Il genitore è litisconsorte necessario nei giudizi aventi ad oggetto la limitazione od ablazione della responsabilità genitoriale con conseguente irrilevanza della formula con la quale si è qualificato come parte nella proposizione del reclamo

Cass. civ. Sez. I, 20 febbraio 2018, n. 4099
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 3917/2017 proposto da:
D.B.G., nella qualità di padre del minore D.B.A., elettivamente domiciliato in Roma, Via Sistina n.42, presso lo studio dell’avvocato Malacarne Angela, rappresentato e difeso dall’avvocato Ripullone Vito, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
B.A., nella qualità di curatore speciale e M.N., nella qualità di tutore del minore D.B.A., D.A.R.P., D.M.A., Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Bari, Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Bari, S.P.G.;
– intimati –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di BARI, depositato il 27/12/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/10/2017 dal cons. ACIERNO MARIA.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Il Tribunale per i minorenni di Bari ha dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale D.B.G. per aver negato al figlio minore A. la continuità affettiva con la famiglia materna, dopo la morte della madre, così arrecandogli grave pregiudizio psichico.
La Corte d’Appello di Bari, decidendo sul reclamo proposto da D.B.G. ed iscritto al numero di R.G. n. 550/16, con decreto depositato il 27/12/2016, ne ha dichiarato l’inammissibilità.
A sostegno della decisione la Corte territoriale ha rilevato che il reclamante non ha agito in proprio ma in qualità di legale rappresentante del minore pur essendo già decaduto dalla responsabilità genitoriale in virtù del provvedimento di primo grado provvisoriamente esecutivo.
Avverso tale decisione è stato proposto da D.B.G. ricorso per cassazione. A pag. 26 del ricorso è specificamente prospettata la censura relativa alla illegittimità del rilevato difetto di legittimazione passiva.
Preliminarmente il ricorrente ha richiesto la rimessione alle Sezioni Unite del ricorso sul profilo attinente all’ammissibilità del ricorso per cassazione in ordine ai provvedimenti cd. de potestate.
Al riguardo si è affermato di recente un orientamento favorevole all’ammissibilità di tali ricorsi (Cass. 23633 del 2016) dal quale il Collegio non intende discostarsi con conseguente rigetto, non ravvisandosene la necessità, dell’istanza di rimessione alle Sezioni Unite.
La censura proposta è manifestamente fondata dal momento che il D.B. è litisconsorte necessario nei giudizi aventi ad oggetto la limitazione od ablazione della responsabilità genitoriale con conseguente irrilevanza della formula con la quale si è qualificato come parte nella proposizione del reclamo.
Il giudizio sulla responsabilità genitoriale non può che svolgersi con i genitori o il genitore superstite nella qualità di parte in quanto titolare ex lege, in virtù dello status filiationis, del complesso di diritti e doveri di cui essa si compone. Senza la partecipazione del genitore il giudizio sulla responsabilità genitoriale è tamquam non esset non essendo costituito validamente il contraddittorio. Il provvedimento di primo grado ancorché provvisoriamente esecutivo, è privo di definitività se tempestivamente impugnato e, conseguentemente, è del tutto inidoneo a far perdere al genitore la titolarità della legittimazione ad agire nel giudizio in cui si mette in discussione il proprio esclusivo diritto-dovere di conservare la titolarità e di esercitare la responsabilità genitoriale sul figlio non ancora maggiorenne.
I principi sopra esposti sono, peraltro, sostenuti dal costante orientamento di questa Corte che ne ha esteso l’applicabilità anche alle impugnazioni dei provvedimenti di adozione in casi particolari. Al riguardo con la sentenza n. 6051 del 2012 è stato affermato:
“Il genitore è legittimato ad impugnare il provvedimento di adozione in casi particolari, ancorché decaduto dall’esercizio della potestà genitoriale, permanendo la sua qualità di parte nel relativo procedimento”.
Incontestato infine il litisconsorzio necessario dei genitori nei giudizi rivolti alla dichiarazione di adottabilità. Il principio è stato di recente confermato dalla pronuncia n. 15369 del 2015 di cui si riproduce la massima ufficiale:
“In tema di dichiarazione dello stato di adottabilità del minore, i genitori dell’adottando, ove esistenti, sono le sole parti necessarie e formali dell’intero procedimento e quindi litisconsorti necessari anche nel giudizio di appello, quand’anche in primo grado non si siano costituiti, nonché unici soggetti a dover essere obbligatoriamente sentiti”.
Gli orientamenti illustrati costituiscono lo sviluppo logico del principio secondo il quale i provvedimenti limitativi od ablativi della responsabilità genitoriale possono essere assunti soltanto in un giudizio nel quale i genitori siano parti necessarie, peraltro munite del pieno potere di agire, contraddire ed impugnare le decisioni che producano effetti provvisori o definitivi sulla titolarità o sull’ esercizio della responsabilità genitoriale.
Tale diritto non è limitato al giudizio relativo alla dichiarazione di adottabilità nel quale è in discussione la conservazione dello status filiationis ma si estende a tutti gli altri giudizi che possono incidere sulla responsabilità genitoriale fino ad escluderla, anche se non diretti ad esiti convergenti verso la dichiarazione di adottabilità.
In conclusione il ricorso deve essere accolto per quanto di ragione, il provvedimento impugnato deve essere cassato con rinvio alla Corte d’Appello di Bari in diversa composizione.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione. Cassa il provvedimento impugnato e rinvia alla Corte d’Appello di bari in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 ottobre 2017.

Il giudice è competente ex art. 22, co. 1, n. 1 c.c. per l’azione di petizione di eredità se i beni esistevano all’apertura della successione

Cass. civ. sez. VI – 3, 9 aprile 2018, n. 8611
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 17648-2017 RG. proposto da:
C.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PAPARESCHI n. 11, presso lo studio dell’avvocato DEBORAH WAHL rappresentata e difesa dall’avvocato GIANNI LUIGI VACCA;
– ricorrente –
contro
C.F., S.C.;
– intimati –
per regolamento di competenza avverso l’ordinanza del TRIBUNALE DI CHIETI, depositata il 01/06/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 11/01/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale BASILE Tommaso, che chiede dichiararsi la competenza del Tribunale di Chieti Sezione Distaccata di Ortona.
