Azione di disconoscimento della paternità e diritto al mantenimento del cognome paterno

Cassazione civile, sez. I, 06 Novembre 2019, n. 28518. Pres. Maria Cristina Giancola. Est. Laura Scalia.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 11291/2018 proposto da:
I.S., elettivamente domiciliato in Roma, Via * presso lo studio * e rappresentato e difeso dall’avvocato G. A. giusta procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
I.M., elettivamente domiciliato in Roma, Via * presso lo studio dell’avvocato S. A. che lo rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
R.G.Y.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 307/2018 della Corte di appello di Roma, pubblicata il 17/01/2018;
udita la relazione della causa svolta dal Cons. Dott. Laura Scalia nella camera di consiglio del 23/09/2019.

Svolgimento del processo
1. La Corte di appello di Roma con la sentenza in epigrafe indicata, decidendo quale giudice del rinvio su riassunzione del giudizio in esito all’annullamento disposto dalla Corte di cassazione, in accoglimento dell’impugnazione proposta da I.M. nei confronti di R.G.Y. e di I.S. avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 2390 pubblicata il 13.11.2009, ha dichiarato che I.M., nato a (*), non è il padre di I.S., nato a (*), con ordine al competente ufficiale dello Stato civile di procedere alle relative annotazioni sulla perdita del cognome paterno da parte del figlio, non avendo questi, rimasto finanche contumace nel giudizio di rinvio, formulato una richiesta al mantenimento.
2. Ricorre per la cassazione dell’indicata sentenza I.S. con unico articolato motivo cui resiste con controricorso I.M..

Motivi della decisione
1. Il ricorrente con unico articolato motivo denuncia dell’impugnata sentenza la violazione del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 95, comma 3, e degli artt. 2 e 3 Cost..
In primo grado, ancora minorenne costituitosi a mezzo del procuratore speciale, egli si era opposto alla domanda di disconoscimento e quindi, implicitamente, alla perdita del cognome del padre, tratto distintivo della propria identità personale.
Nel giudizio di appello, poi, celebrato in sede di rinvio, I.M., che aveva promosso l’azione di disconoscimento della paternità, nel formulare le proprie conclusioni aveva manifestato la volontà di non far “rettificare” il cognome a I.S..
La Corte di merito diversamente decidendo sarebbe incorsa nella mancata applicazione del portato della sentenza della Corte costituzionale n. 13/1994 che aveva riconosciuto il diritto al mantenimento del cognome e tanto aveva fatto in una fattispecie di disconoscimento della paternità, in cui il ricorrente – che, di anni ventisette, su quel cognome aveva costruito la propria identità personale, protetta dalle previsioni costituzionali sulla persona – si era opposto alla domanda.
Il D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95, comma 3, all’esito dell’indicata pronuncia del Giudice delle leggi avrebbe previsto per l’interessato la possibilità di chiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome.
2. In via preliminare, a definizione di quanto è ancora in contestazione tra le parti, va escluso che vengano in valutazione le statuizioni assunte dalla Corte di appello di Roma, all’esito del rinvio disposto da questa Corte di legittimità con la precedente sentenza di annullamento n. 14556 del 2014, sul disconoscimento di paternità promosso da I.M., capo su cui deve intendersi, pertanto, caduto il giudicato.
3. Per il proposto motivo si deduce dal ricorrente infatti sulla diversa questione del diritto al mantenimento del cognome da parte di colui che, maggiorenne, ne risulti privato all’esito dell’azione di disconoscimento della paternità favorevolmente risolta dal giudice del merito.
4. Il motivo è infondato per ragioni che, di carattere processuale, rinvengono fondamento e giustificazione nella individuazione di natura e contenuti del diritto azionato.
L’affermazione di principio da cui questa Corte di legittimità deve muovere nella valutazione del caso di specie è che, in caso di disconoscimento della paternità, il mantenimento da parte del figlio maggiorenne del cognome paterno è espressione di un diritto potestativo e personalissimo che, definito dall’intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 13 del 1994, deve tradursi in una domanda di accertamento da proporsi in sede giudiziale, anche in via riconvenzionale e subordinata all’accoglimento della principale sullo status che, non potendo essere oggetto di rilievo officioso quale accessoria statuizione della prima, non può ritenersi ricompresa nella mera e generica opposizione all’azione di disconoscimento proposta che l’avente diritto abbia manifestato, resistendo all’avversa azione.
L’indicato principio consegue all’affermazione per la quale nella natura personalissima del diritto a mantenere – rispetto ad azioni di stato di riconoscimento della filiazione o di disconoscimento della paternità cui segua, in affermazione del favor veritatis, la necessità della rettifica dell’atto dello stato civile D.P.R. n. 396 del 2000, ex art. 49 comma 1 lett. o) con perdita del cognome in uso – l’integrità del proprio nome che abbia assunto, con rilevanza ed autonomia proprie, le caratteristiche di un segno distintivo della identità personale proiettata all’esterno, la legittimazione alla distinta azione di accertamento spetta al solo titolare e non ammette sostituzioni (sulla natura personalissima del diritto al nome per il meccanismo previsto dal D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95, comma 3, che ha codificato il principio enunciato, jus superveniens, con la pronuncia della Corte costituzionale: Cass. 15/02/2017 n. 4020, massimata su altro, in motivazione a p. 11; Cass. 16/04/2014 n. 8876, non massimata, par. 3).
Come ricordato dal Giudice delle leggi con la sentenza del 13 febbraio 1994, n. 13, nella materia del cognome si impone una fondamentale distinzione tra quella che è la disciplina civilistica e delle leggi speciali sul riconoscimento di uno status, o i rapporti di filiazione in genere, per la quale, ai sensi dell’art. 6 c.c., vi è corrispondenza tra status ed attribuzione del cognome, ed i casi in cui non si ha, o non si ha più, siffatta corrispondenza ed in cui a tutela e protezione della persona può esserle riconosciuto il diritto alla conservazione di un nome, rispetto al quale non ha o non avrebbe più titolo, quale elemento di identificazione in quanto “parte essenziale ed irrinunciabile della personalità” (in termini, in motivazione, anche: Cass. n. 8876 del 2014).
In siffatta ipotesi il cognome non assolve più alla funzione di segnare la discendenza di una persona da una determinata famiglia, ma diviene strumento di identificazione di quella persona nella sua vita di relazione.
L’indicata prospettiva è ben presente al legislatore ordinario là dove prevede che in materia di riconoscimento della filiazione al di fuori del matrimonio il figlio possa mantenere il cognome precedentemente attribuitogli in quanto sia divenuto “autonomo segno della sua identità personale” (art. 262 c.c., comma 3, secondo periodo; sull’autonomia della domanda alla conservazione del cognome rispetto a quella sullo status: Cass. 04/02/1978 n. 1507).
5. Definita nei segnati termini la natura del diritto al mantenimento del cognome da parte di una persona maggiorenne, il ricorso va rigettato in difetto di domanda dell’avente diritto.
L’accoglimento della domanda di disconoscimento della paternità comporta, in affermazione del favor veritatis che si accompagna all’esercizio delle azioni sullo status, che il soggetto in precedenza riconosciuto perda il cognome del padre e che là dove egli intenda conservarlo tanto debba fare attraverso l’esercizio dell’autonomo diritto al nome, tratto caratterizzante della personalità ex art. 2 Cost., che, come definito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 13 del 1994, deve essere introdotto a mezzo di una distinta domanda di attribuzione senza che valga a contrastare l’automatismo insito nel sopra indicato meccanismo – cui segue la rettifica del cognome come atto dovuto – una posizione processuale di mera resistenza all’azione principale sullo status o, ancora, una condotta di non contestazione di colui che abbia proposto domanda di disconoscimento.
6. Le spese processuali, in ragione della natura della lite, restano compensate tra le parti.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese di lite.
Dispone che ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52 siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 6 novembre 2019

Ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza.

Cass. civ. Sez. Unite, 13 novembre 2019, n. 29459
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 14044-2017 proposto da:
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliatosi in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
– ricorrente –
contro
R.M.M. (ALIAS R.M.M.), elettivamente domiciliatosi in ROMA, VIA ETRURIA 44, presso lo studio dell’avvocato ANNA PENSIERO, rappresentato e difeso dall’avvocato EDOARDO CAVICCHI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 868/2017 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 18/04/2017;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/09/2019 dal consigliere Dott. ANGELINA-MARIA PERRINO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi l’Avvocato Giuseppe Albenzio, per l’Avvocatura Generale dello Stato e Luigi Migliaccio per delega dell’avvocato Edoardo Cavicchi.
Svolgimento del processo
R.M.M. (alias R.M.M.), cittadino (OMISSIS), impugnò dinanzi al Tribunale di Firenze la decisione della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, che gli aveva negato il riconoscimento dello status di rifugiato e la protezione sussidiaria, e aveva altresì respinto l’ulteriore richiesta di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Esito negativo sortì il ricorso in primo grado, laddove la Corte d’appello di Firenze, in parziale accoglimento dell’appello, ha riconosciuto la sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari; a sostegno della decisione ha fatto leva sull’assunzione del richiedente, e, quindi, sull’indipendenza economica e personale da lui così acquisita, con conseguente integrazione sociale utile al rilascio del permesso.
Contro la sentenza ha proposto ricorso il Ministero dell’interno per ottenerne la cassazione, che ha affidato a un unico motivo, cui il cittadino (OMISSIS) ha reagito con controricorso.
In esito all’adunanza camerale nella quale era stato fissato il giudizio, il collegio ha sollecitato il contraddittorio sul regime intertemporale delD.L. 4 ottobre 2018, n. 113, poi convertito conL. 1 dicembre 2018, n. 132, entrato in vigore nelle more. Le parti così sollecitate hanno depositato memorie e altrettanto ha fatto la Procura generale.
A seguito di quest’interlocuzione il collegio ha ravvisato ragioni di disaccordo con l’orientamento che la sezione aveva di recente espresso sia in ordine ai limiti di applicazione delD.L. n. 113 del 2018, sia in relazione ai presupposti necessari per il rilascio di permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Ne è scaturita l’ordinanza 3 maggio 2019 n. 11749 con la quale si è sottoposta al Primo Presidente l’opportunità di demandare la cognizione delle questioni alle sezioni unite, cui ha fatto seguito la fissazione dell’odierna udienza, in prossimità della quale il Ministero ha depositato memoria.

