La mera riduzione del tenore di vita causata da momentanee difficoltà lavorative non è causa di giustificazione per non corrispondere l’assegno mensile di mantenimento dei figli minori

Cass. pen. Sez. VI, 28 novembre 2019, n. 48567
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
V.G., nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 5/12/2018 della Corte di appello di Catanzaro;
esaminati gli atti, letto il ricorso ed il provvedimento decisorio impugnato;
udita la relazione del Consigliere Dott.ssa VIGNA Maria Sabina;
udito il Pubblico ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. ANIELLO Roberto, che ha chiesto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, limitatamente alla concessione del beneficio della non menzione della condanna nel casellario giudiziale e la declaratoria di inammissibilità nel resto.
Udito il difensore della parte civile D.L.M., avvocato CAMPISE Sergio che ha depositato conclusioni scritte e nota spese.
Udito il difensore dell’imputato, avvocato MORASCHI Chiara in sostituzione dell’avvocato SOLURI Gioconda, che si è riportato ai motivi del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Catanzaro ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Catanzaro che condannava V.G. alla pena di mesi due di reclusione ed Euro duecento di multa per il reato di cuiall’art. 570 c.p., oltre che al risarcimento del danno nei confronti della parte civile costituita.
1.1. Si contesta a V. di avere fatto mancare alla figlia minore i mezzi di sussistenza omettendo di corrispondere, dal 2011 ad oggi, l’assegno mensile di Euro cinquecento stabilito con decreto del Tribunale di Catanzaro del 29 aprile 2008.
2. Il ricorrente, con motivi affidati al difensore di fiducia e di seguito sintetizzati ai sensidell’art. 173 disp. att. c.p.p., chiede l’annullamento della sentenza impugnata perché inficiata da plurimi vizi di violazione di legge e motivazionali. Denuncia, in particolare:
2.1. Vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, posto che l’imputato, dal 1996 curatore fallimentare presso il Tribunale di Roma, nel 2012 ha subito una sensibile riduzione del lavoro che lo ha costretto ad un tenore di vita nettamente inferiore a quello originario; anche la successiva occupazione presso il Ministero dello Sviluppo Economico veniva scarsamente retribuita e, nel 2013, era stato vittima di un incidente stradale.
2.2. Omessa motivazione in relazione alla richiesta di cuiall’art. 131-bis c.p..
2.3. Omessa motivazione in ordine alla quantificazione della pena.
2.4. Omessa motivazione sulla mancata concessione del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è fondato limitatamente alla mancata concessione del beneficio della non menzione della condanna, mentre è inammissibile nel resto.
2. Il primo motivo è manifestamente infondato.
La Corte territoriale ha bene argomentato, con considerazioni aderenti alle emergenze dell’incartamento processuale, lineari e conformi a logica – pertanto incensurabili nella sede di legittimità -, le ragioni per le quali abbia ritenuto integrato l’elemento soggettivo del reato, facendo ineccepibile applicazione dei principi di legittimità in materia. Giova invero rammentare che, affinché la condotta possa ritenersi scriminata non vale la dimostrazione della mera flessione degli introiti economici o la generica allegazione di difficoltà economiche o la semplice indicazione dello stato di disoccupazione, ma è necessario fornire una dimostrazione rigorosa di una vera e propria impossibilità assoluta (Sez. 6, n. 8063 del 8/2/2012, G., Rv. 252427; Sez. 6, n. 2736 del 13/11/2008, L., Rv 242853; Sez. 6, n. 41362 del 21/10/2010, M., Rv. 248955), dimostrazione che, come evidenziato dalla Corte di appello, l’imputato non ha fornito, risultando, per contro, dagli atti, che V., per tutto il periodo per cui si è protratto l’inadempimento, ha continuato a svolgere attività lavorativa.
La Corte distrettuale ha, inoltre, dato corretta applicazione del principio di diritto secondo il quale il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2 è a dolo generico e non è, quindi, necessario per la sua realizzazione che la condotta omissiva venga posta in essere con l’intenzione e la volontà di fare mancare i mezzi di sussistenza alla persona bisognosa (Sez. 6, n. 24644 del 08/05/2014, Rv. 260067).
3. Il motivo di ricorso con il quale si censura la omessa motivazione in relazione al mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cuiall’art. 131-bis c.p.è inammissibile.
Deve evidenziarsi che la richiesta è stata solo genericamente formulata in una memoria depositata alla Corte di appello, non essendo state indicate le ragioni per le quali doveva essere riconosciuta la particolare tenuità del fatto e, quindi, era inammissibile.
Anche l’atto di appello, al pari del ricorso per cassazione, è, infatti, inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati ed argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell’impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016,, Galtelli, Rv. 268822).
La censura si rivela, pertanto, inammissibile, in quanto il motivo di appello da cui trae origine era, a sua volta, inammissibile per difetto di specificità.
Non costituisce, del resto, causa di annullamento della sentenza impugnata il mancato esame di un motivo di appello che per la sua assoluta indeterminatezza e genericità doveva essere dichiarato inammissibile (Sez. 4, n. 1982 del 15/12/1998, dep. 16/02/1999, Iannotta, Rv. 213230) o manifestamente infondato (ex plurimis: Sez. 6, n. 47983 del 27/11/2012, D’Alessandro, Rv. 254280).
4. La doglianza relativa alla omessa motivazione in ordine alla quantificazione della pena è manifestamente infondata.
Mette conto rilevare che al giudice è consentito far ricorso esclusivo a clausole di stile, così come a espressioni del tipo: “pena congrua” e “pena equa”, quando la stessa non si discosti molto dai minimi edittali (Sez. 3, n. 28852 del 08/05/2013, Taurasi, Rv. 256464; Sez. 1, n. 1059 del 14/02/1997, Gagliano; Sez. 3, n. 33773 del 29/05/2007, Ruggieri).
E’ stato anzi precisato che nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cuiall’art. 133 c.p.(Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro, Rv. 271243; Sez. 5, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197; Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009, Denaro, Rv. 245596).
La Corte di appello, uniformandosi correttamente a tale regula iuris, ha, quindi, ritenuto la pena di mesi due di reclusione ed Euro duecento di multa (decisamente al di sotto della media edittale) equa e proporzionata ai fatti di causa.
5. E’, invece, fondato il motivo relativo al vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.
La Corte distrettuale, infatti, dopo avere riconosciuto corretta la valutazione effettuata dal giudice di primo grado in ordine alla concessione della pena sospesa e delle circostanze attenuanti generiche, e quindi avere espresso un giudizio positivo in ordine alla personalità del reo, anche in considerazione dello stato di incensuratezza dell’imputato, a fronte di specifico motivo di ricorso, ha omesso di indicare i parametri di cuiall’art. 133 c.p.sulla base dei quali ha, invece, discrezionalmente ritenuto V. non meritevole del beneficio in questione.
6. Ai sensidell’art. 620 c.p.p., lett. l), la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale può essere concessa dal Collegio, essendo superfluo un annullamento con rinvio sul punto.
Per il resto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel grado dalla costituita parte civile.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla non menzione della condanna nel certificato del Casellario Giudiziale, beneficio che concede. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel grado dalla costituita parte civile, spese che si liquidano in complessivi Euro tremilacinquecentodieci oltre accessori di legge.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, il 15 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2019

La convivenza ultratriennale fra i coniugi deve considerarsi mera coabitazione da parte di entrambi per poter determinare la mancata delibazione della sentenza di divorzio.

Cass. civ. Sez. VI – 1, Ord., 26 novembre 2019, n. 30900; Pres. Genovese, Cons. Rel. Bisogni
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –
Dott. BISOGNI Giacinto – rel. Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
B.E., elettivamente domiciliato in Roma, via Anapo 20, presso l’avv. Carla Riccio (fax 06/8553168,
p.e.c. carlariccio.ordineavvocatiroma.org) rappresentato e difeso dall’avv. Nerio Zuccaccia (fax
075/5732789; p.e.c. nerio.zuccaccia.avvocatiperugiapec.it) come da procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
nei confronti di:
P.B., elettivamente domiciliata in Roma, viale Parioli 77, presso l’avv. Paolo Colosimo (fax
06/44240559, p.e.c. paolocolosimo.ordineavvocatiroma.orq) e rappresentata e difesa dall’avv.
Alessia Pula fax 075/9665556, p.e.c. alessia.pula.avvocatiperugiapec.it) giusta procura in calce al
controricorso;
(ammessa p.s.s. 2117/2017 Delib. Ord. Avv. Perugia);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 230/17 della Corte di appello di Perugia emessa il 23.3.2017 e depositata il
6.4.2017 R.G. n. 533/2016;
sentita la relazione in camera di consiglio del relatore cons. Bisogni Giacinto.
Svolgimento del processo
CHE:
1. La Corte di Appello di Perugia ha respinto la domanda, proposta dal sig. B.E., di delibazione
della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio, contratto con la sig.ra P.B. e celebrato
il (OMISSIS). La Corte di appello richiamando la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione (Cass. Ci v. S.U. n. 16379 del 17 luglio 2014) ha ritenuto di dover respingere la
domanda sul presupposto della stabile convivenza dei coniugi per oltre tre anni dalla data del
matrimonio.
2. Ricorre per cassazione il sig. B. con due motivi illustrati anche con memoria difensiva. Con il
primo, con il quale deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 121 del 1985, art. 8, comma 2,
e dell’art. 797 c.p.c., sostiene che secondo la giurisprudenza delle SS.UU. i due requisiti (stabilità ed
esteriorità) della convivenza ultratriennale, ostativi alla delibazione della sentenza ecclesiastica di
annullamento, sono, nel caso in esame, insussistenti ed espone di aver avuto una relazione
extraconiugale già a partire dal 2012 e di aver vissuto con la P. come un “separato in casa” già dal
dicembre del 2011. Con il secondo motivo il ricorrente deduce l’omesso esame di un fatto decisivo
rilevando che dalla sentenza ecclesiastica non può evincersi la continuità della convivenza. In ogni
caso il ricorrente ritiene errata la interpretazione e qualificazione della convivenza, come stabile e
continuativa, ai fini dell’applicazione della citata giurisprudenza di legittimità, perché, anche a voler
qualificare la convivenza come continuativa, essa sarebbe stata comunque l’espressione di un
matrimonio meramente formale.
3. Si difende con controricorso P.B..
Motivi della decisione
che:
4. Il ricorso è infondato alla luce della giurisprudenza citata (cfr. anche Cass. Civ. sez. I n. 8494 del
27 gennaio 2015 e la giurisprudenza successiva).
5. Il Collegio oltre a ribadire che la convivenza “come coniugi”, quale elemento essenziale del
“matrimonio-rapporto”, ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio
concordatario, integra una situazione giuridica di “ordine pubblico italiano”, la cui inderogabile
tutela trova fondamento nei principi supremi di sovranità e di laicità dello Stato, già affermato dalla
Corte costituzionale con le sentenze n. 18 del 1982 e n. 203 del 1989, ostativa alla dichiarazione di
efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal tribunale ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico
del “matrimonio-atto” intende altresì affermare che il dato incontroverso (come nel caso in esame)
della convivenza continuativa ultratriennale non può essere messo in discussione, al fine di
escludere la condizione ostativa al riconoscimento in Italia della sentenza di annullamento
ecclesiastico del matrimonio, deducendo una non adesione affettiva al rapporto di convivenza da
parte di uno o di entrambi i coniugi. Occorre, perché tale dedotta mancanza di affectio coniugalis
sia rilevante, che entrambi i coniugi la riconoscano, al momento della proposizione della domanda
di delibazione, ovvero che gli stessi abbiano manifestato inequivocamente all’esterno la piena
volontà di non considerare la convivenza come un elemento fondamentale integrativo della
relazione coniugale ma come una semplice coabitazione. Occorre altresì che sia manifesta la
consapevolezza delle conseguenze giuridiche di tale esteriorizzazione e cioè l’affermazione comune
dell’esclusione degli effetti giuridici propri del matrimonio per effetto della semplice coabitazione.
In altri termini è necessaria una ricognizione comune ed esteriorizzata della esclusione del carattere
coniugale della convivenza. In questa prospettiva appare irrilevante accertare se l’unione fra i
coniugi nel periodo di convivenza ultratriennale sia stata più o meno felice ovvero se vi sia stata una
parziale o integrale non adesione affettiva da parte dei coniugi al dato fattuale della convivenza.
Tale mancanza di adesione affettiva può acquistare rilevanza giuridica solo se viene concordemente
riconosciuta e manifestata all’esterno in modo da privare alla convivenza ogni valenza riconducibile
all’estrinsecazione del rapporto coniugale.
6. Nel caso in esame questo ulteriore requisito che renda rilevante la mancanza di affectio
coniugalis non è stato dedotto dal ricorrente né tantomeno provato. Esso è inoltre contestato dalla
controricorrente. Pertanto le deduzioni del ricorrente potrebbero tuttalpiù attestare una sua non
adesione affettiva al matrimonio dopo pochi mesi dalla sua celebrazione ma tale attitudine
psicologica non ha impedito ai due coniugi di vivere insieme per oltre tre anni dando continuità alla
convivenza che avevano intrapreso in quanto coniugi.
7. Il ricorso deve essere pertanto respinto con condanna del ricorrente alle spese del giudizio di
cassazione. Non sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
quanto alla imposizione del versamento di ulteriore somma pari a quella già versata dal ricorrente a
titolo di contributo unificato in seguito all’ammissione al patrocinio a spese dello stato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione liquidate in
complessivi 3.600 Euro, di cui 200 per spese, oltre spese forfettarie e accessori di legge.
Ai sensi D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1
bis.
Dispone che in caso di pubblicazione della presente ordinanza siano omesse le generalità e gli altri
elementi identificativi delle parti, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 5 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 26 novembre 2019