Svolgimento del processo
che il Tribunale Ordinario di Chieti-Sezione distaccata di Ortona, decidendo sulla domanda proposta da C.D. nei confronti di C.F. e S.C. aventi ad oggetto l’accertamento della indebita appropriazione da parte dei convenuti di somme di pertinenza esclusiva della madre dei C., successivamente deceduta, ed appartenenti, pertanto all’asse ereditario, nonché sulla domanda di condanna al risarcimento dei danni proposta nei confronti dei medesimi convenuti, con ordinanza depositata in data 1.6.2017, ha accolto la eccezione di incompetenza formulata dai convenuti ed ha dichiarato la propria incompetenza territoriale in favore del Tribunale di Pescara, rilevando che la causa aveva natura ereditaria e dunque trovava applicazione il criterio di radicamento della competenza previstodall’art. 22 c.p.c., comma 1, n. 1) in relazione al luogo di apertura della successione;
– che la ordinanza declinatoria della competenza è stata ritualmente impugnata con regolamento necessario exart. 42 c.p.c.da C.D. con atto notificato alle controparti in data 4.7.2017 – che C.F. e S.C. non hanno depositato memorie difensive;
– che il Pubblico Ministero ha concluso per l’accoglimento del ricorso e l’affermazione della competenza del Tribunale Ordinario di Chieti.

Motivi della decisione
– che pur non avendo il Giudice istruttore previamente invitato le parti a precisare le conclusioni, osserva il Collegio che tale omissione integra un vizio processuale che non ridonda nella nullità – per lesione del diritto di difesa della ricorrente – del provvedimento dichiarativo della incompetenza, atteso che detto provvedimento emesso nella forma della ordinanza, in quanto idoneo a definire il giudizio avanti il Giudice che lo ha pronunciato, per essere rimosso deve, comunque, essere impugnato con il mezzo tipico del regolamento necessario di competenza previsto dall’ordinamento processuale (cfr. Corte cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 16005 del 21/07/2011; id. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 23095 del 10/10/2013);
– che il rilievo di parte ricorrente secondo cui il Giudice pronunciando sulla competenza non avrebbe potuto condannare alle spese exart. 91 c.p.c., presupponendo tale condanna un provvedimento definitivo adottato nella “forma della sentenza”, è destituito di pregio, tenuto conto: a) che la condanna alle spese exart. 91 c.p.c.implica la soccombenza e questa si determina in relazione all’esito della “decisione del giudizio”: ne segue che è alla natura sostanziale e non alla forma del provvedimento giurisdizionale che occorre avere riferimento, atteso che, se il provvedimento risulta idoneo a definire il giudizio, rivestendo pertanto i caratteri della decisorietà e definitività (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 21697 del 20/10/2011; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 23727 del 19/11/2015; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 3122 del 07/02/2017; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 7010 del 17/03/2017), insorge allora l’obbligo del Giudice di condannare la parte soccombente alla rifusione delle spese di lite, in tal senso dovendo intendersi il riferimento alla “sentenza che chiude il processo” contenuto nell’art. 91 c.p.c., comma 1 a seguito della soppressione del periodo “eguale provvedimento emette nella sua sentenza il giudice che regola la competenza” operata dallaL. n. 69 del 2009,art.45, comma 10, ai soli fini di coordinamento con la forma di ordinanza prevista a seguito delle modifiche disposte dalla stessa legge all’art. 42 e art. 279 c.p.c., comma 1, (Corte cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 23359 del 09/11/2011; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 21565 del 18/10/2011); b) la forma della “ordinanza” espressamente individuata dall’art. 279 c.p.c., comma 1, per la pronuncia sulla questione pregiudiziale di competenza, non impedisce affatto di riconoscere al provvedimento declinatorio della competenza dal Giudice adito natura decisoria, come peraltro chiaramente evincibile dalla stessa norma processuale laddove distingue nettamente le ordinanze che attengono alla “istruzione del giudizio” con le quali il Giudice provvede “senza definire il giudizio”, dalle ordinanze concernenti la competenza con le quali il Giudice “decide” sulla questione pregiudiziale definendo il giudizio – in tal caso dovendo regolare le spese di lite exart. 91 c.p.c.- ovvero, se non definisce il giudizio (in quanto rigetta la eccezione ed afferma la propria competenza), impartisce i provvedimenti necessari alla ulteriore istruzione; c) la natura decisoria della ordinanza che dichiara la incompetenza del Giudice adito è palesata inequivocamente dalla collocazione del rimedio del regolamento di competenza tra i mezzi di impugnazione in senso stretto ex art. 323 c.p.c., e dalla efficacia cd. panprocessuale exart. 44 c.p.c.che esplica la declaratoria di incompetenza non impugnata con regolamento; d) né sussiste la difficoltà pratica prospettata dalla parte ricorrente secondo cui la parte soccombente sulla pronuncia declinatoria della competenza, rivelatasi errata all’esito del giudizio per regolamento necessario, non potrebbe più recuperare le spese alle quali era stata condannata dal Giudice a quo: ed infatti, secondo i principi propri del giudizio impugnatorio, alla parte che abbia impugnato con regolamento di competenza la ordinanza di incompetenza, con esito favorevole, dovranno comunque essere riliquidate, dal Giudice di merito – dichiarato competente ed avanti al quale prosegue il giudizio riassunto – le spese dell’intero giudizio: essendo appena il caso di rilevare come la liquidazione delle spese di lite contenuta nel provvedimento di incompetenza annullato costituisca mera “statuizione dipendente” che viene travolta con l’annullamento del provvedimento impugnato (cfr. Corte cass. Sez. U, Ordinanza n. 14205 del 06/07/2005; id. Sez. 1, Sentenza n. 10636 del 09/05/2007);
– che il ricorso per regolamento di competenza deve ritenersi fondato quanto alla dedotta errata applicazione dell’art. 22 c.c., comma 1, n. 1) (che radica avanti il Giudice del luogo in cui si è aperta la successione la competenza per le cause aventi ad oggetto la “petitio hereditatis” e quelle tra coeredi fino alla divisione).
