Vanno restituite le somme relative ad un prestito personale effettuato dall’ex partner, poichè non sono riconducibili alle spese sostenute per la vita di coppia che come tali non sono ripetibili.

Cass. del 15 Maggio 2018, n. 11766
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –
Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –
Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Svolgimento del processo
1. S.F. ricorre per cassazione, sulla base di quattro motivi, avverso la sentenza n.
1526/14 del 17 giugno 2014 della Corte di Appello di Bologna, che – riformando la
sentenza pronunciata dal Tribunale di Ravenna n. 25/08 del 20 maggio 2008, in
accoglimento del gravame proposto da P.E. – ha condannato l’odierna ricorrente sia
a pagare al predetto P., a titolo di regresso ex art. 1950 c.c., la somma di Euro
5.388,15 (oltre interessi, nella misura legale, dal 22 gennaio 2007 al saldo), sia a
restituirgli, ciò che qui interessa, un prestito dal primo erogatole nella misura di
Euro 37.500,00.
2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente di aver intrattenuto, per circa sei
anni (dal 1998 al 2004), una convivenza more uxorio con il P., cimentandosi anche
in una comune attività imprenditoriale per il sostentamento della vita di coppia, con
scelta caduta su un negozio di abbigliamento, per la cui apertura veniva stipulato –
in data 4 novembre 2000 – un mutuo chirografario, sottoscritto da entrambi i
conviventi, ma in relazione al quale il P. rilasciava pure duplice garanzia
fideiussoria.
Assume, dunque, l’odierna ricorrente che ambedue i conviventi si sarebbero
occupati, con le stesse mansioni e pari capacità di gestione, dell’esercizio
commerciale suddetto, contribuendo, inoltre, economicamente alla vita di coppia
nei limiti delle proprie risorse.
Terminata la relazione affettiva nel giugno 2004, la S. ed il P. – secondo quanto si
legge sempre nel ricorso – cedevano ad un terzo acquirente, nei primi mesi del
2005, l’attività commerciale creata, senza che nessuna pretesa economica, in
occasione dell’operazione di vendita, fosse avanzata dal P..
Radicato da quest’ultimo un giudizio cautelare per la tutela del suo diritto,
ritenendo il P. che la S. fosse propria debitrice in forza delle fideiussioni da esso
prestate, oltre che in virtù di prestiti personali ammontanti ad Euro 37.500,00,
denegata la richiesta cautelare, l’adito Tribunale respingeva anche l’azione volta
all’accertamento del diritto dell’attore sia a rimanere indenne e manlevato da
qualsivoglia conseguenza pregiudizievole derivante dalle fideiussioni prestate (o, in
subordine, ad ottenere la ripetizione di tutte le somme che, per effetto delle stesse,
fosse stato tenuto a pagare), sia ad ottenere la restituzione dei prestiti effettuati.
Proposto appello dal P., la Corte felsinea, in accoglimento del gravame, provvedeva
nei termini sopra riassunti, e ciò sul rilievo dell’inesistenza, nel caso di specie, degli
“estremi per l’accertamento di una società di fatto” tra le parti, ovvero “per
affermare l’esistenza di una comunione di fatto dal punto di vista patrimoniale
estesa anche a rapporti estranei all’instaurata convivenza”.
Inoltre, quanto alla prima domanda attorea, la sentenza oggi impugnata
sottolineava che “la veste di fideiussore del P. ha un formale riscontro documentale
che non è possibile superare sulla base di considerazioni meramente indiziarie”.
Con particolare riferimento, poi, alla domanda di restituzione del prestito, la stessa
veniva accolta sulla base di un prospetto contabile, recante “l’indicazione dei soldi
resi ad E. e da dare ad E.”, dandosi atto come siffatta scrittura fosse stata
“sottoscritta dalla S.” (che provvedeva al riconoscimento di “sottoscrizione e
contenuto” della stessa, in occasione dell’interrogatorio formale), evenienza che ne
avrebbe avvalorato “la natura di atto formale e di riconoscimento di debito e non
meramente contabile”.
3. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Bologna ha proposto ricorso per
cassazione la S., sulla base – come detto di quattro motivi.
3.1. Con il primo motivo, si deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), –
“violazione degli artt. 1324, 1362 e 1963 c.c., e 2697 c.c., nonchè degli artt. 113 e 115
c.p.c.”, sul rilievo che sarebbero stati disattesi “i criteri ermeneutici di
interpretazione indicati dall’art. 1362 c.c. e ss.”, nonchè per essere stata “omessa la
ricostruzione della volontà delle parti”, oltre che per essere stato “posto a
fondamento della decisione una prova non proposta dalle parti”.
In particolare, si assume che il summenzionato prospetto contabile consisterebbe in
“un foglio non sottoscritto, contenente confusi dati numerici, nemmeno sommati
algebricamente e comunque interpretati senza essere posti in relazione al
comportamento delle parti e alla loro volontà”.
Più esattamente, la “completa assenza di sottoscrizione”, comporterebbe che il
giudice di appello, “in violazione di quanto imposto dall’art. 115 c.p.c.”, avrebbe
“posto a fondamento della propria decisione un documento inesistente, mai offerto
in produzione dalle parti”. Inoltre, la decisione impugnata avrebbe riconosciuto
“valore ricognitivo ad un calcolo (tot. Euro 37.500,00) che non ha neppure alcuna
connessione con i dati numerici che lo precedono, sommando algebricamente i
quali si giunge ad un risultato differente e pure inferiore”. Infine, si nega che “da
detto documento possa trasparire “una specifica intenzione ricognitiva” a favore del
P.”, atteso che – secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità – per
l’applicazione dell’art. 1988 c.c., sarebbe “necessaria la consapevolezza del
riconoscimento desunta da una dichiarazione univoca, tale da escludere che la
relativa dichiarazione possa avere finalità diverse o che il riconoscimento resti
condizionato da elementi estranei alla volontà del debitore.
Con specifico riferimento a tale ultimo profilo di doglianza, va rimarcato come la
ricorrente censuri la sentenza impugnata giacchè avrebbe “omesso di considerare”
che la dichiarazione de qua era “riferita ad un’attività gestita in comune dalle parti”
(il negozio di abbigliamento), come sarebbe stato agevole accertare sulla base di una
serie di dati, idonei a rivelare la effettiva volontà delle parti, e la cui mancata
valorizzazione integrerebbe, dunque, violazione dei criteri ermeneutici indicati dalla
legge. Rileverebbero, infatti, in tal senso: la disponibilità, da parte del P., del conto
corrente intestato alla ditta S.F., avendo delega completa ad operare su di esso, con
potere di emissione di assegni; la conduzione e definizione, sempre ad opera del
medesimo, degli accordi per la cessione a terzi dell’azienda; l’espresso consenso,
manifestato, per iscritto, a tale operazione, senza avanzare alcuna rivendicazione in
merito a propri asseriti crediti verso la S.; la fattiva ed assidua presenza del P. nella
gestione dell’esercizio commerciale.
3.2. Il secondo motivo, sempre prospettato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n.
3), ipotizza “violazione e falsa applicazione degli artt. 1987 e 1988 c.c.”,
segnatamente laddove la sentenza impugnata ha ritenuto che il suddetto prospetto
contabile fosse “di per sè fonte di obbligazione di pagamento”, così omettendo ogni
accertamento sul rapporto in cui detta dichiarazione risultava intervenuta.
Sul presupposto secondo cui “la promessa di pagamento e la ricognizione di debito
non costituiscono promesse unilaterali ai sensi dell’art. 1987 c.c., e dunque non
sono fonti di obbligazioni”, essendo la “loro efficacia limitata al tema della prova del
rapporto fondamentale che ne costituisce l’oggetto”, producendo solo una
“inversione dell’onere probatorio circa l’esistenza dell’obbligazione sottostante”, la
ricorrente censura la sentenza impugnata perchè avrebbe disatteso tali principi. In
base ad essi, si ipotizza nel ricorso, il riconoscimento del debito “comporta
unicamente l’inversione dell’onere della prova”, e ciò “in quanto la sua esistenza,
estensione, validità ed efficacia dipende dalla prova del rapporto obbligatorio in cui
interviene”. Orbene, nel caso di specie, la Corte di Appello di Bologna avrebbe
“completamente omesso l’accertamento del rapporto sottostante alla ritenuta
ricognizione”, e ciò “prescindendo dai “legami” esistenti tra le parti”, ed in
particolare “omettendo ogni opportuno accertamento” con riguardo alla
“comunione di fatto dal punto di vista patrimoniale”, esistente tra i conviventi more
uxorio ed “estesa anche ai rapporti estranei all’instaurata convivenza”.
3.3. Il terzo motivo è, invece, proposto simultaneamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c.,
comma 1, nn. 3) e 5), denunciandosi, da un lato, violazione e falsa applicazione
dell’art. 2034 c.c., e art. 430 c.c., comma 2, nonchè, dall’altro, l’omesso esame circa
un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero
“l’esistenza di obbligazioni naturali” a carico del P., statuendo erroneamente la
Corte felisinea il diritto dello stesso a ripetere quanto pagato in forza del loro
adempimento.
Si censura il fatto che il giudice di appello, nell’ambito di un’interpretazione
riduttiva dei doveri morali e sociali ravvisabili nelle relazioni more uxorio, avrebbe
erroneamente escluso che i versamenti di somme da parte del P. potessero
costituire adempimento di detti obblighi, disattendendo quella giurisprudenza di
legittimità che nega il diritto del convivente di ripetere le eventuali attribuzioni
patrimoniali effettuate nel corso o in relazione alla convivenza.
La sentenza impugnata, inoltre, non avrebbe ritenuto opportuno valutare
l’adeguatezza delle elargizioni rispetto alle consistenze patrimoniali del P. e della S.,
“limitandosi a vedere il rapporto tra le parti come una sterile interazione tra un
soggetto creditore e un soggetto debitore”, mentre il primo “contribuiva alla
gestione del negozio assiduamente e fattivamente”, giovandosi anche dei suoi ricavi.
3.4. Infine, il quarto motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), –
censura la sentenza impugnata per avere “completamente omesso di accertare
l’esistenza di una comunione di fatto” tra i due conviventi more uxorio, essendo
mancato nel ragionamento del giudice di seconde cure ogni riferimento a dati che lo
hanno indotto ad una simile conclusione.
4. Ha proposto controricorso P.E., per resistere all’avversaria impugnazione.
In punto di fatto, il controricorrente precisa che il documento prodotto nel presente
giudizio dalla S. (il prospetto contabile), del quale ella contesta l’idoneità a
costituire ricognizione di debito, in ragione, tra l’altro, dell’assenza di sottoscrizione,
costituirebbe solo l’estratto di un più ampio documento già presente agli atti dei due
gradi di merito del presente giudizio. Si tratterebbe, infatti, solo della prima di tre
complessive pagine dell’agenda su cui l’odierna ricorrente teneva la propria
contabilità, l’ultima delle quali recante non solo la sottoscrizione dell’interessata,
ma anche la stampigliatura della data in cui fu trasmessa via fax al commercialista.
Ciò premesso, e non senza ulteriormente precisare come controparte non abbia
“mai confutato esistenza ed ammontare delle elargizioni ricevute dal P., essendosi
limitata unicamente a contestare la natura di prestito”, l’odierno controricorrente
ribadisce come la S., nel corso dell’interrogatorio formale effettuato nel primo grado
di giudizio, abbia confermato il contenuto e la sottoscrizione del documento de quo.
Evidenzia, inoltre, che contrariamente a quanto sostenuto nell’avversario ricorso –
la somma algebrica degli importi indicati nel predetto documento (Euro 37.622,73)
corrisponde, sostanzialmente, a quella cifra di Euro 37.500,00 per la cui ripetizione
esso P. ha agito in giudizio, al netto di un piccolo arrotondamento al ribasso.
Quanto, poi, al merito delle censure avanzate dalla ricorrente, il P. sottolinea come
essa insista a sostenere, “per non restituire quanto ricevuto”, che i prestiti ricevuti
“rientrano nell’alveo delle obbligazioni naturali”. Così, tuttavia, non sarebbe,
giacchè “una cosa sono le spese sostenute per le necessità familiari” (delle quali esso
P., difatti, “si è mai sognato di tenere una contabilità analitica e dettagliata durante
il rapporto di convivenza, nè si è mai sognato di chiedere la restituzione dopo)”,
altro, invece, “i prestiti effettuati in favore dell’attività commerciale della S.”.
Infondata, poi, sarebbe la doglianza relativa alla “omissione” in cui la Corte di
Appello sarebbe incorsa quanto all’accertamento delle obbligazioni naturali, giacchè
il giudice di seconde cure avrebbe, piuttosto, espressamente “escluso” qualsiasi
ricostruzione dei rapporti intercorsi tra le parti che richiami il disposto dell’art.
2034 c.c.. Inoltre, si evidenzia come l’odierna ricorrente non abbia “mai offerto il
benchè minimo elemento di prova, atto a far ipotizzare che le somme le fossero
state corrisposte dal P. in adempimento di un’obbligazione naturale”.
Infine, quanto all’omesso esame della questione relativa all’esistenza di una
“comunione di fatto” tra i conviventi more uxorio, il P. – non senza previamente
evidenziare come l’accertamento della stessa non sarebbe stato richiesto da
nessuno, nè in primo nè in secondo grado, costituendo, così, una domanda nuova –
esclude, in ogni caso, che le risultanze istruttorie ne abbiano confermato la
ricorrenza. Si sottolinea, infine, come siffatta tesi non possa – in ogni caso – trovare
giuridico accoglimento, giacchè ciò equivarrebbe ad ipotizzare per i conviventi more
uxorio un “regime di comunione legale “in automatico”, senza neppure la possibilità
di scegliere un diverso regime patrimoniale, a differenza di quanto avviene per i
coniugi”, in disparte ogni altro rilievo circa le conseguente aberranti soprattutto in
termini di incertezza sulla circolazione dei beni derivanti dall’applicazione delle
regole dettate dall’art. 177 c.c..
5. Entrambe le parti hanno presentato memorie ex art. 378 c.p.c., ribadendo quanto
già affermato.
Motivi della decisione
6. Il ricorso è da respingere.
6.1. In particolare, i motivi primo, secondo e terzo – da trattare congiuntamente, in
quanto censurano, sotto diversi angoli visuali, la sentenza impugnata, laddove ha
ritenuto il prospetto contabile inviato dalla S. al proprio commercialista idoneo ad
integrare riconoscimento del debito, ai fini ed agli effetti di cui all’art. 1988 c.c. –
non sono fondati.
6.1.1. In particolare, con il primo motivo si contesta che il documento de quo possa
considerarsi espressivo di uno “specifico intento ricognitivo”, trattandosi di “un
foglio non sottoscritto, contenente confusi dati numerici, nemmeno sommati
algebricamente e comunque interpretati senza essere posti in relazione al
comportamento delle parti e alla loro volontà”.
Proposta la censura in questi termini (e non, invece, lamentando che la
ricognizione, perchè possa spiegare i suoi effetti, deve essere “rimessa direttamente
dall’obbligato al creditore, senza intermediazioni”, cfr. Cass. Sez. 3, sent. 14 febbraio
2012, n. 2104, Rv. 621529-01), la stessa va rigettata.
E ciò non soltanto perchè i dubbi sull’assenza della sottoscrizione e sulla congruità,
dal punto vista algebrico, delle cifre in esso riportate, sono superabili sulla scorta
dei rilievi proposti dal controricorrente P., ma soprattutto in ragione delle
considerazioni che seguono.
Sul punto, infatti, va ribadito che la “ricognizione di debito, come qualsiasi altra
manifestazione di volontà negoziale, può risultare anche da un comportamento
tacito, purchè inequivoco, tale essendo il contegno che nessuno terrebbe se non al
fine di riconoscersi debitore, e senza altro scopo se non quest’ultimo” (Cass. Sez. 3,
sent. 21 luglio 2016, n. 14993, Rv. 641448-01), dovendo inoltre compiersi,
nell’interpretazione dell’atto ricognitivo, “una ricostruzione dell'”intenzione delle
parti” (rilevante sotto il profilo di cui all’art. 1362 cod. civ.) afferente, in via
esclusiva, alla volontà espressa dal dichiarante, e non certamente a quella – peraltro,
del tutto ipotetica del destinatario di quelle dichiarazioni” (Cass. Sez. 3, sent. 1
agosto 2002, n. 11433, Rv. 556500-01). Proprio a tale ultima volontà, per contro,
pretenderebbe di attribuire rilievo la ricorrente, richiamando il contributo del P.
alla gestione della (asseritamente) comune attività imprenditoriale.
Corrobora, d’altra parte, l’esito del rigetto anche il rilievo secondo cui “l’indagine sul
contenuto e sul significato della dichiarazione al fine di stabilire se importino
ricognizione di debito ai sensi dell’art. 1988 c.c., rientra nel potere discrezionale del
giudice di merito” (cfr. Cass. Sez. 1., sent. 1 febbraio 2007, n. 2205, Rv. 595044-01),
potere ormai sindacabile solo entro le strette maglie del “novellato” testo dell’art.
360 c.p.c., comma 1, n. 5).
6.1.2. Ciò premesso, spostando l’analisi dal piano della astratta “idoneità ad
esprimere l’intento ricognitivo”, propria della dichiarazione suddetta, a quello –
evocato dal secondo motivo di ricorso – degli effetti destinati a scaturire da essa,
deve qui ribadirsi come l’odierna ricorrente censuri il fatto che l’astrazione
processuale, conseguente all’avvenuta ricognizione, obbligasse il giudice di appello a
compiere “l’accertamento del rapporto sottostante alla ritenuta ricognizione”, ciò
che il medesimo avrebbe dovuto fare senza poter prescindere “dai “legami” esistenti
tra le parti”, ed in particolare dalla supposta “comunione di fatto” tra i già
conviventi more uxorio.
Ai fini del rigetto del motivo, tuttavia, è sufficiente osservare come la già ricordata
astrazione processuale conseguente alla ricognizione si sostanzi in una “relevatio ab
onere probandi” che dispensa il destinatario della dichiarazione dalla necessità di
provare il rapporto sottostante al debito riconosciuto, che si presume fino a prova
contraria, salvo, appunto, che “la parte da cui provenga dimostri che il rapporto
medesimo non sia stato instaurato, o sia sorto invalidamente” (Cass. Sez. 1, sent. 13
giugno 2014, n. 13506, Rv. 631306-01), ovvero “che esista una condizione o un altro
elemento ad esso attinente che possa comunque incidere sull’obbligazione derivante
dal riconoscimento” (Cass. Sez. 1, sent. 13 ottobre 2016, n. 20689, Rv. 642050-03).
Conseguentemente, non era il giudice a dover accertare quale fosse il rapporto
sottostante, ma essa S. a doverne dimostrare l’inesistenza, l’estinzione o l’invalidità.
6.1.3. Ne deriva, pertanto, che il discorso finisce – di nuovo – con il traslare su di un
ulteriore piano (al quale fa riferimento il terzo motivo di ricorso), ovvero quello
della supposta erroneità della decisione impugnata nell’escludere che i versamenti
di somme da parte del P. potessero costituire adempimento di obbligazioni naturali
verso la convivente S..
Nondimeno, anche questo motivo è destinato al rigetto.
Se, infatti, è innegabile – come argomenta la ricorrente nel proprio atto di
impugnazione – che le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente more uxorio
effettuate nel corso del rapporto configurino l’adempimento di una obbligazione
naturale ex art. 2034 c.c., purchè a condizione che siano rispettati i principi di
proporzionalità e di adeguatezza (cfr. Cass. Sez. 1, sent. 22 gennaio 2014, n. 1277,
Rv. 629802-01; Cass. Sez. 2, sent. 13 marzo 2003, n. 3713, Rv. 651116-01), siffatta
conclusione non giova, di per sè, alla S..
Sarebbe stato, infatti, suo onere dimostrare che gli importi – pari,
complessivamente, a Euro 37.500,00 – risultanti dal documento dalla stessa
sottoscritto (ed indicati, tra l’altro, come “da dare ad E.”), dei quali il P. ha
reclamato la restituzione, fossero proprio quelli corrispondenti, invece, ad
attribuzioni compiute dallo stesso in adempimento degli obblighi nascenti dal
rapporto di convivenza.
Valga, sul punto, rilevare che se il destinatario della dichiarazione ex art. 1988 c.c.,
“stante l’astrazione della causa debendi”, allorchè agisca “per l’adempimento della
obbligazione”, ha soltanto l’onere di provare la ricorrenza della promessa o della
ricognizione di debito, “e non anche la esistenza del rapporto giuridico da cui essa
trae origine”, incombe, invece, all’autore della dichiarazione “l’onere di provare la
inesistenza o la invalidità o l’estinzione del rapporto fondamentale”; di
conseguenza, “è di palmare evidenza che non è sufficiente perchè detto onere possa
dirsi adempiuto, che lo stesso affermi e dimostri che “altro” rapporto fondamentale
è stato estinto”, essendo, invece, indispensabile non tanto la dimostrazione che “in
precedenza esisteva un rapporto di debito e credito e questo, per qualsiasi motivo, si
è estinto, ma che esista coincidenza – concreta tra tale rapporto (di cui è data la
prova) e quello “presunto” per effetto della ricognizione di debito e non (…) una
mera “compatibilità” astratta tra i due titoli” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3,
sent. 23 febbraio 2006, n. 4019, Rv. 587935-01).
6.2. Infine, il quarto motivo è inammissibile.
Esso, a tacer d’altro (ovvero al profilo di “novità” denunciato dal controricorrente,
idoneo a comportare il medesimo esito processuale: cfr., ex multis, Cass. Sez. 1,
sent. 25 ottobre 2017, n. 25319; Rv. 645791-01), si sostanzia nella censura, più che
dell’omesso esame di un “fatto”, della mancata disamina, da parte della Corte
felsinea, della questione giuridica della configurabilità di una “comunione di fatto”
(a somiglianza della comunione patrimoniale tra i coniugi) tra i conviventi more
uxorio.
Così intesa, dunque, la censura non appare idonea ad integrare, neppure
astrattamente, il vizio suscettibile di riconduzione al novellato testo dell’art. 360
c.p.c., comma 1, n. 5), visto che esso deve investire “non una “questione” o un
“punto” della sentenza” (come avvenuto, invece, nel presente caso), “ma un fatto
vero e proprio, e quindi un fatto principale, ex art. 2697 c.c. (cioè, un fatto
costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo), oppure secondario (cioè, dedotto
in funzione di prova di un fatto principale)”; cfr., da ultimo, in motivazione Cass.
Sez. 1, sent. 8 settembre 2016, n. 17761, R. 641174-01; in senso analogo – sulla
necessità che l’omesso esame investa sempre un “fatto storico, principale o
secondario” – si veda anche Cass. Sez. 6-5, ord. 4 ottobre 2017, n. 23238, Rv.
646308-01.
7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo, ai sensi
del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
8. A carico della ricorrente, rimasta soccombente, sussiste l’obbligo di versare un
ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio
2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e condanna S.F. a rifondere ad P.E. le spese del
presente giudizio, che liquida in Euro 9.600,00, più Euro 200,00 per esborsi e
spese forfettarie nella misura del 15%, oltre accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo
introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il
ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della
Corte di Cassazione, il 24 ottobre 2017.
Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2018

