Ai fini del riconoscimento della pensione di reversibilità, l’assegno divorzile deve essere stato disposto dal giudice

Cass. civ. Sez. VI – 1, 23 ottobre 2017, n. 25053
Catania n. 774/15 depositata il 6 maggio 2015;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26 settembre 2017 dal Consigliere Guido Mercolino.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che L.R. ha proposto ricorso per cassazione, per cinque motivi, illustrati anche con memoria, avverso la sentenza del 6 maggio 2015, con cui la Corte d’appello di Catania ha rigettato il gravame da lei interposto avverso la sentenza emessa il 12 agosto 2014 dal Tribunale di Catania, che aveva riconosciuto all’appellante il diritto di percepire una quota pari al 70% della pensione di reversibilità del defunto coniuge Le.Ga., attribuendo il residuo 30% a M.G.A.R., in qualità di coniuge divorziato del Le.;
che la M. ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria;
che il Collegio ha deliberato, ai sensi del decreto del Primo Presidente del 14 settembre 2016, che la motivazione dell’ordinanza sia redatta in forma semplificata.
Considerato che con il primo motivo d’impugnazione la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dellaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.5, comma 6, e art. 9, comma 3, edell’art. 113 c.p.c., sostenendo che, nel riconoscere al coniuge divorziato il diritto alla quota della pensione di reversibilità, la sentenza impugnata ha negato erroneamente rilievo alla circostanza che la M. non era titolare di assegno divorzile, in quanto l’importo corrispostole mensilmente dal Le. non aveva costituito oggetto di determinazione giudiziale, ma di un accordo intervenuto tra i coniugi all’udienza di comparizione personale nel giudizio di divorzio;
che con il secondo motivo la ricorrente ribadisce la violazione e la falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, e art. 9, comma 3, deducendo inoltre la violazionedell’art. 291 c.p.c.e degliartt. 2907 e 2909 c.c., anche in riferimentoall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, osservando che, nel riconoscere efficacia di giudicato alle affermazioni della sentenza di divorzio riguardanti l’assegno, la Corte di merito non ha considerato che nel relativo giudizio, svoltosi in contumacia della M., non era stata avanzata alcuna domanda in tal senso;
che le predette censure vanno esaminate congiuntamente, in quanto riflettenti profili diversi della medesima questione;
che in tema di divorzio, anche alla stregua dell’interpretazione autentica fornita dal legislatore con laL. 28 dicembre 2005, n. 263,art.5questa Corte ha già avuto modo di affermare che il tenore letterale dellaL. n. 898 del 1970,art.9subordinando il diritto alla pensione di reversibilità, ovvero ad una quota di essa, alla circostanza che il coniuge superstite divorziato sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5 medesima legge, postula “l’avvenuto riconoscimento dell’assegno medesimo da parte del tribunale”, con la conseguenza che, ai fini del riconoscimento del predetto diritto, non è sufficiente la mera debenza in astratto di un assegno di divorzio, e neppure la percezione in concreto di un assegno di mantenimento in base a convenzioni intercorse tra le parti, occorrendo invece che l’assegno sia stato liquidato dal giudice nel giudizio di divorzio ai sensi dell’art. 5 cit., ovvero successivamente, quando si verifichino le condizioni per la sua attribuzione ai sensi dell’art. 9 cit. (cfr. Cass., Sez. lav., 18/11/2010, n. 23300; Cass., Sez. I, 1/08/2008, n. 21002; 24/05/2007, n. 12149);
che nella specie è pacifico che l’importo mensilmente percepito dalla M. a seguito dello scioglimento del matrimonio contratto con il Le., e fino al decesso di quest’ultimo, non era stato determinato nella sentenza di divorzio, ma costituiva il frutto di un accordo raggiunto dai coniugi all’udienza presidenziale, cui non aveva fatto seguito la proposizione di una domanda di riconoscimento dell’assegno divorzile, in quanto la M. era rimasta contumace, con la conseguenza che il Tribunale, nel pronunciare il divorzio, si era limitato a dare atto in motivazione del predetto accordo, senza adottare alcuna statuizione al riguardo;
che non può condividersi la sentenza impugnata, nella parte in cui, premesso che “il contenuto della sentenza va determinato integrando quanto riportato nel dispositivo con ciò che è stato dichiarato in parte motiva”, ha ritenuto che il richiamo della sentenza di divorzio all’accordo intervenuto tra le parti, posto anche in relazione con le conclusioni rassegnate dall’attore nel predetto giudizio, concretasse un riconoscimento giudiziale del diritto della M. a percepire l’assegno divorzile, tale da giustificare l’attribuzione di una quota della pensione di reversibilità;
che infatti, nell’interpretazione del giudicato, pur dovendosi riconoscere la necessità di fare riferimento, in via principale, al tenore letterale del titolo giudiziale, valutato alla stregua del dispositivo e della motivazione che lo sorregge, non può escludersi l’ammissibilità di un’indagine che tenga conto, in via suppletiva, delle domande proposte dalle parti, le quali, pur non essendo utilizzabili per contrastare i risultati interpretativi univocamente ricavabili da altri elementi idonei ad escludere un’obiettiva incertezza sul contenuto della pronuncia, possono senz’altro svolgere una funzione integratrice nella ricerca del suo esatto valore, ove sorga un ragionevole dubbio al riguardo (cfr. Cass., Sez. 1, 20/11/2014, n. 24749; 23/11/2005, n. 24594; Cass., Sez. 3, 20/07/2011, n. 15902);
che, in riferimento all’assegno divorzile, la giurisprudenza di legittimità ha costantemente ribadito il principio secondo cui il riconoscimento del relativo diritto, anche nella disciplina introdotta dallaL. 6 marzo 1987, n. 74, non rientra nei poteri d’ufficio del tribunale ma presuppone un’apposita domanda della parte interessata (cfr. Cass., Sez. 6, 14/04/2016, n. 7451; Cass., Sez. 1, 15/11/2002, n. 16066; 7/05/1998, n. 4615), precisando che la stessa dev’essere formulata nella fase contenziosa successiva all’udienza presidenziale, ed escludendo la possibilità di valorizzare, a tal fine, le istanze formulate in detta udienza, in quanto esclusivamente correlate ai provvedimenti temporanei ed urgenti (cfr. Cass., Sez. 1, 26/06/1991, n. 7203);
che nella specie, essendo pacifica la mancata costituzione della M. nel giudizio di divorzio, può escludersi che nello stesso sia stata avanzata la domanda di riconoscimento dell’assegno divorzile, ai fini della quale non possono considerarsi sufficienti le conclusioni rassegnate dal coniuge all’esito dell’istruttoria, con la conseguenza che il riferimento all’accordo intervenuto tra le parti all’udienza di comparizione dinanzi al Presidente del Tribunale, contenuto nella motivazione della pronuncia di divorzio, non avrebbe in alcun modo potuto essere interpretato nel senso risultante dalla sentenza impugnata;
che la sentenza impugnata va pertanto cassata, restando assorbiti gli altri motivi d’impugnazione, riguardanti i criteri di ripartizione della pensione di reversibilità ed il regolamento delle spese processuali;
che, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensidell’art. 384 c.p.c., comma 2, con la dichiarazione del diritto della L. a percepire l’intero importo della pensione di reversibilità del coniuge defunto;
che l’oggettiva incertezza in ordine all’interpretazione della sentenza di divorzio giustifica la dichiarazione dell’integrale compensazione delle spese processuali tra le parti.
P.Q.M.
accoglie i primi due motivi di ricorso; cassa la sentenza impugnata; decidendo nel merito, dichiara il diritto di L.R. di percepire per intero l’importo della pensione di reversibilità dovuta dalla Cassa Forense a seguito del decesso del coniuge avv. Le.Ga.. Compensa integralmente le spese dei tre gradi di giudizio.
Motivazione semplificata.
Così deciso in Roma, il 26 settembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2017

Ai fini della dichiarazione di adottabilità è necessario accertare se il genitore, ancorché affetto da patologie mentali, sia attualmente e realmente inidoneo a realizzare e conservare l’interesse del minore

Cass. civ. Sez. I, 29 settembre 2017, n. 22933
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
SENTENZA
sul ricorso 3671/2017 proposto da:
Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo;
-ricorrente –
contro
M.A., nella qualità di genitore della minore M.M.R., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Giuseppe Rao, giusta procura in calce al ricorso;
– controricorrente –
e contro
S.F.;
– intimata –
nonchè sul ricorso proposto da:
S.F., nella qualità di tutore provvisorio, già curatore speciale, della minore M.M.R., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Gaetana Valenti, giusta procura in calce al ricorso successivo;
– ricorrente successivo –
contro
Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo;
-controricorrente –
e contro
M.A.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 51/2016 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 21/12/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/07/2017 dal cons. GENOVESE FRANCESCO ANTONIO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale ZENO Immacolata, che ha concluso per il rigetto dell’eccezione preliminare, nel merito per l’accoglimento per quanto di ragione di entrambi i ricorsi.
Svolgimento del processo
1. La Corte d’appello di Palermo, a seguito del rinvio disposto dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7391 del 2016, ha riformato la pronuncia del Tribunale per i minorenni di quella città (che aveva ritenuto il signor M.A., per le patologie da cui era affetto, non consapevole dei bisogni della figlia e delle necessità di cura ed accudimento della stessa), ed ha revocato lo stato di adottabilità della minore M.M.R., n. a (OMISSIS), già disposto con la sentenza di primo grado, affermando che, alla luce dell’eccezionalità della misura dell’adozione (l’extrema ratio) e dell’obbligatorietà, da parte delle istituzioni, della messa in campo delle misure di sostegno alla genitorialità, non poteva più ritenersi sussistente lo stato di abbandono, nel caso esaminato.
1.1. La sentenza di primo grado era stata impugnata dal genitore, il predetto sig. M.A., il quale aveva lamentato che nel corso del procedimento non erano emerse presunte sue condotte pregiudizievoli nei confronti della minore ma, al contrario, la cura tenuta verso la figlia (sia nei periodi in cui la madre era assente (per i ricoveri da patologie psichiatriche che l’affliggevano) e sia quando la minore era stata trasferita, nella prima fase, in una comunità), e che la patologia psichiatrica, da cui pure lui era affetto (una “psicosi schizofrenica cronica paranoidea” di tipo lieve), non avrebbe inciso sulla sua idoneità genitoriale.
2. Compiendo il nuovo accertamento dei fatti, attraverso una lettura della CTU già espletata nel corso del primo giudizio di appello (di cui riportava ampi stralci), la Corte territoriale rovesciava la sua precedente valutazione (che aveva formato oggetto di cassazione, con il menzionato rinvio) e concludeva affermando che gli elementi evidenziati dal primo giudice (ossia: a) la mancanza della consapevolezza della patologia psichiatrica che affliggeva anche lui, genitore; b) la mancanza di attenzione al comportamento (morboso e ambiguo) del proprio fratello, con lui convivente, verso la figlia minore; c) l’osservazione degli operatori della comunità, dove la bambina era stata collocata, circa la modesta interazione tra egli medesimo e la figlia, nel corso delle visite da lui compiute) erano generici e lacunosi.
2.1. La malattia non poteva rilevare di per sé e, comunque, era di grado lieve (come accertato dal CTU) sicché essa poteva avere una effettiva incidenza nella specie solo ove ne fosse stata accertata l’interferenza con i doveri di “accudimento e cura della prole”; ciò che nella specie non sarebbe emerso in modo puntuale riguardo ai fatti osservati, risultando solo “scarne e poco approfondite” valutazioni espresse dagli operatori che non escluderebbero una “insuperabile incapacità di garantire alla minore le cure primarie” da parte del genitore.
2.2. Le ambigue attenzioni del fratello sarebbero state messe in sicurezza e prevenute per mezzo della dichiarata scelta di allontanarsi dall’abitazione comune e di trasferirsi (assieme alla figlia) in un altro immobile, appositamente acquistato.
2.3. L’osservazione del CTU, infine, che aveva concluso per la possibilità di favorire l’empowerment delle competenze genitoriali necessarie al M., attraverso il supporto dei servizi sociali ed una sua “presa in carico psico-sociale” da parte dei servizi di salute mentale, unitamente all’affidamento temporaneo etero-familiare della minore, con possibilità di avere con lei contatti costanti e regolati, costituiva la ragione della diversa conclusione raggiunta dai giudici in ordine all’esclusione dello stato di abbandono.
2.4. Non avevano pregio le obiezioni sollevate, e cioè: a) quella relativa alla durata della misura (protraibile fino a due anni e, comunque, ulteriormente prorogabile); b) quella riguardante la difficoltà di individuazione di un nucleo familiare disponibile, per la protrattasi permanenza della minore in una comunità e la necessità di impedire le ingerenze pregiudizievoli del nucleo familiare materno (potendosi ovviare a ciò con un affidamento fuori distretto); c) quella attinente alla mancata accettazione del M. circa la sua presa in carico da parte del DSM (dipartimento di salute mentale) e la sua collaborazione con la famiglia affidataria (perchè positivamente riscontrate dal CTU e comunque non ipotizzabili ex ante).
2.5. In sostanza, il sincero e solido legame affettivo del padre con la minore, e la volontà di mantenere con lei un rapporto genitoriale, poteva costituire il motore del suo nuovo atteggiamento ed il catalizzatore di quella collaborazione che gli richiedeva la gestione del suo rapporto con la figlia, in un ambito allargato e con la presenza di più attori legittimati ad interloquire.
3. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione: a) l’avv. S.F., n.q. di tutrice provvisoria (già curatrice speciale) della minore M.M.R.; b) il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Palermo.
4. Il signor M. ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso (Violazione e falsa applicazione di norme di diritto (L. n. 184 del 1983,artt.1,2,4,5,8,12e15; art. 3 Conv. Onu; L. n. 179 del 1991):art. 360 c.p.c., n. 3) la tutrice provvisoria lamenta che la Corte territoriale, nel ripetere il giudizio di merito, senza disporre alcun ulteriore accertamento (e limitandosi solo all’esame-audizione del M.), non abbia verificato in concreto l’applicazione dei principi di diritto di cui essa aveva già fatto malgoverno nella precedente fase del giudizio di gravame, in particolare, non compiendo l’accertamento demandatole in ordine alla verifica del concreto e prevalente interesse della minore al mantenimento (o alla recisione) del legame con il genitore.
1.1. In particolare, la Corte non avrebbe tenuto conto che la relazione del CTU, il dr. F., aveva posto al centro della sua indagine il solo genitore (peraltro, inconsapevole della sua patologia) senza alcuna verifica in ordine al legame instauratosi tra il padre e la figlia ed all’attenzione del primo circa le necessità di quest’ultima, bisognosa di cure specifiche e quotidiane.
1.2. In sostanza, sarebbe mancate un accertamento delle condizioni attuali della minore-preadolescente e del suo stato psicologico nonché degli effetti che l’affidamento a quel genitore potrebbe provocare nella minore (tenendo conto delle problematiche che già la riguardavano).
2. Con il secondo motivo (Violazionedell’art. 112 c.p.c.:art. 360 c.p.c., n. 4) la tutrice provvisoria lamenta che la funzione genitoriale sarebbe stata valutata in astratto e mai correlata alle esigenze ed ai bisogni della minore, senza che il CTU avesse verificato le sue condizioni fisiche e psicologiche (il ritardo psicomotorio, i disturbi gravi dell’attenzione e del linguaggio, l’iperattività e i disturbi dismorfici) e se essi dipendessero dal contesto familiare; né sarebbe stata osservata la relazione padre-figlia, cosicché il giudice avrebbe gravemente errato a non rinnovare la CTU. Infatti, la bambina avrebbe recuperato un miglior livello di diverse sue funzioni, rispetto allo stato originario (non uso del linguaggio, emissione di suoni ed espressione a gesti, stato di non deambulante), proprio per il suo attuale inserimento in un contesto accudente e protettivo, particolarmente attento ai suoi bisogni, sicché oggi sarebbe in grado di parlare in modo comprensibile, di praticare sport e relazionarsi positivamente con i coetanei e con gli adulti di riferimento.
3. Con l’unico motivo di ricorso (Violazione e falsa applicazione di norme di diritto (L. n. 184 del 1983,artt.1,2,4,5,8,12e15; art. 3 Conv. Onu; L. n. 179 del 1991):art. 360 c.p.c., n. 3) la Procura Generale della Repubblica di Palermo ha sostanzialmente svolto le stesse doglianze sopra riassunte ed espresse dalla tutrice provvisoria.
4. Vanno, innanzitutto esaminate le eccezioni di inammissibilità relative al ricorso proposto dalla PG di Palermo, in quanto si assume, da parte del controricorrente, che esso: a) sia tardivo, in quanto notificato solo il 25 gennaio 2017, ossia oltre il termine del 21 gennaio, conseguente alla comunicazione della sentenza da parte della cancelleria (avvenuta il 22 dicembre 2016); b) rechi, come allegati, alcuni documenti che non possono trovare ingresso nel giudizio.
4.1. Preliminarmente va chiarito che ove nel giudizio di merito “vi siano più parti soccombenti dinanzi alla Corte d’appello, ciascuna di esse ha l’onere di proporre l’impugnazione” avverso il provvedimento terminativo nel termine stabilito “dalla sua notificazione, a prescindere dall’avvenuto deposito del ricorso per cassazione da parte di altro soccombente.” (cfr., in altro tipo di procedimento, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 25216 del 2015).
4.2. Alla stregua di tale principio, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso del PG in quanto portato alla notifica (come risulta dalla lettura del fascicolo di quella parte) solo il 23 gennaio 2017 e quindi oltre il termine di trenta giorni stabilito per proporlo.
4.3. Di conseguenza, rimane assorbita anche la doglianza relativa ai documenti allegati al ricorso per cassazione.
5. I due motivi del ricorso principale vanno esaminati congiuntamente ed accolti.
5.1. Questa Corte (Sez. 1, Sentenza n. 8527 del 2006) ha affermato il principio di diritto secondo cui, “perché si realizzi lo stato di abbandono che giustifica la dichiarazione di adottabilità di un minore, devono risultare, all’esito di un rigoroso accertamento, carenze materiali ed affettive di tale rilevanza da integrare, di per sé, una situazione di pregiudizio per il minore, tenuto anche conto dell’esigenza primaria che questi cresca nella famiglia di origine, esigenza che non può essere sacrificata per la semplice inadeguatezza dell’assistenza o degli atteggiamenti psicologici e/o educativi dei genitori, con la conseguenza che, ai fini della dichiarazione di adottabilità, non basta che risultino insufficienze o malattie mentali dei genitori, anche a carattere permanente, essendo in ogni caso necessario accertare se, in ragione di tali patologie, il genitore sia realmente inidoneo ad assumere e conservare piena consapevolezza dei propri compiti e delle proprie responsabilità e ad offrire al minore quel minimo di cure materiali, calore affettivo e aiuto psicologico indispensabili per un’equilibrata e sana crescita psicofisica.”.
5.2. Se, perciò, “non basta che risultino insufficienze o malattie mentali dei genitori, anche a carattere permanente, essendo in ogni caso necessario accertare se, in ragione di tali patologie, il genitore sia realmente inidoneo ad assumere e conservare piena consapevolezza dei propri compiti e delle proprie responsabilità e ad offrire al minore quel minimo di cure materiali, calore affettivo e aiuto psicologico indispensabili per un’equilibrata e sana crescita psicofisica”, è certo che la tale valutazione di idoneità del genitore ad assicurare il minimo esigibile nei confronti del figlio minore deve essere, necessariamente, compiuta attraverso un controllo della relazione intrafamiliare e non già esclusivamente sulla persona dell’unico genitore avente qualche risorsa educativa (il padre).
5.3. Ha perciò perfettamente ragione l’odierna ricorrente a lamentare che l’accertamento sulla capacità genitoriale (con i menzionati caveat) sia stata inefficacemente eseguito osservando la figura del padre (della minore), senza che sia stata tenuto in debito conto anche lo stato psichico e comportamentale della minore (già affetta da ritardo psicomotorio, disturbi gravi dell’attenzione e del linguaggio, iperattività e i disturbi dismorfici), registrandone le cause, i progressi (o regressi) compiuti e, soprattutto, la possibilità – nel contesto familiare monoparentale – di poter conseguire quella crescita minima necessaria per il raggiungimento della sua autonomia e per la sua collocazione nella società nella quale essa vive.
5.4. La bambina, infatti, risultava aver avuto (se non ha ancora in atto) seri problemi psico-patologici, quali il non uso del linguaggio, l’emissione di suoni al posto delle parole, l’espressione a gesti, uno stato di persona non deambulante che sembrerebbero (non avendo formato oggetto di un apposito accertamento peritale) superati dall’attenzione positiva che vi avrebbero riposto i servizi sociali e, soprattutto, gli affidatari provvisori sicché oggi – nella fase della preadolescenza – la minore sarebbe in grado di parlare in modo comprensibile, di praticare uno sport e di relazionarsi positivamente sia con i coetanei che con gli adulti di riferimento.
5.5. Osserva la Corte che la valutazione relativa alla sussistenza dello stato di abbandono (o la sua ricaduta, come paventano i ricorrenti) in tanto può essere completamente esclusa (sia pure dando un sostegno alla figura paterna, nei sensi menzionati nella sentenza impugnata) in quanto si sia radicalmente escluso che le patologie gravi che riguardavano la bambina non siano dipese dalla limitata capacità educativa del suo genitore, affetto dalle riscontrate patologie, anch’esse abbisognevoli di cure ed integrazioni e sostegni.
5.6. La mancata estensione della CTU, riguardante la valutazione della capacità genitoriale paterna, anche alla relazione padre-figlia non consente perciò di poter affermare, con la necessaria apprezzabile probabilità da parte della Corte di merito, che i seri inconvenienti che hanno afflitto la minore nei primi anni di vita non siano causalmente dipesi dal comportamento genitoriale e, soprattutto, che dallo stato di questo non possano conseguire, in ragione di un rinnovato rapporto con la figlia (ampiamente inserita in altro contesto educativo e familiare) ricadute o regressioni.
5.7. Del resto questa Corte (Sez. 1, Sentenza n. 24445 del 2015) ha affermato il principio di diritto secondo cui, “in tema di adozione del minore, il giudice, nella valutazione della situazione di abbandono, quale presupposto per la dichiarazione dello stato di adottabilità, deve fondare il suo convincimento effettuando un riscontro attuale e concreto, basato su indagini ed approfondimenti riferiti alla situazione presente e non passata, tenendo conto della positiva volontà di recupero del rapporto genitoriale da parte dei genitori.”, ma anche compiendo un’osservazione attenta sullo stato psicologico ed evolutivo della minore.
5.8. Da ultimo, va rilevato che, nel corso del rinnovato giudizio di appello, la Corte territoriale non ha tenuto conto dell’esistenza di una previsione di legge espressamente stabilita a pena di nullità, ossia laL. n. 184 del 1983,art.5, comma 1, u.p., come inserita dalla modifica apportata dallaL. n. 173 del 2015(Modifiche allaL. 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare), il quale così dispone: “L’affidatario o l’eventuale famiglia collocataria devono essere convocati, a pena di nullità, nei procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato ed hanno facoltà di presentare memorie scritte nell’interesse del minore”.
5.9. La necessità della convocazione (dell’affidatario o della famiglia collocataria) nel corso del procedimento giurisdizionale, da cui deriva la nullità di quest’ultimo nel caso della sua inosservanza, è imposta dalla disposizione di legge avente natura processuale, perciò immediatamente applicabile ai procedimenti in corso, anche se instaurati a seguito della cassazione con rinvio.
5.10. Infatti, questa stessa sezione della Corte di cassazione (Sez. 1, Sentenza n. 23169 del 2006) ha già affermato il principio di diritto secondo cui “l’efficacia vincolante della sentenza di cassazione con rinvio, presupponendo il permanere della disciplina normativa in base alla quale è stato enunciato il principio di diritto ivi enunciato, viene meno in tale sede quando quella disciplina sia stata successivamente abrogata, modificata o sostituita per effetto di “ius superveniens””.
5.11. Ed è proprio tale nuovo diritto, sopravvenuto, che imponeva ed impone al giudice di merito di convocare gli affidatari provvisori del minore a pena di nullità, consentendo loro di esercitare, altresì, la “facoltà di presentare memorie scritte nell’interesse del minore”.
5.12. Un tale obbligatorio adempimento, nella specie, risulta particolarmente rilevante in quanto, come si è visto, le problematiche che affiggevano la minore non risultano essere state valutate all’attualità, e ciò in contrasto con il principio di diritto (che non può trovare deroga neppure in sede di rinvio) secondo cui, “in tema di adozione del minore, il giudice, nella valutazione della situazione di abbandono, quale presupposto per la dichiarazione dello stato di adottabilità, deve fondare il suo convincimento effettuando un riscontro attuale e concreto, basato su indagini ed approfondimenti riferiti alla situazione presente e non passata, tenendo conto della positiva volontà di recupero del rapporto genitoriale da parte dei genitori. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, fondata su osservazioni ed accertamenti datati oltre che sulla difficile storia personale dei genitori dei minori, senza effettuare alcuna comparazione con i significativi mutamenti successivi, rivolti al recupero della relazione con i medesimi e a un miglioramento delle condizioni di vita da offrire loro).” (Sez. 1, Sentenza n. 24445 del 2015 già citata).
6. In conclusione, il ricorso deve essere accolto, la sentenza cassata e la causa rinviata, anche per le spese di questa fase, alla Corte a quo per un nuovo esame alla luce dei seguenti principi di diritto:
in tema di adozione del minore, il giudice, nella valutazione della situazione di abbandono, quale presupposto per la dichiarazione dello stato di adottabilità, deve fondare il suo convincimento effettuando un riscontro attuale e concreto, basato su indagini ed approfondimenti riferiti alla situazione presente e non passata, tenendo in considerazione non solo la figura genitoriale ma anche lo stato psicologico-evolutivo del minore, la sua evoluzione, il permanere di problematiche non superate e gli eventuali rischi di regressioni o peggioramenti, attraverso un’osservazione non solo della figura genitoriale ma anche di quella del minore;
ai sensi dellaL. n. 184 del 1983,art.5, comma 1, u.p., come inserita dalla modifica apportata dallaL. n. 173 del 2015(Modifiche allaL. 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare), la necessità della convocazione dell’affidatario o della famiglia collocataria nel corso del procedimento giurisdizionale relativo alla dichiarazione di adottabilità di un minore, è imposta a pena di nullità dalla richiamata disposizione di legge, avente natura processuale e perciò immediatamente applicabile ai procedimenti in corso, anche se instaurati a seguito della cassazione con rinvio.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso proposto dal P.G. presso la Corte d’appello di Palermo.
Accoglie il ricorso della tutrice provvisoria, cassa la sentenza impugnata, e rinvia la causa, anche per le spese di questa fase, alla Corte d’appello di Palermo in diversa composizione.
Dispone che, ai sensi delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione prima civile, il 14 luglio 2017.
Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2017