Dall’atto di citazione, notificato il 18.1.2017 (le cui conclusioni sono state interamente trascritte anche nel ricorso exart. 47 c.p.c.) emerge che C.D. oltre a denunciare di aver subito danni a causa delle condotte illecite ascritte al coerede C.F. ed al coniuge di quello S.C., qualificate come fatti penalmente rilevanti (appropriazione indebita o truffa, realizzate con il prelievo dal conto corrente intestato alla de cuius – sul quale C.F. era delegato ad operare – di somme di esclusiva pertinenza dell’intestataria, deceduta qualche giorno dopo), richiedendo la condanna al risarcimento dei danni, ha chiesto altresì al Tribunale di Chieti di accertare e dichiarare che la predetta somma appartiene all’asse ereditario”. La ricorrente sostiene che tale richiesta dovrebbe intendersi non come esercizio dell’azione di petizione ereditaria, ma come mera allegazione della qualità di coerede in funzione esclusivamente della dimostrazione della legittimazione ad agire ex art. 2043 c.c. quale soggetto danneggiato, essendo stata svolta l’azione risarcitoria anche nei confronti della S. che non rivestiva la qualità di coerede.
Osserva il Collegio che non è dirimente, al riguardo, la circostanza che la convenuta S.C. – coniuge del coerede C.F. -, è soggetto estraneo alla successione ereditaria, atteso che l’azione di restituzione ex art. 533 c.c. può essere esperita nei confronti di “chiunque possiede tutti o parte dei beni ereditari” e dunque anche nei confronti di soggetti privi della qualità di coerede o non chiamati a succedere. Né potrebbe comunque rilevarsi decisivo – ai fini della risoluzione della questione di competenza territoriale – quando anche si ipotizzasse una autonoma azione risarcitoria exart. 2043 c.c. nei confronti del terzo non coerede, rispetto a quella di “petitio hereditatis” promossa nei confronti del coerede C.F., in quanto le modifiche alla competenza determinate dal “cumulo soggettivo” delle cause proposte nei confronti di diverse parti ex art. 33 c.p.c. opera esclusivamente in relazione ai fori generali delle persone fisiche e giuridiche e non anche in relazione ai fori speciali esclusivi, qual è quello dell’art. 22 c.c.(cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 4862 del 01/03/2007).
Né assume rilievo la mancata contestazione da parte dei convenuti della qualità di coerede dell’attrice (risolvendosi tale non contestazione semplicemente in una “relevatio ad onere probandi” a favore di colui che agisce con azione di restituzione exart. 533 c.c.(cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 1074 del 16/01/2009).
Dirimente invece, a risolvere la questione con l’affermazione della competenza del Giudice del tribunale Ordinario di Chieti -Sezione distaccata di Ortona, è il fatto materiale allegato come costitutivo delle domande, secondo cui la condotta asseritamente illecita consistita nel prelievo delle somme giacenti sul conto corrente intestato alla “de cuius”, si era realizzata anteriormente alla apertura della successione e dunque, al momento del decesso, gli importi prelevati non essendo ricompresi nell’asse ereditario, non possono considerarsi beni ereditari, i quali soltanto legittimano l’esperimento della “petitio hereditatis”.
Ed infatti, come da ultimo ancora ribadito da questa Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 3181 del 09/02/2011, “ciò che l’erede può reclamare con l’hereditatis petitio – azione nella quale l’erede non subentra al de cuius, ma che a lui viene attribuita ex novo – sono i beni nei quali egli è succeduto mortis causa al defunto, ossia i beni che, al tempo dell’apertura della successione, erano compresi nell’asse ereditario (cfr. Cass., Sez. 2, 2 agosto 2001, n. 10557; Cass., Sez. 2, 16 gennaio 2009, n. 1074); ne consegue che l’azione non può essere esperita per far ricadere in successione somme di denaro che l’ereditando abbia, prima della sua morte, rimesso a mezzo assegni bancari, senza una apparente causa giustificativa, al futuro erede e che questi abbia o abbia avuto nella disponibilità, non già a titolo di erede o senza titolo alcuno, bensì in forza di un titolo giuridico preesistente ed indipendente rispetto alla morte del de cuius (cfr. Cass., Sez. 2, 23 ottobre 1974, n. 3067; Cass., Sez. 2, 19 marzo 2001, n. 3939)…”. – deve dunque affermarsi la competenza per territorio del Tribunale di Chieti – Sezione distaccata di Ortona, avanti il quale la causa dovrà essere riassunta nel termine previsto dall’art. 50 c.p.c.e che provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Dichiara la competenza del Tribunale Ordinario di Chieti – Sezione distaccata di Ortona avanti il quale la causa dovrà essere riassunta nel termine di legge.
Spese rimesse.

La mancata consegna del servizio fotografico commissionato per il matrimonio rappresenta illecito contrattuale ma non viola alcun diritto fondamentale della persona costituzionalmente garantito

Cass. civ. Sez. III, 29 maggio 2018, n. 13370
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 14130-2016 proposto da:
O.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI PORTA CASTELLO, 33, presso lo studio dell’avvocato SIMONE PALOMBI, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
IMPERO FOTOGRAFICO SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore sig. P.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DOMENICO VIETRI 34, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO MARTINI, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2180/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 06/04/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 01/12/2017 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PELLECCHIA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso per l’accoglimento del 1 motivo di ricorso, assorbito il 2;
udito l’Avvocato SIMONE PALOMBI;
udito l’Avvocato ALESSANDRO MARTINI.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 11920/2011, il Tribunale di Roma accolse la domanda formulata O.L., condannando la Impero Fotografico S.r.l. a risarcire l’attrice dei danni derivanti dalla mancata consegna del servizio fotografico commissionato per il matrimonio.
