si considera che la disposizione testamentaria era rimessa, quanto ai tempi e ai modi della sua esecuzione, alla discrezionalità dello stesso erede che vi era onerato. La corte d’appello, dal suo canto, ha ritenuto che l’appello proposto dal R. avverso la predetta decisione fosse manifestamente infondato in ragione “della corretta esclusione da parte del giudice di prime cure di un inadempimento causativo di un danno…” e del “chiaro tenore della disposizione testamentaria che ha rimesso forma, modalità e tempi di realizzazione del Centro Studi F. alla discrezionalità dell’onerato”. Risulta, quindi, evidente come le due pronunce siano fondate, per ciò che riguarda le questioni di fatto, sulle medesime ragioni, vale a dire, per un verso, l’accertato adempimento all’obbligazione modale da parte del B., in ragione della formale costituzione, con atto del 25/1/2011, del “Centro Studi F.”, e, per altro verso, l’accertata insussistenza di una condotta causativa di un danno (risarcibile, in via extracontrattuale, per l’attore), anche sotto il profilo del mero ritardo nell’esecuzione di tale adempimento, in ragione del chiaro tenore della disposizione testamentaria, che rimetteva alla discrezionalità dello stesso onerato “forma, modalità e tempi” di costituzione del “Centro Studi F.”. Né può ritenersi che tali accertamenti fossero preclusi, come in sostanza pretende il ricorrente, dal giudicato (incontestatamente) formatosi intorno alla sentenza con la quale, nel 2010, il tribunale aveva, a suo dire, già accertato l’inadempimento del B. o, quanto meno, il suo grave ritardo. La sentenza del 2010, infatti, per come riprodotta in ricorso (p. 42-47), pronunciandosi sulla domanda con la quale il medesimo attore aveva chiesto la condanna del B. all’adempimento dell’obbligazione modale posta a suo carico, ha ritenuto, innanzitutto, che il modus stabilito dal testamento della G. dovesse essere adempiuto dal B., quale erede onerato dalla stessa, ed, in secondo luogo, che “le modalità di realizzo” di tale obbligazione erano affidate, come la stessa G. aveva stabilito, “secondo la sua sensibilità, il suo rispetto per la memoria di C., la sua onestà” ed, in forza di tale accertamento – che, in quanto giudicato, si è sostituito al testamento quale nuova fonte dell’obbligazione modale che (sia pure in funzione della pretesa risarcitoria extracontrattuale azionata dall’attore sul fondamento del relativo inadempimento) è stata dedotta in giudizio – ha accolto la domanda di adempimento proposta dall’attore ed ha, per l’effetto, condannato il B., quale erede onerato a darvi attuazione, a costituire il Centro Studi F. “secondo la sua sensibilità, rispetto per la memoria dell’avvocato, la sua onestà”. Tale sentenza, quindi, non ha affatto accertato l’inadempimento del B. e neppure il suo grave ritardo, essendosi, piuttosto, limitata ad accertare che il B. era effettivamente tenuto a dare esecuzione all’obbligazione modale e, quindi, a condannarlo a tale adempimento, rimettendo allo stesso obbligato la scelta, “secondo la sua sensibilità, rispetto per la memoria dell’avvocato, la sua onestà”, delle relative “modalità di realizzo”. Ed una volta accertato, a prescindere da chi fosse tenuto a fornire la relativa prova, l’adempimento dell’obbligazione modale, quale risulta dalla sentenza del 2010, ed una volta escluso, in base alla medesima sentenza, che tale adempimento sia stato tardivo, risulta, allora, evidente come il tribunale abbia correttamente escluso, in difetto dei relativi elementi costitutivi, la fondatezza della domanda risarcitoria che, in via extracontrattuale, l’attore, sul fondamento del mancato adempimento alla predetta obbligazione, aveva articolato in ragione della conseguente lesione del suo interesse morale alla tutela della figura e della memoria dell’avv. Carlo Fedeli attraverso l’effettiva realizzazione del “Centro Studi” a lui dedicato.
6. Il ricorso dev’essere, quindi respinto.
7. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
8. La Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, nel testo introdotto dallaL. n. 228 del 2012,art.1, comma 17.
P.Q.M.
la Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese di lite, che liquida in Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e spese generali nella misura del 15%; dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, nel testo introdotto dallaL. n. 228 del 2012,art.1, comma 17.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 15 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2019

Il giudice nella sussistenza dei requisiti di legge, deve convalidare il provvedimento di allontanamento urgente dall’abitazione familiare nel caso in cui non sia stato possibile eseguire l’interrogatorio a causa di assenza dell’interessato (resosi irreperibile) all’udienza di convalida

Cass. pen. Sez. IV, 22 maggio 2019, n. 22524
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Procuratore della Repubblica di Treviso;
avverso l’ordinanza emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Treviso emessa il 23/07/2018;
nel procedimento nei riguardi di:
H.A.K.A., nato il (OMISSIS);
udita la relazione svolta dal Consigliere, Dott. Pietro Silvestri;
lette le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale, Dott. MARINELLI Felicetta, che ha chiesto l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata.
Svolgimento del processo
1. Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Treviso non ha convalidato il provvedimento con cui è stato disposto dalla Questura di Torino, a sensi dell’art. 384 bis c.p.p., l’allontanamento urgente dall’abitazione familiare di H.A.K.A. in relazione ai reati di cui agliartt. 572, 582 e 585 c.p.; ha ritenuto il Giudice di non potere convalidare la misura atteso l’omesso interrogatorio dell’interessato, conseguente alla impossibilità di notificargli l’avviso di fissazione dell’udienza di convalida.
2. Ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Treviso deducendo violazione di legge; si sostiene che il mancato reperimento dell’interessato – dovuto al suo allontanamento volontario – avrebbe dovuto indurre il giudice a convalidare la misura nonostante la mancata assunzione dell’interrogatorio.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato.
2. La questione attiene al se il giudice debba o meno convalidare il provvedimento con cui sia stato disposto l’allontanamento urgente dall’abitazione familiare nel caso in cui, per effetto della esecuzione della misura, non sia stato possibile eseguire l’interrogatorio a causa dell’assenza dell’interessato all’udienza di convalida.
Dal provvedimento impugnato emerge che la Questura di Treviso cercò inutilmente di comunicare all’interessato l’avviso di fissazione della udienza di convalida, non riuscendovi per la sostanziale irreperibilità di H.A.K.A.. 3. Mutuando principi elaborati in tema di convalida di arresto, secondo la Corte di cassazione, il giudice, investito della legittimità della misura, deve decidere su tale questione anche nel caso in cui l’indagato sia stato posto in libertà dal pubblico ministero e non possa essere interrogato per forza maggiore, come appunto accade nel caso in cui, a seguito della rimessione in libertà, sia impossibile reperire l’interessato nei ristretti termini previsti per procedere alla convalida della misura.
Funzione primaria e indefettibile del procedimento incidentale di convalida è infatti quella di verificare la legalità dell’operato della polizia giudiziaria anche quando la misura precautelare sia venuta meno.
Si è sottolineato come la delineata esigenza che ad ogni misura segua un rituale controllo del giudice anche nel caso in cui l’arrestato abbia riacquistato la libertà (art. 391 c.p.p., comma 6, -art. 121 disp. att. c.p.p., comma 2) non confligge con i principi generali fissatidall’art. 13 Cost.in tema di libertà personale e, in particolare, con la peculiare espressione definita come “libertà dagli arresti”, nella parte in cui (art. 13 Cost., comma 3) si statuisce che le privazioni di libertà di un individuo, compiute dalle autorità di polizia per ragioni di necessità e urgenza nei tassativi casi previsti dalla legge, ove non siano convalidate dall’autorità giudiziaria nei termini di legge, “si intendono revocate e restano prive di ogni effetto”.
Il giudizio incidentale che si svolge nei confronti di un arrestato, anche restituito alla libertà, è logicamente circoscritto, non diversamente dal caso in esame, al puro controllo di legalità dell’avvenuto arresto, in ordine al quale il giudice deve limitarsi ad accertare il rispetto, ora per allora, delle condizioni legittimanti la misura (Cfr., fra le altre, Sez. 6, n. 38791 del 09/05/2014, Fofana, Rv. 260930).
In tale contesto, la circostanza che l’indagato, per effetto della esecuzione della misura dell’allontanamento dalla casa familiare, si renda irreperibile e, quindi, si ponga in condizione di non essere raggiunto dall’avviso di fissazione dell’udienza di convalida, rende impossibile l’assunzione dell’interrogatorio di garanzia – a causa dell’assenza dell’interessato – e realizza una causa di forza maggiore impeditiva; tale fatto impeditivo, tuttavia, non esonera il giudice dal dovere di procedere alla convalida, in presenza delle condizioni previste dalla legge.
Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha già chiarito che la mancata presenza dell’arrestato all’udienza, senza che sussista un legittimo impedimento, non osta a che il giudice, nella sussistenza dei requisiti di legge, provveda alla convalida, perché in tal caso trova applicazionel’art. 391 c.p.p., comma 3, (Sez. 6, n. 41598 del 27/06/2018, P., Rv. 274148; Sez. 6, n. 41783 del 05/07/2017, Schiavone, non massimata).
4. Nel caso di specie, il Tribunale non ha fatto corretta applicazione dei principi indicati e l’ordinanza deve essere annullata senza rinvio, in quanto la misura fu legittimamente eseguita.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata perchè il provvedimento di allontanamento dalla abitazione familiare è stato legittimamene eseguito.
Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2019.
Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019