L’assegno di divorzio è sicuramente dovuto se la moglie è anziana e non può più lavorare

Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 2017, n. 24805
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
M.F., elettivamente domiciliata in Roma, via Silvio Pellico 24, presso lo studio dell’avv. Cesare Romano Carello, che la rappresenta e difende unitamente all’avv. Donatella Mazzoni, per procura speciale a margine del ricorso, e dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo presso il fax 0574/21609 e la p.e.c. donatellamazzoni-pec.avvocati.prato.it;
– ricorrente –
nei confronti di:
T.A., elettivamente domiciliato in Roma, viale Bruno Buozzi 59, presso lo studio dell’avv. Stefano Giorgio, dal quale è rappresentato e difeso, mandato in calce al controricorso, unitamente all’avv. Alessandra Rosati i quali dichiarano di voler ricevere le comunicazioni relative al processo presso gli indirizzi p.e.c. stefanogiorgio-ordineavvocatiroma.org e alessandrarosati-pec.avvocati.prato.it e il fax 0574/32505;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 635/2013 della Corte d’appello di Firenze, emessa in data 15 febbraio 2012 e depositata il 24 aprile 2013, R.G. n. 2196/12;
sentito il Pubblico Ministero in persona del sostituto procuratore generale dott. Ceroni Francesca, che ha concluso per l’accoglimento di entrambi i ricorsi.
Svolgimento del processo
che:
1. Il Tribunale di Prato, con sentenza n. 966/2011, ha dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto il (OMISSIS) da M.F. e T.A. cui ha imposto il 1versamento di un assegno divorzile mensile di 1.300 Euro con rivalutazione secondo indici ISTAT. Il Tribunale ha riscontrato una sperequazione reddituale e patrimoniale in favore del T., titolare di un reddito complessivo di 60.000 Euro annui e proprietario di beni stimati complessivamente in 400.000 Euro a fronte dell’assenza di redditi da parte della M. proprietaria di beni stimati in complessivi 100.000 Euro.
2. Ha proposto appello la M. che ha chiesto la fissazione dell’assegno in misura almeno doppia rispetto a quella determinata dal Tribunale e ciò in considerazione delle ingenti somme nella disponibilità del T. e del tenore di vita elevato goduto dall’appellante nel corso del matrimonio.
3. La Corte di appello di Firenze, con sentenza 635/2013, accogliendo parzialmente l’appello ha rideterminato in 1.700 Euro l’assegno divorzile confermando per il resto la decisione appellata.
4. Ricorre per cassazione M.F. con cinque motivi: a) violazione o falsa applicazionedell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 3; b) violazione e falsa applicazionedell’art. 161 c.p.c., comma 1; c) omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, e violazione o falsa applicazionedell’art. 24 Cost.,art. 115 c.p.c.eart. 2697 c.c., d) nullità della sentenza per mancanza di motivazione su un punto decisivo della controversia; e) violazione o falsa applicazionedell’art. 244 c.p.c.5. Si difende con controricorso T.A. e propone ricorso incidentale con il quale deduce: a) violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5e vizio di motivazione su fatti controversi e decisivi; b) omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi del giudizio, nullità della sentenza, exart. 132 c.p.c., n. 4 eart. 360 c.p.c., n. 4, per omessa esposizione delle ragioni di fatto e diritto della decisione; c) violazione o falsa applicazioneart. 115 c.p.c..omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto della non ammissione delle prove richieste.
6. Le parti depositano memorie difensive.
Motivi della decisione
che:
7. Con il primo motivo di ricorso la M. si duole del mancato accoglimento delle istanze probatorie intese a dimostrare l’esatto tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio, la sua posizione lavorativa nel corso del matrimonio, le circostanze che le impediscono di procurarsi mezzi economici adeguati, le attuali condizioni reddituali e patrimoniali del T.. La ricorrente ritiene che la mancata trascrizione delle conclusioni si sia tradotta in omesso esame di tali richieste istruttorie e in difetto di motivazione su punti rilevanti della controversia.
8. Il motivo è infondato perché sovrappone una asserzione di mancato esame delle richieste istruttorie alla rilevata mancata trascrizione delle conclusioni nella sentenza di primo grado che i giudici dell’appello hanno considerato irrilevante per la constatata pronuncia del giudice di prima istanza sull’intero spettro delle domande proposte dalle parti.
9. Con il secondo motivo la ricorrente rileva che ha errato la Corte di appello laddove ha negato rilevanza alla violazionedell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 ritenendo che il giudice dell’appello deve comunque decidere anche in presenza di un tale vizio comportante la nullità. Ritiene infatti la ricorrente che in tal modo è stato violato il principio dell’assorbimento delle nullità in motivi di gravame secondo una linea interpretativa non condivisibile che impedisce il rilievo di tutte le nullità ad eccezione di quelle previste dall’art. 354.
10. Anche questo motivo deve ritenersi infondato perché la decisione si base sul rilievo della inesistenza della pretesa nullità e solo in via meramente argomentativa ad abundantiam sull’eventuale obbligo di motivazione nel merito da parte del giudice di appello qualora fosse stata riscontrata l’ipotesi della violazionedell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.
11. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta che la mancata ammissione dei mezzi di prova richiesti ha comportato una compressione del suo diritto di difesa e una omessa valutazione su fatti rilevanti e decisivi ai fini della quantificazione dell’assegno divorzile.
12. Con il quarto motivo la ricorrente censura la motivazione in quanto acriticamente recettiva delle conclusioni della C.T.U. 13. Con il quinto motivo di ricorso la M. censura la mancata ammissione dei capitoli di prova relativi alle nuove occupazioni lavorative del T..
14. I tre motivi che possono essere esaminati congiuntamente per la loro evidente connessione sono inammissibili perché intesi sostanzialmente a una riedizione del giudizio di merito e comunque infondati perché la Corte di appello è pervenuta alla sua decisione che presuppone l’inadeguatezza dei mezzi economici a disposizione della M. prendendo in considerazione la assenza di reddito della M., la sua condizione di sostanziale preclusione al mercato del lavoro, la relativa modestia del capitale disponibile per effetto dello scioglimento delle situazioni comproprietarie con il marito, la durata del matrimonio e l’apporto garantito nel suo corso non solo alla vita familiare e alla crescita dei figli ma anche alla attività economica del marito.
15. Con il primo motivo di ricorso incidentale il T. lamenta l’erronea rappresentazione della situazione economica delle parti.
16. Con il secondo motivo censura l’acritico recepimento delle conclusioni del C.T.U..
17. Con il terzo motivo censura la quantificazione operata dal C.T.U. dì redditi diversi che sono stati attribuiti alle parti.
18. Anche questi motivi possono essere esaminati congiuntamente e, oltre ad essere in gran parte inammissibili per la loro strumentalità a una riedizione del giudizio di merito, sono infondati nel loro nucleo centrale che si caratterizza per la censura di acritico recepimento della C.T.U. Censura da ritenersi infondata perché la Corte di appello ha tratto da essa l’accertamento e la definizione di fatti che sostanzialmente le parti non contestano e che hanno portato i giudici dell’appello a ritenere con un giudizio sufficientemente e logicamente motivato che la M. dopo un matrimonio durato 35 anni (dalla sua celebrazione del (OMISSIS) alla separazione consensuale del (OMISSIS)) e dichiarato sciolto definitivamente, con la sentenza di divorzio del (OMISSIS), non è in possesso di mezzi adeguati ad affrontare la propria vita di donna ormai settantunenne e priva di redditi lavorativi. Quanto alla compatibilità dell’ammontare dell’assegno con le capacità economiche del T. la Corte di appello si è basata sull’accertamento peritale con una motivazione che non appare sindacabile in questa sede.
19. Entrambi i ricorsi vanno pertanto respinti con compensazione delle spese del giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta i ricorsi. Compensa le spese del giudizio di cassazione. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dell’art. 13, comma 1 bis..
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 28 aprile 2017.
Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2017

La scelta del regime patrimoniale della separazione dei beni non “annotata” vale solamente tra i coniugi

Cass. civ. Sez. I, 27 settembre 2017, n. 22594
SENTENZA
sul ricorso 16418/2015 proposto da:
D.M.M., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Giuliani Lorenzo, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
R.F., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Di Liberatore Luigi, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 505/2015 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 09/04/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/05/2017 dal cons. DOGLIOTTI MASSIMO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale FEDERICO Sorrentino, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di ragione;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato Giuliani Lorenzo che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito, per il controricorrente, l’Avvocato Di Liberatore Luigi che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione ritualmente notificato, R.F. conveniva in giudizio D.M.M., ex coniuge, perché si dichiarasse che era simulato un atto pubblico di compravendita, nella parte in cui si indicava, quale acquirente di immobile (rogito notaio C., (OMISSIS)), la D.M.; che il prezzo di acquisto era stato pagato da esso R. con i proventi della propria attività imprenditoriale; che l’immobile era di sua proprietà esclusiva; in via subordinata, chiedeva che questo fosse dichiarato di proprietà di entrambi i coniugi, in quanto parte della comunione de residuo al momento della separazione personale tra essi. Affermava l’attore che la D.M. aveva precisato al notaio rogante di trovarsi in regime di comunione legale.
Costituitosi il contradditorio, la D.M. eccepiva che l’acquisto dell’immobile era stato effettuato in regime di separazione dei beni e con proprie disponibilità economiche (in particolare la provvista era stata a lei trasmessa dalla madre, a seguito della vendita di un suo appartamento); evidenziava altresì che i coniugi in data 14/01/2002 (dopo la loro separazione personale) avevano sottoscritto una dichiarazione d’impegno, con la quale chiarivano di trovarsi in regime di separazione dei beni e di non avere in proprietà comune alcun immobile.
Il Tribunale di Teramo-sezione distaccata di Atri, con sentenza in data 15/05/2008, rigettava la domanda del R., ritenendo comprovato che l’acquisto dell’immobile era stato effettuato con denaro della D.M. e in regime di separazione dei beni tra i coniugi.
Proponeva appello il R.. Costituitosi il contraddittorio, l’appellata ne chiedeva il rigetto.
La Corte d’Appello de l’Aquila, con sentenza in data 09/04/2015, accoglieva l’appello ed affermava che l’immobile era stato acquistato in regime di comunione legale dei beni, precisando che i coniugi avevano bensì dichiarato in forma scritta davanti al ministro del culto cattolico che aveva celebrato il matrimonio concordatario, la loro scelta del regime di separazione dei beni, ma la relativa annotazione non compariva nella copia dell’atto di matrimonio inviato all’ufficiale dello stato civile per la trascrizione.
Ricorre per cassazione l’appellata.
Resiste con controricorso l’appellante.
Motivi della decisione
Va preliminarmente osservato che il ricorso appare ammissibile: sono chiaramente indicati le violazioni di legge e i vizi di motivazione (e non rileva che nel medesimo motivo, ci si riferisca ad entrambi i profili); le violazioni di legge sono trattate adeguatamente.
Con il primo motivo, la ricorrente lamenta violazione degliartt. 162 e 163 c.c., e dellaL. n. 121 del 1985,art. 8; insufficiente e contraddittoria motivazione, precisando che al matrimonio concordatario sono riconosciuti effetti civili al momento della celebrazione, nonostante trascrizione tardiva, e che tale principio opera anche con riferimento all’eventuale dichiarazione di scelta del regime di separazione dei beni, per cui l’istanza del R. in data 21/11/2001 di effettuare l’annotazione di scelta del regime di separazione dei beni a margine dell’atto di matrimonio, ha attribuito alla dichiarazione stessa efficacia retroattiva fino alla celebrazione del matrimonio stesso. Nessuna rilevanza si doveva attribuire alla dichiarazione della D.M. di trovarsi in regime di comunione dei beni, davanti al notaio rogante.
Con il secondo, violazionedell’art. 112 c.p.c., ravvisando una non corrispondenza tra richiesto e pronunciato, essendosi limitato l’odierno resistente, nel giudizio d’appello, a chiedere l’accoglimento della sua domanda di simulazione, e in subordine di dichiarazione della sussistenza del regime di comunione de residuo tra i coniugi.
Con il terzo, violazionedell’art. 2909 c.c., nonché omessa motivazione, eccependo l’esistenza di un giudicato interno, in quanto l’appellante non avrebbe impugnato l’affermazione del primo giudice circa la sussistenza del regime di separazione dei beni.
Pacifici i fatti di causa.
I coniugi celebrarono il matrimonio secondo il rito concordatario in data 20/07/1985 e dichiararono al ministro del culto cattolico officiante, alla presenza di due testimoni, la loro volontà di scegliere il regime di separazione dei beni. L’atto di matrimonio fu trasmesso all’ufficiale dello stato civile italiano e regolarmente trascritto, privo peraltro dell’annotazione relativa al regime. Questa fu apposta su richiesta del R. soltanto il 15/10/2001, dopo la separazione dei coniugi. In data 16/12/1993 era stato rogato atto di compravendita di terreno, ove era indicata come acquirente la D.M. che dichiarava di trovarsi in regime di comunione dei beni con il marito.
Afferma la ricorrente, richiamando laL. n. 121 del 1985,art. 8, a seguito della revisione del concordato tra Stato italiano e Chiesa cattolica, con gli accordi di Villa Madama del 1984, che al matrimonio con il rito concordatario vengono riconosciuti effetti civili dal momento della celebrazione, anche se l’ufficiale dello stato civile abbia effettuato la trascrizione oltre il termine prescritto. L’argomentazione non ha pregio, in quanto non si controverte sulla trascrizione del matrimonio, regolarmente effettuata, ma sulla mancata annotazione della scelta di regime,a margine dell’atto trascritto.
L’art. 162 c.c., precisa che le convenzioni matrimoniali (necessariamente attinenti al regime patrimoniale dei coniugi) sono stipulate con atto pubblico sotto pena di nullità. E si tratterà, almeno di regola, di atto pubblico notarile (anche sel’art. 1382 c.c.1865, esplicitamente parlava di “contratti matrimoniali” – peraltro non del tutto coincidenti con le “convenzioni” – da stipularsi con atto pubblico davanti al notaio). Esse non potrebbero dunque stipularsi davanti all’ufficiale dello stato civile. Eccezioni al principio sono contenuti nellaL. n. 151 del 1975,art.228, (riforma del diritto di famiglia) per cui ciascun coniuge poteva escludere l’applicazione del nuovo regime legale di comunione dei beni, con dichiarazione entro il 20/09/1975 (termine poi variamente prorogato) davanti al notaio o all’ufficiale dello stato civile; nonchénell’art. 167 c.c., per cui il fondo patrimoniale può essere costituito da un terzo, anche per testamento (pur essendo necessario l’accettazione dei coniugi con atto pubblico). Eccezioni peraltro più apparenti che reali, perché si tratta di atti unilaterali che incidono sul regime patrimoniale dei coniugi.
Ma la regola dell’atto pubblico notarile soffre un’altra eccezione contenutanell’art. 162 c.c., comma 2, per cui la scelta del regime può essere dichiarata anche “nell’atto di matrimonio”: previsione dettata all’evidenza da ragioni di semplificazione (la scelta del regime di separazione dei beni, totalmente regolato dal codice civile, senza ulteriori clausole o specificazioni). All’entrata in vigore della norma, era stato espresso qualche dubbio circa la scelta, se questa dovesse comunque effettuarsi (anche per i matrimoni concordatari) davanti all’ufficiale dello stato civile ovvero pure davanti al ministro del culto cattolico officiante. Giurisprudenza di merito e dottrina risposero, in netta prevalenza, in senso positivo. E la stessaL. n. 121 del 1985, che recepisce, come si diceva, l’accordo di revisione del Concordato del 1929, precisa, all’art. 8, che nell’atto di matrimonio (canonico) potranno essere inserite le dichiarazioni dei coniugi consentite dalla legge civile. Sussiste, anche al riguardo, una sorta di delega dello Stato italiano al sacerdote officiante che svolge il ruolo dell’ufficiale dello stato civile, e dunque una funzione pubblica.
In generale, le convenzioni possono essere stipulate in ogni tempo, sia prima che dopo la celebrazione del matrimonio, e tuttavia non possono essere opposte a terzi, se non vi è annotazione, a margine dell’atto di matrimonio, della data, del notaio rogante, della generalità dei contraenti ovvero della scelta del regime (di separazione dei beni).
Chiarisce dunque la previsione (e al riguardo la giurisprudenza è ormai ampiamente consolidata: per tutte Cass. n. 8824 del 1987 e numerosa giurisprudenza successiva; v. pure Corte cost. n. 111 del 1995) che solo con l’annotazione il regime prescelto e dunque le convenzioni stipulate (anche atipiche) sono opponibili ai terzi, i quali vengono dunque a conoscenza delle convenzioni e del regime relativo attraverso l’annotazione dell’atto di matrimonio contenuto nei registri pubblici dello stato civile.
Ma non si potrebbe certo parlare di invalidità delle convenzioni o della scelta del regime nei rapporti interni tra i coniugi, ove l’atto di matrimonio, come nella specie, sia stato regolarmente trascritto, ma privo dell’annotazione del regime. Ciò varrà per le convenzioni matrimoniali, nonché per la scelta del regime (di separazione), effettuata davanti all’ufficiale dello stato civile (per il matrimonio civile) e con l’equiparazione della dichiarazione davanti al sacerdote, già affermata dalla giurisprudenza di merito e poi confermata da una prassi assai consolidata ma pure da un riscontro normativo chiaro ed esplicito già indicato (L. n. 121 del 1985,art. 8). Non sussiste ragione alcuna per escludere, nei rapporti interni tra le parti, la validità di una scelta comune, espressione della loro libera volontà.
E’ da ritenere dunque che la scelta di regime di separazione, espressa in forma scritta, alla presenza di due testimoni, davanti al ministro del culto cattolico officiante, ancorché non annotata nell’atto di matrimonio trascritto nei registri dello stato civile, nei rapporti interni tra i coniugi mantenga la sua validità.
Né si potrebbe sostenere che sia sufficiente una dichiarazione unilaterale di un coniuge davanti al notaio per effettuare una modifica di regime (che tale sarebbe da separazione a comunione di beni). La stessa giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 2954 del 2003) ha chiarito che non può modificarsi il regime patrimoniale con atto unilaterale di un coniuge, e che non potrebbe escludersi un bene singolo dal regime prescelto, senza una modifica generale del regime stesso, nelle forme di cuiall’art. 162 c.c.Dunque nessuna rilevanza avrà la dichiarazione della D.M. davanti al notaio circa il regime di comunione, in occasione della compravendita de qua.
Va pertanto accolto, per quanto di ragione, il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri. Va cassato il provvedimento impugnato. Non dovendosi effettuare ulteriori accertamenti di fatto, può pronunciarsi nel merito, rigettando la domanda di R.F., e precisandosi che le parti si trovavano, quanto ai rapporti interni, in regime di separazione dei beni.
La complessità della questione e la sua relativa novità richiedono la compensazione delle spese per ogni grado di giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie, per quanto di ragione, il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri; decidendo nel merito, rigetta la domanda di R.F.; compensa tra le parti le spese per ogni grado di giudizio.