Il giudice di primo grado ritenne che la società si fosse resa totalmente inadempiente alle obbligazioni assunte nel contratto, attesa la perdita delle fotografie scattate durante il matrimonio della O..
Riconobbe inoltre il risarcimento del danno non patrimoniale, da qualificare come danno morale ed esistenziale, ritenendo che l’assenza del servizio fotografico incidesse negativamente sulla vita della O. per l’impossibilità di rivivere nel tempo le emozioni del matrimonio attraverso il servizio fotografico.
2. La decisione è stata parzialmente riformata dalla Corte d’Appello di Roma con sentenza n. 2180 del 6 aprile 2016.
La Corte, come il giudice di primo grado, ha ritenuto dimostrato l’accordo nei termini indicati dalla O.. Tuttavia, ha rigettato la domanda relativa al risarcimento del danno non patrimoniale, in quanto, nella fattispecie, non si trattava di un fatto di reato, ma solo di un adempimento contrattuale, e gli interessi tutelati non erano costituzionalmente rilevanti.
Inoltre, secondo la Corte, l’esistenza di un servizio video, rimasta incontestata, escluderebbe in radice il pregiudizio, potendo la coppia rivivere il proprio matrimonio attraverso le immagini della ripresa e ricavare dalla stessa immagini fotografiche.
3. Avverso tale decisione, propone ricorso in Cassazione O.L., sulla base di due motivi.
3.1 Resiste con controricorso la Impero Fotografico S.r.l.

Motivi della decisione
4.1. Con il primo motivo, la ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione degliartt. 1218, 1174 e 2059 c.c. anche in relazioneall’art. 2 Cost., per avere il giudice di appello erroneamente affermato che a seguito dell’inadempimento delle obbligazioni contrattuali è derivato soltanto un danno patrimoniale e non anche un danno non patrimoniale risarcibile”.
La Impero Fotografico, con il suo comportamento inadempiente, avrebbe leso il diritto “alla memoria” o “al ricordo”, componente del diritto all’identità personale riconosciutodall’art. 2 Cost..
Il diritto alla memoria del giorno del proprio matrimonio attraverso il servizio fotografico commissionato dovrebbe trovare riconoscimento, trattandosi di evento non ripetibile e di notevole importanza personale.
La perdita delle foto del matrimonio costituirebbe una lesione di grave importanza del predetto diritto alla memoria, meritevole di tutela.
Il motivo è infondato.
Com’è noto, le SS.UU. di questa Corte, con la sentenza 26972 del 11.11.2008, hanno riconosciuto l’applicabilità del principio di cuiall’art. 2059 c.c.anche all’illecito contrattuale.
Secondo le Sezioni Unite,l’art. 2059 c.c.non disciplina una autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cuiall’art. 2043 c.c., ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiestidall’art. 2043 c.c.: e cioè la condotta illecita, l’ingiusta lesione di interessi tutelati dall’ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell’interesse leso. L’unica differenza tra il danno non patrimoniale e quello patrimoniale consiste pertanto nel fatto che quest’ultimo è risarcibile in tutti i casi in cui ricorrano gli elementi di un fatto illecito, mentre il primo lo è nei soli casi previsti dalla legge.
Secondo un’interpretazione costituzionalmente orientatadell’art. 2059 c.c., ovvero che il danno non patrimoniale sia risarcibile nei soli casi “previsti dalla legge”, deve essere inteso che esso è risarcibile quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato (e in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall’ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale), quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di un’ipotesi di reato (e in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento), quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale (in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati “ex ante” dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice).
In tale ultimo caso (danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti) il danno non patrimoniale è risarcibile – sempre sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientatadell’art. 2059 c.c.- anche quando non sussiste un fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a tre condizioni: (a) che l’interesse leso – e non il pregiudizio sofferto – abbia rilevanza costituzionale; (b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità; (c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità.
Pertanto, il danno non patrimoniale, quando ricorrano le ipotesi espressamente previste dalla legge, o sia stato leso in modo grave un diritto della persona tutelato dalla Costituzione, è risarcibile sia quando derivi da un fatto illecito, sia quando scaturisca da un inadempimento contrattuale.
Le conclusioni delle Sezioni Unite sono state criticate da una parte della dottrina.
In particolare, si è considerata non condivisibile la pronuncia del 2008 nella parte in cui circoscrive la risarcibilità del danno non patrimoniale exartt. 1218 c.c.e ss. nei limiti impostidall’art. 2059 c.c., ossia nei casi “previsti dalla legge”.
Secondo tale dottrina, si traslerebbero in sede contrattuale condizioni statuite dal legislatore per la diversa responsabilità aquiliana.
Non sarebbe infatti coerente con la disciplina del contratto affidare ad una fonte eteronoma – la legge- la selezione degli interessi meritevoli. In materia contrattuale, è la causa del contratto a fornire il criterio di selezione degli interessi giuridicamente rilevanti.
Il contratto può essere funzionalizzato dall’autonomia delle parti a soddisfare un interesse non patrimoniale anche non qualificabile come diritto fondamentale della persona costituzionalmente rilevante, purché economicamente apprezzabile. Se tale interesse diviene irrealizzabile nonostante la prestazione sia ancora possibile, il contratto, ormai privo di causa, può essere risolto. Tuttavia, seguendo il principio enunciato dalle Sezioni Unite, l’eventuale frustrazione dello stesso interesse a causa dell’inadempimento della controparte, in mancanza di pregiudizio di tipo economico, non darebbe luogo ad alcuna conseguenza risarcitoria.
Secondo l’orientamento in parola, questo risultato finirebbe per contrastare con le stesse argomentazioni utilizzate delle Sezioni Unite al fine di riconoscere la risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento (in particolare laddove si parla di causa concreta del contratto come strumento volto a verificare quali interessi non patrimoniali le parti abbiano scelto di far entrare nell’ambito del loro assetto negoziale).
