CONTRATTI DI CONVIVENZA
Di Gianfranco Dosi
Conviventi di fatto e negozialità
1) “Contratti di convivenza” e “contratti tra conviventi”
L’art. 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76, nella parte in cui disciplina le convivenze di fatto, si occupa dal comma 50 al comma 64 dei “contratti di convivenza” (con efficacia erga omnes a seguito degli adempimenti di iscrizione anagrafica) e non in genere dei “contratti tra conviventi”. Quindi non si occupa dei contratti con i quali i conviventi, in virtù del principio generale che garantisce piena autonomia negoziale anche nel diritto di famiglia, possono determinare con effetti tra loro obbligatori tutti i rapporti patrimoniali della loro vita in comune, anche per il tempo successivo all’eventuale cessazione della convivenza
1 Quanti hanno finora commentato il “contratto di convivenza” concordano nel ritenere che si tratti di un contratto tipico diverso da quello a contenuto più ampio e anche atipico che i conviventi possono sempre tra loro concludere in virtù della piena autonomia privata e negozialità riconosciuta dall’ordinamento giuridico. .
Si capisce molto bene dal comma 53 – che indica il contenuto limitato dei contratti di convivenza – che l’indicazione di una possibile regolamentazione generale da parte dei conviventi dei loro rapporti patrimoniali nella nuova legge è assente. Pertanto tutta l’elaborazione dottrinale prodotta da decenni sui “contratti tra conviventi” è solo marginalmente utilizzabile per l’analisi dei “contratti di convivenza” indicati nella legge, anche se è auspicabile che in sede di applicazione del nuovo istituto prevalga, come si dirà più oltre, una interpretazione ampia del contenuto del contratto.
Naturalmente “accordi tra conviventi” continueranno ad essere certamente possibili, nei limiti dei diritti di natura indisponibile assicurati dalla nuova legge, con effetti obbligatori tra le parti, fatti salvi gli effetti erga omnes eventualmente garantiti dalle modalità prescelte (per esempio la trascrizione di vincoli o di trasferimenti oggetto di tali contratti).
L’incipit (comma 50: I conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza) sembrerebbe andare nella direzione di un possibile negozialità di tipo generale. Non è così. Nonostante questo incipit, il legislatore si occupa soltanto di tipicizzare un “contratto di convivenza” a contenuto limitato, attribuendogli in presenza di determinati presupposti la forza dell’atto opponibile a terzi, analogamente a quanto in sostanza il codice prevede per le convenzioni matrimoniali.
All’origine, nei progetti di legge originari, i contratti di convivenza avevano invece un contenuto più generale e non un contenuto limitato. Questo in quasi tutti i disegni di legge e di conseguenza anche nel primo testo unificato proposto il 24 giugno 2014 in Commissione giustizia del Senato (che in questa parte riproduceva quasi testualmente la proposta avanzata dal notariato nel 2011 sui patti di convivenza). Nel testo unificato si prevedeva all’art. 13 che il “contratto di convivenza” è il contratto con il quale “i conviventi possono disciplinare i reciproci rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune e alla sua cessazione” e quindi si prevedeva anche una negozialità in vista di una possibile crisi del rapporto. In particolare si prevedeva che con il “contratto di convivenza” si potessero disciplinare cinque aspetti: “1) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, anche in riferimento ai termini, alle modalità e all’entità delle rispettive contribuzioni; 2) che i beni acquistati a titolo oneroso anche da uno dei conviventi successivamente alla stipula del contratto siano soggetti al regime della comunione ordinaria di cui agli articoli 1100 e seguenti del codice civile; 3) i diritti e le obbligazioni di natura patrimoniale derivanti per ciascuno dei contraenti dalla cessazione del rapporto di convivenza per cause diverse dalla morte; 4) che, in deroga al divieto di cui all’art. 458 c.c. e nel rispetto dei diritti dei legittimari, in caso di morte di uno dei contraenti dopo oltre sei anni dalla stipula del contratto, spetti al superstite una quota di eredità non superiore alla quota disponibile. In assenza di legittimari, la quota attribuibile parzialmente può arrivare fino a un terzo dell’eredità; 5) che nei casi di risoluzione del contratto … sia previsto l’obbligo di corrispondere al convivente con minori capacità economiche un assegno di mantenimento determinato in base alle capacità economiche dell’obbligato, al numero di anni del contratto di convivenza e alle capacità lavorative di entrambe le parti”.
Di tutti questi cinque aspetti l’attuale “contratto di convivenza” (che perciò è definibile “a contenuto limitato”) può occuparsi solo dei primi due e cioè delle modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune e della scelta del regime di comunione (con la differenza che nella legge attuale su parla di “comunione dei beni” mentre nel testo unificato del 2014 si parlava di “comunione ordinaria”).
Restano fuori dal “contratto di convivenza” regolamentato dalla nuova legge gli altri aspetti e cioè gli accordi in vista della cessazione della convivenza (diritti e obbligazioni di natura patrimoniale reciproci e previsione di un eventuale assegno alimentare a contenuto non deteriore rispetto a quello previsto per legge) e altre clausole negoziali. Aspetti questi che non possono essere contenuti nel “contratto di convivenza” ma che potrebbero ben essere contenuti – come sopra si è detto – con validità obbligatoria tra le parti, in ulteriori accordi tra conviventi integrativi, e non sostitutivi s’intende, della disciplina inderogabile che la nuova legge introduce a tutela minima dei diritti dei conviventi.
Rimane anche sempre possibile naturalmente l’uso di strumenti ulteriori quali la donazione o il testamento.
2) Il contenuto contributivo del contratto di convivenza
Nel dibattito che da decenni caratterizza l’evoluzione del tema relativo alla negozialità tra conviventi viene messo in primo piano, quale contenuto dei quelli che sono sempre stati tradizionalmente genericamente chiamati contratti di convivenza, l’impegno reciproco a contribuire alle necessità del ménage familiare mediante la corresponsione di somme di denaro o la messa a disposizione di propri beni o della propria attività lavorativa anche solo domestica.
Questo aspetto è presente anche nel nuovo e tipico “contratto di convivenza” disciplinato dalle legge 20 maggio 2016, n.76 che indica questo contenuto definendolo “modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo” (comma 53, lett. b).
Nel testo unificato del 2014 del disegno di legge originario questo aspetto era esplicitato con espressioni di maggiore ampiezza (“modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, anche in riferimento ai termini, alle modalità e all’entità delle rispettive contribuzioni”).
Effettivamente quando tra due persone vi sono doveri morali e sociali di solidarietà reciproca, una suddivisione negoziale dei compiti di contribuzione alla vita comune appare del tutto ragionevole. Così come del tutto ragionevole è pensare che i due conviventi possano assumere obbligazioni reciproche di contribuzione adempiute in denaro o con il proprio lavoro anche domestico. L’assunzione di obblighi di corresponsione di somme di denaro a titolo di mantenimento di un partner nei confronti dell’altro costituisce una funzione storica dei contratti di convivenza. In effetti attraverso l’indicazione di modalità di “contribuzione alle necessità della vita in comune” può raggiungersi anche l’obiettivo di assicurare un mantenimento al partner debole.
La legge 20 maggio 2016, n. 76 non concepisce, quindi, il contratto di convivenza come un contratto di mantenimento, ma come un più ampio contratto di distribuzione di compiti relativamente al ménage familiare, in simmetria potremmo dire con quanto prevede l’ultimo comma dell’art. 143 c.c. per i coniugi che sono “tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni fella famiglia”.
L’obiettivo immediato di questa tutela non è il partner debole ma la famiglia (coniugale, dei partners dell’unione o dei conviventi di fatto).
Si tocca qui uno dei punti di contatto più significativi tra la disciplina della convivenza di fatto e quella del matrimonio e dell’unione civile, rappresentato dall’esistenza di un comune regime di contribuzione ai bisogni della famiglia. 2
2 Cfr la voce PRINCIPIO CONTRIBUTIVO Indicato per legge come regime primario nel matrimonio e nell’unione civile e messo a disposizione dei conviventi di fatto come obiettivo possibile della loro negozialità.
La legge non poteva imporre ai conviventi un obbligo contributivo reciproco giacché la convivenza di fatto è pur sempre caratterizzata dall’assenza di tali obblighi, ma suggerisce uno schema negoziale tipico per assumere un dovere di distribuzione dei compiti di conduzione del ménage familiare.
E questo soprattutto potrà essere il vero contenuto innovativo della negozialità tra i conviventi a cui gli interessati possono accedere facilmente con forme negoziali semplificate come quelle previste dalla nuova legge per la redazione e la pubblicità erga omnes di tali pattuizioni.
L’obiettivo della tutela diretta del partner debole potrà essere sempre assicurato da altre modalità negoziali (contratto di mantenimento, trascrizione di vincoli di destinazione, clausole negoziali relative al diritto sull’abitazione e tutte le altre della tradizione notarile).
II La forma e la pubblicità del contratto di convivenza
comma 50
I conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza.
51. Il contratto di cui al comma 50, le sue modifiche e la sua risoluzione, sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico. 52. Ai fini dell’opponibilità ai terzi, il professionista che ha ricevuto l’atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione ai sensi del comma 51 deve provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli articoli 5 e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223.
1) La forma del contratto di convivenza
In base al comma 51 “Il contratto di cui al comma 50, le sue modifiche e la sua risoluzione, sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico”.
Pertanto la legge prevede ad substantiam la forma scritta (art. 1350 c.c.), implicita peraltro nella precisazione che deve trattarsi di atto pubblico o scrittura privata autenticata.
Nel testo della legge precedente al maxiemendamento del 26 febbraio 2016 si prevedeva che i contratti di convivenza dovessero essere redatti a pena di nullità in forma scritta e ricevuti da un notaio in forma pubblica.
Con la previsione dell’atto pubblico il testo aveva individuato quindi nel solo notaio il professionista che riceve l’atto e che poteva assistere i conviventi nella redazione del contratto. Contro questa scelta l’avvocatura ha chiesto e ottenuto in Senato la presentazione di un emendamento che ha poi portato al testo poi approvato.
I motivi del dissenso rispetto alla scelta che era stata fatta nel testo unificato erano sostanzialmente tre.
1) Il primo motivo attiene alla sostanza del problema. I “contratti di convivenza” sono un aspetto del più generale tema dei rapporti di convivenza che costituiscono rapporti di famiglia e non semplici rapporti commerciali. La convivenza è la modalità che due persone (che si vogliono bene e hanno voglia di vivere insieme) scelgono per metter su famiglia, nella prospettiva di un futuro stabile della vita di coppia, per organizzare i loro rapporti affettivi e patrimoniali, in vista spesso anche della nascita di figli, non al di fuori delle regole della vita familiare ma solo al di fuori della disciplina matrimoniale; e molto spesso senza escludere affatto la stessa possibilità di contrarre in seguito matrimonio. In altre parole la decisione di convivere non è una decisione contro la vita familiare ma una decisione alla quale conseguono rapporti di natura familiare che hanno la stessa dignità della vita familiare fondata sul matrimonio.
I rapporti di convivenza (con o senza figli) sono quindi interni al diritto di famiglia e pongono problemi ai quali il diritto di famiglia e la giurisprudenza del diritto di famiglia nella sua evoluzione hanno dato soluzione.
Si apre quindi con la nuova legge una prospettiva di valorizzazione delle relazioni familiari stabili di fatto e quindi una prospettiva di interventi di garanzie e di tutela che l’ordinamento giuridico e giudiziario dovranno assicurare.
Aver pensato di lasciar fuori da questo contesto gli avvocati con il loro ruolo di difensori, di mediatori, di negoziatori era stata una scelta irragionevole.
2) Il secondo motivo di dissenso sta nella forma dell’atto pubblico che era stata scelta dal testo unificato per la redazione dei contratti di convivenza e che conduce alla competenza del notaio.
La scelta dell’atto pubblico non è affatto necessitata. Il testo unificato originario aveva previsto, per la redazione dei contratti di convivenza la forma dell’atto pubblico sebbene il contratto tra i conviventi – nonostante che individui nella comunione dei beni il possibile regime patrimoniale – non è per definizione una convenzione matrimoniale che in base all’art. 162 c.c. deve essere stipulata per atto pubblico e trasmessa all’ufficio di stato civile per la relativa annotazione a margine dell’atto di matrimonio. Inoltre il contratto di convivenza non può contenere nessun riferimento ad atti trascrivibili (come potrebbe avvenire per una comunione convenzionale) e quindi non deve essere neanche trascritta eventualmente ai sensi degli articoli 2643 e seguenti del codice civile.
Come molti disegni di legge prevedevano ben si sarebbe potuto adempiere alla redazione del contratto con una semplice scrittura privata tra le parti.
Potrebbe ritenersi che la forma pubblica sia stata considerata inevitabile e in certo qual modo obbligata, dalla previsione degli adempimenti relativi alla pubblicità prevista ai fini dell’opponibilità ai terzi. In effetti il disegno di legge prevedeva e oggi la legge prevede – introducendo una ipotesi di pubblicità dichiarativa (simmetricamente a quella relativa alle convenzioni matrimoniali: Cass. civ. Sez. Unite, 13 ottobre 2009, n. 21658 3
3 Cass. civ. Sez. Unite, 13 ottobre 2009, n. 21658 (Fam. Pers. Succ., 2009, 12, 1007). La costituzione del fondo patrimoniale di cui all’art. 167 cod. civ. è soggetta alle disposizioni dell’art. 162 cod. civ., circa le forme delle convenzioni matrimoniali, ivi inclusa quella del quarto comma, che ne condiziona l’opponibilità ai terzi all’annotazione del relativo contratto a margine dell’atto di matrimonio, mentre la trascrizione del vincolo per gli immobili, ai sensi dell’art. 2647 cod. civ., resta degradata a mera pubblicità-notizia e non sopperisce al difetto di annotazione nei registri dello stato civile, che non ammette deroghe o equipollenti, restando irrilevante la conoscenza che i terzi abbiano acquisito altrimenti della costituzione del fondo. ) – che “ai fini dell’opponibilità ai terzi, il notaio che ha ricevuto l’atto in forma pubblica o che ne ha autenticato le sottoscrizioni deve provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli articoli 5 e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223”. La funzione della pubblicità dichiarativa è quella di rendere opponibili ai terzi i fatti di cui di prevede la pubblicità; in questo caso l’inosservanza dell’onere di pubblicità comporta la inopponibilità dei fatti non registrati, a meno che non si provi che i terzi ne siano comunque a conoscenza.