Le obbligazioni verso i figli e quelle verso la moglie operano su piani differenti e non può la caduta o la riduzione delle prime andare automaticamente a favore delle altre

Cass. civ., 9 agosto 2017, n. 19746
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Z.M.G., elettivamente domiciliata in Roma, via Federico Cesi 72, presso lo studio dell’avv. Luigi Albisinni (fax n. 06/6961331, p.e.c.: luigialbisinni.ordineavvocatiroma.org) dal quale è rappresentata e difesa, per procura speciale a margine del ricorso, unitamente all’avv. Michele Sesta (p.e.c.: michele.sesta.ordineavvocatibopec.it fax n. 051/2750131) con dichiarazione di voler ricevere le comunicazioni relative al processo ai nn. di fax e agli indirizzi di 2017 p.e.c. sopra indicati;
– ricorrente –
nei confronti di:
T.M., elettivamente domiciliato in Roma, via Crescenzio 25, presso lo studio dell’avv. Marco Bignardi (che indica il fax n. 06/6868769, e la p.e.c. marcobignardi.ordineavvocatiroma.org) dal quale, con l’avv. Mauro Pacilio (che indica il fax n. 051/6447122, e la p.e.c. mauropacilio.ordineavvocatibopec.it), è rappresentato e difeso, giusta procura speciale a margine della copia del ricorso notificata;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna, emessa il 24 maggio 2013 e depositata il 17 giugno 2013, n. R.G. 490/2012;
sentito il Pubblico Ministero in persona del sostituto procuratore generale dott. Zeno Immacolata che ha concluso per l’accoglimento per quanto di ragione del ricorso.
Svolgimento del processo
che:
1. Il Tribunale di Bologna, con decreto del 14/28 febbraio 2012, ha pronunciato come segue sul ricorso exart. 710 c.p.c.proposto da T.M. e sulle richieste proposte in via riconvenzionale da Z.M.G. per la modifica delle condizioni della separazione personale omologata dal Tribunale di Bologna in data 6 novembre 2006. Ha accolto la domanda di revoca dell’assegno di 1.800 Euro mensili a titolo di contributo al mantenimento del figlio Francesco in ragione della sua acquisita indipendenza economica, ha ridotto a 1.000 Euro mensili l’assegno imposto al T. a titolo di contributo al mantenimento del figlio A., ha confermato l’ammontare dell’assegno di 1.800 Euro mensili relativo al figlio minorenne F.. Ha incrementato l’assegno mensile in favore della Z. elevandolo da 1.600 Euro a 2.400 Euro in relazione all’incremento delle disponibilità economiche del T. conseguenti alla riduzione dell’onere contributivo a favore dei figli.
2. La Corte di appello di Bologna, con decreto del 24 maggio – 17 giugno 2013, ha respinto il reclamo principale proposto dalla Z. e ha accolto quello incidentale proposto dal T., relativamente alla domanda di incremento dell’assegno mensile di mantenimento in favore della Z.. La Corte di appello non ha condiviso sul punto la decisione del Tribunale che aveva accolto la domanda della Z. per effetto della riduzione del contributo di mantenimento in favore dei figli.
3. Ricorre per cassazione Z.M.G. affidandosi a quattro motivi di impugnazione.
4. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione o falsa applicazionedell’art. 156 c.c., commi 1, 2 e u.c. in quanto la Corte di appello non ha tenuto conto degli incrementi di reddito del marito, derivanti non solo dal miglioramento della sua posizione economica ma anche dal raggiungimento (totale o parziale) dell’indipendenza economica dei figli maggiorenni che ha comportato l’incremento dei redditi disponibili del signor T. e, parallelamente, un depauperamento in capo alla ricorrente che traeva dalle somme corrisposte in favore dei figli anche le risorse necessarie alle ingenti spese di manutenzione e gestione della casa familiare di cui è assegnataria.
5. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, art. 155 c.c., comma 6 eart. 2697 c.c., nonchè degliartt. 61, 115, 116 e 191 c.p.c.per erroneo esercizio del potere discrezionale in ordine alla mancata disposizione delle indagini tributarie e della CTU sulla situazione patrimoniale del T. e sul miglioramento, successivo alla separazione, delle sue condizioni reddituali e patrimoniali.
6. Con il terzo motivo la ricorrente deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti e cioè il miglioramento delle condizioni economiche del T. dopo la separazione e l’incremento del reddito disponibile in conseguenza del raggiungimento della autosufficienza dei figli maggiori e per converso l’impoverimento della signora Z..
7. Con il quarto motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazionedell’art. 155 c.c.e l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio: e cioè il mancato raggiungimento della condizione di indipendenza economica da parte di T.A. e la necessità dell’adeguamento del contributo al mantenimento dei due figli A. e F. ancora conviventi con la madre.
8. Si difende con controricorso T.M..
9. Le parti depositano memorie difensive.
Motivi della decisione
Che:
10. Il primo motivo è infondato. Presupposto per la modifica delle condizioni della separazione è il sopravvenire di circostanze nuove rispetto a quelle esistenti al momento della pronuncia o della omologa della separazione e in ordine alle quali sussiste a carico della parte ricorrente l’onere di dedurle e provarle (cfr. Cass. civ., sez. 1, n. 4905 del 20 maggio 1999 secondo cui, ai fini della modifica dell’assegno di mantenimento, stabilito o concordato in sede di separazione personale dei coniugi, si rende presupposto necessario la sopravvenienza di giustificati motivi la cui sussistenza deve essere provata dal coniuge che detta modifica richieda). La Corte di appello di Bologna ha riscontrato la generica deduzione di un miglioramento delle condizioni economiche dell’obbligato al versamento dell’assegno e l’assenza di qualsiasi prova sul punto. Quanto invece al dedotto miglioramento delle disponibilità economiche del T. derivante dalla riduzione quantitativa dell’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli connesso al raggiungimento della loro totale o parziale indipendenza economica la Corte di appello ha rilevato che “le obbligazioni verso i figli e quelle verso la moglie operano su piani differenti e non può la caduta o la riduzione delle prime andare automaticamente a favore delle altre”. Il rilievo della Corte di appello è corretto e deve essere condiviso affermando che, in tema di revisione delle condizioni economiche della separazione personale, e per il caso che uno dei coniugi sia obbligato a corrispondere assegni periodici per il mantenimento dell’altro coniuge e dei figli, qualora uno di questi ultimi beneficiari raggiunga l’indipendenza economica e sia accolta la domanda del genitore di revoca dell’assegno precedentemente destinato al suo mantenimento, il beneficio economico che ne trae il genitore esonerato non legittima di per sé l’accoglimento della contrapposta domanda di automatico aumento delle contribuzioni rimaste a suo carico. In particolare, per ciò che concerne l’assegno di mantenimento in favore del coniuge più debole economicamente, deve aversi riguardo alla circostanza per cui la misura dell’assegno, precedentemente stabilita o concordata, fosse o meno condizionata dal concorrente onere economico nei confronti dei figli e quindi se risultasse o meno sufficiente a integrare di per sé la previsione normativa che impone la corresponsione dell’assegno per il mantenimento del coniuge privo di adeguati redditi propri. Circostanze che spetta a quest’ultimo dedurre e provare perchè altrimenti deve presumersi che la misura dell’assegno corrispondesse alla prescritta necessità di cuiall’art. 156 c.c.e non risultasse compressa dal concorrente onere di contribuire al mantenimento dei figli.
11. Diversa è l’ulteriore deduzione di parte ricorrente secondo cui la riduzione o l’eliminazione del contributo al mantenimento dei figli ha portato una incidenza negativa sul reddito della ricorrente in quanto è venuta meno una quota delle risorse economiche precedentemente destinate alla onerosa manutenzione della casa familiare. Sul punto il ricorso appare privo di autosufficienza perché non chiarisce se e quando tale profilo sia stato portato all’esame dei giudici di merito né chiarisce in che termini tale asserita ripercussione economica sia stata dedotta e documentata. Dalle stesse deduzioni della ricorrente si desume peraltro che “la casa familiare, di circa mq 500 (composta catastalmente da due unità immobiliari distinte e acquistate dai coniugi in tempi diversi, ancorché materialmente unite e interamente utilizzate dal nucleo familiare) era in comproprietà tra coniugi in costanza di matrimonio” mentre, “in sede di separazione, i sigg.ri Z. e T., mediante reciproca cessione all’altro del 50% di ciascuna particella, ne hanno attuato la divisione (al signor T. è stata assegnata l’unità acquistata nell’anno 1983; alla signora Z. quella comprata nel 1991). Nella medesima sede, inoltre, il signor T. si è fatto integralmente carico delle opere di materiale separazione delle due particelle, nel momento in cui sarebbero venuti meno i presupposti dell’assegnazione della casa familiare alla signora Z.”. L’onere di manutenzione della casa familiare è stato pertanto valutato, in sede di separazione consensuale, per un verso, ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento della Z., e, per altro verso, nella previsione della progressiva cessazione della destinazione della parte di proprietà del T. alle esigenze abitative dei figli.
12. Il secondo motivo è inammissibile perché contesta la non ammissione della richiesta c.t.u., ritenuta di carattere meramente esplorativo sia dal Tribunale che dalla Corte di appello, e la mancata disposizione delle indagini tributarie senza fornire alcun elemento idoneo a conferire specificità alla prospettazione di circostanze sopravvenute rispetto alla separazione. In sostanza, sia il riferimento alle disposizioni normative di cui si deduce la violazione sia la illustrazione del motivo dimostrano che la ricorrente assume ab origine la inadeguatezza dell’assegno di mantenimento se rapportato alle reali condizioni economiche del T. e non come conseguenza dell’elevato contributo al mantenimento dei figli. Laddove tale giudizio è precluso dalla definizione delle condizioni della separazione, e specificamente dalla determinazione dell’ammontare dell’assegno di mantenimento, da parte degli stessi coniugi.
13. Il terzo motivo appare in parte ripetitivo rispetto al precedente anche se rubricato come omesso esame di fatti decisivi. In realtà il sopravvenire di un miglioramento delle condizioni economiche del T. doveva costituire l’oggetto dell’accertamento che la Corte di appello ha ritenuto di non poter effettuare in assenza di deduzioni e richieste istruttorie da parte della ricorrente dotate della necessaria specificità.
Per altro verso si è detto che la Corte di appello ha valutato la deduzione di una incidenza positiva della riduzione dell’obbligo di mantenimento dei figli sul reddito spendibile del T. escludendone la automatica rilevanza ai fini del giudizio exart. 710 c.p.c..
14. Infine il quarto motivo appare inammissibile in quanto consiste in censure alle valutazioni prettamente di merito che hanno condotto la Corte di appello a confermare sia la riduzione dell’assegno di mantenimento in favore del secondogenito A., sia la quantificazione dell’ammontare dell’assegno, 1.800 Euro mensili, stabilito in favore dell’ultimogenito. La Corte di appello è pervenuta a tale decisione ritenendo rilevante la decisione di T.A. di rinunciare al contratto di apprendistato che gli garantiva, nell’ambito di una società partecipata dal padre, una retribuzione mensile di 1.400 Euro, per tredici mensilità, decisione adottata al fine di intraprendere una diversa attività professionale in campo immobiliare. Quanto all’ultimogenito F. la Corte distrettuale ha constatato assenza di nuove e giustificative condizioni per l’incremento dell’assegno e per la forfetizzazione delle spese straordinarie cui il T. è interamente tenuto in forza della separazione consensuale rilevando che non è provato un comportamento inadempiente da parte del padre. Anche con riguardo alla posizione dei figli A. e F. non possono che ribadirsi le considerazioni sulla non automaticità del diritto a ottenere un aumento dell’assegno di mantenimento in considerazione del venir meno e della riduzione degli assegni di cui erano beneficiari gli altri fratelli. Si tratta di decisioni che non possono dirsi in contrasto con la giurisprudenza di legittimità specificamente per ciò che riguarda il venir meno dell’obbligo di mantenimento a seguito non solo dell’acquisizione di uno status di indipendenza economica ma anche dell’idoneità, valutata in concreto, a ottenere una adeguata retribuzione sul mercato del lavoro in base alla formazione acquisita (cfr. fra le altre Cass. civ., sezione 1, n. 1858 del 1 febbraio 2016 secondo cui il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne cessa non solo ove il genitore onerato dia prova che il figlio abbia raggiunto l’autosufficienza economica, ma pure quando il genitore provi che il figlio, pur posto nelle condizioni di addivenire ad una autonomia economica, non ne abbia tratto profitto, sottraendosi volontariamente allo svolgimento di una attività lavorativa adeguata e corrispondente alla professionalità acquisita). Nella specie la Corte di appello ha rilevato l’acquisizione di una tale retribuzione e di una tale capacità da parte di T.A. e in assenza di un’impugnazione incidentale da parte dell’odierno controricorrente non è entrata nel merito della decisione di primo grado che aveva verificato le condizioni per la riduzione e non per la revoca dell’assegno di mantenimento.
15. I1 ricorso va pertanto respinto con compensazione delle spese in relazione alla assenza di specifici precedenti di legittimità sulla questione dei riflessi automatici della riduzione dell’obbligo contributivo al mantenimento dei figli sull’obbligo di mantenimento del coniuge in seguito alla separazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione. Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

BENI PERSONALI di Gianfranco Dosi

I. I beni personali esclusi dalla comunione legale
II. I beni propri di ciascun coniuge da prima dell’instaurazione del regime di comunione
III. Le donazioni dirette e indirette
a) L’estensione alle donazioni indirette della natura personale del bene
b) La prova della donazione indiretta
IV. I beni strettamente personali e che servono all’esercizio della professione
V. I risarcimenti
VI. I beni acquistati per surrogazione
VII. Possono i coniugi convenire che un acquisto immobiliare sia escluso dalla comunione?
I I beni personali esclusi dalla comunione legale
Il regime della comunione legale non è un regime totalizzante. Non riguarda tutti i beni dei coniugi, ma soltanto quelli indicati espressamente nell’art. 177 del codice civile1 e cioè sostanzialmente le acquisizioni di ricchezza effettuate, insieme o separatamente anche per l’azienda cogestita, nel corso della vita matrimoniale (acquisti che entrano in comunione immediata) e i risparmi esistenti al momento della cessazione del regime, cioè i proventi dell’attività lavorativa di ciascuno dei co¬niugi che non siano stati consumati (risparmi che entrano in comunione de residuo).
Nella disposizione sopra richiamata si esclude espressamente che facciano parte della comunione i beni cosiddetti personali che sono poi analiticamente indicati nell’art. 179 del codice civile.
Art. 179 (Beni personali)
Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge:
a) i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento;
b) i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o succes¬sione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione;
c) i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori;
d) i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli desti¬nati alla conduzione di una azienda facente parte della comunione;
e) i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno (5) nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa;
f) i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto.
L’acquisto di beni immobili, o di beni mobili elencati nell’articolo 2683, effettuato dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f) del

1 Art. 177 (Oggetto della comunione)
Costituiscono oggetto della comunione:
a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali
b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione
c) i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati
d) le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio
Qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi.

precedente comma, quando tale esclusione risulti dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge.
Si tratta di cinque categorie di beni.
Il legislatore li ha esclusi dalla comunione legale per lasciare a ciascuno dei coniugi in comunione uno spazio di autonomia senza il quale il regime legale sarebbe stato eccessivamente penalizzante.
L’elencazione è da considerare tassativa pur con le valutazioni interpretative che, come si dirà, la giurisprudenza ha indicato nel tempo.
II I beni propri di ciascun coniuge da prima dell’instaurazione del regime di comunione
La prima categoria (art. 179 lett. a) è quella de “i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento” e non richiede partico¬lari spiegazioni. Non è altro che la conseguenza della norma principale della comunione (art. 177 codice civile) che prevede che solo gli acquisti effettuati durante la vita matrimoniale entrano in comunione.
E’ necessaria però osservare che l’espressione riportata dal codice contiene in sé una imprecisione in quanto, ove i coniugi abbiano optato in sede di matrimonio per il regime di separazione e magari decidano in seguito di passare al regime di comunione, è evidente che anche gli acquisti effettuati prima di cambiare regime restano beni personali. Pertanto è più corretto riferire alla categoria dei beni personali cui fa riferimento la lettera a dell’art. 179 non i beni propri “da prima del matrimo¬nio” ma dei beni propri “da prima dell’instaurazione del regime di comunione”.
Naturalmente se l’atto di acquisto si forma nel tempo (cosiddetti acquisti a formazione progres¬siva), come nel caso di un contratto preliminare prima del matrimonio (o dell’instaurazione del regime) e di atto definitivo stipulato successivamente, si deve aver riguardo al momento in cui il bene entra nella proprietà del coniuge (Cass. civ. Sez. II, 24 gennaio 2008, n. 1548).
Ugualmente se un coniuge diviene titolare di un bene personale in seguito ad una divisione, è evidente che, avendo la divisone natura dichiarativa, quell’acquisto non entrerà in comunione.
Un problema che si è posto spesso nella prassi è quello dell’acquisto di edifici costruiti in regime di edilizia residenziale pubblica (per esempio cooperative edilizie a contributo statale, in cui l’asse¬gnazione provvisoria dell’appartamento viene effettuato a favore di una persona prima del matri¬monio e con la stipulazione del contratto di vendita dopo il pagamento delle rate del prezzo o del frazionamento del mutuo, che avviene dopo il matrimonio). In questi casi la giurisprudenza ritiene che l’assegnazione attribuisca al beneficiario un semplice diritto di godimento di natura personale; soltanto al momento della conclusione del contratto traslativo – e cioè nelle cooperative a sovven¬zione pubblica, al momento del frazionamento del mutuo (legge 14 febbraio 1963, n. 60 e legge 24 dicembre 1993, n. 560) – si verifica l’acquisto suscettibile di far entrare in comunione il bene. Il principio è stato ribadito ultimamente da Cass. civ. Sez. II, 26 luglio 2011, n. 16305 dove si chiarisce che il momento determinativo dell’acquisto della titolarità dell’immobile da parte del sin¬golo socio, al fine di stabilire se il bene ricada, o meno, nella comunione legale tra coniugi, è quello della stipula del contratto di trasferimento del diritto dominicale contestuale alla convenzione di mutuo individuale, poiché solo con la conclusione di tale negozio il socio acquista, irrevocabilmen¬te, la proprietà dell’alloggio (assumendo, nel contempo, la veste di mutuatario dell’ente erogato¬re), mentre la semplice qualità di socio, e la correlata “prenotazione”, in tale veste, dell’alloggio, si pongono come vicende riconducibili soltanto a diritti di credito nei confronti della cooperativa, inidonei, come tali, a formare oggetto della comunione dei beni.
Si deve ricordare che l’art. 210 del codice civile2 consente ai coniugi di derogare alla disposizione in questione, ammettendo che sia i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario, sia quelli acquisiti successivamente per effetto di donazione o successione, possano essere esclusi dalla comunione con atto pubblico (cosiddetta comunione convenzionale).
III Le donazioni dirette e indirette
Nella seconda categoria l’art. 179 lett. b include i beni acquistati successivamente al matrimonio (all’instaurazione del regime di comunione) per effetto di donazione o successione, quando nell’at¬to di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione.
Anche questa categoria di beni personali è del tutto ragionevolmente esclusa dalla comunione sempre che l’autore della donazione o della disposizione testamentaria – come precisa la disposi¬