Infatti, una volta che si è riconosciuto nelle disposizioni sulla responsabilità contrattuale autonomo fondamento normativo per il danno non patrimoniale da inadempimento e che si è valorizzata l’autonomia negoziale delle parti anche attraverso il richiamo alla causa concreta, non è chiaro per quale ragione, in sede di risarcimento, debba essere attribuito rilievo ai soli interessi costituzionalmente protetti.
Nel caso di specie, ad ogni modo, non è oggetto di censura il suddetto principio, quanto piuttosto il mancato riconoscimento della grave lesione di un interesse di rango costituzionale, individuato nel diritto “alla memoria” di un evento di particolare importanza della propria vita, poiché espressione del diritto all’identità personale di cuiall’art. 2 Cost..
Tali censure non sono accoglibili.
Pur essendo innegabile il rilievo che la data delle nozze riveste per gli sposi, e pur trattandosi di una situazione certamente in grado di creare turbamenti d’animo, il danno in esame non assurge a una gravità tale da incidere su interessi di rango costituzionale.
Il diritto a ricordare il giorno del matrimonio attraverso documentazione fotografica non costituisce, di per sé, un diritto fondamentale della persona tutelato a livello costituzionale (basti pensare che l’esercizio di un tale diritto è rimesso esclusivamente agli stessi sposi, i quali, per varie ragioni, potrebbero decidere di affidare il ricordo alla propria memoria).
Si tratta quindi, di un diritto “immaginario”, non idoneo, in base alla regola enunciata dalle Sezioni Unite, ad essere fonte di un obbligo risarcitorio in relazione al danno non patrimoniale.
4.2. Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta l’omesso esame exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, ovvero “circa l’inadempimento totale della resistente con particolare riferimento alla mancata consegna non solo del servizio fotografico ma anche di quello video”.
La Corte di appello di Roma avrebbe erroneamente dedotto che, a differenza del servizio fotografico, il video commissionato dalla O. fosse stato effettivamente consegnato alla stessa dalla resistente.
Tale fatto non sarebbe mai stato provato dalla resistente e non sarebbe pacifico, ma al contrario sarebbe stato oggetto, nel corso del processo, di specifiche contestazioni. In particolare, “la O. ha contestato tale circostanza negli atti difensivi di primo e secondo grado e la resistente invece nella comparsa di costituzione risposta nel giudizio di primo grado (pagina 3/4 del medesimo atto) nonché nell’atto di citazione in appello della resistente (pagina 5 del medesimo atto)”.
Il motivo è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza. La ricorrente, infatti, omette di trascrivere gli atti – che non sarebbero stati considerati dal giudice di secondo grado – dai quali risulterebbe specificamente contestata, ad opera della O., la circostanza dell’avvenuta consegna del video relativo al matrimonio.
5. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
6. Infine, dal momento che il ricorso risulta notificato successivamente al termine previsto dalla L. n. 228 del 2012, art.1, comma 18, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, introdotto dalla citata L. n. 228 del 2012,art.1, comma 17.

P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1-quater, inserito dallaL. n. 228 del 2012,art.1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis del citato art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 1dicembre 2017.

L’avvocato d’ufficio del minore imputato che – non attivando previamente le prescritte procedure di liquidazione – richiede ai genitori la liquidazione del compenso per l’attività svolta, commette illecito disciplinare

Cass. civ. Sez. Unite, 27 giugno 2018, n. 16977
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 3029-2018 proposto da:
D.G.M., elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ANNUNZIATA STASI;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI MILANO, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, PUBBLICO MINISTERO PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI MILANO, CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE;
– intimati –
avverso la sentenza n. 200/2017 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata l’1/12/2017.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/06/2018 dal Consigliere ENZO VINCENTI;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. – Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano, avendo riconosciuto l’avvocato D.G.M. responsabile di una serie di addebiti disciplinari, gli inflisse la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per la durata di quattro mesi.
2. – Su impugnazione del D.G., il Consiglio Nazionale Forense (CNF), con sentenza resa pubblica il 1 dicembre 2017, proscioglieva l’incolpato da taluni addebiti, ne confermava la responsabilità per altri e riduceva alla durata di mesi due l’irrogata sanzione della sospensione dall’esercizio della professione.
2.1. – Il CNF, segnatamente, reputava sussistenti, anzitutto, gli addebiti di contrarietà ai doveri di correttezza, diligenza e lealtà per la mancata partecipazione del D.G. alle udienze del 13 novembre 2008, 4 febbraio 2009 e 24 marzo 2009, dinanzi alla 10 sezione penale del Tribunale di Milano, sia quale difensore di fiducia di K.A., che in veste di difensore d’ufficio (per le prime due udienze) e poi di fiducia (per la terza udienza) di S.D., senza addurre un giustificato motivo, né provvedere alla nomina di un sostituto.
2.2. – Inoltre, il CNF riteneva l’incolpato responsabile di esser venuto meno ai doveri di probità e decoro per avere, in qualità di difensore d’ufficio del minore L.M., richiesto un compenso per l’attività professionale, che avrebbe dovuto essere svolta con onorari a carico dello Stato.
3. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre l’avvocato D.G.M., affidando le sorti dell’impugnazione a tre motivi.
Il Pubblico Ministero ha concluso come in epigrafe.
Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli intimati Consiglio dell’ordine degli Avvocati di Milano e il CNF.
Motivi della decisione
1. – E’ inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Consiglio Nazionale Forense, che, in quanto soggetto terzo rispetto alla controversia e autore della impugnata decisione, è privo di legittimazione nel presente giudizio, le parti del quale vanno individuate nel soggetto destinatario del provvedimento impugnato, cioè nel Consiglio dell’Ordine degli Avvocati locale che, in sede amministrativa, ha deciso in primo grado e nel Pubblico Ministero presso la Corte di Cassazione (tra le tante, Cass., sez. un., 24 febbraio 2015, n. 3670; Cass., sez. un., 27 dicembre 2016, n. 26996; Cass., sez. un., 18 aprile 2018, n. 9558).