Il genitore che ha provveduto da solo fin dalla nascita del figlio al suo mantenimento, può esercitare azione di regresso verso il genitore inadempiente per il recupero della quota di questi

Cass. civ. Sez. VI – 1, 19 giugno 2019, n. 16404
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23658-2018 proposto da:
D.C.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SILVIO PELLICO, 16, presso lo studio dell’avvocato PIERO FALETTI, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
G.P.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 2270/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 09/04/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 07/05/2019 dal Consigliere Relatore Dott. CAMPESE EDUARDO.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 20 settembre 2016, resa all’esito di un procedimento introdotto da G.P., madre del minore G.D.G.G., con ricorso exart. 148 c.c.e proseguito con il rito ordinario disposto dal giudice istruttore, il Tribunale di Tivoli quantificò in 500,00 mensili, oltre il 50% delle spese mediche non coperte dal servizio sanitario nazionale e di istruzione, l’entità del contributo al mantenimento di quel minore dovuto dal padre naturale, D.G.L., e condannò quest’ultimo a corrispondere alla G. l’ulteriore somma di Euro 60.000,00, di cui Euro 10.000,00 a titolo di rimborso delle spese di mantenimento del figlio esclusivamente da lei sostenute fin dalla nascita del medesimo ed Euro 50.000,00 quale risarcimento dei danni arrecati allo stesso.
1.1. Con sentenza del 9 aprile 2018, n. 2270, la Corte di appello di Roma, adita dal D.G., accolse parzialmente il gravame da lui proposto avverso la descritta decisione: in particolare, respinse la domanda risarcitoria formulata dalla G., ritenendo che la stessa non avesse originariamente agito quale rappresentante del menzionato minore, qualità tardivamente invocata solo innanzi ad essa; confermò, per il resto, le statuizioni del tribunale, procedendo ad un nuovo regolamento delle spese processuali di entrambi i gradi.
2. Avverso questa sentenza D.G.L. ricorre per cassazione, affidandosi a quattro motivi, mentre la G. è rimasta solo intimata.
Motivi della decisione
1. Le formulate doglianze prospettano, rispettivamente:
I) “Violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 316 – bis c.c. e degli artt. 156 e ss. c.p.c. (nullità della sentenza per violazione del procedimento)”, perché la corte distrettuale, pur avendo rilevato che il procedimento instaurato dalla G. exart. 148 c.c.avrebbe dovuto essere definito con decreto monocratico all’esito di una fase di cognizione sommaria, aveva ritenuto che non era dal mutamento nel rito ordinario che fosse derivata la prospettata lesione dell’attività processuale, ma dall’omissione, all’esito di detto mutamento, della fase istruttoria di merito. Ti suo errore giuridico era stato, dunque, quello di non considerare un tale vizio procedimentale motivo di annullamento della sentenza appellata, con conseguente rimessione del processo innanzi al giudice di prime cure (individuato nel presidente del Tribunale di Tivoli);
II) “Violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 316 – bis c.c. e degli artt. 158 e 281 – septies c.p.c. (nullità della sentenza derivante dalla costituzione del giudice), nonché omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia exart. 360 c.p.c., n. 5”, per avere la corte capitolina omesso di pronunciarsi sullo specifico motivo di gravame relativo al fatto che il Tribunale di Tivoli, piuttosto che decidere collegialmente sul ricorso della G., avrebbe dovuto rimetterne la decisione al giudice monocratico ai sensi dell’art. 281 – septies c.p.c.;
III) “Violazione e falsa applicazionedell’art. 148 c.c.(oggi 316 – bis c.c.). Omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia exart. 360 c.p.c., n. 5”. Si assume che le richieste delle G. riguardanti il risarcimento per i danni subiti dal figlio minorenne ed il rimborso della quota per il suo mantenimento fin dalla sua nascita erano da considerarsi inammissibili nel giudizio introdotto exart. 148 c.c., dovendo essere formulate in un procedimento da svolgersi nelle forme ordinarie. La corte a quo, invece, pur avendo disatteso la prima di tali istanze (sebbene per carenza di legittimazione attiva della G.), aveva invece confermato la condanna dell’appellante quanto all’importo della seconda pur essendone la corrispondente pretesa affatto sfornita di prova;
IV) “Omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia exart. 360 c.p.c., n. 5”, per non avere la sentenza impugnata considerato l’intervenuta prescrizione del diritto di regresso esercitato dalla G. con la domanda di restituzione della quota di mantenimento del figlio minorenne gravante sull’appellante.
2. I primi due motivi, esaminabili congiuntamente perchè connessi, non meritano accoglimento.
2.1. Invero, la Corte di appello di Roma, dopo aver esaurientemente descritto i vizi procedimentali verificatisi in primo grado, e le loro conseguenze sul diritto di difesa del D.C., ha ritenuto, affatto correttamente, che gli stessi non rientrassero tra le ipotesi di cui agliartt. 353 e 354 c.p.c., uniche ad imporre la rimessione del processo innanzi al giudice di primo grado, ed ha quindi, sostanzialmente, proceduto al rinnovato esame del merito delle originarie pretese della G..
2.2. Nessun seguito, pertanto, possono trovare le doglianze ancora oggi formulate, sul punto, dal ricorrente, che mostrano, evidentemente, di non aver colto, in parte qua, la effettiva ratio decidendi del provvedimento impugnato.
3. Miglior sorte non merita il terzo motivo.
3.1. Infatti, qualsivoglia doglianza dell’odierno ricorrente riferita all’originaria domanda risarcitoria della G. sarebbe qui inammissibile per carenza di interesse, non essendo quest’ultimo rimasto soccombente, sullo specifico punto, innanzi alla corte capitolina (cfr. Cass. n. 6894 del 2015; Cass. n. 658 del 2015; Cass. n. 7057 del 2010).
3.2. Quanto, invece, al rimborso delle spese di mantenimento del minore, rileva il Collegio che ove ad esse abbia provveduto integralmente uno soltanto di suoi genitori (come pacificamente accaduto nella specie), a questi spetti il diritto di agire in regresso, per il recupero della quota relativa al genitore inadempiente, secondo le regole generali sul rapporto fra condebitori solidali: come si desume, in particolare,dall’art. 148 c.c.(richiamatodall’art. 261 c.c., entrambi nei rispettivi testi, qui applicabili ratione temporis, vigenti anteriormente alD.Lgs. n. 154 del 2013, entrato in vigore il 7 febbraio 2014), che, prevedendo l’azione giudiziaria contro tale genitore, postula il diritto del genitore adempiente di agire (appunto, in regresso) nei confronti dell’altro (cfr. Cass. n. 15063 del 2000; Cass. n. 10124 del 2004).
3.2.1. A tanto deve soltanto aggiungersi che: i) il procedimento in esame, benché introdotto con ricorso exart. 148 c.c., è comunque proseguito con il rito ordinario disposto dal giudice istruttore (benché con i vizi rilevati dalla corte distrettuale che, pertanto, ha provveduto al riesame del merito delle domande della G.); ii) il prospettato vizio motivazionale è radicalmente inammissibile, perché riferito ad una sua nozione non riconducibile ad alcuna delle ipotesi previste dal codice di rito, ed in particolare non sussumibile nel vizio contemplatodall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (nella formulazione disposta dalD.L. n. 83 del 2012,art.54, convertito, con modificazioni, dallaL. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis, risultando impugnata una sentenza resa il 9 aprile 2018), atteso che tale mezzo di impugnazione può concernere esclusivamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti; iii) le argomentazioni oggi esposte dal ricorrente quanto all’entità del rimborso impostogli si risolvono, invece, sostanzialmente, in una critica al complessivo governo del materiale istruttorio operato dal giudice a quo: ciò non è ammesso, però, nel giudizio di legittimità, che non può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (Dott. Cass. n. 21381 del 2006, nonché la più recente Cass. n. 8758 del 2017).
3. Il quarto motivo, infine, è inammissibile.
3.1. La sentenza impugnata nulla contiene quanto all’eccezione di prescrizione come oggi invocata dal D.C..
3.1.1. Per giurisprudenza pacifica di questa Corte, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorso deve, a pena di inammissibilità, non solo allegare l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto in virtù del principio di autosufficienza del ricorso. Invero, i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, nè rilevabili d’ufficio (Cfr., ex multis, Cass. n. 20694 del 2018; Cass. n. 15430 del 2018; Cass. n. 23675 del 2013; Cass. n. 7981 del 0707; Cass. n. 16632 del 2010). In quest’ottica, il ricorrente ha l’onere di riportare, a pena d’inammissibilità, dettagliatamente in ricorso gli esatti termini della questione posta in primo ed in secondo grado (cfr. Cass. n. 9765 del 2005; Cass. n. 12025 del 2000): onere rimasto, nella specie, assolutamente inadempiuto.
4. Il ricorso va, dunque, respinto, senza necessità di alcuna pronuncia in ordine alle spese del giudizio di legittimità, essendo la G. rimasta solo intimata, altresì rilevandosi che, dagli atti, il processo risulta esente dal contributo unificato, sicchè non trova applicazione ilD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1-quater, inserito dallaL. n. 228 del 2012,art.1, comma 17.
5. Va, disposta, da ultimo, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma dell’art.52delD.Lgs. n. 196 del 2003.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Dispone, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 7 maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2019

Il beneficiario di amministrazione di sostegno conserva la capacità di donare.