2 Art. 210 (Modifiche convenzionali alla comunione legale dei beni)
I coniugi possono, mediante convenzione stipulata a norma dell’articolo 162, modificare il regime della comunio¬ne legale dei beni purché i patti non siano in contrasto con le disposizioni dell’articolo 161.
I beni indicati alle lettere c), d) ed e) dell’articolo 179 non possono essere compresi nella comunione conven¬zionale.
Non sono derogabili le norme della comunione legale relative all’amministrazione dei beni della comunione e all’uguaglianza delle quote limitatamente ai beni che formerebbero oggetto della comunione legale.

zione – non intenda arricchire entrambi i coniugi. Il che deve essere indicato chiaramente nell’atto di donazione.
Anche le azioni, naturalmente, possono essere oggetto di donazione o disposizione testamentaria (Cass. civ. Sez. I, 9 ottobre 2007, n. 21098).
a) L’estensione alle donazioni indirette della natura personale del bene
La giurisprudenza si è interrogata sul tenore letterale dell’art. 179 lett. b, osservando che la di¬sposizione parla di “atto di liberalità” e non di “donazione” e che quindi non consente di limitarne la portata alle sole liberalità previste dall’articolo 769 del codice civile, con la conseguenza che la struttura della donazione indiretta3 non è incompatibile con l’applicazione dell’art. 179 lett. b.
La ratio del disposto normativo dell’art. 179, lett. b, ben si attaglia alla natura delle donazioni in¬dirette che, al pari delle altre liberalità, non presuppongono alcun apporto nell’acquisto né diretto (mediante il pagamento anche parziale del corrispettivo) né indiretto (mediante l’apporto coniu¬gale alla vita familiare) da parte del coniuge che non è destinatario della donazione e per questo evidentemente il legislatore le ha considerate escluse dalla comunione.
La donazione indiretta consiste in una liberalità che viene attuata, anziché con il negozio tipico di donazione, mediante un negozio oneroso che produce, in concomitanza con l’effetto diretto che gli è proprio ed in collegamento con altro negozio, l’arricchimento “animo donandi” del destinatario della liberalità medesima. Ne deriva che non sussiste un’ontologica incompatibilità della donazione indiretta con la norma dell’art. 179 lett. b del codice civile, sicché il bene oggetto di essa non rien¬tra nella comunione legale (Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 1998, n. 4680). In altre parole la giu¬risprudenza sostiene che l’arricchimento che deriva per il beneficiario da una donazione è identico sia che tale arricchimento derivi da una donazione diretta sia che dipenda da una liberalità attuata indirettamente, per esempio rimettendo un debito ad un debitore o intestando un bene ad un terzo ma corrispondendone il prezzo: in entrambi i casi non avrebbe senso escludere dalla comunione queste che sono vere e proprie liberalità come la donazione classica attuata con l’atto pubblico cui fa riferimento l’art. 769 del codice civile.
Pertanto il bene acquistato da uno solo dei coniugi in regime di comunione dei beni, con denaro di un terzo, e pertanto oggetto di donazione indiretta, non entra nella comunione legale, ancorché il terzo non abbia dichiarato esplicitamente di voler destinare il denaro stesso in favore del solo coniuge acquirente (Cass. civ. Sez. I, 15 novembre 1997, n. 11327).
La giurisprudenza oggi ormai pacificamente ritiene che la donazione indiretta sia esclusa dalla comunione legale in base all’art. 179, primo comma, lett. b), cod. civ. (da ultimo Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 2013, n. 14197, Trib. Salerno Sez. I, 29 giugno 2013).
L’ipotesi più diffusa di donazione indiretta trattata dalla giurisprudenza è quella dell’immobile, intestato successivamente al matrimonio (all’instaurazione del regime di comunione) ad uno dei coniugi in regime di comunione legale, ma il cui prezzo è corrisposto dal genitore.
Si deve naturalmente distinguere il caso della donazione diretta del danaro, in cui oggetto della liberalità rimane quest’ultimo (Trib. Genova, 20 febbraio 2015), da quello in cui il danaro sia fornito quale mezzo per l’acquisto dell’immobile, che costituisce il fine della donazione. In tale se¬condo caso, il collegamento tra l’elargizione del danaro del genitore e l’acquisto del bene immobile da parte del figlio – che deve essere oggetto di prova se si vuole escludere il bene dalla comunione – porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dell’immobile stesso e non già del danaro impiegato per il suo acquisto.
E’ irrilevante che il prezzo sia pagato anteriormente alla compravendita ma serve comunque la prova che la dazione di denaro sia stata effettuata al fine di acquistare l’immobile. Così ha chiarito Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2014, n. 21494 con la quale – accogliendo il ricorso del marito il quale sosteneva che un acquisto immobiliare era entrato in comunione e non configurava invece una donazione indiretta a vantaggio della moglie – si è affermato che l’elargizione di una somma di denaro “finalizzata all’acquisto di un immobile da parte del beneficiario” si configura come do¬nazione indiretta “se l’elargizione è mezzo per l’unico e specifico fine dell’acquisto di un immobile da parte del destinatario”, che il disponente intenda in tal modo beneficiare. Tuttavia la prova della liberalità non può essere desunta dalla mera dichiarazione, resa dalle parti nel rogito notarile, dell’avvenuto pagamento del corrispettivo dell’immobile con denaro fornito dal padre della con¬venuta: poiché, come ha precisato la stessa Corte di merito, dal medesimo atto risultava che il predetto pagamento non era stato effettuato contestualmente alla stipulazione dell’atto pubblico di compravendita, ma in data precedente, la relativa attestazione del notaio non poteva considerarsi sufficiente, trattandosi di una mera presa d’atto della dichiarazione resa al riguardo dalle parti, in ordine alla quale non risulta che egli avesse effettuato alcun riscontro; ai sensi dell’art. 2700 c.c., infatti, l’atto pubblico forma piena prova soltanto della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha redatto, nonché delle dichiarazioni rese dalle parti dinanzi a lui o degli altri fatti che egli attesti avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, e non anche della veridicità intrinseca delle predette dichiarazioni o della loro rispondenza alle effettive intenzioni delle parti.
3 Nella voce DONAZIONE INDIRETTA è contenuto un approfondimento delle molte questioni che questo istituto pone.

b) La prova della donazione indiretta
Si è visto sopra che Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2014, n. 21494 ha ritenuto che la prova della liberalità non può essere desunta dalla mera dichiarazione, resa dalle parti nel rogito notarile, dell’avvenuto pagamento del corrispettivo dell’immobile con denaro fornito dal padre della conve¬nuta, in quanto, l’atto pubblico forma piena prova soltanto della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha redatto, nonché delle dichiarazioni rese dalle parti dinanzi a lui o degli altri fatti che egli attesti avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, e non anche della veridicità intrinseca delle predette dichiarazioni o della loro rispondenza alle effettive intenzioni delle parti.
Il problema della prova non va sottovalutato in quanto l’immobile – nell’esempio sopra fatto – ri¬sulterà formalmente intestato al figlio (sebbene il pagamento del prezzo sia avvenuto ad opera del genitore) e l’altro coniuge al momento per esempio della crisi coniugale potrebbe volerlo includere nella comunione.
Per questo la giurisprudenza ha affermato che ai fini processuali è sufficiente che vi sia l’atto di com¬pravendita con la prova che il denaro è stato corrisposto dal genitore. Si è detto infatti che, essendo la donazione indiretta caratterizzata dal fine perseguito, che è quello di realizzare una liberalità, e non già dal mezzo, che può essere il più vario, nei limiti consentiti dall’ordinamento, per la sua validi¬tà non è richiesta la forma dell’atto pubblico (come nella donazione), essendo sufficiente l’osservan¬za delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità (e quindi il solo atto scritto come per la compravendita) (Cass. civ. sez. II, 16 marzo 2004, n. 5333). Non è quindi necessario che il comportamento del donante si articoli in attività tipiche, essendo, invece, sufficiente la dimostrazione del collegamento tra il negozio – mezzo con l’arricchimento di uno dei coniugi per lo spirito di liberalità (Cass. civ. Sez. I, 14 dicembre 2000, n. 15778).
Pertanto – per tornare all’esempio che si è fatto sopra – ove un genitore abbia corrisposto il prezzo dell’immobile intestando il bene al figlio, sarà sufficiente esibire l’atto pubblico di compravendita nel quale è indicato obbligatoriamente (che il prezzo è stato pagato dal genitore.
Questa prova, per le donazioni indirette effettuate dopo il 2006 è facilitata dal fatto che il decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il con¬tenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale) convertito nella legge 4 agosto 2006, n. 248 prevede all’art. 35 (Misure di contrasto dell’evasione e dell’elusione fiscale), comma 22, che “All’atto della cessione dell’immobile, anche se assoggettata ad IVA, le parti hanno l’obbligo di rendere apposita dichia¬razione sostitutiva di atto di notorietà recante l’indicazione analitica delle modalità di pagamento del corrispettivo”. Pertanto nell’atto pubblico relativo al trasferimento del bene al figlio con denaro corrisposto dal genitore saranno indicate le modalità di pagamento da cui sarà facile desumere la natura indiretta della donazione. Per le donazioni indirette effettuate prima del 2006 la tracciabilità dei mezzi di pagamento non è garantita e la prova sarà molto più ardua.
IV I beni strettamente personali e che servono all’esercizio della professione
In questi casi a escludere il bene dalla comunione legale è la sua destinazione funzionale al sod¬disfacimento di esigenze strettamente personali (art. 177 lett. c) o professionali (art. 177 lett. d) di uno dei coniugi. Destinazione che spesso può essere verificata soltanto a posteriori in relazione all’uso che di quel bene acquistato è stato fatto.
Per dare una risposta, per esempio, al problema diffuso se l’auto intestata ad un coniuge rientra in comunione o costituisce invece un suo bene personale, bisogna domandarsi cosa siano i “beni di uso strettamente personale ed i loro accessori”.
La questione, come si comprende, costituisce un accertamento di merito.
È stato detto in giurisprudenza, infatti, che laddove il giudice abbia ricondotto la fattispecie dell’acquisto alla disciplina dell’art. 179, lett. c, codice civile, in funzione della personalità del bene destinato ad abitazione del coniuge nell’ottica della separazione personale, a nulla varrebbe conte¬stare la dichiarazione resa nell’atto d’acquisto (Cass. civ. Sez. III, 15 gennaio 2003, n. 487). Di contro è insindacabile in sede di legittimità, in quanto congruamente motivata, la valutazione delle circostanze di fatto compiuta dal giudice di merito che ritenga, in presenza di coniugi soggetti al regime della comunione legale dei beni e di veicolo intestato al solo marito, che il veicolo stesso sia soggetto al regime della comunione, escludendo addirittura – come nel caso deciso – che abbia rilevanza decisiva, in senso contrario, la circostanza che la moglie non sia abilitata alla guida “ben potendo il marito, che dispone della patente, provvedere al trasporto nel comune interesse fami¬liare, qualora non risulti che il denaro per l’acquisto apparteneva al peculio personale del marito stesso e il mezzo destinato alle sue necessità” (Cass. civ. Sez. VI, 12 gennaio 2012, n. 322).
Una sentenza di merito non vicina nel tempo (Trib. Monza, 10 maggio 1995) ha ben chiarito che “benché l’art. 179 non precisi cosa debba intendersi per bene di uso strettamente personale, l’interpretazione più corretta è quella di collegare la personalità dell’uso con la destinazione della cosa, pertanto, l’uso è personale se pertiene ad esigenze esclusive di uno solo dei coniugi, e non se uno solo di essi sia in grado di mettere in uso il bene”.
Che la questione pertanto non possa essere risolta dalle norme ma solo dall’accertamento di fatto, è precisato in altre sentenze.
Così si è detto che anche un veicolo in occasione dell’acquisto da parte di un coniuge, entra auto¬maticamente nel patrimonio di entrambi salvo che il giudice del merito, con valutazione insindacabile in sede di legittimità, ne accerti la natura personale (Cass. civ. Sez. III, 9 novembre 2000, n. 14575; Cass. civ. Sez. III, 6 febbraio 1998, n. 1292).
La stessa decisione chiarisce che per uso personale del bene, a norma dell’art. 179, 1° co., lett. c, codice civile, deve intendersi la disponibilità esclusiva della sua utilizzazione da parte del coniuge, anche se tramite altro soggetto. Detta disponibilità esclusiva non viene meno se il coniuge, che ne è titolare, permette che l’altro coniuge possa utilizzare il bene in specifiche circostanze e condizio¬ni, come un terzo. In questo caso, infatti l’altro coniuge, come un qualsiasi terzo, utilizza il bene non per diritto suo proprio, quale comproprietario, ma per effetto del consenso dell’unico titolare del diritto di disporne.
L’altra categoria di acquisti esclusa dalla comunione è costituita dai beni che servono all’esercizio della professione, cioè gli acquisti effettuati per una attività lavorativa autonoma o anche subor¬dinata con esclusione delle attività imprenditoriali. Professione e impresa sono due cose diverse.
Rientrano, invece, in comunione (immediata) gli acquisti destinati ad una azienda “facente parte della comunione” e cioè di una azienda gestita da entrambi i coniugi e costituita dopo il matrimo¬nio (art. 177 lett. d) mentre entrano in comunione de residuo (restando fino alla cessazione del regime di proprietà esclusiva del coniuge imprenditore) i beni, inclusi quelli immobili, che vengano acquistati da uno dei coniugi e destinati all’esercizio, da parte sua, dell’impresa costituita dopo il matrimonio (art. 178 c.c.) (Cass. civ. Sez. VI, 28 settembre 2015, n. 19204; Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2005, n. 18456).
V I risarcimenti
Non sono emerse nella pratica questioni interpretative nell’applicazione dell’art. 179 lett. e che considera personali i beni ottenuti “a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione atti¬nente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa” potendo ragionevolmente riferirsi la disposizione al risarcimento relativo a qualsiasi danno anche conseguente ad invalidità lavorativa (l’unica decisione edita della giurisprudenza esclude che possa qualificarsi personale l’indennità di accompagnamento: Cass. civ. Sez. I, 27 aprile 2005, n. 8578).
VI I beni acquistati per surrogazione
Sono molti i problemi soprattutto pratici sorti nell’applicazione dell’art. 179 lett. f che considera personali i beni “acquistati con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopra elencati o col loro scambio purché ciò sia espressamente dichiarato nell’atto di acquisto”. Intanto va chiarito che gli acquisti (cosiddetti “per surrogazione” ma anche per permuta) esclusi dalla comunione, pos¬sono essere solo quelli effettuati con denaro proveniente dalla vendita di beni personali (elencati nell’art. 179) e non quelli effettuati con denaro personale (cioè con i proventi dell’attività separata dei coniugi che producono l’effetto comunione: art. 177 codice civile) (Cass. civ. Sez. I, 27 feb¬braio 2003, n. 2954; Cass. civ. Sez. I, 23 settembre 1997, n. 9355) ed in secondo luogo che ricadono nella norma anche gli acquisti effettuati con denaro proveniente dalla vendita di beni personali che si prova essere stato accantonato in un conto corrente bancario personale (Cass. sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1197; Cass. civ. Sez. I, 18 agosto 1994, n. 7437).
Per la dichiarazione del coniuge acquirente – contestuale all’acquisto – che afferma il carattere personale dell’acquisto non è prevista alcuna forma e pertanto è sufficiente una qualsiasi dichia¬razione a forma libera.
Il punto più delicato è però se la dichiarazione in parola sia considerata sempre necessaria o se vi siano situazioni in cui non è necessaria.
La giurisprudenza ormai consolidata afferma del tutto ragionevolmente che quando è certa la provenienza dai beni personali di uno dei coniugi in regime di comunione legale della provvista usata per l’acquisto di un bene, tale acquisto deve intendersi come effettuato in surrogazione di beni personali – ai sensi dell’art. 179, comma 1, lett. f, codice civile – con la conseguenza che il bene acquistato non ricade nella comunione legale, anche se manca l’espressa dichiarazione del coniuge acquirente all’atto dell’acquisto (Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2012, n. 19454). La dichiarazione in questione sarebbe, quindi, necessaria solo quando possano sorgere dubbi circa la natura personale del bene impiegato per l’acquisto (ivi compreso il denaro) (Cass. sez. II, 5 maggio 2010, n. 10885; Cass. civ. Sez. I, 25 settembre 2008, n. 24061; Cass. civ. Sez. II, 8 febbraio 1993, n. 1556).
VII Possono i coniugi convenire che un acquisto immobiliare sia escluso dalla comunione?
Vi sono situazioni in cui i coniugi possono escludere l’acquisto di un bene dalla comunione attraver¬so una procedura specifica prevista nell’ultimo comma dell’art. 179 codice civile4.
La disposizione prevede che “L’acquisto di beni immobili o di beni mobili elencati nell’articolo 2683, effettuato dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente comma, quando tale esclusione risulti dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge”.
Il che significa che nei casi di acquisto – sopra esaminati – di un bene di uso strettamente perso¬nale (lett. c), o di un bene che serve all’esercizio della professione (lett. d) o di un qualunque bene acquistato per surrogazione o permuta (lett. f) è possibile l’esclusione del bene dalla comunione e l’acquisizione al patrimonio dei beni personali del coniuge acquirente.
Naturalmente i creditori personali di uno dei coniugi, non possono essere pregiudicati nei loro di¬ritti quando il pignoramento del bene che ne forma oggetto risulta trascritto in epoca precedente la trascrizione della domanda di accertamento della comunione legale o in epoca precedente l’in¬staurazione del giudizio da parte del coniuge non acquirente (Cass. civ. Sez. III, 18 novembre 2013, n. 25865).
L’interpretazione della giurisprudenza sul significato da dare all’ultimo comma dell’art. 179 c.c. non era stata in passato univoca, almeno fino ad una pronuncia delle Sezioni Unite nel 2009 (Cass. civ. Sez. Unite, 28 ottobre 2009, n. 22755) che hanno dato al problema una soluzione di com¬promesso.
Il contrasto era il seguente.
Una lontana decisione del 1989 (Cass. civ. Sez. I, 2 giugno 1989, n. 2688) aveva espresso il convincimento che “il consenso del coniuge, risultante dall’atto di acquisto, qualora questo abbia ad oggetto beni immobili o mobili registrati, vale ad impedire che il bene cada in comunione anche al di fuori delle ipotesi di beni personali”; in altre parole la sentenza del 1989 affermava che la par¬tecipazione del coniuge non acquirente all’atto avesse natura negoziale e come tale costituiva una manifestazione di volontà sempre valida anche se con essa si escludeva un bene dalla comunione al di fuori dei casi specifici in cui il secondo comma dell’articolo 179 del codice civile lo prevede. I coniugi avrebbero, secondo questa impostazione, sempre il diritto di escludere un bene dalla co¬munione (anche al di fuori dei casi previsti) purché vi sia il consenso di entrambi.
Il principio che passava era, in sostanza, quello della derogabilità della comunione, cioè che in re¬gime di comunione legale ciascuno dei coniugi può acquistare beni personali, anche al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 179 codice civile purché il coniuge non acquirente, presente al momento della stipula, dia il proprio consenso, che deve risultare dallo stesso atto di acquisto.
La maggioranza delle successive decisioni fu, invece, di parere contrario (Cass. civ. Sez. I, 18 agosto 1994, n. 7437; Cass. civ. Sez. I, 19 febbraio 2000, n. 1917; Cass. sez. I, 27 feb¬braio 2003, n. 2954; Cass. sez. I, 24 settembre 2004, n. 19250; Cass. civ. Sez. II, 25 ottobre 1996, n. 9307; Cass. civ. Sez. II, 6 marzo 2008, n. 6120) facendosi prevalere il principio che “in regime di comunione legale dei beni, il coniuge non può validamente rinunciare alla comproprietà di singoli beni acquistati durante il matrimonio, in quanto in tal modo il regime di comunione legale sarebbe modificabile ad nutum, secondo l’opzione estemporanea di ciascuno dei coniugi in relazione all’acquisto di singoli beni e ciò contrasterebbe con la funzione pubblicistica dell’istituto”. L’impostazione della sentenza dell’89 avrebbe finito per svuotare del tutto il senso della comunione legale privandola di garanzie. Si consolidò così il diverso orientamento che faceva leva sulla natura ricognitiva (confessoria) della dichiarazione del coniuge non acquirente il quale, con la partecipazione all’atto e con il suo assenso, finiva per riconoscere quanto dichiarato nell’atto dall’altro coniuge, realizzandosi così una presunzione di rispondenza al vero della dichiarazione di esclusione del bene dalla comunione e di acquisto come bene personale. Presunzione che il coniuge non acquirente avrebbe potuto vincere, al momento in cui avesse voluto chiedere l’accer¬tamento che quel bene era invece entrato in comunione, dando la prova di un errore di fatto o di una violenza (esattamente negli stessi termini con cui può essere revocata la confessione: articolo 2732 codice civile).
Poiché il dibattito, anche in dottrina, si fece intenso, la prima sezione della Cassazione decise di rimettere alle Sezioni Unite la questione se sia consentito ai coniugi in regime di comunione legale dei beni, nell’esercizio della loro autonomia privata, disporre degli effetti della comunione stessa, impedendo la caduta nel patrimonio comune di un acquisto, in assenza dei presupposti sostanziali di cui all’articolo 179 secondo comma codice civile (Cass. civ. Sez. I, 30 dicembre 2008, n. 30416).
Le Sezioni Unite sulla controversa natura – secondo alcuni negoziale (e quindi dispositiva) e se¬condo altri semplicemente confessoria (e quindi ricognitiva) – della dichiarazione del coniuge non acquirente, hanno aderito alla tesi della natura confessoria. E con una posizione interpretativa di compromesso hanno fatta salva la possibilità per il coniuge non acquirente di poter richiedere l’accertamento della comproprietà di un bene immobile o mobile registrato escluso provando l’er¬rore di fatto o la violenza allorché la dichiarazione ricognitiva, abbia realmente natura confessoria e cioè solo quando risulti descrittiva di una situazione di fatto realizzatasi. Diversamente – come nel caso di dichiarazione concernente l’uso futuro dell’immobile acquistato (e quindi in caso di dichiarazione di intenti) il coniuge non acquirente potrà sempre proporre azione di accertamento della comunione legale provando la destinazione diversa da quella dichiarata nell’atto. Per quanto riguarda l’efficacia dell’esclusione verso terzi, il sopravvenuto accertamento della comunione lega¬le non sarà opponibile al terzo acquirente in buona fede, salvi gli effetti della trascrizione (Cass. civ. Sez. Unite, 28 ottobre 2009, n. 22755).
Anche nella giurisprudenza di merito il principio è stato affermato con chiarezza. Per esempio re¬centemente Trib. Lecce, 7 marzo 2017 ha precisato che in regime di comunione legale, nel caso di acquisto di un bene da parte di un solo coniuge, la dichiarazione di esclusione dalla comunione legale del bene acquistato, effettuata, ex art. 179, comma 2 c.c., dal coniuge non acquirente che abbia partecipato all’atto di compravendita, non impedisce di esperire l’azione di accertamento negativo dell’esclusiva titolarità del medesimo bene acquistato da parte di uno solo dei coniugi.
Il coniuge non acquirente pertanto potrà sempre pretendere che il bene escluso dal coacquisto sia considerato in comunione (la sentenza avrà quindi natura dichiarativa) ma dovrà dare una prova diversa a seconda della situazione che si è verificata. In particolare dovrà provare di essere caduto in errore di fatto o di aver subìto violenza per esprimere il consenso, nelle ipotesi in cui l’assenso da lui manifestato alla stipula concerna la ricognizione di una situazione di fatto già realizzatasi (ipotesi in cui l’acquisto è stato effettuato con denaro proveniente dalla vendita di un bene perso¬nale del coniuge acquirente: articolo 179 lettera f) mentre potrà limitarsi a provare che la destina¬zione indicata nell’atto è diversa da quella dichiarata nelle ipotesi in cui il suo assenso ha riguar¬dato una destinazione futura (per esempio la prova che l’immobile dichiaratamente acquistato per uso professionale del coniuge acquirente è stato invece destinato a casa familiare o a casa delle vacanze: articolo 179 lettera d; ovvero che l’automobile acquistata non è stata destinata, diversa¬mente da quanto dichiarato nell’atto, all’uso personale del coniuge acquirente: articolo 179 lett.c).
La giurisprudenza successiva si è attestata sulle medesime posizioni delle Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. VI, 18 novembre 2016, n. 23565; Cass. civ. Sez. II, 10 febbraio 2016, n. 2642; Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2012, n. 12197; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2012, n. 1523; Cass. civ. Sez. I, 4 agosto 2010, n. 18114; Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2010, n. 14226; Trib. Trento, 30 maggio 2016; Trib. Ivrea, 2 dicembre 2014; Trib. Roma Sez. X, 26 otto¬bre 2012) da ultimo precisando che l’efficacia della dichiarazione del coniuge non acquirente in favore del coniuge formalmente acquirente vale nel giudizio tra i coniugi e non nel diverso giudizio fra i coeredi di colui che l’aveva resa, che sono terzi rispetto al suddetto atto (Cass. civ. Sez. II, 9 novembre 2012, n. 19513) e che l’ipotesi della donazione indiretta dell’immobile (articolo 179 lettera b) non rientra tra le ipotesi tassative in cui è necessaria la partecipazione all’atto del coniuge non donatario (Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 2013, n. 14197).
L’unica possibilità, quindi che i coniugi avrebbero, se volessero escludere un immobile dalla co¬munione al di fuori delle ipotesi tassative indicate, sarebbe quella di procedere preventivamente ad una convenzione matrimoniale derogatoria del loro regime ordinario (Cass. civ. Sez. II, 24 febbraio 2004, n. 3647).

Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI, 7 marzo 2017, n. 5652 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 177, comma 1, lett. c), c.c. esclude dalla comunione legale i proventi dell’attività separata svolta da cia¬scuno dei coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della comunione.
Cass. civ. Sez. VI, 28 settembre 2015, n. 19204 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di comunione legale, l’art. 168 c.c. disciplina la particolare condizione dei beni acquistati dal coniuge per essere destinati all’impresa da lui gestita e costituita dopo il matrimonio, i quali sono soggetti al regime della comunione legale “ de residuo”, ossia ristretta ai soli beni sussistenti al momento dello sciogli-mento della comunione, sicché non opera per tali acquisti il meccanismo previsto dall’art. 179, comma 2, c.c., rimanendo essi esclusi automaticamente, seppur temporaneamente, dal patrimonio coniugale, senza necessità di specifica indi¬cazione o di partecipazione di entrambi i coniugi all’atto di acquisto, atteso che, mentre la prima norma prende in considerazione beni qualificati da un’oggettiva destinazione all’attività imprenditoriale del singolo coniuge, la seconda si occupa di beni soggettivamente qualificati dall’essere strumento di formazione ed espressione della personalità dell’individuo.
Cass. civ. Sez. I, 3 luglio 2015, n. 13760 (Giur. It., 2016, 5, 1102 nota di PIEMONTESE)
In caso di scioglimento della comunione legale tra i coniugi, con riguardo ai beni che formano oggetto della co¬munione de residuo, tra i coniugi stessi si instaura una comunione ordinaria, sicché il coniuge non titolare vanta un diritto reale di comproprietà (e non un mero diritto di credito di entità corrispondente al metà del valore dei beni caduti in comunione).
In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, il credito verso il coniuge socio di una società di per¬sone, a favore dell’altro coniuge in comunione de residuo, è esigibile al momento della separazione personale, che è causa dello scioglimento della comunione, ed è quantificabile nella metà del plusvalore realizzato a tale momento, consentendosi altrimenti al coniuge-socio di procrastinare sine die la liquidazione della società o di annullarne il valore patrimoniale.
Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 2013, n. 6876 (Famiglia e Diritto, 2013, 7, 659 nota di FALCONI)
In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, il credito verso il coniuge socio di una società di per¬sone, a favore dell’altro coniuge in comunione “ de residuo”, è esigibile al momento della separazione personale, che è causa dello scioglimento della comunione, ed è quantificabile nella metà del plusvalore realizzato a tale momento, consentendosi altrimenti al coniuge-socio di procrastinare “sine die” la liquidazione della società o di annullarne il valore patrimoniale.
Non cadono in comunione immediata – restando assoggettati alla disciplina di cui all’art. 178 c.c. e cioè alla co¬munione de residuo – gli acquisti di quote di società di persone. Pertanto, poiché l’attivo della massa comune si arricchisce allo scioglimento della comunione legale, a questo momento, e non ad epoca successiva, va ancorata la stima del valore della partecipazione societaria.
È caratteristica tipica della comunione “de residuo” che l’attivo della massa comune si arricchisca proprio nel momento in cui il vincolo di solidarietà tra i coniugi si allenta con la separazione personale dei coniugi che è causa dello scioglimento della comunione legale (art. 191 c.c.), momento quest’ultimo cui necessariamente va ancorata la stima del valore di quella massa. La compartecipazione al valore degli incrementi patrimoniali conseguiti post-nuptias dall’altro coniuge è differita al momento della separazione, non ad epoca successiva.
Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 2012, n. 9845 (Famiglia e Diritto, 2013, 1, 5 nota di OBERTO)
Anche i diritti di credito acquistati da ciascuno dei coniugi in costanza di regime legale ricadono nella comu-nione, allorquando si tratti di crediti aventi una componente patrimoniale suscettibile di acquisire un valore di scambio. Tra questi rientrano le quote di fondi comuni di investimento, ancorché acquisite con i proventi dell’at¬tività di un solo coniuge.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2012, n. 1523 (Fam. Pers. Succ., 2012, 7, 493 nota di SERRENTINO)
Il consenso espresso dal coniuge non acquirente del bene ha funzione di ricognizione della natura personale del prezzo o dei beni personali ceduti nel caso dell’art. 179, lett. f), c.c. laddove invece il bene sia destinato all’eser¬cizio dell’impresa o professione la dichiarazione esprime la mera condivisione dell’altrui intento.
Cass. civ. Sez. II, 26 luglio 2011, n. 16305 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di assegnazione di alloggi di cooperative edilizie, il momento determinativo dell’acquisto della titola-rità dell’immobile da parte del singolo socio, onde stabilire se il bene ricada, o meno, nella comunione lega-le tra coniugi, è quello della stipula del contratto di trasferimento del diritto dominicale (contestuale alla convenzione di mutuo individuale), poiché solo con la conclusione di tale negozio il socio acquista, irrevoca-bilmente, la pro¬prietà dell’alloggio (assumendo, nel contempo, la veste di mutuatario dell’ente erogatore), mentre la semplice qualità di socio, e la correlata “prenotazione”, in tale veste, dell’alloggio, si pongono come vicende riconducibili soltanto a diritti di credito nei confronti della cooperativa, inidonei, come tali, a formare oggetto della “communio incidens” familiare.
Cass. civ. Sez. I, 21 ottobre 2010, n. 21648 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La c.d. comunione “de residuo”, prevista per i proventi dell’attività separata di uno dei coniugi (art. 177 c.c., comma 1, lett. c) si realizza al momento dello scioglimento della comunione, limitatamente a quanto effetti¬vamente sussiste nel patrimonio del singolo coniuge e non a quanto avrebbe potuto ivi rinvenirsi ritenendo ad essa destinati “ex lege” i proventi personali che non siano stati provatamente impiegati per il soddisfacimento dei bisogni familiari, o che siano stati comunque investiti in acquisti già caduti in comunione. Pertanto, deve ritenersi che l’art. 177 c.c., lett. c) esclude dalla comunione legale i proventi dell’attività separata svolta da cia¬scuno dei coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della comunione. La comunione “de residuo”, quindi, non fa nascere un vero e proprio diritto di credito in favore della comunione ed a carico del singolo coniuge, ma dà luogo ad una semplice aspettativa di fatto.
Cass. civ. Sez. Unite, 28 ottobre 2009, n. 22755 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la dichiarazione resa nell’atto dall’altro coniuge non acquirente, ai sensi dell’art. 179, secondo comma, cod. civ., in ordine alla natura personale del bene, si atteggia diversamente a seconda che tale natura dipenda dall’acquisto dello stesso con il prezzo del trasferimento di beni personali del coniuge acquirente o dalla desti¬nazione del bene all’uso personale o all’esercizio della professione di quest’ultimo, assumendo nel primo caso natura ricognitiva e portata confessoria di presupposti di fatto già esistenti, ed esprimendo nel secondo la mera condivisione dell’intento del coniuge acquirente. Ne consegue che l’azione di accertamento negativo della natura personale del bene acquistato postula nel primo caso la revoca della confessione stragiudiziale, nei limiti in cui la stessa è ammessa dall’art. 2732 cod. civ., e nel secondo la verifica dell’effettiva destinazione del bene, indi¬pendentemente da ogni indagine sulla sincerità dell’intento manifestato.
Cass. civ. sez. II, 2 febbraio 2009, n. 2569 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le quote di partecipazione del coniuge ad una società di persone ed i loro successivi aumenti costituiscono og¬getto della comunione legale tra i coniugi e rientrano conseguentemente tra gli acquisti di cui all’art. 177, lett. a), c.c., non tra i beni personali. Lo status di socio non attribuisce al partecipante ad una società di persone una posizione giuridica soggettiva qualificabile in termini di diritto di credito avente ad oggetto la restituzione del conferimento o di una quota proporzionale del patrimonio sociale, dato che, anteriormente al verificarsi di una causa di scioglimento della società o del vincolo sociale, è ipotizzabile in favore del socio soltanto una aspetta¬tiva economica, legata all’eventualità che, al momento dello scioglimento, il patrimonio della società abbia una consistenza attiva tale da giustificare l’attribuzione pro quota ai partecipanti alla società di valori proporzionali alla loro partecipazione.
Cass. civ. Sez. I, 15 gennaio 2009, n. 799 (Famiglia e Diritto, 2009, 6, 571 nota di RIMINI)
Il credito per l’indennizzo, dovuto ai sensi dell’art. 936 cod. civ., dal proprietario del suolo per opere fatte dal terzo con materiali propri, non costituisce un acquisto che cade in comunione legale ai sensi dell’art. 177, lett. a), cod. civ., dovendo escludersi che la comunione degli acquisti provenienti da attività separata possa comprendere tutti indistintamente i diritti di credito, in quanto, posto che l’atto deve avere ad oggetto l’ac-quisizione di un “bene” ai sensi degli articoli 810, 812 e 813 cod. civ., restano esclusi i meri diritti di credito che non abbiano una componente patrimoniale suscettibile di acquisire un valore di scambio. (Rigetta, App. Torino, 16 febbraio 2004)
Cass. civ. Sez. V, 16 luglio 2008, n. 19567 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di imposta sulle successioni, il saldo attivo di un conto corrente bancario, intestato – in regime di co¬munione legale dei beni – soltanto ad uno dei coniugi e nel quale siano affluiti proventi dell’attività separa-ta svolta dallo stesso, se ancora sussistente entra a far parte della comunione legale dei beni, ai sensi dell’art. 177, primo comma, lett. c), cod. civ., al momento dello scioglimento della stessa, determinato dalla morte, con la conseguente insorgenza, solo da tale epoca, di una titolarità comune dei coniugi sul predetto saldo; lo sciogli¬mento attribuisce invero al coniuge superstite una contitolarità propria sulla comunione e, attesa la presunzione di parità delle quote, un diritto proprio, e non ereditario, sulla metà dei frutti e dei proventi residui, già esclusivi del coniuge defunto. (Nella specie, la S.C. ha rigettato il ricorso dell’Agenzia delle entrate avverso la sentenza del giudice tributario che aveva ritenuto che l’imposta di successione fos-se stata illegittimamente liquidata e corrisposta sull’intero asse ereditario mentre le attività relative ai conti correnti e titoli dovevano essere tassati al cinquanta per cento, con conseguente rimborso della maggiore imposta versata).
Cass. civ. Sez. I, 9 ottobre 2007, n. 21098 (Giur. It., 2008, 7, 1704 nota di LUONI E CAVANNAONTI)
I titoli obbligazionari, acquistati da un coniuge in regime di comunione legale con i proventi della propria attività lavorativa, comportando la trasformazione del “provento” in bene giuridico diverso costituente una forma di inve¬stimento, rientrano nella nozione di acquisti di cui all’art. 177, lett. a, c.c. e quindi cadono in comunione immediata.
L’acquisto di obbligazioni societarie, comportando l’impiego del denaro, provento dell’attività personale e sepa¬rata di uno dei coniugi, in un bene giuridico diverso, costituente una forma di investimento, trasforma il provento dell’attività separata in un “quid alii” che, secondo la regola generale posta dall’art. 177, comma 1, lett. a), c.c. per tutti gli acquisti compiuti da ciascun coniuge in regime di comunione legale con i proventi della propria at¬tività, entra a far parte della comunione legale immediata e non della comunione “de residuo”, ai sensi dell’art. 177, comma 1, lett. c), c.c..
La comunione legale fra i coniugi può riguardare non soltanto i diritti reali, ma anche i diritti di credito, dovendosi ritenere fondata l’interpretazione dell’art. 177, 1° comma, lett. a), c.c. secondo cui fra gli «acquisti» ivi indicati, che entrano a far parte della comunione legale ove non espressamente esclusi, rientrano tutti gli «investimen¬ti» compiuti da ciascun coniuge, «qualunque sia la natura del diritto che ne formi oggetto». Ne consegue che i titoli obbligazionari acquistati con i proventi della propria attività personale nel corso del matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione dei beni, in quanto forma di investimento che rappresenta un quid alii rispetto al «provento» impiegato, entrano a far parte della comunione legale immediata, ove non ricorra una delle eccezioni alla regola generale dell’art. 177 c.c., poste dall’art. 179 c.c.)
L’art. 177, lett. a), c.c. ricomprende nella comunione legale l’acquisto di ogni genere di bene, tra cui i diritti di credito.
Cass. civ. Sez. Unite, 24 agosto 2007, n. 17952 (Famiglia e Diritto, 2008, 7, 681 nota di PALADINI)
Nell’azione ex art. 2932 c.c. per l’adempimento in forma specifica o per i danni da inadempimento contrattuale promossa dal promissario acquirente nei confronti del promittente venditore che, coniugato in regime di comu¬nione dei beni, abbia stipulato un preliminare di vendita di un immobile oggetto di comunione legale senza il consenso dell’altro coniuge, quest’ultimo è litisconsorte necessario. Pertanto allorché il coniuge rimasto estraneo alla stipulazione del preliminare non sia stato convenuto in giudizio unitamente al coniuge stipulante e nei suoi confronti non sia stato integrato il contraddittorio, il giudizio svoltosi è nullo e va nuovamente celebrato a con¬traddittorio integro.
Trib. Catania 17 luglio 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Gli acquisti di partecipazioni in società in nome collettivo sono soggetti alla comunione “de residuo” ex art. 178 c.c., mentre gli acquisti di quote di società a responsabilità limitata cadono in comunione imme-diata ex art. 177, comma 1, lett. a), c.c..
Cass. civ. Sez. I, 8 febbraio 2006, n. 2597 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La c.d. comunione “de residuo “, prevista per i proventi dell’attività separata di uno dei coniugi (art. 177 c.c., comma 1, lett. c) si realizza al momento dello scioglimento della comunione, limitatamente a quanto effettiva¬mente sussiste nel patrimonio del singolo coniuge e non a quanto avrebbe potuto ivi rinvenirsi ritenendo ad essa destinati “ex lege” i proventi personali che non siano stati provatamente impiegati per il soddisfacimento dei bisogni familiari, o che siano stati comunque investiti in acquisti già caduti in comunione. Pertanto, deve ritenersi che l’art. 177 c.c., lett. c) esclude dalla comunione legale i proventi dell’attività separata svolta da ciascuno dei coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca prece-dente allo scioglimento della comunione. La comu-nione “ de residuo”, quindi, non fa nascere un vero e proprio diritto di credito in favore della comunione ed a carico del singolo coniuge, ma dà luogo ad una semplice aspettativa di fatto.
L’art. 177 lett. c) del codice civile esclude dalla comunione legale i proventi dell’attività separata svolta da cia¬scuno dei coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della co-munione.
Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2005, n. 18456 (Nuova Giur. Civ., 2006, 9, 933 nota di PALADINI)
Nel regime della comunione legale, i beni, inclusi quelli immobili, che vengano acquistati da uno dei coniugi e destinati all’esercizio, da parte sua, dell’impresa costituita dopo il matrimonio, fanno parte della comunione “ de residuo”, e quindi se e nei limiti in cui sussistano al momento dello scioglimento di questa. A tali acquisti, che rinvengono la loro compiuta disciplina nell’art. 178 cod. civ., non si applica la previsione contenuta nel secondo comma dell’art. 179 cod. civ. – la quale consente l’esclusione di immobili e mobili registrati dalla comunione, purchè all’atto di acquisto abbia “partecipato” anche il coniuge non acquirente e questi abbia rilasciato una di¬chiarazione di assenso ai fini dell’esclusione -, giacchè detta previsione si riferi-sce soltanto alle diverse ipotesi contemplate dal primo comma del medesimo art. 179, fra cui è compresa (ai sensi della lettera d) quella dei beni destinati all’esercizio della professione, non equiparabili ai beni de-stinati all’esercizio dell’attività imprenditoriale.
Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2004, n. 13164 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Elemento costitutivo del diritto – al momento dello scioglimento della comunione – alla ripartizione degli utili e degli incrementi dell’ azienda appartenente a uno dei coniugi anteriormente al matrimonio da parte dell’altro è la gestione comune dell’ azienda stessa in costanza di matrimonio, gestione comune la cui sussistenza non può essere ritenuta in mancanza di prova da parte di colui che propone la domanda di divisione.
Cass. civ. Sez. I, 14 aprile 2004, n. 7060 (Fallimento, 2005, 2, 146 nota di FIGONE)
Il fallimento di uno dei coniugi in regime di comunione legale dei beni determina la comunione de residuo sui beni destinati post nuptias all’esercizio di impresa, soltanto rispetto a quelli eventualmente residui dopo la chiu¬sura della procedura.
Trib. Cagliari, 8 gennaio 2004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della esclusione dalla comunione legale di alcuni immobili acquistati separatamente dal singolo coniuge, la partecipazione del coniuge dell’acquirente, ai sensi dell’art. 179 c.p.v. c.c., che si concreti nella dichiarazione di esclusione dalla comunione, ha natura meramente ricognitiva circa la sussistenza di uno dei presupposti di cui all’art. 179 lett. c), d) ed f) c. c. L’intervento del coniuge dell’acquirente non ha rilievo negoziale né dispositivo, non essendo ammissibile che un coniuge in regime di comunione legale rinunci efficacemente alla contitolarità di un singolo bene, e, comunque, che i coniugi apportino modifiche al regime le-gale in relazione ad un singolo bene. Per l’effetto, la dichiarazione di esclusione dalla comunione espressa dal coniuge, mediante l’attestazione che il bene acquistato è destinato all’esercizio della professione del coniuge acquirente (ex art. 179 lettera d) c. c.), non vale ad escluderlo dalla comunione de residuo (ai sensi dell’art. 178 c. c) qualora venga poi provato in giudizio che detto bene era in realtà destinato all’esercizio dell’impresa del coniuge acquirente.
Cass. civ. Sez. I, 12 settembre 2003, n. 13441 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 177, lett. c), c.c. esclude dalla comunione legale tra coniugi i proventi dell’attività separata svolta da cia¬scuno di essi e consumati in epoca precedente allo scioglimento della comunione.
I redditi individuali dei coniugi, tanto che si tratti di redditi di capitali, quanto se si tratti di proventi della loro attività separata non cadono automaticamente in comunione, ma rimangono di pertinenza del rispettivo titolare, salvo a divenire comuni, nella misura in cui non siano stati già consumati, al verificarsi di una causa di sciogli¬mento della comunione.
In tema di comunione legale dei beni tra coniugi gli articoli 195 e 219, comma 2, del c.c. non richiedono alcuna prova qualificata, al fine di superare la presunzione ivi stabilita, essendo sufficiente una prova libera e, quindi, anche una prova per presunzioni. (Nella specie in applicazione del riferito principio la Suprema corte ha confer¬mato la pronuncia dei giudici di merito che con riguardo a somme di cui aveva disposto, in via esclusiva, uno dei coniugi anteriormente allo scioglimento della comunione, aveva escluso che le stesse potessero presumersi comuni, ai sensi delle richiamate disposizioni, atteso che trattavasi di somme depostole in conti correnti intestati al solo coniuge che ne aveva disposto).
Cass. civ. Sez. III, 20 dicembre 2001, n. 16073 (Corriere Giur., 2003, 2, 180 nota di ROSSETTI)
La morte del coniuge determina lo scioglimento della comunione legale, ex artt. 149 e 191 c.c.. Ne consegue che il coniuge separato della vittima di un atto illecito non ha diritto al risarcimento del danno patrimoniale con¬sistente nella asserita perdita dei risparmi che il partner avrebbe accumulato se avesse continuato a lavorare, e che sarebbero entrati a far parte della comunione de residuo al momento del passaggio in giudicato della sentenza di separazione.
Cass. civ. Sez. I, 17 novembre 2000, n. 14897 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Costituiscono oggetto della comunione cosiddetta “de residuo “, ai sensi dell’articolo 177 lett. c) c.c., non solo quei redditi per i quali si riesca a dimostrare che sussistano ancora al momento dello scioglimento della comunio¬ne ma anche quelli, percetti e percipiendi, rispetto ai quali il coniuge titolare non riesca a di-mostrare che siano stati consumati o per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione. (Nella specie la S.C. ha confermato la decisione di merito secondo cui ricadevano in comunione de residuo le somme depositate su un conto corrente cointestato, ritirate prima della separazione e asseritamente utilizzate per l’attività d’impresa del coniuge prelevante).
Cass. civ. Sez. I, 9 marzo 2000, n. 2680 (Fallimento, 2001, 1, 39 nota di CARAVAGLIOS)
In regime di comunione legale tra coniugi, il fallimento di uno di essi determina la comunione “de resi-duo” sui beni destinati “post nuptias” all’esercizio dell’impresa solo rispetto ai beni residui a seguito della chiusura della procedura.
Tribunale Roma 16 settembre 1999 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La semplice circostanza che i coniugi siano comproprietari di azienda, non è sufficiente di per sé a ritenere che quest’ultima sia necessariamente cogestita da entrambi e che, pertanto, tra essi sussista una società di fatto (artt. 177, 178, c.c.). Nel caso in cui ambedue i coniugi siano proprietari dell’azienda familiare, ai fini dell’indivi¬duazione delle norme applicabili occorre distinguere i rapporti concernenti la proprietà, art. 177 c.c., dai rapporti concernenti la gestione, art. 2247 c.c.
Cass. civ. Sez. I, 27 maggio 1999, n. 5172 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I titoli di partecipazione azionaria acquistati, in costanza di matrimonio, da uno solo dei coniugi ed allo stesso intestati, sono suscettibili di essere compresi nel regime della comunione legale contemplata dall’art. 177, com¬ma 1, lett. a), c.c.
Cass. civ. Sez. I, 23 settembre 1997, n. 9355 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel regime di comunione legale fra i coniugi, i beni acquistati con i proventi dell’attività separata di uno dei coniugi entrano immediatamente e di pieno diritto a far parte della comunione, senza che vi sia possibilità di esclusione mediante la dichiarazione prevista dall’art. 179, lett. f) c.c., applicabile soltanto all’acquisto effettuato con il prezzo del trasferimento dei beni “personali”, tassativamente elencati nel predetto art. 179. A tal riguar¬do, anche le azioni di società, sottoscritte da un coniuge in sede di aumento di capitale ed in virtù di diritto di opzione, costituiscono incrementi patrimoniali rientranti fra gli acquisti di cui all’art. 177, lett. a), c.c., e quindi nell’oggetto della comunione legale tra coniugi, in quanto, anche se esse non sono meri titoli di credito, ma titoli di partecipazione societaria, l’aspetto patrimoniale di esse è assolutamente prevalente rispetto ai diritti ed agli obblighi connessi con lo status di socio in essi incorporato, ed in quanto il carattere personale del diritto di opzio
Cass. civ. Sez. I, 21 maggio 1997, n. 4533 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel regime della comunione legale tra i coniugi, perchè i benefici acquistati da uno dei coniugi cadano in co¬munione cosiddetta de residuo, ovvero solo al momento dello scioglimento della stessa e non al momento del loro acquisto, e nei limiti in cui sussistano a tale momento, è sufficiente che siano destinati all’esercizio dell’impresa, ancorchè di tale destinazione non si faccia menzione nell’atto di acquisto, con la conseguenza che tali beni, destinati all’uso predetto, sono liberamente aggredibili, prima di tale evento, da parte dei creditori del coniuge acquirente.
Trib. Trani, 12 maggio 1997 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In regime di comunione legale ex art. 177 ss. c.c., data la mancanza di norme che attribuiscano al coniuge non titolare di frutti e proventi di attività separata svolta dall’altro coniuge un potere di controllo sulla sorte degli stessi, ovvero che loro imprimano un vincolo di destinazione, non possono ritenersi fondate la do-manda diretta ad accertare, prima del sorgere della comunione “de residuo”, la violazione, da parte del coniuge titolare dei frutti e dei proventi di cui sopra, degli obblighi nascenti dalla comunione legale, e la cor-relata domanda di ri¬sarcimento dei danni.
Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 1996, n. 8865 (Famiglia e Diritto, 1996, 515 nota di SCHLESINGER)
L’art. 177 lett. b) e c) c.c., nella parte in cui prevede che divengano oggetto di comunione, al momento del-lo scioglimento di questa “i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati” nonché “i proventi della attività separata di ciascuno dei coniugi, se allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati”, deve essere interpretato nel senso che costituiscono oggetto della cd. comunione “de residuo”, tutti i redditi percetti e percipiendi rispetto ai quali il titolare dei redditi stessi non riesca a da-re la prova che o sono stati consumati per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comu-nione. (Nella specie, nell’ambito di un giudizio di separazione personale dei coniugi, pretendendo la moglie la condanna del marito, esercente una florida impresa di allevamento di suini, al versamento della “metà dei suoi redditi non utilizzati fino allo scioglimento della comunione” i giudici del merito avevano rigettato la domanda, sul rilievo che pure essendo emersa l’esistenza, in favore del marito, di elevati redditi, derivanti dall’esercizio della detta impresa, non risultavano apprezzabili disponibilità liquide, al momento della cessazione della comunanza dei rispettivi proventi. In termini opposti la S.C. ha cassato tale capo della pronuncia impugnata, enunciando il principio di diritto riassunto sopra).
Cass. civ. Sez. II, 8 maggio 1996, n. 4273 (Nuova Giur. Civ., 1997, I, 394 nota di DE MARTINIS)
Per individuare il regime giuridico applicabile ad un bene immobile assegnato a seguito di liquidazione di so-cietà in nome collettivo a uno dei coniugi, in regime di comunione legale dei beni ed in costanza di matri-monio, deve tenersi conto del particolare profilo relativo alla formazione del patrimonio sociale – cioè all’ac-quisto dei beni che hanno costituito quel patrimonio – alla natura del diritto del socio sul patrimonio di una società di persone e alla qualifica dei beni assegnati a seguito di liquidazione di detto patrimonio. Non è per-tanto sufficiente l’intervenuta assegnazione in costanza di matrimonio per affermare che detti beni rientrino nella comunione legale ai sensi dell’art. 177 lett. a) c.c. I predetti beni non rientrano comunque nella c.d. comunione “de residuo” prevista dagli art. 177 lett. b) e c), in quanto questi ultimi non possono che consistere in beni mobili – denaro in particolare – ovvero in diritti di credito verso terzi.
In regime di comunione legale fra coniugi, i beni che possono formare oggetto della comunione de re-siduo, che si forma ai sensi dell’art. 177 comma 1, lett. b e c, all’atto dello scioglimento della comunione stessa sui frutti non consumati dei beni propri e sui proventi della attività separata, possono consistere esclusivamente in beni mobili o in diritti di credito verso terzi, con esclusione, pertanto, degli immobili.
Cass. civ. Sez. I, 1 febbraio 1996, n. 875 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non costituisce oggetto della comunione legale l’alloggio di cooperativa edilizia assegnato in godimento, ma non ancora trasferito, o il credito vantato verso la cooperativa da parte del socio che validamente rinuncia all’as¬segnazione, in mancanza del trasferimento del diritto dominicale in base al contratto privatistico che richiede l’integrale pagamento del prezzo. Ne consegue che non facendo parte della comunione legale l’assegnazione provvisoria prima del trasferimento, non sussiste altresì alcun diritto della ricorrente ad ottenere la metà del credito spettante al coniuge nei confronti della cooperativa a seguito dell’effettuata rinuncia.