Ebbene, non esiste un principio in base al quale gli adempimenti finalizzati alla pubblicità dichiarativa devono essere costituiti da atti necessariamente pubblici. Tali adempimenti possono essere realizzati quindi del tutto legittimamente ed efficacemente anche se l’atto è costituito semplicemente da una scrittura privata.
Si consideri a tale proposito che il disegno di legge prevedeva e la legge prevede che entro dieci giorni il contratto di convivenza sia trasmesso in copia (non all’ufficio di stato civile per l’annotazione a margine di atti pubblici che per i conviventi non esistono, ma) al Comune di residenza dei conviventi “per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli articoli 5 [rectius 4] e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223”4
4 Il Regolamento anagrafico che disciplina la raccolta sistematica – in apposite schede – delle posizioni relative alle singole persone, alle famiglie e ai conviventi residenti nel Comune, prevede all’art. 5 (dedicato alla “convivenza anagrafica”) un concetto molto ampio di convivenza, di cui i conviventi ai quali si riferisce la legge attuale, sono solo una parte (“agli effetti anagrafici per convivenza si intende un insieme di persone normalmente coabitanti per motivi religiosi, di cura, di assistenza, militari, di pena, e simili, aventi dimora abituale nello stesso Comune”). Il riferimento corretto avrebbe tuttavia dovuto essere all’art. 4 dove si parla di “famiglia anagrafica” riferendosi con tale espressione ad “un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso Comune.
L’art. 7 del Regolamento anagrafico prevede l’obbligo di iscrizione della popolazione residente nell’anagrafe. Quindi i conviventi che costituiscono una famiglia anagrafica hanno, come tutte le altre famiglie e come tutte le altre persone residenti, l’obbligo di iscrizione. .
Il “contratto di convivenza” dovrà essere semplicemente annotato e conservato assieme alla scheda di famiglia non appena trasmesso ai fini della opponibilità ai terzi.
3) Il terzo motivo di dissenso era costituito dal fatto che nulla avrebbe impedito al legislatore – come poi è avvenuto – di prevedere che il contratto potesse essere stipulato con scrittura privata e che tale scrittura privata potesse essere autenticata (non solo dal notaio e da altri pubblici ufficiali ma anche) dall’avvocato.
Ed infatti agli avvocati già sono state attribuite funzioni di certificazione e autenticazione di atti, come gli accordi di separazione e di divorzio raggiunti con la loro assistenza – più impegnativi del semplice “contratto di convivenza” – da trasmettere poi direttamente agli uffici di stato civile ai fini della relativa pubblicità nei registri pubblici.
La normativa sugli accordi raggiunti in sede di negoziazione assistita da avvocati (Decreto-legge 12 settembre 2014, n.132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162) prevede all’art. 2 comma 6 e all’art. 5 comma 2 che gli avvocati certificano l’autografia delle firme e la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico (mentre solo se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti soggetti a trascrizione, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale di accordo deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato)5
5 Il potere di autentica della sottoscrizione è anche attribuito ai mediatori dall’art. 11 comma 3 del D. Lgs 4 marzo 2010, n. 28 relativamente all’accordo raggiunto dalle parti. .
Pertanto se all’avvocato la legge già riconosceva il potere di certificare, autenticare e trasmettere all’ufficio di stato civile accordi in materia di separazione e divorzio, non si vede per quale motivo all’avvocato non potesse essere attribuito il potere di assistere due conviventi nella conclusione di un contratto di convivenza (anche autenticando le firme degli stipulanti) e di attribuirgli il dovere di trasmetterlo all’ufficio (peraltro non di stato civile ma di anagrafe) del Comune.
Lo stesso discorso può farsi per la risoluzione del contratto di convivenza in cui sempre solo al notaio il testo di legge originario aveva attribuito poteri di ricezione delle dichiarazioni delle parti e di autenticazione.
Queste ragioni hanno portato nel maxiemendamento alla riforma del testo precedente e a riconoscere anche agli avvocati il potere di redazione dei contratti di convivenza oltre quello di autenticazione della sottoscrizione delle parti.
2) La scrittura privata autenticata dall’avvocato
Il contratto di convivenza quindi va redatto in forma scritta ad substantiam e quindi a pena di nullità (art. 1350 c.c.). In particolare, secondo quanto stabilisce il comma 51, fa redatto con atto pubblico (quindi dal notaio) o con scrittura privata autenticata.
L’art. 2703 c.c. prevede che siano “il notaio” o un “altro pubblico ufficiale” i soli soggetti che possono autenticare una scrittura privata cioè attestare che la sottoscrizione della scrittura privata è stata redatta in presenza di chi l’autentica. Solo in tali condizioni la scrittura privata “fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta” (art. 2702 c.c.) potendo altrimenti (senza tale autenticazione) essere sempre disconosciuta dal suo autore.
La legge 20 maggio 2016, n. 76 inserisce l’avvocato tra i soggetti che, pur non essendo pubblici ufficiali, hanno potere di autenticazione dei contratti di convivenza. In ciò introducendo una deroga all’art. 2703 del codice civile che limita il potere di autentica ai notai e ai pubblici ufficiali a ciò autorizzati. Sostanzialmente, tuttavia, l’autentica dell’avvocato ha gli stessi effetti di quella del notaio rendendo riconosciuto per legge l’atto autenticato. L’avvocato attesta che la sottoscrizione delle parti è stata apposta in sua presenza ed è evidente che l’avvocato dovrà quindi compiutamente identificare le parti.
Non si tratta di una novità. L’art. 83 del codice di procedura civile prevede che l’avvocato possa autenticare la sottoscrizione del mandato rilasciato a margine o in calce all’atto per il giudizio dal cliente.
La normativa sugli accordi raggiunti in sede di negoziazione assistita da avvocati (Decreto-legge 12 settembre 2014, n.132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162) prevede all’art. 2 comma 6 e all’art. 5 comma 2 che gli avvocati certificano l’autografia delle firme e la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico.
3) La dichiarazione dell’avvocato che il contratto di convivenza è conforme alle norme imperative e all’ordine pubblico
Come si è detto agli avvocati viene anche chiesto di certificare “la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico” in simmetria con quanto già previsto nella normativa sulla mediazione civile (art. 12 D. Lgs 4 marzo 2010, n. 28 come modificato dal DL 21 giugno 2013, n. 69 convertito nella legge 9 agosto 2013, n. 98) e sulla negoziazione assistita (art. 5, comma 2, DL 12 settembre 2014, n. 132 come modificato dalla legge 10 novembre 2014, n. 162).
Al notaio non è attribuita questa specifica formalità dal momento che la legge notarile impone ai notai l’adozione di atti che non possono che essere conformi all’ordine pubblico e alle norme imperative (art. 28, legge 16 febbraio 1913, n. 89 e successive modificazioni).
La certificazione della non contrarietà dell’accordo all’ordine pubblico e alle norme imperative e un compito cruciale dal momento che dalla eventuale violazione di norme imperative deriva, secondo i principi generali (art. 1418 c.c.) la nullità del contratto di convivenza.
In che cosa consiste la contrarietà alle norme imperative a all’ordine pubblico?
Tradizionalmente l’ordine pubblico6
6 Cfr la voce ORDINE PUBBLICO viene inteso come l’insieme delle norme fondamentali dell’ordinamento giuridico, spesso non facilmente individuabili nei codici e nelle leggi scritte, riguardanti principi di tipo per lo più etico la cui osservanza ed attuazione è ritenuta indispensabile per l’esistenza stessa dell’ordinamento e costituita dai principi generali e fondamentali, come quelli concernenti la personalità e la libertà dei cittadini, l’ordinamento del matrimonio e della famiglia, la capacità delle persone. Si tratta, per tornare al tema dei diritti indisponibili, di norme inderogabili di cui è pur tuttavia prevista una evoluzione e un continuo adattamento alle esigenze giuridiche che ispirano l’ordinamento giuridico dello Stato.
Il codice civile fa riferimento all’ordine pubblico in più occasioni senza definirlo e senza attribuire a questa espressione significati costanti (art. 31 disp. att. c.c., 5, 23 ult. co, 251, 634, 1229 co 2, 1343, 1354 co 1, 2031 co 2, 2332)
L’espressione viene utilizzata talvolta per qualificare un certo tipo di norme come norme di ordine pubblico (art. 1229 2 co.), altre volte è correlata al buon costume (artt. 31 disp. prel.; 23 ult. co. c.c.), altre volte è affiancata al buon costume e alle norme imperative (artt. 25, 1 co., 634, 1343, 1354 c.c.).
Questa tecnica legislativa approssimativa sembra proprio il riflesso normativo della difficoltà di definire i confini giuridici di queste espressioni.
D’altro lato come ogni clausola generale l’ordine pubblico è effettivamente un concetto elastico e storicamente variabile a seconda dell’esperienza giuridico-organizzativa a cui partecipa. La stessa giurisprudenza, molto scarsa, fa difficoltà a tradurre in una definizione universale e costante il ruolo svolto dall’ordine pubblico come limite dell’autonomia negoziale.
La stessa difficoltà incontra l’interpretazione dell’espressione “norme imperative”.
Le norme specifiche in cui questa espressione è utilizzata e che hanno costituito anche il campo di indagine della giurisprudenza sono innanzitutto quelle di cui all’art. 1322 e all’art. 1418 del codice civile dedicati alla autonomia contrattuale e ai suoi limiti. L’art. 1322 consente alle parti di determinare liberamente il contenuto del contratto “nei limiti imposti dalla legge” mentre l’art. 1418 prevede la nullità generale del contatto che sia contrario “a norme imperative” salvo che la legge disponga diversamente; da cui si desume che anche il concetto di “contrarietà a norme imperative” ha le sue eccezioni. Infatti la giurisprudenza ha ritenuto che una eccezione sia costituita dal fatto che l’ordinamento assicura l’effettività della norma imperativa con altri rimedi (Cass. sez. III, 5 aprile 2003, n. 5372 in un caso in cui la nullità è stata esclusa essendosi verificata la decadenza da benefici fiscali e creditizi e Cass. se. III, 24 maggio 2003, n. 8236 in un caso in cui la nullità è stata esclusa essendo stato esercitato il riscatto da parte dell’avente diritto alla prelazione).
D’altro lato poi l’art. 1418 prevede che il contratto è anche nullo in altri casi, per esempio quando anche ne sia illecita la causa che a sua volta è tale allorché “è contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume” (art. 1343 c.c.) o quando ne sia illecito il motivo comune (art. 1345 c.c.) o ancora quando sia sottoposto ad una condizione “contraria a norme imperative” (art. 1354 c..c.). Inoltre sempre l’art. 1418 prescrive la nullità “negli altri casi stabiliti dalla legge”.
Il codice sembra prevedere pertanto due categorie generali di nullità. La prima per “illiceità” e “contrarietà a norme imperative” – espressioni che appaiono abbinate nei primi due commi dell’art. 1418 c.c. sullo steso livello di gravità – e la seconda (art. 1418 terzo comma c.c.) per altri motivi indicati nella legge.
La previsione di due differenti contesti di nullità del contratto (da un lato per illiceità del contratto o per contrasto con norme imperative e dall’altro per contrasto con altre norme non imperative, ma ugualmente producenti la nullità) consente di definire la contrarietà alle norme imperative (cui va equiparata la illiceità del contratto nei casi indicati nel secondo comma dell’art. 1418) come una categoria diversa e non sovrapponibile a quella della nullità, con la conseguenza che non tutti i casi di nullità del contratto – ma solo quelli di illiceità e contrarietà a norme imperative – determinano una condizione di non omologazione dell’accordo conciliativo.
L’equiparazione tra contrarietà a norme imperative ed “illiceità del contratto” (cui fa riferimento in generale l’art. 1346 c.c.) è condivisa in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. I, 4 gennaio 1995, n. 118) dove si ritiene che l’illiceità comporta la contrarietà a norme imperative. Si tratta perciò di categorie giuridiche sostanzialmente analoghe.
Per intenderci, un accordo conciliativo potrebbe astrattamente essere omologato anche se contenesse una condizione meramente potestativa (che produce la nullità ex art. 1355 c.c. richiamato dal terzo comma dell’art. 1418 c.c. ma non una nullità per contrasto con norme imperative) anche se una condizione di tal genere vanificherebbe l’esecuzione dell’accordo.
Diversa ancora è la categoria dell’annullabilità Un accordo conciliativo è certamente valido ancorché possa per qualsiasi motivo considerarsi annullabile. Si pensi all’accordo che preveda la possibilità per il mandatario di acquistare il bene che era stato incaricato di vendere. L’accordo in questione sarebbe annullabile ex art. 1471 n. 4 c.c. ma è certamente valido non essendo contrario a norme imperative.
La giurisprudenza ha ritenuto che norme imperative siano quelle poste a tutela dei principi etici fondamentali dell’ordinamento (Cass. civ. Sez. Unite, 11 gennaio 1973, n. 63) ovvero dell’interesse pubblico (Cass. civ. Sez. I, 7 marzo 2001, n. 3272; Cass. civ. Sez. III, 18 luglio 2003, n. 11256) e cioè quando si è in presenza di norme che disciplinano “quanto il legislatore ritiene fondamentale, categorico ed irrinunciabile, tanto da essere sottratto completamente all’autonomia privata, da valere erga omnes e da dover essere applicato anche d’ufficio per ragioni che trascendono l’interesse del singolo” (Cass. civ. Sez. I, 4 gennaio 1995, n. 118). In queste situazioni sono comprese, naturalmente, tutte le norme di carattere penale (Cass. civ. Sez. I, 25 settembre 2003, n. 14234) ovvero tutti gli accordi tesi a frodare la legge cioè a raggiungere una comune finalità contraria alla legge (Cass. civ. Sez. II, 19 febbraio 1983, n. 1244; Cass. civ. Sez. II, 29 gennaio 1983, n. 826). Che anche l’accordo in frode alla legge non sia valido lo si ricava dalla norma generale (art. 1344 c.c.) che considera illecita la causa del contratto tesa ad eludere una norma imperativa.