Corte Costituzionale, sentenza 10 maggio 2019 n. 114

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 774, primo comma, primo periodo, del codice civile, promosso dal Giudice tutelare del Tribunale ordinario di Vercelli, sull’istanza proposta da P. B. in qualità di amministratore di sostegno di A. B., con ordinanza del 19 febbraio 2018, iscritta al n. 64 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 6 marzo 2019 il Giudice relatore Marta Cartabia.
Ritenuto in fatto
1.– Il Giudice tutelare del Tribunale ordinario di Vercelli ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 774, primo comma (rectius: primo comma, primo periodo), del codice civile, nella parte in cui non prevede che siano consentite, con le forme abilitative richieste, le donazioni da parte dei beneficiari di amministrazione di sostegno.
Quanto ai fatti del processo, il rimettente riferisce che il giudizio è stato originato dalla richiesta di un’amministratrice di sostegno di essere autorizzata dal giudice tutelare a disporre una donazione in nome e per conto della beneficiaria dell’amministrazione di sostegno. L’amministrazione di sostegno a tempo indeterminato è stata aperta nel 2006, individuando come amministratrice la sorella della beneficiaria. La beneficiaria, che ha due figli maggiorenni ed economicamente indipendenti, ha espresso il desiderio di donare alla figlia, in procinto di sposarsi, la somma di diecimila euro per l’acquisto di una cucina e contemporaneamente mettere “a riserva” la stessa somma nell’interesse dell’altro figlio. Sentita personalmente dal giudice, la beneficiaria ha confermato il suo desiderio e il giudice ha verificato che il patrimonio della beneficiaria ha la capienza necessaria per disporre la donazione. Il giudice conclude, dunque, che «la richiesta, alla luce delle indagini svolte, appare ammantata da intrinseca congruità, genuinità, e passibile di sicura condivisione».
2.– Nella ricostruzione compiuta dal giudice a quo, il sistema del codice civile non consentirebbe ai beneficiari di amministrazione di sostegno di effettuare valide donazioni neppure per il tramite dell’amministratore.
Il rimettente premette che la fattispecie non è disciplinata espressamente da norme di diritto positivo e non è stata fatta oggetto di specifiche pronunce della Corte di cassazione. Il problema è stato affrontato soltanto in sede dottrinale e dalla giurisprudenza di merito e risolto in senso negativo (il richiamo è al decreto del Giudice tutelare del Tribunale ordinario della Spezia del 1° ottobre 2010). Dopo avere ricordato che l’art. 774, primo comma (rectius: primo comma, primo periodo), cod. civ. prevede che «non possono fare donazione coloro che non hanno la piena capacità di disporre dei propri beni» e che le eccezioni a tale regola, tra le quali non compare il caso dei beneficiari di amministrazione di sostegno, sono espressamente previste dal codice civile (artt. 774, secondo comma [recte: primo comma, secondo periodo, e secondo comma], cod. civ. e 777, secondo comma, cod. civ., oltre alla presunzione stabilita dall’art. 776 cod. civ.), il giudice rimettente conclude che per i beneficiari di amministrazione di sostegno la possibilità di disporre donazioni dipende dalla soluzione della questione se i medesimi abbiano una «piena capacità di disporre dei propri beni» ai sensi dell’art. 774, primo comma, cod. civ.
Sul punto il rimettente prende le distanze da alcune opinioni dottrinarie e dalla giurisprudenza di merito e ritiene che «una ablazione, anche parziale, e financo minima, della capacità di agire del beneficiario costituisca […] indefettibile risultato della applicazione della misura di protezione in parola». Ciò, sia per ragioni letterali (perché l’art. 1 della legge 9 gennaio 2004, n. 6, recante «Introduzione nel libro primo, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizioni e di inabilitazione, nonché relative norme di attuazione, di coordinamento e finali»), nel disporre che la legge «ha la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia», implicitamente affermerebbe che una limitazione della predetta capacità, per quanto minima, necessariamente consegua all’applicazione dell’istituto), sia sulla base del combinato disposto dell’art. 405, quinto comma, numeri 3) e 4), cod. civ., da un lato, e dell’art. 409, primo comma, cod. civ., dall’altro, perché, «se la previsione di atti da compiersi in rappresentanza o in assistenza integra parte del contenuto indefettibile del decreto» e «se solo in relazione ad ogni attività diversa dalle predette il beneficiario conserva la capacità di agire», allora «il beneficiario subisce immancabilmente una deminutio della sua capacità, per il solo fatto dell’apertura della misura».
A tale conclusione, peraltro, si arriverebbe anche attraverso un’interpretazione di ordine sistematico, perché sarebbe irrazionale ipotizzare un controllo giudiziale sull’operato di un amministratore di sostegno incaricato di assistere «un soggetto in toto capace di agire»; né l’assistenza potrebbe mai essere ricostruita «in termini, del tutto indefinibili, di consiglio, blandizia, suggerimento, conforto, pena lo svuotamento del contenuto del munus conferito, e la sua insindacabilità de facto». Molto più corretto apparirebbe invece tratteggiare l’assistenza in termini di compartecipazione dell’amministrazione di sostegno al compimento di «negozi giuridici apprezzabili nella loro essenza ed esistenza, ed altrimenti invalidi (ex art. 412 [secondo comma] c.c.)». Inoltre, deporrebbero per tale interpretazione sia la previsione dell’autorizzazione giudiziale al compimento degli atti di straordinaria amministrazione di cui agli artt. 375, primo comma, e 411, primo comma, cod. civ., sia le disposizioni di cui all’art. 411, secondo e terzo comma, cod. civ.
Secondo il rimettente, in definitiva, «[…] alla apertura di una amministrazione di sostegno consegue necessariamente la privazione, anche solo minima, ma inevitabile, della capacità di agire del beneficiario; […] ad essa consegue altresì la necessità di prevedere come necessaria l’autorizzazione giudiziale per il compimento di atti di straordinaria amministrazione, ivi compresi quelli dispositivi; […] la piena capacità di disporre dei propri beni costituisce corollario, e forse addirittura un quid pluris, rispetto al mantenimento di una integra capacità di agire, che deve presupporsi; […] il beneficiario di amministrazione di sostegno non può per definizione dirsi titolare di una integra capacità di agire, e dunque, della piena capacità di disporre dei propri beni; […] egli non può quindi effettuare donazioni».
3.– Sulla base di queste premesse il rimettente, rilevata la propria legittimazione a sollevare questioni di legittimità costituzionale, sostiene, quanto alla non manifesta infondatezza, che la circostanza che i beneficiari di amministrazione di sostegno non possano porre in essere valide donazioni, neppure con le forme abilitative previste dal codice civile, confligga con gli artt. 2 e 3, primo e secondo comma, della Costituzione. In particolare, egli ricorda che l’art. 2 Cost. pone al vertice dell’ordinamento la dignità ed il valore della persona (si richiama la sentenza n. 258 del 2017) e che tale precetto non può essere disgiunto né dall’art. 3, secondo comma, Cost., che affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona, nè dall’art. 3, primo comma, Cost., dato che tra le condizioni personali che limitano l’eguaglianza si pone la condizione di disabilità o di infermità.
Secondo il rimettente, la scelta del legislatore del 2004 di non prevedere la possibilità, in capo ai beneficiari di amministrazione di sostegno, di effettuare valide donazioni, neppure per il tramite o con l’ausilio del soggetto incaricato di garantire loro protezione e con le ulteriori cautele del caso, sarebbe «evidentemente irragionevole, tanto intrinsecamente, quanto in riferimento a casi analoghi». Sotto il primo profilo, afferma il rimettente, «[s]e la legge sull’amministrazione di sostegno ha la finalità di tutelare le persone prive in tutto o in parte di autonomia, approntando interventi di sostegno, e limitando al minimo la loro capacità di agire, non vi è chi non veda come l’inibizione sic et simpliciter della capacità di donare ad altro risultato non conduca, se non a quello di una profonda mortificazione di questi soggetti. Molto più congruo sarebbe stato circondare tale capacità (mantenendola viva) di opportuni presidi e cautele, come d’altronde previsto per gli atti di straordinaria amministrazione patrimoniale in generale». Inoltre, la norma denunciata «svuoterebbe completamente di contenuto (in questa materia) il disposto dell’art. 410 c.c. – vera norma “cardine” dell’istituto in discorso – secondo cui l’amministratore di sostegno, nell’adempimento dell’incarico, deve tenere conto dei desideri, delle aspirazioni e dei bisogni del beneficiario». Apparirebbe dunque del tutto palese il rischio di vera e propria «emarginazione» dei beneficiari di amministrazione di sostegno, che non potrebbero mai realizzare la loro volontà di compiere un gesto che consta «di bellezza, nobiltà, spontaneità, altezza», e che si configura quindi come una forma di pieno sviluppo della loro persona.
Pertanto il giudice chiede che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 774, primo comma, cod. civ., «nella parte in cui non prevede che siano consentite, con le forme abilitative richieste, le donazioni da parte del beneficiario di amministrazione di sostegno». Tale intervento non demanderebbe a questa Corte un indebito potere di creazione legislativa con usurpazione delle prerogative del legislatore, ma si limiterebbe a determinare «una ammissibile, e auspicabile, integrazione della materia in esame, attraverso il richiamo di norme già presenti nell’ordinamento (artt. 777, 375, 411 c.c.), capaci di diventare paradigma ed oggetto della addictio normativa, quale soluzione, in fondo necessaria, pienamente rinvenibile nell’ambito della cornice di sistema».
4.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che il dubbio di costituzionalità sia dichiarato non fondato, perché il risultato a cui il giudice rimettente intende pervenire chiedendo alla Corte costituzionale una pronuncia additiva sarebbe già consentito da una corretta interpretazione delle norme vigenti.
L’Avvocatura sostiene, infatti, che la ricostruzione del quadro normativo contenuta nell’ordinanza di rimessione sia «fallace» e tradisca «lo spirito della legge istitutiva dell’amministrazione di sostegno», che sarebbe «ispirata ad un’ottica di massimo contenimento della limitazione di capacità dell’amministrato» (si citano la sentenza n. 440 del 2005 e giurisprudenza di legittimità e di merito). In questo senso, da una lettura sistematica dell’art. 774 cod. civ., in relazione alla disciplina dell’istituto dell’amministrazione di sostegno e, particolarmente, degli artt. 409, primo comma, e 411, primo e quarto comma, cod. civ., si evincerebbe che l’apertura dell’amministrazione di sostegno «di regola non comporta la perdita della capacità di agire se non per quanto espressamente previsto» e «consente – nei casi in cui il divieto sia previsto dal decreto – di superarlo attraverso l’autorizzazione del giudice tutelare», dato che appunto l’art. 411, primo comma, richiama gli artt. 374 e 375 cod. civ.
Considerato in diritto
1.– Il Giudice tutelare del Tribunale ordinario di Vercelli ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 774, primo comma (rectius: primo comma, primo periodo), del codice civile, nella parte in cui non prevede che siano consentite, con le forme abilitative richieste, le donazioni da parte dei beneficiari di amministrazione di sostegno.
Secondo il rimettente, il divieto per i beneficiari di amministrazione di sostegno di effettuare valide donazioni, neppure per il tramite o con l’assistenza del soggetto incaricato di garantire loro protezione e con l’ulteriore cautela dell’autorizzazione del giudice tutelare, sarebbe innanzitutto lesivo del valore e della dignità della persona umana di cui all’art. 2 della Costituzione. Tale divieto, inoltre, si porrebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza intrinseca di cui all’art. 3, primo comma, Cost., perché mortificherebbe i beneficiari dell’amministrazione di sostegno, in contrasto con la finalità dell’istituto; esso, per altro verso, svuoterebbe di contenuto il disposto dell’art. 410 cod. civ., secondo cui l’amministratore di sostegno, nell’adempimento dell’incarico, deve tenere conto dei desideri, delle aspirazioni e dei bisogni del beneficiario. L’art. 3, primo comma, Cost. sarebbe violato anche per disparità di trattamento in riferimento a casi analoghi, quali la previsione dell’autorizzazione giudiziale al compimento degli atti di straordinaria amministrazione di cui agli artt. 375 e 411 cod. civ. La norma censurata, infine, violerebbe anche l’art. 3, secondo comma, Cost., perché, impedendo a coloro che si trovano in una condizione di inabilità e infermità di realizzare il proprio desiderio di donare, integrerebbe un ostacolo di ordine sociale che impedisce il pieno sviluppo della personalità umana.