La convivenza come coniugi, ove protrattasi per almeno tre anni, integra una situazione giuridica di ordine pubblico italiano, come tale ostativa alla dichiarazione di efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità. Il dato pacifico della convivenza continuativa non può essere messo in discussione deducendo una non adesione affettiva al rapporto di convivenza: invero, affinché la mancanza di affectio coniugalis sia rilevante, occorre una ricognizione comune e una esteriorizzazione della esclusione del carattere coniugale della convivenza

Cass. civ. Sez. VI – 1, 26 novembre 2019, n. 30900
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
B.E., elettivamente domiciliato in Roma, via Anapo 20, presso l’avv. Carla Riccio (fax 06/8553168, p.e.c. carlariccio.ordineavvocatiroma.org) rappresentato e difeso dall’avv. Nerio Zuccaccia (fax 075/5732789; p.e.c. nerio.zuccaccia.avvocatiperugiapec.it) come da procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
nei confronti di:
P.B., elettivamente domiciliata in Roma, viale Parioli 77, presso l’avv. Paolo Colosimo (fax 06/44240559, p.e.c. paolocolosimo.ordineavvocatiroma.orq) e rappresentata e difesa dall’avv. Alessia Pula fax 075/9665556, p.e.c. alessia.pula.avvocatiperugiapec.it) giusta procura in calce al controricorso;
(ammessa p.s.s. 2117/2017 Delib. Ord. Avv. Perugia);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 230/17 della Corte di appello di Perugia emessa il 23.3.2017 e depositata il 6.4.2017 R.G. n. 533/2016;
sentita la relazione in camera di consiglio del relatore cons. Bisogni Giacinto.
Svolgimento del processo
CHE:
1. La Corte di Appello di Perugia ha respinto la domanda, proposta dal sig. B.E., di delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio, contratto con la sig.ra P.B. e celebrato il (OMISSIS). La Corte di appello richiamando la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. Ci v. S.U. n. 16379 del 17 luglio 2014) ha ritenuto di dover respingere la domanda sul presupposto della stabile convivenza dei coniugi per oltre tre anni dalla data del matrimonio.
2. Ricorre per cassazione il sig. B. con due motivi illustrati anche con memoria difensiva. Con il primo, con il quale deduce violazione e falsa applicazione dellaL. n. 121 del 1985,art. 8, comma 2, e dell’art. 797 c.p.c., sostiene che secondo la giurisprudenza delle SS.UU. i due requisiti (stabilità ed esteriorità) della convivenza ultratriennale, ostativi alla delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento, sono, nel caso in esame, insussistenti ed espone di aver avuto una relazione extraconiugale già a partire dal 2012 e di aver vissuto con la P. come un “separato in casa” già dal dicembre del 2011. Con il secondo motivo il ricorrente deduce l’omesso esame di un fatto decisivo rilevando che dalla sentenza ecclesiastica non può evincersi la continuità della convivenza. In ogni caso il ricorrente ritiene errata la interpretazione e qualificazione della convivenza, come stabile e continuativa, ai fini dell’applicazione della citata giurisprudenza di legittimità, perché, anche a voler qualificare la convivenza come continuativa, essa sarebbe stata comunque l’espressione di un matrimonio meramente formale.
3. Si difende con controricorso P.B..
Motivi della decisione
che:
4. Il ricorso è infondato alla luce della giurisprudenza citata (cfr. anche Cass. Civ. sez. I n. 8494 del 27 gennaio 2015 e la giurisprudenza successiva).
5. Il Collegio oltre a ribadire che la convivenza “come coniugi”, quale elemento essenziale del “matrimonio-rapporto”, ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di “ordine pubblico italiano”, la cui inderogabile tutela trova fondamento nei principi supremi di sovranità e di laicità dello Stato, già affermato dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 18 del 1982 e n. 203 del 1989, ostativa alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal tribunale ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico del “matrimonio-atto” intende altresì affermare che il dato incontroverso (come nel caso in esame) della convivenza continuativa ultratriennale non può essere messo in discussione, al fine di escludere la condizione ostativa al riconoscimento in Italia della sentenza di annullamento ecclesiastico del matrimonio, deducendo una non adesione affettiva al rapporto di convivenza da parte di uno o di entrambi i coniugi. Occorre, perché tale dedotta mancanza di affectio coniugalis sia rilevante, che entrambi i coniugi la riconoscano, al momento della proposizione della domanda di delibazione, ovvero che gli stessi abbiano manifestato inequivocamente all’esterno la piena volontà di non considerare la convivenza come un elemento fondamentale integrativo della relazione coniugale ma come una semplice coabitazione. Occorre altresì che sia manifesta la consapevolezza delle conseguenze giuridiche di tale esteriorizzazione e cioè l’affermazione comune dell’esclusione degli effetti giuridici propri del matrimonio per effetto della semplice coabitazione. In altri termini è necessaria una ricognizione comune ed esteriorizzata della esclusione del carattere coniugale della convivenza. In questa prospettiva appare irrilevante accertare se l’unione fra i coniugi nel periodo di convivenza ultratriennale sia stata più o meno felice ovvero se vi sia stata una parziale o integrale non adesione affettiva da parte dei coniugi al dato fattuale della convivenza. Tale mancanza di adesione affettiva può acquistare rilevanza giuridica solo se viene concordemente riconosciuta e manifestata all’esterno in modo da privare alla convivenza ogni valenza riconducibile all’estrinsecazione del rapporto coniugale.
6. Nel caso in esame questo ulteriore requisito che renda rilevante la mancanza di affectio coniugalis non è stato dedotto dal ricorrente né tantomeno provato. Esso è inoltre contestato dalla controricorrente. Pertanto le deduzioni del ricorrente potrebbero tuttalpiù attestare una sua non adesione affettiva al matrimonio dopo pochi mesi dalla sua celebrazione ma tale attitudine psicologica non ha impedito ai due coniugi di vivere insieme per oltre tre anni dando continuità alla convivenza che avevano intrapreso in quanto coniugi.
7. Il ricorso deve essere pertanto respinto con condanna del ricorrente alle spese del giudizio di cassazione. Non sussistono i presupposti per l’applicazione delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, quanto alla imposizione del versamento di ulteriore somma pari a quella già versata dal ricorrente a titolo di contributo unificato in seguito all’ammissione al patrocinio a spese dello stato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione liquidate in complessivi 3.600 Euro, di cui 200 per spese, oltre spese forfettarie e accessori di legge.
Ai sensiD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1bis.
Dispone che in caso di pubblicazione della presente ordinanza siano omesse le generalità e gli altri elementi identificativi delle parti, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 5 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 26 novembre 2019

L’obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età

Cassazione civile, sez. I, 14 Dicembre 2018, n. 32529. Pres. Maria Cristina Giancola. Est. Laura Tricomi.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 25351/2015 proposto da:
C.C., domiciliato in Roma, *, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’Avvocato P. G., giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
F.A., C.F., Ca.Ca., Pm Procuratore Capo della Repubblica presso il Tribunale di Lagonegro;
Pg Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Potenza;
Pg Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione;
– intimati –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di POTENZA, depositata il 24/07/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/11/2018 dal cons. TRICOMI LAURA.

Svolgimento del processo
CHE:
La Corte di appello di Potenza, con il decreto in epigrafe impugnato, per quanto interessa, aveva confermato la decisione del Tribunale di Lagonegro, in controversia concernente la richiesta di modifica delle condizioni economiche relative al mantenimento della figlia C., maggiorenne ma non economicamente autosufficiente, e della assegnazione della casa familiare conseguenti al divorzio, proposta da C.C. nei confronti di F.A., Ca.Ca. e C.F..
C.C. propone ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. con sei mezzi, ciascuno articolato in una pluralità di profili.
Gli intimati non hanno svolto difese.
Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis 1 c.p.c..