Ugualmente il motivo illecito comune – come si è detto – è causa di non omologazione dell’accordo. Allorché le parti si determinano alla conclusione di un accordo conciliativo “esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe” (art. 1345 c.c.) si verifica la stessa situazione di illiceità determinata dalla contrarietà alle norme imperative. Anche la giurisprudenza considera ragionevolmente il motivo illecito comune come una finalità contraria alle norme imperative e di ordine pubblico (Cass. civ. Sez. unite, 25 novembre 1993, n. 10603). Naturalmente deve trattarsi di un intento negoziale illecito di entrambe le parti dal momento che l’illiceità del motivo di una delle parti non determina la nullità dell’accordo al quale l’altra parte, pur a conoscenza del motivo illecito che ha guidato l’altro contraente, si è determinata per un proprio autonomo motivo.
La nozione di buon costume non è richiamata. Il che naturalmente non significa che il buon costume non costituisca un limite di validità dei contratti di convivenza, essendo la relativa nozione sostanzialmente e storicamente sovrapponibile a quella di ordine pubblico. Trattandosi di un concetto ancora meno preciso degli altri il legislatore ha preferito evidentemente non utilizzare questa espressione.
4) La pubblicità e l’opponibilità del contratto di convivenza
Il comma 52 prevede che “Ai fini dell’opponibilità ai terzi, il professionista che ha ricevuto l’atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione ai sensi del comma 51 deve provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli articoli 5 [rectius 4] e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223”.
Con questa disposizione la legge introduce una ipotesi di pubblicità dichiarativa (simmetricamente a quella relativa alle convenzioni matrimoniali: Cass. civ. Sez. Unite, 13 ottobre 2009, n. 21658 7
7 Cass. civ. Sez. Unite, 13 ottobre 2009, n. 21658 (Fam. Pers. Succ., 2009, 12, 1007). La costituzione del fondo patrimoniale di cui all’art. 167 cod. civ. è soggetta alle disposizioni dell’art. 162 cod. civ., circa le forme delle convenzioni matrimoniali, ivi inclusa quella del quarto comma, che ne condiziona l’opponibilità ai terzi all’annotazione del relativo contratto a margine dell’atto di matrimonio, mentre la trascrizione del vincolo per gli immobili, ai sensi dell’art. 2647 cod. civ., resta degradata a mera pubblicità-notizia e non sopperisce al difetto di annotazione nei registri dello stato civile, che non ammette deroghe o equipollenti, restando irrilevante la conoscenza che i terzi abbiano acquisito altrimenti della costituzione del fondo. ). Si parla di pubblicità dichiarativa allorché la funzione della pubblicità è quella di rendere opponibili ai terzi i fatti di cui si prevede la pubblicità; in questo caso l’inosservanza dell’onere di pubblicità comporta la inopponibilità dei fatti non registrati, a meno che non si provi che i terzi ne erano comunque a conoscenza. Si ricorda che il legislatore non ha previsto un sistema di registrazione obbligatoria delle convivenze di fatto presso gli uffici dello stato civile ma solo oneri per gli interessati di iscrizione all’anagrafe della popolazione residente (il comma 37 ai fini dell’accertamento della stabile convivenza fa riferimento agli articoli 4 e 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223), adempimenti cui peraltro l’anagrafe può provvedere d’ufficio ove gli interessati non lo facciano.
Occupandosi nel comma 52 degli adempimenti ai fini della pubblicità del contratto di convivenza il legislatore sbaglia facendo riferimento all’art. 5 del regolamento anagrafico. (DPR 30 maggio 1989, n. 223, come modificato dal DPR 17 luglio 2015, n. 126) in quanto il riferimento corretto è all’art. 4. E’ infatti l’art. 4 che si occupa dell’iscrizione anagrafica della “famiglia” (art 4. Famiglia anagrafica 1. Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune. 2. Una famiglia anagrafica può essere costituita da una sola persona) mentre l’art. 5 fa riferimento alla “convivenza anagrafica” intendendo però riferirsi a cosa diversa (Agli effetti anagrafici per convivenza s’intende un insieme di persone normalmente coabitanti per motivi religiosi, di cura, di assistenza, militari, di pena e simili, aventi dimora abituale nello stesso comune. 2. Le persone addette alla convivenza per ragioni di impiego o di lavoro, se vi convivono abitualmente, sono considerate membri della convivenza, purché non costituiscano famiglie a se stanti. 3. Le persone ospitate anche abitualmente in alberghi, locande, pensioni e simili non costituiscono convivenza anagrafica).
Pertanto il contratto di convivenza va iscritto nella scheda di famiglia prevista nell’art. 4 – e non nell’art. 5 – del Regolamento anagrafico. La circolare ministeriale del 1° giugno 2016 prevede l’iscrizione anche nelle schede individuali delle parti.
Potrebbe quindi accadere che i conviventi di fatto – venendo meno agli adempimenti obbligatori previsti nell’ordinamento anagrafico – possano non aver proceduto alla loro iscrizione all’anagrafe della popolazione residente sia come individui che come famiglia.
È assolutamente necessario quindi che il professionista, prima della redazione e della sottoscrizione del contratto di convivenza, si adoperi affinché le parti provvedano agli adempimenti eventualmente non assolti di iscrizione della convivenza all’anagrafe. Tutto ciò anche per facilitare l’annotazione (perché di questo in sostanza si tratta) del contratto di convivenza nella scheda anagrafica di famiglia degli interessati. Il “contratto di convivenza” quindi dovrà essere semplicemente annotato a margine della scheda di famiglia, non appena trasmesso, ai fini della opponibilità ai terzi.
In difetto, gli uffici anagrafici che ricevessero un contratto di convivenza non potrebbero provvedere all’annotazione non potendo provvedere d’ufficio alla formazione della scheda di famiglia, non avendo alcun potere sostitutivo per ciò che riguarda l’indicazione che due conviventi siano tra loro uniti da vincoli affettivi con i requisiti di cui al comma 36.
Benché sia prevista dall’ordinamento anagrafico una modesta sanzione per chiunque si sottrae agli obblighi di comunicazione previsti nell’ordinamento anagrafico e quindi anche per il professionista che non trasmette all’anagrafe il contratto di convivenza, è evidente che si tratta di un adempimento estremamente importante cui conseguono effetti rilevanti di opponibilità verso i terzi la cui omissione potrebbe produrre gravi danni agli interessati. Al di là degli aspetti connessi alla violazione deontologica è opportuno quindi richiamare l’attenzione dei professionisti sulla necessità di assolvere sempre in modo diligente a questi adempimenti.
5) Come avviene materialmente l’iscrizione all’anagrafe del contratto di convivenza?
Il legislatore non indica esattamente che cosa debba materialmente avvenire allorché il contratto viene tramesso all’anagrafe. Che deve fare l’ufficio anagrafico? Che deve fare del contratto di convivenza che gli viene trasmesso? Come si effettua l’iscrizione all’anagrafe del contratto di convivenza?
Il comma 52 parla di “iscrizione” del contratto: meglio avrebbe potuto dire “trascrizione” dal momento che l’ufficiale di anagrafe cura un adempimento di un atto formato da altri e non da lui stesso. Forse perché il termine trascrizione avrebbe potuto creare confusione. Si tratta in sostanza di un adempimento simile all’annotazione delle convenzioni matrimoniali che tuttavia in questo caso si accompagna anche alla conservazione del contratto da parte dell’ufficio anagrafico.
Gli uffici anagrafici, ai sensi dell’art. 1 del Regolamento anagrafico (DPR 30 maggio 1989, n. 223 come modificato dal DPR 17 luglio 2015, n. 126, provvedono alla raccolta sistematica dell’insieme delle posizioni relative “alle singole persone, alle famiglie ed alle convivenze” (riferendosi questo termine, come detto, a situazioni diverse dalle convivenze di fatto affettive che sono comprese invece nel concetto di famiglia) e che l’anagrafe è costituita da schede individuali, di famiglia (ivi compresi i conviventi di fatto) e di convivenza (riferite alle sole comunità di persone che per motivi diversi risiedono insieme). Nelle schede in questione sono registrate le posizioni anagrafiche desunte dalle dichiarazioni degli interessati, dagli accertamenti d’ufficio nonché dalle comunicazioni che provengono dagli uffici di stato civile.
Ebbene il capo IV del regolamento anagrafico si occupa della formazione e dell’ordinamento delle schede anagrafiche precisando all’art. 20 il contenuto delle schede individuali8
8 Art. 20 (Schede individuali)
1. A ciascuna persona residente nel comune deve essere intestata una scheda individuale, sulla quale devono essere obbligatoriamente indicati il cognome, il nome, il sesso, la data e il luogo di nascita, il codice fiscale, e all’art. 21 quello delle schede di famiglia maternità, ed estremi dell’atto di nascita, lo stato civile, ed eventi modificativi, nonché estremi dei relativi atti, il cognome e il nome del coniuge, la professione o la condizione non professionale, il titolo di studio, gli estremi della carta d’identità, il domicilio digitale, la condizione di senza fissa dimora. la cittadinanza, l’indirizzo dell’abitazione. Nella scheda sono altresì indicati i seguenti dati: la paternità e la
2. Nella scheda riguardante i cittadini stranieri sono comunque indicate la cittadinanza e gli estremi del documento di soggiorno.
3. Per le donne coniugate o vedove le schede devono essere intestate al cognome da nubile.
4. Le schede individuali debbono essere tenute costantemente aggiornate e devono essere archiviate quando le persone alle quali sono intestate cessino di far parte della popolazione residente. prescrivendo che “per ciascuna famiglia residente deve essere compilata una scheda di famiglia”.
È evidente quindi che il contratto di convivenza dovrà essere riportato nella scheda di famiglia. Nella Circolare ministeriale del 1° giugno 2016 sull’argomento si afferma che il contratto deve essere annotato anche nella scheda individuale dei contraenti; verosimilmente perché i terzi possano avere notizia dell’esistenza del contratto anche solo dalla sola certificazione di residenza che riporta i dati principali tratti dalla scheda individuale.
La conservazione del contratto negli uffici di anagrafe rende superflua la conservazione del contratto da parte dell’avvocato che lo ha redatto. Viceversa il Notaio ha comunque un obbligo di conservazione del contratto nel proprio repertorio.
In base a quanto poi dispone l’art. 35 del regolamento anagrafico (che si occupa del “Contenuto dei certificati anagrafici”) l’esistenza del contratto di convivenza dovrà essere indicata nei certificati rilasciati dall’anagrafe in modo che gli interessati aventi causa dai conviventi possano conoscere l’esistenza del contratto ed eventualmente accedere al loro contenuto visionando l’atto o richiedendone alle parti una copia.
Anche la risoluzione del contratto di convivenza, come si dirà, andrà annotata all’anagrafe. Gli adempimenti verranno curati dalle parti se la risoluzione avviene per accordo delle parti o per matrimonio o unione civile, mentre saranno curati dal professionista se avviene per recesso unilaterale o per morte di uno dei contraenti.
6) È prevista una sanzione per l’inosservanza degli obblighi di trasmissione all’anagrafe del contratto di convivenza?
L’omesso invio da parte del professionista che ha redatto il contratto di convivenza potrebbe essere soggetto alla sanzione di cui all’art. 11 della legge 24 dicembre 1954, n. 1228 (Ordinamento delle anagrafi della popolazione residente) dove si prevede che “Chiunque avendo obblighi anagrafici contravviene alle disposizioni della presente legge ed a quelle del regolamento è punito, se il fatto non costituisce reato più grave”, con l’ammenda (oggi in euro) prevista da lire 10.000 a lire 50.000 (così stabilita dal D.L. 28 febbraio 1983, n. 55, convertito con modificazioni dalla L. 26 aprile 1983, n. 131).
La procedura per l’applicazione delle sanzioni è indicata nell’artt. 56 del regolamento dove si prescrive che “Le contravvenzioni alle disposizioni della legge 24 dicembre 1954, n. 1228, ed a quelle del presente regolamento commesse dalle persone aventi obblighi anagrafici devono essere accertate, con apposito verbale, dall’ufficiale di anagrafe. Il verbale deve espressamente indicare se al contravventore sia stata o meno personalmente contestata la contravvenzione. Al contravventore ammesso a pagare all’atto della contestazione la somma stabilita dall’art. 11, comma terzo, della citata legge l’ufficiale di anagrafe è tenuto a rilasciare ricevuta dell’eseguito pagamento sull’apposito modulo, da staccare da un bollettario a madre e figlia, vidimato dal sindaco o da un suo delegato.
7) La circolare del Ministero dell’Interno n. 7 del 1° giugno 2016
La legge 20 maggio 2016, n. 76 come si è più volte ricordato, dopo aver dato al comma 36 dell’art. 1 la definizione dei conviventi di fatto, nel successivo comma 37 prevede che “per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’articolo 4 e alla lettera b), comma 1, dell’articolo 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223” mentre al comma 51 – come si vedrà meglio più oltre – attribuisce ai conviventi la facoltà di regolare i loro rapporti patrimoniali mediante un contratto di convivenza che, ai fini dell’opponibilità ai terzi, deve essere trasmesso ai sensi del comma 52
9 Art. 21 (Schede di famiglia)
1. Per ciascuna famiglia residente deve essere compilata una scheda di famiglia, nella quale devono essere indicate le posizioni anagrafiche relative alla famiglia ed alle persone che la costituiscono.
2. La scheda di famiglia deve essere intestata alla persona indicata all’atto della dichiarazione di costituzione della famiglia di cui al comma 1 dell’art. 6 del presente regolamento. Il cambiamento dell’intestatario avviene solo nei casi di decesso o di trasferimento.
3. In caso di mancata indicazione dell’intestatario o di disaccordo sulla sua designazione, sia al momento della costituzione della famiglia, sia all’atto del cambiamento dell’intestatario stesso, l’ufficiale di anagrafe provvederà d’ufficio intestando la scheda al componente più anziano e dandone comunicazione all’intestatario della scheda di famiglia.
4. Nella scheda di famiglia, successivamente alla sua istituzione, devono essere iscritte le persone che entrano a far parte della famiglia e cancellate le persone che cessino di farne parte; in essa devono essere tempestivamente annotate altresì le mutazioni relative alle posizioni di cui al comma 1.