Servono nuovi, giustificati motivi per la revoca dell’assegno, tanto più se le condizioni del beneficiario non consentono una prognosi positiva.

Tribunale di Milano, 31 maggio 2018
Rilevato che con ricorso ex art. 9 L. 898 del 1/12/1970 depositato in data 22/12/2017 da (omissis) nei
confronti di (omissis), iscritto al numero di ruolo di cui sopra il medesimo, premesso in fatto che il
Tribunale di Milano, con sentenza di divorzio n. 7210/2004 aveva disposto, tra l’altro, il concorso del
marito al mantenimento della moglie in Euro 620,00 mensili chiedeva la revoca del predetto assegno o, in
via subordinata, la sua riduzione ad una cifra simbolica.
A fondamento di tale richiesta il ricorrente, narrate le pregresse vicende personali ed economiche, ha
posto la circostanza di trovarsi in una situazione economica modificata in peius rispetto al tempo del
divorzio; di aver costituito una nuova famiglia, diventando padre di due figli ancora minorenni e bisognosi
di crescenti esborsi ed, infine, di avere spese fisse per il mutuo della casa di abitazione. Riferiva di aver
sempre adempiuto all’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile – nonostante le difficoltà – per
obbligo anche morale verso l’ex moglie, affetta da sclerosi multipla e di aver appreso che la stessa svolge
regolare attività lavorativa, seppure parziale, ed è intestataria di vari immobili siti in Milano, tra cui anche
la casa di abitazione. Chiedeva quindi la revoca dell’assegno divorzile.
Rilevato, altresì, che parte resistente si è costituita con memoria difensiva nella quale, contestando le
affermazioni dell’ex marito, preliminarmente evidenziava di essere affetta da sclerosi multipla in stato
avanzato, con notevole incidenza di tale situazione sulla propria autonomia, sia fisica che economica.
Sottolineava come il proprio reddito fosse rimasto immutato dall’epoca del divorzio, ma di dover incorrere
(pur contenendole al massimo) in notevoli ed esorbitanti spese necessarie per il soddisfacimento delle
proprie esigenze quotidiane e di essere stata costretta a cambiare casa dovendo trovare un alloggio
idoneo alla mobilità in carrozzina (cui è attualmente obbligata) utilizzando per l’acquisto tutti i propri
risparmi (compresi i soldi ricevuti a titolo di corrispettivo della cessione al marito della quota di proprietà
della casa coniugale e la piccola eredità materna). All’udienza del 4/4/2018 precisava di percepire Euro
765 mensili a titolo di retribuzione; di percepire una pensione di invalidità con assegno di
accompagnamento pari a complessivi Euro 865 mensili e di godere di redditi provenienti dalla locazione di
un immobile di proprietà pari ad Euro 670 mensili. Infine, di aver goduto per l’anno 2017 di un buono
sociale di Euro 350 mensili. Di contro, faceva rilevare come il marito mai le aveva riconosciuto la
rivalutazione ISTAT (per effetto della quale l’assegno oggi ammonterebbe ad Euro 751,44 mensili e per la
quale avrebbe maturato arretrati per circa Euro 12.000), mentre i redditi del sig. (omissis…) non
avrebbero subito diminuzione alcuna dal momento che il medesimo, che precedentemente era lavoratore
autonomo, ora svolgerebbe la propria attività attraverso la società (omissis…) srl dallo stesso partecipata
al 90% (la restante quota fa capo all’attuale moglie) della quale ricoprirebbe anche la carica di
amministratore unico. Inoltre, che i figli erano già nati al momento del divorzio e che pertanto questa
circostanza era già stata tenuta presente nella determinazione delle condizioni di divorzio; nonché di
poter contare, l’ex marito, sull’aiuto e sull’appoggio, anche economico, della moglie. Chiedeva quindi il
rigetto del ricorso.
Rilevato che le parti sono state sentite personalmente dinanzi al GOT delegato dott.ssa Angelamaria
Serpico alle udienze del 4/4/2018 e dell’8/5/2018 anche ai fini di un tentativo di conciliazione e che
questo rimaneva infruttuoso, non avendo accettato il sig. (omissis) la proposta del giudice e la sig.a
(omissis…) la controproposta del ricorrente. La causa veniva quindi rimessa alla decisione del Collegio.
Rilevato che il sig. (omissis) ha documentato in causa i seguenti redditi netti percepiti l’anno del divorzio
(PF 2004): Euro : (omissis) (imponibile: Euro (omissis); imposta netta Euro (omissis): addizionali a Euro
(omissis) pari ad Euro (omissis) circa netti mensili. Per l’anno di imposta 2016 ha documentato i seguenti
redditi (CU 2017): Euro (omissis…) (imponibile: Euro (omissis) imposta netta Euro (omissis) addizionali a
Euro (omissis…) pari ad Euro (omissis) circa netti mensili. Non vi è altra produzione fiscale per tale anno
di imposta. Il finanziamento per il riferito acquisto della casa di proprietà (mutuo ipotecario non fondiario)
è stato stipulato il (omissis) per l’importo di Euro 200.000, ed è cointestato al ricorrente ed all’attuale
moglie.
Rilevato che quanto alla situazione reddituale della sig.a (omissis) all’epoca del divorzio, risultano
comprovati in giudizio i seguenti redditi netti relativi all’anno di imposta 2002 (730/2003) Euro

(imponibile Euro (omissis) imposta netta Euro (omissis); addizionali Euro (omissis) pari ad Euro (omissis)
circa netti mensili. Per l’anno di imposta 2016 (PF 2017) risultano i seguenti redditi netti: Euro (omissis)
(imponibile Euro imposta netta (omissis), addizionali (omissis).L’assegno del coniuge dichiarato ammonta
ad Euro (omissis) pari ad Euro (omissis) circa netti mensili comprensivo quindi dell’assegno rimessole dal
coniuge. La sig.a (omissis) risulta altresì proprietaria di quattro fabbricati, di cui uno locato con canone di
locazione pari ad Euro 3.420;
osservato che non è contestazione la condizione di patologia specifica da cui la resistente è affetta non
essendo questa circostanza contestata neppure dal ricorrente il quale, nelle dichiarazioni rese davanti al
GOT delegato, ha confermato di aver sempre prestato assistenza alla ex coniuge- affetta da sclerosi
multipla- per 18 anni e di esserle ” stato vicino da 38 anni”: sono documentati i rilevanti costi
necessariamente connessi alle terapie – con rilevante costo- necessarie per la resistete oltre che ai costi
connessi al suo mantenimento (tra cui quelli per il personale di servizio per la necessaria assistenza);
osservato che il ricorrente, fonda la propria richiesta sui criteri interpretativi dettati dalla sentenza della
Suprema Corte n. 11504/17 e, applicando la chiave di lettura innovativamente fornita dalla nuova e
recente pronunzia , ritiene che la resistente debba essere considerata economicamente autosufficiente
per effetto dei propri beni e dalle sostanze di cui la medesima dispone che —a dire del ricorrentegarantirebbero
alla medesima di provvedere in via autonoma al proprio mantenimento in condizione di
piena indipendenza economica;
rilevato che la recente statuizione della Cassazione richiamata dal ricorrente – al momento della presente
decisione sottoposta, peraltro, al vaglio delle sezioni unite che sul punto sono stato chiamate a
pronunziarsi- ha ribadito la natura assistenziale dell’assegno divorzile;
osservato che, sempre la suprema Corte di Cassazione con la pronunzia n. 15481/2017 ha ribadito che la
“nuova” valutazione della sussistenza dell’autosufficienza economica necessaria per escludere il diritto alla
percezione dell’assegno divorzile è applicabile anche ai procedimenti per modifica delle condizioni di
divorzio sempre che si sia in presenza di “giustificati motivi” che innovino il quadro economico
patrimoniale di riferimento: in altri termini è ben possibile che il Tribunale sia chiamato a rivalutare la
sussistenza di una condizione di autosufficienza/indipendenza economica di un ex coniuge (già
beneficiario di un assegno divorzile), purché tale giudizio si innesti sulla prova oggettiva del presupposto
per ottenere una modifica delle statuizioni in essere. In altri termini, la sola pronunzia seppur autorevole
della Cassazione che impone di prescindere, ai fini della valutazione della indipendenza/autosufficienza
economica dei coniugi dal tenore di vita, potrà essere utilizzato nei giudizi di modifica solo e sempre sé
via sia “in concreto” una modificazione che giustifichi il ricorso all’autorità giudiziaria ossia allorché sia
data la prova di un deterioramento significativo della posizione economica dell’onerato, ovvero di un
significato miglioramento della posizione economica dell’ex coniuge già titolare di assegno divorzile.
Orbene, alla luce di tutti gli elementi disponibili, ritiene il Collegio che la vicenda sottoposta al vaglio del
Tribunale non possa in alcun modo giustificare e fondare la richiesta del ricorrente di revoca dell’obbligo di
corrispondere alla resistente un assegno divorzile, né giustifichi una riduzione dell’ammontare
dell’assegno come stabilito in sede di divorzio (e oggi rivalutato). Ed invero la puntuale ricostruzione della
posizione reddituale e patrimoniale dell’obbligato consente di affermare che vi sia stato un minimo e non
significativo scollamento nella posizione reddituale di cui il ricorrente dispone: il medesimo peraltro, è
socio al 90% con l’attuale moglie della (omissis…) srl e proprio per la qualifica e il ruolo ricoperto può
pressoché integralmente determinare l’ammontare dei proprio emolumenti. Ad oggi è impegnato
nell’attività lavorativa nella predetta società – che per sua stessa ammissione- produce utili che il
ricorrente” ripartisce”. La quota societario, in ogni caso, rappresenta ad oggi un valore. Non sono
comprovati maggiori esborsi ed oneri di mantenimento per carichi familiari potendo peraltro il ricorrente
contare, anche per la suddivisione degli oneri medesimi, sulla propria moglie, in possesso di integra
capacità lavorativa e in salute.
Se nessuna variazione può quindi ravvisarsi nella posizione dell’obbligato, deve al contrario rilevarsi che la
resistente ha mutato successivamente al divorzio la propria coesistenza patrimoniale: grazie alle somme
percepire in sede di separazione, e con gli introiti derivati dall’eredità materna ha potuto acquistare un
immobile ” adatto” alla propria attuale condizione patologica: l’acquisto dell’immobile, lungi dal
rappresentare un “lusso” è una necessità connessa alla invalidante patologia da cui la medesima è