2. – Con il primo mezzo è denunciata violazione o falsa applicazione degli artt. 6 e 8 del codice deontologico forense (cdf) e 26, n. 4, del nuovo codice deontologico forense (ncdf).
Il CNF avrebbe errato a reputare inidonea ad elidere la valenza disciplinare del fatto addebitato la circostanza che la mancata presenza alle udienze era dovuta a precisa strategia processuale, non avendo esso D.G. ricevuto la notificazione del decreto di citazione a giudizio “nell’interesse del proprio assistito” (in particolare, del S., del quale veniva dapprima nominato difensore d’ufficio e poi di fiducia), così da non partecipare alla prima udienza in attesa del rinnovo della notificazione di detto decreto.
Inoltre, il giudice disciplinare avrebbe violato gli artt. 26 ncdf e 36 (recte: 38) cdf, che sanzionano unicamente il comportamento del difensore d’ufficio.
Infine, il CNF non avrebbe correttamente valutato l’assenza di mala fede di esso D.G. – che escluderebbe la violazione dei doveri di lealtà e correttezza -, giacché le assenze erano da giustificarsi per la concomitanza di altri impegni professionali, improvvisamente sopravvenuti, là dove, peraltro, con specifico riferimento all’udienza del 29 marzo 2009, “il cancelliere gli aveva anticipato che i procedimenti sarebbero stati rinviati per malattia del giudice” e, al tempo stesso, era stato “notiziato di un interrogatorio urgente presso i carabinieri di Lorenteggio”.
2.1. – Il motivo è inammissibile.
In disparte, per ora, la questione (che sarà delibata con il terzo motivo di ricorso) concernente l’individuazione delle disposizioni del codice deontologico effettivamente applicabili nella specie, ai sensi dell’art.65, comma 5, dellalegge n. 247 del 2012(sebbene risulti comunque evidente la sovrapposizione tra i precetti, vecchi e nuovi, richiamati dal ricorrente), occorre rammentare (sulla scorta di orientamento consolidato di questa Corte: tra le altre, Cass., sez. un., 4 febbraio 2009, n. 2637, Cass., sez. un., 25 giugno 2013, n. 15783, Cass., sez. un., 2 dicembre 2012, n. 24647, Cass., sez. un., 3 marzo 2018, n. 8038) che la violazione di detto codice, in quanto raccoglie disposizioni non aventi valore e forza di legge, ma integrativo dei precetti normativi, rileva in sede giurisdizionale non in sé, ma solo quando si colleghi alle ragioni (incompetenza, eccesso di potere o violazione di legge) per le quali l’art.56, terzo comma, delr.d.l. n. 1578 del 1933(convertito, con modificazioni, dallalegge n. 36 del 1934), consente il ricorso alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, per censurare unicamente un uso del potere disciplinare da parte degli ordini professionali per fini diversi da quelli per cui la legge lo riconosce.
Sicché, il controllo di legittimità non può avere ad oggetto l’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali effettuati dal CNF, salvo che tutto ciò si traduca in un palese sviamento di potere.
Per altro verso, il sindacato pur consentito sulle decisioni del CNF ai sensi dell’ultimo commadell’art. 360 c.p.c. riguarda, nella specie, quello previsto dal n. 5 dello stesso art. 360, nella vigente formulazione applicabile ratione temporis, ossia per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ciò secondo la prospettiva ermeneutica indicata da queste Sezioni Unite con la sentenza n. 8053 del 7 aprile 2014 (e, poi, dalle numerose pronunce successive conformi di questa Corte) e, dunque, alla luce dei canoni ermeneutici dettatidall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, con la conseguenza che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale (ossia la “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, la “motivazione apparente”, il “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e la “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”) che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Così orientato lo scrutinio delle censure, esse si mostrano palesemente rivolte ad una rivalutazione dei fatti e degli apprezzamenti del giudice disciplinare (segnatamente, quanto alla presunta giustificazione della mancata partecipazione alle udienze), ad essi sovrapponendo la lettura delle risultanze processuali operata dallo stesso ricorrente, senza che sia evidenziato un omesso esame di fatto, storico, decisivo, né una qualsivoglia anomalia motivazionale (in ogni caso non ravvisabile nella sentenza impugnata), siccome riconducibile alle ipotesi paradigmatiche innanzi richiamate.
E ciò a prescindere dall’inconsistenza stessa della doglianza relativa alla presunta limitazione del precetto disciplinare al solo comportamento del difensore d’ufficio che non presenzi all’udienza senza giustificazione idonea, giacché, a tacer d’altro (ossia del fatto che detto comportamento può integrare la violazione del dovere di diligenza imposto dalla stessa legge professionale: art.3, comma 3, dellalegge n. 247 del 2012), sia nel vecchio (art. 38), che nel nuovo codice deontologico (art. 26), la violazione dei “doveri professionali” viene a concretarsi in ragione dell’inescusabile “mancato, ritardato o negligente compimento di atti inerenti al mandato”, quale locuzione, quest’ultima, da intendersi ricomprensiva della necessaria attività processuale del difensore nominato.
3. – Con il secondo, articolato, mezzo è dedotta violazione o falsa applicazione degli artt. 5, 6 cdf, 9, 29, n. 8, ncdf, 118 eD.P.R. n. 115 del 2002,art.85.
Il CNF avrebbe errato a ritenere che la difesa d’ufficio del minore L. (svoltasi come assistenza alla convalida dell’arresto, proposizione del ricorso al Tribunale della libertà contro la misura cautelare applicata e assistenza al giudizio immediato) – per la quale esso avvocato chiedeva il pagamento di un compenso complessivamente pari ad Euro 1.085,00 – non dovesse essere retribuita (come, del resto, previstodall’art. 31 disp. att. c.p.p.e dal combinato disposto degliartt. 369-bis c.p.p., lett. d), eL. n. 217 del 1990,art.8), operando così un inammissibile sillogismo tra difesa d’ufficio e patrocinio a spese dello Stato, al quale beneficio il minore non avrebbe potuto accedere per ragioni reddituali, nè, in ogni caso, l’ammissione del quale era mai stata richiesta.