5. La scheda deve essere archiviata per scioglimento della famiglia ovvero per la cancellazione delle persone che ne fanno parte.
per la registrazione in anagrafe “ai sensi degli articoli 5 e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223”.
Ebbene il Ministero dell’Interno con l’intenzione di dare qualche prima indicazione agli uffici anagrafici per la corretta applicazione della legge, ha diramato la Circolare n. 7 il 1° giugno 2016.
Quanto all’iscrizione anagrafica delle convivenze di fatto la Circolare si limita a richiamare il comma 37 ricordando che esse deve essere effettuata secondo quanto già previsto per tutte le persone residenti nel Comune dall’art. 4 e dall’art. 13 del regolamento anagrafico, già sopra esaminato.
Quanto invece alla registrazione in anagrafe dei contratti di convivenza nonostante che la Circolare provenga dalla Direzione Centrale per i Servizi Demografici essa contiene un grave strafalcione in quanto, sintetizzando il contenuto del comma 52, non si avvede del clamoroso errore in cui è caduto anche il legislatore richiamando, l’art. 5 e non l’art. 4 del Regolamento anagrafico. Ed è veramente strano che neanche la Direzione centrale per i Servizi demografici si sia avveduta dell’errore. Infatti la convivenza di fatto rientra nella definizione di “famiglia anagrafica” a cui fa riferimento l’art. 4 del regolamento (“Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune”) mentre l’art. 5 dà la definizione di “convivenza anagrafica” che però si riferisce alle comunità residenziali (“Agli effetti anagrafici per convivenza s’intende un insieme di persone normalmente coabitanti per motivi religiosi, di cura, di assistenza, militari, di pena e simili, aventi dimora abituale nello stesso comune”).
Tra la definizione di famiglia anagrafica (famiglia matrimoniale, unioni civili e conviventi di fatto) e la definizione della convivenza anagrafica (comunità residenziali) non vi è, insomma, nessuna possibile assimilazione.
La Circolare, inoltre, non indica poi nemmeno che modo dovrebbe avvenire la completa registrazione del contratto di convivenza dal momento che – pur definito dalla Circolare un adempimento nuovo – non ne viene approfondita la praticabilità. Non è sufficiente affermare che il contratto va registrato “nella scheda di famiglia dei conviventi oltre che nelle schede individuali” e che gli uffici anagrafici devono “assicurare la conservazione agli atti dell’ufficio della copia del contratto”. Il problema, infatti, è come garantire che il contenuto del contratto possa essere opponibile ai terzi, In assenza di altre indicazioni i terzi dovranno richiedere una copia del contratto ai contraenti ovvero all’ufficio dell’anagrafe per esaminarne il contenuto.
Proprio per questo motivo dovrà essere assicurata la trascrizione completa del contratto nelle schede – non solo l’annotazione dell’esistenza del contratto – e dovrebbe essere individuata una modalità semplice di accesso da parte dei terzi compatibile con le cautele relative alla riservatezza. Il sistema è nuovo e forse qui il legislatore non è stato capace di dare indicazioni più plausibili. Infatti qui non è sufficiente il sistema dell’annotazione (previsto per le convenzioni matrimoniali) in cui la legge prevede il solo riferimento al regime patrimoniale; qui per i conviventi di fatto, oltre all’eventuale regime patrimoniale, deve essere assicurata pubblicità – come meglio si dirà più oltre – al contenuto degli accordi e quindi al contratto integrale.
La Circolare ministeriale crede di poter risolvere il problema soltanto dando l’indicazione di “assicurare la conservazione agli atti dell’ufficio della copia del contratto” ma questo non risolve il problema del meccanismo di opponibilità ai terzi sui quali graverà in ogni caso sempre l’onere di esaminare gli atti archiviati in anagrafe.
Considerando che le certificazioni anagrafiche sono certificati amministrativi e non atti pubblici (Cass. pen. Sez. V, 18 ottobre 2013, n. 6337 10; Cass. pen. Sez. V, 3 novembre 2011, n. 9604 11
10 Cass. pen. Sez. V, 18 ottobre 2013, n. 6337 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il delitto di falsità materiale in certificato amministrativo commesso da privato (artt. 477 – 482 cod. pen.), la sostituzione della fotografia apposta sulla carta di identità con quella di altro soggetto, mantenendo inalterati i dati anagrafici e gli altri elementi identificativi. ; Cass. pen. Sez. V, 21 febbraio 2008, n. 10774 12
11 Cass. pen. Sez. V, 3 novembre 2011, n. 9604 (Pluris, Wolters Kluwer Italia). Integra il delitto di falsità materiale in certificato amministrativo commesso da privato (art. 477 e 482 cod. pen.), la sostituzione nella carta di identità della propria fotografia con quella di altro soggetto, mantenendo inalterati i dati anagrafici e gli altri elementi identificativi. ; Trib. Bologna Sez. II, 22 marzo 2011 13
12 Cass. pen. Sez. V, 21 febbraio 2008, n. 10774 (Pluris, Wolters Kluwer Italia). Integra il reato di falso ideologico in atto pubblico per induzione (artt. 48 e 479 cod. pen.) – e non quello di falsità ideologica in certificati per induzione (artt. 480 cod. pen.) – la condotta di colui che dichiari falsamente l’avvenuta prestazione di giornate lavorative necessarie per beneficiare di prestazioni previdenziali, in quanto gli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli, previsti dalla L. n. 264 del 1949, da compilarsi a cura della commissione comunale per la manodopera agricola, sono atti pubblici che si distinguono dai certificati amministrativi poiché costituiscono documentazione di attività compiuta dal pubblico ufficiale alla quale la legge attribuisce valore costitutivo di diritti e di obblighi. ; T.A.R. Puglia Bari Sez. III, 11 febbraio 2004, n. 499 14
13 Trib. Bologna Sez. II, 22 marzo 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia). E’ infondata la domanda giudiziale volta all’accertamento della nullità e dell’inesistenza della notificazione dell’atto di citazione, ove eseguita presso una residenza anagrafica diversa da quella dell’effettiva residenza del destinatario. A tal riguardo non assume alcuna rilevanza la produzione del certificato anagrafico dal quale si evinca la nuova, diversa residenza. La certificazione anagrafica, difatti, non costituisce piena prova rivestendo valore meramente presuntivo ed essendo sempre ammessa prova contraria. Ai fini di una corretta determinazione del luogo di residenza rileva il luogo di dimora effettiva ed abituale per cui i certificati anagrafici hanno valore meramente presuntivo potendo essere superati dalla produzione di prove contrarie desumibili da qualsiasi fonte di convincimento liberamente valutabili dal giudice. ; Cass. civ. Sez. III, 27
14 T.A.R. Puglia Bari Sez. III, 11 febbraio 2004, n. 499 (Pluris, Wolters Kluwer Italia). I certificati anagrafici di residenza non sono atti pubblici muniti di fede privilegiata, avendo valore soltanto presuntivo, poiché gli stessi suscettibili, pertanto, di prova contraria. attestano ciò che emerge dalle registrazioni anagrafiche effettuate in base alle dichiarazioni rese dall’interessato, ; Cass. civ. 18 gennaio 1973, n. 180 17 15 Cass. civ. Sez. III, 27 gennaio 1986, n. 524 (Pluris, Wolters Kluwer Italia). I certificati amministrativi anagrafici, se concernono annotazioni eseguite in pubblici registri sulla scorta di accertamenti compiuti ex officio ovvero di dichiarazioni rese alla p. a., hanno piena efficacia probatoria soltanto relativamente all’esistenza di dette annotazioni e non anche in merito alla corrispondenza delle stesse alla realtà oggettiva, al qual fine possono concorrere alla formazione del convincimento del giudice quali presunzioni semplici, superabili da prova contraria. ) un modo per risolvere il problema dell’opponibilità potrebbe essere quello di riportare il contenuto completo del contratto di convivenza in una parte “riservata” della schede individuali e della scheda di famiglia consentendone la comunicazione solo ai terzi che possano documentare il consenso degli interessati e non a tutti coloro che chiedono ad altri fini la certificazione anagrafica. In altre parole sui terzi contraenti graverà l’onere di acquisire il consenso degli interessati per l’esame del contratto, sempre che gli interessati non lo abbiano già messo a disposizione del terzo in adempimento del dovere di buona fede che grava su tutti i contraenti (art. 1337 c.c.).
8) La registrazione e l’imposta di registro
La normativa sull’imposta di registro (Testo Unico 26 aprile 1986, n. 131) prescrive che sono soggetti a registrazione tutti gli atti indicati nella tariffa se formati per iscritto nel territorio dello Stato (art. 2 lett. a).
Tra questi sono indicati come soggetti a registrazione in termine fisso sostanzialmente tutti gli atti aventi ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale (Tariffa, Parte 1, articoli 1-10) nonché tutti gli “atti pubblici e scritture private autenticate… non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale” (Tariffa, Parte 1, art. 11)
L’imposta di registro è sostanzialmente proporzionale (3%) se l’atto ha, quindi, ad oggetto una prestazione a contenuto patrimoniale, mentre è a misura fissa (euro 200,00) se l’atto “non ha ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”.
I contratti di convivenza – che il Testo Unico non prevede tra i molteplici atti che pure sono ivi richiamati (trattandosi di una novità legislativa) – sono certamente inclusi in questa seconda categoria come avviene per le convenzioni matrimoniali. In effetti si tratta di atti programmatici che non concernono un immediato trasferimento di ricchezza, che è al contrario indicativo di capacità contributiva e quindi oggetto di tassazione proporzionale come tutti i trasferimenti immobiliari. Poiché non hanno nulla a che vedere con gli accordi in occasione del divorzio o della separazione previsti per i coniugi, non trovano naturalmente applicazione in questo settore le esenzioni fiscali previste dall’art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74.
L’espressione usata dall’art. 11 della Tariffa (“atti pubblici e scritture private autenticate… non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”) va intesa quindi nel senso di atti che non effettuano un trasferimento immediato di ricchezza, ancorché, come i contratti di convivenza, abbiano in senso ampio un contenuto certamente patrimoniale.
La registrazione deve essere curata dalle parti. L’art. 10 del Testo Unico prevede che sono, comunque, obbligati a richiedere la registrazione “i notai, gli ufficiali giudiziari, i segretari o delegati della pubblica amministrazione e gli altri pubblici ufficiali per gli atti da essi redatti, ricevuti o autenticati”.
Come si è detto il comma 51 dell’art. 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76, prevede che il contratto di convivenza, le sue modifiche e la sua risoluzione, sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico.
Il notaio è certamente quindi soggetto obbligato a richiedere la registrazione.
Allo stato della normativa l’avvocato ancorché chiamato ad autenticare la sottoscrizione delle parti nel contratto di convivenza non è pubblico ufficiale e quindi non è obbligato a tale adempimento.
Altro discorso è se il solo dato formale dell’esclusione della qualifica di pubblico ufficiale possa rendere giusto che l’avvocato debba considerarsi escluso dal novero dei soggetti che l’art. 10 lett. b include tra gli “altri pubblici ufficiali” tenuti a richiedere la registrazione. L’art. 10 del Testo Unico è stato così modificato nel 2007 quando ancora non esisteva la normativa sulla mediazione civile, né quella sulla negoziazione, né esistevano le disposizioni vigenti sui contratti di convivenza. Si può quindi ritenere che il Testo Unico del 1986, con le modifiche del 2007, si riferisca non ai “pubblici ufficiali” ma in genere ai soggetti che possono autenticare atti (e che, all’epoca, erano
16 Cass. civ., 28 maggio 1981, n. 3512 (Pluris, Wolters Kluwer Italia). I certificati anagrafici e delle camere di commercio, nella parte concernente annotazioni inserite in pubblici registri sulla scorta di dichiarazioni rese alla p. a., hanno piena efficacia probatoria soltanto relativamente all’esistenza di dette annotazioni e dichiarazioni, non anche in ordine alla corrispondenza delle stesse alla realtà oggettiva, al qual fine, pertanto, possono concorrere alla formazione del convincimento del giudice quali presunzioni semplici, superabili da prova contraria.
17 Cass. civ., 18 gennaio 1973, n. 180 (Pluris, Wolters Kluwer Italia). I certificati amministrativi, fra cui quelli anagrafici, non assurgono al valore di atti pubblici facenti fede sino a querela di falso; se essi concernono annotazioni inserite in pubblici registri sulla scorta di accertamenti compiuti ex officio ovvero di dichiarazioni rese alla p. a. hanno piena efficacia probatoria soltanto relativamente all’esistenza di dette annotazioni e dichiarazioni, ma non anche in merito alla corrispondenza delle stesse alla realtà oggettiva, e possono pertanto concorrere alla formazione del convincimento del giudice quali presunzioni semplici, superabili da prova contraria.
solo i pubblici ufficiali”). Pertanto gli avvocati potrebbero essere inclusi ragionevolmente, per ragioni di simmetria nel sistema, tra i soggetti obbligati a richiedere la registrazione dei contratti di convivenza da loro autenticati.
Sarebbe però necessario un provvedimento legislativo o un pronunciamento dell’Agenzia delle entrate considerato che la registrazione va chiesta entro venti giorni dall’atto (art. 13) a pena di sanzioni pecuniarie (art. 69 che prevede la sanzione amministrativa dal 120 al 240 per cento dell’imposta evasa. Una norma sul punto è inoltre assolutamente necessaria anche in considerazione del fatto che tutti i soggetti obbligati a richiedere la registrazione devono anche annotare in un apposito repertorio gli atti soggetti a registrazione, con le modalità molto dettagliate previste nell’art. 67 del Testo Unico e con gli adempimenti ulteriori anche di esibizione previsti nel Testo Unico il quale peraltro all’art. 73 punisce chi non osserva queste disposizioni con sanzioni amministrative pecuniarie molto pesanti.
9) Il progetto di legge per l’attribuzione agli avvocati di un potere generale di autentica
Con il numero 2172 è in discussione alla Camera dal marzo 2014 un progetto di legge per l “attribuzione agli avvocati del potere di autenticazione delle scritture private e di attestazione della conformità di copie all’originale”.18
La proposta intende inserire nell’ordinamento giuridico la possibilità per l’avvocato di autenticare le sottoscrizioni nelle scritture private e di attestare la conformità delle copie all’originale.