Motivi della decisione
CHE:
1.1. Con il primo motivo si denuncia: a) la violazione o falsa applicazione dell’art. 24 Cost., degli artt. 100, 103, 105, 331 e 336 cod. proc. civ.; b) la violazione o falsa applicazione degli artt. 337 sexies e 337 septies cod. civ. e degli artt. 100, 103 e 105 cod. proc. civ. per avere la Corte di appello dichiarato l’inammissibilità del reclamo proposto nei confronti del figlio C.F., sulla considerazione che quest’ultimo, pur evocato in giudizio, era estraneo alla lite in quanto economicamente autosufficiente, residente in Lussemburgo e non destinatario di domande giudiziali.
Il ricorrente ha ricordato, a sostegno della prospettazione, che il figlio in primo grado si era costituito dando prova di avere interesse alla decisione, di guisa che – a suo parere – sarebbe stato più corretto procedere con una estromissione, e che la invocata riforma avrebbe esteso i suoi effetti a tutti i provvedimenti, coinvolgendo anche gli interessi del figlio.
Ha aggiunto, quindi, che tra le domande proposte vi era anche quella di revoca dell’assegnazione della casa familiare alla ex moglie, già assegnata alla stessa anche nell’interesse di F. e che ciò rendeva necessaria la partecipazione del figlio anche al fine di favorire una risoluzione in concreto del conflitto.
1.2. Il motivo è inammissibile.
La doglianza, proposta come violazione o falsa applicazione di legge, in realtà prospetta un error in procedendo, atteso che “La “legitimatio ad causam”, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto, secondo la prospettazione della parte, mentre l’effettiva titolarità del rapporto controverso, attenendo al merito, rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio dei soggetti in lite. Ne consegue che il difetto di “legitimatio ad causam”, riguardando la regolarità del contraddittorio, costituisce un “error in procedendo” ed è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo” (Cass. n. 7776 del 27/03/2017).
Nello specifico, la censura va disattesa.
Invero la statuizione, formulata in accoglimento di una specifica eccezione del figlio F., come si evince dal ricorso (fol.4), chiarisce in maniera lineare l’estraneità del figlio sia alla domanda di revoca dell’assegno di mantenimento – non essendone il destinatario in quanto economicamente autosufficiente – sia alla domanda di revoca dell’assegnazione della casa familiare – risiedendo stabilmente in Lussemburgo -; tali circostanze non sono state smentite dal ricorrente che, pur prospettando il possibile coinvolgimento di interessi del figlio, in contrasto con la linea difensiva adottata da quest’ultimo e condivisa dalla Corte di appello, non ne ha esplicitato nè il contenuto, nè l’attualità.
2.1. Con il secondo motivo, afferente al rigetto della richiesta di revoca dell’assegno di mantenimento riconosciuto alla figlia C., maggiorenne, si denuncia: a) la violazione o falsa applicazione dell’art. 148 cod. civ. e dell’art. 9, comma 1, legge divorzio; b) l’omesso esame di un fatto decisivo; c) la nullità del procedimento o della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ..
Secondo il ricorrente la Corte di appello avrebbe errato per non avere valutato la documentazione dalla quale emergeva che la figlia sin dal 2011 aveva svolto alcune attività lavorative part-time e vissuto per un periodo in Lussemburgo.
2.2. Il motivo è infondato.
In ordine alla domanda concernente la revisione del contributo al mantenimento dei figli, sia minorenni che maggiorenni non economicamente autosufficienti, proposta L. n. 898 del 1970, ex art. 9 il giudice non può procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei presupposti o dell’entità dell’assegno, sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti valutate al momento della pronuncia del divorzio, ma, nel pieno rispetto delle valutazioni espresse al momento dell’attribuzione dell’emolumento, deve limitarsi a verificare se, ed in quale misura, le circostanze sopravvenute abbiano alterato l’equilibrio così raggiunto e ad adeguare l’importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale (Cass. n. 214 del 11/01/2016, n. 14143 del 20/06/2014), ciò in quanto i “giustificati motivi”, la cui sopravvenienza consente di rivedere le determinazioni adottate in sede di divorzio dei coniugi, sono ravvisabili nei fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale la sentenza era stata emessa o gli accordi erano stati stipulati, con la conseguenza che esulano da tale oggetto i fatti preesistenti, ancorchè non presi in considerazione in quella sede per qualsiasi motivo (cfr. in proposito Cass. n. 28436 del 28/11/2017, pronunciata in relazione revisione degli oneri conseguenti a separazione giudiziale).
La Corte di appello si è attenuta a questi principi ed ha correttamente considerato, nel presente giudizio di revisione introdotto dal ricorrente dinanzi al Tribunale di Lagonegro nell’aprile 2014 -, i fatti sopravvenuti e non già in fatti anteriori alla sentenza di divorzio (2013) e, quindi, astrattamente già valutabili e/o valutati in quella sede, come le circostanze relative ad attività lavorative part-time che la figlia avrebbe svolto nel 2011 e nel 2012 e ad esperienze professionali compiute in Lussemburgo tra il 2009 ed il 2013.
3.1. Con il terzo motivo, sempre afferente al rigetto della richiesta di revoca dell’assegno di mantenimento riconosciuto alla figlia C., con specifico riferimento alla mancata presentazione di quest’ultima all’interrogatorio formale, si denuncia: a) la violazione e falsa applicazione dell’art. 148 cod. civ., art. 9 legge div., art. 2697 cod. civ., art. 232 c.p.c., commi 1 e 2; b) la violazione o falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 cod. proc. civ.; c) la nullità del procedimento o della sentenza per violazione degli artt. 112, 115 e 116 cod. proc. civ..
In particolare il ricorrente si duole che il Tribunale abbia ritenuto giustificata l’assenza di Ca., non comparsa a rendere interrogatorio formale ammesso e che il motivo di appello proposto in merito sia stata obliterato dalla Corte di appello che avrebbe omesso di pronunciarsi sul punto.
3.2. Il terzo motivo è inammissibile.
In disparte dalla evidente carenza di autosufficienza del motivo che non illustra le ragioni della doglianza che sarebbe stata pretermessa, va ricordato in premessa che “La differenza fra l’omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c. e l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile “ratione temporis”, si coglie nel senso che, mentre nella prima l’omesso esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa (e, quindi, nel caso del motivo d’appello, uno dei fatti costitutivi della “domanda” di appello), nella seconda ipotesi l’attività di esame del giudice, che si assume omessa, non concerne direttamente la domanda o l’eccezione, ma una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione su uno dei fatti costitutivi della domanda o su un’eccezione e, quindi, su uno dei fatti principali della controversia” (Cass. n. 1539 del 22/01/2018).
Nel caso di specie non ricorre alcuna omessa pronuncia poichè la domanda di revisione dell’assegno di mantenimento è stata esaminata e respinta, implicitamente disattendendo anche il motivo relativo alla rilevanza o meno del mancato espletamento dell’interrogatorio formale (Cfr. Cass. n. 20718 del 13/08/2018, n. 29191 del 06/12/2017), che atteneva alla valutazione del compendio probatorio.
4.1. Con il quarto motivo, sempre afferente al rigetto della richiesta di revoca dell’assegno di mantenimento riconosciuto alla figlia Ca., con specifico riferimento alla dichiarazione di rinuncia formulata da questa, si denuncia: a) la violazione o falsa applicazione dell’art. 148 cod. civ., art. 9 legge div., art. 2697 cod. civ., art. 337 septies cod. civ.; b) la nullità del procedimento o della sentenza per violazione degli artt. 90, 100 e 112 cod. proc. civ..
Il ricorrente, dopo aver ricordato che la figlia per il tramite del difensore in primo grado aveva depositato una dichiarazione di rinuncia al mantenimento, ritenuta ininfluente dal Tribunale perchè afferente a diritti indisponibili, lamenta che la Corte di appello, sullo specifico motivo di appello, si sia pronunciata procedendo ad un’interpretazione della volontà della figlia volta a valorizzare la presunzione di un’esigenza di tutela, comunque emersa dalla sua dichiarazione, invece di pronunciarsi sulla questione dell’indisponibilità o meno del diritto al mantenimento della figlia maggiorenne – a suo parere – soggetto al principio della domanda.
Inoltre sottolinea che la dichiarazione di rinuncia, unitamente alla mancata presentazione all’interrogatorio formale, avrebbe potuto condurre a diversa valutazione e che nessuna efficacia avrebbe dovuto attribuirsi alle difese articolate della madre, venendo meno la sua legittimazione concorrente in presenza di una diversa volontà manifestata dalla figlia.
4.2. Il motivo è infondato.
Richiamato quanto già in precedenza affermato (v. sub 3.2.) in merito alla questione dell’interrogatorio formale, è opportuno considerare – in relazione alla dichiarazione integrante la “c.d. rinuncia”, trasmessa dalla figlia tramite il legale ed alla questione della legittimazione della madre – che “L’obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, sia tuttavia ancora dipendente dai genitori. Ne consegue che, in tale ipotesi, il coniuge separato o divorziato, già affidatario è legittimato, “iure proprio” (ed in via concorrente con la diversa legittimazione del figlio, che trova fondamento nella titolarità, in capo a quest’ultimo, del diritto al mantenimento), ad ottenere dall’altro coniuge un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne. Pertanto, non potendosi ravvisare nel caso in esame una ipotesi di solidarietà attiva (che, a differenza di quella passiva, non si presume), in assenza di un titolo, come di una disposizione normativa che lo consentano, la eventuale rinuncia del figlio al mantenimento, anche a prescindere dalla sua invalidità, dovuta alla indisponibilità del relativo diritto, che può essere disconosciuto solo in sede di procedura ex art. 710 cod. proc. civ., non potrebbe in nessun caso spiegare effetto sulla posizione giuridico – soggettiva del genitore affidatario quale autonomo destinatario dell’assegno” (Cass. n. 1353 del 18/02/1999; cfr. in termini, Cass. n. 11648 dell’11/7/2012, non massimata).
La Corte di appello ha fatto applicazione di detto principio in quanto si è limitata a valutare il contenuto della dichiarazione escludendo che emergessero circostanze di fatto significative di una effettiva raggiunta autosufficienza della figlia, senza attribuirle il valore di rinuncia e la decisione è immune da vizi.
5.1. Con il quinto motivo, afferente al rigetto della richiesta di revoca dell’assegnazione della casa familiare, si denuncia: a) la nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.; b) la violazione e falsa applicazione degli artt. 6 e 9 della legge div. e dell’art. 337 sexies cod. civ.; c) l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.
Il ricorrente, dopo avere ricordato di avere svolto specifico motivo di appello in merito alla disattesa domanda di revoca dell’assegnazione della casa coniugale, lamenta che la Corte di appello non abbia pronunciato sulla domanda e, conseguentemente, non abbia nemmeno tenuto conto dei fatti addotti a sostegno della stessa idonei, a suo parere, a giustificare la revoca.
5.2. Il motivo è infondato.
La Corte di appello si è pronunciata: ha, infatti, respinto il reclamo sulla considerazione della accertata residenza della figlia a (*), dato fattuale che non appare smentito ne inficiato dalle circostanze addotte dal ricorrente circa la sua disponibilità a rendere accessibile l’abitazione alla figlia, indipendentemente da un formale provvedimento, le condizioni di degrado dell’immobile e la circostanza – in tesi del ricorrente – che per un periodo la figlia abbia lavorato fuori dal paese di residenza.
6.1. Con il sesto motivo si denuncia la nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. con riferimento all’omessa pronuncia in merito al reclamo afferente il contenuto dei provvedimenti adottati in primo e secondo grado nei diversi procedimenti che hanno caratterizzato il divorzio, nei quali – a parere del ricorrente – le medesime circostanze di fatto (l’età, la sperimentazione di attività lavorative, la capacità e voglia di lavorare) avevano condotto a conclusioni opposte, essendo stato escluso l’obbligo di mantenimento per il figlio F. e mantenuto per la figlia Ca..
6.2. Il motivo è inammissibile.
Il ricorrente, mancando all’onere di autosufficienza sullo stesso gravante, propone un raffronto tra sentenze e provvedimenti, anche emessi in procedimenti differenti senza nemmeno trascrivere le motivazioni a corredo delle conclusive statuizioni – a suo parere – confliggenti e che sarebbero state necessari per poter apprezzare la doglianza e coglierne la pertinenza con l’oggetto del presente giudizio.
7. In conclusione il ricorso va rigettato.
Non si provvede sulle spese del giudizio di legittimità, stante il mancato svolgimento di attività difensiva da parte degli intimati.
Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. del 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, il 15 novembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2018

In caso di sospensione della pena condizionata al pagamento dell’assegno di mantenimento, non va apposto alcun termine ulteriore.