affetta. L’acquisto del nuovo immobile, peraltro, ha determinato la possibilità di locare la vecchia
abitazione come pacificamente dichiarato in atti. Ora ritiene il Collegio che la posizione della resistente
non sia affatto migliorata rispetto all’epoca del divorzio dal momento che il descritto incremento
patrimoniale e il flusso di cassa connesso alla messa a reddito dell’immobile in precedenza adibito a
propria residenza è stato solo parzialmente compensato dai maggiori costi e oneri che la resistente deve
necessariamente sostenere per la propria patologia. Ora non può tacersi che le condizioni di salute della
resistente, proprio per la tipologia di patologia da cui è affetta (neppure lontanamente paragonabile ai
problemi di salute- diabete- dedotti dal ricorrente), non consentano di formulare una prognosi evolutiva
positiva né dell’evoluzione della malattia – si tratta notoriamente di patologia degenerativa- né di
riduzione dei costi di cura e di vita che, invero, è poco verosimile affermare possano in futuro ridursi
rispetto agli attuali. Proprio le condizioni oggettive – di vita (età) e di salute (grave patologia
degenerativa)- della resistente inducono il Collegio ad affermare che la Sig.ra (omissis) – pur dotata di
redditi e di un patrimonio- non è oggi economicamente auto sufficiente, dal momento che i beni e i redditi
di cui dispone non le consentono, in via autonoma, di condurre una esistenza libera e dignitosa (Cass. n.
11538/2017: in altri termini, non le consentono di far fronte, – proprio in ragione della significativa entità
degli esborsi che la stessa deve sostenere per il fatto stesso di poter vivere- a quanto necessario per
poter affrontare con dignità la proprio vita ” come singola” e non più come parte di quella coppia che,
cessato il vincolo coniugale, non c’è più. Non si tratta di tenore di vita, si tratta di “necessarietà” dei costi
essenziali ed incomprimibili del vivere dai quali non può prescindere il curarsi e il doversi occupare, in
autonomia, di sé.
Alla luce di tutte le considerazioni sopra esposte, la domanda del ricorrente, infondata in fatto e in diritto,
deve essere rigetta.
Alla soccombenza consegue la condanna del ricorrente alla rifusione in favore della resistente delle spese
di lite che, in assenza di note specifiche, si liquidano in Euro 2.700,00 oltre 15% rimborso forfettario, cpa
e iva come per legge.
P.Q.M.
1. Rigetta il ricorso ex art. 9 l. 898 del 1/12/1970 depositato in data 22/12/2017 da (omissis), nei
confronti di (omissis);
2. Condanna (omissis) al pagamento in favore di (omissis) delle spese processuali che, liquida in Euro
2.700,00 oltre 15% rimborso forfettario, cpa e iva come per legge.

Non sono ricorribili per cassazione i provvedimenti modificativi, ablativi o restitutivi della potestà dei genitori, resi dal giudice minorile ai sensi degli artt. 330, 332, 333 e 336 c.c.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 13501/2017 proposto da:
G.D., elettivamente domiciliata in Roma, Via Pompeo Magno n. 23/A, presso lo studio dell’avvocato Comandè Carlo (Studio Legale Proia & Partners), rappresentata e difesa dagli avvocati Figone Alberto, Mirto Caterina, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
P.G., elettivamente domiciliata in Roma, Via Germanico n. 197, presso lo studio dell’avvocato D’Amico Felicia, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositato il 11/04/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 30/05/2018 dal Cons. Dott. NAZZICONE LOREDANA.
Svolgimento del processo
È proposto ricorso avverso il decreto della Corte d’appello di Palermo che ha parzialmente modificato il provvedimento del Tribunale, stabilendo che la signora P.G. incontri e tenga con sé i minori, figli dell’ex partner, un pomeriggio a settimana e due fine-settimana al mese.
L’intimata ha depositato il controricorso.
Le parti hanno, altresì, depositato la memoria di cuiall’art. 380-bis c.p.c., comma 1.

Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo, la ricorrente censura la violazionedell’art. 336 c.c.,art. 337-ter c.c., comma 1 eart. 38 disp. att. c.c., in quanto controparte aveva agito exart. 337-ter c.c., pur non essendovi legittimata in quanto non parente della minore, mentre avrebbe solo potuto rivolgersi al P.M. per instaurare un procedimento exart. 336 c.p.c., ma dinanzi al giudice minorile, come previsto dall’art. 38 cit..
Con il secondo motivo, deduce la violazione e falsa applicazionedell’art. 336 c.p.c., comma 1 eartt. 69, 70, 72 c.p.c., in quanto il P.M. non aveva potere di azione all’interno dell’originario procedimento intrapreso exart. 337-ter c.c., nel quale egli era intervenuto.
Con il terzo motivo, lamenta la violazionedell’art. 338 c.c.e art. 38 att. c.c., con violazione delle norme sulla competenza, in quanto la domanda avrebbe dovuto essere proposta innanzi al Tribunale per i minorenni.
Con il quarto motivo, deduce l’omesso esame di fatto decisivo, per non avere la corte del merito ammesso altri mezzi istruttori.
Con il quinto motivo, censura la violazione e falsa applicazionedell’art. 337-ter c.c., delle Convenzioni di New York e di Strasburgo e dell’art. 8 Cedu, in quanto i c.t.u. non hanno valutato i fatti all’attualità.
2. – Il ricorso è inammissibile.
2.1. – I provvedimenti di c.d. giurisdizione camerale o volontaria o non contenziosa mirano ad adeguare costantemente la realtà giuridica a quella di fatto. In aderenza al mutamento delle condizioni concrete, ed al fine di operare un regolamento degli interessi quanto più aderente alle esigenze materiali, l’ordinamento in taluni casi consente la riconsiderazione della situazione, ad opera dello stesso giudice che abbia provveduto o di un giudice superiore.
Sono le ipotesi in cui il soggetto, ove mutino le circostanze, ha il potere (ma potrebbe darsi anche il dovere) di ricorrere nuovamente al giudice, per chiedere la revoca, la modifica o l’integrazione del precedente provvedimento, che non si adatta più a regolare al meglio la mutata situazione di fatto.
Nel contempo, quindi, tali provvedimenti ammettono – mediante il reclamo exart. 739 c.p.c.- di adire il giudice superiore per ottenere una decisione diversa, pur sulla base delle medesime risultanze processuali; ammettono altresì di instare per la revoca o la modifica del provvedimento exart. 742 c.p.c..
Vi sono, infine, talune situazioni in cui il legislatore ha escluso persino questa non definitiva stabilità, non richiedendo neppure un mutamento delle circostanze per rimettere in discussione un dato regolamento giudiziale degli interessi: sono i casi in cui la scelta è stata quella, ispirata alla particolare delicatezza delle situazioni coinvolte, della continua ed aperta possibilità di riconsiderazione anche allo stato degli atti, sovente ad istanza del pubblico ministero.
Nel settore dei rapporti familiari, è particolarmente sentita l’esigenza dell’adeguamento della regolamentazione giuridica alla situazione di fatto.
In particolare, ai sensidell’art. 333 c.c., ove la condotta di un genitore sia pregiudizievole al figlio, il giudice “secondo le circostanze può adottare i provvedimenti convenienti” che “sono revocabili in qualsiasi momento”.
Tale amplissima possibilità conferma quanto si andava dicendo circa l’intenzione dell’ordinamento di offrire gli strumenti giudiziari di intervento nel merito, in qualsiasi momento si renda opportuno.
Ne deriva che nei provvedimenti in esame la definitività, in particolare, certamente manca.
Questa Corte ha già sancito, con principio dal quale non vi è ragione di discostarsi, che “(i) provvedimenti modificativi, ablativi o restitutivi della potestà dei genitori, resi dal giudice minorile ai sensi degliartt. 330, 332, 333 e 336 c.c., configurano espressione di giurisdizione volontaria non contenziosa, perché non risolvono conflitti fra diritti posti su un piano paritario, ma sono preordinati alla esigenza prioritaria della tutela degli interessi dei figli e sono, altresì, soggetti alle regole generali del rito camerale, sia pure con le integrazioni e specificazioni previste dalle citate norme, sicché detti provvedimenti, sebbene adottati dalla corte d’appello in esito a reclamo, non sono idonei ad acquistare autorità di giudicato, nemmeno rebus sic stantibus, in quanto sono modificabili e revocabili non solo ex nunc, per nuovi elementi sopravvenuti, ma anche ex tunc, per un riesame (di merito o di legittimità) delle originarie risultanze, con la conseguenza che esulano dalla previsionedell’art. 111 Cost.e non sono impugnabili con ricorso straordinario per cassazione” (Cass. 22 settembre 2016, n. 18562; Cass. 31 luglio 2015, n. 16227; Cass. 17 giugno 2009, n. 14091; Cass. 5 febbraio 2008, n. 2756; Cass. 5 marzo 2008, n. 5953; Cass. 23 gennaio 2007, n. 1480).
Difettando, invero, secondo i concetti elaborati dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte, i requisiti di decisorietà e definitività, non sono ricorribili ai sensidell’art. 111 Cost., i provvedimenti adottati in sede di reclamo nell’interesse del minore.
2.3. – Nella specie, si verte in tema di visita delle minori alla persona che aveva precedente rapporto affettivo con la loro madre e con le minori medesime, secondo gli apprezzamenti compiuti dai giudici di merito.
Il procedimento rientra, quindi, nella giurisdizione non contenziosa, in quanto non è volto a risolvere un conflitto tra diritti del genitore e di altra persona adulta, posti su un piano paritario, bensì preordinato all’esigenza prioritaria di tutela degli interessi del minore, mentre, sul piano processuale, il provvedimento soggetto alle regole generali del rito camerale, sia pure con le integrazioni e specificazioni previste dagliartt. 333 e 336 c.c., come tale inidoneo ad acquistare autorità di giudicato, neppure rebus sic stantibus, perché modificabile e revocabile non solo ex nunc, per nuovi elementi sopravvenuti, ma anche ex tunc, sulla base di un riesame di merito o di legittimità delle originarie risultanze processuali.
Nel casodell’art. 333 c.c., come esposto, il legislatore richiede ancora meno del mutamento delle circostanze, perché il giudice del merito possa tornare sul caso: anche riesaminando il precedente decisum.
Trattandosi di un provvedimento che difetta della definitività, pertanto, esso non è impugnabile, ai sensidell’art. 111 Cost., con ricorso straordinario per cassazione.
2.4. – In conclusione, va enunciato il seguente principio di diritto:
“Il decreto con cui l’autorità giudiziaria assume i “provvedimenti convenienti” per l’interesse del minore, ai sensidell’art. 333 c.c., al fine di superare la condotta pregiudizievole del genitore, ha natura di atto di giurisdizione non contenziosa ed è privo di carattere definitivo, in quanto revocabile e reclamabile, sia per il disposto speciale di cui al comma 2 della disposizione menzionata, sia secondo le regole generali degliartt. 739 e 742 c.p.c.e, conseguentemente, non è ricorribile per cassazione ai sensidell’art. 111 Cost., comma 7″.
3. – Le spese di lite vengono interamente compensate per la natura della controversia.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e compensa tra le parti le spese di lite.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.