Premesso che nel nostro ordinamento troviamo diverse figure, anche professionali, che a vario titolo intervengono nell’autenticazione delle sottoscrizioni delle persone, allo stato attuale della normativa gli atti pubblici devono essere redatti dal notaio o da un pubblico ufficiale espressamente abilitato allo scopo (art. 2702 c.c.) mentre in altre ipotesi soggetti diversi, indipendentemente dalla loro preparazione giuridica, hanno la facoltà di autenticare determinate sottoscrizioni (per esempio il potere di autenticazione delle sottoscrizioni delle liste elettorali, che è facoltà anche dei consiglieri comunali).
L’avvocato ha poteri di autenticazione (art. 83 del codice di procedura civile, art. 2 comma 6 e all’art. 5 comma 2 del Decreto-legge 12 settembre 2014, n.132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162). Già oggi sono obbligati a identificare i loro clienti ai fini del rispetto della normativa antiriciclaggio, stabilita dai regolamenti di cui ai decreti del Ministro dell’economia e delle finanze, n. 141 e n. 143, del 3 febbraio 2006, mediante la registrazione dei dati contenuti nei documenti d’identità dei clienti stessi.
La proposta di legge attribuisce anche agli avvocati il potere di autenticare la sottoscrizione di scritture private e conferisce ai medesimi professionisti anche il potere di attestare la conformità delle copie all’originale. Nell’esercizio di tali poteri l’avvocato è, sarà considerato a tutti gli effetti, un pubblico ufficiale e sarà soggetto a tutti gli obblighi che gravano sui notai.
18 ART. 1. (Autenticazione delle sottoscrizioni da parte dell’avvocato). 1. L’avvocato iscritto da almeno tre anni al consiglio dell’Ordine degli avvocati può autenticare le sottoscrizioni apposte dalle parti nelle scritture private, nelle quietanze e nelle dichiarazioni unilaterali, anche a contenuto non esclusivamente giuridico. 2. L’avvocato di cui al comma 1 può altresì attestare la conformità all’originale di copie, eseguite su supporto informatico o cartaceo, di documenti formati su qualsiasi supporto e a lui esibiti in originale o in copia autentica. 3. L’autenticazione delle sottoscrizioni apposte in calce alle scritture private è stesa di seguito alle sottoscrizioni medesime e deve contenere la dichiarazione che le sottoscrizioni furono apposte in presenza dell’avvocato con indicazione del luogo, della data e dell’ora. Per le sottoscrizioni marginali e per i fogli intermedi è sufficiente che di seguito ai medesimi l’avvocato aggiunga la propria sottoscrizione. 4. L’autenticazione delle sottoscrizioni è effettuata alla presenza delle parti. 5. L’avvocato deve essere certo dell’identità personale delle parti di cui autentica la sottoscrizione. Può raggiungere tale certezza al momento dell’autenticazione, valutando tutti gli elementi atti a formare il suo convincimento. 6. Restano ferme le disposizioni vigenti che attribuiscono il potere di autenticazione ad altri pubblici ufficiali. 7. L’autenticazione delle sottoscrizioni consente di procedere alla trascrizione, all’iscrizione, all’annotazione, alla registrazione e alla voltura, in qualsiasi pubblico registro o ufficio, dei contratti o di ogni altro atto, inclusi quelli previsti dall’articolo 2643 del codice civile, salvo che la legge non disponga la necessità di provvedere mediante atto pubblico; in tale caso all’autenticazione delle sottoscrizioni deve partecipare un pubblico ufficiale a ciò autorizzato. 8. La ripartizione dei compensi professionali tra i professionisti che hanno prestato congiuntamente la loro opera ai fini di cui al presente articolo è determinata con il decreto di cui all’articolo 4, comma 1. ART. 2. (Responsabilità dell’avvocato nell’autenticazione di scritture private). 1. L’avvocato incaricato da una o da tutte le parti contraenti di autenticare le sottoscrizioni da loro apposte alla scrittura privata o agli altri atti previsti dall’articolo 1, è obbligato a verificare la validità degli stessi e la rispondenza dei contenuti alle norme di legge e alla volontà delle parti, salvo che per atti o fatti che egli non è in grado di conoscere. 2. La violazione dell’obbligo di cui al comma 1 costituisce illecito disciplinare da parte dell’avvocato singolo, o in solido con gli altri avvocati incaricati, fatto salvo il risarcimento del danno. ART. 3. (Titolo esecutivo). 1. La scrittura privata autenticata dall’avvocato costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica, per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione, l’iscrizione, l’annotazione, la registrazione e la voltura nei pubblici registri o uffici dei diritti derivanti dalle scritture private autenticate di cui all’articolo 1, nei limiti stabiliti ai sensi dell’articolo 4, comma 2. ART. 4. (Registro delle scritture private autenticate dall’avvocato). 1. Le scritture private autenticate dall’avvocato sono conservate in un apposito registro cronologico, istituito e tenuto dall’avvocato stesso, con le modalità previste da un decreto emanato dal Ministro della giustizia entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sentito il Consiglio nazionale forense. 2. Entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Consiglio nazionale forense emana direttive di carattere deontologico anche in ordine ai compensi dell’avvocato per l’attività di cui alla medesima legge, i quali tengono conto degli interessi delle parti assistite, dell’attività effettivamente prestata e del prezzo o del valore dell’atto autenticato. ART. 5. (Clausola di invarianza finanziaria). 1. Dall’attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. A tali fini si prevede che il Ministro della giustizia stabilisca le modalità di istituzione e di tenuta di un apposito registro nel quale l’avvocato dovrà conservare le scritture private autenticate (e quindi anche i contratti di convivenza) nonché l’emanazione da parte del Consiglio nazionale forense di direttive specifiche per l’attuazione della legge, anche aventi ad oggetto la deontologia dell’avvocato e le tariffe applicabili.
III Il contenuto del contratto di convivenza
comma 53
Il contratto di cui al comma 50 reca l’indicazione dell’indirizzo indicato da ciascuna parte al quale sono effettuate le comunicazioni inerenti al contratto medesimo. Il contratto può contenere:
a) l’indicazione della residenza;
b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo;
c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile.
54. Il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza può essere modificato in qualunque momento nel corso della convivenza con le modalità di cui al comma 51.
55. Il trattamento dei dati personali contenuti nelle certificazioni anagrafiche deve avvenire conformemente alla normativa prevista dal codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, garantendo il rispetto della dignità degli appartenenti al contratto di convivenza. I dati personali contenuti nelle certificazioni anagrafiche non possono costituire elemento di discriminazione a carico delle parti del contratto di convivenza.
1) L’indicazione della residenza comune
Residenza comune può essere indicata nel contratto di convivenza (ed anzi può anche esserne l’unico elemento ove nulla i conviventi dispongano in ordine al regime patrimoniale) così evitando che possano nascere in seguito problemi relativi alla identificazione del luogo di residenza della coppia.
Al di fuori della residenza deve escludersi che sia possibile l’indicazione nel contratto di altri elementi relativi ai rapporti personali.
2) Le modalità di contribuzione nel corso della convivenza
La legge prevede il “contratto di convivenza” quale modalità negoziale con cui i conviventi – come afferma il comma 50 – “possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune” e con cui possono altresì fissare la residenza comune.
Sennonché, nonostante l’ampiezza della formula utilizzata nel comma 50 (che nel testo originario del disegno di legge, come si è già detto, alludeva e si concretizzava in un contenuto molto ampio di possibili “rapporti patrimoniali”19), il contenuto specifico del contratto si riduce in sostanza solo a due possibili aspetti patrimoniali che sono predeterminati per legge. Secondo il quarto comma infatti il contratto di convivenza può prevedere soltanto, quanto agli aspetti patrimoniali, a) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo;b) il regime patrimoniale della comunione dei beni (come disciplinato dagli artt. 177 – 197 c.c.).
Mentre è chiaro che cosa si intenda per scelta del regime della comunione dei beni, non altrettanto chiaro è che cosa il legislatore intenda per scelta delle “modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune”. Nemmeno l’art. 143 del codice civile – che per i coniugi individua il regime primario contributivo – parla di “modalità” ma prescrive in via generale che “entrambi i coniugi sono
19 In quasi tutti i disegni di legge precedenti e nell’art. 13 del primo testo unificato proposto il 24 giugno 2014 in Commissione giustizia del Senato (che in questa parte riproduceva quasi testualmente la proposta avanzata dal notariato nel 2011 sui patti di convivenza) si prevedeva che il “contratto di convivenza” è il contratto con il quale “i conviventi possono disciplinare i reciproci rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune e alla sua cessazione” e quindi si prevedeva anche una negozialità in vista di una possibile crisi del rapporto. In particolare si prevedeva che con il “contratto di convivenza” si potessero disciplinare cinque aspetti: “1) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, anche in riferimento ai termini, alle modalità e all’entità delle rispettive contribuzioni; 2) che i beni acquistati a titolo oneroso anche da uno dei conviventi successivamente alla stipula del contratto siano soggetti al regime della comunione ordinaria di cui agli articoli 1100 e seguenti del codice civile; 3) i diritti e le obbligazioni di natura patrimoniale derivanti per ciascuno dei contraenti dalla cessazione del rapporto di convivenza per cause diverse dalla morte; 4) che, in deroga al divieto di cui all’art. 458 c.c. e nel rispetto dei diritti dei legittimari, in caso di morte di uno dei contraenti dopo oltre sei anni dalla stipula del contratto, spetti al superstite una quota di eredità non superiore alla quota disponibile. In assenza di legittimari, la quota attribuibile parzialmente può arrivare fino a un terzo dell’eredità; 5) che nei casi di risoluzione del contratto … sia previsto l’obbligo di corrispondere al convivente con minori capacità economiche un assegno di mantenimento determinato in base alle capacità economiche dell’obbligato, al numero di anni del contratto di convivenza e alle capacità lavorative di entrambe le parti”.
tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo a contribuire ai bisogni della famiglia” indicando un obbligo del quale le modalità di attuazione dipenderanno di volta in volta dagli accordi tra i coniugi (art. 144 c.c.).
Indicazione delle “modalità di contribuzione” significa che i conviventi possono rendere opponibili verso terzi le modalità con cui essi si distribuiscono gli oneri economici nella gestione della vita in comune.
Il contenuto tradizionale dei quelli che sono sempre stati tradizionalmente genericamente chiamati contratti di convivenza, è certamente l’impegno reciproco a contribuire alle necessità del ménage familiare mediante la corresponsione di somme di denaro o la messa a disposizione di propri beni o della propria attività lavorativa anche solo domestica.
Effettivamente – come ho avuto modo sopra di precisare – quando tra due persone vi sono doveri morali e sociali di solidarietà reciproca, una suddivisione negoziale dei compiti di contribuzione alla vita comune appare del tutto ragionevole. Così come del tutto ragionevole è pensare che i due conviventi possano assumere obbligazioni reciproche di contribuzione adempiute in denaro o con il proprio lavoro anche domestico. L’assunzione di obblighi di corresponsione di somme di denaro a titolo di mantenimento di un partner nei confronti dell’altro costituisce una funzione storica dei contratti di convivenza. In effetti attraverso l’indicazione di modalità di “contribuzione alle necessità della vita in comune” può raggiungersi anche l’obiettivo di assicurare un mantenimento al partner debole.
E tutto ciò anche se la legge 20 maggio 2016, n. 76 non concepisce il contratto di convivenza come un contratto di mantenimento del partner debole, ma come un più ampio contratto di distribuzione di compiti relativamente al ménage familiare, in simmetria potremmo dire con quanto prevede l’ultimo comma dell’art. 143 c.c. per i coniugi che sono “tenuti, ciascuno in relazione alla proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni fella famiglia”. L’obiettivo immediato di questa tutela non è il partner debole ma la famiglia (coniugale, dei partners dell’unione o dei conviventi di fatto).
La legge non poteva imporre ai conviventi un obbligo contributivo reciproco giacché la convivenza di fatto è pur sempre caratterizzata dall’assenza di tali obblighi, ma suggerisce uno schema negoziale tipico per assumere un dovere di distribuzione dei compiti di conduzione del ménage familiare.
E questo soprattutto potrà essere il vero contenuto innovativo della negozialità tra i conviventi a cui gli interessati possono accedere facilmente con forme negoziali semplificate come quelle previste dalla nuova legge per la redazione e la pubblicità erga omnes di tali pattuizioni.
I conviventi con il contratto di convivenza si assumono, perciò, ciascuno una quota dei costi della vita comune. E quindi se i conviventi pattuiscono nel “contratto di convivenza” che solo uno dei due sia obbligato al pagamento dell’affitto della casa, il proprietario della casa che i conviventi conducono in locazione, potrà pretendere l’affitto dal solo convivente onerato dall’obbligazione sempre naturalmente che il contratto di convivenza preceda quello di locazione. Ai creditori insomma saranno opponibili le modalità prescelte dai conviventi.
Ugualmente avverrà per tutte le clausole concordate riferibili ad altre concrete modalità di contribuzione.
Questo aspetto è di grande importanza dal momento che introduce una “rilevanza esterna” degli accordi tra conviventi che non c’è oggi neanche per gli accordi tra i coniugi. Gli accordi tra coniugi di cui all’art. 144 del codice civile, infatti, sono rilevanti nei confronti dei creditori solo nella misura in cui – come si è visto – essi abbiano potuto fare affidamento sulla situazione esteriore. Viceversa, essendo gli accordi tra conviventi certificati in un accordo iscritto all’anagrafe (e quindi essendovi in regime di pubblicità) – fermo l’obbligo del convivente debitore di rendere edotto il creditore della condizione di convivenza in adempimento del generale dovere di buona fede contrattuale (art. 1337 c.c.) – il creditore diligente potrà sempre acquisire copia all’anagrafe del contratto di convivenza il cui contenuto sarà sempre a lui opponibile.