Cass. pen. Sez. I, Sent., 22 novembre 2019, n. 47649; Pres. Iasillo, Cons. Rel. Fiordalisi
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. IASILLO Adriano – Presidente –
Dott. FIORDALISI Domenico – rel. Consigliere –
Dott. ROCCHI Giacomo – Consigliere –
Dott. SANTALUCIA Giuseppe – Consigliere –
Dott. MINCHELLA Antonio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI TIVOLI;
nel procedimento a carico di:
P.W., nato a (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del 29/10/2018 del TRIBUNALE di TIVOLI udita la relazione svolta dal
Consigliere DOMENICO FIORDALISI;
lette le conclusioni del PG;
Il Procuratore generale, Dott. Paola Filippi, chiede l’annullamento con rinvio dell’ordinanza
impugnata.
Svolgimento del processo
1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Tivoli ricorre avverso l’ordinanza del
2/11/2018 del Tribunale di Tivoli che, quale giudice dell’esecuzione, ha rigettato la sua richiesta di
revoca della sospensione condizionale della pena concessa a P.W. con la sentenza del 5 ottobre
2015 del Tribunale di Tivoli, definitiva il 20 gennaio 2016, per il reato di violazione degli obblighi
di assistenza familiare, di cui alla L. 1 marzo 2006, n. 54, artt. 3, L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12
sexies, art. 570 c.p., comma 2.
Il giudice di merito aveva concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena, ai sensi
dell’art. 165 c.p., “subordinato al versamento di quanto stabilito dal Tribunale nella separazione
consensuale”, cioè “alla ripresa degli obblighi di contribuzione stabiliti dal Tribunale di Tivoli nella
separazione consensuale omologata”.
Il giudice dell’esecuzione ha rigettato la richiesta, evidenziando che nella sentenza di separazione
consensuale omologata dal Tribunale di Tivoli non era indicato alcun termine per l’adempimento
dell’obbligazione al quale era stata subordinata l’applicazione della sospensione condizionale della
pena; che la giurisprudenza di legittimità ha previsto che, in caso di sospensione condizionale della
pena subordinata all’adempimento di obblighi, il termine entro il quale l’imputato deve provvedere,
qualora non sia stato fissato nel provvedimento, coincide con quello previsto dall’art. 163 c.p., ossia
con quello durante il quale è sospesa l’esecuzione della sanzione irrogata, dopo il passaggio in
giudicato della decisione; che nel caso di specie difettava l’indicazione del termine entro il quale P.
doveva adempiere all’obbligazione; che la sentenza di condanna era divenuta definitiva il 20
gennaio 2016; che, pertanto, l’obbligo di cui all’art. 165 c.p. non poteva ritenersi inadempiuto, non
essendo ancora trascorsi cinque anni dal passaggio in giudicato della stessa.
2. Denuncia il ricorrente inosservanza ed erronea applicazione della legge penale con riferimento
agli artt. 163 e 165 c.p. e art. 168 c.p., comma 1, n. 1, perché il giudice dell’esecuzione avrebbe
erroneamente respinto la richiesta di revoca sul presupposto che il termine entro il quale P. avrebbe
dovuto adempiere agli obblighi stabiliti dal giudice di merito, ai sensi dell’art. 165 c.p. doveva
individuarsi in quello di cinque anni previsto dall’art. 163 c.p. dal passaggio in giudicato della
sentenza, poiché il Tribunale di Tivoli non aveva previsto un termine specifico nel suo
provvedimento.
Il ricorrente, invece, partendo dalla circostanza che la sospensione condizionale concessa a P. era
subordinata alla ripresa degli obblighi di contribuzione stabiliti dal Tribunale di Tivoli nella
separazione consensuale omologata, ritiene che, dal tenore della motivazione e dal testo del
dispositivo, si evince che il condannato avrebbe dovuto adempiere all’obbligo immediatamente
dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Non avendo P. adempiuto a tale obbligo
(dalla data del passaggio in giudicato della sentenza del 20 gennaio 2016, fino alla data
dell’accertamento dei carabinieri di Guidonia Montecelio del 22 ottobre 2017 in cui non aveva
versato alcun assegno di mantenimento) la sospensione doveva essere revocata.
Motivi della decisione
1. Ritiene la Corte che il ricorso è fondato.
2. Come ha correttamente evidenziato il Procuratore generale, l’obbligo di versamento della
contribuzione ai fini del mantenimento familiare, come omologato dal Tribunale civile di Tivoli in
sede di separazione coniugale, costituisce un’obbligazione specificatamente determinata con
riferimento all’importo e ai termini periodici di versamento e, in ogni caso, riguarda un credito
esigibile dalla persona offesa già prima della condanna; d’altro canto P. era stato condannato per il
reato di cui alla L. 1 marzo 2006, n. 54, art. 3, L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 sexies, e all’art.
570 c.p., comma 2, proprio avuto riguardo alla violazione degli obblighi connessi alla separazione.
In caso di sospensione della pena condizionata al pagamento dell’assegno di mantenimento,
pertanto, non va apposto alcun termine ulteriore, essendo l’imputato tenuto al versamento della
contribuzione alle condizioni contenute nella sentenza civile.
Il credito della persona offesa era già civilmente esigibile dalla persona offesa prima della
condanna, quindi anche se nella sentenza di separazione consensuale non era indicato il termine per
l’adempimento, il riferimento era costituito dal passaggio in giudicato della sentenza penale e non
dopo il decorso dei 5 anni di cui all’art. 163 c.p., come ha indicato il giudice dell’esecuzione nel
provvedimento impugnato.
L’obbligo al cui adempimento era subordinata la sospensione condizionale della pena, ai fini della
revoca del beneficio stesso, era già rilevante prima della maturazione del termine quinquennale di
cui art. 163 c.p., quindi, al momento in cui era divenuta irrevocabile la sentenza di condanna.
L’art. 165 c.p. prevede la facoltà del giudice di subordinare la concessione della sospensione
condizionale della pena all’adempimento delle obbligazioni restitutorie o risarcitorie nascenti dal
reato, stabilendo un termine entro il quale l’obbligazione deve essere adempiuta.
Detto termine, per il principio di obbligatorietà ed effettività della pena, costituisce un elemento
essenziale della concessione del beneficio, la cui inosservanza è causa di revoca della sospensione
della pena in sede esecutiva a norma dell’art. 674 c.p.p., come evidenziato da Sez. 1, n. 27674 del
17/05/2013 – dep. 24/06/2013, P.M. in proc. Spiridon, Rv. 256446 (ed in senso conforme Sez. 3, n.
20378 del 24/02/2004, Borrello e altro, Rv. 229035). Detta pronuncia sottolinea, altresì, come la
nozione di inadempimento dell’obbligazione debba essere mutuata dalla apposita norma civilistica
(art. 1218 c.c.), secondo cui l’inadempimento consiste nel fatto oggettivo della mancata o inesatta
esecuzione della prestazione, salvo la prova a carico del soggetto inadempiente della impossibilità
assoluta di esecuzione della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. La stessa
pronuncia individua il momento di decorrenza del termine per l’adempimento stabilito dal giudice
nella sentenza, ai sensi dell’art. 165 c.p., u.c., dalla data del passaggio in giudicato della sentenza e
non dal momento in cui il condannato ha avuto notizia della pronuncia a suo carico (censurando il
provvedimento del giudice dell’esecuzione che aveva individuato il dies a quo per l’adempimento
nel momento della notifica dell’intimazione di pagamento). Con la conseguenza che, secondo detta
impostazione, nel caso di mancata fissazione di un termine per l’adempimento da parte del giudice
della sentenza, l’adempimento dovrebbe avvenire entro o comunque subito dopo l’esecutività della
sentenza, considerata l’immediata esigibilità dell’obbligazione. Va precisato che il problema
dell’omessa specificazione, da parte del giudice, del termine entro il quale gli obblighi cui sia stata
eventualmente subordinata la sospensione condizionale della pena devono essere adempiuti, risulta
essere stato affrontato da questa Corte in varie ed anche risalenti occasioni e risolto in modo non
sempre uniforme. Vi è un primo orientamento – si veda Sez. 6, n. 8392 del 14/05/1996 – dep.
12/09/1996, Dal Cason, Rv. 205562 – secondo cui, nel caso di omessa fissazione del termine per il
pagamento della provvisionale cui è subordinata la sospensione condizionale della pena, soccorre
proprio quello del passaggio in giudicato della sentenza. Al quale si allinea Sez. 1, n. 5217 del
22/09/2000 – dep. 29/11/2000, P.G. in proc. Bertoncello, Rv. 217351, che, pur premettendo che
l’individuazione di detto termine dipende dalla natura e dalla specie degli obblighi stessi, non
potendosi stabilire un criterio che abbia validità universale, nel caso sottoposto alla sua attenzione,
in cui la sospensione condizionale era stata subordinata all’adempimento dell’obbligazione di pagare
gli assegni mensili di mantenimento per i figli minori, ha ritenuto che il termine coincidesse con la
data del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, anche in considerazione del fatto che
l’obbligo imposto dal giudice penale non aveva contenuto nuovo e autonomo rispetto a quello
fissato dal giudice civile in sede di separazione consensuale dei coniugi e che il relativo termine era
già scaduto, sicchè non sarebbe stata possibile una sua rimodulazione o dilazione da parte del
giudice penale, sia pure al limitato fine dell’operatività della sospensione condizionale. Vi è poi
l’opposto orientamento, citato dal provvedimento impugnato, secondo cui il termine per
l’adempimento, ove non indicato in sentenza, coincide con quello, previsto dall’art. 163 c.p.,,
durante il quale è sospesa l’esecuzione della sanzione irrogata, vale a dire cinque o due anni a
seconda che la condanna sia stata inflitta per delitto o per contravvenzione, decorrenti dal giorno in
cui la sentenza è divenuta irrevocabile (si veda Sez. 1, n. 43787 del 24/09/2015; e in senso
conforme Sez. 1, n. 19827/2016). Orientamento, che limita l’operatività del termine in questione ai
soli effetti penali costituiti dalla verifica dell’adempimento della condizione alla quale è subordinata
la sospensione dell’esecuzione della pena (destinata, in caso di inadempimento dell’obbligo dopo la
scadenza ex lege, ad essere revocata) ed afferma come resti fermo il diritto delle parti civili di agire
immediatamente in executivis in sede civile in forza del titolo di condanna all’adempimento delle
statuizioni civili passato in giudicato. A detto orientamento si è allineata anche Sez. 1, n. 24642 del
27/05/2015 – dep. 10/06/2015, Hosu, Rv. 263974, anche se con riguardo alla diversa fattispecie
relativa a sentenza di condanna con sospensione condizionale della pena subordinata allo
svolgimento di lavori di pubblica utilità. In detta pronuncia si dà atto come “la tematica non si presti
a soluzione generalizzate, essendo condizionata dalla natura dell’obbligo al cui adempimento sia
stato subordinato il beneficio, sicché in materia urbanistica, quando la sospensione dell’esecuzione
dipenda dalla previa demolizione delle costruzioni abusive, si è affermato che, pur nell’omessa
indicazione operata all’atto della condanna, il termine di adempimento debba essere individuato alla
stregua delle disposizioni che regolano l’attività edilizia, mentre nel diverso caso in cui sia imposto
al condannato l’adempimento di obbligazioni civilistiche si è aderito alla tesi più rigorosa della
coincidenza del termine di adempimento con la data del passaggio in giudicato della sentenza”.
Tanto premesso, si ritiene fondata la censura del ricorrente, secondo cui l’individuazione del termine
per l’adempimento delle obbligazioni civilistiche cui è subordinata la sospensione condizionale
della pena (e quindi per la revocabilità del beneficio per omesso adempimento), in caso di mancata
fissazione da parte del giudice della cognizione, in quello previsto dall’art. 163 c.p., durante il quale
è sospesa l’esecuzione della pena dopo il passaggio in giudicato della sentenza, si risolverebbe in un
ulteriore favore per l’imputato tenuto all’adempimento e in un pregiudizio per la persona offesa.
E ciò a fronte del chiaro disposto di cui all’art. 1183, comma 1 c.c., secondo cui “se non è
determinato il tempo in cui la prestazione deve essere eseguita il creditore può esigerla
immediatamente”, salvi i casi in cui “in virtù degli usi o per la natura della prestazione ovvero per il
modo o il luogo dell’esecuzione, sia necessario un termine”, che “in mancanza di accordo delle parti
è stabilito dal giudice”. Invero, nel caso in esame, in cui la sospensione condizionale della pena è
subordinata al pagamento di una somma liquidata a titolo di risarcimento del danno e quindi
all’adempimento di un’obbligazione pecuniaria, in assenza di un termine, immediatamente esigibile,
non si giustificherebbe una scadenza ai fini dell’adempimento posticipata rispetto al passaggio in
giudicato della sentenza, coincidente col decorso del periodo di sospensione della pena. E ciò
proprio in considerazione del fatto che l’obbligo imposto dal giudice penale non ha contenuto nuovo
e autonomo rispetto a quello civilistico, per il quale il legislatore sancisce il principio per cui il
creditore può esigere immediatamente l’adempimento dell’obbligazione se non deve essere stabilito
uno specifico termine, e che non sarebbe stata possibile una sua rimodulazione o dilazione da parte
del giudice penale, sia pure al limitato fine dell’operatività della sospensione condizionale,
dovendosi pienamente condividere sul punto la pronuncia di questa sezione n. 47862 del
28/06/2017, P.m. in proc. Gentiluomo, Rv. 271418. Detta conclusione risulta compatibile anche con
la stessa disciplina processuale della revoca della sospensione condizionale della pena, di cui all’art.
674 c.p.p., che ne prevede la pronuncia all’esito di udienza camerale e quindi di un contraddittorio
nel corso del quale il condannato può dimostrare di avere nel frattempo adempiuto o di non aver
potuto incolpevolmente adempiere.
3. Si impone pertanto l’annullamento dell’ordinanza impugnata ed il rinvio per nuovo esame, alla
luce delle considerazioni sopra svolte, al Tribunale di Tivoli.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Tivoli.
Così deciso in Roma, il 18 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 22 novembre 2019