Le madri condannate per un “delitto ostativo” possono assistere all’esterno i figli in tenera età

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.21-bisdellaL. 26 luglio 1975, n. 354(Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Magistrato di sorveglianza di Lecce e Brindisi, nel procedimento su reclamo di M. D.D., con ordinanza del 22 maggio 2017, iscritta al n. 142 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Udito nella camera di consiglio del 4 luglio 2018 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
1.- Con ordinanza del 22 maggio 2017, iscritta al n. 142 del registro ordinanze 2017, il Magistrato di sorveglianza di Lecce e Brindisi ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 29, 30 e 31 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art.21-bisdellaL. 26 luglio 1975, n. 354(Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui tale disposizione, facendo rinvio all’art. 21 della medesima L. n. 354 del 1975, esclude dal beneficio dell’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci il detenuto condannato “per reato ostativo” che non abbia ancora espiato almeno un terzo della pena.
1.1.- Le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate dal giudice chiamato a decidere il reclamo presentato, ex art.35-bisdellaL. n. 354 del 1975, da M. D.D., condannata alla pena di quattro anni e dieci mesi di reclusione per i delitti di cui agli artt.73e74delD.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309(Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), con fine pena al 30 maggio 2021.
Il giudice a quo ricorda che la condannata, in quanto madre di tre figli (due gemelli di cinque anni e un figlio di tre anni), ha chiesto all’amministrazione penitenziaria di essere ammessa all’assistenza all’esterno dei figli minori ai sensi dell’art.21-bisdellaL. n. 354 del 1975, ma che tale istanza è stata rigettata, in quanto M. D.D. non ha ancora espiato un terzo della pena. Tale requisito è previsto dall’art. 21, comma 1, cui rinvia la disposizione da ultimo citata, per i detenuti condannati per uno dei reati elencati all’art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater, della L. n. 354 del 1975. Il difensore di M. D.D., nell’insistere per l’accoglimento del reclamo, ha dedotto l’illegittimità costituzionale del ricordato art. 21-bis.
Il giudice rimettente osserva che le questioni di legittimità costituzionale eccepite dalla parte sarebbero rilevanti, atteso che, con il reclamo presentato ex art. 35-bis, è stato lamentato – ai sensi dell’art. 68, comma 2, lettera b) recte: art.69, comma 6, lettera b), della L. n. 354 del 1975- l’attuale e grave pregiudizio determinato dall’adozione di un atto di rigetto dell’ammissione al beneficio da parte dell’amministrazione penitenziaria, la quale ha assunto la propria decisione sulla base dell’art.21-bisdellaL. n. 354 del 1975.
Evidenzia, inoltre, il giudice a quo che, sebbene a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 76 del 2017 la detenuta possa avanzare istanza per l’accesso alla detenzione domiciliare speciale ex art.47-quinquiesdellaL. n. 354 del 1975, ella “in concreto” non risulterebbe “ancora nelle condizioni di merito per accedere alla misura alternativa, attesa l’esiguità della pena espiata e la valutazione di prematurità per l’avvio di una progettualità in esternato, espressa anche dall’Equipe di Osservazione”.
Ad avviso del rimettente, la misura alternativa alla detenzione prevista dal citato art. 47-quinquies costituirebbe uno strumento trattamentale non sovrapponibile, bensì complementare e progressivo, rispetto a quello dell’assistenza all’esterno dei figli minori, che conserva carattere inframurario.
Ne consegue – secondo il rimettente – che la detenuta ha interesse alla fruizione del beneficio penitenziario previsto dall’art.21-bisdellaL. n. 354 del 1975pur successivamente alla decisione della Corte costituzionale n. 76 del 2017.
1.2.- Nel merito, il rimettente ricorda che la disposizione censurata fu introdotta dallaL. 8 marzo 2001, n. 40(Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori), ossia da una legge preordinata a tutelare il diritto del minore a mantenere, nella prima infanzia, un sano e corretto rapporto con la madre detenuta in un contesto diverso da quello carcerario, del tutto inadatto a tale scopo.
La disposizione censurata, contenendo quel che il rimettente definisce un “automatismo di preclusione assoluta” all’accesso al beneficio, si porrebbe, invece, in contrasto con gliartt. 3, 29, 30 e 31 Cost.e, in particolare, con il diritto del minore a mantenere un rapporto con la madre all’esterno del carcere (diritto, peraltro, già riconosciuto dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva conL. 27 maggio 1991, n. 176, e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007). In particolare, l’art.21-bisdellaL. n. 354 del 1975sarebbe in contrasto con il principio secondo cui il “superiore e preminente” interesse del minore può essere “limitato”, in occasione di decisioni assunte “da autorità pubbliche o istituzioni private”, solo a seguito di un bilanciamento con interessi contrapposti (come quelli di difesa sociale sottesi all’esecuzione della pena).
Affermando di non ignorare che tale bilanciamento è rimesso a scelte discrezionali di politica legislativa, il giudice a quo lamenta, tuttavia, che la disposizione censurata si limiterebbe “a fissare una preclusione rigida” e che essa impedirebbe la concessione del beneficio prima che sia stato espiato un congruo periodo di pena, senza che possa essere verificata in concreto la sussistenza di una prevalente ragione che alla concessione di tale beneficio si opponga.
La disposizione censurata si inserirebbe, inoltre, disarmonicamente in un sistema che consente alle madri condannate per delitti ostativi di essere da subito ammesse, a prescindere dall’entità della pena da espiare, alla misura alternativa della detenzione domiciliare ordinaria, nelle ipotesi in cui è possibile disporre il rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi degliartt. 146 e 147 del codice penale(art. 47-ter, comma 1-ter, dellaL. n. 354 del 1975) e, in forza della sentenza della Corte costituzionale n. 76 del 2017, alla misura della detenzione domiciliare speciale (art. 47-quinquies, comma 1-bis, dellaL. n. 354 del 1975). In tale contesto, il censurato art. 21-bis si porrebbe “come ultimo tassello normativo costituzionalmente illegittimo”, in quanto esclude dal beneficio, sia pur temporaneamente, le condannate per reato ostativo, con una presunzione di assoluta immeritevolezza.
Precisa, infine, il giudice a quo che la circostanza che la detenuta possa chiedere di essere ammessa alla misura della detenzione domiciliare speciale non inciderebbe sulla rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale così formulate. Infatti, l’art.47-quinquiesdellaL. n. 354 del 1975, comportando la formale scarcerazione, prevede un regime differente e meno contenitivo rispetto alla concessione del beneficio di cui all’art. 21-bis, che, invece, comporta solo una differente modalità di trattamento inframurario. Nella prospettiva del rimettente, la “previsione di una progressività di trattamento”, la cui valutazione è demandata alla magistratura di sorveglianza, dovrebbe logicamente comportare che ai due menzionati istituti la detenuta sia ammessa sulla base di identici presupposti, opportunamente valutabili in relazione al caso concreto e sulla base della pericolosità sociale di una condannata, che, come accade nel caso di specie, abbia da poco iniziato ad espiare la pena per uno dei reati elencati all’art.4-bisdellaL. n. 354 del 1975.

Motivi della decisione
1.- Il Magistrato di sorveglianza di Lecce e Brindisi dubita della legittimità costituzionale dell’art.21-bisdellaL. 26 luglio 1975, n. 354(Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui tale disposizione, facendo rinvio a quanto disposto al precedente art. 21 della medesimaL. n. 354 del 1975, esclude dal beneficio dell’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci il detenuto condannato “per reato ostativo” che non abbia ancora espiato almeno un terzo della pena.
La disposizione censurata, al comma 1, prevede che le condannate e le internate possono essere ammesse a tale beneficio alle condizioni previste dal precedente art. 21. Quest’ultimo, in tema di accesso dei detenuti al lavoro all’esterno, al comma 1, dispone che, in caso di condanna alla pena della reclusione per uno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater, dell’art.4-bisdellaL. n. 354 del 1975, il beneficio può essere concesso dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena in carcere e, comunque, di non oltre cinque anni. Nei confronti dei condannati all’ergastolo l’assegnazione al lavoro all’esterno può avvenire dopo l’espiazione di almeno dieci anni.
Secondo il rimettente, l’esclusione dal beneficio dell’assistenza all’esterno dei figli minori per la detenuta condannata “per reato ostativo” che non abbia ancora espiato almeno una parte di pena – esclusione derivante dal sistema normativo appena descritto – si porrebbe in contrasto con gliartt. 3, 29, 30 e 31 della Costituzione.La disposizione censurata finirebbe infatti per contenere un “automatismo di preclusione assoluta” all’accesso al beneficio e impedirebbe al giudice, laddove non sia ancora stata espiata una parte di pena, di bilanciare le esigenze di difesa sociale con l’interesse del minore, pregiudicando il diritto di quest’ultimo a mantenere un rapporto con la madre all’esterno del carcere (diritto, peraltro, già riconosciuto dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva conL. 27 maggio 1991, n. 176, e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007).
Secondo il giudice a quo, inoltre, la disposizione censurata si inserirebbe disarmonicamente in un sistema che già consente alle madri condannate per delitti ostativi di essere da subito ammesse, a prescindere dall’entità della pena da espiare, sia alla misura alternativa della detenzione domiciliare ordinaria, nelle ipotesi in cui è possibile disporre il rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi degliartt. 146 e 147 del codice penale(art. 47-ter, comma 1-ter, dellaL. n. 354 del 1975), sia, in forza della sentenza della Corte costituzionale n. 76 del 2017, alla misura della detenzione domiciliare speciale (art. 47-quinquies, comma 1-bis, dellaL. n. 354 del 1975).
2.- La questione è fondata.
2.1.- L’art.21-bisdellaL. n. 354 del 1975è stato introdotto dall’art.5dellaL. 8 marzo 2001, n. 40(Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori), al fine di ampliare le possibilità, per la madre detenuta che non abbia ottenuto la detenzione domiciliare ordinaria o la detenzione domiciliare speciale, di provvedere alla cura dei figli, in un ambiente non carcerario, per un periodo di tempo predeterminato nel corso della giornata.
Come emerge dai lavori preparatori dellaL. n. 40 del 2001(ed in particolare dalla Relazione illustrativa al disegno di L. C-4426 presentato alla Camera dei deputati il 24 dicembre 1997) il legislatore, da un lato, ha inteso ampliare le modalità che assicurano la continuità della funzione genitoriale, dall’altro, ha ritenuto che i compiti di cura dei figli minori abbiano “lo stesso valore sociale e la stessa potenzialità risocializzante dell’attività lavorativa”. Per tale ragione, le condizioni alle quali è possibile ottenere il beneficio dell’assistenza all’esterno ai figli di età non superiore agli anni dieci coincidono con quelle previste per l’accesso al lavoro all’esterno. L’art.21-bisdellaL. n. 354 del 1975, quindi, rinvia al precedente art. 21, che prevede, per i condannati alla pena della reclusione per uno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater, dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, che l’accesso al lavoro all’esterno sia subordinato alla previa espiazione di almeno un terzo della pena detentiva, e comunque di non oltre cinque anni, oppure almeno di dieci anni in caso di condannati alla pena dell’ergastolo.
Alla luce di questa ricostruzione, le sollevate questioni sulla disposizione in tema di accesso all’assistenza all’esterno ai figli in tenera età pongono il seguente quesito: se sia costituzionalmente corretto che i requisiti previsti per ottenere un beneficio prevalentemente finalizzato a favorire, al di fuori della restrizione carceraria, il rapporto tra madre e figli in tenera età siano identici a quelli prescritti per l’accesso al diverso beneficio del lavoro all’esterno, il quale è esclusivamente preordinato al reinserimento sociale del condannato, senza immediate ricadute su soggetti diversi da quest’ultimo.
2.2.- Per inquadrare correttamente le questioni sottoposte all’esame della Corte, occorre premettere che l’art. 21, nella parte in cui regola l’accesso al beneficio per i condannati per uno dei delitti elencati all’art.4-bisdellaL. n. 354 del 1975, deve essere interpretato in base a quanto disposto dagli artt. 4-bis e 58-ter della medesima legge.
Tali due ultime disposizioni consentono un accesso ai benefici penitenziari differenziato a seconda del titolo di reato per i quali i condannati scontano la pena, nonché a seconda della condizione in cui essi si trovano in punto di collaborazione con la giustizia.
In base al citato art. 4-bis i condannati per i delitti elencati nel comma 1 del medesimo articolo (tra i quali è da annoverare la madre detenuta di cui si tratta nel giudizio a quo) possono accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario solo qualora collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58-ter della stessa legge.
Per parte sua, l’art. 58-ter prevede, tra l’altro, con riferimento alle persone condannate per taluno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater, dell’art. 4-bis, che l’aver scontato almeno la parte di pena detentiva prevista al comma 1 dell’art. 21 non costituisce presupposto necessario per l’accesso al lavoro all’esterno (e dunque, per quel che qui interessa, all’assistenza all’esterno ai figli minori) se, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati.
L’operare congiunto delle tre disposizioni ricordate (dell’art. 21, nonché degli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter dellaL. n. 354 del 1975) comporta, in definitiva, che l’accesso al lavoro all’esterno – e, di conseguenza, all’assistenza all’esterno dei figli minori – sia soggetto a requisiti differenziati, a seconda che il detenuto sia stato condannato per uno dei delitti elencati all’art. 4-bis, comma 1 (delitti cosiddetti di prima fascia), comma 1-ter (cosiddetti di seconda fascia) o comma 1-quater (cosiddetti di terza fascia), nonché a seconda della condizione in cui il detenuto si trovi in punto di collaborazione con la giustizia.
In particolare, i condannati per uno dei delitti elencati ai commi 1-ter (di “seconda fascia”) e 1-quater (di “terza fascia”) dell’art.4-bisdellaL. n. 354 del 1975, per accedere al beneficio, dovranno, alternativamente, scontare la parte di pena prevista dall’art. 21, oppure potranno ottenerlo immediatamente se collaborano attivamente con la giustizia ex art. 58-ter.
Invece, stante il perentorio contenuto letterale della disposizione, i condannati per i delitti di cui al comma 1 dell’art.4-bisdellaL. n. 354 del 1975(di “prima fascia”), se non collaborano con la giustizia non potranno accedere al beneficio neppure dopo aver scontato un terzo di pena (o dieci anni in caso di condanna all’ergastolo); se, invece, essi tale collaborazione assicurino seguendo le modalità previste dall’art.58-ter, comma 1, dellaL. n. 354 del 1975, potranno accedervi senza dover previamente scontare una frazione di pena, secondo una soluzione interpretativa già individuata da questa Corte (sentenza n. 504 del 1995; nello stesso senso, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 3 febbraio 2016, n. 37578, e sentenza 12 luglio 2006, n. 30434).
In base ad una interpretazione letterale delle ricordate disposizioni, debbono invece scontare una frazione di pena prima di accedere al beneficio i condannati per uno dei delitti di “prima fascia” che si trovino nelle condizioni previste dal comma 1-bis dell’art.4-bisdellaL. n. 354 del 1975. In altre parole, la previsione secondo cui è necessario scontare un terzo di pena, o dieci anni in caso di ergastolo, prima di poter accedere al beneficio del lavoro all’esterno (e, per ciò che qui interessa, all’assistenza all’esterno dei figli minori) si applica a quei condannati per uno dei delitti elencati all’art. 4-bis, comma 1, per i quali un’utile collaborazione con la giustizia risulti inesigibile a causa della limitata partecipazione al fatto criminoso accertata nella sentenza di condanna, ovvero risulti impossibile, per l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con la sentenza irrevocabile; nonché nei casi in cui la collaborazione offerta dal condannato si riveli “oggettivamente irrilevante” (sempre che, in questa evenienza, sia stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, numero 6, 114 o 116 cod. pen.), e comunque “siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva”.
2.3.- Qualunque sia la scelta della madre detenuta in punto di collaborazione con la giustizia, la disposizione censurata esibisce un contenuto normativo in contrasto conl’art. 31, secondo comma, Cost.
2.4.- In primo luogo, infatti, per le detenute per uno dei reati elencati all’art.4-bis, comma 1, dellaL. n. 354 del 1975l’accesso all’assistenza all’esterno dei figli minori è subordinato, quale requisito imprescindibile, a tale collaborazione, svolta secondo le indicazioni contenute nell’art. 58-ter ordin. penit. Infatti, quand’anche la condannata abbia scontato una parte della pena, in assenza di collaborazione non potrà accedere al beneficio.
In tal caso, la situazione della detenuta, madre di figli di età non superiore agli anni dieci, ricade nelle valutazioni compiute da questa Corte nella sentenza n. 239 del 2014. In quest’ultima, si è affermato che l’incentivazione alla collaborazione con la giustizia, quale strategia di contrasto con la criminalità organizzata, può perseguirsi impedendo la fruizione di benefici penitenziari costruiti in funzione di un progresso individuale del condannato verso l’obbiettivo della risocializzazione. Si è altresì chiarito che la conclusione deve essere ben diversa quando una simile strategia non si limiti a produrre effetti sulla condizione individuale del detenuto, ma, impedendo a quest’ultimo l’accesso a un beneficio, finisca per incidere anche su terzi, e in particolare su soggetti, come i minori in tenera età, ai quali la Costituzione esige siano garantite le condizioni per il migliore e più equilibrato sviluppo psico-fisico.
Nella sentenza n. 239 del 2014 si è anche precisato che l’interesse del minore a beneficiare in modo continuativo dell’affetto e delle cure materne non forma oggetto di una protezione assoluta, insuscettibile di bilanciamento con contrapposte esigenze, pure di rilievo costituzionale, quali quelle di difesa sociale, sottese alla necessaria esecuzione della pena. Ma si è aggiunto che, affinché l’interesse del minore non resti irragionevolmente recessivo rispetto alle esigenze di protezione della società dal crimine, “occorre che la sussistenza e la consistenza di queste ultime venga verificata … in concreto … e non già collegata ad indici presuntivi … che precludono al giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni”.
Se queste considerazioni vengono riferite al caso dell’accesso all’assistenza all’esterno dei figli minori di cui all’art.21-bisdellaL. n. 354 del 1975, la conclusione è obbligata. Subordinare la concessione di tale beneficio alla collaborazione con la giustizia significa condizionare in via assoluta e presuntiva la tutela del rapporto tra madre e figlio in tenera età ad un indice legale del “ravvedimento” della condannata. E se pur sia possibile condizionare alla collaborazione con la giustizia l’accesso ad un beneficio, laddove quest’ultimo abbia di mira in via esclusiva la risocializzazione dell’autore della condotta illecita, una tale possibilità non vi è quando al centro della tutela si trovi un interesse “esterno”, e in particolare il peculiare interesse del figlio minore, garantitodall’art. 31, secondo comma, Cost., ad un rapporto quanto più possibile normale con la madre (o, in via subordinata, con il padre).
Per identiche ragioni, tra l’altro, la disposizione censurata si pone in contrasto con il parametro costituzionale da ultimo ricordato anche nella parte in cui condiziona alla collaborazione con la giustizia l’immediato accesso al beneficio per i condannati per uno dei delitti elencati all’art. 4-bis, commi 1-ter e 1-quater, dellaL. n. 354 del 1975(cosiddetti di seconda o di terza fascia).
Ciascuna delle ipotesi considerate, infatti, finisce per subordinare l’accesso all’assistenza all’esterno al figlio minore ad una scelta in tema di collaborazione con la giustizia, in palese contrasto con quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 239 del 2014.
2.5.- L’art.21-bisdellaL. n. 354 del 1975si pone, infine, in contrasto conl’art. 31, secondo comma, Cost.anche per le conseguenze che determina in capo alle madri detenute per uno dei reati ex art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., la cui collaborazione con la giustizia sia impossibile, inesigibile o irrilevante.
Tali detenute – come ricordato – debbono sempre scontare una parte di pena prima di accedere al beneficio. L’amministrazione penitenziaria prima, e il giudice poi, si trovano, così, al cospetto di una presunzione assoluta e insuperabile, non essendo loro concesso di bilanciare in concreto, a prescindere da indici legali presuntivi, le esigenze di difesa sociale rispetto al migliore interesse del minore.
Ciò è in contrasto con i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 76 del 2017, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 47-quinquies, comma 1-bis, dellaL. n. 354 del 1975, nella parte in cui imponeva alle condannate per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis della medesima legge di scontare una frazione di pena in carcere prima di poter accedere alla detenzione domiciliare speciale, cioè ad altra misura finalizzata a garantire il rapporto tra la madre detenuta e il figlio in tenera età.
In tale sentenza si è affermato che se il legislatore, tramite il ricorso a presunzioni insuperabili, nega in radice l’accesso della madre a modalità agevolate di espiazione della pena, impedendo al giudice di valutare la concreta sussistenza, nelle singole situazioni, di esigenze di difesa sociale, bilanciandole con il migliore interesse del minore in tenera età, si è al cospetto dell’introduzione di un automatismo basato su indici presuntivi, il quale comporta il totale sacrificio di quell’interesse.
Tale conclusione non può che essere ora ribadita con riferimento all’accesso al beneficio dell’assistenza all’esterno ai figli di età non superiore agli anni dieci per le detenute per uno dei reati ex art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., la cui collaborazione con la giustizia sia impossibile, inesigibile o irrilevante.
2.6.- In definitiva, i requisiti legislativi previsti per l’accesso a un beneficio prevalentemente finalizzato a favorire, al di fuori della restrizione carceraria, il rapporto tra madre e figli in tenera età, non possono coincidere con quelli per l’accesso al diverso beneficio del lavoro all’esterno, il quale è esclusivamente preordinato al reinserimento sociale del condannato, senza immediate ricadute su soggetti diversi da quest’ultimo.
L’art.21-bisdellaL. n. 354 del 1975, operando invece un rinvio al precedente art. 21, e parificando i requisiti in discorso, si pone in contrasto conl’art. 31, secondo comma, Cost., poiché, salvo che sia stata accertata la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 58-ter della medesima legge, con riferimento alle detenute condannate alla pena della reclusione per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater, non consente l’accesso all’assistenza all’esterno dei figli minori oppure lo subordina alla previa espiazione di una frazione di pena.
Restano assorbite le questioni sollevate in riferimento agli altri parametri evocati dal rimettente.
2.7.- Osserva, infine, questa Corte che la presente pronuncia di accoglimento non pregiudica le esigenze di difesa sociale sottese alla previsione di limiti all’accesso al beneficio di cui all’art.21-bisdellaL. n. 354 del 1975per i condannati per taluno dei reati elencati all’art. 4-bis della medesima legge (siano essi la madre detenuta o, in via subordinata, il padre ex art. 21-bis, comma 3). La concessione del beneficio resta pur sempre affidata al prudente apprezzamento del magistrato di sorveglianza, chiamato ad approvare il provvedimento disposto dall’amministrazione penitenziaria (ai sensi degli artt. 21, comma 4, e 69, comma 5, della L. n. 354 del 1975). In tale sede, infatti, l’autorità giudiziaria deve “tenere conto del tipo di reato, della durata, effettiva o prevista, della misura privativa della libertà e della residua parte di essa, nonché dell’esigenza di prevenire il pericolo che l’ammesso al lavoro all’esterno nel nostro caso: all’assistenza all’esterno ai figli commetta altri reati” (art.48, comma 4, del D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, intitolato “Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà”).