Sarà interessante verificare nel tempo in relazione al contenuto relativo alle “modalità di contribuzione” quali estrinsecazioni di negozialità relative ai loro rapporti patrimoniali la prassi ammetterà che i conviventi possano individuare, inserendole nel contratto di convivenza (per esempio clausole di natura reale, come trasferimenti di diritti reali anche immobiliari o costituzione di vincoli di destinazione ex art. 2645 ter c.c. ovvero un trust o clausole negoziali simili). In tali casi nel contratto di convivenza verrebbe ad ampliarsi notevolmente il ventaglio delle “modalità di contribuzione della vita in comune” salvo sempre il divieto (che sembra molto chiaro nella espressione utilizzata dal legislatore) di clausole relative alla contribuzione reciproca in seguito alla cessazione della convivenza. Clausole, tuttavia che se escluse dal contratto di convivenza possono certamente essere oggetto di un “contratto tra conviventi” ma non con contenuto restrittivo rispetto a quanto garantito dal comma 65 in caso di cessazione della convivenza.
3) Il regime patrimoniale della comunione dei beni
L’altro contenuto patrimoniale del contratto di convivenza è la possibile scelta del regime di comunione dei beni “di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile” e quindi come regolato dagli articoli dal 177 al 197 del codice civile (non la “comunione ordinaria” come era stato in origine suggerito in alcuni disegni di legge e anche dal notariato) e con esclusione perciò – questa dovrebbe verosimilmente essere la conclusione corretta – anche della comunione convenzionale.
I conviventi, quindi, se lo desiderano possono espressamente optare per questo regime. Pertanto non esiste un regime patrimoniale legale della convivenza (cioè un regime applicabile automaticamente in assenza di scelta diversa, come la comunione dei beni lo è per i coniugi).
La scelta del regime di comunione dei beni comporta l’applicabilità di tutte le norme di tale regime patrimoniale. Quindi innanzitutto le norme che definiscono l’oggetto della comunione e il perimetro dei beni in comunione e di quelli, invece, personali; le regole sull’amministrazione della comunione, quelle relative agli obblighi gravanti sui beni della comunione e sulle obbligazioni contratte dai conviventi prima dell’inizio della convivenza e, anche separatamente, durante la convivenza; infine le norme sulla comunione de residuo, sullo scioglimento della comunione e sui rimborsi e le restituzioni.
La discutibile previsione nella legge della possibilità di recesso unilaterale dal contratto di convivenza – e quindi dello scioglimento anche del regime di comunione eventualmente scelto dai conviventi – rende di fatto superfluo il rimedio della separazione giudiziale di beni (art. 193 c.c. pur richiamato dalla disposizione qui in commento) che consentirebbe di sciogliere la comunione in caso di interdizione o inabilitazione dell’altro convivente, oppure di cattiva amministrazione dei beni in comunione e disordine degli affari che possa mettere in pericolo gli interessi personali o quelli della comunione ovvero allorché uno dei conviventi non contribuisce ai bisogni della vita in comune.
Il legislatore non ha previsto la possibilità per i conviventi di scegliere il regime patrimoniale della comunione convenzionale né quello della separazione dei beni, altrimenti lo avrebbe dovuto esplicitare ammettendo i conviventi a scegliere “uno dei regimi patrimoniali previsti nel capo VI del primo libro del codice”. Su questo aspetto il legislatore sembra aver fatto però un po’ di confusione. Nel testo unificato del 2014 (e in quello del 2011 del notariato) si accennava al regime della “comunione dei beni” non ma solo al regime della “comunione ordinaria”, mentre nella maggior parte degli altri disegni di legge si ipotizzava ragionevolmente l’estensione alle coppie di conviventi di uno dei regimi patrimoniali della famiglia (comunione dei beni, comunione convenzionale, separazione dei beni). Il testo unificato Cirinnà bis del 2015 e la legge attuale – dopo il maxiemendamento del 26 febbraio 2016 – hanno invece previsto solo il regime patrimoniale della comunione dei beni (e non quello della comunione ordinaria), ma nel fare questa opzione, non hanno previsto espressamente che la coppia possa scegliere anche il regime della separazione dei beni.
Nel testo di legge attuale non si accenna, quindi, al regime della separazione dei beni e si afferma che il contratto di convivenza può prevedere solo il regime della comunione dei beni. Questa conclusione non può considerarsi smentita dalla norma (comma 56) che ammette la modifica del regime patrimoniale, disposizione che, pur essendo palesemente contraddittoria, non può essere letta come introduttiva surrettiziamente di un regime diverso da quello della comunione dei beni.
E d’altro lato la scelta del regime della separazione dei beni non sembra neanche ammissibile dal punto di vista di quanto stabilisce la lettera a) e cioè inquadrandola tra “le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo”. Ciò perché nella lettera a) si allude al regime contributivo primario mentre nella lettera b) si fa riferimento al regime distributivo secondario. Si tratta di due situazioni ben differenti.
Pertanto se la coppia non sceglie il regime della comunione rimane in una condizione di autonomia patrimoniale reciproca che si avvicina molto al regime di separazione dei beni ma che non coincide con questo.
Il fatto che legislatore non ammetta che i conviventi possano optare per il regime della separazione dei beni è solo una svista o c’è in questa mancata espressa previsione qualcosa di più?
Infatti potrebbe anche essere avvenuto che il legislatore abbia inteso che i conviventi ove non optino per il regime della comunione dei beni, restino in separazione dei beni. Ma questo non sarebbe corretto perché un conto è la condizione di autonomia reciproca e un altro conto è il regime della separazione dei beni. Ciò perché separazione dei beni, come è noto, è un regime patrimoniale, non è un “non regime”. In altre parole due persone in separazione dei beni hanno una disciplina che è diversa da quella in cui trovano due persone che non sono vincolate da quel regime. Si pensi all’art. 219 c.c. che prevede che il bene di cui un coniuge non riesca a dimostrare di essere proprietario è, in deroga alle regole sulla prova, di proprietà per metà di ciascuno dei due (in applicazione del regime primario contributivo che permea anche il regime di separazione dei beni). Pertanto da un punto di vista di corretta interpretazione giuridica si deve ritenere che il legislatore abbia inteso prevedere per i conviventi soltanto la possibilità di opzione per il regime della comunione dei beni (e non per quello di separazione dei beni).
Ove i due conviventi volessero scegliere un regime analogo a quello di separazione potranno farlo in un “contratto tra conviventi” (con effetti obbligatori tra di loro), ma non all’interno del “contratto di convivenza” opponibile erga omnes. In tal caso, però, la separazione dei beni resterebbe una clausola interna alla vita della coppia. Per i terzi il regime della coppia sarà quello dell’autonomia patrimoniale.
4) Il contenuto eccedente o contrastante con la previsione di legge
La disposizione di cui al comma 53 secondo cui il contratto può contenere a) l’indicazione della residenza; b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo; c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile) è certamente da considerarsi una norma imperativa.
La violazione di una norma imperativa costituisce secondo i principi generali (art. 1418 c.c.) causa di nullità del contratto, ancorché evidentemente il comma 57 non la includa espressamente tra le cause di nullità ivi previste.
Un problema di eccedenza e di contrasto rispetto alla volontà del legislatore si porrà soprattutto per ciò che attiene all’interpretazione dell’espressione “modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune”, dal momento che l’interpretazione della disposizione non è certo agevole, come si è sopra visto, quanto alla delimitazione dei suoi contenuti.
È nullo l’intero contratto o sono nulle solo le clausole eccedenti o contrastanti con la previsione di legge?
Riterrei che possa applicarsi la disposizione dell’art. 1419 c.c. secondo cui “la nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità”.
5) La qualificazione giuridica del contratto di convivenza
Con l’introduzione nel sistema normativo il contratto di convivenza acquista la dignità di un contratto tipico. Analogamente alle convenzioni matrimoniali che sono certamente contratti tipici.
La natura contrattuale è indiscussa avendo il contratto in questione natura patrimoniale (art. 1321 c.c.). Pertanto esso avrà forza di legge tra le parti (art. 1372 c.c.) e non potrà essere sciolto se non per accordo tra le parti o per le altre cause previste nella legge. A queste cause si farà riferimento trattando delle ipotesi di risoluzione del contratto di convivenza previste nel comma 59.
Volendo entrare nel dettaglio della qualificazione giuridica non vi possono essere dubbi sul fatto che il contratto di convivenza, regolamentando le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, e il regime patrimoniale della comunione dei beni si presenta come un contratto ad esecuzione continuata.
Ciò premesso, in base a quanto prevede il secondo comma dell’art. 1373 c.c. la facoltà di recesso – di cui più approfonditamente si parlerà in prosieguo – potrà essere sempre esercitata ma senza effetto “per le prestazioni già eseguite”. Con la conseguenza che mai potranno essere oggetto di ripetizione eventuali elargizioni effettuate tra i conviventi in relazione alle obbligazioni assunte reciprocamente con il contratto. Da questo punto di vista l’inquadramento delle contribuzioni reciproche all’interno della categoria delle obbligazioni giuridiche assicurerà gli stessi effetti di irripetibilità tra conviventi derivanti dall’inquadramento delle rispettive elargizioni nell’ambito delle obbligazioni naturali.
6) Se manca il contratto di convivenza?
Dal tenore molto chiaro del comma 50 (“I conviventi di fatto possono disciplinare…”) si comprende che il contratto di convivenza non è obbligatorio ma è facoltativo.
Perciò si pone il problema di accertare quale sia lo statuto dei rapporti patrimoniali tra conviventi in assenza di contratto di convivenza.
La risposta a questo interrogativo non è difficile. Lo statuto patrimoniale della convivenza di fatto nei rapporti tra conviventi è quello semplicemente da tempo riconosciuto delle obbligazioni naturali e cioè dell’irripetibilità delle prestazioni economiche liberamente effettuate nei confronti dell’altro per far fronte alle esigenze della vita in comune e della solidarietà quotidiana nella di coppia. La legge ricorda a tale proposito che conviventi di fatto sono “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale” richiamando quindi l’esistenza di vere e proprie obbligazioni naturali di solidarietà reciproca tra conviventi e quindi il regime della irripetibilità ex art. 2034 c.c. degli apporti legati a tale solidarietà.
È opportuno ribadire che la legge non prescrive tale obbligo ma si limita a riconoscerne l’esistenza e quindi non ha imposto alcuna trasformazione giuridica dell’obbligazione naturale in obbligazione civile.
7) La modifica del contratto e del regime patrimoniale
Come si è visto, in base al comma 51 “Il contratto di cui al comma 50, le sue modifiche e la sua risoluzione, sono redatti in forma scritta, a pena di nullità…”. Pertanto nel comma in questione si prevede espressamente che i conviventi possano sempre modificare il contratto di convivenza con le stesse forme e modalità con cui l’hanno stipulato. Perciò a seguito della modifica il professionista sarà tenuto agli adempimenti previsti dal comma 52 ai fini dell’iscrizione all’anagrafe.
Il comma 54 prevede che “il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza può essere modificato in qualunque momento” nel corso della convivenza con le modalità di cui al secondo comma.
Si è sopra detto che i conviventi secondo la nuova legge possono scegliere il regime di comunione dei beni “di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile” e quindi come regolato dagli articoli dal 177 al 197 del codice civile.
Ora se è corretta l’interpretazione che si è sopra data della volontà del legislatore di prevedere la possibilità per i conviventi della scelta del solo regime della comunione dei beni “di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile”, ci si chiede in che cosa possa consistere la modificazione di questo regime.
L’unica risposta possibile e coerente è che il comma 54 intenda riferirsi alla possibilità offerta del tutto plausibilmente ai conviventi di far cessare quando lo desiderano il regime di comunione dei beni ed eventualmente di reinserirlo nel contratto in seguito.
Non sembra possibile dare al comma 56 il significato – che pure qualche commentatore ha dato – di consentire ai conviventi, quale contenuto della modifica, la scelta di un altro regime, per esempio quello della separazione dei beni o della comunione convenzionale. Questa soluzione sarebbe stata del tutto plausibile in sede di redazione della norma ed è del tutto auspicabile de iure condendo, ma non è proponibile nel testo attuale in quanto il comma 54 non consente la scelta di altri regimi patrimoniali che quindi non possono essere introdotti nel contesto delle modifiche del regime prescelto.
Naturalmente non è escluso che la prassi e magari la giurisprudenza – se non dovesse pensarci il legislatore – possano orientarsi per una interpretazione diversa consentendo alle parti, come sarebbe del tutto ragionevole, di modificare il regime della comunione in quello della comunione convenzionale o in quello della separazione.
Stando al dato letterale del comma 54 si potrebbe ritenere che i conviventi possano modificare nel corso della convivenza soltanto il regime patrimoniale e non le modalità di contribuzione. Si tratta, però, di una interpretazione letterale irragionevole dal momento che non vi sono ragioni plausibili che possano rendere immodificabili le modalità di contribuzione.
La modificabilità di tutti i diversi punti del contratto di convivenza appare pienamente ammissibile dando all’espressione “il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza può essere modificato…” il significato di “l’assetto patrimoniale scelto nel contratto di convivenza può essere modificato…”.
Naturalmente, come precisa lo stesso comma 54, ogni modifica del regime e dell’asseto scelto originariamente dovrà anche essere comunicata all’anagrafe dal professionista che assiste le parti nella modifica del regime e dell’assetto.
Pertanto si può evidenziare un principio generale secondo cui sia il contratto che i singoli punti di esso sono sempre modificabili (per quanto concerne il regime nei liniti di cui si è detto) e devono essere sempre comunicati all’anagrafe per l’iscrizione a margine delle schede individuali e di famiglia.
8) Il trattamento dei dati personali
Molto opportuna appare la previsione contenuta nel comma 55 secondo cui il trattamento dei dati personali contenuti nelle certificazioni anagrafiche deve avvenire in modo tale da garantire il rispetto della dignità degli appartenenti al contratto di convivenza.
Ugualmente i dati personali contenuti nelle certificazioni anagrafiche non possono costituire, in alcun contesto nel quale tale certificazione dovesse essere richiesta, elemento o causa di discriminazione a carico delle parti del contratto di convivenza.
Spetterà al Ministero dell’Interno, quale autorità preposta all’organizzazione dei servizi anagrafici, dare istruzioni per il rispetto di queste disposizioni.
IV La nullità e la sospensione dell’efficacia del contratto di convivenza
comma 56
Il contratto di convivenza non può essere sottoposto a termine o condizione. Nel caso in cui le parti inseriscano termini o condizioni, questi si hanno per non apposti.