L’obbligo di mantenimento può essere adempiuto con il trasferimento di un immobile

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Sentenza 7 maggio – 23 settembre 2013, n. 21736
(Presidente Triola – Relatore Falschi)
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato l’8 aprile 2000 C.M.A., S.P. e F.C. evocavano, dinanzi al Tribunale di Genova, G.S., rispettivamente, coniuge e genitore degli attori, esponendo che all’epoca della separazione personale dei coniugi, intervenuta in via consensuale (con verbale di omologazione del 15.4.1997), era stata predisposta, con scrittura privata del 23.11.1996, una collaterale complessa convenzione, avente valenza transattiva, con la quale, ad integrazione delle intese formalizzate avanti al Tribunale, erano stati disciplinati i rapporti patrimoniali fra le parti conseguenti allo scioglimento della comunione legale, prevedendo l’obbligo a carico del convenuto del trasferimento di determinati beni mobili ed immobili in favore della moglie e dei figli, il quale non solo si rendeva inadempiente, ma poneva, altresì, in essere comportamenti intimidatori nei confronti degli attori per indurli a recedere dal dare esecuzione agli accordi, per i quali riportava una condanna penale; tanto premesso, formulavano domanda ex art. 2932 c.c. per conseguire il trasferimento dei beni di cui alla citata scrittura privata.

Instaurato il contraddicono, nella resistenza del convenuto, il quale assumeva di non avere sottoscritto alcun accordo, per cui disconosceva formalmente la sottoscrizione ivi apposta ex art. 214 c.p.c., difese che modificava nel senso di riconoscimento della firma in calce al documento, ma negando di riconoscere le date manoscritte in ogni foglio e l’intero contenuto dattiloscritto del documento, per cui spiegava riconvenzionale per la declaratoria di falsità della convenzione, e all’udienza del 20.3.2003 presentava personalmente querela di falso, per cui a fronte della dichiarazione degli attori di volersi avvalere del documento contestato, con l’intervento del p.m., intervenuta nel giudizio B..B. che aderiva alle domande attoree, il Tribunale adito, rimessa la causa in decisione, rigettava la domanda di querela di falso proposta dal convenuto e in accoglimento di quella attorea, in attuazione della scrittura privata del 23.11.1996, disponeva il trasferimento in favore degli attori, P. e F.C.S., pro indiviso fra loro, del diritto di nuda proprietà sull’appartamento sito in …, acquistato in regime di comunione legale dai coniugi e cointestato ad essi, assegnando alla C. il diritto di usufrutto vitalizio esclusivo su detto cespite; il diritto di nuda proprietà sull’appartamento sito in …, acquistato in regime di comunione legale dai coniugi e cointestato ad essi, assegnando a S.G. il diritto di usufrutto vitalizio esclusivo su detto cespite (diritto di usufrutto attualmente spettante a B.B.); il diritto di nuda proprietà sul locale interrato ad uso box sito in (omissis) , acquistato in regime di comunione legale dai coniugi ma intestato esclusivamente alla C., assegnando a G..S. il diritto di usufrutto vitalizio esclusivo su detto cespite; dichiarava il S. tenuto a mettere a disposizione e comunque a consegnare alla C. la somma di L. 20.000.000, con i frutti maturati dal 23.11.1996 al 30.6.1999, oltre agli interessi dalla domanda al saldo; dichiarava il S. tenuto a mettere a disposizione e comunque a consegnare ai figli, in solido fra loro, la somma di L. 55.000.000, con i frutti maturati dal 23.11.1996 al 22.4.1999, oltre alla rivalutazione monetaria da quest’ultima data e agli interessi legali dall’aprile 2000 (data della domanda) al saldo.

In virtù di appello interposto da G.S., con il quale censurava sotto plurimi profili la decisione circa il mancato accoglimento della proposta querela di falso del documento del 23.11.1996, la Corte di appello di Genova, nella resistenza degli appellati, i quali proponevano appello incidentale condizionato, nonché della interveniente B. , la quale chiedeva solo darsi atto della insussistenza di domande dell’appellante nei suoi confronti, in parziale accoglimento dell’appello e per l’effetto in parziale riforma della decisione impugnata, riduceva la condanna dell’appellante alla sanzione pecuniaria di cui all’art. 226 c.p.c., alla misura di Euro 20,00, confermate in ogni altra sua parte le restanti statuizioni.

A sostegno della decisione adottata la corte distrettuale evidenziava che quanto alla denuncia di irregolarità del procedimento incidentale conseguito all’impugnazione del documento ex art. 223 c.p.c., non ponendo la censura alcun profilo di non veridicità della verbalizzazione, non poteva dare luogo ad alcuna nullità; nel merito, che proprio l’aver dato atto nel ricorso congiunto per la separazione dell’esistenza di un separato accordo, palesava la correttezza della ratio decidendi del giudice di prime cure che si basava sulla esistenza di un accordo parallelo e distinto rispetto alle condizioni di cui al ricorso per separazione consensuale e sulla esistenza di un documento rispondente a detta volontà negoziale.

Aggiungeva che l’eccezione di nullità della scrittura per carenza di forma in quanto prevedendo il trasferimento, a titolo gratuito, ai figli di un cospicuo patrimonio, avrebbe dovuto essere formalizzato a norma dell’art. 782 c.c., non poteva trovare accoglimento, giacché dal comune intento delle parti contraenti emergeva l’interesse giuridicamente qualificabile come preordinato al conseguimento di un risultato solutorio in relazione agli obblighi di mantenimento gravanti sul genitore nei confronti dei figli stessi, causa negoziale solutoria incompatibile con il prospettato animus donandi. Né rilevava la mancanza di sottoscrizione dell’atto da parte della B., relativamente al diritto di usufrutto sull’immobile sito in …, per avere egli ceduto esclusivamente il suo diritto di nuda proprietà del cespite, mentre la rinuncia della stessa all’usufrutto costituiva solo causa di caducazione del diritto reale limitato.

Avverso la indicata sentenza della Corte di appello di Genova ha proposto ricorso per cassazione G.S., basato su sei motivi, al quale hanno replicato la C. ed i figli S.P. e F.C. con controricorso, illustrato anche da memoria ex art. 378 c.p.c.; non costituita la B., pure intimata.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denuncia contraddittoria ed illogica motivazione con riferimento alla errata attribuzione di natura solutoria, connessa all’obbligo alimentare, in ordine al trasferimento dei diritti reali immobiliari disposti a titolo gratuito e per mera liberalità in favore dei figli, con interpretazione abnorme, non potendo tale tipo di dazione assolvere all’obbligazione alimentare. Prosegue il ricorrente affermando che la corte di merito contraddittoriamente non avrebbe chiarito la ragione per la quale il testo allegato al verbale di separazione non sarebbe quello prodotto nel giudizio de quo e ciò nonostante ha ricollegato teleologicamente i due accordi. Il secondo motivo, con il quale è lamentata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. per avere il giudice proceduto all’interpretazione della convenzione nel modo sopra esposto, culmina nel seguente quesito di diritto: “L’indagine del giudice di merito che ha condotto nel caso di specie ad individuare il comune intento dei contraenti ove basata su motivazione illogica, insufficiente e contraddittoria (per i motivi ut sopra evidenziati) integra violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. ed è censurabile nella sede di legittimità perché non sorretta da motivazione esauriente ed immune da vizi logici?”.

I motivi, che in ragione della loro connessione argomentativa vengono trattati congiuntamente, sono infondati.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte le pattuizioni intervenute tra coniugi, che abbiano in corso una separazione consensuale, con cui si obblighino a trasferire determinati beni facenti parte della comunione legale, successivamente od in vista dell’omologazione della loro separazione personale consensuale ed al dichiarato fine della integrativa regolamentazione del relativo regime patrimoniale, non configura una convenzione matrimoniale ex art. 162 c.c., postulante il normale svolgimento della convivenza coniugale ed avente riferimento ad una generalità di beni anche di futura acquisizione, né un contratto di donazione, avente come causa tipici ed esclusivi scopi di liberalità (e non l’esigenza di assetto dei rapporti personali e patrimoniali dei coniugi separati), bensì un diverso contratto atipico, con propri presupposti e finalità (Cass. 11 maggio 1984 n. 2887; Cass. 23 dicembre 1988 n. 2887; Cass. 12 settembre 1997 n. 9034).