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.21-bisdellaL. 26 luglio 1975, n. 354(Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui, attraverso il rinvio al precedente art. 21, con riferimento alle detenute condannate alla pena della reclusione per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater, della L. n. 354 del 1975, non consente l’accesso all’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci oppure lo subordina alla previa espiazione di una frazione di pena, salvo che sia stata accertata la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 58-ter della medesima legge.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, 4 luglio 2018.
Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2018.

La negoziazione assistita familiare non è utilizzabile per tutte le forme di divorzio previste dalla legge.

Tribunale di Torino, 1^ giugno 2018
Premesso
che in data (…)2.2018 le parti, ritualmente difese, depositavano alla Procura della Repubblica presso
questo Tribunale Accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita, ex legge
162/2014, con il quale, evidenziata la crisi coniugale e l’interruzione della convivenza, dichiaravano di
voler sciogliere il matrimonio contratto in … (GERMANIA), il (…) 2003 (…) esponendo di aver individuato
soluzioni condivise in merito all’affidamento della figlia minore, alle modalità di visita e al mantenimento
della stessa, nonché ad aspetti minori;
che, in particolare, i coniugi allegavano di voler accedere al divorzio diretto, senza la preventiva pronuncia
di separazione, come consentito dall’art. 213 del Codigo Civil argentino, legge nazionale comune ai
coniugi e pertanto applicabile al caso sulla base dell’art. 31 della legge 31.5.1995 n. 218 (DIP);
che in data 5.4.2018 il Pubblico Ministero riteneva di non poter accogliere la domanda rilevando che
l’Accordo “non corrispondente all’interesse della figlia in quanto
– ai sensi dell’art. 6 comma 1 del dd. ll. n. 132/14 convertito con L. n. 162/14, la convenzione di
negoziazione assistita può essere conclusa tra coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di
separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio nei
casi di cui all’articolo 3, primo comma, numero 2), lettera b), della legge 1970, n. 898, e successive
modificazioni, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio;
– ai sensi del sopra indicato art. 3, primo comma, numero 2), lettera b), della legge 1970, n. 898, lo
scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio può essere domandato da uno dei coniugi
nei casi in cui è stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale fra i coniugi,
ovvero è stata omologata la separazione consensuale ovvero è intervenuta separazione di fatto quando la
separazione di fatto stessa è iniziata almeno due anni prima del 18 dicembre 1970;
– al di fuori dei predetti casi la convenzione di negoziazione assistita non può essere conclusa in assenza
di precedente intervenuta separazione” e, pertanto, disponeva la trasmissione degli atti al Presidente di
questa Sezione (in conformità alla Circolare congiunta del Tribunale e della Procura della Repubblica
sottoscritta il 28 gennaio 2015) per quanto di competenza;
che all’udienza 14.5.2018, fissata ex art. 6 legge 162/2014, le parti sono comparse con i rispettivi legali e
hanno insistito per l’accoglimento degli accordi di negoziazione assistita e quindi per la pronuncia di
divorzio, auspicando un’interpretazione analogica dell’art. 6 della legge 162/2014 e sottolineando come
tale disposizione consenta al Pubblico Ministero di negare l’autorizzazione solo in presenza di accordi in
contrasto con l’interesse della prole, condizione insussistente nel caso in esame;
considerato
che l’interpretazione della normativa sulla negoziazione assistita da avvocati di cui alla L. 162/2014, di
conversione del D.L. 132/2014, e, in particolare, l’individuazione del più corretto iter processuale nei casi
in cui il Pubblico Ministero non ritenga di poter autorizzare l’accordo negoziale tra le parti e lo trasmetta al Presidente del Tribunale si presenta piuttosto ardua, stante l’estrema sinteticità del dato normativo, ma, a seguito dell’apporto chiarificatore dei contributi dottrinali e di alcune pronunce di merito (Pres. Tribunale
Termini Imerese 24.3.2015; Pres. Tribunale Torino 20.4.2015; Pres. Tribunale di Udine 29.1.2016, in
Avvocati di Famiglia, n. 1/2016, p. 9; Pres. Tribunale di Palermo, 1°.12.2016), può essere effettuata,
sulla scorta degli argomenti esposti nei menzionati provvedimenti (agevolmente consultabili sul Web), nel
senso che la fase avanti al Presidente sia da ricondurre alle forme del rito camerale, con autonomia di
valutazione rispetto al diniego del P.M., tenuto anche conto delle delucidazioni che le parti possono fornire o della modificazione degli accordi oggetto del dissenso del P.M. ad opera delle stesse;
ritenuto che, nel caso in esame, il dissenso del P.M. verte sulla mancata previsione, nel testo del menzionato art.
6, della possibilità di divorzio non preceduto dalla separazione dei coniugi;
che la posizione assunta dal Pubblico Ministero è indubbiamente supportata dal dato letterale dell’art. 6, il
cui primo comma delimita i casi di negoziazione familiare, in particolare, avente ad oggetto la “cessazione
degli effetti civili del matrimonio” o di “scioglimento del matrimonio” a quelli “di cui all’art. 3, primo
comma, numero 2), lettera b), della legge 1° dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni” , cioè a
dire alle ipotesi in cui “è stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale fra i coniugi, ovvero è stata omologata la separazione consensuale” e la separazione si è protratta
ininterrottamente per i periodi indicati nel comma successivo dell’articolo – dodici o sei mesi –
notoriamente ridotti per effetto della legge 55/2015 sul divorzio “breve”;
che, di conseguenza, come posto in evidenza dalla dottrina (M. Sesta, Codice della Famiglia, Giuffrè
Editore, p. 2526; A. Zaccaria, Commentario Breve al Diritto della Famiglia, CEDAM, p. 1473; F. Danovi, Il
processo di separazione e divorzio, Giuffrè Editore, p. 873; S. Caporusso, Profili processuali delle nuove
procedure consensuali di separazione personale e divorzio, Riv. Dir. Civile, 3/2015, p. 718) non possono
essere oggetto di accordi di negoziazione assistita tutti gli altri casi di scioglimento e cessazione degli
effetti civili del matrimonio contemplati dall’art. 3 della legge 898/1970;
che tale disciplina presenta una certa ragionevolezza, in primo luogo perché il divorzio preceduto dalla
separazione personale rappresenta l’ipotesi assolutamente più frequente nella pratica giudiziaria e la
legge 162/2014 mira proprio a ridurre il contenzioso avanti ai Tribunali, introducendo soluzioni
stragiudiziali per la definizione dei conflitti; inoltre gli altri casi di divorzio elencati dal menzionato art. 3
possono presentare difficoltà di accertamento e profili giuridici non semplici, che impongono il giudizio e
la competenza del Collegio e difficilmente potevano essere rimessi a una semplice autorizzazione da parte
del P.M. (basti pensare all’accertamento dell’inidoneità a mantenere o ricostituire la convivenza familiare
nei casi di condanna di un coniuge, oppure alla mancata consumazione del matrimonio);
che, con specifico riguardo alla fattispecie in esame, nella quale le parti domandano l’applicazione della
normativa del Paese comune (Argentina), che consente il divorzio diretto, vale in qualche misura la stessa
considerazione, in quanto l’applicazione al caso specifico della normativa straniera, da attuarsi in base alle
disposizioni del Reg. UE n. 1259/2010 (c.d. Reg. Roma III) che, superando l’art. 31 legge 218/1995,
individuano la legge applicabile al divorzio e alla separazione personale e hanno applicazione generale
(art. 4), può comportare l’esame di questioni di non facile soluzione, quali la valutazione della
tempestività e validità dell’accordo per la scelta della legge applicabile (art. 5), anch’esse difficilmente
affrontabili nella sede stragiudiziale e attraverso una semplice autorizzazione amministrativa;
che, pertanto, la conclusione assunta dal Pubblico Ministero viene in questa sede condivisa;
che, ancora, siffatta interpretazione dell’art. 6 legge 162/2014 non solleva particolari dubbi di illegittimità
costituzionale, atteso che i coniugi di nazionalità straniera e che possono astrattamente avvalersi del
divorzio diretto hanno comunque la possibilità, ove ritengano, di accedere alla negoziazione assistita da
avvocati chiedendo previamente la separazione personale, oppure, se intenzionati a sciogliere il
matrimonio senza la previa separazione, depositare un ricorso di divorzio a domanda congiunta, soluzioni
che in linea di fatto non comportano particolare aggravio e la cui praticabilità impedisce comunque di
ravvisare un profilo di illegittimità costituzionale fondato sulla violazione del principio di uguaglianza
davanti alla legge ex art. 3 Costituzione;
che, infine, con particolare riferimento alla locuzione dell’art. 6 che dispone che il Procuratore della
Repubblica trasmette gli atti al Presidente del Tribunale “quando ritiene che l’accordo non risponde
all’interesse dei figli”, all’affermazione delle parti secondo cui il P.M. avrebbe in questo caso agito al di
fuori di tale presupposto, si deve replicare osservando anzitutto che la normativa in esame non prevede
altre possibilità per il Pubblico Ministero di definire, con pronuncia di segno negativo, l’ iter avviato con il
deposito della negoziazione assistita e che pertanto è da preferire un’interpretazione non eccessivamente
rigorosa di tale presupposto (si pensi al caso in cui le parti non sono assistite, ciascuna, da un proprio
avvocato, come richiesto dal primo comma dell’articolo), pena il venir meno di ogni successivo controllo
da parte del Presidente nel contraddittorio delle parti (mentre dai lavori preparatori della legge si desume
una precisa volontà del Legislatore di assicurare “la rispondenza alle norme e ad un corretto principio di
equilibrio e di tutela dei soggetti deboli” attraverso un “successivo passaggio attraverso il pubblico
ministero e il tribunale”, seduta Senato, Aula, n. 333 del 16.10.2014);
che, più in generale, appare difficile concludere che non vi sia un collegamento tra la tutela dell’interesse
dei figli e le limitazioni normative per l’ accesso al divorzio, essendo piuttosto evidente che le disposizioni
di legge in materia di matrimonio tengono prioritariamente conto degli effetti sulla prole e, quindi,
dell’esigenza di garantire una certa stabilità del vincolo, avendo la fase della separazione personale
proprio lo scopo di suggerire alla parti una più attenta riflessione sulle scelte da compiere in ambito
familiare.
P.Q.M.
Visto l’art. 6 del D.L. 12.9.2014 n. 132, convertito in L. 10.11.2014 n. 162,
non autorizza , nel senso di cui in motivazione, l’Accordo 2.2.2018 raggiunto a seguito di negoziazione
assistita da avvocati a norma del citato art. 6 legge 162/2014 tra X X e Y ;
manda alla Cancelleria per la comunicazione alle parti.