57. Il contratto di convivenza è affetto da nullità insanabile che può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse se concluso:
a) in presenza di un vincolo matrimoniale, di un’unione civile o di un altro contratto di convivenza;
b) in violazione del comma 36;
c) da persona minore di età;
d) da persona interdetta giudizialmente;
e) in caso di condanna per il delitto di cui all’articolo 88 del codice civile.
58. Gli effetti del contratto di convivenza restano sospesi in pendenza del procedimento di interdizione giudiziale o nel caso di rinvio a giudizio o di misura cautelare disposti per il delitto di cui all’articolo 88 del codice civile, fino a quando non sia pronunciata sentenza di proscioglimento.
1) Inopponibilità di termini e condizioni
Il comma 56 vieta l’apposizione di termini o condizioni al contratto di convivenza.
Nel caso in cui le parti inseriscano termini o condizioni, questi si hanno per non apposti (viziatur sed non vitiat). La nullità colpisce in altre parole solo i termini e le finale al contratto di convivenza.
È evidente che essendo consentita la risoluzione del contratto di convivenza (non solo per accordo delle parti ma anche per recesso unilaterale) a tale contratto è implicitamente condizioni aggiunte. Pertanto non sarà ammissibile l’apposizione di un termine
apposto il termine risolutivo dell’eventuale scioglimento dell’impegno dei conviventi.
In altre parole, come per il matrimonio, non vale alcun principio di indissolubilità né della convivenza di fatto né, tanto meno, degli accordi di convivenza.
2) Le cause di nullità del contrato di convivenza
Il comma 57 della legge enumera le cause di nullità insanabile del contratto di convivenza. Nullità che può essere, perciò, fatta valere da chiunque vi abbia interesse. La precisazione (superflua) che la nullità è insanabile vuol dire sostanzialmente che la nullità non è suscettibile di convalida (art. 1423 c.c. dove si precisa tuttavia che è la possibilità di convalida che il legislatore deve indicare, non il contrario).
Anche le altre ipotesi – di cui si è sopra parlato – di nullità del contratto di convivenza per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico sono insanabili.
Comporta che il professionista debba fare particolare attenzione per evitare non solo il rischio della nullità in sé – e, in relazione alla retroattività della dichiarazione di nullità, della ripetibilità delle eventuali prestazioni adempiute in esecuzione di tale contratto – ma anche della insanabilità del contratto nullo. Il contratto di convivenza nullo quindi non può essere sanato ma può essere solo stipulato di nuovo.
La prima causa di nullità specifica (lettera a) è costituita dal fatto che il contratto sia stato stipulato in presenza di un vincolo matrimoniale o di una unione civile da parte di uno dei due stipulanti. Su pensi al caso in cui uno dei due conviventi risulti sposato con altra persona o parte di una unione civile con altra persona.
Ugualmente nullo è il contratto di convivenza stipulato da chi sia parte o ancora parte di un altro contratto di convivenza.
Come si è visto il comma 36 della legge esclude l’applicazione delle disposizioni sulla convivenza di fatto nel caso in cui le persone cui essa si riferisce siano parenti o affini tra di loro ovvero unite da un vincolo adottivo, unite in matrimonio o da una unione civile.
Costituisce pertanto conseguenza di questo principio il fatto che il contratto di convivenza eventualmente stipulato tra tali persone sia considerato nullo.
Partner di una convivenza di fatto non può essere, ugualmente (comma 36), un soggetto minore di età. Pertanto l’ipotesi della nullità del contratto stipulato da un minore di età (lettera c del comma 57) è frutto di un refuso normativo (legato al fatto che in precedenti disegni di legge non si faceva cenno al requisito della maggiore età ed anzi si riteneva che la convivenza di due minori potesse essere autorizzata dal tribunale per i minorenni). I minori di età non possono essere parti di una convivenza, e quindi di contrato di convivenza, neanche con l’autorizzazione del tribunale per i minorenni.
Ulteriore ipotesi di nullità è il contratto di convivenza concluso da una coppia di cui anche solo uno dei partners sia interdetto (lettera d) o condannata per omicidio consumato in danno del coniuge del proprio partner ai sensi dell’art. 88 c.c. (lettera e).
3) La sospensione dell’efficacia del contratto
Nelle ultime due ipotesi cui si è fatto riferimento (interdizione e condanna penale) – ai sensi del comma 58 – gli effetti del contratto di convivenza eventualmente stipulato prima di tali avvenimenti restano sospesi (e non possono quindi trovare applicazione) in pendenza del procedimento di interdizione ovvero dal rinvio a giudizio o di eventuale misura cautelare per il delitto di cui all’art. 88 c.c. fino alla sentenza di proscioglimento.
L’ipotesi della sospensione del regime patrimoniale (che è uno dei due contenuti del contratto di convivenza) non è espressamente disciplinata nemmeno per i coniugi in comunione.
La disposizione prevista dalla nuova legge per i conviventi comporta per esempio che in caso di procedimento di interdizione di uno dei due conviventi in comunione dei beni, l’eventuale acquisto compiuto insieme o separatamente resta di proprietà del convivente acquirente o di quello non soggetto al procedimento di interdizione, finché non si concluda il procedimento di interdizione. Ove l’interdizione non venisse dichiarata si verificherà l’effetto comunione con decorrenza dalla data dell’acquisto. Ove invece venisse dichiarata l’effetto non si verifica nei confronti del convivente interdetto.
Non pare possibile, non essendo stata espressamente prevista, l’estensione della disposizione del comma 58 all’amministrazione di sostegno.
V La risoluzione del contratto di convivenza
comma 59
Il contratto di convivenza si risolve per:
a) accordo delle parti;
b) recesso unilaterale;
c) matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona;
d) morte di uno dei contraenti.
60. La risoluzione del contratto di convivenza per accordo delle parti o per recesso unilaterale deve essere redatta nelle forme di cui al comma 51. Qualora il contratto di convivenza preveda, a norma del comma 53, lettera c), il regime patrimoniale della comunione dei beni, la sua risoluzione determina lo scioglimento della comunione medesima e si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile. Resta in ogni caso ferma la competenza del notaio per gli atti di trasferimento di diritti reali immobiliari comunque discendenti dal contratto di convivenza.
61. Nel caso di recesso unilaterale da un contratto di convivenza il professionista che riceve o che autentica l’atto è tenuto, oltre che agli adempimenti di cui al comma 52, a notificarne copia all’altro contraente all’indirizzo risultante dal contratto. Nel caso in cui la casa familiare sia nella disponibilità esclusiva del recedente, la dichiarazione di recesso, a pena di nullità, deve contenere il termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l’abitazione.
62. Nel caso di cui alla lettera c) del comma 59, il contraente che ha contratto matrimonio o unione civile deve notificare all’altro contraente, nonché al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza, l’estratto di matrimonio o di unione civile.
63. Nel caso di cui alla lettera d) del comma 59, il contraente superstite o gli eredi del contraente deceduto devono notificare al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza l’estratto dell’atto di morte affinché provveda ad annotare a margine del contratto di convivenza l’avvenuta risoluzione del contratto e a notificarlo all’anagrafe del comune di residenza.
1) Le ipotesi di risoluzione del contratto di convivenza
Il comma 59 della legge prevede le quattro ipotesi di risoluzione del contratto di convivenza (accordo delle parti, recesso unilaterale, matrimonio o unione civile anche di uno dei due partners, morte di uno dei contraenti). Il termine “risoluzione” ben si attaglia a tutte le ipotesi.
La “risoluzione del contratto” si accompagna in genere alla “cessazione” della convivenza che si verifica quando vengono meno i presupposti che l’hanno determinata e quindi nei casi in cui per iniziativa congiunta o di uno dei due conviventi si interrompe quel legame affettivo di coppia che costituisce l’essenza della convivenza di fatto. In tal caso – salvo quanto si dirà in ordine agli obblighi dei professionisti introdotti dalla nuova legge – il convivente che recede e si allontana farà registrare all’anagrafe il cambio di residenza (art. 10 del regolamento anagrafico dove si prevede che le mutazioni anagrafiche avvengono in primo luogo per necessaria iniziativa degli interessati). Negli altri casi (morte, matrimonio o unione civile) vengono meno automaticamente i presupposti legali e gli effetti anagrafici si determineranno comunque anche per iniziativa d’ufficio (sempre l’art. 10 del regolamento anagrafico prevede che le mutazioni avvengono d’ufficio in seguito alle comunicazioni di stato civile anche ove gli interessati non si attivino per farlo).
La legge, in ogni caso, si disinteressa della cessazione in sé della convivenza salvo quando vi siano figli minori in cui troveranno applicazione le norme dettate dal codice civile sulla responsabilità genitoriale per la regolamentazione dell’affidamento e del mantenimento ove le parti o una di esse intendano rivolgersi al tribunale (art. 337 bis e seguenti del codice civile).
Quello che il legislatore ha previsto, invece, sono i riflessi della cessazione della convivenza sul contratto di convivenza.
A voler essere precisi, non tutte le ipotesi di risoluzione del contratto presuppongono necessariamente lo scioglimento, cioè la cessazione, della convivenza, anche se il legislatore le tratta ragionevolmente come conseguenza della scissione del rapporto di convivenza. Per esempio l’accordo delle parti di risolvere un contratto di convivenza potrebbe anche essere determinato dalla volontà dei partners di sciogliersi solo dai vincoli di natura patrimoniale ma non da quelli affettivi, magari in vista di una riflessione per un diverso contratto di convivenza. In ogni caso è certamente vero che essendo il contratto di convivenza la cornice che regola i rapporti patrimoniali tra i conviventi, ove i partners non intendano procedere direttamente ad una modifica dell’assetto patrimoniale, la risoluzione del contratto consegue per lo più alla volontà di separazione della vita in comune.
Anche la risoluzione del contratto di convivenza andrà annotata all’anagrafe. Gli adempimenti verranno curati dalle parti se la risoluzione avviene per accordo delle parti o per matrimonio o unione civile, mentre saranno curati dal professionista se avviene per recesso unilaterale o per morte di uno dei contraenti.
2) La risoluzione per accordo delle parti
Ad ognuna delle quattro ipotesi corrispondono modalità per così dire esecutive diversificate.
La risoluzione per accordo delle parti e quella per recesso unilaterale devono essere redatte nelle stesse forme di cui al comma 51 e quindi con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che dovrà trasmettere entro i successivi dieci giorni al Comune di residenza dei conviventi per l’annotazione all’anagrafe di cui si è già parlato.
Qualora il contratto di convivenza preveda il regime patrimoniale della comunione dei beni, la sua risoluzione determina lo scioglimento della comunione medesima e troveranno applicazione le norme del codice civile in materia di divisione.
Resta in ogni caso ferma la competenza del notaio per gli atti di trasferimento di diritti reali immobiliari comunque discendenti dal contratto di convivenza.
3) Il recesso unilaterale
Di tutte le ipotesi di risoluzione del contratto, il recesso unilaterale è quella che richiede un maggiore approfondimento essendo evidente che la scissione della vita di coppia – che inevitabilmente consegue alla risoluzione del contratto – determinata dalla volontà di uno dei due conviventi è quella che può offrire ragioni di maggiore problematicità, analogamente a quanto avviene nella separazione coniugale.
In effetti il contratto di convivenza è un vero e proprio contratto e la previsione del recesso unilaterale ha natura eccezionale, essendo prevista appunto nei soli casi, quali appunto quello in questione, dei contratti che hanno esecuzione continuata (art. 1373, secondo comma c.c.).
Si deve notare che il legislatore non ha disciplinato la separazione dei conviventi ma soltanto la risoluzione congiunta o il recesso unilaterale del contratto di convivenza.
Con ciò lasciando intendere, come si è detto sopra, che la legge si disinteressa delle modalità con cui si verifica la scissione della vita di coppia (salvo in presenza di figli). E poiché il recesso è l’atto con il quale una delle parti può sciogliersi unilateralmente dal vincolo contrattuale (in deroga al principio sancito dall’art. 1372 c.c. secondo il quale il contratto può essere sciolto solo per mutuo consenso o per le altre cause ammesse dalla legge) resta assodato che ciò che alla legge interessa sono soltanto le modalità con cui cessano le obbligazioni che i conviventi hanno regolamentato nel contratto di convivenza. Le altre obbligazioni patrimoniali – nello specifico quelle relative alle obbligazioni di mantenimento o alimentari – conseguono ex lege alla cessazione della convivenza e quando anche fossero state regolamentate dalle parti attraverso un “accordo tra conviventi” non potrebbero mai derogare alle disposizioni di natura indisponibile contenute nel comma 65 che sarà più oltre esaminato.
Ora se si considera che il contratto di convivenza può introdurre il regime della comunione dei beni ne deriva che una delle parti può sciogliere con efficacia immediata la comunione semplicemente recedendo dal contratto. Il recesso avrà quindi l’effetto di sciogliere la comunione e di produrre l’immediata operatività della comunione de residuo: effetto che nel regime coniugale della comunione legale si verifica solo al momento in cui il presidente autorizza i coniugi a vivere separati. Il recesso si presta quindi anche come possibile occasione di strumentalizzazioni e questo renderà il regime della comunione oggettivamente poco appetibile come regime patrimoniale dei conviventi.
Anche la risoluzione per recesso unilaterale deve essere redatta nelle stesse forme di cui al comma 51 e quindi con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che dovrà trasmettere entro i successivi dieci giorni al Comune di residenza dei conviventi per l’annotazione all’anagrafe di cui si è già parlato. D’altro lato è pacifico che, laddove il recesso si riferisca ad un negozio qualificato da un formalismo ad substantiam, come appunto la forma esaminata del contratto di convivenza, anche la dichiarazione debba rivestire la stessa forma, dovendo sottostare alle medesime garanzie formali prescritte per la costituzione del rapporto contrattuale alla cui risoluzione il recesso stesso è preordinato (Cass. civ. Sez. III, 18 febbraio 1994, n. 1609 20).
La seconda parte del comma 61 prevede che caso di recesso la dichiarazione unilaterale di uno dei conviventi oltre ad essere trasmessa al Comune di residenza dei conviventi deve anche essere notificata a cura del notaio o dell’avvocato all’altro contraente all’indirizzo indicato dal recedente o risultante dal contratto e, nel caso in cui la casa familiare sia nella disponibilità esclusiva del recedente (che ne sia proprietario o locatario), a pena di nullità, deve contenere il termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l’abitazione.