Di qui, pertanto, l’insussistenza della violazione delD.P.R. n. 115 del 2002,art.85e, con essa, quella dei doveri professionali di probità e decoro.
Doveri, questi, che, comunque, non potevano dirsi violati in ragione del fatto che, contrariamente a quanto desunto dal CNF dal combinato disposto di cui alD.P.R. n. 115 del 2002,artt.82,116e118, esso avvocato D.G. (non iscritto nell’elenco degli avvocati per il patrocinio a spese dello Stato) non era stato mai destinatario di una liquidazione giudiziale e di un decreto di pagamento del compenso (che non poteva confondersi con il decreto ingiuntivo ottenuto a tal fine dal Giudice di pace di Milano) per l’attività professionale prestata in favore del minore L. (mai ammesso al predetto beneficio di legge), né nei confronti di quest’ultimo (bensì dei suoi genitori) aveva avanzato richiesta di pagamento, senza peraltro in ciò utilizzare modi “sgarbati” o minacciosi.
3.1. – Il motivo è infondato.
IlD.P.R. n. 115 del 2002,art.85, inserito nel Capo 4 del Titoli 1 della Parte Terza di detto d.P.R., pone al difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato il divieto di “chiedere e percepire dal proprio assistito compensi o rimborsi a qualunque titolo, diversi da quelli previsti dalla presente parte del testo unico” (comma 1); divieto la cui violazione “costituisce grave illecito disciplinare professionale” (comma 3).
Il Titolo 3 della stessa Parte Terza delD.P.R. n. 115 del 2002estende, a taluni “limitati effetti”, la disciplina del patrocinio a spese dello Stato prevista per il processo penale alla liquidazione dell’onorario e delle spese al difensore d’ufficio del minore, come previsto dall’art. 118 dello stesso d.P.R..
A differenza dell’estensione contemplata dal precedente art. 116 per la liquidazione di onorario e spese al difensore d’ufficio (da intendersi, per un rapporto di reciproca esclusione tra norme, quello di persona maggiorenne), che è ammessa solo “quando il difensore dimostra di aver esperito inutilmente le procedure per il recupero dei crediti professionali” e, quindi, dopo essersi rivolto (inutilmente) alla parte assistita, la previsione del citato art. 118 impone all’avvocato d’ufficio del minore di avvalersi della procedura di liquidazione di cui all’art. 82 del medesimoD.P.R. n. 115, dovendo, pertanto, essere l’autorità giudiziaria a provvedere alla liquidazione di onorari e spese.
Tale necessaria procedura – che è consentanea rispetto al “diritto alla retribuzione del difensore di ufficio” (art. 31 disp. att. c.p.p.) – prescinde dalla circostanza che il minore possa, o meno, essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato, quale verifica che la stessa norma delD.P.R. n. 115 del 2002,art.118prevede a valle del provvedimento giudiziale di liquidazione in favore del difensore d’ufficio.
Ne consegue che è corretta la decisione del CNF di ritenere sussistente la violazione (integrante, come detto, “grave illecito disciplinare”) dell’art. 85 dello stessoD.P.R. n. 115 del 2002- la cui disciplina attiene espressamente ai “compensi e rimborsi” della Parte Terza del medesimoD.P.R. n. 115, nella quale Parte è, per l’appunto, ricompresa anche la regolamentazione del citato art. 118 – integrata dalla condotta dell’avvocato D.G., che, nella qualità di difensore d’ufficio del minore L. nel procedimento penale a carico di quest’ultimo, ha chiesto ai genitori, legali rappresentanti, del medesimo minore il pagamento dei compensi per l’attività difensiva svolta, senza attivare, invece, la procedura di liquidazione anzidetta, quale unico necessario strumento per ottenere il compenso ad esso spettante, posto soltanto a carico dello Stato.
4. – Con il terzo mezzo è prospettata violazione degli artt. 5, 6 e 38 cdf, nonché 9, 26 e 29 ncdf.
Il CNF, in punto di applicazione della sanzione, avrebbe errato ad applicare le norme del nuovo codice deontologico (che all’art. 29, n. 8, prevedevano la sospensione dall’esercizio della professione) in luogo di quelle vigenti al momento del fatto, che non tipizzavano la sanzione applicabile e, dunque, si palesavano più favorevoli; sicché, la sanzione irrogabile era semmai quella della censura, da ritenersi quella più adeguata ai fatti contestati.
Così come avrebbe errato il giudice disciplinare a non applicare la norma sulla prescrizione degli illeciti disciplinari “anteriore alla riforma del codice deontologico”, in forza della quale, “tenuto conto delle sospensioni operate” e dell’epoca dei fatti contestati (anni 2008 e 2009), la prescrizione sarebbe maturata.
4.1. – Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.
4.1.1. – E’ infondato là dove nella sostanza (e al di là dell’inammissibile evocazione, per le ragioni innanzi dette, delle sole disposizioni del codice deontologico) postula, ai fini dell’applicazione della disposizione più favorevole ai sensi dellaL. n. 247 del 2012,art.65, comma 5, che non potesse essere applicabile la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione forense perché prevista soltanto dal nuovo codice deontologico, all’art. 29, n. 8, e non già al momento della commissione degli illeciti disciplinari, epoca in cui si assume non essere le sanzioni tipizzate.
Anzitutto, il ricorrente evoca, ai predetti fini, la centralità della disposizione dell’art. 29, n. 8, ncdf, che, però, non appare pertinente rispetto all’incolpazione che lo riguarda, poiché la disposizione concerne espressamente il difensore nominato dalla parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato e non il difensore d’ufficio del minore, mentre, come detto, l’individuazione della condotta di indebita richiesta di compensi, costituente nella specie illecito disciplinare, si rinviene nel combinato disposto delD.P.R. n. 115 del 2002,artt.116e85.