Motivi della decisione

1.- Con l’unico motivo di ricorso il Ministero dell’interno ha lamentato la violazione e falsa applicazione delD.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25,art.32, comma 3, e delD.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286,art.5, comma 6, là dove il giudice d’appello ha ravvisato i seri motivi umanitari idonei al riconoscimento del relativo permesso contentandosi del fatto che il richiedente abbia documentato di aver ottenuto un lavoro, in tal modo dimostrando di essersi inserito nel contesto sociale.
1.1.- La soluzione della questione postula per un verso la permanente configurabilità del permesso per seri motivi umanitari e richiede per altro verso l’individuazione della rilevanza, in seno ai seri motivi umanitari, dell’integrazione sociale.
Su entrambi gli aspetti si diffonde l’ordinanza interlocutoria indicata in narrativa, manifestando dissenso rispetto agli orientamenti al riguardo emersi all’interno della prima sezione civile.
2.- Quanto al primo dei due aspetti, ossia a quello concernente il regime normativo applicabile, rileva ilD.L. 4 ottobre 2018, n. 113, conv., con modificazioni, conL. 1 dicembre 2018, n. 132, che ha disciplinato ex novo la materia già regolata dalD.Lgs. n. 286 del 1998,art.5, comma 6, il quale vietava il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno quando comunque ricorressero “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”: su questa norma si è fondato l’istituto della protezione umanitaria.
La norma era richiamata dalD.Lgs. n. 25 del 2008,art.32, comma 3, secondo il quale “nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale e ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, la Commissione territoriale trasmette gli atti al questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi delD.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286,art.5, comma 6”.
2.1.- Ad avviso del legislatore della novella la definizione di protezione umanitaria, dai contorni incerti, ha lasciato “…ampi margini ad una interpretazione estensiva in contrasto con il fine di tutela temporanea di esigenze di carattere umanitario per il quale l’istituto è stato introdotto nell’ordinamento” (così si legge a pag. 3 della relazione di accompagnamento del decreto). Si è quindi ritenuto necessario “…delimitare l’ambito di esercizio di tale discrezionalità alla individuazione e valutazione della sussistenza di ipotesi predeterminate nella norma” (ibid.).
Così ilD.L. n. 113 del 2018ha sistematicamente disposto l’espunzione da ogni disposizione, legislativa o regolamentare, di qualsivoglia riferimento al permesso di soggiorno per motivi umanitari, ha abrogato la disposizione, sopra indicata, contenuta nelD.Lgs. n. 286 del 1998,art.5 comma 6e ha introdotto alcune ipotesi nominate di titoli di soggiorno, ossia:
– il permesso di soggiorno per calamità naturale, regolato dalD.Lgs. n. 286 del 1998, nuovo art. 20-bis, a fronte di una situazione di “contingente ed eccezionale calamità naturale che non consente il rientro in condizione di sicurezza” nel Paese d’origine;
– il permesso di soggiorno per atti di particolare valore civile, previsto dal nuovo art. 42-bis del medesimo decreto;
– il permesso di soggiorno per cure mediche, inserito con ilD.Lgs. n. 286 del 1998,art.19, comma 2, lett. d-bis), relativo a “stranieri che versano in condizioni di salute di particolare gravità, accertate mediante idonea documentazione, tali da non consentire di eseguire il provvedimento di espulsione senza arrecare un irreparabile pregiudizio alla salute degli stessi”.
2.2.- Sono rimasti fermi altri titoli di soggiorno riconducibili a esigenze umanitarie, tra i quali quello in favore delle vittime di violenza domestica (D.Lgs. n. 286 del 1998,art.18-bis) e di sfruttamento lavorativo (art. 22, comma 12-quater, del medesimo decreto), nonchè quelli in favore dei minori (D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394,art.28, lett. a-b, eD.Lgs. n. 286 del 1998,art.31).
2.3.- Accanto a questi permessi il legislatore ha introdotto una nuova forma di protezione, denominata speciale: il testo novellato delD.Lgs. n. 25 del 2008,art.32, comma 3, prevede che le Commissioni territoriali trasmettano gli atti al questore per il rilascio di un permesso di soggiorno annuale che reca la dicitura “protezione speciale”, qualora non sia accolta la domanda di protezione internazionale, ma comunque sussistano i presupposti previsti dalD.Lgs. n. 286 del 1998,art.19, comma 1 e comma 1, n. 1, salvo che possa disporsi l’allontanamento verso uno Stato che provvede ad accordare una protezione analoga.
La protezione speciale è quindi configurata come norma di chiusura, in ideale contraltare all’apertura del catalogo dei seri motivi già contemplati dalD.Lgs. n. 286 del 1998,art.5, comma 6.
2.4.- La costruzione di questa norma è diversa da quella precedente ed evidenzia il mutamento dell’approccio del legislatore.
Nella disciplina abrogata i seri motivi umanitari costituivano il titolo per rimanere in Italia.
In quella odierna la protezione speciale si traduce nel diritto di non essere allontanati, espressione del divieto di refoulement. IlD.Lgs. n. 286 del 1998,art.19, comma 1 e comma 1, n. 1, stabilisce difatti che:
“1. In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione.
1.1. Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani”.
2.5.- Diverso è anche il regime delineato dal diritto sopravvenuto.
Il permesso di soggiorno per motivi umanitari aveva la durata di due anni, rinnovabile, ed era convertibile in permesso per motivi di lavoro (D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394,art.14, comma 1, lett. c), e comma 3) e per motivi familiari (D.Lgs. n. 286 del 1998,art.30, comma 1, lett. b)).
La nuova protezione speciale, invece, ha durata di un anno, rinnovabile, previo parere della competente Commissione territoriale e non consente la conversione in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
E ciò, si è visto, al fine di scongiurare le “interpretazioni estensive” della protezione temporanea per ragioni umanitarie.
2.6.- La novella contiene al riguardo due sole disposizioni transitorie:
– in virtù della prima (art. 1, comma 8) i permessi di soggiorno per motivi umanitari già rilasciati restano validi e continuano a essere regolati secondo la disciplina precedente fino alla loro naturale scadenza, salva la possibilità di conversione in altro tipo di permesso di soggiorno; una volta scaduti non potranno essere rinnovati, ma, ricorrendone i presupposti, ossia il rischio di persecuzione o il rischio di tortura, sarà rilasciato il permesso per “protezione speciale”;
– in base alla seconda (art. 1, comma 9) qualora siano in corso procedimenti in cui le Commissioni territoriali abbiano già ritenuto la sussistenza di gravi motivi di carattere umanitario, dovrà essere rilasciato un permesso di soggiorno “per casi speciali” della durata di due anni, convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo o subordinato, alla scadenza del quale si applicherà la medesima disciplina prevista nel precedente comma.
3.- Non è espressamente regolata la sorte del caso che si è verificato nell’odierno giudizio, in cui il permesso è stato denegato dalla Commissione territoriale e riconosciuto dal giudice antecedentemente all’entrata in vigore delD.L. n. 113 del 2018.
Ineludibile è quindi il ricorso alle regole che scandiscono la successione delle leggi nel tempo.
3.1.- In base all’orientamento generalmente assunto da questa Corte (con sentenza 4 febbraio 2019, n. 4890, seguita da Cass. 2 aprile 2019, n. 9090; 5 aprile 2019, n. 9650; 10 aprile 2019, n. 10107; 18 aprile 2019, n. 10922; 2 maggio 2019, nn. 11558, 11559, 11560, 11561; 3 maggio 2019, n. 11593; 8 maggio 2019, n. 12182; 15 maggio 2019, nn. 13079 e 13082; 20 maggio 2019, nn. 13558, 13560, 13561; 22 maggio 2019, nn. 13883 e 13884; 24 maggio 2019, n. 14278; 19 giugno 2019, nn. 16457, 16460, 16461, 16462, 16463 e 16464; 27 giugno 2019, nn. 17306, 17308, 17310, 17311; 5 luglio 2019, nn. 18208, 18211, 18212, 18213 e 18214 e applicata, a quanto consta, dalla parte preponderante della giurisprudenza di merito) la disciplina dinanzi indicata contenuta nella normativa introdotta con ilD.L. n. 113 del 2018, come convertito, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) delle nuove norme.
3.2.- A sostegno della decisione la Corte ha fatto leva sul principio d’irretroattività della legge, stabilitodall’art. 11 preleggi, che non può soffrire di deroga al cospetto del mutamento, dovuta a diritto sopravvenuto, del fatto generatore del diritto azionato o delle conseguenze giuridiche, attuali o future, di esso.
Nel caso in questione, difatti, ha argomentato la Corte, il diritto del cittadino straniero di ottenere un titolo di soggiorno fondato su “seri motivi umanitari” desumibili dal quadro degli obblighi costituzionali e internazionali assunti dallo Stato è già sorto antecedentemente all’entrata in vigore delD.L. n. 113 del 2018, per effetto del verificarsi delle condizioni di vulnerabilità e la proposizione della domanda ne ha cristallizzato il paradigma legale, che non può essere modificato per effetto della successione delle leggi nel tempo; e ciò in aderenza al principio generale di ragionevolezza, che impedisce d’introdurre ingiustificate disparità di trattamento, nonché a esigenze di tutela del legittimo affidamento, connaturato allo Stato di diritto.
3.3.- Sul punto, sottolinea la Corte, irragionevole sarebbe discriminare il trattamento giuridico di situazioni giuridiche sostanziali simili, date dalla sussistenza dei presupposti d’insorgenza del diritto a ottenere il rilascio del permesso per ragioni umanitarie, per il solo fatto, del tutto eventuale, che esso sia già stato rilasciato o vi sia stata delibazione favorevole della Commissione territoriale antecedentemente all’entrata in vigore delD.L. n. 113 del 2018.
3.4.- Benché, peraltro, il diritto sia già sorto, prosegue la Corte, la fase della sua attuazione non potrà che essere disciplinata dal diritto sopravvenuto; sicché, ha concluso, va riconosciuto, sussistendone i presupposti, il titolo di soggiorno sostenuto da ragioni umanitarie in base a una domanda proposta antecedentemente all’entrata in vigore delD.L. n. 113 del 2018, ma la disciplina e la durata di esso dovranno seguire le prescrizioni delD.L. n. 113 del 2018, e specificamente dell’art. 1, comma 9, di esso, unica fonte normativa applicabile al momento dell’accertamento giudiziale del diritto.
4.- Con l’ordinanza interlocutoria è contestata anzitutto la tenuta di quest’orientamento.
Si obietta che l’applicazione del diritto sopravvenuto, compresa l’espunzione dall’ordinamento del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ai giudizi già in corso non sarebbe affatto retroattiva.
Ci si limiterebbe ad applicare in quel momento, in cui il procedimento volto al riconoscimento del diritto è ancora pendente, le norme vigenti e quindi obbligatoriamente applicabili, in baseall’art. 73 Cost.eart. 10 preleggi.
Il che acquisirebbe ancor maggior forza in base alla considerazione che il diritto sopravvenuto trova fonte in un decreto legge, che per definizione normativa (dettata dallaL. 23 agosto 1988, n. 400,art.15, comma 3) deve “contenere misure di immediata applicazione”.
4.1.- D’altronde, si sottolinea con l’ordinanza interlocutoria, il ragionamento seguito dall’orientamento dominante rivelerebbe la propria intrinseca contraddittorietà quando, dopo aver negato l’applicabilità ai giudizi in corso del diritto sopravvenuto, comunque finisce per applicarlo, in relazione al nomen e alla durata del permesso da rilasciare: sicché, si rimarca, si finirebbe col creare una norma transitoria nuova, data dalla commistione di norme diverse.
5.- Merita adesione l’orientamento maggioritario affermatosi nella giurisprudenza di questa Corte.
5.1.- Indubbiamente in base alla combinazionedell’art. 73 Cost.edell’art. 10 preleggiil tempo dell’applicabilità della legge non può che coincidere con quello del vigore di essa; sicché effettivamente l’applicazione immediata di una nuova norma è la regola vincolante per gli interpreti e non richiede conferme nel testo normativo da applicare.
L’abrogazione determina, però, la perdita di vigore per il futuro; per cui non si può escludere l’applicabilità della legge abrogata per il passato, ossia per il periodo anteriore all’abrogazione: la legge abrogata, semplicemente, è dotata di efficacia temporalmente limitata, nel senso che la disciplina ivi stabilita concerne, di norma, i soli fatti che si siano verificati antecedentemente all’abrogazione, quando, cioè, essa era ancora applicabile.
5.2.- La nuova norma, divenuta vigente, è senz’altro immediatamente applicabile; ma quel che si discute è se essa sia, o no, retroattiva.
Rileva, allora, il principio generale d’irretroattività, che non gode di copertura costituzionale nella materia in questione, ma che è pur sempre stabilito, salvo deroghe,dall’art. 11 preleggi.
Esso, di là da distinzioni, di rilievo eminentemente descrittivo, tra retroattività in senso proprio e retroattività in senso improprio, è volto a tutelare non già fatti, bensì diritti: quel che il divieto di retroattività garantisce è il divieto di modificazione della rilevanza giuridica dei fatti che già si siano compiutamente verificati (nel caso di fattispecie istantanea) o di una fattispecie non ancora esauritasi (nel caso di fattispecie durevole non completata all’epoca dell’abrogazione).
La retroattività consente alla legge di regolare diversamente fatti avvenuti precedentemente, quando la legge vigente era un’altra: essa, quindi, postula la vigenza della legge successiva, ma non si esaurisce in essa, in quanto, per mezzo della retroattività, la legge successiva amplia a ritroso il tempo della propria applicabilità.
L’applicabilità ai giudizi già in corso delD.L. n. 113 del 2018implicherebbe quindi, e ineludibilmente, la retroattività in parte qua del decreto.
5.3.- A differenza di quanto si sostiene con l’ordinanza interlocutoria, secondo cui la protezione umanitaria è “una fattispecie complessa e a formazione progressiva, come chiaramente si desume dal fatto che essa consiste in un permesso del quale l’ordinamento postula che si verifichino i presupposti nell’ambito di un apposito procedimento” (punto 4.3.2), il procedimento non incide affatto sull’insorgenza del diritto, che, se sussistente, è pieno e perfetto e nelle forme del procedimento è soltanto accertato; se insussistente, esso non potrà nascere per effetto dello svolgimento del procedimento.
5.3.1.- Il diritto sorge quando si verifica la situazione di vulnerabilità quale sussumibile nella fattispecie allora vigente e irrilevante è che esso non comporti il riconoscimento di uno status, ma una protezione temporanea.
5.3.2.- La verifica all’attualità delle condizioni per il rilascio del permesso di soggiorno, sollecitata dal riferimento alle “informazioni precise e aggiornate” contenuto nelD.Lgs. n. 25 del 2008,art.8, comma 3, non è espressione della natura costitutiva dell’accertamento, affermata con l’ordinanza interlocutoria, ma dell’estensione dei poteri di accertamento. Al momento della decisione devono sussistere i presupposti di fatto per l’accoglimento della domanda, ossia deve risultare la fondatezza di essa; ma, in virtù dell’irretroattività della novella, è salvaguardato il diritto che la rilevanza giuridica di tali fatti risponda alle norme previgenti.
5.4.- Questa ricostruzione è consolidata nella giurisprudenza delle sezioni unite.
Come ripetutamente affermato (si vedano, fra le più recenti, Cass., sez. un., 29 gennaio 2019, n. 2441; 19 dicembre 2018, nn. 32778, 32777, 32776, 32775 e 32774; 28 novembre 2018, nn. 30758, 30757; 27 novembre 2018, n. 30658), la situazione giuridica soggettiva dello straniero nei confronti del quale sussistano i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria ha natura di diritto soggettivo, da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali garantitidall’art. 2 Cost.e art. 3 della convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Essa non è pertanto degradabile a interesse legittimo per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, in seno al relativo procedimento: all’autorità amministrativa è richiesto soltanto l’accertamento dei presupposti di fatto che danno luogo alla protezione umanitaria, nell’esercizio di mera discrezionalità tecnica, poiché il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate è riservato al legislatore.
5.5.- Il procedimento amministrativo è sì atto necessario, ma pur sempre esprime, in base al modello generale, esercizio di attività vincolata, ricognitiva della sussistenza dei presupposti determinati dalla legge.
Sinanche la nullità del provvedimento amministrativo di diniego reso dalla commissione territoriale sarebbe del tutto irrilevante, poiché la natura di diritto soggettivo al riconoscimento della protezione umanitaria impone che il procedimento giurisdizionale giunga alla decisione sulla spettanza, o non, del diritto stesso, senza potersi limitare al mero annullamento del diniego amministrativo (Cass. 21 novembre 2018, n. 30105; 22 marzo 2017, n. 7385; 3 settembre 2014, n. 18632).
Il diritto unionale, d’altronde, sia pure con riferimento allo status di rifugiato, stabilisce (considerando 21 della direttiva n. 2011/95) che il relativo riconoscimento è atto ricognitivo e che la conseguente qualità non dipende dal riconoscimento (Corte giust., grande sezione, 14 maggio 2019, cause C-391/16, C-77/17 e C-78/18, punto 92).
6.- Tutte le protezioni sono quindi ascrivibili all’area dei diritti fondamentali, sia quelle maggiori (ossia il riconoscimento dello status di rifugiato e la protezione sussidiaria), sia quella, residuale e temporanea, per ragioni umanitarie (in termini, tra varie, Cass., sez. un., 12 dicembre 2018, n. 32177 e 11 dicembre 2018, nn. 32045 e 32044).
E tutte le protezioni, compresa quella umanitaria, sono espressione del diritto di asilo costituzionale.
6.1.- Se ne legge conferma, pure da ultimo, nella giurisprudenza costituzionale, secondo la quale la protezione umanitaria, insieme con la tutela dei rifugiati e la protezione sussidiaria, attua il diritto di asilo costituzionale exart. 10 Cost., comma 3, (Corte Cost. 24 luglio 2019, n. 194). Il che vale anche per i nuovi istituti, l’interpretazione e l’applicazione dei quali devono rispettare la Costituzione e i vincoli internazionali, “nonostante l’intervenuta abrogazione dell’esplicito riferimento agli “obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” precedentemente contenuto nell’art. 5, comma 6, del t. u. immigrazione” (così ancora Corte Cost. n. 194/19).
6.2.- Recessivo risulta l’approccio seguito con l’ordinanza interlocutoria, secondo cui la riconducibilità del permesso per motivi umanitari nell’alveo dell’asilo costituzionale non gioverebbe all’orientamento dominante, in considerazione della discrezionalità del legislatore, perchél’art. 10 Cost.prevede il diritto d’asilo “secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
Il diritto di asilo scaturisce direttamente dal precetto costituzionale e si colloca, come ha osservato sin da epoca risalente autorevole dottrina, in seno all’apertura amplissima della Costituzione verso i diritti fondamentali dell’uomo.
Il diritto di asilo è quindi costruito come diritto della personalità, posto a presidio di interessi essenziali della persona e non può recedere al cospetto dello straniero bisognoso di aiuto, che, allegando motivi umanitari, invochi il diritto di solidarietà sociale: i diritti fondamentali dell’uomo spettano ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani, sicché la condizione giuridica dello straniero non può essere considerata ragione di trattamenti diversificati e peggiorativi (Corte Cost. 10 aprile 2001, n. 105; 8 luglio 2010, n. 249).
Le condizioni che possono essere definite per legge, necessariamente conformi alle altre norme costituzionali e internazionali, allora, sono quelle chiamate a regolare il soggiorno dell’esule, la definizione dei criteri di accertamento dei requisiti richiesti per l’asilo e le modalità del relativo procedimento di accertamento.
Di qui la coerenza del consolidato orientamento della giurisprudenza di queste sezioni unite delle quali si è dato conto, che relegano la discrezionalità, anche del legislatore, al solo accertamento e all’individuazione delle modalità di esercizio del diritto.
Quanto alla preoccupazione espressa dal collegio rimettente che, a seguire quest’orientamento, il giudice potrebbe giungere a riconoscere la protezione internazionale anche ai richiedenti responsabili di gravi reati, non previsti dalla normativa precedente, ma da quella sopravvenuta, può bastare, per superarla, il riferimento alla giurisprudenza unionale: la grande sezione della Corte di giustizia ha pure di recente sottolineato (con sentenza 14 maggio 2019, cause C-391/16, C-77/17 e C-78/17, cit.) che, anche in caso di rifiuto del riconoscimento o di revoca dello status di rifugiato per ragioni di pericolo per la sicurezza o per la comunità dello Stato membro ospitante, è possibile autorizzare il soggiorno nel territorio dello Stato membro “in base a un altro fondamento giuridico” (punto 106).
6.3.- Irrilevante è altresì l’obiezione mossa con l’ordinanza interlocutoria secondo cui occorrerebbe dimostrare che la sommatoria delle forme di protezione attualmente vigenti sia insufficiente a garantire il nucleo minimo dell’asilo costituzionalmente garantito dalla Costituzione.
Ininfluente è che sia garantito il nucleo minimo dell’asilo costituzionalmente protetto, giacché la rilevanza del relativo diritto ne merita la massima espansione.
La scelta italiana di garantire una terza forma di tutela complementare alle due protezioni maggiori riconosciute dal diritto unionale trova d’altronde legittimazione -anche- nel sistema Europeo: ladirettiva n. 2008/115/CE(c.d. direttiva sui rimpatri) stabilisce (art. 6, paragrafo 4) che “In qualsiasi momento gli Stati membri possono decidere di rilasciare per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura un permesso di soggiorno autonomo o un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare. In tali casi non è emessa la decisione di rimpatrio. Qualora sia già stata emessa, la decisione di rimpatrio è revocata o sospesa per il periodo di validità del titolo di soggiorno o di un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare”.
6.4.- In questo contesto di rilevanza costituzionale, sarebbe ben difficile prospettare la retroattività delle disposizioni abrogatrici delD.Lgs. n. 286 del 1998,art.5, comma 6. Prospettazione, questa, prodromica e comunque autonoma rispetto alle valutazioni sulla legittimità della scelta di retroattività.
6.5.- A indirizzare la scelta ermeneutica sulla natura della disposizione senz’altro milita la considerazione che la retroattività debba trovare “adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza attraverso un puntuale bilanciamento tra le ragioni che ne hanno motivato la previsione e i valori, costituzionalmente tutelati, al contempo potenzialmente lesi dall’efficacia a ritroso della norma adottata” (così, in particolare, Corte Cost. 22 febbraio 2017, n. 73, nonché, tra le ultime, 12 luglio 2019, n. 174).
Laddove, nel caso in esame, la diversa valutazione giuridica dei fatti già accaduti, e posti a base del riconoscimento per via giudiziale del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, ossia, appunto, la retroattività, conseguirebbe l’effetto di escludere il diritto al rilascio del permesso in questione, della cui inerenza all’area dei diritti fondamentali nella stessa ordinanza interlocutoria non si dubita. Effetto, che, al cospetto della riduzione dell’area di tutela che il legislatore della riforma intende perseguire, scoraggiando, come si è visto, interpretazioni estensive dell’istituto della protezione umanitaria, rischierebbe di entrare in frizione con la tenuta dei valori costituzionalmente tutelati.
6.6.- Non è, allora, affatto ovvia, come si prospetta con l’ordinanza, la deduzione, tratta dalla disposizione transitoria contenuta nelD.L. n. 113 del 2018,art.1, comma 9, come convertito, che il legislatore avrebbe inteso escludere che alle situazioni pendenti siano da applicare le norme ormai abrogate. Al contrario: la consistenza della situazione soggettiva già maturata e le criticità di tenuta costituzionale della scelta di retroattività impongono di pervenire alla soluzione opposta.
6.7.- Nè infine giova alla tesi ivi sostenuta il riferimento all’orientamento (affermato, in particolare, da Cass., sez. un., 28 novembre 2016, n. 21691, seguita, tra varie, da Cass. 28 febbraio 2017, n. 5226), che ammette l’applicazione del ius superveniens ai giudizi in corso, anche qualora sia intervenuto dopo la notificazione del ricorso per cassazione. Ciò perchè la giurisprudenza citata si riferisce chiaramente al caso in cui la legge sopravvenuta sia dotata di efficacia retroattiva.
7.- Benchè il diritto di asilo nasca quando il richiedente faccia ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità che mettano a repentaglio l’esercizio dei propri diritti fondamentali, è la presentazione della domanda che identifica e attrae il regime normativo della protezione per ragioni umanitarie da applicare.
E’ con la domanda in sede amministrativa che il titolare del diritto esprime il bisogno di tutela, e il bisogno di tutela per ragioni umanitarie va regolato secondo le modalità previste dal legislatore nazionale: sicchè è quella domanda a incanalare tale bisogno nella sequenza procedimentale dettata dal legislatore nell’esercizio della discrezionalità a lui rimessa ed è quindi il tempo della sua presentazione a individuare il complesso delle regole applicabili.
7.1.- Se ne trova chiara traccia nel diritto positivo: stabilisce ilD.P.R. 12 gennaio 2015, n. 21,art.3, il quale detta il regolamento relativo alle procedure per il riconoscimento e la revoca della protezione internazionale, a norma delD.Lgs. n. 25 del 2008,art.38, comma 1, che “2. Quando la volontà di chiedere la protezione internazionale è manifestata all’ufficio di polizia di frontiera all’ingresso nel territorio nazionale, tale autorità invita formalmente lo straniero a recarsi al più presto, e comunque non oltre otto giorni lavorativi, salvo giustificato motivo, presso l’ufficio della questura competente alla formalizzazione della richiesta, informando il richiedente che qualora non si rechi nei termini prescritti presso l’ufficio indicato, è considerato a tutti gli effetti di legge irregolarmente presente nel territorio nazionale”; aggiunge il comma 2, poi abrogato dalD.L. n. 113 del 2018, del successivo art. 6 che “Nei casi di cui alle lettere b) e c) del comma 1, la Commissione, se ritiene che sussistono gravi motivi di carattere umanitario trasmette gli atti al questore per il rilascio del permesso di soggiorno di durata biennale ai sensi dell’art. 32, comma 3, del decreto”.
Da un lato, il crisma della regolarità non può che derivare dal complesso di norme in quel momento in vigore; dall’altro, gli “elementi utili all’esame” che il richiedente è chiamato a indicare in domanda (giusta ilD.Lgs. n. 25 del 2008,art.10) non possono che essere gli elementi da ritenere utili in base alle regole allora vigenti.
7.2.- Non vale addurre che il principio di eguaglianza sarebbe violato dalla differenziazione normativa tra coloro che abbiano presentato la domanda entro il 5 ottobre 2018 e coloro che, pur trovandosi nella medesima situazione, non l’abbiano fatto.
Spetta difatti alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme (tra varie, Corte Cost. 8 novembre 2018, n. 194 e 23 maggio 2018, n. 104). Ed è ragionevole che si applichino regole diverse a seconda del momento in cui il titolare della situazione soggettiva innesti il procedimento indirizzato alla tutela di essa, diversamente disciplinato nel tempo dal legislatore.
7.3.- Irragionevole sarebbe, invece, assegnare diverso trattamento normativo a situazioni soggettive sostanziali già sorte e fatte valere con la domanda, per il solo fatto che qualcuna di esse, al momento di entrata in vigore della novella, per ragioni che sfuggono alle possibilità di controllo dei rispettivi titolari, sia stata già favorevolmente delibata nel corso di un procedimento, il quale, va ribadito, è chiamato a svolgere mera funzione ricognitiva.
La divaricazione delle tutele, destinata a durare e, quindi, di carattere strutturale, sarebbe difatti incoerentemente ancorata a un criterio eccentrico, perchè contingente, rispetto alla fattispecie disciplinata.
7.4.- Il legislatore della novella ha espresso la volontà che, al cospetto della sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, i permessi già rilasciati restino validi fino alla scadenza (D.L. n. 113 del 2018,art.1, comma 8) e gli accertamenti già compiuti -dalle Commissioni territoriali- restino fermi, ai fini del rilascio di permessi di durata biennale (art. 1, comma 9 del decreto).
Questa volontà annette quindi rilievo preminente alla sussistenza di quei presupposti. L’interpretazione costituzionalmente conforme della novella impone allora che, a fronte di tale sussistenza, recessiva sia la circostanza che vi sia stato un accertamento, meramente ricognitivo. Sicchè non soltanto nel caso in cui, alla data di entrata in vigore delD.L. n. 113 del 2018, la Commissione territoriale abbia già ritenuto la sussistenza dei gravi motivi di carattere umanitario (come stabilito dal D.Lgs. n. 113 del 2018, art. 1, comma 9), ma anche in quello in cui l’accertamento sia comunque in itinere il titolo di soggiorno dovrà rispondere alle modalità previste dalD.L. n. 113 del 2018,art.1, comma 9.
7.5.- E nessuna contraddizione sussiste in questo ragionamento: la permanente rilevanza della protezione per seri motivi umanitari o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano discende dalla irretroattività della novella, che l’ha espunta dall’ordinamento; il concreto atteggiarsi del permesso, che pur sempre risponde a quella protezione, è dettato dall’interpretazione conforme a Costituzione, che valorizza la volontà del legislatore, coerente con la natura ricognitiva dell’accertamento.
8.- Il secondo aspetto che rileva nel caso in esame concerne la possibilità di riconoscere il permesso di soggiorno per “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” anche al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale nel nostro paese, in base a una valutazione comparativa effettiva con la situazione oggettiva e soggettiva del richiedente nel paese d’origine.
Si obietta con l’ordinanza interlocutoria che questa valutazione comparativa ha contenuto vago e indefinito e che prima ancora lo stesso parametro dell’integrazione sociale ha basi normative assai fragili, in mancanza di disposizioni che ne facciano menzione.
8.1.- Al fondo delle obiezioni v’è anche il dubbio in ordine alla relazione tra le due protezioni maggiori, di matrice unionale, e la terza, temporanea e complementare, poiché si paventa un’impropria sovrapposizione della tutela umanitaria prevista dal diritto nazionale a quelle previste dal diritto unionale.
9.- E’ il diritto unionale a delineare l’actio finium regundorum tra le protezioni maggiori e quella umanitaria prevista dal diritto nazionale.
La giurisprudenza unionale (Corte giust., grande sezione, 9 novembre 2010, cause C-57/09 e C-101/09) ha chiarito che, come risulta dall’art. 2, lett. g), della c.d. direttiva qualifiche (direttiva n. 2011/95/UE), essa non osta a che una persona chieda di essere protetta nell’ambito di un “diverso tipo di protezione” che non rientra nel relativo ambito di applicazione. E ciò perché la direttiva muove dal principio che gli Stati membri di accoglienza possono accordare, in conformità del loro diritto nazionale, una protezione nazionale accompagnata da diritti che consentano alle persone escluse dallo status di rifugiato di soggiornare nel territorio dello Stato membro considerato.
9.1.- Si è stabilito, tuttavia, che “Tale altro tipo di protezione che gli Stati membri hanno la facoltà di accordare non deve tuttavia poter essere confuso con lo status di rifugiato ai sensi della direttiva, come giustamente sottolineato dalla Commissione. Pertanto, nei limiti in cui le norme nazionali che accordano un diritto d’asilo a persone escluse dallo status di rifugiato ai sensi della direttiva permettono di distinguere chiaramente la protezione nazionale da quella concessa in forza della direttiva, esse non contravvengono al sistema di quest’ultima” (punti 119-120).
9.2.- Non vi potrà essere spazio per la protezione umanitaria, dunque, qualora i seri motivi evochino la situazione socio-politica o normativa del Paese di provenienza correlata alla specifica posizione del richiedente e più specificamente al suo fondato timore di una persecuzione personale e diretta, per l’appartenenza a un’etnia, associazione, credo politico o religioso, oppure in ragione delle proprie tendenze e stili di vita, e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità psico-fisica (giusta i parametri utili al riconoscimento dello status di rifugiato, da ultimo ribaditi da Cass. n. 30105/18, cit.).
9.3.- Analoghe precisazioni hanno riguardato i rapporti tra diritto umanitario e protezione sussidiaria.
L’art. 15 della direttiva qualifiche identifica quali requisiti per l’ottenimento della protezione sussidiaria:
a) la condanna o l’esecuzione della pena di morte;
b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine; o c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
La giurisprudenza unionale, con riguardo a quello sub c), che presenta un sostrato comune col diritto umanitario, ha chiarito che lo scopo del diritto umanitario è principalmente quello di garantire la protezione dei civili in zone di conflitto, limitando gli effetti negativi della guerra: “Le definizioni della nozione di conflitto armato accolte dal diritto internazionale umanitario non mirano, quindi, ad identificare le situazioni in cui una tale protezione sarebbe necessaria e dovrebbe essere concessa dalle autorità competenti degli Stati membri” (Corte giust. 30 gennaio 2014, causa C-285/12, Diakitè, punto 10.3).
La disciplina dell’Unione si concentra, quindi, sulla concessione della protezione internazionale quando lo straniero abbia superato il confine dello Stato di origine e sia venuta meno la protezione che dovrebbe essere garantita dallo Stato di appartenenza: la direttiva qualifiche utilizza l’espressione indistinta e complessiva di “conflitto armato interno o internazionale” (art. 15, lett. c), mentre nel diritto internazionale umanitario i concetti di “conflitti armati internazionali” e “conflitti armati che non presentano carattere internazionale” sono alla base di regimi giuridici distinti.
9.4.- La locuzione “conflitto armato” nella legislazione dell’Unione deve essere interpretata in conformità al suo significato nel “linguaggio corrente”, di modo che essa include situazioni in cui ci siano scontri tra le forze di sicurezza dello Stato e uno o più gruppi armati, o dove gli scontri siano tra due o più gruppi armati (Corte giust. in causa C-254/12, punto 27).
9.5.- Se ne ricava che la protezione sussidiaria ha per presupposto e condizione gli scontri che rappresentino una minaccia personale grave alla vita o all’integrità fisica del ricorrente. Quanto più il ricorrente è in grado di dimostrare di essere esposto a rischi, tanto minore è il livello di violenza indiscriminata richiesto per il riconoscimento della protezione sussidiaria.
9.6.- La giurisprudenza di questa Corte ha già dato puntuale applicazione ai principi fissati da quella unionale: si è così stabilito (tra varie, Cass. 21 luglio 2017, n. 18130; 29 ottobre 2018, n. 27338; 15 maggio 2019, n. 13079 e 17 maggio 2019, n. 13454) che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, il grado di violenza indiscriminata deve aver raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia. Il conflitto armato interno rileva quindi soltanto se, eccezionalmente, si possa ritenere che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria.
9.7.- L’identificazione dei presupposti delle protezioni maggiori esclude il rischio di improprie sovrapposizioni paventato in ordinanza.
10.- Quanto ai presupposti utili a ottenere la protezione umanitaria, non si può trascurare la necessità di collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l’alimentano.
Gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali; sicché, ha puntualizzato questa Corte, l’apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni (tra varie, Cass. 15 maggio 2019, nn. 13079 e 13096).
Le basi normative non sono, allora, affatto fragili, ma a compasso largo: l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 della Cedu, promuove l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione.
10.1.- Va quindi condiviso l’approccio scelto dall’orientamento di questa Corte (inaugurato da Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455, seguita, tra varie, da Cass. 19 aprile 2019, n. 11110 e da Cass. n. 12082/19, cit., nonchè, a quanto consta, dalla preponderante giurisprudenza di merito) che assegna rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale.
10.2.- Non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, né il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072). Si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sé inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria (Cass. 3 aprile 2019, n. 9304).
11.- In applicazione dei principi così dettati, il ricorso proposto dal Ministero dev’essere accolto, in quanto la decisione del giudice d’appello si è fondata sul solo elemento, isolatamente considerato, della recente assunzione del richiedente alle dipendenze di un datore di lavoro italiano e non svolge alcuna valutazione comparativa.
12.- In accoglimento del ricorso, la sentenza va quindi cassata, con rinvio, anche per le spese, alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, affinché rivaluti la questione alla luce dei seguenti principi di diritto:
“In tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria, il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile; ne consegue che la normativa introdotta con ilD.L. n. 113 del 2018, convertito conL. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina contemplata dalD.Lgs. n. 286 del 1998,art.5, comma 6, e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore delD.L. n. 113 del 2018, convertito nellaL. n. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per “casi speciali” previsto dall’art. 1, comma 9, del suddetto decreto legge”.
“In tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”.