2.– Le questioni non sono fondate.
Il giudice rimettente muove dal presupposto che il divieto di donazione stabilito dalla disposizione censurata operi anche nei confronti dei beneficiari di amministrazione di sostegno.
Tale presupposto interpretativo non può essere condiviso.
3.– L’art. 774, primo comma, primo periodo, cod. civ. stabilisce che «[n]on possono fare donazione coloro che non hanno la piena capacità di disporre dei propri beni». Tale divieto di donare è sempre stato inteso come rivolto in modo esclusivo agli interdetti, agli inabilitati e ai minori di età. Inoltre, il codice civile consente al donante, ai suoi eredi o aventi causa di proporre l’azione di annullamento qualora la donazione sia disposta «da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere o di volere al momento in cui la donazione è stata fatta» (art. 775, primo comma, cod. civ.).
Quando il legislatore, con la legge 9 gennaio 2004, n. 6 (Introduzione nel libro primo, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizioni e di inabilitazione, nonché relative norme di attuazione, di coordinamento e finali), ha introdotto, nel corpo del codice civile, accanto ai tradizionali istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, l’innovativo istituto della amministrazione di sostegno, a vantaggio della «persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi» (art. 404 cod. civ.), sono sorte alcune difficoltà di coordinamento con la preesistente disciplina codicistica.
La disciplina dell’amministrazione di sostegno, in particolare, non contiene alcuna espressa previsione di raccordo con le disposizioni in materia di atti personalissimi quali la donazione, che qui rileva, il testamento e il matrimonio, atti dei quali invece le norme dello stesso codice civile relative a minori, interdetti e inabilitati si occupano con previsioni variamente limitative.
Il silenzio del legislatore non ha impedito che in sede giurisprudenziale si chiarissero i rapporti intercorrenti tra l’amministrazione di sostegno e i coesistenti istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione. In particolare, le differenze tra le originarie previsioni codicistiche e la nuova misura si sono rivelate subito talmente profonde da impedire l’estensione analogica all’amministrazione di sostegno delle disposizioni codicistiche riguardanti l’interdizione e l’inabilitazione.
4.– Per quanto qui interessa, la giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito che il provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, diversamente dal provvedimento di interdizione e di inabilitazione, non determina uno status di incapacità della persona (sentenza n. 440 del 2005), a cui debbano riconnettersi automaticamente i divieti e le incapacità che il codice civile fa discendere come necessaria conseguenza della condizione di interdetto o di inabilitato.
Al contrario, come risulta dalla giurisprudenza di legittimità, l’amministrazione di sostegno si presenta come uno strumento volto a proteggere senza mortificare la persona affetta da una disabilità, che può essere di qualunque tipo e gravità (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 27 settembre 2017, n. 22602). La normativa che la regola consente al giudice di adeguare la misura alla situazione concreta della persona e di variarla nel tempo, in modo tale da assicurare all’amministrato la massima tutela possibile a fronte del minor sacrificio della sua capacità di autodeterminazione (in questo senso, Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 11 maggio 2017, n. 11536; 26 ottobre 2011, n. 22332; 29 novembre 2006, n. 25366 e 12 giugno 2006, n. 13584; ma si veda anche Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 11 settembre 2015, n. 17962).
Introducendo l’amministrazione di sostegno, il legislatore ha dotato l’ordinamento di una misura che può essere modellata dal giudice tutelare in relazione allo stato personale e alle circostanze di vita di ciascun beneficiario e in vista del concreto e massimo sviluppo delle sue effettive abilità. Così l’ordinamento oggi mostra una maggiore sensibilità alla condizione delle persone con disabilità, è più attento ai loro bisogni e allo stesso tempo più rispettoso della loro autonomia e della loro dignità di quanto non fosse in passato, quando il codice civile si limitava a stabilire una netta distinzione tra soggetti capaci e soggetti incapaci, ricollegando all’una o all’altra qualificazione rigide conseguenze predeterminate.
La nuova disciplina si raccorda pienamente con i più recenti strumenti elaborati nell’ordinamento europeo e internazionale: con la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18, e con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, il cui art. 26 protegge «il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità».
5.– La giurisprudenza di legittimità è costante nell’interpretare le disposizioni in materia di amministrazione di sostegno in modo da valorizzare tutte le capacità del beneficiario non compromesse dalla disabilità fisica, psichica o sensoriale.
L’orientamento costantemente seguito dalla Corte di cassazione, infatti, è nel senso di ritenere che tutto ciò che il giudice tutelare, nell’atto di nomina o in successivo provvedimento, non affida all’amministratore di sostegno, in vista della cura complessiva della persona del beneficiario, resta nella completa disponibilità di quest’ultimo.
Sin dalle sue prime pronunce in materia, la Corte di cassazione ha affermato che la disciplina introdotta dalla legge n. 6 del 2004 «delinea una generale capacità di agire del beneficiario dell’amministrazione di sostegno, con esclusione di quei soli atti espressamente menzionati nel decreto con il quale viene istituita l’amministrazione medesima». Ne consegue che il giudice tutelare si limita, in via di principio, a individuare gli atti in relazione ai quali ne ritiene necessario l’intervento, «senza peraltro determinare una limitazione generale della capacità di agire del beneficiario»: il giudice tutelare «non si muove, come il giudice della interdizione, nell’ottica dell’accertamento della incapacità di agire della persona sottoposta al suo esame […], ma nella diversa direzione della individuazione, nell’interesse del beneficiario, dei necessari strumenti di sostegno con riferimento alle sole categorie di atti al cui compimento lo ritenga inidoneo» (Cass., sez. prima civ., n. 25366 del 2006).
È significativo ricordare che l’applicazione di tale orientamento ha recentemente condotto la Corte di cassazione a ritenere che al beneficiario di amministrazione di sostegno non si estende il divieto di contrarre matrimonio (atto personalissimo, al pari della donazione che qui rileva), previsto per l’interdetto dall’art. 85 cod. civ., salvo che il giudice tutelare non lo disponga esplicitamente con apposita clausola, ai sensi dell’art. 411, quarto comma, primo periodo, cod. civ. Anche in tale occasione la Corte di cassazione ha ribadito che deve escludersi «una generalizzata applicazione delle limitazioni dettate per l’interdetto, per via di analogia, al beneficiario dell’amministrazione di sostegno», dato che quest’ultima misura è sempre volta a valorizzare le residue capacità del soggetto debole (Cass., sez. prima civ., n. 11536 del 2017).
In questa ricostruzione del sistema codicistico assume dunque importanza centrale l’art. 411, quarto comma, primo periodo, cod. civ., secondo cui «[i]l giudice tutelare, nel provvedimento con il quale nomina l’amministratore di sostegno, o successivamente, può disporre che determinati effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno, avuto riguardo all’interesse del medesimo ed a quello tutelato dalle predette disposizioni». Ciò implica che in assenza di esplicita disposizione da parte del giudice tutelare non possono ritenersi implicitamente applicabili divieti e limitazioni previsti dal codice civile ad altro fine.
6.– Il richiamato percorso ermeneutico conduce a ritenere che il beneficiario di amministrazione di sostegno conserva la sua capacità di donare, salvo che il giudice tutelare, anche d’ufficio, ritenga di limitarla – nel provvedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno o in occasione di una sua successiva revisione – tramite l’estensione, con esplicita clausola ai sensi dell’art. 411, quarto comma, primo periodo, cod. civ., del divieto previsto per l’interdetto e l’inabilitato dall’art. 774, primo comma, primo periodo, cod. civ.
Una tale interpretazione risponde del resto al principio personalista, affermato anzitutto dall’art. 2 Cost., che tutela la persona non solo nella sua dimensione individuale, ma anche nell’ambito dei rapporti in cui si sviluppa la sua personalità: rapporti che richiedono senz’altro il rispetto reciproco dei diritti, ma che si alimentano anche grazie a gesti di solidarietà (sentenza n. 119 del 2015). Nell’architettura dell’art. 2 Cost. l’adempimento dei doveri di solidarietà costituisce un elemento essenziale tanto quanto il riconoscimento dei diritti inviolabili di ciascuno, sicché comprimere senza un’obiettiva necessità la libertà della persona di donare gratuitamente il proprio tempo, le proprie energie e, come nel caso in oggetto, ciò che le appartiene costituisce un ostacolo ingiustificato allo sviluppo della sua personalità e una violazione della dignità umana.
Peraltro, come già ricordato da questa Corte ad altro proposito (sentenza n. 258 del 2017), il principio personalista impone di leggere l’art. 2 congiuntamente all’art. 3 Cost., primo comma, che garantisce il principio di eguaglianza a prescindere dalle «condizioni personali», tra le quali si colloca indubbiamente la condizione di disabilità di cui i beneficiari di amministrazione di sostegno sono portatori, sia pure in forme e gradi diversi; e secondo comma, il quale affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli, qual è appunto la condizione di disabilità, che impediscono la libertà e l’eguaglianza nonché il pieno sviluppo della persona.
Alla luce di tali principi, posti a fondamento dell’intero impianto della Costituzione italiana, deve escludersi che la persona beneficiaria di amministrazione di sostegno possa essere privata della capacità di donare fuori dai casi espressamente stabiliti dal giudice tutelare ai sensi dell’art. 411, quarto comma, primo periodo, cod. civ, restando tale capacità integra in mancanza di diversa espressa indicazione.
Si tratta di un approdo, tra l’altro, che la stessa giurisprudenza di legittimità ha esplicitamente raggiunto, pronunciandosi per la prima volta sul tema dei rapporti tra contratto di donazione e amministrazione di sostegno in un momento successivo all’ordinanza di rimessione che ha sollevato le presenti questioni di costituzionalità (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 21 maggio 2018, n. 12460). Secondo la Corte di cassazione, il giudice tutelare potrebbe d’ufficio escludere la capacità di donare solo «in presenza di situazioni di eccezionale gravità, tali da indurre a ritenere che il processo di formazione e manifestazione della volontà possa andare incontro a turbamenti per l’incidenza di fattori endogeni o di agenti esterni».
7.– La ricostruzione del quadro normativo ora esposta – che non ravvisa né nella disposizione censurata, né all’interno del codice civile alcun divieto legislativo di donare rivolto ai beneficiari di amministrazione di sostegno, fatti salvi gli specifici limiti disposti caso per caso dal giudice tutelare ai sensi dell’art. 411, quarto comma, primo periodo, cod. civ. – appare, oltre che conforme al diritto vivente, aderente ai principi informatori dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, connotato da un consapevole e ponderato «bilanciamento tra esigenze protettive» e «rispetto dell’autonomia individuale» (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 28 febbraio 2018, n. 4709); come tale, essa è idonea a superare tutti i dubbi di costituzionalità sollevati dal rimettente.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 774, primo comma, primo periodo, del codice civile, sollevate dal Giudice tutelare del Tribunale ordinario di Vercelli, in riferimento agli artt. 2 e 3, primo e secondo comma, della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10 maggio 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA

Il retratto successorio si esercita mediante la formale dichiarazione della parte di voler esercitare il diritto potestativo di voler acquistare la quota venduta dal coerede; dichiarazione che può essere espressa anche con l’atto introduttivo del giudizio purché sottoscritto personalmente o mediante procura speciale al difensore benché apposta a margine dell’atto o in calce allo stesso

Cass. civ. Sez. II, 28 maggio 2019, n. 14515
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 10082-2015 proposto da:
G.M.L., elettivamente domiciliata in ROMA VIALE OCEANO ATLANTICO 37-H, presso lo studio dell’avvocato TITO FESTA, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
R.L., rappresentato e difeso dagli avvocati NICOLA GIANCASPRO, GIROLAMO CARLO GRILLO;
– controricorrente –
e contro
R.G., B.V., B.B.G., FALLIMENTO (OMISSIS);
– intimati –
avverso la sentenza n. 7654/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 15/12/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/02/2019 dal Presidente FELICE MANNA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. CELESTE ALBERTO, che ha concluso per l’accoglimento del 2^ motivo, assorbito il I motivo del ricorso;
udito l’Avvocato FESTA Tito, difensore del ricorrente che si riporta agli atti depositati e deposita n. 4 cartoline di ricevimento;
udito l’Avvocato GRILLO Girolamo Carlo, difensore del resistente che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 1203 del 2008 il Tribunale di Civitavecchia accolse la domanda di retratto successorio proposta da G.M.L. ai sensidell’art. 732 c.c.in relazione alla cessione della quota di 1/4 di alcuni beni immobili relitti da G.A. da parte dell’altro erede B.V.; e per l’effetto dichiarò inefficaci gli atti di trasferimento posti in essere da quest’ultimo a favore di B.B.G. e i successivi atti di trasferimento in favore della s.a.s Immobiliare La Foce di Careggine di D.E. e C., s.a.s. DI. RO. D.F.M. e C., e di R.L. e R.G..
Interposto gravame da parte di R.L. e R.G., con sentenza n. 7654 del 15. 12. 2014 la Corte di appello di Roma accolse il secondo motivo di impugnazione e rigettò la domanda proposta da G.M.L.. Detta Corte rilevò che agli atti mancava la formale dichiarazione della parte di voler acquistare la quota venduta dal coerede, che costituisce il presupposto del diritto esercitato; dichiarazione che se fatta per la prima volta con atto di citazione, deve provenire dalla parte personalmente, non potendo essere resa dal difensore nel caso in cui la procura alle liti non contenga il mandato all’esercizio del diritto di retratto.
Per la cassazione di questa sentenza, con atto notificato il (OMISSIS), ricorre G.M.L., sulla base di due motivi. Resiste con controricorso R.L., mentre gli altri intimati non si sono costituiti.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