Il giudizio sulla situazione di abbandono deve fondarsi su una valutazione quanto più possibile legata all’attualità.

Corte di Cassazione, 11 dicembre 2019, n. 32412
Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 18 ottobre – 11 dicembre 2019, n. 32412
Presidente Di Virgilio – Relatore Iofrida
Fatti di causa
La Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza n. 41/2018, depositata in data 4/10/2018, ha confermato
la decisione di primo grado, che aveva dichiarato lo stato di adottabilità del minore N.R.C. , nato a
(omissis) , dall’unione tra N.E.J. e cittadino di nazionalità inglese.
In particolare, i giudici d’appello, confermando le valutazioni espresse dal primo giudice, all’esito di
consulenza tecnica neuropsichiatrica, hanno sostenuto che il minore, affetto da disturbo del linguaggio
associato ad alterazioni del ritmo dovuto alla sua storia clinica (assunzione di farmaci da parte della
madre durante il periodo di gravidanza, sofferenza perinatale, ritardo di acquisizione delle tappe di
sviluppo psicomotorio), ma anche a fattori ambientali, in primis la situazione della madre, rischiava di
essere privo di assistenza morale e materiale da parte di quest’ultima, vulnerabile ed affetta da una
ormai “stratificata” incapacità di svolgere in maniera adeguata la funzione genitoriale, senza che fossero
emersi progetti educativi genitoriali effettivi e concreti; peraltro, il minore, sin dalla collocazione nella
casa-famiglia ed anche nel nuovo contesto famigliare in cui era stato inserito, aveva dimostrato un
miglioramento generale; alla luce di tali considerazioni, non era neppure possibile accogliere la richiesta
subordinata di ricovero di madre e figlio in un’apposita struttura.
Avverso la suddetta pronuncia, N.E.J. propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, nei
confronti dell’Avv.to G.L. , in qualità di tutore del minore N.R.C. (che resiste con controricorso) e di N.S.
(nonno del minore, che non svolge attività difensiva). La ricorrente ha depositato memoria tardiva (in
data 14/10/2019).
Ragioni della decisione
1. La ricorrente lamenta: 1) con il primo motivo, sia la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 184
del 1983 sia l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo in relazione alla mancata
valutazione del prioritario diritto del minore di vivere con i genitori e di essere cresciuto nell’ambito della
famiglia d’origine, in una situazione in cui difettava lo stato di abbandono del minore, avendo la madre
soltanto attraversato un difficile periodo, transitorio, di fragilità emotiva, “determinato dal violento
allontanamento del piccolo R. in un periodo in cui Ella si trovava ad assistere la madre, gravemente
malata, sino alla dipartita di essa”; 2) con il secondo motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3,
dell’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, della Convenzione di Strasburgo del 1996
e della Carta UE del 2000, per non avere la Corte di merito valutato l’interesse superiore del minore in
rapporto al riscontro attuale e concreto della situazione in cui versava la N. con riguardo all’acquisizione
della capacità genitoriale nel frattempo assunta dalla stessa; 3) con il terzo motivo, l’illogica e
contraddittoria motivazione et3 motivazione apparente, ex art. 360 c.p.c., n. 5, per avere la Corte di
merito sempre ritenuto irreversibile lo stato di abbandono del minore, dando rilievo a fatti risalenti nel
tempo ed omettendo di considerare le difficoltà fisiche della madre, che solo per motivi di salute
(difficoltà di deambulazione) aveva disertato gli incontri con il figlio, attribuendo poi a tale condotta
valenza di “aggravante”; 4) con il quarto motivo, l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatto
decisivo, rappresentato dallo strumento di intervento alternativo reiteratamente richiesto dalla madre (di
collocamento presso un istituto insieme con il figlio).
2. La prima e a seconda censura sono inammissibili.
Questa Corte ha costantemente ribadito che il giudice di merito, nell’accertare lo stato di adottabilità di
un minore, deve in primo luogo esprimere una prognosi sull’effettiva ed attuale possibilità di recupero,
attraverso un percorso di crescita e sviluppo, delle capacità e competenze genitoriali, con riferimento, in
primo luogo, alla elaborazione, da parte dei genitori, di un progetto, anche futuro, di assunzione diretta
della responsabilità genitoriale, caratterizzata da cura, accudimento, coabitazione con il minore, ancorché
con l’aiuto di parenti o di terzi, ed avvalendosi dell’intervento dei servizi territoriali (Cass. n.
14436/2017).
Il diritto del minore di crescere nell’ambito della propria famiglia d’origine, considerata l’ambiente più
idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico, è tutelato dalla L. n. 184 del 1983, art. 1 ragione questa per
cui il giudice di merito deve, prioritariamente, tentare un intervento di sostegno diretto a rimuovere
situazioni di difficoltà o disagio familiare e, solo quando, a seguito del fallimento del tentativo, risulti
1
impossibile prevedere il recupero delle capacità genitoriali entro tempi compatibili con la necessità del
minore di vivere in uno stabile contesto familiare, è legittima la dichiarazione dello stato di adottabilità
(Cass. 22589/2017; Cass. 6137/2015).
Ne consegue che, per un verso, compito del servizio sociale incaricato non è solo quello di rilevare le
insufficienze in atto del nucleo familiare, ma, soprattutto, di concorrere, con interventi di sostegno, a
rimuoverle, ove possibile, e che, per altro verso, ricorre la “situazione di abbandono” sia in caso di rifiuto
ostinato a collaborare con i servizi predetti, sia qualora, a prescindere dagli intendimenti dei genitori, la
vita da loro offerta al figlio sia inadeguata al suo normale sviluppo psico-fisico, cosicché la rescissione del
legame familiare è l’unico strumento che possa evitargli un più grave pregiudizio ed assicurargli
assistenza e stabilità affettiva (Cass. 7115/2011).
Il giudizio sulla situazione di abbandono deve fondarsi su una valutazione quanto più possibile legata
all’attualità, considerato il versante prognostico. Il parametro, che ci perviene anche dai principi elaborati
dalla Corte di Strasburgo (cfr. in particolare la sentenza del 13/10/2015 – caso S.H. contro Italia), è
divenuto un principio fermo anche nella giurisprudenza di legittimità, come può rilevarsi dalla pronuncia
n. 24445 del 2015: “In tema di adozione del minore, il giudice, nella valutazione della situazione di
abbandono, quale presupposto per la dichiarazione dello stato di adottabilità, deve fondare il suo
convincimento effettuando un riscontro attuale e concreto, basato su indagini ed approfondimenti riferiti
alla situazione presente e non passata, tenendo conto della positiva volontà di recupero del rapporto
genitoriale da parte dei genitori”.
Solo un’indagine sulla persistenza e non solo sulla preesistenza della situazione di abbandono, svolta sulla
base di un giudizio attuale, in particolare quando vi siano indizi di modificazioni significative di
comportamenti e di assunzione d’impegni e responsabilità da parte dei genitori biologici, può condurre ad
una corretta valutazione del parametro contenuto nella L. n. 184 del 1983, art. 8 dovendosi tenere conto
del diritto del minore a vivere nella propria famiglia di origine, così come indicato nell’art. 1 della L. n.
184 del 1983 (Cass. 22934/2017).
In particolare, la norma, anche alla luce della progressiva elaborazione compiuta dalla giurisprudenza di
legittimità e dai principi introdotti dalla Corte Europea dei diritti umani, fissa rigorosamente il perimetro
all’interno del quale deve essere verificata la sussistenza della condizione di abbandono. Si deve trattare
di una situazione non derivante esclusivamente da condizioni di emarginazione socio economica
(disponendo l’art. 1 che siano intraprese iniziative di sostegno nel tempo della famiglia di origine),
fondata su un giudizio d’impossibilità morale o materiale caratterizzato da stabilità ed immodificabilità,
quanto meno in un tempo compatibile con le esigenze di sviluppo psicofisico armonico ed adeguato del
minore, non dovuta a forza maggiore o a un evento originario derivante da cause non imputabili ai
genitori biologici (cfr. sentenza Cedu Akinnibuson contro Italia r~ del 16/7/2015), non determinata
soltanto da comportamenti patologici ma dalla verifica del concreto pregiudizio per il minore (Cass. 7193
del 2016).
Da ultimo, questa Corte ha chiarito che “in tema di adozione di minori d’età, sussiste la situazione
d’abbandono, non solo nei casi di rifiuto intenzionale dell’adempimento dei doveri genitoriali, ma anche
qualora la situazione familiare sia tale da compromettere in modo grave e irreversibile un armonico
sviluppo psico-fisico del bambino, considerato in concreto, ossia in relazione al suo vissuto, alle sue
caratteristiche fisiche e psicologiche, alla sua età, al suo grado di sviluppo e alle sue potenzialità; ne
consegue l’irrilevanza della mera espressione di volontà dei genitori di accudire il minore in assenza di
concreti riscontri” (Cass. 4097/2018; conf. Cass. 26624/2018, in ordine alla irrilevanza della disponibilità,
meramente dichiarata, a prendersi cura dei figli minori, che non si concretizzi in atti o comportamenti
giudizialmente controllabili, tali da escludere la possibilità di un successivo abbandono).
In tema di accertamento dello stato di adottabilità, posto che il ricorso alla dichiarazione di adottabilità
costituisce solo una “soluzione estrema”, il giudice di merito deve dunque operare un giudizio prognostico
teso, in primo luogo, a verificare l’effettiva ed attuale possibilità di recupero delle capacità e competenze
genitoriali, con riferimento sia alle condizioni di lavoro, reddituali ed abitative, senza però che esse
assumano valenza discriminatoria, sia a quelle psichiche, da valutarsi, se del caso, mediante specifica
indagine peritale, estendendo detta verifica anche al nucleo familiare, di cui occorre accertare la concreta
possibilità di supportare i genitori e di sviluppare rapporti con il minore, avvalendosi dell’intervento dei
2
servizi territoriali (Cass. 7559/2018).
Ora, la Corte d’Appello ha esaminato la capacità genitoriale della madre (non essendo in discussione
l’assenza della figura paterna, che non ha riconosciuto il minore) ed ha formulato un giudizio negativo
sulla capacità della stessa di recupero del rapporto genitoriale, sulla base di una serie di elementi
comportamentali emersi da una complessa istruttoria (essenzialmente sulla base di una consulenza
tecnica neuropsichiatrica e dall’audizione delle educatrici della casa-famiglia ove il minore è stato
accolto).
Emerge che il minore al momento dell’ingresso nella casa-famiglia è stato trovato affetto da gravi
difficoltà di linguaggio, segno inequivoco di un inidoneo sviluppo psico-fisico, dovute a molteplici fattori.
La madre, dal 2015, ha avuto solo sporadici incontri con il bambino, il quale ha difficoltà a riconoscerla
nel ruolo di madre.
Non rileva la semplice volontà della madre di prendersi cura dei figli, in assenza di adeguati riscontri.
Questa Corte ha di recente affermato (Cass. 4097/2018) che “in tema di adozione di minori d’età,
sussiste la situazione d’abbandono, non solo nei casi di rifiuto intenzionale dell’adempimento dei doveri
genitoriali, ma anche qualora la situazione familiare sia tale da compromettere in modo grave e
irreversibile un armonico sviluppo psico-fisico del bambino, considerato in concreto, ossia in relazione al
suo vissuto, alle sue caratteristiche fisiche e psicologiche, alla sua età, al suo grado di sviluppo e alle sue
potenzialità; ne consegue l’irrilevanza della mera espressione di volontà dei genitori di accudire il minore
in assenza di concreti riscontri” (nella specie, questa Corte, confermando la sentenza di appello, ha
ritenuto la persistenza di una situazione di abbandono, a fronte di un impegno, solo enunciato dai
genitori,di rimuovere le problematiche esistenziali e di mutare lo stile di vita).
La sentenza di appello sviluppa adeguate e convincenti argomentazioni sull’inidoneità della madre,
sull’impossibilità del recupero in tempi ragionevoli della situazione, spiegando dunque per quale ragione
l’adozione, nella specie, costituirebbe l’unico strumento utile ad evitare ai minori un più grave pregiudizio
ed ad assicurare loro assistenza e stabilità affettiva; risulta dunque effettuato un corretto giudizio
prognostico volto a verificare l’effettiva ed attuale possibilità di recupero delle capacità e competenze
genitoriali, con riferimento sia alle condizioni di lavoro, reddituali ed abitative, sia a quelle psichiche.
Quanto poi alle carenze in merito all’esclusione del rimedio alternativo costituito dal collocamento di
madre e figlio presso una struttura di accoglienza, la Corte di merito ha motivatamente respintola
richiesta, ritenendola impraticabile alla luce dell’analisi compiuta sulla situazione di abbandono del
minore.
3. I vizi di omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, articolati nel corpo del primo motivo, nel terzo e nel
quarto motivo, sono inammissibili, avendo la Corte territoriale vagliato la situazione complessiva di madre
e figlio e non essendo più censurabile il mero profilo di insufficienza motivazionale.
4. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato inammissibile il ricorso. Ricorrono giusti motivi,
considerate tutte le peculiarità della controversia, per compensare integralmente tra le parti le spese
processuali.
Essendo il procedimento esente, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1
quater.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Dichiara le spese del presente giudizio di legittimità integralmente compensate tra le parti.
Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52 siano omessi le generalità e gli altri dati
identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.