P.Q.M.

la Corte, a sezioni unite, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Firenze in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 24 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2019

Adozione e assenza di coesione familiare.

Cass. civ. Sez. I, Ord., 4 dicembre 2019, n. 31672; Pres. Giancola, Cons. Rel. Parise
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –
Dott. PARISE Clotilde – rel. Consigliere –
Dott. GHINOY Paola – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 16639/2017 proposto da:
S.M., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione,
rappresentato e difeso dall’avvocato Milano Gerardo, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Procura Generale Corte d’Appello di Brescia, e R.G.;
– intimati –
contro
L.C., in qualità di curatore della minore S.J., elettivamente domiciliata in Roma, Via San Martino
della Battaglia n. 17, presso il proprio studio, rappresentata e difesa da se medesima, e P.L., in
qualità di tutore della minore S.J., elettivamente domiciliata in Roma, Via San Martino della
Battaglia n. 17, presso lo studio dell’avvocato L.C., che la rappresenta e difende, giusta procura in
calce al controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 787/2017 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, del 26/05/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/09/2019 dal cons. Dott.
PARISE CLOTILDE.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 787/2017 pubblicata il 26/5/2017 e comunicata a mezzo pec nella stessa data la
Corte d’appello di Brescia, sezione minorenni, pronunciando sugli appelli proposti da S.M. e R.G.
avverso la sentenza del Tribunale per i Minorenni di Brescia n. 103/22016 con la quale era stato
dichiarato lo stato di adottabilità della minore S.J., rigettava gli appelli, confermando la sentenza
impugnata e compensando tra le parti le spese di giudizio. Per quanto ancora di interesse, la Corte
territoriale riteneva, in base agli elementi acquisiti, che non vi fosse coesione familiare e solidità di
rapporti tra la minore e i suoi genitori, da un lato, e tra la zia paterna e suo marito, dall’altro, i quali
ultimi si erano dichiarati disponibili a richiedere in adozione o in affidamento la minore.
2. Avverso questa sentenza S.M. propone ricorso, affidato ad un solo motivo, resistito con
controricorso da S.J., rappresentata dal suo curatore speciale. E’ rimasta intimata R.G., madre della
minore.
3. Con ordinanza interlocutoria di questa Corte depositata il 5/4/2019, la causa è stata rinviata a
nuovo ruolo, rilevata la mancanza agli atti della prova dell’intervenuta comunicazione anche al
difensore della parte controricorrente dell’avviso di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio
del 29 gennaio 2019.
4. Il ricorso è stato, quindi, nuovamente fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensi
dell’art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis 1 c.p.c.. Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa.
Motivi della decisione
1.Con unico articolato motivo il ricorrente lamenta “Nullità ex art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e
falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, artt. 1, 4, 8, 12 e 15, dell’art. 3 della Convenzione di
New York sui Diritti del Fanciullo, della Convenzione di Strasburgo del 25.01.96, della Carta dei
Diritti fondamentali della UE del 07.12.2000, in relazione alla insussistenza delle condizioni di
abbandono morale e materiale della minore e per aver omesso di valutare l’interesse superiore della
minore a vivere nella famiglia di origine della zia paterna, della quale condivide il legame parentale,
la nazionalità e la cultura”. Deduce il ricorrente che “l’errata interpretazione di alcune circostanze in
fatto ha indotto la Corte in un errore interpretativo e applicativo della L. n. 184 del 1983, artt. 1, 4,
8, 12 e 15 in particolare nel combinato disposto che disciplina la condizione di abbandono nella
fattispecie dell’esistenza di parenti entro il quarto grado che abbiano mantenuto rapporti significativi
con il minore”.
Segnatamente lamenta che la Corte territoriale abbia desunto lo stato di abbandono della minore
omettendo di valorizzare adeguatamente la presenza nella vita della piccola J. della famiglia della
zia paterna, ossia dei coniugi S.K. e A.M., resisi tempestivamente disponibili ad assumere l’affido
vicariante. Deduce che dalla data nascita della bambina ((OMISSIS)) e sino a quando la coppia
genitoriale ha avuto “libertà di movimento” (ossia fino al 24.09.2014) gli incontri con la famiglia
paterna sono avvenuti in maniera adeguata alla distanza logistica (tra Italia, Tunisia e Francia). Si
duole il ricorrente del fatto che la Corte territoriale non abbia adeguatamente considerato che la
famiglia d’origine paterna allargata risiede all’estero ed inoltre era stato sicuramente accertato che
all’età di circa un anno della minore i genitori l’abbiano portata presso i parenti in Tunisia e in
Francia e che questi ultimi abbiano incontrato J. in altre sporadiche occasioni. Ad avviso del
ricorrente la manifestazione di disponibilità della zia paterna e di suo marito non può essere
considerata tardiva, atteso che “la situazione di abbandono della piccola J. si è conclamata
solamente nel corso del mese di (OMISSIS), ossia, quando la madre, a fronte della previsione della
sua dimissione, ha inopinatamente deciso di abbandonare definitivamente la Comunità”. Inoltre il
ricorrente si trovava in stato di detenzione carceraria e la Corte territoriale non aveva tenuto conto
dei tempi tecnici indispensabili per comunicare al padre l’evolversi dei fatti, data la sua condizione
di detenuto. Ad avviso del ricorrente la discrasia rilevata dalla Corte territoriale circa l’incontro tra
la minore e la zia in Francia riferito come avvenuto nel 2015 era da attribuire a una confusione sul
dato temporale, poichè il fatto era invece avvenuto nel 2014, e non rivestiva decisiva valenza. La
Corte territoriale aveva invece omesso di valorizzare che i coniugi S.- A., per due udienze, erano
intervenuti personalmente nel procedimento, affrontando significative spese di viaggio dalla Francia
all’Italia e sostenendo spese per l’interprete. Richiama il ricorrente la giurisprudenza di questa Corte
(Cass. n. 8526/2006 e n. 11426/2003) secondo cui la significatività del legame parentale non può
escludersi solo perchè sia mancata un’intensa frequentazione, mentre è rilevante il rapporto
parentale, da valutarsi all’attualità e in base a dati oggettivi, mediante il quale sia manifestato
interesse e assistenza concreta, come nella specie.
2. Il motivo è infondato.
2.1. Questa Corte ha affermato, esprimendo un orientamento al quale il Collegio intende dare
continuità, che lo stato di abbandono dei minori non può essere escluso in conseguenza della
disponibilità a prendersi cura di loro, manifestata da parenti entro il quarto grado, quando non
sussistano rapporti significativi pregressi tra loro ed i bambini, e neppure possano individuarsi
potenzialità di recupero dei rapporti, non traumatiche per i minori, in tempi compatibili con lo
sviluppo equilibrato della loro personalità. Il requisito, espressamente previsto dalla L. n. 184 del
1983, art. 12 della significatività dei rapporti con i parenti fino al quarto grado al fine di verificarne
l’idoneità soggettiva e la sussistenza delle condizioni oggettive ai fini dell’affidamento dei minori è
valutabile anche sotto il profilo potenziale, quando sia stata constatata l’impossibilità incolpevole di
stabilire rapporti con i minori da parte dei parenti indicati dal citato art. 12 (Cass. n. 9021/2018 e
Cass. n. 2102/2011).
2.2. Nel caso di specie la Corte territoriale, attenendosi ai suesposti principi di diritto, ha accertato
l’insussistenza di rapporti significativi pregressi tra la minore e la zia paterna e suo marito,
rimarcando anche che la richiesta dei parenti non era stata ragionevolmente tempestiva. Secondo
l’insindacabile accertamento di fatto svolto dalla Corte d’Appello, la zia paterna e suo marito,
residenti in Francia, prima della dichiarazione di disponibilità espressa con nota depositata il 18
ottobre 2016, non avevano intrattenuto relazioni significative con la minore. In particolare la Corte
territoriale, dando conto in dettaglio delle emergenze istruttorie, ha ritenuto non veritiero il fatto
relativo ad un incontro avvenuto tra la zia paterna e la minore nel 2015 ed ha evidenziato la non
tempestività della disponibilità manifestata dagli zii, rilevante perché emblematica di insussistenza
di coesione familiare e di solidità dei rapporti anche con i genitori della minore. Considerato,
inoltre, che sin dal luglio 2014 quest’ultima e la madre erano state prese inprico dai Servizi sociali,
la Corte d’appello ha affermato la mancanza di qualsiasi riscontro circa i tentativi della zia paterna
di incontrare la minore nel periodo in cui quest’ultima era stata inserita in un progetto comunitario
assieme alla madre.
Nella fattispecie oggetto di giudizio, pertanto, non può riscontrarsi la condizione dell’impossibilità
incolpevole in ordine alla creazione e conservazione di rapporti significativi con la minore. Ricorre
altresì la mancanza di potenzialità di recupero non traumatiche in tempi compatibili con lo sviluppo
equilibrato della personalità della minore, anche in considerazione dell’oggettivo radicale
cambiamento contestuale e linguistico che si determinerebbe, stante la residenza degli zii in
Francia, e che, alla luce dell’indagine di fatto insindacabile svolta dalla Corte d’Appello, non è
affrontabile senza il riferimento relazionale affettivo preesistente e significativo richiesto dalla
legge.
Il quadro fattuale posto a base della decisione impugnata risulta sufficientemente completo e
l’accertamento dei fatti, in quanto apprezzamento di merito, è sottratto al controllo di legittimità al
di fuori dei limiti di cui al novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come costantemente interpretato
dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. unite, n. 8053/2014).
3. Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato.
4. Le spese del giudizio di legittimità possono essere compensate, ricorrendo gravi ed eccezionali
ragioni in virtù della delicatezza e della difficoltà di accertamento dei fatti in contestazione.
5. Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle
parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio.
Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e
dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 23 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2019