La donazione (simulata) trascritta è opponibile all’Erario, in quanto terzo rispetto alla simulazione

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 25888/2011 proposto da:
D.B., elettivamente domiciliato in ROMA VIA APRICALE 31, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO VITOLO, rappresentato e difeso dall’avvocato ALESSANDRO ORSENIGO;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI LODI, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 127/2011 della COMM. TRIB. REG. di MILANO, depositata l’11/07/2011;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/06/2018 dal Consigliere Dott. MARINA CIRESE.
Svolgimento del processo
che:
Con ricorso proposto in data 13 novembre 2009 D.B. impugnava l’avviso di liquidazione notificatogli in data 11.9.2004 con il quale la Direzione provinciale di Lodi – Ufficio Territoriale di Codogno richiedeva il versamento delle maggiori imposte di registro, ipotecaria e catastali nella misura ordinaria a seguito della revoca delle agevolazioni “prima casa” concesse sull’atto di acquisto di un immobile sito in (OMISSIS) per Notaio S.R.P. del 29.7.2004 registrato il 12.8.2014 in quanto il D. aveva ceduto per donazione detto immobile in data 9.12.2006, cessione avvenuta prima del decorso del termine di cinque anni dall’acquisto e trascorso il termine di 12 mesi per il riacquisto di abitazione.
Il ricorrente sosteneva l’illegittimità dell’atto impugnato in quanto l’immobile era stato donato solo simulatamente alla madre N.C. e vi era una controdichiarazione sottoscritta dalle parti in data 9.12.2006 con efficacia risolutoria e retroattiva sicché era venuto meno il presupposto per la ripresa a tassazione.
La Commissione Tributaria Provinciale di Lodi, con sentenza n. 73/02/2010 del 17.3.2010, accoglieva il ricorso compensando tra le parti le spese di lite.
Interposto appello da parte della Direzione Provinciale di Lodi, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, con sentenza n. 127/45/11 dell’11.7.2011, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava il ricorso del contribuente sull’assunto che l’atto posto in essere, ovvero la simulata donazione, ha significato solo in quanto ha effetto nei confronti dei terzi tra i quali non può non esserci l’Erario.
Avverso detta pronuncia D.B. proponeva ricorso per cassazione articolato in tre motivi cui resisteva con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
Motivi della decisione
che:
1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente deduceva la nullità della sentenza e del procedimento per essere stato l’atto di appello proposto e sottoscritto da un soggetto che non rivestiva la qualifica di Direttore pro tempore della Direzione Provinciale appellante.
2. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente deduceva la violazione e falsa applicazione degliartt. 1414 e 1415 c.c., per non avere la Commissione Tributaria Regionale considerato che la simulazione assoluta e la risoluzione per mutuo dissenso hanno determinato l’eliminazione dell’atto di liberalità posto a base della revoca delle agevolazioni prima casa e che il ricorrente non ha mai inteso “spendere fiscalmente l’atto di donazione”.
3. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente deduce l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia per non avere la sentenza impugnata sufficientemente motivato in ordine all’eccezione di mancata sottoscrizione dell’atto di appello da parte del Direttore pro tempore ed in ordine alla titolarità del diritto di proprietà del bene in capo al ricorrente.
Il primo motivo è infondato.
Ed invero, a prescindere dal rilievo che in atti vi è un’apposita delega rilasciata dal Direttore della Direzione Provinciale di Lodi sottoscritta in data antecedente alla proposizione dell’appello, va comunque rilevato che “In tema di contenzioso tributario, delD. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546,art.10e art.11, comma 2, riconoscono la qualità di parte processuale e conferiscono la capacità di stare in giudizio all’ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate nei cui confronti è proposto il ricorso, organicamente rappresentato dal direttore o da altra persona preposta al reparto competente, da intendersi con ciò stesso delegata in via generale, sicché è validamente apposta la sottoscrizione dell’appello dell’ufficio finanziario da parte del preposto al reparto competente, anche ove non sia esibita in giudizio una corrispondente specifica delega, salvo che non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque, l’usurpazione del potere d’impugnare la sentenza” (Cass. Sez. 5, n. 6691/2014; Cass. Sez. 5, n. 12768/2006).
La provenienza della sottoscrizione da parte del soggetto che ha il potere di impegnare l’Amministrazione finanziaria si presume anche nel caso di sottoscrizione illeggibile salvo che non se ne dimostri la falsità o l’usurpazione (vedi Cass., Sez. 8332/2016).
Nel caso di specie la circostanza della non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante e quella dell’usurpazione del relativo non sono state neppure allegate.
Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso.
Va premesso che il negozio simulato exart. 1414 c.c., non produce effetti tra le parti e, tuttavia, produce effetti nei confronti dei terzi in baseall’art. 1415 c.c., secondo cui la simulazione non può essere opposta dalle parti contraenti ai terzi, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di simulazione.
Non vi è dubbio, pertanto, che il negozio simulato, nel caso di specie la donazione trascritta exart. 2643 c.c., sia opponibile all’Erario, in quanto terzo rispetto alla simulazione (vedi in tal senso Cass. Sez. 5, n. 1568/2014), sicché l’atto di donazione determina il venir meno di una condizione giustificativa del regime delle agevolazioni “prima casa”, ovvero che l’immobile non sia venduto o donato prima che siano trascorsi cinque anni dalla data di acquisto.
Non può assumersi, inoltre, che l’atto di risoluzione stipulato in data 5 ottobre 2009 innanzi al Notaio G. abbia efficacia risolutoria degli effetti derivanti dall’atto di donazione, atteso che l’effetto risolutorio attiene unicamente ai rapporti tra le parti e non già ai terzi, come si desumedall’art. 1373 c.c..
Ed invero, secondo la prevalente dottrina, il mutuo dissenso può, a rigore, rappresentare una causa di risoluzione dei soli contratti ad effetti obbligatori e non dei contratti ad effetti traslativi ponendosi in evidenza come i contratti ad effetti traslativi esauriscano la loro funzione nel momento in cui viene prestato il consenso, sicché, con riferimento ad essi, può solo ipotizzarsi un contratto ad effetti opposti a quelli traslativi già prodotti e non il mutuo dissenso che, come causa risolutiva tipica del contratto, presuppone che il rapporto giuridico sussista e permanga in vigore. A seguito del mutuo dissenso il rapporto giuridico costituito con il contratto viene meno con effetto retroattivo ma sono fatti salvi i diritti dei terzi.
Non può ritenersi, pertanto, che nel caso di specie detto atto, peraltro stipulato in data successiva alla notifica dell’avviso di liquidazione diretto al recupero delle imposte in misura ordinaria, abbia efficacia retroattiva elidendo completamente con riguardo ai terzi gli effetti derivanti dalla stipula dell’atto di donazione.
Ed invero in tema di imposta di registro la S.C. ha negato l’efficacia retroattiva del mutuo dissenso affermando che “…l’applicazione delD.P.R. 26 aprile 1986, n. 131,art.38, che prevede la restituzione dell’imposta per la parte eccedente la misura fissa nel caso di nullità o annullamento dell’atto per causa non imputabile alle parti, è limitata, in considerazione del dato letterale e della sua “ratio”, alle sole ipotesi di nullità o annullamento dell’atto per patologie ascrivibili a vizi esistenti “ab origine”, e con esclusione di quelli sopravvenuti o relativi ad inefficacia contrattuale derivante da altre e diverse ragioni. (Nella specie, la S.C. ha escluso il diritto alla restituzione dell’imposta a seguito della retrocessione del bene determinata dalla successiva pattuizione di risoluzione del contratto originario), (Cass., Sez. 6- 5, n. 791/2015).
Ed ancora ha ritenuto che “In tema di imposta di registro, il contratto con il quale viene convenuta la risoluzione del contratto di vendita con riserva di proprietà di un immobile, comportando la retrocessione del bene oggetto del contratto risolto (cosa che per la legge di registro si verifica anche nella ipotesi di vendita con riserva di proprietà, dato che tale normativa considera detta vendita immediatamente produttiva dell’effetto traslativo), deve essere assoggettato alla imposta proporzionale da applicarsi con la aliquota prevista per i trasferimenti immobiliari” (Cass., Sez. 5075/1998).
Il terzo motivo di ricorso è assorbito.
Conclusivamente il ricorso va rigettato.
La regolamentazione delle spese di lite segue la soccombenza.
P.Q.M.
– rigetta il ricorso;
– condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida nella misura di Euro 2900,00, oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 21 giugno 2018.
Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2018

L’onere della prova dei presupposti di applicabilità dell’art. 170 c.c., grava su chi intende avvalersi del regime di impignorabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 21902/2016 proposto da:
R.L., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati LUIGI CINI, CRISTIAN PICCIOLI giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
EQUITALIA SERVIZI DI RSCOSSIONE SPA, già EQUITALIA CENTRO SPA in persona del procuratore pro tempore Dr.ssa C.V., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MUZIO CLEMENTI 48, presso lo studio dell’avvocato PIEREMILIO SAMMARCO, che la rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 254/2016 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 26/02/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/05/2018 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso per il rigetto;
udito l’Avvocato CRISTIAN PICCIOLI;
udito l’Avvocato PIERAMILIO SAMMARCO;
Svolgimento del processo
1. R.L. ricorre, affidandosi a sei motivi illustrati anche con memoria, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Ancona che aveva respinto l’impugnazione da lui proposta avverso la pronuncia del Tribunale di Pesaro di rigetto della domanda avanzata nei confronti di Equitalia Marche Spa (già Marcheriscossioni Spa) per ottenere il risarcimento dei danni a lui derivati dall’iscrizione – a suo dire illegittima – di due distinte ipoteche, iscritte sugli immobili oggetto del fondo patrimoniale che aveva costituito alcuni anni prima.
Il R. aveva dedotto, nei gradi di merito, che l’iscrizione ipotecaria relativa agli importi da lui dovuti alla società di riscossione, per cartelle esattoriali relative a sanzioni amministrative per violazione del codice della strada ed per omesso pagamento di tributi, doveva essere ricondotta a debiti estranei ai bisogni della famiglia ed, in quanto tale, doveva ritenersi illegittima per violazionedell’art. 170 c.c..
2. L’intimata ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza in relazioneall’art. 132 c.p.c., n. 2, per erronea indicazione, sia nell’epigrafe che nel dispositivo, del soggetto giuridico convenuto e cioè “Equitalia Marche Spa” e non “Equitalia Centro Spa”, società che si era costituita con autonomo atto, nel corso del giudizio d’appello.
1.2 Con il secondo motivo, lamenta, exart. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione degliartt. 167 e 170 c.c., anche in relazioneall’art. 2697 c.c.:
assume che i giudici d’appello, con la pronuncia impugnata, avevano impropriamente posto a suo carico l’onere della prova concernente l’estraneità, ai bisogni della famiglia, del fatto che aveva generato i crediti per cui era stata iscritta l’ipoteca; lamenta altresì che non era stato considerato che il creditore era a conoscenza di tale circostanza, vista la natura sanzionatoria e non riparatoria dell’esecuzione.
1.3 Con il terzo motivo, il ricorrente, ex art. 360, comma 1, n. 4, deduce la nullità della sentenza per violazionedell’art. 112 c.p.c., ed, exart. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione degliartt. 112, 115, 167 e 342 c.p.c., in relazioneall’art. 2697 c.c.: lamenta che, nonostante la società di riscossione non avesse contestato la dedotta estraneità dei crediti ai bisogni familiari ed avesse prodotto le cartelle esattoriali comprovanti la fonte del credito, la Corte non aveva esaminato l’eccezione da lui mossa nè, applicando correttamente l’art. 115, aveva ritenuto incontestati i fatti dedotti.
1.4 Con il quarto ed il quinto motivo, il R., exart. 360 c.p.c., n. 3, deduce la violazione e falsa applicazione degliartt. 112, 113, 132, 342 e 345 c.p.c., in relazione ai crediti derivanti da tributi che la Corte aveva ritenuto oggetto di pronuncia del primo giudice, nonostante che essa fosse riferita soltanto alle sanzioni amministrative: lamenta che in tal modo, i giudici d’appello avevano impropriamente integrato la motivazione, travalicando, con ciò, i propri poteri. Assume, conseguentemente, che sulla specifica questione – in relazione alla quale era fondata una parte, sia pur quantitativamente inferiore del complessivo credito – doveva ritenersi che la Corte aveva omesso di pronunciarsi.
1.5 Con il sesto motivo, infine, lamenta, exart. 360 c.p.c., n. 3, la violazione o erronea applicazione degliartt. 1226, 2043 e 2056 c.c., della L. n. 602 del 1973, art. 77, e degliartt. 23 e 53 Cost., per manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui la Corte territoriale aveva affermato che egli non aveva subito, comunque, alcun danno risarcibile.
2. Il primo motivo è manifestamente infondato in ragione di quanto previstodall’art. 110 c.p.c.: Equitalia Centro Spa, infatti, è succeduta, nel corso del giudizio d’appello, ad Equitalia Marche Spa ed il giudizio è regolarmente proseguito nei suoi confronti.
Pertanto l’erronea indicazione della ragione sociale nell’epigrafe della sentenza costituisce una mera irregolarità che non configura il vizio dedotto.
3. Gli altri motivi proposti devono essere congiuntamente esaminati per la stretta connessione logica che li accomuna: essi sono tutti infondati.
Le censure mosse alla sentenza impugnata, infatti, sono complessivamente incentrate sulla questione concernente l’aggredibilità del fondo patrimoniale per crediti esattoriali (nel caso in esame consistenti in sanzioni amministrative ed in omissioni contributive) questione che, tuttavia, è posta sullo sfondo della vicenda concernente la presente controversia la quale ha per specifico oggetto un’azione risarcitoria e non riguarda i possibili rimedi azionabili nell’ambito del processo esecutivo.
3.1. Al riguardo, deve precisarsi che questa Corte, dopo alcuni arresti (cfr. Cass. 19667/2014, Cass. 15354/2015 e Cass. 10794/2016) che avevano affermato che l’esecuzione richiamatadall’art. 170 c.c., fosse estranea all’iscrizione ipotecaria che, quindi, doveva ritenersi generalmente consentita, ha statuito più specificamente, con principio al quale questo Collegio intende dare continuità, che “in tema di riscossione coattiva delle imposte, l’iscrizione ipotecaria di cuiD.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 77, è ammissibile anche sui beni facenti parte di un fondo patrimoniale alle condizioni indicatedall’art. 170 c.c., sicché è legittima solo se l’obbligazione tributaria sia strumentale ai bisogni della famiglia o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità ai bisogni della famiglia” (cfr. Cass. 23876/2015).
In conseguenza di ciò, il debitore deve necessariamente dimostrare non solo la regolare costituzione del fondo patrimoniale e la sua opponibilità al creditore procedente, ma anche che il debito nei confronti di tale soggetto sia stato contratto per scopi estranei alle necessità familiari.
3.2 Ciò posto, i beni costituenti fondo patrimoniale non possono essere sottratti all’azione esecutiva dei creditori quando lo scopo perseguito nell’obbligazione sia quello di soddisfare i bisogni della famiglia, da intendersi non in senso oggettivo, ma come comprensivi anche dei bisogni ritenuti tali dai coniugi in ragione dell’indirizzo della vita familiare e del tenore prescelto, in conseguenza delle possibilità economiche familiari.
E, al riguardo, è stato affermato che “l’onere della prova dei presupposti di applicabilitàdell’art. 170 c.c., grava su chi intenda avvalersi del regime di impignorabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale, sicché, ove sia proposta opposizione, exart. 615 c.p.c., per contestare il diritto del creditore ad agire esecutivamente, il debitore opponente deve dimostrare non soltanto la regolare costituzione del fondo e la sua opponibilità al creditore procedente, ma anche che il suo debito verso quest’ultimo venne contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia, a tal fine occorrendo che l’indagine del giudice si rivolga specificamente al fatto generatore dell’obbligazione, a prescindere dalla natura della stessa: pertanto, i beni costituiti in fondo patrimoniale non potranno essere sottratti all’azione esecutiva dei creditori quando lo scopo perseguito nell’obbligarsi fosse quello di soddisfare i bisogni della famiglia, da intendersi non in senso meramente oggettivo ma come comprensivi anche dei bisogni ritenuti tali dai coniugi in ragione dell’indirizzo della vita familiare e del tenore prescelto, in conseguenza delle possibilità economiche familiari”. (cfr. Cass. 4011/2013; Cass. 5385/2013) 3.3. Tanto premesso, il secondo ed il terzo motivo, concernenti proprio l’erronea ripartizione dell’onere probatorio, sono infondati in quanto la Corte territoriale, nel porre a carico del ricorrente l’onere di provare l’estraneità dei crediti ai bisogni familiari, ha fatto corretta applicazione dei principi sopra riportati.
3.4. Ma anche le censure contenute nel quarto e nel quinto motivo non hanno pregio: in primo luogo perché è consentito alla Corte, nell’ambito del devolutum, di integrare la motivazione (cfr. Cass. 4889/2016), motivazione che, nel caso in esame – in cui l’oggetto della lite erano e sono le pretese complessivamente contenute nelle cartelle esattoriali oggetto di esecuzione non si ritiene abbia travalicato il perimetro entro il quale erano stati proposti i motivi d’appello.
In secondo luogo, la natura del tributo non contraddice, in mancanza di prova contraria della quale era onerato il ricorrente, la circostanza che i crediti portati dai titoli esecutivi in esame, sia per violazioni del codice della strada sia per omesso pagamento di tributi (non meglio identificati), riguardassero esigenze familiari.
3.5. Infine, anche il sesto motivo è infondato.
Si osserva, infatti, che in ragione della natura risarcitoria della causa, non risulta che il R. abbia subito alcun danno ingiusto: il ricorrente, infatti, era – comunque – tenuto a pagare le sanzioni a lui inflitte, visto che, per ciò che emerge dagli atti, le cartelle esattoriali non furono oggetto di opposizione, con la conseguenza che il credito doveva ritenersi definitivamente accertato ed oggetto di legittima pretesa.
3.6. Una diversa soluzione legittimerebbe, in modo improprio, l’utilizzo del fondo patrimoniale (istituto che ha la finalità di apprestare misure di protezione per i bisogni economici della famiglia) a scopo elusivo: al riguardo, il richiamo della Corte territoriale ai principi concernenti la solidarietà economica e la ratio degliartt. 23 e 53 Cost. (cfr. pag. 11 della sentenza) configura una corretta applicazione delle fattispecie in esame, consentendo un corretto bilanciamento delle diverse esigenze.
4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 6200,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso spese generali nella misura di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma del comma ibis dello stesso art. 13.