1. – Il primo motivo di ricorso denunzia violazione degliartt. 112 e 345 c.p.c., censurando la sentenza impugnata per non avere dichiarato inammissibile l’eccezione formulata dalla controparte circa la mancanza della dichiarazione personale della parte attrice di esercitare il retratto delle quote dei beni ereditari venduti, che essendo stata proposta solo con l’atto di impugnazione costituiva un’eccezione nuova, come tale non proponibile per la prima volta in appello.
1.1. – Il mezzo è infondato.
Ai sensidell’art. 345 c.p.c.il divieto di ius novorum in appello ha per oggetto esclusivamente le domande nuove e le nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio, non anche le mere difese. Questa Corte ha sul punto precisato che l’eccezione in senso stretto, la cui proposizione per la prima volta in appello è vietata dalla norma, consiste nella deduzione di un fatto impeditivo o estintivo del diritto vantato dalla controparte, laddove è mera difesa, come tale consentita, la contestazione dei fatti posti dall’altra parte a fondamento del suo diritto (Cass. n. 23796 del 2018; Cass. n. 816 del 2009; Cass. n. 15211 del 2005).
Nel caso di specie, a fronte della domanda di retratto successorio, la parte convenuta ha replicato in appello che la domanda proposta mancava del presupposto necessario, consistente nella dichiarazione personale della parte di voler riscattare i beni venduti, dichiarazione necessaria per l’accoglimento della domanda avendo il diritto di riscatto del coerede natura potestativa. Ora, poiché tale contestazione si risolveva nel negare una delle condizioni richieste dalla legge ai fini dell’accoglimento della domanda, vale a dire la sussistenza del fatto costitutivo del diritto azionato in giudizio, la relativa deduzione integrava una mera difesa e non un’eccezione in senso stretto. Come tale essa era proponibile anche per la prima volta in appello ed il suo esame da parte del giudice dell’impugnazione appare corretto.
2. – Il secondo motivo di ricorso denunzia violazionedell’art. 732 c.c., assumendo l’erroneità della decisione della Corte territoriale per avere ritenuto che la dichiarazione de qua, che pure era stata compiutamente formulata nell’atto introduttivo, non fosse riconducibile alla parte pur in presenza della procura alle liti apposta a margine dell’atto introduttivo, in contrasto con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che in tal caso ritiene speciale la procura e quindi la riferibile alla parte personalmente la dichiarazione contenuta nell’atto di citazione.
2.1. – Il mezzo è fondato.
Va premesso che la Corte di appello ha motivato la sua decisione di rigetto sul rilievo che la procura alle liti apposta a margine o in calce all’atto di citazione, nel caso in cui, com’è pacifico nella fattispecie, esso non sia firmato personalmente dalla parte, non consente la riconducibilità della dichiarazione ivi contenta formulata per la prima volta di voler riscattare il bene venduto ad un terzo da altro coerede, ai sensidell’art. 732 c.c., se nella procura stessa non è anche contenuto il mandato al difensore ad esercitare il retratto, vale a dire a rendere per conto del proprio assistito la suddetta dichiarazione di volontà.
Tale statuizione si pone in contrasto con l’orientamento consolidato di questa Corte secondo cui sia nella materia del retratto successorio, sia in quella affine dei riscatti agrario e locatizio, la dichiarazione unilaterale recettizia di carattere negoziale che esprime la volontà di esercitare il diritto potestativo di riscatto nei confronti dell’acquirente di quota ereditaria, previstodall’art. 732 c.c.a favore dei coeredi, può essere espressa pure con l’atto introduttivo del giudizio ed è in esso validamente manifestata quando sia riconducibile al titolare del potere attraverso la sottoscrizione di tale atto od il conferimento della procura speciale al difensore, tale dovendosi ritenere anche quella apposta a margine dell’atto o in calce allo stesso, dal momento che in tal caso, per effetto di siffatta procura, l’atto introduttivo del giudizio è direttamente riferibile alla parte, anche nel punto in cui contenga la suddetta manifestazione di volontà negoziale (Cass. n. 8264 del 2014; Cass. n. 9744 del 2010; Cass. n. 20944 del 2006; Cass. n. 6465 del 1996).
Merita aggiungere che tale contrasto appare inconsapevole, in quanto la Corte territoriale ha sì richiamato il citato orientamento giurisprudenziale, in particolare le sentenze di questa Corte n. 20948 del 2006 e n. 6793 del 1987, ma ne ha equivocato il contenuto, laddove ha riferito la necessità della presenza della dichiarazione nel mandato al difensore in luogo che nell’atto di citazione.
3. – Il secondo motivo di ricorso va pertanto accolto e la sentenza cassata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Roma, che nell’uniformarsi al principio di diritto sopra enunciato provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
accoglie il secondo motivo di ricorso e rigetta il primo; cassa in relazione al motivo accolto la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra Sezione della Corte di appello di Roma, che provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 5 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2019

Anche nella separazione per la determinazione dell’assegno di mantenimento sono applicabili gli stessi criteri stabiliti dalle Sezioni Unite in tema di assegno di assegno di divorzio

Cass. civ. Sez. VI – 1, 19 giugno 2019, n. 16405
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
M.S., domiciliata in Roma, viale Carso 9, presso lo studio dell’avv. Daniele Vitale (fax 06/3242551, p.e.c. daniele.vitale.avvocato.pe.it) che la rappresenta e difende per procura speciale a margine del ricorso per cassazione, unitamente all’avv. Giuseppe Alessio (fax 049/657687, p.e.c. giuseppe.alessio.ordineavvocatibadova.it);
– ricorrente –
nei confronti di:
B.A.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1429/2017 della Corte di appello di 2019 Venezia, emessa in data 8 maggio 2017 e depositata in data 7 luglio 2017, R.G. n. 635/2017;
sentita la relazione in Camera di consiglio del relatore Cons. Giacinto Bisogni.
Svolgimento del processo
Che:
1. La signora M.S. ha appellato la decisione del Tribunale di Padova n. 2342/2016 che, nel giudizio di separazione dal coniuge B.A., aveva respinto la sua domanda di addebito della separazione e di imposizione di un assegno di mantenimento a carico dei B. di 400 Euro mensili ovvero della somma ritenuta di giustizia.
2. La Corte di appello, con sentenza n. 1429/2017, ha riformato parzialmente la decisione impugnata dichiarando B.A. tenuto al versamento della somma di 170 Euro mensili a titolo di contributo al mantenimento di M.S.. Ha ritenuto la Corte distrettuale che, se anche provati, i fatti imputati dalla M. al B. non costituivano di certo eclatanti violazioni degli obblighi coniugali determinanti la crisi irreversibile del rapporto coniugale. Quanto alla domanda di assegno la Corte distrettuale ha tenuto conto della relativa differenza di capacità reddituale, della breve durata del matrimonio e della convivenza, della inesistenza di una condizione di agiatezza e, anzi della difficile situazione economica in cui versa la sig.ra M. dopo la separazione e che la costringe a vivere con i propri genitori.
3. Contro la decisione della Corte di appello ricorre per cassazione la sig.ra M.S. con sei motivi di impugnazione: a) violazione e/o falsa applicazionedell’art. 143 c.p.c.per aver escluso che i comportamenti addebitati dalla ricorrente al marito integrino altrettante violazioni dei doveri nascenti dal matrimonio; b) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 143 – 151 – 2727 – 2729 c.c. per aver conseguentemente violato i principi che regolano l’addebitabilità della separazione e che impongono la dichiarazione di addebito della separazione come conseguenza dell’accertamento di comportamenti in violazione dei doveri nascenti dal matrimonio; omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione tra le parti conseguente all’omesso esame di documenti costituiti dal preliminare di acquisto di un immobile ad uso abitativo, da adibire a residenza familiare, stipulato dal marito e dal contratto di fornitura di alcuni elementi di arredo della costruenda casa coniugale, sottoscritto, a sua volta, il giorno successivo; c) vizio in procedendo exart. 112 c.p.c.per aver omesso di pronunciare nell’accogliere la domanda di condanna del marito al versamento di un contributo al mantenimento della ricorrente, sul dies a quo di decorrenza del diritto così riconosciuto a quest’ultima; d) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 156 – 445 c.c. per aver disposto la decorrenza dell’assegno di mantenimento dalla data della sentenza di secondo grado; e) vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione tra le parti conseguente all’omesso esame delle istanze dirette ad ottenere la esibizione exart. 210 c.p.c.e la richiesta di informazioni all’INPS exart. 213 c.p.c.al fine di conoscere la redditività del resistente; f) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 – 336 c.p.c. per aver omesso di pronunciare sulle spese del giudizio di primo grado dopo aver riformato parzialmente la sentenza resa in quel grado di giudizio.