Il coniuge separato, anche di fatto, non ha diritto al risarcimento del danno non patrimoniale (in caso di morte del coniuge per fatto illecito del terzo) in assenza di una stabile convivenza e di fondati indizi di una possibile ripresa della stessa

Cass. civ. sez. III, 4 novembre 2019, n. 28222
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso N. 23944/2017 proposto da:
R.D.D., R.G.L. e R.E., domiciliati in ROMA, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentati e difesi dall’AVVOCATO GIOVANNI D’ERME;
– ricorrenti –
contro
UNIPOLSAI Assicurazioni S.p.a., in persona del legale rappresentante in carica, elettivamente domiciliato in ROMA, via G. MENGARINI, n. 88, presso lo studio dell’AVVOCATO CARLA SILVESTRI, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
e contro
E.L., quale procuratore speciale di R.C., R.G., R.Z., M.I. e M.G.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 01491/2016 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 04/11/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/07/2019 dal Consigliere Dott. Cristiano Valle;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
udita l’Avvocato Carla Silvestri per UNIPOLSAI Assicurazioni S.p.a. che ha concluso per il rigetto del ricorso;
osserva quanto segue:

Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Firenze, con sentenza n. 01491 del 2016, ha rigettato l’appello avverso la sentenza del Tribunale della stessa città, proposto da R.D.D., R.G.L. e R.E. quali figli i primi due e moglie di R.I., deceduto in incidente stradale accaduto in (OMISSIS).
Il Tribunale di Firenze, per quanto ancora rileva in questa sede, ritenuto il concorso di colpa, in percentuale del cinquanta per cento, di R.I. nella causazione del sinistro, aveva liquidato Euro cinquantamila in favore di ciascuno dei due figli, oramai maggiorenni ( R.D.D. e R.G.L.) a titolo di danno non patrimoniale e non aveva riconosciuto alcun risarcimento in favore di R.E., moglie del deceduto, separata di fatto dallo stesso, viceversa accordando il risarcimento dei danni in favore di R.C., R.G., R.Z., M.I. e M.G., fratelli, sorelle e nuova compagna di vita, e di lei fratello, di R.I..
Avverso la sentenza della Corte territoriale ricorrono con tre motivi R.D.D., R.G.L. ed R.E..
Resiste con controricorso UNIPOLSAI Assicurazioni s.p.a..
E.L. quale procuratore speciale di R.C., R.G., R.Z., M.I. e M.G. è rimasto intimato.
Non risulta il deposito di memorie.