L’addebito della separazione non pregiudica il diritto all’assegno per il mantenimento della prole

Cass. Civ. sez. 28 agosto 2018, n. 21272
Fatto e Diritto
Rilevato che
Il Tribunale di Napoli ha dichiarato la separazione dei coniugi D.L. e N.Z. con addebito alla L., per abbandono, insieme ai due figli, della casa familiare e ha imposto, a carico del sig. N.Z. un assegno per il mantenimento dei figli pari a 1.000 euro mensili. La Corte di appello, confermando nel resto la decisione di primo grado ha elevato la misura di tale assegno sino a 2.500 euro mensili.
2. Ricorre per cassazione Z. affidandosi a quattro motivi di impugnazione: a) omessa pronuncia su una
eccezione determinante ai fini della decisione. Violazione dell’art. 112 c.p.c. alla luce dell’art. 360 n. 4 c.p.c.; b) omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, ex art. 360 n. 5 c.p.c. in relazione all’art. 342 c.p.c.; c) violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.; d) violazione e falsa applicazione dell’art. 2932 c.c. in combinato disposto con gli artt. 155 c.c. prima della riforma di cui all’art. 5 del decreto legislativo n. 154 del 28 dicembre 2013 e altrimenti in combinato disposto con l’art. 377 ter c.c. e violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.
3. Si difende con controricorso D.L..
Ritenuto che
4. Con i primi tre motivi il ricorrente lamenta che la Corte di appello non ha pronunciato o comunque non ha di fatto esaminato e, in ogni caso, ha erroneamente deciso sulla sua eccezione di inammissibilità dell’appello ex art. 342 c.p.c.
5. I motivi sono infondati. La Corte di appello ha esplicitamente respinto l’eccezione di inammissibilità
dell’appello sollevata dall’appellato e ha motivato tale rigetto in relazione alla specifica e chiara indicazione delle parti contestate della motivazione della decisione di primo grado e delle modifiche richieste alla ricostruzione del fatto nonché in relazione alle circostanze rilevanti da cui secondo l’appellante deriva la violazione di legge dedotta con riferimento ai capi della sentenza di primo grado impugnati. Dalla stessa lettura delle conclusioni dell’atto di appello, riportate nella parte espositiva della motivazione, risulta la correttezza di tale valutazione perché emerge chiaramente che la L. ha impugnato la sentenza di primo grado ritenendola non conforme ai parametri normativi e giurisprudenziali in materia di determinazione dell’assegno di mantenimento dei figli e sotto il profilo fattuale ha messo in rilievo che ella ha perso la unica fonte di reddito che derivava dall’attività svolta, “in nero”, in favore del marito, che è attualmente costretta a vivere nella angusta abitazione della madre insieme ai figli e che questi ultimi hanno la legittima aspirazione di conservare, almeno tendenzialmente, il tenore di vita goduto prima della separazione, quanto meno potendo disporre di una abitazione adeguata in cui risiedere insieme alla madre e per la quale si rende necessario il pagamento di un canone di locazione indicativamente quantificato in 1.500 euro mensili. Va pertanto escluso che la Corte di appello abbia omesso l’esame di fatti decisivi, peraltro non indicati dal ricorrente, ovvero che abbia reso una motivazione apparente o violato o falsamente applicato le disposizioni dell’art. 112 e 342 c.p.c.
6. Con il quarto motivo N.Z. deduce violazione di legge quanto alla decisione di elevare l’ammontare
dell’assegno perché in violazione delle norme sull’assegno di mantenimento dei figli e sulla prova.
Rileva in particolare di aver costituito una nuova famiglia e di essere padre di due figli avuti dalla sua attuale
partner. Contesta le argomentazioni della Corte di appello sulla disponibilità di una florida situazione economica e patrimoniale, che secondo la Corte territoriale sarebbe stata parzialmente occultata dall’odierno ricorrente, che non ha prodotto le ultime dichiarazioni dei redditi e ha dimostrato di sottostimare i redditi dell’azienda familiare, nonché sulla insufficienza dell’assegno di mantenimento dei figli così come determinato in primo grado.
7. Il motivo è inammissibile perché, nonostante sia formulato con la prospettazione di violazioni e false
applicazioni di norme di legge, che sono rimaste del tutto generiche e non motivate, consiste in realtà in una contestazione delle valutazioni di merito compiute dalla Corte di appello secondo un iter motivazionale coerente e basato sulla ricostruzione del tenore di vita dei figli precedentemente alla separazione e sulla ricostruzione delle disponibilità economiche dei coniugi.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in complessivi euro 4.100, di cui 100 per spese, oltre accessori di legge e spese forfettarie.
Dispone che in caso di pubblicazione della presente ordinanza siano omesse le generalità e gli altri elementi identificativi delle parti.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13 comma 1 bis del D.P.R. n. 115/2002

controllo giudiziario sulla legittimità degli accordi siglati in sede di negoziazione assistita.

Tribunale di Genova, decreto 20 gennaio 2018
Il Presidente, Francesco Mazza Galanti,
a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 17.1.2018, nel procedimento avente ad oggetto
l’autorizzazione riguardante l’accordo “a seguito di negoziazione assistita per la modifica delle
condizioni di divorzio poste dalla sentenza n. 2455/2017 del Tribunale di Genova”, promosso da:
P____, rappresentato e difeso dall’Avv. ______, presso il cui studio in Chiavari è elettivamente
domiciliato in forza di procura in atti,
e R______, rappresentata e difesa dall’Avv. ______ presso il cui studio in Genova è elettivamente
domiciliata in forza di procura in atti,
sentito l’Ufficio del Pubblico Ministero,
ha pronunciato il seguente
DECRETO
Va premesso che, a seguito della separazione consensuale intervenuta tra i signori P____ e
R_____, omologata dal Tribunale di Chiavari in data 21.9.2007, il Tribunale di Genova, con
sentenza in data 21.9.2017, ha pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio a
suo tempo contratto dai predetti coniugi.
Successivamente le parti, con il menzionato accordo a seguito di negoziazione assistita, hanno
inteso definire convenzionalmente ogni controversia (civile e penale) tra di essi insorta anche
in modifica delle condizioni previste nella citata sentenza di divorzio. In particolare, tenuto
conto della difficoltà dichiarata dal signor P____ di versare l’assegno di mantenimento per i
due figli nella misura di euro 700,00 mensili (così come stabilito dal Tribunale nella
menzionata sentenza), essi, da un lato, hanno determinato il contributo di mantenimento dei
figli a carico del padre nella misura di euro 450,00 mensili, oltre al 50% delle spese
straordinarie, dall’altro, hanno definito in via transattiva il credito vantato dalla signora
R_____ (nella affermata misura di euro 39.985,78) nei confronti dell’ex coniuge a titolo di
assegni di mantenimento non corrisposti e/o parzialmente corrisposti. Più precisamente, con
riguardo a tale ultimo aspetto, il signor P____, dichiarando di avvalersi del contributo dei
propri genitori, ha corrisposto alla ex moglie la somma di euro 32.000,00, dalla stessa
accettati “a saldo e stralcio e definizione di ogni di lei diritto e maggiore pretesa
esclusivamente per le causali ed i riferimenti temporali” indicati in atti.
In data 13.12.2017, le parti depositavano nella Cancelleria della Procura della Repubblica
presso questo Tribunale l’accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione
assistita, ai sensi della legge n. 162/2014, con il quale intendevano formalizzare le modifiche
alle condizioni di divorzio previste nella sentenza n. 2455/2017 del Tribunale di Genova.
Il giorno successivo, vale a dire il 14.12.2017, il Pubblico Ministero, tenuto conto del fatto
che l’accordo tra gli ex coniugi prevedeva una “riduzione consistente del contributo
economico mensile a carico del P____ per il mantenimento dei figli”, esprimeva l’opinione
che detto accordo non fosse rispondente all’interesse della prole e, pertanto, ai sensi dell’art.
6, comma 2, del D.L. n. 132/2014, convertito nella Legge n.162/2014, trasmetteva gli atti al
Presidente del Tribunale per quanto di competenza.
Pervenuti gli atti a questo Ufficio in data 18.12.2017, questo Presidente, il 20 dicembre u.s.,
emetteva decreto di fissazione dell’udienza, ai sensi della disposizione citata dal Pubblico
Ministero, disponendo la prevista comparizione delle parti avanti a sé, previa apertura di un
procedimento di volontaria giurisdizione.
Alla prevista udienza del 17 gennaio, le parti sono comparse avanti allo scrivente unitamente
ai loro difensori che, in precedenza, avevano depositato memorie autorizzate di analogo
tenore al fine di meglio illustrare le ragioni che erano state determinanti al fine di
sottoscrivere il citato accordo di negoziazione assistita.
Alla stessa udienza compariva il Pubblico Ministero il quale, re melius perpensa, esaminate le
memorie delle parti, mutava il proprio convincimento ritenendo giustificata la riduzione
dell’assegno destinato ai figli. In proposito, egli osservava che, proprio nell’ambito della
causa di divorzio, gli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza avevano consentito di
appurare che il signor P____ era privo di beni mobili (salvo uno scooter) e immobili,e
neppure era titolare di rapporti bancari e/o postali capienti e/o di deposito titoli.
I legali delle parti, preso atto delle conclusioni del Procuratore della Repubblica Aggiunto,
chiedevano che questo giudice volesse autorizzare l’accordo cui le parti erano pervenute a
seguito della più volte menzionata negoziazione assistita.
Tutto ciò premesso, prima di affrontare il merito della decisione, non si può fare a meno di
brevemente soffermarsi su alcuni aspetti processuali del presente procedimento. E, infatti,
come è stato opportunamente sottolineato (si v. ad es. Trib. Torino, decreto 27 settembre
2016, Pres. est. Castellani), appare “piuttosto ardua” l’individuazione del corretto iter
processuale da seguire nel caso in cui il Pubblico Ministero non ritenga di poter autorizzare
l’accordo negoziale tra le parti e lo trasmetta al Presidente del Tribunale. Tuttavia, in adesione
con quanto sostenuto dalla giurisprudenza di merito (si v. oltre alla pronuncia sopra citata,
Trib. Torino, decreto 15 gennaio 2015, Pres. est. Tamagnone, Trib. Termini Imerese, decreto
24 marzo 2015; Trib. Torino, decreto 20 aprile 2015, Pres. est. Castellani), non v’è dubbio
che anche il presente procedimento debba essere ricondotto al rito camerale (come affermato
anche da questo giudice nel citato decreto di fissazione udienza del 20.12.2017). E’ altrettanto
pacifico che al giudicante debba essere riconosciuta piena autonomia di valutazione rispetto al
diniego espresso dal Pubblico Ministero. In argomento, è il caso di precisare che, se è vero
che proprio la riconducibilità lato sensu alla procedura in camera di consiglio consentirebbe
di ipotizzare il ricorso ad una decisione collegiale, tuttavia, proprio la particolarità del rito
prevista dalla normativa in materia di negoziazione assistita, induce a ritenere non solo
legittima, ma più coerente al sistema prefigurato dal legislatore una decisione monocratica da
parte del giudice designato (in questo senso, oltre ai precedenti sopra richiamati, cfr. anche
Trib. Palermo, Sez. I, 1 dicembre 2016). E, infatti, se è previsto, dal citato art. 6 del D.L. n.
132/2014 che nella prima (e di regola ultima) fase, l’autorizzazione all’accordo raggiunto
dalle parti in sede di negoziazione assistita (anche in relazione alle previsioni riguardanti i
figli) è di competenza del Pubblico Ministero, non vi è motivo di non attribuire la competenza
in via esclusiva al Presidente del Tribunale (o al magistrato da questi designato) in caso di
diniego dell’autorizzazione da parte del suddetto Ufficio.
Venendo al caso in esame, la particolarità dello stesso è che, avanti a questo giudice, il
Procuratore della Repubblica Aggiunto ha mutato il proprio orientamento, mostrando di
ritenere conforme all’interesse dei figli la convenzione di negoziazione assistita cui i genitori
erano pervenuti. E, tuttavia, stante l’impossibilità di far regredire il procedimento alla prima
fase, ormai esaurita, non pare dubbio che sia il Presidente, appunto in veste monocratica, a
dovere assumere la decisione a suo tempo denegata dall’Ufficio di Procura.
Venendo al merito, come si è appena osservato, la riduzione dell’entità dell’assegno di
contribuzione al mantenimento dei figli posto a carico del padre, è stata ritenuta “necessitata”
dallo stesso Pubblico Ministero, a fronte delle difficoltà lavorative del signor P___ e della sua
attuale condizione economica. In ogni caso, attualmente, il padre appare in grado (forse anche
con il contributo dei propri genitori) di garantire il pagamento dell’assegno mensile di
mantenimento in questione, così come stabilito in sede di negoziazione, i figli non risultano
pregiudicati dal nuovo accordo e, come è stato evidenziato, la loro madre ha potuto ottenere
dall’ex coniuge una somma non irrilevante (così da definire il pregresso contenzioso
economico), motivo per cui, anche in relazione a tale ultimo profilo, gli stessi figli potranno
indirettamente beneficiare dell’accordo economico cui i genitori sono pervenuti.
In definitiva, alla luce di quanto sopra esposto, l’accordo tra i coniugi può essere autorizzato
non risultando contrastante con gli interessi della prole.
P.Q.M.
Visto l’art. 6 del D.L. n. 132/2014, convertito nella L. n. 162/2014,
autorizza l’accordo raggiunto a seguito di negoziazione assistita, ai sensi dell’art. 6 del D.L. n.
132/2014, tra il signor P____ e la signora R______, in data 6.12.2017, in punto modifica delle
condizioni di divorzio previste dalla sentenza del Tribunale di Genova n. 2455/2017