Invero in base all’impianto complessivo dell’art. 711 c.p.c. (in combinato disposto con l’art. 158 c.c., comma 1), il procedimento in detta norma descritto dà vita ad una fattispecie complessa nella quale il contenuto del regolamento concordato tra i coniugi, se trova la sua fonte nel relativo accordo, acquista però efficacia giuridica soltanto in seguito al provvedimento di omologazione, cui compete l’essenziale funzione di controllare che i patti intervenuti tra i coniugi siano conformi agli interessi superiori della famiglia (Cass. 5 gennaio 1984 n. 14). Nel caso in cui, nell’ambito di un accordo destinato a disciplinare una separazione consensuale, sia inserita anche una convenzione avente una sua autonomia, in quanto non immediatamente riferibile né collegata al contenuto necessario del regime di separazione, si tratta di compiere una indagine ermeneutica, nel quadro dei principi di cui agli artt. 1362 c.c., e segg., diretta a stabilire se a quella convenzione possa essere riconosciuta autonoma validità ed efficacia, infatti, alle pattuizioni convenute dai coniugi prima del decreto di omologazione e non trasfuse nell’accordo omologato, può riconoscersi validità solo quando assicurino una maggiore vantaggiosità all’interesse protetto dalla norma (ad esempio concordando un assegno di mantenimento in misura superiore a quella sottoposta ad omologazione), o quando concernano un aspetto non preso in considerazione dall’accordo omologato e sicuramente compatibile con questo in quanto non modificativo della sua sostanza e dei suoi equilibri, o quando costituiscano clausole meramente specificative dell’accordo stesso, non essendo altrimenti consentito ai coniugi incidere sull’accordo omologato con soluzioni alternative di cui non sia certa a priori la uguale o migliore rispondenza all’interesse tutelato attraverso il controllo giudiziario di cui all’art. 158 c.c. (Cass. 24 febbraio 1993 n. 2270; Cass. 20 ottobre 2005 n. 20290).

Nel caso di specie la Corte di appello si è conformata a questi principi, perché ha esaminato la convenzione intervenuta tra i coniugi con la scrittura privata del 23 novembre 1996 (omologato il verbale di separazione il 15.4.1997) ed ha affermato che tale convenzione non poteva ritenersi nulla per carenza di forma prevedendo il trasferimento, a titolo gratuito, di un cospicuo patrimonio ai figli proprio perché garantiva, nel comune intento delle parti, l’interesse preordinato al conseguimento di un risultato solutorio degli obblighi di mantenimento dei figli gravante sui genitori, né appariva in contrasto con norme imperative di legge o con diritti indisponibili dei due coniugi.

D’altra parte questa Corte ha reiteratamente affermato che l’obbligo di mantenimento dei figli minori, o maggiorenni non autosufficienti, può essere adempiuto dai genitori in sede di separazione personale o divorzio (id est: di cessazione degli effetti civili del matrimonio) mediante un accordo – formalmente rientrante nelle previsioni, rispettivamente, degli art. 155 c.c., comma 7, art. 158 c.c., comma 2, e dell’art. 711 c.c., comma 3, e della L. n. 898 del 1970, artt. 4, comma 8, e art. 6, comma 9 – il quale, anziché attraverso una prestazione patrimoniale periodica, od in concorso con essa, attribuisca o li impegni ad attribuire ai figli la proprietà di beni mobili od immobili, e che tale accordo non realizza una donazione, in quanto assolve ad una funzione solutoria – compensativa dell’obbligatone di mantenimento, in quanto costituisce applicazione del principio, stabilito dall’art. 1322 c.c., della libertà dei soggetti di perseguire con lo strumento contrattuale interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico (cfr., Cass. 2 febbraio 2005 n. 2088; Cass. 17 giugno 2004 n. 11342; Cass. 21 dicembre 1987 n. 9500).

In tale caso l’accordo comporta l’immediata e definitiva acquisizione al patrimonio dei figli della proprietà dei beni che i genitori, od il genitore, abbiano loro attribuito o si siano impegnati ad attribuire e, in questo secondo caso, il correlativo obbligo, sanzionato in forma specifica dall’art. 2392 c.c., trova il suo titolo nell’accordo che estingue la prestazione di mantenimento, nei limiti costituiti dal valore dei beni attribuiti o da attribuire, convenzionalmente liquidata e sostituita dall’impegno negoziale de quo (cfr., Cass. 5 settembre 2003 n. 12939).

La corte territoriale ha, dunque, correttamente interpretato l’accordo de quo, alla luce dei principi sopra esposti, e non è condivisibile la censura formulata di carente o contraddittoria motivazione.

Con il terzo motivo è dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 782 c.c., nonché dell’art. 1421 c.c. per essere la corte territoriale incorsa nell’ulteriore violazione omettendo di rilevare la nullità dell’atto de quo che redatto in forma privata, è totalmente mancante della forma solenne necessaria per la donazione. A corollario del mezzo viene posto il seguente quesito di diritto: “Nel caso di specie, sulla preliminare premessa (ut sopra) che il negozio di cui è causa contiene, almeno in parte, disposizioni a titolo di mera liberalità, e quindi integra una donazione, consegue violazione e/o falsa applicazione degli artt. 782 e 1421 c.c. per non essere stata dichiarata d’ufficio la sua nullità totale o parziale per mancanza della forma solenne?”.

La condivisione della ratio da parte del giudice di merito che ha disconosciuto all’attribuzione degli immobili, di cui alla convenzione del 23.11.1996, natura di donazione, oggetto di eccezione del convenuto, esclude che sia ravvisabile il lamentato vizio di violazione delle disposizioni in tema di forma solenne.

Con il quarto mezzo è lamentata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2932 c.c. giacché la convenzione sottoscritta è assoggetta alla condizione vincolante ed assoluta che la titolare del diritto di usufrutto (relativamente all’appartamento sito in XXXX) rinunci a detto diritto reale in favore del ricorrente, condizione non avverata al momento della introduzione del giudizio, per cui andava ritenuta la improponibilità della domanda. A conclusione del mezzo è posto il seguente quesito di diritto: “Era nel caso di specie improponibile la domanda ex art. 2932 c.c. finalizzata ad ottenere l’attuazione del contratto preliminare essendo il medesimo assoggettato a condizione non ancora avveratasi al momento della proposizione della domanda giudiziale e neppure in corso del giudizio?”.

Anche detto mezzo è palesemente infondato.

Si osserva che, diversamente dall’assunto del ricorrente, la corte territoriale ha accertato la successiva rinuncia della B. all’usufrutto sull’immobile sito in XXXX, come emergeva dal tenore della comparsa di costituzione dell’interveniente, “avendo a cuore l’interesse dei coniugi e dei loro figli”.

Orbene, tale essendo la ratio della decisione della corte di appello, risulta evidente come la doglianza non colga nel segno, non censurando il profilo posto a fondamento della statuizione, con conseguente irretrattabilità e definitività dell’affermazione circa la caducazione del diritto reale limitato e conseguente fenomeno della consolidazione in capo al ricorrente della piena proprietà del bene da trasferire, per non avere formato oggetto di impugnazione.

Con il quinto ed il sesto motivo, collegati dallo stesso ricorrente, è lamentata la omessa motivazione sull’eccezione di mancanza dell’avveramento della condizione, con conseguente e correlata violazione e falsa applicazione dell’art. 782 c.c., per essere stata la rinuncia della B. meramente preannunciata nella comparsa di costituzione e risposta. Il motivo, relativamente alla denunciata violazione di legge, pone a conclusione il seguente quesito: “La rinuncia dell’usufrutto al diritto reale, che determina quindi ipso iure il consolidamento della piena proprietà in capo al nudo proprietario, ove realizzatasi senza corrispettivo e per puro spirito di liberalità integra i presupposti dell’atto di donazione e deve quindi essere formalizzata nella forma solenne prevista dall’art. 782 c.c., con la conseguenza che, nel caso di specie, mancando tale forma, essa è nulla?”.

Le censure – che pongono la medesima questione (mancato avveramento della condizione) – sono inammissibili, introducendo una circostanza che non risulta essere stata prospettata nei precedenti gradi di merito, in difetto di ogni specifica indicazione al riguardo da parte del ricorrente e non avendola la corte di appello riportata nella decisione impugnata, e che quindi non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità, richiedendo indagini di fatto in ordine all’esatto contenuto nel contratto per cui è causa ed alla reale volontà delle parti (sull’inammissibilità di questioni nuove in sede di ricorso per cassazione, cfr. ex pluribus, Cass. n. 25546 del 2006).

All’infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, per il principio della soccombenza.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi.

Solo i provvedimenti a carattere decisorio in materia di amministrazione di sostegno possono essere impugnati ex art. 720 bis c.p.c.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 14 luglio – 28 settembre 2017, n. 22693
Presidente Di Palma – Relatore Di Marzio
Fatti di causa
con il provvedimento di reclamo impugnato, la Corte d’Appello di Bologna ha rigettato il reclamo proposto dalle odierne ricorrenti avverso la
nomina dell’Avv.to C.M. , estranea alla famiglia, quale amministratore di sostegno di t.a. , di cui T.A. è figlia, mentre M.A. , madre della
prima, ne è stata la convivente. La necessità della nomina, per vero, era stata condivisa anche dai fratelli dell’amministrato, gli odierni
controricorrenti. La ex convivente M.A. aveva domandato di essere nominata Amministratore di sostegno. Il Giudice Tutelare, però,
riscontrato che tra la figlia ventiduenne A. , e sua madre M.A. , da una parte, ed i fratelli del t.a. , dall’altra, si riscontrava una vivace
contrapposizione, aveva proceduto sì all’apertura dell’amministrazione di sostegno, stimandone sussistere la necessità, ma aveva preferito
nominare amministratore un soggetto estraneo alla famiglia. Contro questo provvedimento le odierne ricorrenti hanno proposto reclamo ex
art. 720 bis innanzi alla Corte d’Appello di Bologna, non contestando l’apertura dell’amministrazione di sostegno, bensì la sola scelta di
nominare quale amministratore una persona che le reclamanti affermavano non essere la più idonea allo svolgimento della funzione. La Corte
d’Appello, informate le parti che avrebbe valutato la questione dell’ammissibilità del reclamo perché potessero pronunciarsi in merito, a
seguito della discussione dichiarava effettivamente l’inammissibilità del reclamo, perché l’art. 720 bis cod. civ. consente la proposizione di
reclamo innanzi alla Corte d’Appello, ma solo in relazione ai provvedimenti di carattere decisorio, quali sono quelli che dispongono l’apertura
o la chiusura dell’amministrazione, e sono perciò assimilabili alle sentenze. Il reclamo in Corte d’Appello non è però un mezzo di
impugnazione utilizzabile in relazione ai provvedimenti che abbiano carattere gestorio, quale deve considerarsi anche la scelta della persona
dell’amministratore di sostegno che occorre nominare.
Avverso la decisione della Corte d’Appello di Bologna propongono reclamo T.A. e M.A. , affidandosi a due motivi. Resistono con controricorso
T.G. , Ti.An. e Ti.Gi. . Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
1.1. – Con il primo motivo di impugnazione, proposto ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., le ricorrenti contestano la
violazione e falsa applicazione degli artt. 720 bis, co. III, e 739 cod. proc. civ., nonché degli artt. 405 cod. civ., e 45 disp. att. cod. civ., per
avere la Corte territoriale infondatamente sostenuto che possa distinguersi la natura della concreta disposizione impugnata ai fini della sua
contestazione, mentre l’art. 720 bis, comma II, cod. proc. civ., prevede che avverso il provvedimento di nomina dell’amministratore di
sostegno è ammesso reclamo alla Corte d’Appello, senza indicare alcuna distinzione. Nel caso di specie le ricorrenti hanno contestato proprio
il provvedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno.
1.2. – Con il secondo motivo di impugnazione, proposto ancora ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., le ricorrenti
contestano la violazione e falsa applicazione degli artt. 404, 405, 407, 408 e 410 cod. civ., nonché l’art. 44 disp. att. cod. civ., per avere la
Corte d’Appello trascurato che deve essere nominato amministratore di sostegno del bisognoso, la persona più idonea, quella che più lo
conosce e maggiormente è in grado di interpretarne i desideri. Risulta pertanto inidoneo a svolgere la funzione di amministratore di sostegno
di t.a. un soggetto estraneo alla sua famiglia ed ai suoi affetti, e sono invece idonee le odierne ricorrenti, che non mancano di ricordare la
facoltà di cui dispone la Suprema Corte di decidere la causa nel merito, quando non risultino necessari ulteriori accertamenti di fatto.
2.1. – 2.2. – I motivi di impugnazione possono essere esaminati congiuntamente, perché entrambi risultano compromessi da un vizio
pregiudiziale. Con il primo motivo le ricorrenti si lamentano che la Corte d’Appello non abbia ritenuto di dover pronunciare su un reclamo
proposto per contestare la nomina di persona non gradita quale amministratore di sostegno. Con il secondo si propongono argomenti per
sostenere che esistono, nel caso di specie, persone più idonee ad essere nominate amministratori di sostegno, in particolare le stesse
ricorrenti, e si domanda alla Suprema Corte l’espressione di una tipica valutazione di merito.
La impugnata decisione assunta dalla Corte d’Appello di Bologna, però, applica correttamente il diritto vigente ed appare anche esaustiva,
oltreché conforme al consolidato orientamento motivatamente e ripetutamente espresso in materia dalla Suprema Corte, e pertanto non
merita censura.
La Cassazione ha affermato con chiarezza, ad esempio, che “è inammissibile il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti emessi in sede
di reclamo in tema di designazione o nomina di un amministratore di sostegno, che sono emanati in applicazione dell’art. 384 c.c.
(richiamato dal successivo art. 411, comma 1, c.c.) e restano logicamente e tecnicamente distinti da quelli che dispongono
l’amministrazione, dovendosi limitare la facoltà di ricorso ex art. 720 bis, ultimo comma, c.p.c., ai soli decreti di carattere decisorio, quali
quelli che dispongono l’apertura o la chiusura dell’amministrazione, assimilabili, per loro natura, alle sentenze di interdizione ed
inabilitazione, senza estendersi ai provvedimenti a carattere gestorio”, Cass. sez. I, sent. 16.2.2016, n. 2985. Altrettanto esplicita, peraltro,
la Suprema Corte si era già manifestata anni prima, spiegando che “è inammissibile il ricorso per cassazione, a norma dell’art. 720-bis,
ultimo comma, cod. proc. civ., avverso i provvedimenti emessi in sede di reclamo in tema di rimozione e sostituzione ad opera del giudice
tutelare di un amministratore di sostegno, avendo tali provvedimenti carattere meramente ordinatorio ed amministrativo e dovendo riferirsi
tale norma soltanto ai decreti, quali quelli che dispongono l’apertura o la chiusura dell’amministrazione, di contenuto corrispondente alle
sentenze pronunciate in materia di interdizione ed inabilitazione, a norma dei precedenti arti. 712 e seguenti, espressamente richiamati dal
primo comma dell’art. 720-bis”, Cass. sez. VII, ord. 10.5.2011, n. 10187.
Nessuna incidenza assume, in ordine alla individuazione dell’Autorità giudiziaria competente a conoscere del reclamo avverso il
provvedimento di prime cure, il dato di fatto che i provvedimenti di natura gestoria in esame siano contenuti nell’ambito del decreto che ha
pure disposto l’apertura dell’amministrazione di sostegno. Non è dato rinvenire nell’ordinamento vigente, invero, un principio assoluto che
imponga di assoggettare al medesimo regime di impugnazione le diverse statuizioni che possono essere contenute in un medesimo
provvedimento giurisdizionale, le quali seguiranno ognuna il regime impugnatorio proprio della categoria di appartenenza.
I provvedimenti di natura gestoria adottati dal Giudice Tutelare, del resto, sono comunque suscettibili di impugnazione, ma mediante
reclamo da proporsi, ai sensi dell’art. 739 cod. proc. civ., innanzi al Tribunale in composizione collegiale, da ultima, cfr. Cass. sez. I, cent.
13.1.2017, n. 784, ma anche di questa facoltà gli odierni ricorrenti si sono peraltro già avvalsi, come emerge dalla incontestata
documentazione che è stata allegata dai controricorrenti alla loro memoria.
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.
Le spese di lite seguono la soccombenza, e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto da T.A. ed M.A. , che condanna al pagamento solidale delle spese di lite che liquida, in
favore di ciascuna delle costituite resistenti, in complessivi Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per
cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Dispone, ai sensi dell’art. 52, comma 5, del D.Lgs. 30.6.2003, n. 196, che, in caso di riproduzione per la diffusione della presente decisione,
le generalità e gli altri dati identificativi delle parti e dei soggetti menzionati siano omessi.

Anche per i bambini non in stato di abbandono può sussistere un interesse concreto all’adozione

Il Tribunale per i Minorenni di Bologna, in composizione collegiale e così composto
Dr. Giuseppe Spadaro Presidente
Dr.ssa Elisabetta Tarozzi Giudice
Dr. Daniele Stumpo Giudice Onorario
Dr.ssa Antonella Allegrini Giudice Onorario
ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
nel procedimento iscritto al n. 290\1 6 ADN-CP
avente ad OGGETTO: ricorso ex art. 44, lett. d), legge 184/1983
IN FATTO
A. , nato a, in data xxxxxxxx, residente in xxxxxxxx xxxxxxxxxxxxxx xxxxx xxxxxxxxxx, ha richiesto, ai sensi dell’art. 44 lett. d, I. adoz., di poter adottare il minore C. nato a xxxxxxxx in data xxxxxxxxx a seguito di procreazione medicalmente assistita. L’istante premette di avere costituito a xxx, in Germania, una unione civile tra persone dello stesso sesso, con B. nato a xxxxxx in data xxxxxxxxxx all’esito di una relazione affettiva avviata nel 1991. La coppia è tuttora convivente, con comune residenza in xxxx, alla via xxxxxxxxxxxxxxxx xxxxxxx presso l’immobile acquistato in regime di comproprietà.