Rimessa al Primo Presidente la questione inerente al riconoscimento in Italia della sentenza statunitense sull’adozione legittimante di un bambino da parte di due persone dello stesso sesso

Cass. civ. Sez. I, 11 novembre 2019, n. 29071
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso 21223/2017 proposto da:
Sindaco di Samarate, quale Ufficiale di Governo (Ministero dell’Interno), elettivamente domiciliato in Roma, Via Dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;
– ricorrente –
contro
M.L.A.M., F.R.L., quali genitori esercenti la responsabilità genitoriale per il minore F.M.J.G., elettivamente domiciliati in Roma, Via Piemonte n. 117, presso lo studio dell’avvocato Perin Giulia che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Schuster Alexander, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso l’ordinanza della CORTE D’APPELLO di MILANO, del 09/06/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 23/09/2019 dal Cons. Dott. FIDANZIA ANDREA;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO ALBERTO, che ha chiesto che codesta Corte di Cassazione voglia rigettare il ricorso.
Svolgimento del processo
Con ordinanza depositata il 9 giugno 2017 la Corte d’Appello di Milano – Sezione delle persone e della famiglia – ha dichiarato “l’efficacia nella Repubblica Italiana del provvedimento “Order of Adoption” pronunciato in data 25.9.2009 dalla Surrogatès Court dello stato di New York, contea di New York, con cui è stata dichiarata l’adozione del minore F.M.J., nato a (OMISSIS), da parte di M.L.A.M. e F.R.L.”, ordinando all’Ufficiale di Stato Civile del Comune di Samarate di procedere alla trascrizione del citato provvedimento, unitamente all’atto di nascita n. (OMISSIS) dell’adottato contenente le sue nuove generalità nonché le generalità dei genitori adottivi in luogo di quelli naturali.
La Corte territoriale, dopo aver dichiarato il difetto di legittimazione passiva del Sindaco di Samarate, ed aver escluso il litisconsorzio necessario con l’altro genitore adottivo, ha ritenuto che l’adozione di un minore da parte di partners dello stesso sesso, pronunciata in altro stato, non fosse contraria all’ordine pubblico internazionale, tenuto conto dell’interesse superiore del minore al mantenimento nel nostro ordinamento dello status filiationis riconosciutogli in altro Stato in forza di un provvedimento giudiziario, dell’importanza per il minore della dimensione relazionale e sociale con il genitore, come espressione della propria vita familiare ex art. 8 CEDU, del diritto del minore alla sua identità personale.
Avverso il decreto ha proposto ricorso per cassazione il Sindaco di Samarate (VA) quale Ufficiale di Governo affidandolo a quattro motivi.
M.L.A.M., intimato e già parte in causa, si è costituito in giudizio con controricorso unitamente a F.R.L., genitore adottivo precedentemente pretermesso che con lo stesso atto ha spiegato intervenuto autonomo in giudizio.
Il ricorso è stato fissato in Camera di consiglio dinanzi a questa prima sezione.
Il Procuratore Generale presso questa Corte ha depositato conclusioni scritte con richiesta di rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il Sindaco di Samarate ha dedotto la violazione, exart. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, artt. 702 bis c.p.c. e segg., D.P.R. n. 96 del 2000, art. 1,L. n. 218 del 1995,artt.64e67,D.P.R. n. 396 del 2000,artt.95e96.
Lamenta il Sindaco ricorrente che il giudice di secondo grado ha dichiarato il suo difetto di legittimazione passiva nonostante tale legittimazione derivi dalla sua qualità di soggetto responsabile della tenuta dei registri dello Stato Civile nonchè Ufficiale rappresentante del Governo Italiano, oltre ad essere parte necessaria nel giudizio instaurato dalla controparte.
2. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione, exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 4,dell’art. 102 c.p.c..
Lamenta il ricorrente la mancata declaratoria, da parte della Corte milanese, della inammissibilità del ricorso, per essere lo stesso stato presentato da uno solo dei genitori adottivi in assenza della indispensabile integrazione del contraddittorio, e ciò in considerazione della sussistenza del litisconsorzio necessario tra entrambi i genitori.
In particolare, lamenta che la domanda presentata dal M. non consente una verifica sulla condivisione dello stesso interesse, sotteso alla domanda, da parte dell’altro esercente la responsabilità genitoriale.
3. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione, exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 4,L. n. 218 del 1995,artt.41,64,65,66e67,L. n. 183 del 1984,artt. 35 e segg.,D.P.R. n. 396 del 2000,art.28, comma 2, lett. g)e art.95,D.Lgs. n. 150 del 2011,art.30, nonché dell’art. 702 bis c.p.c..
Lamenta il ricorrente che la Corte territoriale ha avallato la proposizione di un procedimento di delibazione innanzi a sé quando, al contrario, si trattava di procedimento per opposizione al rifiuto di trascrizione contro cui è proponibile ricorso giurisdizionaleD.P.R. n. 396 del 2000, ex art. 95, il quale fissa la competenza (per tale tipo di giudizio) del Tribunale, ovvero di procedimentoL. n. 184 del 1983, ex art. 35, comma 5, relativo alle adozioni, che prevede la competenza per materia del Tribunale per i Minorenni.
4. Il primo ed il terzo motivo suscettibili di esame unitario, avendo ad oggetto questioni collegate, appaiono, quanto al primo, fondato, mentre, quanto al terzo, infondato.
Va osservato che, recentemente, il Supremo Collegio di questa Corte ha statuito che il rifiuto di procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero e un cittadino italiano, dà luogo, se non determinato da vizi formali, a una controversia di stato, da risolversi mediante il procedimento disciplinato dallaL. n. 218 del 1995,art.67, in contraddittorio con il Sindaco, in qualità di ufficiale dello stato civile destinatario della richiesta di trascrizione, ed eventualmente con il Ministero dell’interno, legittimato a spiegare intervento in causa e ad impugnare la decisione in virtù della competenza ad esso attribuita in materia di tenuta dei registri dello stato civile. (Sez. U. n. 12193 del 08/05/2019).
Nel caso di specie, dalla ricostruzione del decreto impugnato, emerge che il sig. M.L.A.M. ha proposto, in proprio e in rappresentanza del minore da lui adottato all’estero, ricorso innanzi alla Corte d’Appello per ottenere il riconoscimento ad ogni effetto dell’adozione piena e legittimamente pronunciata da un giudice dello Stato di New York e, per gli effetti, sentire ordinare all’Ufficiale di Stato Civile del Comune di Samarate la trascrizione dell’atto di nascita del minore e del provvedimento di adozione.
Il ricorrente non si è quindi limitato a chiedere l’iscrizione dell’atto di nascita del minore (e del provvedimento di adozione) nei Registri dello stato civile, avendo chiesto, in primis, il riconoscimento di status. D’altra parte, il rifiuto del Sindaco alla trascrizione di quanto richiesto non è stato opposto per un vizio di carattere formale, ma per l’insussistenza dei requisiti di carattere sostanziale di cui alla L. n. 281 del 1995, artt. 64 e 66.
Tale contestazione, investendo la stessa possibilità di ottenere il riconoscimento dello status accertato o costituito con il provvedimento straniero, dà luogo ad una controversia per la cui risoluzione la giurisprudenza di legittimità, ancor prima della sentenza S.U. 12193/2019, ha sempre escluso l’applicabilità del procedimento di rettificazione (di competenza del Tribunale), sul rilievo che tale questione deve essere necessariamente risolta nel contraddittorio delle parti in giudizio contenzioso avente ad oggetto lo status (Cass. n. 12746/96; conf. N. 2776/96, n. 951/1993).
D’altra parte, non pare nemmeno potersi dubitare della qualità di contraddittore necessario del Sindaco, e, conseguentemente della sua legittimazione attiva e passiva.
Sul punto, proprio la sentenza citata delle S.U. ha evidenziato che non si può negare al Sindaco la qualità di “interessato”, nel senso previsto dallaL. n. 218 del 1995,art.67, atteso che tale qualità non spetta esclusivamente ai soggetti che hanno assunto la veste di parti nel giudizio in cui il provvedimento è stato pronunciato, ma anche a quelli direttamente coinvolti nella sua attuazione (Cass. n. 220/2013). L’ordine di procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile non è, infatti, configurabile come una mera conseguenza della pronuncia di riconoscimento, ma investe l’efficacia del provvedimento straniero in tutti i suoi aspetti.
Quanto alla dedotta competenza del Tribunale per Minorenni, la Corte d’Appello appare avere coerentemente osservato che il ricorrente M., cittadino statunitense, oltre che italiano, risiede da oltre decennio un decennio nello Stato di New York, e convive con il sig. F., cui è legato da un contratto di matrimonio in data 8.10.2013 secondo le leggi dello Stato di New York, ed anche il minore adottato è parimenti cittadino (residente) statunitense.
Pertanto, l’adozione di cui si chiede il riconoscimento non è riconducibile alle adozioni internazionali secondo la Convenzione dell’Aja disciplinate dalla legislazione speciale di cui allaL. n. 183 del 1984,artt. 35 e segg., che sono invece caratterizzate anche dalla diversità dello Stato di residenza degli adottanti rispetto a quello dell’adottando.
Nel caso di specie, si tratta di adozione straniera, interna allo Stato in cui essa è stata pronunciata, avente ad oggetto due adottanti residenti negli Stati Uniti ed un adottando ivi residente, e l’elemento di collegamento con lo Stato Italiano è dato dalla cittadinanza italiana del solo sig. M. (che è peraltro anche, come detto, cittadino statunitense).
Correttamente, quindi, la Corte d’Appello sembra avere ritenuto sussistente la propria competenza.
5. Il secondo motivo appare infondato.
Va preliminarmente osservato che effettivamente il sig. F.R.L. è un contraddittore necessario del presente giudizio, essendo lo stesso stato menzionato espressamente nel provvedimento pronunciato dalla Corte di New York ed essendo il ricorso finalizzato ad ottenere il riconoscimento della sentenza straniera (nonché la trascrizione nei registri dello stato civile) anche nei suoi confronti. Ne consegue che, in caso di riconoscimento della sentenza straniera nel nostro ordinamento, anche il sig. F. diventerebbe a tutti gli effetti in Italia genitore adottivo del minore con tutti gli obblighi giuridici che conseguono a tale status.
Va, tuttavia, osservato che la pretermissione del sig. F. ha dato luogo ad un vizio processuale che è stato comunque sanato con l’intervento autonomo nel procedimento dello stesso sig. F., avendo costui accettato pienamente, nel costituirsi in giudizio, le risultanze del giudizio di merito celebrato in un unico grado.
Sul punto, questa Corte ha già affermato, quanto al giudizio d’appello, che nell’ipotesi in cui il litisconsorte necessario pretermesso intervenga volontariamente in questo grado, accettando la causa nello stato in cui si trova, e nessuna delle altre parti resti privata di facoltà processuali non già altrimenti pregiudicate, il giudice di appello non può rilevare d’ufficio il difetto di contraddittorio, né è tenuto a rimettere la causa al giudice di primo grado, ai sensidell’art. 354 c.p.c., ma deve trattenerla e decidere sul gravame, risultando altrimenti violato il principio fondamentale della ragionevole durata del processo, il quale impone al giudice di impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione della controversia. (Cass. n. 26631 del 22/10/2018).
Non sussistono elementi ostativi all’applicazione di tale principio anche al giudizio di legittimità, atteso che l’accettazione della causa nello stato in cui si trova, da un lato, non pregiudica gli interessi delle parti già presenti in causa, mentre, dall’altro, salvaguarda l’esigenza fondamentale di ragionevole durata del processo.
6. Con il quarto motivo è stata dedotta la violazione,L. n. 184 del 1983, ex art.6,L. n. 218 del 1995, artt.16e65,D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18, nonché delD.P.R. n. 445 del 2000,art.47eL. n. 183 del 1984,art. 25, comma 5.
Lamenta il ricorrente l’erroneo riconoscimento da parte della Corte d’Appello del provvedimento straniero in ragione della sua incompatibilità con i principi desumibili dalla Costituzione italiana e appartenenti all’ordine pubblico internazionale.
In particolare, ad avviso del ricorrente, il richiesto riconoscimento si pone in contrasto con il principio fondamentale secondo cui l’adozione legittimante è, ai sensi dellaL. n. 184 del 1983,art.6, comma 1, consentita solo ai coniugi uniti in matrimonio, il quale, nell’ordinamento italiano è, a sua volta, consentito solo a persone di sesso diverso.
Espone, infatti, il ricorrente che l’adozione legittimante presuppone sempre la presenza di un “padre” e di una “madre” – salvo in caso di adozione “in casi particolari” – come evidenziato dalla Corte Costituzionale nelle sentenze n. 138/2010 e 170/2014, che ha affermato che deve essere demandata al legislatore la regolamentazione delle unioni omosessuali.
Anche la CEDU ha affermato che sebbene sussista un obbligo per gli Stati membri di fornire strumenti giuridici di riconoscimento e tutela per le unioni omosessuali, alle quali deve essere garantita, ai sensi dell’art. 8 della Convenzione, una prospettiva di vita privata e familiare, non è imposto agli Stati membri di consentire l’accesso al matrimonio per le coppie dello stesso sesso, non derivando un tale obbligo dall’art. 12 della Convenzione.
Tale panorama non si è modificato con l’introduzione dellaL. n. 76 del 2016, c.d. legge “Cirinnà” sulla tutela delle unioni di fatto e di quelle omosessuali, che prevede la possibilità di trascrivere gli atti di matrimonio di persone dello stesso sesso contratti all’estero nel solo registro delle “unioni civili” e non nel registro dello Stato civile matrimoniale (R.D. n. 1238 del 1939,art.1, comma 28, lett. a)e b) e art. 134 bis, comma 3, lett. a)).
Contesta il ricorrente l’affermazione della Corte d’Appello secondo cui non può attribuirsi copertura costituzionale alla regola per cui nel nostro ordinamento l’adozione legittimante è consentita esclusivamente ai coniugi di diverso sesso uniti in matrimonio, a nulla rilevando che quell’unione è stata considerata “matrimonio” in altro Stato: finché vigel’art. 29 Cost., per come sinora è stato interpretato non è dato rinvenire una norma che consenta alle coppie gay di ottenere l’adozione legittimante di un minore.
7. La questione sottesa all’illustrato motivo rientra tra quelle di massima di particolare importanza, a normadell’art. 374 c.p.c., comma 2.
Va premesso che, recentemente, questa Corte, con la sentenza n. 14007/18, si è occupata di altro caso di riconoscimento di una sentenza straniera di adozione “legittimante” riguardante due donne omossessuali francesi coniugate all’estero, residenti in Italia, che chiedevano il riconoscimento al giudice italiano di una sentenza francese che aveva disposto a favore di ciascuna l’adozione del figlio biologico dell’altra.
La predetta sentenza ha confermato l’ordinanza della Corte d’Appello che aveva ammesso il riconoscimento della sentenza straniera di adozione legittimante, richiamando ampi passaggi argomentativi del precedente arresto di questa Corte n. 19599/2016 – che aveva ritenuto che i principi di ordine pubblico internazionale dovessero desumersi “dalla Carta Costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo” – e valorizzando l’art. 24 della Convenzione dell’Aja del 1993 per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di cooperazione internazionale (ratificata in Italia conL. n. 476 del 1998) secondo cui “il riconoscimento dell’adozione può essere rifiutato da uno Stato contraente solo se essa è manifestamente contraria all’ordine pubblico, tenuto conto dell’interesse superiore del minore”.
La fattispecie esaminata dalla sentenza n. 14007/2018 diverge, tuttavia, da quella oggetto del caso in esame, in primo luogo, in quanto l’adozione legittimante era stata riconosciuta relativamente ad un contesto familiare caratterizzato dalla presenza di almeno un genitore biologico.
Inoltre, nel frattempo, è intervenuta la sentenza delle Sezioni Unite. n. 12193/2019, che, con un articolato percorso argomentativo, ha precisato la nozione di “ordine pubblico”, alla cui stregua valutare la compatibilità del provvedimento giurisdizionale straniero, nei seguenti termini: “In tema di riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, la compatibilità con l’ordine pubblico, ai sensi dellaL. n. 218 del 1995,art.64, comma 1, lett. g), deve essere valutata non solo alla stregua dei principi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui detti principi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente, dal quale non può prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico”.
E’ stato, in particolare, evidenziato che “caratteristica essenziale della nozione di ordine pubblico è infatti la relatività e mutevolezza nel tempo del suo contenuto, soggetto a modificazioni in dipendenza dell’evoluzione dei rapporti politici, economici e sociali, e quindi inevitabilmente destinato ad essere influenzato dalla disciplina ordinaria degli istituti giuridici e dalla sua interpretazione, che di quella evoluzione costituiscono espressione, e contribuiscono a loro volta a tenere vivi e ad arricchire di significati i principi fondamentali dell’ordinamento”.
Nel caso in esame, la disciplina ordinaria ha espressamente escluso la possibilità da parte di coppie dello stesso sesso di poter accedere all’adozione legittimante. Non a caso, la citataL. 20 maggio 2016, n. 76,art.1, comma 20, se, da un lato, al fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti ed il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, ha previsto che le disposizioni di legge che si riferiscono al “matrimonio” e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti si applicano ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, dall’altro, ha testualmente disposto che “la disposizione di cui al periodo precedente non si applica… alle disposizioni di cui allaL. 4 maggio 1983, n. 184”, fermo restando “quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”.
Inoltre, le Sezioni Unite, nella citata sentenza n. 12193/2019, nell’escludere in caso di maternità surrogata, che possa attribuirsi prevalenza all’interesse dei minori alla conservazione dello status filiationis – e ciò in conseguenza dell’insussistenza di un rapporto biologico con il genitore intenzionale – hanno comunque fatto riferimento alla presenza nel nostro ordinamento di strumenti diretti a consentire la costituzione di un legame giuridico tra minore e genitore intenzionale idoneo a garantire allo stesso un’adeguata tutela, richiamando espressamente l’istituto dell’adozione non legittimante di cui allaL. n. 183 del 1983,art. 44, comma 1, lett. d), “quale clausola di chiusura del sistema volta a consentire il ricorso tutte le volte in cui è necessario salvaguardare la continuità della relazione affettiva ed educativa”, nonchè un precedente della stessa Corte sul punto (Cass. n. 12962 del 22/06/2016).
Ciò che, tuttavia, i controricorrenti richiedono, nel caso in esame, non è il riconoscimento di una adozione in casi particolari di cui all’art. 44 Legge citata, bensì di un provvedimento giudiziario straniero di adozione “legittimante” in un contesto familiare caratterizzato dall’assenza di un qualunque legame biologico di entrambi i genitori di sesso maschile con il minore.
Posto che nel nostro ordinamento, laL. n. 184 del 1983,art.6, prescrive che l’adozione legittimante sia consentita solo alla coppia legata da vincolo di matrimonio – istituto che, secondo la costante interpretazione della nostra giurisprudenza costituzionale (Consulta n. 138/2010 e più recentemente n. 170/2014 e n. 221/2019) ha ragione di esistere solo in presenza dell’unione tra persone di sesso diverso, integrandosi, diversamente, la violazionedell’art. 29 Cost.- in virtù dell’espresso richiamo dellaL. n. 218 del 1995,art.41, agli artt.64,65e66della stessa Legge, un eventuale riconoscimento di una sentenza straniera in materia di adozione non può prescindere da una preventiva analisi di compatibilità di tale provvedimento con i principi di ordine pubblico, in relazione ai quali si deve, altresì, tener conto dell’art. 24 della Convenzione dell’Aja del 1993, per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, ratificata in Italia conL. n. 476 del 1998, secondo cui, come già sopra anticipato, “il riconoscimento dell’adozione può essere rifiutato dagli Stati membri solo se esso sia manifestamente contrario all’ordine pubblico, tenuto conto dell’interesse superiore del minore”.
In proposito, la valutazione se il disfavore del legislatore italiano per l’adozione legittimante a favore delle coppie dello stesso sesso, oltre a rappresentare legittimo esercizio della potestà discrezionale del nostro Stato di regolare i rapporti giuridici in una determinata materia, costituisca, altresì, l’espressione di principi e valori fondamentali ed irrinunciabili fondanti il nostro ordinamento – e come collocare nella gerarchia di valori l’interesse del minore alla conservazione del proprio status filiationis (vedi anche sul punto, recentemente, il parere in ambito di maternità surrogata espresso il 10.04.2019 dalla CEDU in base all’art. 1 del protocollo n. 16 alla Convenzione; in tema v. pure Corte Cost. sent. n. 272 del 2017) involgendo delicatissimi e rilevanti profili di diritto, integra una questione di massima di particolare importanza.
Dall’ordinanza impugnata risulta inoltre che negli Stati Uniti l’adozione legittimante è stata pronunciata dopo avere acquisito il mero consenso preventivo dei genitori biologici del minore, per cui ai fini del riconoscimento del provvedimento straniero si profila l’ulteriore questione di massima di particolare importanza sul se lo scrutinio di compatibilità con l’ordine pubblico devoluto all’Autorità giudiziaria italiana debba o meno includere la valutazione estera di adottabilità del minore.
Per quanto esposto s’impone ai sensidell’art. 374 c.p.c., comma 2, la trasmissione degli atti al Primo Presidente per le sue determinazioni.
P.Q.M.
Rimette gli atti al Primo Presidente della Corte di Cassazione per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite Civili, in ragione e per la soluzione delle questioni, di cui in motivazione, di massima di particolare importanza ai sensidell’art. 374 c.p.c., comma 2.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte di Cassazione, il 23 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019