20 Cass. civ. Sez. III, 18 febbraio 1994, n. 1609 (Pluris, Wolters Kluwer Italia). Nei contratti formali le cause modificative o estintive del rapporto debbono risultare da fattori prestabiliti dalle parti nello stesso contratto e debbono essere, comunque, espresse nella forma richiesta per il contratto al quale si riferiscono. Conseguentemente, l’accordo solutorio e la dichiarazione di recesso debbono rivestire la stessa forma scritta richiesta per la stipulazione del contratto preliminare. Il recesso, inoltre, può essere esercitato solo dal rappresentante munito di procura generale o speciale espressamente conferita a tal fine, trattandosi di atto negoziale da valere agli effetti sostanziali della permanenza del contratto cui si riferisce. La legge non indica il termine entro cui il notaio o l’avvocato devono notificare all’altro contraente la decisione di recesso ma è ragionevole pensare che ciò debba avvenire al più presto e comunque nello termine di dieci giorni previsto per l’invio dell’atto all’anagrafe del Comune di residenza dei contraenti per le iscrizioni previste.
La disciplina generale del recesso è prevista dall’art. 1373 del codice civile il cui secondo comma prevede che nei contratti ad esecuzione continuata – come certamente va qualificato anche il contratto di convivenza – la facoltà di recesso può essere sempre esercitata. Ciò in sintonia con il principio generale che la facoltà di recedere da un contratto deve essere necessariamente pattuita o prevista dalla legge.
Il recesso consiste in un negozio giuridico unilaterale di natura recettizia, che produce i suoi effetti dal momento in cui perviene a conoscenza della persona alla quale è destinato, secondo le regole proprie degli atti unilaterali ex art. 1334 del codice civile. Ed è anche per questo, appunto, che il notaio o l’avvocato devono notificare l’atto di recesso da essi formato all’altra parte.
Per quanto attiene alla forma dell’atto, l’art. 1373 c.c. non richiede alcuna formula sacramentale: tuttavia, giacché trattasi di facoltà attribuita ad uno o ad entrambi i contraenti derogativa al principio generale per il quale il contratto ha forza di legge tra le parti, la volontà di recedere “deve essere sempre redatta in termini inequivoci, tali da non lasciare alcun dubbio circa la volontà dei contraenti di inserirla nel negozio da loro sottoscritto” (Cass. civ. Sez. II, 26 novembre 1987, n. 8776 21).
Il diritto di recesso, che in genere non può essere svincolato da un termine preciso o, quanto meno, sicuramente determinabile, in assenza del quale l’efficacia del contratto resterebbe indefinitamente subordinata all’arbitrio della parte è, invece, in questo caso di contratto ad esecuzione continuata esercitabile finché dura la convivenza e, come detto a commento del comma 56 (a mente del quale “Il contratto, di convivenza non può essere sottoposto a termine o condizione”) non può essere né vietato, ancorché per accordo tra le parti, né condizionato dall’apposizione di alcun termine. Né le parti possono prevedere nel regolamento contrattuale un corrispettivo (la cosiddetta multa penitenziale) per il diritto di recesso.
Naturalmente in base all’art. 1373 c.c. “il recesso non ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione”.
In ogni caso, il recesso, di regola, non ha effetto retroattivo, ma produce la sua efficacia ex nunc e diviene irrevocabile nel momento in cui viene esercitato e divenuto produttivo di effetti e una riviviscenza del contenuto del contratto di convivenza potrà avvenire solo attraverso la rinnovazione del contratto.
È intuitivo che nessuna indagine può essere ammessa sulla plausibilità del recesso unilaterale non essendo ammissibile nessun condizionamento e nessuna limitazione o tanto meno la previsione di una penale.
Il diritto di recesso è pieno e può essere esercitato in ogni tempo.
4) Recesso e conseguenze sull’abitazione familiare
Come si è visto la seconda parte del comma 61 prevede testualmente che nel caso in cui l’abitazione familiare sia nella disponibilità esclusiva del recedente (che ne sia per esempio proprietario o locatario o comodatario), la dichiarazione di recesso “a pena di nullità, deve contenere il termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l’abitazione”. In tale significato avere la disponibilità esclusiva significa quindi essere titolari di una posizione giuridica di cui non è titolare l’altro convivente.
A differenza però di quanto avviene in caso di morte del convivente proprietario (in cui il convivente superstite ha diritto di rimanere nell’abitazione familiare per il periodo previsto nel comma 42) in caso di recesso non vi è nessuna riserva di abitazione a favore dell’altro convivente. Naturalmente ove vi siano figli comuni minori o maggiorenni non autosufficienti il convivente con il quale i figli rimangono domiciliati avrà diritto a rimanere nell’abitazione come assegnatario (con una conversione legislativa quindi della decisone di Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404 22), impregiudicati i diritti dell’eventuale locatore o dell’eventuale comodante.
Desta perplessità – e francamente appare irragionevole – l’indicazione che l’indicazione del termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l’abitazione debba essere necessariamente contenuta a pena di nullità nella dichiarazione di recesso. Se manca l’indicazione di tale termine quindi, la dichiarazione di recesso sarebbe nulla. Il che sembrerebbe escludere che il convivente proprietario della casa di abitazione o che ne abbia comunque la
21 Cass. civ. Sez. II, 26 novembre 1987, n. 8776 (Pluris, Wolters Kluwer Italia). La clausola con la quale si attribuisce ad uno o ad entrambi i contraenti la facoltà di recesso ex art. 1373 c. c., siccome derogativa al principio generale per il quale il contratto ha forza di legge tra le parti, pur non richiedendo alcuna formula sacramentale, deve essere sempre redatta in termini inequivoci, tali da non lasciare alcun dubbio circa la volontà dei contraenti di inserirla nel negozio da loro sottoscritto (nella specie, in applicazione di tale principio, la suprema corte ha ritenuto corretta la decisione del giudice del merito secondo cui le parti non avevano in concreto inteso stabilire un recesso ex art. 1373 c. c., ma una penale per il caso di inadempimento).
22 Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404 (Giur. It., 1988, I,1, 1627 nota di TRABUCCHI) E’ costituzionalmente illegittimo – in riferimento agli art. 2 e 3 cost. – l’art. 6, l. 27 luglio 1978, n. 392 nella parte in cui non prevede la successione nel contratto di locazione al conduttore che abbia cessato la convivenza more uxorio a favore del già convivente quando vi sia prole naturale.
disponibilità possa per esempio decidere (magari per un accordo tra i conviventi) che l’altro rimanga nell’abitazione. Ora, se questo è plausibile in caso di proprietà, altrettanto non lo sarebbe in caso di locazione o di comodato (ove l’accordo non potrebbe certamente avere effetti verso i terzi proprietari dell’immobile). Pertanto la norma non può che essere interpretata nel senso che ove il convivente che recede dal contratto (e quindi che pone fine in sostanza alla convivenza) è proprietario potrebbe non indicare all’altro il termine per il rilascio (ma ove volesse farlo lo deve fare a pena di nullità nella dichiarazione di recesso); mentre nell’ipotesi in cui sia locatario o comodatario avrebbe l’obbligo di indicare tale termine. In altre parole in caso di recedente proprietario l’indicazione del termine per il rilascio è obbligatorio a pena di nullità solo se il recedente intende che l’altro convivente lasci l’abitazione.
Altro elemento di perplessità è “il termine non inferiore a novanta giorni” – e cioè di almeno novanta giorni – e quindi il termine indicato può essere superiore a novanta giorni. Il che, in caso di recedente locatario o comodatario, potrebbe comportare una eccessiva penalizzazione per il locatore o per il comodante. In ogni caso sia il locatore che il comodante mantengono pienamente la titolarità dei diritti che la legge loro riconosce.
La questione che anche si deve affrontare è che cosa avviene se tra i conviventi non c’è stata stipulazione di alcun contratto di convivenza. In tal caso non vi sarà recesso da alcun contratto ma solo la decisione di interrompere la convivenza. In questo caso si potrebbe ritenere che non vi possa essere per l’altro convivente un trattamento deteriore e che quindi la disposizione debba valere anche in questa ipotesi.
Come si è già detto il comma 42 per il caso di morte del convivente proprietario dell’abitazione familiare richiama l’art. 337-sexies c.c. prevedendone l’applicazione in caso di figli comuni; e quindi richiama anche la parte in cui la norma dispone che “il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’articolo 2643”. Viceversa per il caso di recesso unilaterale (dal contratto di convivenza o dalla convivenza in sé)
5) La risoluzione in seguito a matrimonio o unione civile di uno dei conviventi
Nel caso di matrimonio o unione civile tra uno dei conviventi ed altra persona si determina la risoluzione ex lege del contratto di convivenza. In tal caso il convivente che con tale atto determina la risoluzione del contratto deve notificare all’altro contraente, nonché al notaio che ha ricevuto il contratto di convivenza, l’estratto di matrimonio o di unione civile. Questo è l’unico atto formale che la legge prevede e il notaio avrà l’obbligo di conservare l’atto in questione inviatogli. Non è previsto alcun ulteriore obbligo e quindi il notaio non dovrà trasmettere nulla all’anagrafe del Comune di residenza che d’altra parte avrà cognizione diretta del matrimonio o dell’unione civile.
6) La morte di uno dei conviventi
Nel caso di morte di uno dei contraenti, il contraente superstite o gli eredi del contraente deceduto devono notificare al notaio o all’avvocato che ha proceduto alla redazione del contratto di convivenza l’estratto dell’atto di morte affinché provveda ad annotare a margine del contratto di convivenza l’avvenuta risoluzione del contratto e a notificarlo all’anagrafe del comune di residenza.
VI Contratti di convivenza e diritto internazionale privato
comma 64
Dopo l’articolo 30 della legge 31 maggio 1995, n. 218, è inserito il seguente:
«Art. 30-bis. – (Contratti di convivenza). — 1. Ai contratti di convivenza si applica la legge nazionale comune dei contraenti. Ai contraenti di diversa cittadinanza si applica la legge del luogo in cui la convivenza è prevalentemente localizzata.
2. Sono fatte salve le norme nazionali, internazionali ed europee che regolano il caso di cittadinanza plurima».
Con una norma di chiusura piuttosto affrettata il legislatore – introducendo un apposito art. 30-bis nella legge 31 maggio 1995, n. 218 (sistema italiano di diritto internazionale privato) – prescrive l’applicabilità della legge comune dei contraenti ai contratti di convivenza; in difetto di cittadinanza comune troverà applicazione la legge del luogo in cui è stata registrata la convivenza.
La norma riproduce sostanzialmente le disposizioni che regolano i rapporti personali e patrimoniali tra coniugi dichiarando applicabile la legge comune o, in caso di diversa cittadinanza, quella di registrazione della convivenza che dovrebbe coincidere con quella del luogo di prevalente localizzazione della vita di coppia.
Non viene riproposta – e non è chiaro come mai – la possibile del tutto ragionevole opzione per iscritto della legge di cui almeno uno dei conviventi è cittadino o nel quale almeno uno di essi risiede (come per i coniugi è previsto nell’art. 30, primo comma, seconda parte della legge 218/1995).
Tuttavia in deroga ai criteri sopra indicati, ai contratti di convivenza tra cittadini italiani oppure ai quali partecipa un cittadino italiano, ovunque siano stati stipulati, si applicano le disposizioni della legge italiana vigenti in materia. Con la conseguenza che i cittadini italiani vedranno sempre riconosciuta l’applicazione della legge italiana ai rispettivi contratti di convivenza.
VII I contratti tra conviventi
Come si è detto i “contratti di convivenza” disciplinati dal comma 50 al comma 60 dell’art. 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76, non esauriscono il possibile oggetto della negozialità tra conviventi.
Continueranno ad essere possibili tutti quegli accordi che, sia pure senza la garanzia in sé dell’opponibilità erga omnes assicurata dalla iscrizione all’anagrafe dei “contratti di convivenza”, possono consentire ai conviventi nei loro reciproci rapporti di costituire e regolare un rapporto giuridico patrimoniale teso a salvaguardare l’esistenza di quei doveri morali e sociali costitutivi dello statuto primario della famiglia di fatto.
Evidentemente anche per i “contratti tra conviventi” le parti possono plausibilmente porsi il problema della stabilità dell’accordo e della sua efficacia erga omnes e pertanto sarà sempre possibile – ed è di fatto quasi sempre l’obiettivo principale di tali accordi – l’individuazione di strumenti che possono assicurare questi effetti (come per esempio la trascrizione di un vincolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c.).
La nuova legge non vieta questi accordi, Né però li richiama. D’altro lato il legislatore non potrebbe certo disconoscere il pieno dispiegarsi dell’autonomia privata in campo patrimoniale anche all’interno della convivenza di fatto. E ne è la prova proprio la disciplina introdotta sui contratti di convivenza.
Si tratterà per lo più di accordi relativi all’assunzione di reciproci impegni di natura patrimoniale per il periodo della convivenza, ulteriori per esempio a quelli contenuti nell’eventuale contratto di convivenza, ma anche in vista dell’eventuale scissione della coppia.
a) accordi integrativi del contratto di convivenza
Come si è detto, gli accordi relativi alle modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune e relativi alla scelta del regime di comunione dei beni possono essere assunti, con la forza della opponibilità ai terzi, attraverso il contratto di convivenza, ma al di fuori di tale contesto ogni altro accordo sarà possibile (con validità anche solo tra le parti) a condizione che non costituiscano una deroga in peius alla disciplina legale nella nuova legge.
b) accordi in vista della cessazione della convivenza
Con specifico riguardo, poi, agli accordi economici in vista della scissione della convivenza saranno possibili accordi che non si pongano in contrasto naturalmente con i diritti assicurati ai conviventi dal comma 65 che appare destinato ora a costituire il modello legale minimo di “obbligazione alimentare” tra conviventi, inderogabile dalle parti.
Si ricorda che la definizione dei conviventi di fatto come “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale” conferma l’esistenza di veri e propri doveri di solidarietà reciproca tra conviventi e quindi il regime della irripetibilità ex art. 2034 c.c. degli apporti legati a tale solidarietà.