Il beneficiario può essere collocato in casa di cura con il consenso dell’ads

Tribunale di Vercelli
Ufficio del Giudice tutelare
Decreto 28 marzo 2018
Est. Bianconi;
TRIBUNALE DI VERCELLI
SEZIONE CIVILE – VOLONTARIA GIURISDIZIONE
UFFICIO DEL GIUDICE TUTELARE
RGV 733 2017 (Apertura amministrazione di sostegno (artt. 404 e segg., c.c.) )
Oggi 28.3.2018, ad ore 09.30, il Giudice tutelare dott. Carlo Bianconi si recava presso
l’abitazione della beneficiaria A. B., di anni 83 ed in atti generalizzata, unitamente
all’Avvocato Mattia Bazzano del Foro di Vercelli, ADS nominato nell’interesse della
medesima.
L’abitazione è sita in *****.
Suonato il campanello, la beneficiaria si avvicinava alla porta di ingresso, ma non riusciva
in alcun modo ad aprirla.
Affacciatasi alla finestra, ella ha mostrato di non riconoscere l’ADS, che si era recato dalla
B. (per la quinta volta in pochi mesi) appena il 12.3.2018.
Tantomeno, riconosceva il GT, visto solo all’udienza 11.7.2017.
Ciò nonostante, mostrandosi sorridente, interloquiva con l’ADS, cercando di seguire le
istruzioni di questi, che la invitava ad aprire la porta, chiedendole se vi fossero delle chiavi
inserite (ovvero, diversamente, se le stesse fossero in qualche cassetto).
Fallito ogni tentativo, l’ADS era costretto, senza alcuna opposizione da parte della
beneficiaria (che, anzi, si adoperava per alzare ulteriormente la tapparella), ad entrare nella
abitazione attraverso la finestra (sic).
Quivi il medesimo riscontrava l’assenza di chiavi nella toppa interna della porta di
ingresso, che era peraltro chiusa con alcune mandate, con conseguente impossibilità di
apertura dall’interno.
La beneficiaria ribadiva – a modo suo – di non sapere dove fossero le chiavi e
soggiungeva: “le ha lei” (riferendosi, con ogni probabilità a C. D., compagna del figlio
defunto della beneficiario, che occupa sine titulo la villetta prospiciente l’abitazione della
beneficiaria, di proprietà esclusiva di quest’ultima).
L‘ADS procurava l’ingresso del GT attraverso l’apertura di una porta finestra prospiciente
il portico di ingresso (soluzione, questa, che la beneficiaria neppure aveva preso in
considerazione).
La beneficiaria faceva accomodare ADS e GT nella cucina, e si appartava per vestirsi; ella,
infatti, aveva accolto i medesimi con indosso una camicia da notte, ed in mutande.
La casa si presentava in discrete condizioni quanto all’ordine; essa, di fatto, è costituita da
una camera da letto, da una cucina, e da un bagno; un’ulteriore stanza era chiusa a chiave,
ed era impossibile accedervi.
Nella cucina, il pavimento era piuttosto sporco, il frigorifero era sostanzialmente vuoto e vi
era un fornello a gas – spento – con una pentola contenente una minestra (verosimilmente il
pranzo della beneficiaria, la quale affermava di “cucinare da sola”).
La B. non riusciva a rispondere alla domanda se fosse in possesso di un telefono; l’ADS
recuperava un cellulare dal di lei comodino (dopo averle chiesto il permesso), ma la
beneficiaria non si mostrava minimamente in grado di comporre un qualsivoglia numero.
Ella riferiva di passare la giornata tra la stanza da letto e la cucina, ove usa sedersi vicino
alla finestra e guardare il passaggio sul corso Vittorio Veneto.
Presentava una enorme difficoltà e precarietà nell’incedere e nel compiere le operazioni
più basilari, quali la seduta; affermava di soffrire di forti dolori alla schiena.
Riferiva di non assumere alcun medicinale (anche se l’ADS mostrava ricetta del medico di
base che prescrive l’assunzione di due farmaci al giorno, la cui presenza in casa non era
dato riscontrare).
Incorreva in numerosissime defaillances riguardo gli argomenti più semplici; proferiva
frasi inattendibili (ad esempio, di voler prendere la bicicletta per recarsi al cimitero) e si
contraddiceva più volte. Non era in grado di riferire la data odierna, nemmeno con
riferimento all’anno 2018.
Riferiva di non gradire un ricovero in casa di riposo, né l’assunzione di una badante, ma
non era in grado di spiegare le motivazioni della “sua decisione”.
Ciò premesso, si osserva quanto segue.
Si danno per richiamati:
– la relazione iniziale dell’ADS;
– l’istanza 26.2.2018 dell’ADS volta ad ottenere il conferimento dei poteri finalizzati al
ricovero della beneficiaria in RSA;
– il relativo decreto 27.2.2018 di questo GT;
– la relazione 13.3.2018 dell’ADS;
– le relazioni di CTU in atti;
alla luce di quanto sopra, e di quanto oggi riscontrato, emerge evidente la gravissima
condizione di precarietà, fragilità ed asservimento della beneficiaria.
Sinteticamente.
Ella, persona in possesso di un cospicuo patrimonio, vive in uno spoglio e sporco
appartamentino “di servizio”, rispetto alla sua abitazione storica (di cui è proprietaria
esclusiva), oggi occupata sine titulo dalla “nuora”.
Trascorre le giornate dapprima allettata sino a tarda ora, e quindi seduta su di una sedia in
cucina, sostanzialmente senza fare niente, e da sola.
Riceve evidentemente solo le visite della “nuora”, che probabilmente si adopererà per
cucinarle qualche pasto semplice, e, auspicabilmente (ma è lecito dubitarne),
somministrarle i farmaci.
È di fatto segregata in casa: ella ha mostrato con disarmante evidenza di non essere in
grado di uscire dalla abitazione, chiusa con una chiave in possesso di terzi (lo stesso
avvenne in sede di secondo accesso del CTU).
Non riesce a deambulare, e rischia di inciampare ad ogni pie’ sospinto.
Fatica nel sedersi e nel compiere le operazioni più semplici.
La casa è priva di strumenti di sostegno per persone con ridotta mobilità, anche nel bagno,
e caratterizzata dalla presenza di un (pericolosissimo) fornello a gas.
La beneficiaria non è assolutamente in grado di chiamare aiuto con il telefono cellulare,
che non ricorda dove ripone, e in ogni caso non sa utilizzare.
Non ha coscienza di malattia e non assume farmaci di propria iniziativa.
Ha mostrato di esporsi ingenuamente ed acriticamente a qualunque richiesta di terzi: ella
non ha riconosciuto l’ADS e tantomeno il GT: nondimeno, si è adoperata per farli entrare
nella sua abitazione (lo stesso avvenne in sede di secondo accesso del CTU); quando i
medesimi erano seduti con lei al tavolo della cucina, non ha avuto esitazioni nel concedere
al primo di assentarsi per andare nella sua camera da letto a recuperare il telefono; ove si
fosse trattato di malintenzionati, ella sarebbe stata esposta facilmente ad ogni tipo di
pericolo.
Alla luce di tutto ciò si impone la immediata adozione di provvedimenti tutelanti per la sua
salute.
L’assunzione di una “badante” per 24 ore giornaliere è una strada ad oggi impercorribile;
in primis, l’immobile, almeno per come visionato, non è idoneo ad accogliere una
lavoratrice nel rispetto della normativa di settore (potrebbe verosimilmente esserlo la villa
prospiciente, ma solo in caso di sua liberazione coattiva; si invita espressamente l’ADS a
valutare iniziative in tal senso); in secondo luogo, l’atteggiamento della “nuora” – che,
appunto, occupa l’immobile di fronte – porterebbe a continui e gravi diverbi, con
appesantimento dei rapporti familiari e di lavoro, e costante conflittualità: prova ne siano le
relazione antecedenti l’apertura della procedura del Sindaco di Villata, che in più occasioni
ebbe modo di scontrarsi con tale soggetto, nonché quanto evidenziato dal CTU e dall’ADS
in occasione del secondo accesso del perito.
La soluzione della vicenda passa necessariamente attraverso un celere inserimento in RSA
della beneficiaria.
Dal punto di vista giuridico, tale operazione è sicuramente lecita e ammissibile nell’ambito
della presente misura di protezione, e ciò anche indipendentemente dal dissenso (peraltro
“di facciata”) della beneficiaria.
Innanzitutto, l’art. 358 c.c. – norma che dispone che il minore in tutela (dunque
l’interdetto) non può abbandonare l’istituto cui è stato destinato senza il permesso del
tutore – disciplina una limitazione, o comunque un effetto, della interdizione, ed è dunque
estensibile al beneficiario di ADS ex art. 411, u.c., c.c., non essendovi ragioni letterali per
ritenere il contrario.
Né si dica che ciò comporterebbe la necessità di aggravamento della misura di ADS, con
conversione della stessa in tutela: da un lato, per la considerazione tecnica appena
illustrata; dall’altro, per le deleterie conseguenze sulle tempistiche processuali, specie
nell’ipotesi in cui la richiesta di ricovero pervenga allorquando (come nel caso in esame) la
misura di ADS sia già aperta; in tal caso, infatti, il provvedimento del Giudice tutelare,
nell’ambito della ADS, può essere adottato ad horas, laddove lo switch procedimentale
verso la misura di tutela dovrebbe necessariamente seguire la (barocca) trafila di cui all’art.
413, u.c., c.c., con trasmissione degli atti al Pubblico Ministero e successiva instaurazione
della procedura di interdizione.
In ultimo, il consenso del beneficiario, tanto alla misura di amministrazione di sostegno,
quanto al compimento degli atti ad essa relativi, non costituisce condizione indefettibile;
non si capirebbe altrimenti il senso dell’art. 410 c.c., che tale dissenso disciplina,
prevedendo per l’appunto il ricorso al GT; non si comprenderebbe il dictum di Cass. Sez. I,
nr. 22602/2017 (punto 18.6) nella parte in cui afferma che, al ricorrere dei presupposti, e
perdurante il rifiuto del beneficiando, “la scelta della nomina dell’amministratore di
sostegno s’impone laddove la riluttanza della persona fragile si fondi su un senso di
orgoglio ingiustificato”; non si capirebbe infine, e paradossalmente, lo stesso istituto della
ADS, che rimarrebbe di fatto svuotato e privo di significato, se l’ADS dovesse
acriticamente seguire ogni volontà della persona beneficiaria (anche laddove essa
costituisse palese estrinsecazione della patologia).
Nel caso in esame, la beneficiaria in ben due occasioni (esame del GT all’udienza di luglio
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2017 e primo esperimento peritale dell’ottobre 2017) si era infatti detta ben disposta circa
un ricovero in struttura, spiegandone con onesta semplicità le ragioni addotte a sostegno: in
sintesi, la volontà di “non pesare sugli altri”.
Solo di recente, ed evidentemente a causa dell’ingravescente demenza senile che la
attanaglia (si confrontino le due perizie in atti, che limpidamente descrivono il netto e
progressivo declino psico-cognitivo della B.), la stessa ha iniziato ad opporre un certo
dissenso, peraltro gentile, ma profondamente immotivato, e tale da lasciare ipotizzare
ingerenze altrui.
Come ben evidenziato dall’ADS nella ultima relazione:
– la necessità di cure fisioterapiche;
– la necessità di controllo sull’assunzione dei farmaci,
– la necessità di interazione tra la beneficiaria e terze persone, anche in ottica
terapeutica rispetto alla patologia che la affligge;
– la impellente necessità di accudimento e di inserimento della medesima in un contesto
protetto, sorvegliato e garantito;
impongono senza dilazione l’adozione di un provvedimento come quello in esame.
Alla luce di tutto quanto precede, e ravvisata l’ulteriore necessità di coinvolgere, per
quanto di rispettiva competenza, l’Ufficio del Pubblico Ministero in sede, ed i servizi
socio-assistenziali e sanitari competenti;
P.Q.M.
Visti gli artt. 344, comma 2, 358, 411, u.c., 407, c. 4 c.c. e 44 disp. att. c.c.
deferisce all’amministratore di sostegno il potere di prestare, in nome e per conto della
beneficiaria ex art. 405, comma 5, nr. 3) c.c., il consenso all’immediato inserimento presso
una casa di cura e ricovero a sua scelta, previo concerto nei termini di cui sopra; analogo
potere è conferito con riferimento alle eventuali dimissioni della beneficiaria;
dispone che il responsabile della struttura individuata, nella persona del direttore pro
tempore, inibisca alla beneficiaria le dimissioni dalla struttura in assenza del consenso
dell’amministratore e/o sino a nuova determinazione del Giudice tutelare;
deferisce all’amministratore di sostegno il potere di avvalersi della collaborazione e
dell’ausilio degli operatori dei servizi socio assistenziali e sanitari (e, unicamente in caso di
gravissima necessità, della forza pubblica) per i fini di cui al presente decreto, sempre
salvo il rispetto della dignità e della libertà personale della beneficiaria.
dispone che l’ADS depositi breve relazione entro 45 giorni dalla comunicazione;
visto l’art. 344, comma 2, c.c.
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dispone la immediata presa in carico della beneficiaria da parte dei servizi socioassistenziali
e sanitari competenti per territorio per il Comune di Villata, per il dovuto
concerto con l’amministratore di sostegno;
dispone la trasmissione del presente verbale all’Ill.mo Sig. Procuratore della Repubblica in
sede affinché, previa estrazione di ogni e qualsiasi atto della presente procedura, ed
eventualmente ravvisate specifiche ipotesi di reato, voglia procedere alle determinazioni di
Sua esclusiva competenza.
Efficacia immediata ex art. 741, comma 2, c.p.c..
Si specifica che dell’odierno sopralluogo sono state effettuati riprese video-fotografiche a
cura del GT, che si verseranno nel fascicolo informatico con nota separata, previo concerto
con la Cancelleria.
Manda la Cancelleria per la comunicazione, con cortese urgenza, all’ADS, al PM in sede,
ed al S.S.A. competente.
Il Giudice tutelare
Dott. Carlo Bianconi