Motivi della decisione

che:
4. I primi due motivi sono infondati alla luce della giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. sez. VI-1 n. 3923 del 19 febbraio 2018) secondo cui “grava sulla parte che richieda, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’addebito della separazione all’altro coniuge, l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà”. In tema di separazione personale, la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri postadall’art. 143 c.c.a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario accertare se tale violazione, lungi dall’essere intervenuta quando era già maturata una situazione di intollerabilità della convivenza, abbia, viceversa, assunto efficacia causale nel determinarsi della crisi del rapporto coniugale. L’apprezzamento circa la responsabilità di uno o di entrambi i coniugi nel determinarsi della intollerabilità della convivenza è istituzionalmente riservato al giudice di merito e non può essere censurato in sede di legittimità in presenza di una motivazione congrua e logica (Cass. civ. sez. I n. 18074 del 20 agosto 2014). A tali principi si è attenuta la Corte che, nel valutare i comportamenti dedotti dalla odierna ricorrente come fondamento della domanda di addebito, ne ha escluso la gravità e la loro idoneità a determinare la rottura irreparabile del legame coniugale. La valutazione della Corte di appello non è pertanto sindacabile in questo giudizio.
5. Va inoltre respinto il quinto motivo alla luce della giurisprudenza (Cass. civ. sez. I n. 1162 del 18 gennaio 2017) secondo cui alla durata del matrimonio può essere attribuito rilievo ai fini della determinazione della misura dell’assegno di mantenimento. La Corte di appello ha valutato la differenza reddituale al 2014, epoca della separazione, e ha ritenuto, sulla base anche degli altri elementi menzionati, e, in particolare, della breve durata del matrimonio, di contenere l’ammontare dell’assegno nella misura indicata. La decisione di non acquisire anche la documentazione relativa alle annualità successive al 2014 non ha escluso la considerazione della differenza reddituale verificatasi nel corso della separazione, differenza che la Corte distrettuale, con una valutazione di merito non soggetta a sindacato in questo giudizio, non ha ritenuto idonea a modificare la determinazione dell’assegno. Va rilevato sul punto anche la genericità e il difetto di autosufficienza del ricorso che non evidenzia il contenuto e la modalità di deduzione dell’incremento della differenza reddituale fra i coniugi nel corso della separazione. Infine va ribadita la funzione dell’assegno che non è più, neanche dopo la sentenza delle Sezioni Unite n. 18287 dell’11 luglio 2018, quella di realizzare un tendenziale ripristino del tenore di vita goduto da entrambi i coniugi nel corso del matrimonio ma invece quello di assicurare un contributo volto a consentire al coniuge richiedente il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare. Anche sotto questo profilo il ricorso si dimostra generico e privo di autosufficienza.
6. Sono inoltre infondati il terzo e quarto motivo di ricorso. La circostanza per cui la Corte di appello si è limitata a determinare la entità dell’assegno di mantenimento senza indicarne la decorrenza va interpretata, alla luce della giurisprudenza di legittimità, come indicazione implicita della decorrenza dalla data della domanda in applicazione del principio per il quale un diritto non può restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio (Cass. civ., sez. I, n. 2960 del 3 febbraio 2017).
7. Infine è infondato anche il sesto motivo in quanto la Corte di appello di Venezia, confermando la sentenza di primo grado per ciò che non attiene alla pronuncia sull’assegno di mantenimento e, quindi, confermando anche la pronuncia relativa alla condanna della M., totalmente soccombente, al pagamento della metà delle spese del primo grado ha, per un verso, preso atto della mancanza di uno specifico motivo di contestazione da parte della odierna ricorrente sul punto (cfr. la descrizione dei profili in cui si articolava l’appello a pag. 7 del ricorso) e, per altro verso, condannando il B. al pagamento della metà delle spese del grado di appello, ha sostanzialmente operato una compensazione delle spese dei due gradi del giudizio di merito in relazione al complessivo esito del giudizio che ha visto soccombere in entrambi i gradi la M. sulla domanda di addebito e prevalere ma parzialmente quanto alla domanda di assegno.
8. Il ricorso per cassazione va pertanto respinto senza statuizioni sulle spese e dichiarazione di sussistenza dei presupposti per l’imposizione di un ulteriore versamento a carico della ricorrente in misura pari a quella dovuta a titolo di contributo unificato a mente delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Dispone che in caso di pubblicazione della presente ordinanza siano omesse le generalità e gli altri elementi identificativi delle parti.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2019

Ai fini della conferma dell’assegnazione della casa familiare, in difetto di allegazione contraria, non sussiste per il giudice alcun obbligo ai sensi dell’art. 337 octies c.c. di ascolto del figlio maggiorenne non autosufficiente che ha sempre convissuto con il genitore che la richiede Ai fini del contributo del mantenimento le dichiarazioni dei redditi dell’obbligato hanno una funzione tipicamente fiscale e non hanno valore vincolante per il giudice che può fondare il suo convincimento su altre risultanze probatorie

Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 2019, n. 15726
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 947/2017 proposto da:
S.A.M., elettivamente domiciliato in Roma Piazza Della Marina 1 presso lo studio dell’avvocato Longo Lucio Filippo che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Rossetto Sergio, giusta procura speciale in atti – ricorrente –
contro
B.S., elettivamente domiciliato in Roma Via Flaminia 318 presso lo studio dell’avvocato Cappuccilli Vittorio che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Quattrone Mirella, giusta procura speciale in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2102/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 27/05/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 16/05/2019 dal Dott. IOFRIDA GIULIA.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Milano, con sentenza n. 2102/2016, depositata in data 27/05/2016, ha parzialmente riformato la decisione di primo grado, che aveva pronunciato la separazione giudiziale dei coniugi S.A.M. e B.S., respingendo le richieste reciproche di addebito, assegnando la casa coniugale alla moglie e fissando, a carico del S., in Euro 1.200 mensili (oltre il 50% delle spese extra) il contributo per il mantenimento dei figli, maggiorenni ma non autosufficienti economicamente, ed in Euro 200 mensili quello per il mantenimento della moglie.
La Corte d’appello, respinte le reiterate reciproche richieste di addebito formulate dai coniugi, la richiesta del S. di assegnazione allo stesso della casa coniugale, per viverci con i figli (considerato che gli stessi già convivevano con la madre e non vi era alcuna prova sulla loro volontà di vivere con il padre) nonché la richiesta della B. di aumento dell’assegno di mantenimento a suo favore (tenuto conto del vantaggio per essa costituito dalla casa coniugale e delle sue possibilità di incrementare l’attività lavorativa), hanno ritenuto che dovesse, dalla data di pubblicazione della decisione impugnata, essere elevato ad Euro 1.500 mensili, valutata l’incidenza, non vagliata dal Tribunale, delle bollette relative alle utenze per l’abitazione della casa coniugale (in particolare, quelle del gas) e la situazione economico-patrimoniale del S., titolare di un’attività autonoma (meccanico), con sette dipendenti, gestita in forma societaria con titolarità di quote di maggioranza.
Avverso la suddetta pronuncia, S.A.M. propone ricorso per cassazione, affidato a dieci motivi, nei confronti di B.S. (che resiste con controricorso). Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Il ricorrente lamenta: 1) con il primo motivo, la violazione e falsa applicazione, exart. 360 c.p.c., n. 3,artt. 115 e/o 116 c.p.c., in relazionedell’art. 151 c.c., comma 2, vendo il giudice porre a fondamento della decisione i fatti allegati da una parte e non contestati dall’altra, ai fini dell’addebito della separazione (quali il radicale cambiamento di vita e di abitudini della B. dagli inizi del 2010 ed il suo abbandono, morale e psicologico, della vita di coppia); 2) con il secondo motivo, l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio exart. 360 c.p.c., n. 5, ovvero la motivazione apparente, sempre in relazione alla richiesta di addebito della separazione; 3) con il terzo motivo, la violazione e/o falsa applicazione, exart. 360 c.p.c., n. 3,art. 2697 c.c., in combinato disposto con l’art. 337 octies c.c., comma 1 e con l’art. 337 sexies c.c., in relazione all’omessa audizione dei figli ed all’erroneo onere probatorio, circa la volontà dei figli rispetto al genitore con il quale vivere nella casa coniugale, posto a carico del S.; 4) con il quarto motivo, la violazione e/o falsa applicazione, exart. 360 c.p.c., n. 3, art. 337 octies c.c., comma 1 e art. 337 sexies c.c., comma 1, sempre in relazione alla mancata audizione dei figli circa la scelta del genitore assegnatario della casa coniugale, avendo la Corte motivato il rigetto della richiesta di riforma sul punto della sentenza del Tribunale solo con il denunciato errore in tema di onere della prova; 5) con il quinto motivo, la nullità della sentenza, exart. 360 c.p.c., n. 4, per mancata audizione dei figli, ai sensi dell’art. 337 octies c.c., comma 1; 6) con il sesto motivo, la violazione e/o falsa applicazione, exart. 360 c.p.c., n. 3,art. 101 c.p.c.eart. 111 Cost., avendo la Corte d’appello posto a base del rigetto della richiesta del S. di assegnazione della casa coniugale la questione del difetto di prova circa la volontà dei figli, senza prima provocare il contraddittorio delle parti sulla stessa; 7) con il settimo motivo, la violazione e falsa applicazionedell’art. 183 c.p.c., comma 6 edell’art. 2697 c.c., in relazione alla tardiva allegazione, da parte della B., per la prima volta in appello, del mancato pagamento delle utenze da parte del marito, circostanze che ben potevano essere dedotte nel giudizio di primo grado; 8) con l’ottavo motivo, la violazione e falsa applicazione, exart. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione degliartt. 2697 e 2727 c.c., in combinato disposto con l’art. 337 ter c.c., comma 4, n. 2 e con il principio generale desumibiledall’art. 710 c.p.c., sulla necessità della pronuncia rebus sic stantibus nella valutazione della condizione reddituale e patrimoniale del ricorrente, al fine della determinazione del contributo per i figli, avendo la Corte territoriale giudicato, ritenendo inattendibile la dichiarazione dei redditi del medesimo, sulla base di presunzioni non gravi, precise e concordanti, e considerando fatti risalenti ad oltre tre anni prima; 9) con il nono motivo, l’omesso esame, exart. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo rappresentato dall’appropriazione, da parte della B., dal conto corrente bancario comune, di Euro 40.000,00, costituenti risparmi dei coniugi; 10) con decimo motivo, la violazione e falsa applicazione, exart. 360 c.p.c., n. 3,dell’art. 156 c.c., commi 1 e 2, in relazione alla conseguente non corretta ricostruzione della situazione reddituale e patrimoniale dei coniugi.
2. Le prime due censure, concernenti la pronuncia in punto di addebito della separazione, sono inammissibili.
La Corte d’appello ha confermato la valutazione del Tribunale, di rigetto delle reciproche richieste di addebito delle parti, rilevando che e prove orali articolate risultavano, in parte, generiche, in parte, valutative e/o prive di chiari riferimenti temporali e che si doveva desumere, dalle rispettive allegazioni delle parti che il matrimonio si era “dispiegato per anni nella insoddisfazione, soprattutto della B., non compresa dal coniuge S. forse perché a lungo non manifestata in modo chiaro, in un complessivo clima di evidente mancanza di dialogo e reciproca comprensione tra coniugi, che ha condotto al logoramento del rapporto, ma senza che si possa ascrivere all’uno o all’altro la responsabilità esclusiva del fallimento del matrimonio”.
Ora, le due censure investono un elemento valutativo riservato al giudice del merito, atteso che – nel vigore del novellatoart. 115 c.p.c., secondo cui la mancata contestazione specifica di circostanze di fatto produce l’effetto della relevatio ab onere probandi – spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte (cfr., fra le altre, Cass. 11 giugno 2014, n. 13217; Cass. 3680/2019); invero, in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degliartt. 115 e 116 c.p.c., è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cuiall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 14627/2006; Cass. 24434/2016; Cass. 23934/2017).
Sempre questa Corte, ha poi affermato che la deduzione della violazionedell’art. 116 c.p.c.è ammissibile,ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una, differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonché, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è consentita ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con conseguente inammissibilità della doglianza che sia stata prospettata sotto il profilo della violazione di legge ai sensidell’art. 360 c.p.c., n. 3 (Cass. 13960/2014; cfr. Cass. 11892/2016; Cass. 27000/2016; Cass. 23940/2017).L’art. 116 c.p.c., infatti prescrive che il giudice deve valutare le prove secondo prudente apprezzamento, a meno che la legge non disponga altrimenti. La sua violazione è concepibile solo se il giudice di merito valuta una determinata prova, ed in genere una risultanza probatoria, per la quale l’ordinamento non prevede uno specifico criterio di valutazione diverso dal suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, ovvero il valore che il legislatore attribuisce ad una diversa risultanza probatoria, ovvero se il giudice di merito dichiara di valutare secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza soggetta ad altra regola, così falsamente applicando e, quindi, violando detta norma (cfr. Cass. 8082/2017; Cass. 13960 /2014; Cass., 20119/ 2009).
Ora, il vizio motivazionale presuppone l’omesso esame di fatto decisivo, che nella specie non sussiste, avendo la Corte d’appello espressamente vagliato le rispettive allegazioni delle parti in punto di addebito della separazione.
3. Il terzo, il quarto ed il quinto motivo, tutti attinenti alla questione dell’omessa audizione dei figli, entrambi maggiorenni (una essendo divenuta tale nel corso del giudizio di primo grado), ma non autosufficienti economicamente, ai fini della assegnazione della casa coniugale al genitore con essi convivente, sono infondati.
Invero, alcun obbligo di audizione sussisteva, ai sensi dell’art. 337 octies c.c., essendo i figli comunque divenuti entrambi maggiorenni già nel corso del giudizio di primo grado. La Corte d’appello ha semplicemente rilevato che non era stato offerto alcun elemento utile per ritenere che la perdurante coabitazione dei figli maggiorenni con la madre (circostanza questa pacifica) non fosse frutto di una loro precisa volontà. Né in questa sede il ricorrente deduce che i figli maggiorenni avessero invece espresso la volontà di andare a vivere con il padre.
4. Il sesto motivo è del pari infondato, in quanto non si trattava di questione rilevata d’ufficio dalla Corte d’appello, senza la previa instaurazione del contraddittorio. La Corte territoriale, al pari del Tribunale, ha ritenuto che rispondesse all’interesse dei figli maggiorenni, da tempo coabitanti con la madre, mantenere in difetto di allegazione contraria tale situazione, così confermando l’assegnazione della casa coniugale alla madre, questione che faceva parte del thema decidendum. Questa Corte (Cass. 25604/2018) ha chiarito che “la casa familiare deve essere assegnata tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli minorenni e dei figli maggiorenni non autosufficienti a permanere nell’ambiente domestico in cui sono cresciuti, per garantire il mantenimento delle loro consuetudini di vita e delle relazioni sociali che in tale ambiente si sono radicate, sicché è estranea a tale decisione ogni valutazione relativa alla ponderazione tra interessi di natura solo economica dei coniugi o dei figli, ove in tali valutazioni non entrino in gioco le esigenze della prole di rimanere nel quotidiano ambiente domestico, e ciò sia ai sensi del previgente art. 155 quater c.c., che dell’attuale art. 337 sexies c.c.”.
5. Il settimo motivo è parimenti infondato.
Il fatto che le utenze domestiche dovessero essere a carico del coniuge assegnatario della casa coniugale era stato dedotto dallo stesso S. sin dal primo grado del giudizio; la Corte d’appello ha tuttavia rilevato che il giudice di primo grado non ne aveva correttamente vagliato l’effettiva incidenza sulle spese complessive, atteso che le sole utenze relative al consumo del gas incidevano per oltre Euro 500 mensili.
6. L’ottavo motivo è inammissibile, atteso che rivolto essenzialmente a sollecitare una diversa valutazione dei fatti allegati dalle parti; la Corte d’appello, valutato tutto il materiale probatorio acquisito, ha ritenuto di dovere elevare di Euro 300 mensili il contributo al mantenimento dei due figli maggiorenni a carico del padre, prevalentemente in ragione dell’onere delle utenze domestiche della casa coniugale, ricadente non sul S. ma sulla B., divenuta assegnataria.
7. Il nono ed il decimo motivo sono inammissibili.
La doglianza tende solo a sollecitare una rivalutazione dei documenti prodotti, esaminati dal giudice di merito.
Questa Corte ha poi osservato (Cass. 13592/2006; Cass. 18196/2015) che “le dichiarazioni dei redditi dell’obbligato hanno una funzione tipicamente fiscale, sicché nelle controversie relative a rapporti estranei al sistema tributario (nella specie, concernenti l’attribuzione o la quantificazione dell’assegno di mantenimento) non hanno valore vincolante per il giudice, il quale, nella sua valutazione discrezionale, può fondare il suo convincimento su altre risultanze probatorie” (in applicazione di tale principio, questa Corte ha ritenuto insindacabile la valutazione del giudice della separazione personale tra coniugi, il cui convincimento si era fondato, ai fini della quantificazione dell’assegno di mantenimento, sull’alto tenore di vita ed il rilevante potere di acquisto dimostrato dal coniuge onerato).
Neppure ricorre il vizio motivazionale, nei limiti dell’attuale formulazionedell’art. 360 c.p.c., n. 5.
8. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso.
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Non si applica l’D.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, risultando dagli atti il processo esente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente, al pagamento delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 6.000,00, a titolo di compensi, oltre 200,00 per esborsi, nonchè al rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15% ed agli accessori di legge.
Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52 siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2019