La stabile convivenza dei coniugi per oltre tre anni impedisce la dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal tribunale ecclesiastico

Cassazione civile, sez. VI , 26 novembre 2019, n. 30900. Presidente Genovese. Relatore Bisogni.
Rilevato che
1. La Corte di Appello di Perugia ha respinto la domanda, proposta dal sig. A.B. di delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio, contratto con la sig.ra Be. Pe. e celebrato il 17 settembre 2011. La Corte di appello richiamando la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. Civ. S.U. n 16379 del 17 luglio 2014) ha ritenuto di dover respingere la domanda sul presupposto della stabile convivenza dei coniugi per oltre tre anni dalla data del matrimonio.
2. Ricorre per cassazione il sig. A. con due motivi illustrati anche con memoria difensiva. Con il primo, con il quale deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 8 c. 2 della legge n. 121/1985 e dell’art. 797 c.p.c. sostiene che secondo la giurisprudenza delle SS.UU. i due requisiti (stabilità ed esteriorità) della convivenza ultratriennale, ostativi alla delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento, sono, nel caso in esame, insussistenti ed espone di aver avuto una relazione extraconiugale già a partire dal 2012 e di aver vissuto con la Pe. come un “separato in casa” già dal dicembre del 2011. Con il secondo motivo il ricorrente deduce l’omesso esame di un fatto decisivo rilevando che dalla sentenza ecclesiastica non può evincersi la continuità della convivenza. In ogni caso il ricorrente ritiene errata la interpretazione e qualificazione della convivenza, come stabile e continuativa, ai fini dell’applicazione della citata giurisprudenza di legittimità, perché, anche a voler qualificare la convivenza come continuativa, essa sarebbe stata comunque l’espressione di un matrimonio meramente formale.
3. Si difende con controricorso Be. Pe..

Ritenuto che
4. Il ricorso è infondato alla luce della giurisprudenza citata (cfr. anche Cass. Civ. sez. I n. 8494 del 27 gennaio 2015 e la giurisprudenza successiva).
5. Il Collegio oltre a ribadire che la convivenza “come coniugi”, quale elemento essenziale del “matrimonio-rapporto”, ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di “ordine pubblico italiano”, la cui inderogabile tutela trova fondamento nei principi supremi di sovranità e di laicità dello Stato, già affermato dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 18 del 1982 e n. 203 del 1989, ostativa alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal tribunale ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico del “matrimonio-atto” intende altresì affermare che il dato incontroverso (come nel caso in esame) della convivenza continuativa ultratriennale non può essere messo in discussione, al fine di escludere la condizione ostativa al riconoscimento in Italia della sentenza di annullamento ecclesiastico del matrimonio, deducendo una non adesione affettiva al rapporto di convivenza da parte di uno o di entrambi i coniugi. Occorre perché tale dedotta mancanza di affectio coniugalis sia rilevante che entrambi i coniugi la riconoscano, al momento della proposizione della domanda di delibazione, ovvero che gli stessi abbiano manifestato inequivocamente all’esterno la piena volontà di non considerare la convivenza come un elemento fondamentale integrativo della relazione coniugale ma come una semplice coabitazione. Occorre altresì che sia manifesta la consapevolezza delle conseguenze giuridiche di tale esteriorizzazione e cioè l’affermazione comune dell’esclusione degli effetti giuridici propri del matrimonio per effetto della semplice coabitazione. In altri termini è necessaria una ricognizione comune ed esteriorizzata della esclusione del carattere coniugale della convivenza. In questa prospettiva appare irrilevante accertare se l’unione fra i coniugi nel periodo di convivenza ultratriennale sia stata più o meno felice ovvero se vi sia stata una parziale o integrale non adesione affettiva da parte dei coniugi al dato fattuale della convivenza. Tale mancanza di adesione affettiva può acquistare rilevanza giuridica solo se viene concordemente riconosciuta e manifestata all’esterno in modo da privare alla convivenza ogni valenza riconducibile all’estrinsecazione del rapporto coniugale.
6. Nel caso in esame questo ulteriore requisito che renda rilevante la mancanza di affectio coniugalis non è stato dedotto dal ricorrente né tantomeno provato. Esso è inoltre contestato dalla controricorrente. Pertanto le deduzioni del ricorrente potrebbero tuttalpiù attestare una sua non adesione affettiva al matrimonio dopo pochi mesi dalla sua celebrazione ma tale attitudine psicologica non ha impedito ai due coniugi di vivere insieme per oltre tre anni dando continuità alla convivenza che avevano intrapreso in quanto coniugi.
7. Il ricorso deve essere pertanto respinto con condanna del ricorrente alle spese del giudizio di cassazione applicazione dell’art. 13 del D.P.R. n. 115/2002 quanto alla imposizione del versamento di ulteriore somma pari a quella già versata dal ricorrente a titolo di contributo unificato.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione liquidate in complessivi 3.600 Euro, di cui 200 per spese, oltre spese forfettarie e accessori di legge. Dispone che in caso di pubblicazione della presente ordinanza siano omesse le generalità e gli altri elementi identificativi delle parti.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13 comma 1 bis del D.P.R. n. 115/2002.

In assenza di determinazioni da parte del Parlamento, la Corte Costituzionale ha individuato le condizioni per cui non è punibile l’aiuto al suicidio prestato a favore di chi sia affetto da una patologia irreversibile, fonte di gravissime sofferenze fisiche o psicologiche