Motivi della decisione
Il primo motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione degliartt. 2043, 2059 e 2727 c.c., eartt. 115 e 116 c.p.c..
Parte ricorrente afferma che erroneamente, violando i principi in tema di prova presuntiva, la Corte di merito ha ritenuto che la circostanza che R.I. non convivesse più, da lungo tempo, né con la moglie R.E., dal quale era soltanto separato di fatto, né con i figli, e non avesse, quindi, più provveduto al loro sostentamento, giustificasse il riconoscimento, in favore dei figli, del risarcimento in misura notevolmente ridotta rispetto a quanto previsto dalle Tabelle del Tribunale di Milano.
Il secondo mezzo, pure per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, e segnatamente degliartt. 1226 e 2056 c.c., è incentrato sulla misura del risarcimento, come sopra detto asseritamente estremamente limitato, accordato dai giudici di merito ai figli della vittima.
Il terzo motivo, anch’esso per violazione e falsa applicazione di norme di diritto, nella specie degliartt. 2043, 2059 e 2727 c.c., e 115 e 116 c.p.c. censura l’omesso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale a R.E., moglie legittima dello R.I., dallo stesso separata soltanto di fatto.
I primi due mezzi si muovono essenzialmente sulla linea dell’asserita contraddittorietà delle testimonianze assunte in primo grado, affermando che entrambi i testi sentiti, B.M., figlio della convivente dello R.I. e C.T., vicino di casa dell’attuale, al momento del decesso, convivente dello R.I., avrebbero offerto delle versioni distorte della realtà, affermando, peraltro, di essere a conoscenza di fatti di cui normalmente degli estranei al nucleo familiare originario non possono essere a conoscenza, nonché sull’erronea applicazione delle cd. Tabelle Milanesi.
I due mezzi possono essere congiuntamente scrutinati, in quanto strettamente connessi.
Essi sono infondati, oltre che, in parte, inammissibili.
Inammissibili in quanto si chiede a questa Corte il riesame di circostanze fattuali e comunque della valutazione della prova, notoriamente precluse al giudice di legittimità (da ultimo si veda: Cass. n. 16467 del 04/07/2017 che conferma che al giudice di merito è rimessa la valutazione delle risultanze delle prove e il giudizio sull’attendibilità dei testi, nonché la scelta tra le varie risultanze probatorie, di quelle maggiormente idonee a sorreggere la motivazione e detta attività selettiva si estende all’effettiva idoneità del teste a riferire la verità).
Le censure si appuntano, inoltre, sull’improprio, nella prospettazione di parte ricorrente, ricorso al ragionamento presuntivo da parte dei giudici del merito.
In detta prospettiva deve ribadirsi l’orientamento di questa Corte (da ultimo: Cass. n. 01234 del 17/01/2019 e in precedenza Cass. n. 11511 del 23/05/2014) che afferma l’incensurabilità in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice di merito circa la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza previsti dalla legge per valorizzare determinati elementi di fatto come fonti di presunzione, restando circoscritto il sindacato di legittimità alla tenuta della motivazione sul punto, nei limiti di cuiall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
In ordine alla valutazione delle prove, ferma restando la suddetta valutazione di sostanziale inammissibilità della censura, così come formulata, deve osservarsi che la sentenza della Corte territoriale, aderendo alla motivazione del Tribunale, ha affermato, con logico e coerente percorso motivazionale (pag. 12), che non vi era contraddizione tra quanto affermato dai due testi entrambi escussi su iniziativa della convivente di fatto M.I., pure parte processuale nella fase di merito, in quanto uno aveva fatto riferimento alla durata della relazione tra R.I. e la nuova compagna, e l’altro alla durata della convivenza tra i due, che era iniziata in Italia, successivamente all’esordio, avvenuto in Romania, del legame affettivo.
In ordine alla liquidazione del danno deve rilevarsi che i ricorrenti R.D.D. e R.L.G. sono figli, oramai ultratrentenni, in quanto nati nel (OMISSIS) e nel (OMISSIS), al momento del decesso del padre R.I. (deceduto nel giugno 2007), ma da tempo, come incontestato, non più conviventi con lo stesso.
La Corte ha confermato per i due figli un risarcimento di Euro cinquantamila ciascuno, affermando, con convinta adesione alla motivazione di prime cure, che il legame di R.I. con i figli non poteva dirsi del tutto cessato, sebbene questi avesse, oramai, una nuova compagna e convivesse con la stessa da molti anni ed ha giustificato la ridotta – di oltre due terzi – misura del risarcimento del danno non patrimoniale, rispetto al minimo previsto dalle cd. Tabelle milanesi, sulla base della circostanza che la convivenza con i figli era cessata da quasi venti anni.
Il percorso motivazionale seguito dalla Corte di Appello di Firenze è coerente con la giurisprudenza di legittimità, che nell’affermare la generale valenza delle Tabelle del Tribunale di Milano, quale parametro ai sensidell’art. 1226 (e 2056) c.c.per la liquidazione dei danni (Cass. n. 12408 del 07/06/2011), ha ritenuto legittimo lo scostamento da esse, sia per i valori massimi che per quelli minimi, in considerazione delle circostanze del caso concreto, individuate correttamente, nella sentenza in scrutinio, dalla lontananza non solo geografica, in quanto è incontestato che R.D.D. e L.G. non vivessero più con R.I. da molto tempo, ma anche affettiva.
Deve, inoltre, rilevarsi che nella censura si fa riferimento ad un’inversione dell’onere probatorio operato asseritamente dal giudice di merito, tuttavia non si individua, in concreto, alcun elemento dal quale potere inferire che il legame affettivo tra i due figli da una parte ed il padre si fosse mantenuto così come normalmente avviene in costanza di convivenza.
La conclusione alla quale è pervenuta il giudice del merito va, pertanto, confermata, in quanto coerente con le affermazioni di questa Corte, in casi analoghi (nei quali, tuttavia, non erano stati correttamente individuati, dai giudici di merito, elementi idonei a giustificare lo scostamento dal minimo degli importi delle cd. Tabelle milanesi: Cass. n. 03505 del 23/02/2016): nel caso di specie, assume, invero, un ruolo determinante la cessazione della convivenza da quasi un ventennio in una con l’impossibilità di ricostituirla stante la consolidata distanza affettiva tra R.I. ed i figli.
Il primo ed il secondo motivo del ricorso sono pertanto rigettati.
Il terzo mezzo è pure esso infondato.
La sentenza in esame ha escluso che ad R.E. spettasse il risarcimento del danno valorizzando adeguatamente circostanze di fatto quali: la cessazione della convivenza tra la ricorrente e il marito R.I. da oltre venti anni, l’instaurazione di una nuova relazione affettiva da parte di R.I. in Italia, con sostanziale cessazione dei rapporti con la moglie, pur senza addivenire ad una separazione legale, l’assenza di un contributo economico da parte di R.I. al sostentamento della moglie, mentre è incontestato che in favore dei figli vi erano state delle elargizioni, seppure modeste, in caso di bisogno.
La Corte di merito ha richiamato la costante affermazione della giurisprudenza di legittimità, secondo la quale (Cass. n. 01025 del 17/01/2013, con riferimento a coniuge separato legalmente da un solo mese) il risarcimento del danno non patrimoniale può essere riconosciuto al coniuge separato a condizione che si accerti che il fatto illecito del terzo abbia provocato quel dolore e quelle sofferenze morali che di solito ai accompagnano alla morte di una persona cara, previa dimostrazione che, nonostante la separazione, anche se solo di fatto, e non giudizialmente o consensualmente raggiunta, vi sia ancora un vincolo affettivo particolarmente intenso.
L’esclusione del risarcimento del danno patrimoniale, in assenza di una stabile convivenza e di fondati indizi di una possibile ripresa della stessa è stata, pertanto, adeguatamente motivata (sul rilievo della situazione di convivenza, in caso di danno subito dai prossimi congiunti della vittima: Cass. n. 01410 del 21/01/2011).
Il ricorso è, conclusivamente, rigettato.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Si reputa opportuno disporre che in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.

P.Q.M.
rigetta il ricorso;
condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di lite, che liquida in Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario al 15% e oltre CA ed VA per legge.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Dispone oscuramento dati identificativi e generalità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Corte di Cassazione nella Sezione Terza Civile, il 4 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2019

Essendo stata omessa dalla Corte di merito la valutazione comparativa delle condizioni economiche delle parti, per il riconoscimento e la determinazione dell’assegno di divorzio, la causa va rimessa al giudice del merito, affinché compia la valutazione suddetta alla luce dei principi enunciati dalla pronuncia delle Sezioni Unite 18287/2018

Cass. civ. Sez. VI – 1, 2 dicembre 2019, n. 31359
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12614-2018 proposto da:
L.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO GRAMSCI, 7, presso lo studio dell’avvocatoALESSANDRA CATTEL, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MICHELA CONCETTI;
– ricorrente –
contro
S.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIUSEPPE AVEZZANA, 6, presso lo studio dell’avvocato MARIANNA RITA DE CINQUE, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 7590/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata l’01/12/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 15/10/2019 dal Consigliere Relatore Dott.ssa NAZZICONE LOREDANA.
Svolgimento del processo
– che la parte ricorrente ha proposto ricorso, fondato su cinque motivi, avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma del 1 dicembre 2017, la quale, in accoglimento dell’appello, ha fissato l’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile nella misura di Euro 1.000,00 mensili, con decorrenza dalla pubblicazione della sentenza del Tribunale di Roma n. 20996 del 2013, data di scioglimento del vincolo, oltre alla rivalutazione annuale Istat;
– che la parte intimata ha depositato il controricorso;
– che è stata disposta la trattazione con il rito camerale di cuiall’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti;
– che la parte ricorrente ha depositato la memoria.
Motivi della decisione
– che il primo motivo censura la violazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, per non avere la corte del merito tenuto conto sia della disparità economica tra le parti, sia del contributo personale della ricorrente al benessere familiare, avendo essa rinunciato agli studi universitari per dedicarsi alla figlia C.;
– che il secondo motivo censura la violazione del medesimo art. 5 e l’omesso esame delle situazioni economiche delle parti in comparazione tra di loro;
– che i due motivi, da trattare insieme in quanto strettamente connessi, sono reputati dal Collegio manifestamente fondati, dato che l’argomentazione della corte del merito trascura del tutto di dare e di tenere conto del reddito del coniuge, in comparazione con quello della moglie;
– che ciò si pone dunque in netto contrasto con il principio, sancito dalle Sezioni Unite (Cass., sez. un., 11 luglio 2018, n. 18287), secondo cui, nel riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, “il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto”;
– che il terzo motivo deduce la violazionedell’art. 2909 c.c.,artt. 112 e 329 c.p.c., perché il diritto dell’istante a percepire l’assegno era ormai oggetto di accertamento passato in giudicato, non avendolo il marito posto in discussione, onde la corte del merito non avrebbe potuto ritenere che tale diritto non sussiste;
– che il quarto motivo censura ancora la violazione dell’art. 5 citato, per non avere il giudice del merito considerato il criterio del c.d. tenore di vita, reputato quello corretto;
– che il quinto motivo deduce la violazionedell’art. 2909 c.c.,artt. 112 e 329 c.p.c., per avere stabilito la decorrenza dell’assegno dallo scioglimento del vincolo matrimoniale, laddove nulla al riguardo era stato dedotto con l’atto di appello;
– che il terzo, il quarto ed il quinto motivo sono assorbiti dalla pronuncia di accoglimento dei primi due;
– che, con riguardo ai motivi accolti, la causa va dunque rimessa innanzi al giudice del merito, affinché compia lo specifico accertamento omesso, ponendo in comparazione i redditi dei coniugi, previo accertamento dei medesimi, alla luce dei principi enunciati dalla ricordata pronuncia sez. un. 18287/2018.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo ed il secondo motivo, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa innanzi alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di legittimità.
In caso di diffusione del presente provvedimento, dispone omettersi le generalità e gli altri dati identificativi delle parti, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 15 ottobre 2019.
Depositato in cancelleria il 2 dicembre 2019

È procedibile d’ufficio il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare

Cass. pen. Sez. VI, 4 novembre 2019, n. 37090
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI BRESCIA;
nel procedimento a carico di:
L.A., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 15/01/2019 del GIP del TRIBUNALE di BRESCIA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa VIGNA MARIA SABINA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott.ssa CESQUI ELISABETTA, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio.
In tema di reati contro la famiglia, la fattispecie di cui allaL. n. 898 del 1970,art.12-sexies, richiamata dalla previsione di cui allaL. n. 54 del 2006, art.3, che punisce il mero inadempimento dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento stabilito dal giudice a favore dei figli (senza limitazione di età) economicamente non autonomi, è reato perseguibile d’ufficio a natura permanente, la cui consumazione termina con l’adempimento integrale dell’obbligo ovvero con la data di deliberazione della sentenza di primo grado, quando dal giudizio emerga espressamente che l’omissione si è protratta anche dopo l’emissione del decreto di citazione a giudizio.
Svolgimento del processo

1. Con il provvedimento impugnato, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brescia, giudicando in abbreviato a seguito dell’opposizione al decreto penale, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di L.A. in relazione al reato di cui allaL. 8 febbraio 2006, n. 54,art.3(in relazione alla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12-sexies e all’art. 570 c.p.) per essersi sottratto all’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento ai tre figli minori, rispettivamente di anni (OMISSIS), dall’aprile al novembre 2017, come disposto in sede di separazione, per essere il reato estinto per intervenuta remissione di querela.
2. Ricorre il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Brescia che chiede l’annullamento della sentenza impugnata, denunciando la violazione di legge (L. 8 febbraio 2006, n. 54,art.3in relazione allaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.12-sexies, artt. 570, 570-bis c.p.) perché il reato per il quale si procede è perseguibile d’ufficio laddove, come nel caso di specie, sia commesso in danno dei figli minori degli anni 18.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è fondato per le ragioni che saranno esposte.
2. La giurisprudenza di legittimità è costantemente orientata ad affermare che “in tema di reati contro la famiglia, la fattispecie di cui allaL. n. 898 del 1970,art.12-sexies, richiamata dalla previsione di cui allaL. n. 54 del 2006,art.3, che punisce il mero inadempimento dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento stabilito dal giudice a favore dei figli (senza limitazione di età) economicamente non autonomi, è reato perseguibile d’ufficio a natura permanente, la cui consumazione termina con l’adempimento integrale dell’obbligo ovvero con la data di deliberazione della sentenza di primo grado, quando dal giudizio emerga espressamente che l’omissione si è protratta anche dopo l’emissione del decreto di citazione a giudizio” (Sez. 6, n. 23794 del 27/04/2017, P.G. in proc. B., Rv. 270223).
Non sussistono neppure dubbi che, quanto ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore delD.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, vi è continuità normativa tra la fattispecie previstadall’art. 570-bis c.p.e quella prevista dallaL. 8 febbraio 2006, n. 54,art.3(Sez. 6, n. 56080 del 17/10/2018, G., Rv. 2747329, sicché la sentenza impugnata va annullata con rinvio al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brescia perché proceda a nuovo giudizio facendo applicazione dei richiamati principi di diritto.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Brescia, Ufficio G.I.P..
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, il 5 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 settembre 2019