Nel 2014, l’istante riferisce di avere deciso, con il proprio compagno, di avere un figlio, ricorrendo alla procedura di procreazione medicalmente assistita in xxxxxx. Il minore C. è stato riconosciuto figlio suo e di B. , con provvedimento della Corte Superiore dello Stato della California (Contea di Placer). Da un punto di vista biologico, C. è figlio di B. (il quale ha dato il proprio seme nel procedimento di FMA): per questo motivo, il provvedimento americano è stato trascritto nei registri dello Stato Civile italiani del Comune di xxxx con indicazione di questi, come solo genitore, ma conservando il cognome di nascita “A. B.”. L’atto di nascita di C. è stato pure trascritto in Berlino, avendo il minore acquistato iure sanguinis la cittadinanza tedesca (v. passaporto, rilasciato il 21 febbraio 2016).
Le indagini svolte hanno dato tutte esito positivo. A conferma rilevano i colloqui con i genitori e l’osservazione diretta relazionata dagli Assistenti Sociali, dalle quali emerge che “C.. si presenta come un bambino sorridente, sereno, curioso e attivo. Si relaziona facilmente con gli adulti, anche se appena conosciuti, ma si riferisce costantemente ai genitori con i quali mostra di aver instaurato una buona relazione di attaccamento.” Ancora, si legge in relazione, “il Sig. A. il Sig. B. raccontano al bambino la sua storia, «C. ha due papà, come altri bambini hanno due mamme e altri un papà e una mamma»; vi è quindi un atteggiamento di trasparenza rispetto al racconto della storia del bambino e in questo i genitori sono supportati dal confronto con altre famiglie che vivono la loro stessa esperienza [ … ] Dall’osservazione tra il Sig. A. e il piccolo C. emerge la capacità di accogliere i bisogni de/piccolo, di stimolarlo e coinvolgerlo in attività di vario tipo. L’interazione è caratterizzata da gesti affettuosi e dal gioco e attraverso queste modalità gli trasmette ritmi e regole quotidiane” (cfr. relazione psicosociale relativa all’istanza di adozione).
Sulla base degli atti e dei documenti, alla luce delle prove acquisite e dell’istruttoria condotta, è pacifico e certo che il minore C. riconosce in A. e in B. i suoi genitori; la relazione della coppia si distingue per solidità affettiva, costanza nel tempo e comunanza di obbiettivi, al punto da dovere essere considerata, a tutti gli effetti, una famiglia. Il tessuto familiare di questa unione include il piccolo C.: C. è un membro della famiglia A.B. . In particolare, è provato che: a) il bambino è stato sempre trattato da A. come suo figlio, avendo questi provveduto in qualità di padre al suo mantenimento, alla sua educazione, alle sue esigenze di vita quotidiana; b) C. è a tutti gli effetti considerato padre, nelle relazioni sociali, affettive e di vita quotidiana (scuola, istituzioni, contesti di riferimento, etc.); c) C. è considerato figlio di A. anche nell’ambito delle famiglie di origine di entrambi i padri.
Sulla scorta dei dati sin qui brevemente illustrati, può procedersi all’esame del merito della domanda.
IN DIRITTO
Nell’Ordinamento italiano, in linea con gli altri sistemi giuridici europei, il legame genitoriale può originare da un procedimento adottivo: il genitore diventa tale in assenza di legame biologico con il minore e a seguito di procedura giurisdizionale che sostituisce al vincolo biologico una attribuzione giuridica della responsabilità genitoriale. L’origine del progetto genitoriale non incide sullo stato giuridico dei figli che è sempre e comunque Io stesso (art. 315. c.c. come modificato dalla legge 10 dicembre 2012 n. 219). 11 referente normativo principale, in materia di adozione, è la legge 4 maggio 1983 n. 184 (“diritto del minore ad una famiglia”). La normativa in esame enuclea, in modo tipico e tassativo, i casi ex lege che consentono l’instaurazione giuridica (piuttosto che biologica) del legame genitoriale. In linea di principio, l’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto. I coniugi devono essere affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendano adottare (art. 6, legge 184 del 1983). Condizione necessaria perché l’adozione possa essere pronunciata, è che l’età degli adottanti superi di almeno diciotto e di non più di quarantacinque anni l’età dell’adottando. In ogni caso, l’adozione è consentita a favore dei minori dichiarati in stato di adottabilità (art. 7 comma I): sono dichiarati in stato di adottabilità dal tribunale per i minorenni del distretto nel quale si trovano, i minori di cui sia accertata la situazione di abbandono perché privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio.
La norma testé citata (art. 7) ha riguardo ai casi “ordinari” di adozione ed esclude, di norma, l’adozione da parte di coppie formate dallo stesso sesso, atteso che il procedimento adottivo è riservato ai coniugi e non è esteso agli uniti (come noto, l’unione civile è la formazione familiare composta da due persone dello stesso sesso: v. art. I, legge 20 maggio 2016 n. 76). L’adozione non è consentita nemmeno alle persone che siano solo conviventi di fatto (al riguardo, v. art. 1, comma 36, legge 76/2016 cit.).
A fronte di casi ordinari, la normativa disciplina anche «casi particolari» di adozione, nell’ambito dell’art. 44 1. 184 del 1983. L’adozione nei casi ordinari è detta “piena o legittimante” poiché esplica effetti totalmente parificanti rispetto alla genitorialità biologica. Gli effetti dell’adozione “non piena” sono invece regolati dagli artt. 45 e ss. 1. 184 del 1983.
L’adozione in casi particolari prevede che i minori possano essere adottati (“anche quando non ricorrono le condizioni di cui al comma 1 dell’articolo 7): a) da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, anche maturato nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento, quando il minore sia orfano di padre e di madre; b) dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge; c) quando il minore si trovi nelle condizioni indicate dall’articolo 3, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e sia orfano di padre e di madre; d) quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo.
Adozione piena e adozione in casi particolari rappresentano due diversi istituti giuridici, anche se, in concreto, gli Autori dibattono circa la persistente diversità effettiva, alla luce delle modifiche apportate al “sistema” dal dlgs. n. 154 del 2013. L’adozione cd. legittimante, come visto, abilita l’adozione (nazionale o internazionale) di bambini in stato di abbandono, prevedendo una corsia preferenziale in favore delle persone con cui il minore1 abbia instaurato legami affettivi significativi e un rapporto stabile e duraturo (si tratta, in genere, della cd. famiglia affidataria: v. art. 5-bis, legge 173 del 2015). Per effetto dell’adozione ordinaria, la relazione tra minore e adottante è del tutto equiparata a quella sussistente tra genitore biologico e la propria prole.
La “adozione in casi particolari” è ammessa, invece, in diversi casi specifici che concernono, per lo più, ipotesi in cui vi è già una relazione genitoriale di fatto tra un bimbo ed un adulto. La stessa è consentita anche ai singoli ed alle coppie non sposate. Si tratta dell’ipotesi di bambini già curati da parenti o conoscenti (lettera A) e dell’ipotesi di bambini che hanno instaurato una relazione filiale col nuovo coniuge del proprio genitore (lettera B). In questi casi non si tratta di trovare un genitore per un bambino abbandonato ma di tutelare e coprire giuridicamente situazioni in cui un bambino ha già chi si occupa di lui, dove vi è già un “genitore di fatto” che è tuttavia privo di riconoscimento legale formale (sul “valore” dei legami genitoriali di fatto, cfr. legge 173 del 2015 e Corte Cost. n. 225 del 2016). L’adozione in casi particolari è anche prevista per bambini orfani portatori di handicap (lettera C), per i quali, essendo l’adozione ammessa anche per i singoli e le coppie non sposate, viene così ampliata la platea degli aspiranti adottanti.
L’adozione in casi particolari è prevista anche quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo (art. 44, lett. d, legge 184 del 1983): si tratta della norma di riferimento per l’odierna decisione. In passato, infatti, la disposizione è stata interpretata dalla giurisprudenza in modo restrittivo, come applicabile comunque alla ipotesi del bambino “in stato di abbandono”. Si sosteneva, dunque, che la norma ampliasse il ventaglio degli adottanti a fronte di minori in stato di abbandono, difficilmente adottabili e di fatto rimasti senza proposte adottive: come per il caso di bambini affetti da patologie psichiatriche o fisiche invalidanti. La giurisprudenza più recente ha mutato indirizzo e interpretato la norma in modo diverso: secondo il nuovo trend pretorile, la disposizione prevedendo che “vi sia la constata impossibilità di affidamento preadottivo”, fa riferimento (non solo a situazioni di impossibilità materiale di adottare bambini in stato di abbandono, ma anche) ad ogni altra ipotesi di impossibilità giuridica di adottare con adozione legittimante. Si tratta, cioè, di casi in cui non vi, .è uno stato di abbandono e dove, tuttavia, l’adozione appare comunque consigliabile per una migliore tutela dei diritti del minore. Su questa linea si sono ritenuti adottabili bambini non abbandonati che risultano affidati da anni ad una coppia o ad un singolo.
Si arriva così al tema oggetto della presente indagine: proprio attraverso il menzionato art. 44 lett. d), infatti, si è arrivati ad affermare che, nell’ipotesi di minore concepito e cresciuto nell’ambito di una coppia dello stesso sesso, «sussiste il diritto ad essere adottato dalla madre non biologica, secondo le disposizioni sulla adozione in casi particolari ex art. 44 lett. D della Legge 4 maggio 1983, n. 184 ed a prendere il doppio cognome, sussistendo, in ragione del rapporto genitoriale di fatto instauratosi fra il genitore sociale ed il minore, l’interesse concreto del minore al suo riconoscimento». In questi termini sì è pronunciato originariamente il Tribunale per i Minorenni di Roma, con sentenza 30 luglio 2014 (est. Cavallo), inaugurando una presa di posizione ermeneutica confermata negli arresti successivi (Trib. Minorenni Roma, 22 ottobre 2015, est. Cavallo; Trib. Minorenni Roma, 23 dicembre 2015, est. Cavallo), anche nel secondo grado. In particolare, secondo il giudice d’appello romano, «nell’ipotesi di minore concepito e cresciuto nell’ambito di una coppia dello stesso sesso, sussiste il diritto ad essere adottato dalla madre non biologica, secondo le disposizioni sulla adozione in casi particolari ex art. 44 lett. D della Legge 4 maggio 1983, n. 184, sussistendo, in ragione del rapporto genitoriale di fatto instauratosi fra il genitore sociale ed il minore, l’interesse concreto del minore al suo riconoscimento; la sussistenza ditale rapporto genitoriale di fatto e del conseguente superiore interesse al riconoscimento della bigenitorialità devono essere operate in concreto sulla base delle risultanze delle indagini psico-sociali» (Corte App. Roma, 23 dicembre 2015, Pres. Montaldi, est. Pagliari); della stessa idea la Corte di Appello di Torino che, riformando il primo grado, afferma «l’ipotesi di adozione in casi particolari ex art. 44 lett. D della Legge 4 maggio 1983, n. 184 può trovare applicazione anche in caso di impossibilità giuridica di affidamento preadottivo per non essere il minore dichiarato in stato di abbandono sussistendo un genitore biologico che ne ha cura; la norma può pertanto trovare applicazione anche nel caso in cui sussista l’interesse concreto del minore al riconoscimento del rapporto genitoriale di fatto instauratosi con l’altra figura genitoriale sociale, seppure dello stesso sesso» (Corte App. Torino, Pres. Mecca, est. Lanza).
La questione della adozione coparentale è stata infine affrontata dalla Suprema Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi con riguardo alla impugnazione della pronuncia della Corte di Appello romana del 23 dicembre 2015. Definendo il procedimento in senso conforme alla decisione impugnata, la Suprema Corte di Cassazione ha, in primis, affermato che in ipotesi di domanda di adozione in casi particolari da parte della compagna della madre biologica non sussiste alcun conflitto di interessi fra quest’ultima e la figlia e non pertanto alcuna necessità di nominare un curatore speciale. Ha quindi osservato che l’ipotesi di adozione in casi particolari ex art. 44 lett. D della Legge 4 maggio 1983, n. 184 può trovare applicazione anche in caso di impossibilità giuridica di affidamento preadottivo per non essere il minore dichiarato in stato di abbandono sussistendo un genitore biologico che ne ha cura; la norma può pertanto trovare applicazione anche nel caso in cui sussista l’interesse concreto del minore al riconoscimento del rapporto genitoriale di fatto instauratosi con l’altra figura genitoriale sociale, seppure dello stesso sesso (Cass. Civ., sez. I, sentenza 26 maggio 2016 n. 12962, Pres. Della Palma, est. Acierno). In tempi recenti, l’indirizzo del tutto maggioritario in giurisprudenza è stato, infine, avallato dalla Corte di Appello di Milano, con la pronuncia 9 febbraio 2017.
Reputa questo Tribunale che l’indirizzo sin qui illustrato sia stato anche confermato dalla legge n. 76 del 2016. In primo luogo, la nuova normativa ha eletto le coppie formate da persone dello stesso sesso, ove sussistenti vincoli affettivi, al rango di “famiglia” (è inequivoco il riferimento, nella normativa, alla “vita familiare”, a tacer d’altro), così offrendo all’adozione in casi particolari, un substrato relazionale solido, sicuro, giuridicamente tutelato. Soprattutto, come ben ha messo in evidenza la Corte di Appello di Milano, nella decisione citata, la legge di nuovo conio ha confermato l’orientamento di Cassazione, con l’articolo I comma 20: “al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge », «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni dì cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”.
Ebbene, come hanno sottolineato i commentatori, questa norma nasce da un compromesso legislativo, reso necessario a seguito dello stralcio dell’articolo che prevedeva una modifica dell’art. 44 lettera b). Per effetto di detto stralcio, il Legislatore ha sentito ìl bisogno di aggiungere una locuzione che non può essere interpretata in nessun altro modo se non, come clausola di salvaguardia, altrimenti non se ne comprenderebbe il senso, avendo già detto, che l’equiparazione del termine coniuge all’unito civilmente vale per le leggi in vigore tranne che per la 184/83, ovvero l’espressione: “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalla norme vigenti”. Che resti fermo quanto previsto può apparire pleonastico ma è fatto salvo anche quanto consentito, evidentemente dalla interpretazione giurisprudenziale così come si è sviluppata nel tempo e come indicata da ultimo dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 12962/16. E’ insomma evidente che dalla legge n. 76 del 2016 non emerge affatto una volontà del Legislatore di delimitare più rigidamente i confini interpretativi dell’adozione in casi particolari ma, semmai, emerge la volontà contraria, tanto è vero che, successivamente alla emanazione della legge, vi sono state altre pronunzie che, in casi analoghi a quello in esame, hanno accolto la domanda di adozione ex art. 44 d).
Questa lettura è stata anche seguita in Dottrina ed è ritenuta corretta da questo Tribunale. La «clausola di salvaguardia» che chiude il comma 20 rende immune dall’eccezione alla clausola generale di equivalenza prevista per la legge sulle adozioni «quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti». In questo modo, tale disposizione apre alla possibilità di un’applicazione alle unioni civili delle disposizioni in materia di adozioni, ma solo, per l’appunto, nei limiti del diritto vigente. Come ha efficacemente rilevato la Corte di Appello di Milano, la clausola nasce dalla consapevolezza degli effetti che lo stralcio di cui si è detto avrebbe comportato al consolidato orientamento giurisprudenziale che riconosce alle coppie di persone dello stesso sesso la possibilità di ricorrere alla c.d. «adozione coparentale» (stepchild o secondparent adoption). Pertanto, allo stralcio dell’articolo 5 è seguita l’aggiunta della clausola in parola, proprio allo scopo di congiurare che fosse «impedito agli omosessuali di continuare a fruire di un istituto già esistente». La sua funzione, dunque, è quella di chiarire all’interprete che la mancata previsione legislativa dell’accesso all’adozione coparentale non deve essere letta come un segnale di arresto o di contrarietà rispetto all’orientamento consolidatosi negli ultimi anni in giurisprudenza in favore dell’adozione coparentale ai sensi della lettera d).
In conclusione, è opportuno rammentare che l’interpretazione qui in esame risulta avallata non solo dalla Corte di Cassazione nella pronuncia n. 12962 del 2016, ma anche da Corte cost., 7 ottobre 1999, n. 383, secondo cui la ratio dell’effettiva realizzazione degli interessi del minore consente l’adozione per “constatata impossibilità di affidamento preadottivo” anche quando i minori “non sono stati o non possono essere formalmente dichiarati adottabili”.
Alla luce di quanto sin qui osservato, ove le indagini ex lege diano esito positivo, l’adozione risponda all’interesse del minore e vi sia il consenso di tutti i soggetti interessati «non si comprende come possano essere posti ostacoli alla richiesta di adozione se non per il prevalere di pregiudizi legati ad una concezione dei vincoli familiari non più rispondente alla ricchezza e complessità delle relazioni umane nell’epoca attuale. Del resto proprio la interpretazione evolutiva della Corte EDU della nozione di vita familiare di cui all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, è giunta ad affermare che nell’ambito della vita familiare deve annoverarsi il rapporto fra persone dello stesso sesso, rapporto che non può quindi essere escluso dal diritto di famiglia con la conseguenza che non già le aspirazioni o i desideri degli adulti debbano avere necessariamente pari riconoscimento da parte dell’ordinamento, bensì i diritti dei bambini» (Corte App. Milano, cit.).
Va rimarcato che la relazione affettiva tra due persone dello stesso sesso, che si riconoscano come parti di un medesimo progetto di vita, con le aspirazioni, i desideri e i sogni comuni per il futuro, la condivisione insieme dei frammenti di vita quotidiana, costituisce a tutti gli effetti una “famiglia”, luogo in cui è possibile la crescita di un minore, senza che il mero fattore “omoaffettività” possa costituire ostacolo formale.
La disamina sin qui condotta induce a dover accogliere la domanda dell’istante sulla scorta del seguente principio di diritto: in virtù della clausola di salvaguardia di cui all’art. I comma 20 legge n. 76 del 2016, l’ipotesi di adozione in casi particolari ex art. 44 lett. D della Legge 4 maggio 1983, n. 184 può trovare applicazione anche in caso di impossibilità giuridica di affidamento preadottivo per non essere il minore dichiarato in stato di abbandono sussistendo un genitore biologico che ne ha cura; la norma può pertanto trovare applicazione anche nel caso in cui sussista l’interesse concreto del minore al riconoscimento del rapporto genitoriale di fatto instauratosi con l’altra figura genitoriale sociale, seppure dello stesso sesso.
In conclusione, il ricorso merita accoglimento. Nulla per le spese di lite.
PER QUESTI MOTIVI
DICHIARA l’adozione di C. nato a xxxx in data xxxx, da parte di A. nato a xxxx, in data xxxx
ORDINA la comunicazione della presente sentenza per esteso alla Procura, alle parti e all’Ufficiale dello stato Civile del Comune di Bologna per le trascrizioni e i provvedimenti di competenza.

Camera dei deputati – proposta di legge

Modifiche all’articolo 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, in materia di assegno spettante a seguito di scioglimento del matrimonio o dell’unione civile
Presentata il 27 luglio 2017

ONOREVOLI COLLEGHI ! — Alcuni precedenti giurisprudenziali in materia di assegno divorzile hanno avuto vasta risonanza presso la pubblica opinione per l’eccessiva entità dell’assegno disposto a favore del coniuge
« debole ». Per altro verso la cronaca segnala spesso casi di difficili condizioni di vita in cui vengono a trovarsi gli ex-coniugi (generalmente i mariti) in quanto costretti a corrispondere un assegno che assorbe
parte cospicua del loro guadagno. Si tratta di casi in cui si è applicata, non sempre appropriatamente, la norma sull’assegno post-matrimoniale come interpretata da una consolidata giurisprudenza,
che ravvisa, come primo presupposto e criterio di determinazione dell’assegno, l’assenza di un reddito sufficiente a mantenere il tenore di vita di cui si godeva in costanza di matrimonio.
In sede di giurisprudenza di legittimità si è però avuto, di recente, un segno del tutto contrario (sentenza della Cassazione civile n. 11504 del 10 maggio 2017). Si è infatti affermato che l’assegno divorzile può
essere concesso solamente all’ex coniuge che non abbia l’autosufficienza economica,
che, cioè, non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. Adeguandosi a questa nuova interpretazione una recente ordinanza del tribunale di Milano, emessa il 22 maggio 2017, ha affermato che l’assegno può essere chiesto dall’ex coniuge avente diritto al gratuito patrocinio, ossia dall’ex
coniuge che versa in condizione di povertà. In base alla nuova interpretazione, l’ex coniuge che non percepisca quanto è strettamente necessario per vivere può pretendere solamente gli alimenti, senza che si
possa fare alcun riferimento al rapporto matrimoniale ormai estinto. Nessuna rilevanza, conseguentemente, avrebbero, tra l’altro, la durata del matrimonio e l’impegno dedicato dal coniuge alla famiglia. Altre sentenze hanno invece escluso che lo stato di povertà sia il necessario presupposto dell’assegno divorzile, per la determinazione del quale va tenuto in conto, anche, ma non esclusivamente, il tenore di vita matrimoniale insieme ad altri criteri, come l’apporto personale ed economico
dato da ciascuno alla conduzione familiare (tribunale di Udine, sentenza n. 513 del 1°
giugno 2017). Il contrastante quadro giurisprudenziale che si è venuto a creare richiede un urgente intervento legislativo, volto a fissare precise linee normative rispondenti all’esigenza di evitare, da un lato,
che lo scioglimento del matrimonio sia causa di indebito arricchimento e, dall’altro, che sia causa di degrado esistenziale del coniuge economicamente debole che abbia confidato nel programma di vita del matrimonio, dedicandosi alla cura della famiglia rinunciando in tal modo a sviluppare una buona formazione professionale e a svolgere una proficua attività di lavoro o di impresa.
In tale direzione sono orientati gli ordinamenti europei dove è tenuta presente l’esigenza che al coniuge divorziato debole venga dato un aiuto economico destinato, per quanto possibile, a compensare la disparità o lo squilibrio economico creato dallo scioglimento del matrimonio (articolo
276, I comma, del codice civile francese; articolo 97, I comma, del codice civile spagnolo). Ai fini della determinazione di tale aiuto in qualche codice o legge è fatto espresso riferimento al livello di vita matrimoniale (paragrafo 1573 del codice civile tedesco; sezione 25, comma 2, lettera d),della legge matrimoniale inglese – Matrimonial causes Act 1973) e ad altri elementi,quale la cura di un figlio comune alla quale sia chiamato il coniuge divorziato. Al tempo stesso è avvertita l’esigenza che la corresponsione dell’aiuto economico non dia luogo a risultati iniqui o favorisca il coniuge per colpa esclusiva del quale è stato pronunziato il divorzio (articolo 370 del codice civile francese). Avvertita è anche l’esigenza di contenere nel tempo la durata dell’aiuto economico, prevedendone la corresponsione in una somma capitale (articolo 270 del codice civile francese) o una limitazione temporale quando una corresponsione a tempo indeterminato risulti ingiustificata anche in considerazione della breve durata del matrimonio (paragrafo 1573 del codice civile tedesco).
Le disposizioni di cui alla presente proposta sono volte a prevedere, anche nel nostro ordinamento, una soluzione di equità familiare tanto attesa dalla società civile.

Atti Parlamentari — 2 — Camera dei Deputati
XVII LEGISLATURA A.C. 4605
PROPOSTA DI LEGGE
__
ART. 1.
1. Il sesto comma dell’articolo 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, è sostituito dal seguente:
« Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili
del matrimonio, il tribunale dispone l’attribuzione di un assegno a favore di un
coniuge, destinato a compensare, per quanto possibile, la disparità che lo scioglimento o
la cessazione degli effetti del matrimonio crea nelle condizioni di vita dei coniugi ».
2. Dopo il sesto comma dell’articolo 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, sono
inseriti i seguenti: « Nella determinazione dell’assegno il tribunale valuta le condizioni economiche in
cui i coniugi vengono a trovarsi a seguito della fine del matrimonio; le ragioni dello
scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio; la durata del matrimonio;
il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e
alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune; il reddito di entrambi,
l’impegno di cura personale di figli comuni minori o disabili, assunto dall’uno o dal-
l’altro coniuge; la ridotta capacità reddituale dovuta a ragioni oggettive; la mancanza di un’adeguata formazione professionale quale conseguenza dell’adempimento di doveri coniugali.
Tenuto conto di tutte le circostanze il tribunale può predeterminare la durata
dell’assegno nei casi in cui la ridotta capacità reddituale del richiedente sia dovuta a
ragioni contingenti o comunque superabili.
L’assegno non è dovuto nel caso in cui il matrimonio sia cessato o sciolto per violazione, da parte del richiedente l’assegno, degli obblighi coniugali ».
3. Ai sensi dell’articolo 1, comma 25,
della legge 20 maggio 2016, n. 76, le disposizioni introdotte dal comma 1 del presente
Atti Parlamentari — 3 — Camera dei Deputati
XVII LEGISLATURA A.C. 4605
articolo si applicano anche nei casi di scioglimento delle unioni civili.
4. Al comma 25 dell’articolo 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76, le parole: « dal
quinto all’undicesimo comma » sono sostituite dalle seguenti: « dal quinto al quindicesimo comma ».