Corte cost., 22 novembre 2019, n. 242
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionaledell’art. 580 del codice penale, promosso dalla Corte di assise di Milano, nel procedimento penale a carico di M. C., con ordinanza del 14 febbraio 2018, iscritta al n. 43 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visti l’atto di costituzione di M. C., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella udienza pubblica del 24 settembre 2019 il Giudice relatore Franco Modugno;
uditi gli avvocati Filomena Gallo e Vittorio Manes per M. C. e l’avvocato Generale dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1.- Con ordinanza del 14 febbraio 2018, la Corte d’assise di Milano ha sollevato questioni di legittimità costituzionaledell’art. 580 del codice penale:
a) “nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio”, per ritenuto contrasto con gliartt. 2, 13, primo comma, e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva conL. 4 agosto 1955, n. 848;
b) “nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 recte: 12 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione”, per ritenuto contrasto con gliartt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.
Con riguardo alle questioni sub a), il riferimento all’art. 3 (anzichéall’art. 2) Cost.che compare nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione deve considerarsi frutto di mero errore materiale, alla luce del tenore complessivo della motivazione e delle “conclusioni” che precedono immediatamente il dispositivo stesso.
1.1.- Secondo quanto riferito dal giudice a quo, le questioni traggono origine dalla vicenda di F. A., il quale, a seguito di un grave incidente stradale avvenuto il 13 giugno 2014, era rimasto tetraplegico e affetto da cecità bilaterale corticale (dunque, permanente). Non era autonomo nella respirazione (necessitando dell’ausilio, pur non continuativo, di un respiratore e di periodiche asportazioni di muco), nell’alimentazione (venendo nutrito in via intraparietale) e nell’evacuazione. Era percorso, altresì, da ricorrenti spasmi e contrazioni, produttivi di acute sofferenze, che non potevano essere completamente lenite farmacologicamente, se non mediante sedazione profonda. Conservava, però, intatte le facoltà intellettive.
All’esito di lunghi e ripetuti ricoveri ospedalieri e di vari tentativi di riabilitazione e di cura (comprensivi anche di un trapianto di cellule staminali effettuato in India nel dicembre 2015), la sua condizione era risultata irreversibile.
Aveva perciò maturato, a poco meno di due anni di distanza dall’incidente, la volontà di porre fine alla sua esistenza, comunicandola ai propri cari. Di fronte ai tentativi della madre e della fidanzata di dissuaderlo dal suo proposito, per dimostrare la propria irremovibile determinazione aveva intrapreso uno “sciopero” della fame e della parola, rifiutando per alcuni giorni di essere alimentato e di parlare.
Di seguito a ciò, aveva preso contatto nel maggio 2016, tramite la propria fidanzata, con organizzazioni svizzere che si occupano dell’assistenza al suicidio: pratica consentita, a certe condizioni, dalla legislazione elvetica.
Nel medesimo periodo, era entrato in contatto con M. C., imputato nel giudizio a quo, il quale gli aveva prospettato la possibilità di sottoporsi in Italia a sedazione profonda, interrompendo i trattamenti di ventilazione e alimentazione artificiale.
Di fronte al suo fermo proposito di recarsi in Svizzera per il suicidio assistito, l’imputato aveva accettato di accompagnarlo in automobile presso la struttura prescelta. Inviata a quest’ultima la documentazione attestante le proprie condizioni di salute e la piena capacità di intendere e di volere, F. A. aveva alfine ottenuto da essa il “benestare” al suicidio assistito, con fissazione della data. Nei mesi successivi alla relativa comunicazione, egli aveva costantemente ribadito la propria scelta, comunicandola dapprima agli amici e poi pubblicamente (tramite un filmato e un appello al Presidente della Repubblica) e affermando “di viverla come “una liberazione””.
Il 25 febbraio 2017 era stato quindi accompagnato da Milano (ove risiedeva) in Svizzera, a bordo di un’autovettura appositamente predisposta, con alla guida l’imputato e, al seguito, la madre, la fidanzata e la madre di quest’ultima.
In Svizzera, il personale della struttura prescelta aveva nuovamente verificato le sue condizioni di salute, il suo consenso e la sua capacità di assumere in via autonoma il farmaco che gli avrebbe procurato la morte. In quegli ultimi giorni, tanto l’imputato, quanto i familiari, avevano continuato a restargli vicini, rappresentandogli che avrebbe potuto desistere dal proposito di togliersi alla vita, nel qual caso sarebbe stato da loro riportato in Italia.
Il suicidio era peraltro avvenuto due giorni dopo (il 27 febbraio 2017): azionando con la bocca uno stantuffo, l’interessato aveva iniettato nelle sue vene il farmaco letale.
Di ritorno dal viaggio, M. C. si era autodenunciato ai carabinieri.
A seguito di ordinanza di “imputazione coatta”, adottata ai sensidell’art. 409 del codice di procedura penaledal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Milano, egli era stato tratto quindi a giudizio davanti alla Corte rimettente per il reato di cuiall’art. 580 cod. pen., tanto per aver rafforzato il proposito di suicidio di F. A., quanto per averne agevolato l’esecuzione.
Il giudice a quo esclude, peraltro, la configurabilità della prima ipotesi accusatoria. Alla luce delle prove assunte nel corso dell’istruzione dibattimentale, F. A. avrebbe, infatti, maturato la decisione di rivolgersi all’associazione svizzera prima e indipendentemente dall’intervento dell’imputato.
La Corte rimettente ritiene, invece, che l’accompagnamento in auto di F. A. presso la clinica elvetica integri, in base al diritto vivente, la fattispecie dell’aiuto al suicidio, in quanto condizione per la realizzazione dell’evento. L’unica sentenza della Corte di cassazione che si è occupata del tema ha, infatti, affermato che le condotte di agevolazione, incriminate dalla norma censurata in via alternativa rispetto a quelle di istigazione, debbono ritenersi perciò stesso punibili a prescindere dalle loro ricadute sul processo deliberativo dell’aspirante suicida. La medesima sentenza ha precisato, altresì, che, alla luce del dettato normativo (in forza del quale è punito chiunque agevola “in qualsiasi modo” l’esecuzione dell’altrui proposito di suicidio), la nozione di aiuto penalmente rilevante deve essere intesa nel senso più ampio, comprendendo ogni tipo di contributo materiale all’attuazione del progetto della vittima (fornire i mezzi, offrire informazioni sul loro uso, rimuovere ostacoli o difficoltà che si frappongono alla realizzazione del proposito e via dicendo, ovvero anche omettere di intervenire, qualora si abbia l’obbligo giuridico di impedire l’evento) (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 febbraio-12 marzo 1998, n. 3147).
1.2.- Su questo presupposto, la Corte d’assise milanese dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale della norma censurata, anzitutto nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio anche quando esse non abbiano contribuito a determinare o a rafforzare il proposito della vittima.
Il giudice a quo rileva come la disposizione denunciata presupponga che il suicidio sia un atto intriso di elementi di disvalore, in quanto contrario al principio di sacralità e indisponibilità della vita in correlazione agli obblighi sociali dell’individuo, ritenuti preminenti nella visione del regime fascista.
La disposizione dovrebbe essere, però, riletta alla luce della Costituzione: in particolare, del principio personalistico enunciato dall’art. 2 – che pone l’uomo e non lo Stato al centro della vita sociale – e di quello di inviolabilità della libertà personale, affermato dall’art. 13; principi alla luce dei quali la vita – primo fra tutti i diritti inviolabili dell’uomo – non potrebbe essere “concepita in funzione di un fine eteronomo rispetto al suo titolare”. Di qui, dunque, anche la libertà della persona di scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza.
Il diritto all’autodeterminazione individuale, previstodall’art. 32 Cost.con riguardo ai trattamenti terapeutici, è stato, d’altronde, ampiamente valorizzato prima dalla giurisprudenza – in particolare, con le pronunce sui casi W. (Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma, sentenza 23 luglio-17 ottobre 2007, n. 2049) ed E. (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748) – e poi dal legislatore, con la recenteL. 22 dicembre 2017, n. 219(Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), che sancisce in modo espresso il diritto della persona capace di rifiutare qualsiasi tipo di trattamento sanitario, ancorché necessario per la propria sopravvivenza (compresi quelli di nutrizione e idratazione artificiale), nonché il divieto di ostinazione irragionevole nelle cure, individuando come oggetto di tutela da parte dello Stato “la dignità nella fase finale della vita”.
La conclusione sarebbe avvalorata, inoltre, dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa avrebbe conosciuto una evoluzione, il cui approdo finale sarebbe rappresentato dall’esplicito riconoscimento, sulla base degli artt. 2 e 8 CEDU (che riconoscono e garantiscono, rispettivamente, il diritto alla vita e il diritto al rispetto della vita privata), del diritto di ciascun individuo “di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà”.
A fronte di ciò, il bene giuridico protetto dalla norma denunciata andrebbe oggi identificato, non già nel diritto alla vita, ma nella libertà e consapevolezza della decisione del soggetto passivo di porvi fine, evitando influssi che alterino la sua scelta.
In quest’ottica, la punizione delle condotte di aiuto al suicidio che non abbiano inciso sul percorso deliberativo della vittima risulterebbe ingiustificata e lesiva degliartt. 2, 13, primo comma, e 117 Cost.In tale ipotesi, infatti, la condotta dell’agevolatore rappresenterebbe lo strumento per la realizzazione di quanto deciso da un soggetto che esercita una libertà costituzionale, risultando quindi inoffensiva.
1.3.- La Corte d’assise milanese censura, per altro verso, la norma denunciata nella parte in cui punisce le condotte di aiuto al suicidio, non rafforzative del proposito dell’aspirante suicida, con la stessa severa pena – reclusione da cinque a dieci recte: dodici anni – prevista per le condotte di istigazione.
La disposizione violerebbe, per questo verso,l’art. 3 Cost., unitamente al principio di proporzionalità della pena al disvalore del fatto, desumibile dagliartt. 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.
Le condotte di istigazione al suicidio sarebbero, infatti, certamente più incisive, anche sotto il profilo causale, rispetto a quelle di chi abbia semplicemente contribuito alla realizzazione dell’altrui autonoma determinazione. Del tutto diverse risulterebbero, altresì, nei due casi, la volontà e la personalità del partecipe.
2.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità delle questioni sotto plurimi profili: per difetto di rilevanza, avendo il rimettente già escluso, alla luce dell’istruttoria svolta, che il comportamento dell’imputato sia valso a rafforzare il proposito di suicidio di F. A.; per richiesta di un avallo interpretativo e omessa sperimentazione dell’interpretazione conforme a Costituzione, non preclusa dall’esistenza di un’unica pronuncia di segno contrario della Corte di cassazione risalente al 1998, inidonea a costituire diritto vivente; per richiesta, infine, di una pronuncia manipolativa in materia rimessa alla discrezionalità del legislatore – quale quella dell’individuazione dei fatti da sottoporre a pena e della determinazione del relativo trattamento sanzionatorio – e in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata.
Nel merito – ad avviso dell’interveniente – le questioni risulterebbero, comunque sia, infondate.
Erroneo risulterebbe il riferimento alla disciplina di cui allaL. n. 219 del 2017, posto che il riconoscimento del diritto a rifiutare le cure non implicherebbe affatto quello di ottenere un aiuto al suicidio, non potendo il paziente chiedere, in ogni caso, al medico trattamenti contrari alla legge o alla deontologia professionale.
Quanto alla denunciata violazione delle disposizioni della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, quest’ultima ha, in realtà, affermato che l’art. 2 della Convenzione, dato il suo tenore letterale, deve essere interpretato nel senso che esso contempla il diritto alla vita e non il suo opposto. Esso non conferisce, quindi, il “diritto a morire”, né con l’intervento della pubblica autorità, né con l’assistenza di una terza persona (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito).
Secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il divieto assoluto di aiuto al suicidio sarebbe, inoltre, del tutto compatibile con l’art. 8 della Convenzione, restando affidata al margine di apprezzamento dei singoli Stati la valutazione se l’eventuale liberalizzazione del suicidio assistito possa far sorgere rischi di abuso a danno dei pazienti più anziani e vulnerabili.
L’incriminazione dell’aiuto al suicidio risulterebbe, d’altra parte, intrinsecamente ragionevole, anche qualora si ritenga che alle sue finalità di tutela non resti estranea la libertà di autodeterminazione del titolare del bene protetto. Tale libertà, quando si orienti nel senso di porre fine alla propria esistenza, dovrebbe essere, infatti, “assicurata usque ad vitae supremum exitum”: ottica nella quale l’esecuzione di quell’estremo proposito dovrebbe rimanere riservata esclusivamente all’interessato, così da assicurare fino all’ultimo istante l’efficacia di un possibile ripensamento.
Quanto, poi, alla censurata omologazione del trattamento sanzionatorio delle condotte di istigazione e di agevolazione al suicidio, essa non contrasterebbe con i parametri evocati, potendo il giudice valorizzare, comunque sia, la diversa gravità delle condotte stesse in sede di determinazione della pena nell’ambito della cornice edittale, ovvero ai fini del riconoscimento di circostanze attenuanti.
3.- Si è costituito, altresì, M. C., imputato nel giudizio a quo, il quale, con una successiva memoria – contestate le eccezioni di inammissibilità dell’Avvocatura generale dello Stato – ha rilevato come, di là dalla generica formulazione del petitum, le questioni debbano ritenersi radicate sul caso di specie.
Alla luce dello sviluppo argomentativo dell’ordinanza di rimessione, i dubbi di legittimità costituzionale dovrebbero reputarsi circoscritti, in particolare, alle ipotesi di agevolazione del suicidio di un soggetto che versi “in uno stato di malattia irreversibile che produce gravi sofferenze, essendo tenuto in vita grazie a presidi medici in assenza dei quali andrebbe incontro, sia pure in modo lento e doloroso per sé e per i suoi cari, alla fine della propria esistenza”.
In tali termini, le questioni risulterebbero pienamente fondate.
3.1.- Al riguardo, la parte costituita osserva come, nel disegno del legislatore del codice penale del 1930, la norma censurata fosse destinata a proteggere la vita, intesa come bene non liberamente disponibile da parte del suo titolare. Nella visione dell’epoca, infatti, la tutela dell’individuo era secondaria rispetto a quella della collettività statale: il suicidio era visto, di conseguenza, in termini negativi, come l’atto di chi, togliendosi la vita, sottraeva forza lavoro e cittadini alla Patria. Non ritenendosi di dover sanzionare il suicida (neppure qualora ciò fosse materialmente possibile, ossia nel caso di semplice tentativo), si apprestava quindi una tutela di tipo indiretto, punendo chi avesse contribuito, sul piano psicologico o materiale, alla realizzazione del proposito di suicidio altrui.
Con l’entrata in vigore della Costituzione, tuttavia, il bene della vita dovrebbe essere riguardato unicamente in una prospettiva personalistica, come interesse del suo titolare volto a consentire il pieno sviluppo della persona, secondo il dispostodell’art. 3, secondo comma, Cost.Di qui la maggiore attenzione verso la libertà di autodeterminazione individuale, anche nelle fasi finali della vita, specie quando si tratti di persone che versano in condizioni di eccezionale sofferenza: atteggiamento che ha trovato la sua espressione emblematica nella sentenza della Corte di cassazione relativa al caso di E.E. (Cass., n. 21748 del 2007).
Di fondamentale rilievo, in questa cornice, risulterebbe l’intervento normativo realizzato con laL. n. 219 del 2017, la quale, nel quadro della valorizzazione del principio costituzionale del consenso informato, ha “positivizzato” il diritto del paziente di rifiutare le cure e di “lasciarsi morire”.
3.2.- Tale assetto normativo renderebbe ancor più evidente l’incoerenzadell’art. 580 cod. pen., nella parte in cui punisce anche la mera agevolazione del suicidio di chi abbia liberamente maturato il relativo proposito al fine di porre termine a uno stato di grave e cronica sofferenza, provocato anche dalla somministrazione di presidi medico-sanitari non voluti sul proprio corpo.
Per questo verso, la norma censurata si porrebbe in contrasto con il “principio personalista”, di cuiall’art. 2 Cost., e con quello di inviolabilità della libertà personale, affermatodall’art. 13 Cost.: precetto costituzionale, quest’ultimo, che, unitamenteall’art. 32 Cost.(non evocato nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, ma ripetutamente richiamato in motivazione), assicura la piena libertà dell’individuo di scegliere quali interferenze esterne ammettere sul proprio corpo e di tutelare, in questo senso, la sua dignità.
Emblematico, al riguardo, risulterebbe il caso oggetto del giudizio a quo, nel quale il soggetto che aveva liberamente deciso di concludere la propria esistenza – senza essere peraltro in grado di provvedervi autonomamente – risultava sottoposto a trattamenti sanitari molto invasivi, la cui interruzione, ove pure accompagnata dalla sedazione profonda, lo avrebbe portato alla morte solo dopo diversi giorni, generando un prolungato stato di sofferenza nei familiari.
La libertà di rifiuto di simili presidi, senza che la dignità del malato sia vulnerata con l’avvio di una fine lenta e dolorosa, esigerebbe il riconoscimento della possibilità di accedere, anche tramite l’aiuto di terzi, a un farmaco letale.
La norma censurata violerebbe, in quest’ottica, anche il principio di ragionevolezza, imponendo un sacrificio assoluto di libertà di primario rilievo costituzionale, senza distinguere le condotte realmente lesive del bene protetto da quelle volte invece a consentire l’attuazione del diritto all’autodeterminazione nelle scelte di fine vita, non realizzabili da parte del diretto interessato.
3.3.- La norma denunciata si porrebbe in contrasto, ancora, con l’art. 8 CEDU e, di conseguenza, conl’art. 117, primo comma, Cost.
Nella prospettiva della Corte EDU, infatti, il diritto all’autodeterminazione individuale, anche con riguardo alle scelte inerenti il fine vita, costituisce il terreno su cui poggia l’interpretazione del citato art. 8 della Convenzione, che prevede il “diritto al rispetto della vita privata e familiare”. Ciò comporta che le interferenze statali su tale diritto possono ritenersi legittime solo entro i limiti indicati dal paragrafo 2 dello stesso art. 8, cioè solo a condizione che siano normativamente previste, oltre che necessarie e proporzionate rispetto a uno degli scopi indicati dalla predetta disposizione.
Al riguardo, verrebbe in rilievo, come leading case, la sentenza Pretty contro Regno Unito del 2002, con la quale si è ritenuto che la previsione di un generale divieto di aiuto al suicidio non si ponesse, nella specie, in contrasto con il canone della proporzionalità dell’interferenza statale, di cui al citato art. 8, paragrafo 2, CEDU, in quanto l’ordinamento penale britannico è improntato al principio di flessibilità. In quel sistema, infatti, vige un regime di azione penale discrezionale e non è, inoltre, previsto un minimo edittale di pena per l’aiuto al suicidio, cosicché è consentito al giudice di parametrare o addirittura di escludere la risposta punitiva, in rapporto al concreto disvalore del fatto.
Lo standard di proporzionalità desumibile dall’art. 8 CEDU apparirebbe, per converso, apertamente violatodall’art. 580 cod. pen., che stabilisce un divieto generalizzato e incondizionato di agevolazione dell’altrui proposito suicida, in un sistema, quale quello italiano, governato dal regime di obbligatorietà dell’azione penale, prevedendo, per di più, una pena minima edittale di cinque anni di reclusione.
3.4.- La norma denunciata vulnererebbe, ancora, i principi di offensività e di proporzionalità e la funzione rieducativa della pena, ponendosi così in contrasto con gli artt. 13, 25, secondo comma – anche in riferimento all’art. 3 -, e 27, terzo comma, Cost.
L’art. 580 cod. pen.rappresenterebbe, infatti, una ipotesi eccezionale di incriminazione del concorso in un fatto lecito altrui, giustificabile – anche per quanto attiene al particolare rigore della risposta punitiva – solo sulla base di una anacronistica visione statalista del bene giuridico della vita: visione inconciliabile, per le ragioni indicate, con l’attuale assetto costituzionale.
In questa prospettiva, la condotta di chi si limiti ad agevolare la realizzazione di un proposito di suicidio liberamente formatosi dovrebbe essere considerata come un “comportamento “penalmente inane””, essendo volta a garantire il diritto fondamentale all’autodeterminazione sulle scelte del fine vita, riferite a una esistenza ritenuta – per circostanze oggettive – non più dignitosa dal suo titolare.
3.5.- Evidente sarebbe anche la violazione del principio di eguaglianza, sotto plurimi profili.
La norma censurata determinerebbe, infatti, una disparità di trattamento tra chi è in grado di porre fine alla propria vita da solo, senza bisogno di aiuto esterno, e chi, invece, è fisicamente impossibilitato a farlo per la gravità delle proprie condizioni patologiche, con conseguente discriminazione a scapito proprio dei casi maggiormente meritevoli di considerazione.
Irragionevolmente discriminatoria risulterebbe, inoltre, una disciplina penale che riconosca la liceità dell’interruzione delle cure con esito letale, e dunque la non antigiuricidità di una condotta attiva di interruzione di un decorso causale immediatamente salvifico, punendo invece la condotta attiva di agevolazione della causazione immediata della morte in condizioni analoghe.
La violazione del principio di eguaglianza-ragionevolezza si apprezzerebbe anche all’interno della struttura della fattispecie, che vede equiparate quoad poenam condotte – la determinazione e il rafforzamento del proposito suicidario, da un lato, e la semplice agevolazione, dall’altro – caratterizzate da un coefficiente di offensività radicalmente diverso.
Una simile irragionevole equiparazione si risolverebbe anche in un difetto di proporzionalità del trattamento sanzionatorio, atta a compromettere la funzione rieducativa della pena.
3.6.- Sulla base di tali considerazioni, la parte costituita ha chiesto, quindi, chel’art. 580 cod. pen.venga dichiarato costituzionalmente illegittimo “nella parte in cui punisce la condotta di chi abbia agevolato l’esecuzione della volontà, liberamente formatasi, della persona che versi in uno stato di malattia irreversibile che produce gravi sofferenze, sempre che l’agevolazione sia strumentale al suicidio di chi, alternativamente, avrebbe potuto darsi la morte rifiutando i trattamenti sanitari”; ovvero, in subordine, “nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione al suicidio che non abbiano inciso sulla formazione del proposito suicidario siano punite allo stesso modo della istigazione al suicidio”.
4.- Sono intervenuti, inoltre, ad opponendum, il Centro Studi “Rosario Livatino”, la libera associazione di volontariato “Vita è” e il Movimento per la vita italiano.
Tali interventi sono stati dichiarati inammissibili da questa Corte con ordinanza pronunciata all’udienza pubblica del 23 ottobre 2018.
5.- In esito alla medesima udienza, questa Corte ha pronunciato l’ordinanza n. 207 del 2018, con la quale:
a) ha rilevato come – pur in assenza di una espressa indicazione in tal senso da parte del giudice a quo – le questioni attinenti al trattamento sanzionatorio della fattispecie criminosa dell’aiuto al suicidio debbano ritenersi logicamente subordinate a quelle attinenti al suo ambito applicativo;
b) ha ritenuto non fondate le eccezioni di inammissibilità formulate dall’Avvocatura generale dello Stato;
c) ha escluso che – contrariamente a quanto sostenuto in via principale dal rimettente – l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, ancorché non rafforzativo del proposito della vittima sia, di per sé, incompatibile con la Costituzione: essa si giustifica, infatti, in un’ottica di tutela del diritto alla vita, specie delle “persone più deboli e vulnerabili”;
d) ha individuato, nondimeno, una circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie, corrispondente segnatamente ai casi in cui l’aspirante suicida si identifichi (come nel caso oggetto del giudizio a quo) in una persona “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”: evenienza nella quale il divieto indiscriminato di aiuto al suicidio “finisce … per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagliartt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive”;
e) ha escluso, tuttavia, di poter porre rimedio – “almeno allo stato” – “al riscontrato vulnus”, tramite una pronuncia meramente ablativa riferita ai pazienti che versino nelle condizioni sopra indicate: in assenza di una disciplina legale della prestazione dell’aiuto verrebbero, infatti, a crearsi situazioni gravide di pericoli di abuso nei confronti dei soggetti in condizioni di vulnerabilità; tale disciplina dovrebbe, d’altro canto, investire una serie di profili, variamente declinabili in base a scelte discrezionali, spettanti in linea di principio al legislatore;
f) ha escluso, però, al tempo stesso, di poter ricorrere alla tecnica decisoria precedentemente adottata in casi similari, costituita dalla dichiarazione di inammissibilità delle questioni accompagnata da un monito al legislatore per l’introduzione della disciplina necessaria, alla quale dovrebbe fare seguito, nel caso il cui il monito resti senza riscontro, la declaratoria di incostituzionalità: tale tecnica, infatti, ha “l’effetto di lasciare in vita – e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo di tempo non preventivabile – la normativa non conforme a Costituzione”; effetto che “non può considerarsi consentito nel caso in esame, per le sue peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei valori da esso coinvolti”;
g) ha ritenuto, perciò, di dover percorrere una via alternativa: facendo leva, cioè, sui “propri poteri di gestione del processo costituzionale”, questa Corte ha rinviato il giudizio in corso, fissando una nuova discussione delle questioni all’udienza del 24 settembre 2019, “in esito alla quale potrà essere valutata l’eventuale sopravvenienza di una legge che regoli la materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela”. In questo modo, si è lasciata pur sempre al Parlamento la possibilità di assumere le necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalità, evitando, però, che la norma censurata potesse trovare applicazione medio tempore (il giudizio a quo è rimasto, infatti, sospeso, mentre negli altri giudizi i giudici hanno avuto modo di valutare se analoghe questioni fossero rilevanti e non manifestamente infondate).
6.- In prossimità della nuova udienza, la parte costituita ha depositato una ulteriore memoria, rilevando come l’invito rivolto al Parlamento da questa Corte non sia stato accolto. Nessun seguito hanno, infatti, avuto le proposte di legge presentate, che prospettavano, peraltro, soluzioni sensibilmente diverse tra loro.
A fronte di ciò, la dichiarazione di illegittimità costituzionaledell’art. 580 cod. pen., nei contorni già tracciati dall’ordinanza n. 207 del 2018, non sarebbe ulteriormente procrastinabile: e ciò per ragioni radicate, oltre che nei fondamentali diritti del malato e nella sua dignità, anche nei diritti inviolabili dell’imputato, il quale si vedrebbe altrimenti infliggere una sanzione penale sulla base di una norma incostituzionale per cause “ordinamentali a lui non addebitabili”. Il principio di leale collaborazione istituzionale, al quale è stata accordata la priorità in una prima fase, non potrebbe, dunque, che recedere, allo stato, dinanzi alle esigenze di ripristino della costituzionalità violata.
Né gioverebbe obiettare che il mantenimento di una “cintura di protezione” penalmente presidiata è giustificata, nell’ipotesi in esame, da esigenze di tutela del bene supremo della vita umana. Le funzioni di prevenzione generale e speciale continuerebbero, infatti, a essere assoltedall’art. 580 cod. pen., quale risultante all’esito della pronuncia di accoglimento, stante la verificabilità ex post, da parte del giudice penale, della sussistenza delle quattro condizioni lato sensu scriminanti indicate dall’ordinanza n. 207 del 2018: condizioni la cui coesistenza risulterebbe largamente idonea a evitare che la dichiarazione di incostituzionalità possa preludere a una vanificazione della tutela dei soggetti vulnerabili.
In questa cornice, una sentenza di “accoglimento manipolativo”, che inserisca tali condizioni nel testodell’art. 580 cod. pen., rappresenterebbe una “garanzia di certezza in senso pieno”, risultando perciò preferibile tanto a una pronuncia interpretativa di rigetto, quanto a una sentenza additiva di principio: decisione, quest’ultima, che farebbe gravare sul singolo giudice l’impropria responsabilità di ricavare la regola attuativa del principio posto dalla Corte costituzionale, quando invecel’art. 25, secondo comma, Cost.impone che i confini della norma penale siano determinati e precisi.
A fronte dell’inerzia legislativa, la Corte potrebbe, d’altra parte, ricercare in norme già vigenti nell’ordinamento idonei criteri ai quali parametrare l’accertamento preventivo dei requisiti di liceità del suicidio assistito. Ciò particolarmente alla luce dei più recenti orientamenti della giurisprudenza costituzionale, dai quali emerge una netta attenuazione della tesi per cui gli interventi di accoglimento manipolativo esigerebbero l’esistenza di strette “rime obbligate”: ritenendosi, di contro, sufficiente, a tal fine, che il sistema offra “precisi punti di riferimento” e “soluzioni già esistenti”.
Nella specie, la Corte potrebbe utilmente attingere alla disciplina delle modalità di raccolta della volontà di revoca del consenso alle cure, di cui all’art.1, comma 5, dellaL. n. 219 del 2017. I passaggi procedurali prefigurati da tale disposizione risponderebbero a molte delle esigenze di regolamentazione poste in evidenza dall’ordinanza n. 207 del 2018: in particolare, che sia un medico a verificare ex ante, all’interno dell’alleanza terapeutica con il paziente, le condizioni indicate da detta ordinanza, attestando il suo controllo mediante idonea documentazione e prospettando le possibili alternative al suicidio assistito, compresa la possibilità di ridurre le sofferenze tramite, ad esempio, le cure palliative.
La parte costituita conclude, pertanto, chiedendo chel’art. 580 cod. pen.sia dichiarato costituzionalmente illegittimo “nella parte in cui prevede che l’aiuto al suicidio sia punibile anche se la persona che ha inteso porre fine alla propria vita è “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli””.