Conflitto di competenza tra il Tribunale ordinario ed il Tribunale per i minorenni per l’affidamento condiviso del minore

Cassazione civile, sez. VI, 23 Gennaio 2019, n. 1866. Pres. Rosa Maria di Virgilio. Est. Mercolino.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso per conflitto di competenza iscritto al n. 22387/2018 R.G., sollevato dal Tribunale di Bergamo con ordinanza in data 10 luglio 2018 nel procedimento vertente tra:
Z.E., da una parte, e P.A., dall’altra, ed iscritto al n. 5130/2017 V.G. di quell’Ufficio.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 18 dicembre 2017 dal Consigliere Guido Mercolino;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Federico SORRENTINO, che ha chiesto la dichiarazione d’inammissibilità del regolamento di competenza.
Svolgimento del processo
1. Z.E., già convivente more uxorio con P.A., a seguito della cessazione della relazione ha convenuto in giudizio la donna, per sentir disporre l’affidamento condiviso del figlio A.G., nato dall’unione, con collocamento del minore presso l’abitazione paterna, disciplina dei rapporti con la madre ed imposizione a carico di quest’ultima dell’obbligo di contribuire al mantenimento del figlio, ivi comprese le spese straordinarie.
Si è costituita la P., ed ha resistito alla domanda, chiedendo a sua volta disporsi l’affidamento condiviso del figlio, con collocamento presso di lei e adozione delle determinazioni conseguenti, e segnalando che dinanzi al Tribunale per i minorenni di Brescia pende un altro procedimento, promosso dal Pubblico Ministero per l’emissione dei provvedimenti di cui agli artt. 330-333 c.c..
1.1. Con ordinanza del 10 luglio 2018, il Tribunale di Bergamo ha sollevato conflitto positivo di competenza.
Premesso che il Tribunale dei minorenni, dopo aver emesso provvedimenti urgenti nei confronti dei genitori del minore, ha disposto la prosecuzione dell’istruttoria, trasmettendo copia di alcuni atti al tribunale ordinario e chiedendo la trasmissione di copia delle decisioni da quest’ultimo adottate, il Tribunale ha rilevato che i due procedimenti hanno ad oggetto temi analoghi, costituiti dall’affidamento e dal collocamento del figlio, affermando che la prosecuzione dell’attività istruttoria da parte del Giudice minorile si pone in contrasto con il criterio della prevenzione, in virtù del quale la competenza spetta in via esclusiva al tribunale ordinario, dinanzi al quale pende il procedimento instaurato per primo.
2. Le parti non hanno svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
1. Preliminarmente, si dà atto dell’astratta ammissibilità del regolamento d’ufficio, proposto dal Tribunale in conformità dell’orientamento consolidato di questa Corte che ne esclude la natura di mezzo d’impugnazione, ravvisandovi piuttosto uno strumento volto a sollecitare l’individuazione del giudice naturale, precostituito per legge, al quale compete la trattazione, interinale o provvisoria ma comunque esclusiva, dell’affare, e riconoscendone pertanto la compatibilità con i procedimenti in camera di consiglio (cfr. Cass., Sez. Sesta, 4/08/2011, n. 16959; Cass., Sez. Prima, 7/04/2004, n. 6892). Il ricorso a tale strumento non può ritenersi precluso, nella specie, dal carattere positivo e virtuale del conflitto insorto tra il Tribunale ordinario e quello per i minorenni, avendo quest’ultimo chiaramente manifestato, attraverso la adozione di provvedimenti urgenti e la richiesta di trasmissione di copia degli atti del procedimento pendente dinanzi al primo, l’intenzione di dare corso alla domanda proposta dinanzi a sè, nell’esercizio della competenza inderogabile attribuitagli dall’art. 38 disp. att. c.p.c., e dovendosi per altro verso escludere, in base a fondamentali principi di logica e di economia processuale, che ai fini dell’esperibilità del regolamento di competenza siano in ogni caso necessari due provvedimenti positivi adottati nella stessa fattispecie da due giudici diversi, con evidente compromissione, talora anche irreversibile, dell’interesse pubblico e di quello delle parti (cfr. Cass., Sez. Prima, 29/10/1997, n. 10637; 9/09/1996, n. 8177). Il conflitto positivo, anche virtuale, comunemente ritenuto inammissibile nell’ambito del processo ordinario di cognizione (cfr. Cass., Sez. Terza, 28/11/2002, n. 16906), è d’altronde ammesso ormai pacificamente in materia fallimentare (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. Sesta, 29/09/2016, n. 19343; 30/10/2014, n. 23116; Cass., Sez. Prima, 25/09/2014, n. 20283), ed ha trovato ampio spazio anche in materia familiare, soprattutto con riguardo ai procedimenti camerali riguardanti i minori, avuto riguardo alla frequente assenza dei caratteri di decisorietà e definitività dei provvedimenti in cui sono destinati a sfociare, che ne esclude l’impugnabilità con il ricorso per cassazione, ed all’esigenza di una sollecita risoluzione della questione di competenza, a tutela dell’interesse superiore del minore ed in funzione della ragionevole durata del processo (cfr. Cass., Sez. Prima, 29/05/1998, n. 5328; 20/04/1993, n. 4647; Cass., Sez. Seconda, 7/02/1987, n. 1262).
2. Nel merito, si osserva che l’art. 38 disp. att. c.c., nel testo sostituito dalla L. 10 dicembre 2012, n. 219, art. 3, riserva alla competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti previsti, tra l’altro, dagli artt. 330, 332, 333, 334 e 335 c.c., facendo tuttavia eccezione per il caso in cui sia in corso, tra le stesse parti, un giudizio di separazione o divorzio o un giudizio ai sensi dell’art. 316 c.c., e prevedendo che in tale ipotesi la competenza spetti, per tutta la durata del giudizio, al giudice ordinario, anche per i provvedimenti richiamati nelle predette disposizioni. Nella interpretazione di tale disciplina, la cui oscura formulazione ha dato luogo ad ampie critiche da parte della dottrina, questa Corte ha identificato la ratio della vis attractiva dalla stessa prevista in favore del tribunale ordinario nelle interrelazioni ed interferenze frequentemente riscontrabili tra i procedimenti di separazione e divorzio o relativi a figli di genitori non coniugati e quelli previsti dagli artt. 330 e 333 c.c., osservando che spesso risulta assai difficile distinguere, in concreto, una domanda di affidamento pura e semplice da una fondata su comportamenti pregiudizievoli o gravi abusi del genitore. Ha tuttavia rilevato la sostanziale coerenza del dettato normativo, volto ad evitare l’adozione di provvedimenti contrastanti o la presentazione di ricorsi strumentali ad un organo diverso, osservando che lo stesso limita l’attrazione all’ipotesi in cui il procedimento dinanzi al tribunale ordinario sia già pendente, in tal modo implicitamente escludendo quella in cui il procedimento dinanzi al tribunale per i minorenni sia stato instaurato anteriormente, richiedendo inoltre che i due procedimenti si svolgano tra le medesime parti, condizione quest’ultima non riscontrabile nel caso in cui quello dinanzi al tribunale per i minorenni sia stato promosso da un soggetto diverso dai genitori del minore. Ha escluso comunque che la vis attractiva possa estendersi alla pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale, riservata in ogni caso al giudice minorile, ferma restando la competenza del tribunale ordinario per l’adozione dei provvedimenti conseguenti (cfr. Cass., Sez. Sesta, 29/07/2015, n. 15971; v. anche Cass., Sez. Sesta, 12/02/2015, n. 2833; 26/01/2015, n. 1349).
Alla stregua di tali precisazioni, cui si è attenuta anche la giurisprudenza successiva, merita di essere condivisa la tesi sostenuta dal Tribunale di Bergamo, secondo cui, avuto riguardo all’interconnessione tra il procedimento pendente dinanzi ad esso e quello instaurato dinanzi al Tribunale per i minorenni di Brescia, il conflitto dev’essere risolto in base al criterio della prevenzione, il quale comporta l’attrazione di entrambi i procedimenti alla competenza del Tribunale ordinario. Il procedimento dinanzi a quest’ultimo, promosso dallo Z. con ricorso depositato il 25 settembre 2017 ed avente ad oggetto l’affidamento del figlio nato dall’unione con la P., con l’adozione dei provvedimenti consequenziali, risultava infatti già pendente alla data d’instaurazione del procedimento dinanzi al Tribunale per i minorenni, promosso dal Pubblico Ministero con ricorso depositato il 30 novembre 2017 e volto all’adozione dei provvedimenti di cui agli artt. 333-336 c.c.. Contrariamente a quanto sostenuto dal Procuratore generale nelle sue conclusioni scritte, la mera diversità dell’oggetto delle predette domande non consente di escludere l’operatività della vis attractiva prevista dall’art. 38 disp. att. c.c., ai fini della quale deve considerarsi invece sufficiente l’evidente interrelazione tra i due procedimenti, aventi quale obiettivo comune l’assunzione delle determinazioni più opportune nell’interesse del minore, in modo da salvaguardarne l’armonico ed equilibrato sviluppo, pur nella situazione di contrasto conseguente alla disgregazione del nucleo familiare. Ininfluente è altresì la circostanza che il procedimento dinanzi al Tribunale per i minorenni sia stato promosso dal Pubblico Ministero, anzichè da uno dei genitori, rivestendo il predetto organo la qualità di parte necessaria nel procedimento pendente dinanzi al Tribunale ordinario, e non risultando la diversità della sua posizione processuale idonea ad escludere l’identità delle parti richiesta ai fini dell’attrazione di entrambi i procedimenti alla competenza del Giudice ordinario (cfr. Cass., Sez. Sesta, 19/05/2016, n. 10365).
3. In conclusione, va dichiarata la competenza del Tribunale di Bergamo sia in ordine al procedimento promosso dallo Z. nei confronti della P. che in ordine a quello, attualmente pendente dinanzi al Tribunale per i minorenni di Brescia, promosso dal Pubblico Ministero nei confronti dei genitori di A.G. Z..
Il carattere ufficioso dell’iniziativa esclude la necessità di provvedere al regolamento delle spese processuali.
P.Q.M.
dichiara la competenza del Tribunale di Bergamo, dinanzi al quale entrambi i processi dovranno essere riassunti nel termine di legge.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella ordinanza.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla leg