Motivi della decisione
1.- La Corte d’assise di Milano dubita della legittimità costituzionaledell’art. 580 del codice penale, che prevede il reato di istigazione o aiuto al suicidio, sotto due distinti profili.
1.1.- La Corte rimettente pone in discussione, in primo luogo, il perimetro applicativo della disposizione censurata, lamentando che – secondo il diritto vivente – essa incrimini le condotte di aiuto al suicidio “in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio”.
La disposizione denunciata violerebbe, per questo verso, gliartt. 2 e 13, primo comma, della Costituzione, i quali, sancendo rispettivamente il “principio personalistico” – che pone l’uomo, e non lo Stato, al centro della vita sociale – e quello di inviolabilità della libertà personale, riconoscerebbero la libertà della persona di autodeterminarsi anche in ordine alla fine della propria esistenza, scegliendo quando e come essa debba aver luogo.
La medesima disposizione si porrebbe, altresì, in contrasto conl’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva conL. 4 agosto 1955, n. 848, i quali, nel salvaguardare, rispettivamente, il diritto alla vita e il diritto al rispetto della vita privata, comporterebbero – in base all’interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo – che l’individuo abbia il diritto di “decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà” e che l’intervento repressivo degli Stati in questo campo possa avere soltanto la finalità di evitare rischi di indebita influenza nei confronti di soggetti particolarmente vulnerabili.
Alla luce di tutti i parametri evocati, risulterebbe, dunque, ingiustificata la punizione delle condotte di agevolazione dell’altrui suicidio che costituiscano mera attuazione di quanto autonomamente deciso da chi esercita la libertà in questione, senza influire in alcun modo sul percorso psichico del soggetto passivo, trattandosi di condotte non lesive del bene giuridico tutelato.
1.2.- La Corte milanese contesta, in secondo luogo, il trattamento sanzionatorio riservato alle condotte in questione, censurandol’art. 580 cod. pen.”nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 recte: 12 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione”.
Sotto questo profilo, la norma censurata si porrebbe in contrasto conl’art. 3 Cost., essendo le condotte di istigazione al suicidio certamente più gravi, sotto il profilo causale, rispetto a quelle di chi abbia semplicemente contribuito alla realizzazione dell’altrui autonoma determinazione di porre fine alla propria esistenza, e risultando del tutto diverse, nei due casi, la volontà e la personalità dell’agente.
Sarebbero violati, inoltre, gliartt. 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., in forza dei quali la libertà dell’individuo può essere sacrificata solo a fronte della lesione di un bene giuridico non altrimenti evitabile e la sanzione deve essere proporzionata alla lesione provocata, così da prevenire la violazione e provvedere alla rieducazione del reo.
2.- Con l’ordinanza n. 207 del 2018, questa Corte ha già formulato una serie di rilievi e tratto una serie di conclusioni in ordine al thema decidendum. Gli uni e le altre sono, in questa sede, confermati. A essi si salda, in consecuzione logica, l’odierna decisione.
2.1.- Con la citata ordinanza, questa Corte ha rilevato, anzitutto, come tra le questioni sollevate intercorra un rapporto di subordinazione implicita: interrogarsi sul quantum della pena ha, infatti, un senso solo ove le condotte avute di mira restino penalmente rilevanti e, dunque, solo in caso di mancato accoglimento delle questioni volte a ridisegnare i confini applicativi della fattispecie criminosa.
Ha ritenuto, altresì, infondate le plurime eccezioni di inammissibilità formulate dall’Avvocatura generale dello Stato, ivi compresa quella di omessa sperimentazione dell’interpretazione conforme a Costituzione, rilevando come la prospettata interpretazione adeguatrice risulti incompatibile con il tenore letterale della norma censurata.
2.2.- Nel merito, questa Corte ha escluso che – contrariamente a quanto sostenuto in via principale dal giudice a quo – l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, ancorché non rafforzativo del proposito della vittima, possa ritenersi di per sé in contrasto con la Costituzione.
Per sostenere il contrasto, non è pertinente, infatti, il riferimento del rimettente al diritto alla vita, riconosciuto implicitamente – come “primo dei diritti inviolabili dell’uomo” (sentenza n. 223 del 1996), in quanto presupposto per l’esercizio di tutti gli altri -dall’art. 2 Cost.(sentenza n. 35 del 1997), nonché, in modo esplicito, dall’art. 2 CEDU.
“Dall’art. 2 Cost.- non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. Che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, è stato, del resto, da tempo affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio (sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito)” (ordinanza n. 207 del 2018).
Neppure, poi, è possibile desumere la generale inoffensività dell’aiuto al suicidio da un generico diritto all’autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita: diritto che il rimettente ricava dagliartt. 2 e 13, primo comma, Cost.A prescindere dalle concezioni di cui era portatore il legislatore del 1930, la ratiodell’art. 580 cod. pen.può essere agevolmente scorta, alla luce del vigente quadro costituzionale, nella “tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere” (ordinanza n. 207 del 2018).
Le medesime considerazioni valgono, altresì, ad escludere che la norma censurata si ponga, sempre e comunque sia, in contrasto con l’art. 8 CEDU, il quale sancisce il diritto di ciascun individuo al rispetto della propria vita privata: conclusione, questa, confermata dalla pertinente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
2.3.- All’interno del petitum principale del rimettente, questa Corte ha individuato, nondimeno, una circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa, corrispondente segnatamente ai casi in cui l’aspirante suicida si identifichi – come nella vicenda oggetto del giudizio a quo – in una persona “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli” (ordinanza n. 207 del 2018).
Si tratta di “situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali”. In tali casi, l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unico modo per sottrarsi, secondo le proprie scelte individuali, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in baseall’art. 32, secondo comma, Cost.Parametro, questo, non evocato nel dispositivo nell’ordinanza di rimessione, ma più volte richiamato in motivazione.
Nei casi considerati – ha osservato questa Corte – la decisione di accogliere la morte potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua. Ciò, in forza dellaL. 22 dicembre 2017, n. 219(Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), la cui disciplina recepisce e sviluppa, nella sostanza, le conclusioni alle quali era già pervenuta all’epoca la giurisprudenza ordinaria – in particolare a seguito delle sentenze sui casi W. (Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma, sentenza 23 luglio-17 ottobre 2007, n. 2049) ed E. (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748) – nonché le indicazioni di questa Corte riguardo al valore costituzionale del principio del consenso informato del paziente al trattamento sanitario proposto dal medico (ordinanza n. 207 del 2018): principio qualificabile come vero e proprio diritto della persona, che trova fondamento nei principi espressi negliartt. 2, 13 e 32 Cost.(sentenze n. 253 del 2009 e n. 438 del 2008).
La citataL. n. 219 del 2017riconosce, infatti, ad “ogni persona capace di agire” il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, comprendendo espressamente nella relativa nozione anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale (art. 1, comma 5): diritto inquadrato nel contesto della “relazione di cura e di fiducia” tra paziente e medico. In ogni caso, il medico “è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo”, rimanendo, “in conseguenza di ciò, … esente da responsabilità civile o penale” (art. 1, comma 6).
Integrando le previsioni dellaL. 15 marzo 2010, n. 38(Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore) – che tutela e garantisce l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore da parte del paziente, inserendole nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza – laL. n. 219 del 2017prevede che la richiesta di sospensione dei trattamenti sanitari possa essere associata alla richiesta di terapie palliative, allo scopo di alleviare le sofferenze del paziente (art. 2, comma 1). Lo stesso art. 2 stabilisce inoltre, al comma 2, che il medico possa, con il consenso del paziente, ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, per fronteggiare sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari. Disposizione, questa, che “non può non riferirsi anche alle sofferenze provocate al paziente dal suo legittimo rifiuto di trattamenti di sostegno vitale, quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali: scelta che innesca un processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito – non necessariamente rapido – è la morte” (ordinanza n. 207 del 2018).
La legislazione oggi in vigore non consente, invece, al medico di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte. Pertanto, il paziente, per congedarsi dalla vita, è costretto a subire un processo più lento e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care. Ne è testimonianza il caso oggetto del giudizio principale, nel quale, “secondo quanto ampiamente dedotto dalla parte costituita, … l’interessato richiese l’assistenza al suicidio, scartando la soluzione dell’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale con contestuale sottoposizione a sedazione profonda (soluzione che pure gli era stata prospettata), proprio perché quest’ultima non gli avrebbe assicurato una morte rapida. Non essendo egli, infatti, totalmente dipendente dal respiratore artificiale, la morte sarebbe sopravvenuta solo dopo un periodo di apprezzabile durata, quantificabile in alcuni giorni: modalità di porre fine alla propria esistenza che egli reputava non dignitosa e che i propri cari avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo” (ordinanza n. 207 del 2018).
Al riguardo, occorre in effetti considerare che la sedazione profonda continua, connessa all’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale – sedazione che rientra nel genus dei trattamenti sanitari – ha come effetto l’annullamento totale e definitivo della coscienza e della volontà del soggetto sino al momento del decesso. Si comprende, pertanto, come la sedazione terminale possa essere vissuta da taluni come una soluzione non accettabile.
Nelle ipotesi configurate nel dettaglio all’inizio di questo punto 2.3. vengono messe in discussione, d’altronde, le esigenze di tutela che negli altri casi giustificano la repressione penale dell’aiuto al suicidio. Se, infatti, il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale. Quanto, poi, all’esigenza di proteggere le persone più vulnerabili, è ben vero che i malati irreversibili esposti a gravi sofferenze appartengono solitamente a tale categoria di soggetti. Ma è anche agevole osservare che, se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede la ragione per la quale la stessa persona, a determinate condizioni, non possa ugualmente decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri.
La conclusione è dunque che entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagliartt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita.
2.4.- Con la stessa ordinanza n. 207 del 2018, questa Corte ha ritenuto, peraltro, di non poter porre rimedio – “almeno allo stato” – “al riscontrato vulnus”, tramite una pronuncia meramente ablativa, riferita ai pazienti che versino nelle condizioni sopra indicate. Una simile soluzione avrebbe, infatti, generato il pericolo di lesione di altri valori costituzionalmente protetti, lasciando “del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi”.
In assenza di una specifica disciplina della materia, infatti, “qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante sull’effettiva sussistenza, ad esempio, della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia da cui sono affetti”. Conseguenze, quelle ora indicate, delle quali “questa Corte non può non farsi carico” (ordinanza n. 207 del 2018).
Una regolazione della materia, intesa ad evitare simili scenari, gravidi di pericoli per la vita di persone in situazione di vulnerabilità, è suscettibile peraltro di investire plurimi profili, ciascuno dei quali, a sua volta, variamente declinabile sulla base di scelte discrezionali: “come, ad esempio, le modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, la disciplina del relativo “processo medicalizzato”, l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale, la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura”.
La disciplina potrebbe essere inoltre “introdotta, anziché mediante una mera modifica della disposizione penale di cuiall’art. 580 cod. pen., in questa sede censurata, inserendo la disciplina stessa nel contesto dellaL. n. 219 del 2017e del suo spirito, in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della “relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico”, opportunamente valorizzata dall’art. 1 della legge medesima” (ordinanza n. 207 del 2018). Potrebbe prospettarsi, ancora, l’esigenza di “introdurre una disciplina ad hoc per le vicende pregresse”, anch’essa variamente calibrabile.
Deve quindi, infine, essere sottolineata l’esigenza di adottare opportune cautele affinché “l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza … in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citataL. n. 38 del 2010”. Il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire, infatti, “un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente” (come già prefigurato dall’ordinanza n. 207 del 2018).
Peraltro, nel parere del 18 luglio 2019 (“Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito”), il Comitato nazionale per la bioetica, pur nella varietà delle posizioni espresse sulla legalizzazione del suicidio medicalmente assistito, ha sottolineato, all’unanimità, che la necessaria offerta effettiva di cure palliative e di terapia del dolore – che oggi sconta “molti ostacoli e difficoltà, specie nella disomogeneità territoriale dell’offerta del SSN, e nella mancanza di una formazione specifica nell’ambito delle professioni sanitarie” – dovrebbe rappresentare, invece, “una priorità assoluta per le politiche della sanità”.
Si cadrebbe, altrimenti, nel paradosso di non punire l’aiuto al suicidio senza avere prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative.
2.5.- Questa Corte ha rilevato, da ultimo, come, in casi simili, essa abbia dichiarato l’inammissibilità della questione sollevata, accompagnandola con un monito al legislatore per l’introduzione della disciplina necessaria a rimuovere il vulnus costituzionale: pronuncia alla quale, ove il monito fosse rimasto senza riscontro, ha fatto seguito, di norma, una declaratoria di incostituzionalità.
Tale soluzione è stata ritenuta, tuttavia, non percorribile nella specie.
La ricordata tecnica decisoria ha “l’effetto di lasciare in vita – e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo di tempo non preventivabile – la normativa non conforme a Costituzione. La eventuale dichiarazione di incostituzionalità conseguente all’accertamento dell’inerzia legislativa presuppone, infatti, che venga sollevata una nuova questione di legittimità costituzionale, la quale può, peraltro, sopravvenire anche a notevole distanza di tempo dalla pronuncia della prima sentenza di inammissibilità, mentre nelle more la disciplina in discussione continua ad operare. Un simile effetto non può considerarsi consentito nel caso in esame, per le sue peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei valori da esso coinvolti” (ordinanza n. 207 del 2018).
Questa Corte ha ritenuto, quindi, di dover procedere in altro modo. Facendo leva sui “propri poteri di gestione del processo costituzionale”, ha fissato, cioè, una nuova udienza di trattazione delle questioni, a undici mesi di distanza (segnatamente, al 24 settembre 2019): udienza in esito alla quale avrebbe potuto essere valutata l’eventuale sopravvenienza di una legge regolatrice della materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela.
In questo modo, si è lasciata al Parlamento la possibilità di assumere le necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalità, ma si è evitato che, nel frattempo, la norma potesse trovare applicazione. Il giudizio a quo è rimasto, infatti, sospeso.
3.- Deve però ora prendersi atto di come nessuna normativa in materia sia sopravvenuta nelle more della nuova udienza. Né, d’altra parte, l’intervento del legislatore risulta imminente.
I plurimi progetti di legge pure presentati in materia, di vario taglio, sono rimasti, infatti, tutti senza seguito.
Il relativo esame – iniziato presso la Camera dei deputati, quanto alle proposte di legge A.C. 1586 e abbinate – si è, infatti, arrestato alla fase della trattazione in commissione, senza che sia stato possibile addivenire neppure all’adozione di un testo unificato.
4.- In assenza di ogni determinazione da parte del Parlamento, questa Corte non può ulteriormente esimersi dal pronunciare sul merito delle questioni, in guisa da rimuovere il vulnus costituzionale già riscontrato con l’ordinanza n. 207 del 2018.
Non è a ciò d’ostacolo la circostanza che – per quanto rilevato nella medesima ordinanza e come poco sopra ricordato – la decisione di illegittimità costituzionale faccia emergere specifiche esigenze di disciplina che, pur suscettibili di risposte differenziate da parte del legislatore, non possono comunque sia essere disattese.
Il rinvio disposto all’esito della precedente udienza risponde, infatti, con diversa tecnica, alla stessa logica che ispira, nella giurisprudenza di questa Corte, il collaudato meccanismo della “doppia pronuncia” (sentenza di inammissibilità “con monito” seguita, in caso di mancato recepimento di quest’ultimo, da declaratoria di incostituzionalità). Decorso un congruo periodo di tempo, l’esigenza di garantire la legalità costituzionale deve, comunque sia, prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia, alla quale spetta la priorità.
Come più volte si è avuto modo di rilevare, “posta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali – la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio” (sentenze n. 162 del 2014 e n. 113 del 2011; analogamente sentenza n. 96 del 2015). Occorre, infatti, evitare che l’ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale: e ciò “specie negli ambiti, come quello penale, in cui è più impellente l’esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, incisi dalle scelte del legislatore” (sentenza n. 99 del 2019).
Risalente, nella giurisprudenza di questa Corte, è l’affermazione per cui non può essere ritenuta preclusiva della declaratoria di illegittimità costituzionale delle leggi la carenza di disciplina – reale o apparente – che da essa può derivarne, in ordine a determinati rapporti (sentenza n. 59 del 1958). Ove, però, i vuoti di disciplina, pure in sé variamente colmabili, rischino di risolversi a loro volta – come nel caso di specie – in una menomata protezione di diritti fondamentali (suscettibile anch’essa di protrarsi nel tempo, nel perdurare dell’inerzia legislativa), questa Corte può e deve farsi carico dell’esigenza di evitarli, non limitandosi a un annullamento “secco” della norma incostituzionale, ma ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento (in questo senso, sentenze n. 40 del 2019, n. 233 e 222 del 2018 e n. 236 del 2016).
5.- Ciò posto, per quanto attiene ai contenuti della presente decisione, questa Corte ha già puntualmente individuato, nell’ordinanza n. 207 del 2018, le situazioni in rapporto alle quali l’indiscriminata repressione penale dell’aiuto al suicidio, prefiguratadall’art. 580 cod. pen., entra in frizione con i precetti costituzionali evocati. Si tratta in specie – come si è detto – dei casi nei quali venga agevolata l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella trova intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
Quanto, poi, all’esigenza di evitare che la sottrazione pura e semplice di tale condotta alla sfera di operatività della norma incriminatrice dia luogo a intollerabili vuoti di tutela per i valori protetti, generando il pericolo di abusi “per la vita di persone in situazioni di vulnerabilità” (ordinanza n. 207 del 2018), già più volte questa Corte, in passato, si è fatta carico dell’esigenza di scongiurare esiti similari: in particolare, subordinando la non punibilità dei fatti che venivano di volta in volta in rilievo al rispetto di specifiche cautele, volte a garantire – nelle more dell’intervento del legislatore – un controllo preventivo sull’effettiva esistenza delle condizioni che rendono lecita la condotta.
Ciò è avvenuto, ad esempio, in materia di aborto, con la sentenza n. 27 del 1975 (la quale dichiarò illegittimol’art. 546 cod. pen., nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse essere interrotta quando l’ulteriore gestazione implicasse “danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre”); ovvero, più di recente, in materia di procreazione medicalmente assistita, con le sentenze n. 96 e n. 229 del 2015 (le quali hanno dichiarato illegittime, rispettivamente, le disposizioni che negavano l’accesso alle relative tecniche alle coppie fertili portatrici di gravi malattie genetiche, trasmissibili al nascituro, “accertate da apposite strutture pubbliche”, e la disposizione che puniva ogni forma di selezione eugenetica degli embrioni, senza escludere le condotte di selezione volte a evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da gravi malattie genetiche trasmissibili accertate nei predetti modi).
Nell’odierno frangente, peraltro, un preciso “punto di riferimento” (sentenza n. 236 del 2016) già presente nel sistema – utilizzabile ai fini considerati, nelle more dell’intervento del Parlamento – è costituito dalla disciplina racchiusa negli artt.1e2dellaL. n. 219 del 2017: disciplina più volte richiamata, del resto, nella stessa ordinanza n. 207 del 2018.
La declaratoria di incostituzionalità attiene, infatti, in modo specifico ed esclusivo all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza, ai sensi dell’art. 1, comma 5, della legge ora citata: disposizione che, inserendosi nel più ampio tessuto delle previsioni del medesimo articolo, prefigura una “procedura medicalizzata” estensibile alle situazioni che qui vengono in rilievo.
Il riferimento a tale procedura – con le integrazioni di cui si dirà in seguito – si presta a dare risposta a buona parte delle esigenze di disciplina poste in evidenza nell’ordinanza n. 207 del 2018.
Ciò vale, anzitutto, con riguardo alle “modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto”. Mediante la procedura in questione è, infatti, già possibile accertare la capacità di autodeterminazione del paziente e il carattere libero e informato della scelta espressa. L’art.1, comma 5, dellaL. n. 219 del 2017riconosce, infatti, il diritto all’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in corso alla persona “capace di agire” e stabilisce che la relativa richiesta debba essere espressa nelle forme previste dal precedente comma 4 per il consenso informato. La manifestazione di volontà deve essere, dunque, acquisita “nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente” e documentata “in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare”, per poi essere inserita nella cartella clinica. Ciò, “ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà”: il che, peraltro, nel caso dell’aiuto al suicidio, è insito nel fatto stesso che l’interessato conserva, per definizione, il dominio sull’atto finale che innesca il processo letale.
Lo stesso art. 1, comma 5, prevede, altresì, che il medico debba prospettare al paziente “le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative”, promovendo “ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica”. In questo contesto, deve evidentemente darsi conto anche del carattere irreversibile della patologia: elemento indicato nella cartella clinica e comunicato dal medico quando avvisa il paziente circa le conseguenze legate all’interruzione del trattamento vitale e sulle “possibili alternative”. Lo stesso deve dirsi per le sofferenze fisiche o psicologiche: il promovimento delle azioni di sostegno al paziente, comprensive soprattutto delle terapie del dolore, presuppone una conoscenza accurata delle condizioni di sofferenza.
Il riferimento a tale disciplina implica, d’altro canto, l’inerenza anche della materia considerata alla relazione tra medico e paziente.
Quanto all’esigenza di coinvolgimento dell’interessato in un percorso di cure palliative, l’art.2dellaL. n. 219 del 2017prevede che debba essere sempre garantita al paziente un’appropriata terapia del dolore e l’erogazione delle cure palliative previste dallaL. n. 38 del 2010(e da questa incluse, come già ricordato, nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza). Tale disposizione risulta estensibile anch’essa all’ipotesi che qui interessa: l’accesso alle cure palliative, ove idonee a eliminare la sofferenza, spesso si presta, infatti, a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita.
Similmente a quanto già stabilito da questa Corte con le citate sentenze n. 229 e n. 96 del 2015, la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio deve restare peraltro affidata – in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore – a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale. A queste ultime spetterà altresì verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze.
La delicatezza del valore in gioco richiede, inoltre, l’intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità. Nelle more dell’intervento del legislatore, tale compito è affidato ai comitati etici territorialmente competenti. Tali comitati – quali organismi di consultazione e di riferimento per i problemi di natura etica che possano presentarsi nella pratica sanitaria – sono, infatti, investiti di funzioni consultive intese a garantire la tutela dei diritti e dei valori della persona in confronto alle sperimentazioni cliniche di medicinali o, amplius, all’uso di questi ultimi e dei dispositivi medici (art.12, comma 10, lettera c, delD.L. n. 158 del 2012; art. 1 del D.M. della salute 8 febbraio 2013, recante “Criteri per la composizione e il funzionamento dei comitati etici”): funzioni che involgono specificamente la salvaguardia di soggetti vulnerabili e che si estendono anche al cosiddetto uso compassionevole di medicinali nei confronti di pazienti affetti da patologie per le quali non siano disponibili valide alternative terapeutiche (artt. 1 e 4 del decreto del Ministro della salute 7 settembre 2017, recante “Disciplina dell’uso terapeutico di medicinale sottoposto a sperimentazione clinica”).
6.- Quanto, infine, al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato.
7.- I requisiti procedimentali dianzi indicati, quali condizioni per la non punibilità dell’aiuto al suicidio prestato a favore di persone che versino nelle situazioni indicate analiticamente nel precedente punto 2.3., valgono per i fatti successivi alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
In quanto enucleate da questa Corte solo con la presente sentenza, in attesa dell’intervento del legislatore, le condizioni procedimentali in questione non possono essere richieste, tal quali, in rapporto ai fatti anteriormente commessi, come quello oggetto del giudizio a quo, che precede la stessa entrata in vigore dellaL. n. 219 del 2017. Rispetto alle vicende pregresse, infatti, le condizioni in parola non risulterebbero, in pratica, mai puntualmente soddisfatte.
Ciò impone una diversa scansione del contenuto della pronuncia sul piano temporale.
Riguardo ai fatti anteriori la non punibilità dell’aiuto al suicidio rimarrà subordinata, in specie, al fatto che l’agevolazione sia stata prestata con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee comunque sia a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti.
Occorrerà dunque che le condizioni del richiedente che valgono a rendere lecita la prestazione dell’aiuto – patologia irreversibile, grave sofferenza fisica o psicologica, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacità di prendere decisioni libere e consapevoli – abbiano formato oggetto di verifica in ambito medico; che la volontà dell’interessato sia stata manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente con quanto è consentito dalle sue condizioni; che il paziente sia stato adeguatamente informato sia in ordine a queste ultime, sia in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all’accesso alle cure palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua. Requisiti tutti la cui sussistenza dovrà essere verificata dal giudice nel caso concreto.
8.-L’art. 580 cod. pen.deve essere dichiarato, dunque, costituzionalmente illegittimo, per violazione degliartt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt.1e2dellaL. n. 219 del 2017- ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi dianzi indicati -, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
L’ulteriore questione sollevata in via principale per violazionedell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento agli artt. 2 e 8 CEDU, resta assorbita.
Parimente assorbite restano le questioni subordinate, attinenti alla misura della pena.
9.- Questa Corte non può fare a meno, peraltro, di ribadire con vigore l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore, conformemente ai principi precedentemente enunciati.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionaledell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt.1e2dellaL. 22 dicembre 2017, n. 219(Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione -, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 settembre 2019.
Depositata in Cancelleria il 22 novembre 2019.

Il giudizio di validità del testamento richiede la necessaria partecipazione di tutti i beneficiari contemplati nello stesso

Cass. civ. Sez. VI – 2, 18 novembre 2019, n. 29826
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 24257-2018 proposto da:
B.E., elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE DEI MELLINI 7, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO KROGH, rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO PERSIANI;
– ricorrente –
contro
B.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE MAZZINI 6, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO DIONISIO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati GUIDO MUSSI, ROBERTO PAGLIUCA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 845/2017 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 27/06/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 20/06/2019 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE TEDESCO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Il Tribunale di Massa, accogliendo la domanda proposta da B.L. nei confronti di B.E., ha dichiarato la nullità del testamento olografo di B.I., per difetto di autenticità.
La Corte d’appello di Genova, adita da B.E., nominata erede universale con il testamento dichiarato nullo dal giudice di primo grado, ha confermato la sentenza.
In primo luogo la Corte ha rigettato il motivo d’appello con il quale B.E. aveva eccepito la violazionedell’art. 102 c.p.c., perché il giudizio non si era svolto nei confronti degli altri eredi menzionati nel testamento.
La corte osservava che l’appellante non aveva provato i presupposti che giustificavano la partecipazione al giudizio di altri soggetti. In particolare non aveva prodotto gli atti dello stato civile da cui si potesse desumere il rapporto di parentela con la de cuius, idoneo a fondare il titolo per la successione legittima.
Nel merito, sulla scorta della consulenza tecnica, confermava il giudizio di non autenticità del testamento dato dal primo giudice.
Per la cassazione della sentenza B.E. ha proposto ricorso affidato a tre motivi, il primo dei quali denuncia la violazionedell’art. 102 c.p.c., a causa della mancata partecipazione al giudizio degli altri soggetti menzionati nel testamento. Gli altri motivi sono diretti a censurare il merito della decisione, laddove la corte ha deciso sulla base dei soli fatti accertati dal consulente tecnico (secondo motivo) e per non avere dato corso all’istanza di rinnovazione della consulenza tecnica e per non avere ammesso le prove testimoniali (terzo motivo).
B.L. ha resistito con controricorso.
Su proposta del relatore, che riteneva manifestamente fondato il primo motivo, con la conseguente possibilità di definizione nelle forme di cuiall’art. 380-bis c.p.c., in relazioneall’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.
Il primo motivo è fondato.
Nel ragionamento della corte di appello riecheggiano due principi: il primo è quello secondo il quale chi eccepisce la non integrità del contraddittorio ha l’onere di indicare i soggetti per i quali sussiste la necessità dell’integrazione; il secondo, specifico per le azioni di nullità o annullabilità del testamento, secondo cui ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario fra tutti i successori legittimi del de cuius.
Coordinando tali principi la corte di merito ha negato che nella specie ricorresse una ipotesi di litisconsorzio necessario, non essendoci prova del rapporto di parentela, rilevante ai fini della successione legittima, fra la de cuius e gli altri soggetti menzionati nel testamento.
Risulta infatti dalla lettura degli atti di causa, consentito alla Corte in considerazione del carattere di error in procedendo della censura (Cass. n. 20716/2018; n. 8069/2016, che il testamento, oltre a contenere la nomina di erede universale della B.E., prevedeva dei lasciti di somme in favore di altri soggetti, qualificati nella scheda come “nipoti”.
La corte di merito ha negato la violazione del litisconsorzio rispetto a tali soggetti, in quanto B.E. non aveva fornito la prova del rapporto di parentela con la de cuius.
Ma ragionando in questo modo la corte d’appello non ha considerato che i soggetti menzionati nel testamento erano litisconsorti necessari per il solo fatto di essere stati contemplati nella scheda, a prescindere dalla loro qualità di eredi o legatari e a prescindere dalla loro concorrente qualità di potenziali successibili ex lege.
La possibilità che in questa materia non ci sia litisconsorzio necessario fra tutti i soggetti contemplati nel testamento riguarda il caso in cui sia impugnata una singola disposizione, mentre nel caso in esame, poiché si discuteva dell’autenticità del testamento, era in discussione la validità del testamento in quanto tale, come negozio giuridico. Ciò imponeva la necessaria partecipazione al giudizio di tutti i beneficiari contemplati nel testamento (Cass. n. 1462/1965).
Il principio applicato dalla corte di merito – secondo cui “nelle cause aventi ad oggetto l’impugnazione di un testamento olografo per nullità, in considerazione dell’unità del rapporto dedotto in giudizio, sussiste litisconsorzio necessario anche nei confronti di tutti gli eredi legittimi, in quanto l’eventuale accoglimento della domanda porterebbe alla dichiarazione di invalidità del testamento ed alla conseguente apertura della successione legittima” (Cass. n. 474/2010) – vale ad estendere il litisconsorzio ai potenziali eredi legittimi, ma ciò non significa che non siano litisconsorti necessari innanzitutto i beneficiari delle disposizioni contenute nel testamento impugnato (Cass. n. 8575/2010; n. 8728/2005).
Il rilievo operato nel controricorso, secondo cui l’appellativo “nipoti”, con il quale sono identificati nel testamento i beneficiari delle disposizioni, non vale quale prova del rapporto di parentela, è inconferente. Quei soggetti dovevano partecipare al giudizio in quanto contemplati nella scheda, non perché parenti della de cuius in ipotesi successibili ex lege nel caso in cui il testamento fosse stato caducato.
Quanto all’ulteriore rilievo del controricorrente (non occorre disporre alcuna integrazione perchè il testamento non è autentico), è chiaro che il medesimo si risolve in una evidente petizione di principio, inidoneo ad escludere il litisconsorzio sussistente in base ai principi sopra indicati.
Conclusivamente, va dichiarata nella specie la nullità dell’intero giudizio di merito, con cassazione dell’impugnata sentenza e rimessione delle parti avanti al giudice di primo grado, che dovrà disporre l’integrazione del contraddittorio confronti di tutti i soggetti menzionati nel testamento e quindi decidere sulla domanda.
Il giudice di rinvio dovrà inoltre provvedere sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte dichiara la nullità dell’intero giudizio, cassa la sentenza impugnata e dispone la rimessione della causa al Tribunale di Massa, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6 – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 20 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 18 novembre 2019

È escluso il reato di omesso versamento dell’assegno di divorzio qualora tra le parti sia intervenuto un accordo transattivo risolutivo dei loro rapporti patrimoniali

Cass. pen. Sez. VI, 23 agosto 2019, n. 36392
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
L.F., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 11/10/2018 della CORTE APPELLO di BRESCIA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. DE AMICIS GAETANO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott.ssa FILIPPI PAOLA che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio perché il fatto non sussiste.
Udito il difensore avvocato VITALE VINCENZO SERGIO che insiste per l’accoglimento.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 11 ottobre 2018 la Corte d’appello di Brescia ha riformato la decisione di condanna emessa all’esito del giudizio di primo grado, appellata sia dal P.G. che dall’imputato,L.F., assolvendolo dal reato ascrittogliL. n. 898 del 1970, ex art. 12-sexies e art. 570 c.p. perché il fatto non costituisce reato e dichiarando, al contempo, inammissibile per rinunzia l’impugnazione proposta dal P.G..
Si contestava all’imputato di aver fatto mancare i mezzi di sussistenza all’ex coniuge, T.L.Y., omettendo il versamento del contributo per il mantenimento stabilito nella scrittura privata sottoscritta dai coniugi il 22 novembre 1990, quale parte integrante della sentenza di divorzio n. 762/1991 del Tribunale di Milano.
2. Avverso la su indicata decisione ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, che ha dedotto violazioni di legge e vizi della motivazione, anche per travisamento della prova, avendo la Corte distrettuale omesso di assolverlo con la diversa e più favorevole formula riferita alla non commissione del fatto exart. 530 c.p.p., comma 1, atteso che la sentenza di divorzio consensuale del 1991, contrariamente a quanto sostenuto nella impugnata pronuncia, nulla prevedeva in tema di obbligazioni alimentari in favore della persona offesa, mentre con due successive scritture private le parti regolavano in forma pattizia, rispettivamente, le condizioni per il mantenimento della ex coniuge e la loro definitiva risoluzione.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato e va accolto, non avendo la sentenza impugnata considerato le dirimenti risultanze probatorie emergenti dagli elementi documentai dal ricorrente prodotti nel giudizio di merito in ordine al contenuto delle pattuizioni liberamente concordate dalle parti e collegate alle sentenze di separazione e divorzio che definivano i rapporti fra le stesse intercorsi.
La sentenza di divorzio consensuale del 3 luglio 1991, invero, e diversamente da quanto affermato nella sentenza impugnata, nessuna statuizione conteneva relativamente ad obbligazioni di ordine patrimoniale in favore della persona offesa, poiché le parti avevano inteso regolare i loro rapporti economici sulla base di una scrittura privata predisposta a margine della sentenza di divorzio del 1991, in termini poi superati da un’altra scrittura privata del 16 novembre 1995, le cui pattuizioni (cessazione dell’obbligazione alimentare nel momento in cui la T. avesse venduto un immobile precedentemente acquistato dal L. ed avesse acquistato altro immobile di minor valore, trattenendo per sé la differenza di denaro, con a restituzione di tutti gli importi versati a titolo di obbligazione alimentare sino al verificarsi della predetta condizione risolutiva) sono state, peraltro, coerentemente ritenute estinte in ragione dell’intervenuto adempimento, in tal guisa determinando l’assoluzione del ricorrente, sia pure con la su indicata, meno favorevole, formula.
Dalla documentazione prodotta in sede di gravame, il cui risultato probatorio la sentenza impugnata ha travisato, emergeva, di contro, che le parti avevano inteso costituire tempi e modalità del rapporto obbligatorio con una scrittura privata, quella originariamente stipulata a margine della sentenza di divorzio, che con analogo mezzo hanno successivamente risolto.
Accordo transattivo, quest’ultimo, utilmente raggiunto tra le parti in via extragiudiziale, di per sé non contrario all’ordine pubblico e pienamente idoneo a produrre autonomi effetti obbligatori.
Ne consegue che le pattuizioni di ordine patrimoniale inter partes inizialmente convenute sono state superate sulla base di successivi accordi cui le stesse hanno dato piena ed autonoma esecuzione, senza alcuna necessità di modificare o revocare statuizioni che in sede giurisdizionale non risultavano esser state pronunziate, perché la sentenza di divorzio nulla aveva previsto in tema di obbligazioni alimentari.
Al riguardo, infatti, questa Suprema Corte (Sez. 3, n. 24621 del 03/12/2015, Rv. 637914) ha affermato il principio secondo cui l’accordo transattivo relativo alle attribuzioni patrimoniali, concluso tra le parti ai margini di un giudizio di separazione o di divorzio, ha natura negoziale e produce effetti senza necessità di essere sottoposto al giudice per l’omologazione.
2. S’impone conclusivamente, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con la formula in dispositivo indicata.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, il 4 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 23 agosto 2019