Inoltre, la doglianza pretermette il dato, essenziale, della pluralità dei comportamenti che sono stati oggetto di valutazione disciplinare (oltre a quello anzidetto, anche la mancata partecipazione alle udienze) e ai quali, complessivamente, il CNF ha adeguato (art. 20 ncdf) la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per la durata di mesi due, ossia nel limite edittale minimo contemplato sia dalR.D.L. n. 1578 del 1933,art.40, vigente all’epoca dei fatti illeciti disciplinari ascritti, sia dall’art. 22 ncdf, in forza della base legale di cui allaL. n. 247 del 2012,art.53, vigente al momento della decisione del CNF. Con l’ulteriore conseguenza, quindi, dell’insussistenza, nel passaggio dal “vecchio” al “nuovo” regime, di una disciplina sanzionatoria in concreto (così come occorre individuare la lex mitior: Cass., sez. un., 27 dicembre 2017, n. 30993) più favorevole per l’avvocato D.G..
4.1.2. – E’ inammissibile, poi, la censura con cui si intende aggredire la scelta della sanzione più opportuna, che spetta al giudice disciplinare in base all’apprezzamento della gravità del fatto e della condotta addebitata all’incolpato, non essendo prospettato alcun vizio sindacabile in questa sede (alla stregua delR.D.L. n. 1578 del 1933,art.56e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ma soltanto una diversa, e non consentita, valutazione del ricorrente stesso in funzione della predetta scelta.
4.1.3. – E’, infine, infondata la doglianza con la quale si sostiene essere maturata la prescrizione degli illeciti disciplinari.
Nel giudizio disciplinare a carico di avvocato, l’eccezione di prescrizione dell’azione disciplinare può essere sollevata, per la prima volta, con il ricorso per cassazione avverso la decisione del CNF, ove il relativo esame non comporti indagini fattuali (Cass., sez. un., 11 marzo 2004, n. 5038, Cass., sez. un., 9 ottobre 2013, n. 22956).
Sulla scorta, dunque, delle sole circostanze di fatto evidenziate dalla sentenza del CNF impugnata in questa sede (e non affatto smentite dal ricorso del D.G.), risulta che, rispetto a condotte costituenti illecito disciplinare poste in essere nel periodo novembre 2008/novembre 2009, l’apertura dei relativi procedimenti disciplinari si aveva nell’ottobre 2009, nel giugno 2010 e nel gennaio 2011, mentre la decisione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Milano veniva resa pubblica il 5 dicembre 2012 e il successivo 20 dicembre 2012 l’avvocato D.G. la impugnava dinanzi al CNF. Da siffatti elementi emerge in modo evidente che la prescrizione quinquennale di cui alR.D.L. n. 1578 del 1933,art.51(applicabile in relazione al momento di contestazione degli addebiti: Cass., sez. un., 18 aprile 2018, n. 9558;) non può dirsi affatto maturata (e, del resto, neppure lo sarebbe stata in applicazione dellaL. 247 del 2012,art.56), tenuto conto degli atti interruttivi istantanei della fase del procedimento disciplinare di carattere amministrativo dinanzi al Consiglio dell’ordine e di quelli ad effetto permanente della fase giurisdizionale davanti al CNF (Cass., sez. un., 2 aprile 2003, n. 5072; Cass., sez. un., 3 febbraio 2004, n. 1905).
5. – Il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile nei confronti del Consiglio Nazionale Forense e rigettato per il resto.
Non occorre provvedere alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità, in assenza di attività difensiva della parte ritualmente intimata.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso nei confronti del Consiglio Nazionale Forense e lo rigetta per il resto.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del citato art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezioni Unite Civili della Corte suprema di Cassazione, il 5 giugno 2018.

Il convivente ha diritto alla restituzione delle somme versate per motivi estranei alla convivenza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Svolgimento del processo
1. S.F. ricorre per cassazione, sulla base di quattro motivi, avverso la sentenza n. 1526/14 del 17 giugno 2014 della Corte di Appello di Bologna, che – riformando la sentenza pronunciata dal Tribunale di Ravenna n. 25/08 del 20 maggio 2008, in accoglimento del gravame proposto da P.E. – ha condannato l’odierna ricorrente sia a pagare al predetto P., a titolo di regresso ex art. 1950 c.c., la somma di Euro 5.388,15 (oltre interessi, nella misura legale, dal 22 gennaio 2007 al saldo), sia a restituirgli, ciò che qui interessa, un prestito dal primo erogatole nella misura di Euro 37.500,00.
2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente di aver intrattenuto, per circa sei anni (dal 1998 al 2004), una convivenza more uxorio con il P., cimentandosi anche in una comune attività imprenditoriale per il sostentamento della vita di coppia, con scelta caduta su un negozio di abbigliamento, per la cui apertura veniva stipulato – in data 4 novembre 2000 – un mutuo chirografario, sottoscritto da entrambi i conviventi, ma in relazione al quale il P. rilasciava pure duplice garanzia fideiussoria.
Assume, dunque, l’odierna ricorrente che ambedue i conviventi si sarebbero occupati, con le stesse mansioni e pari capacità di gestione, dell’esercizio commerciale suddetto, contribuendo, inoltre, economicamente alla vita di coppia nei limiti delle proprie risorse.
Terminata la relazione affettiva nel giugno 2004, la S. ed il P. – secondo quanto si legge sempre nel ricorso – cedevano ad un terzo acquirente, nei primi mesi del 2005, l’attività commerciale creata, senza che nessuna pretesa economica, in occasione dell’operazione di vendita, fosse avanzata dal P..
Radicato da quest’ultimo un giudizio cautelare per la tutela del suo diritto, ritenendo il P. che la S. fosse propria debitrice in forza delle fideiussioni da esso prestate, oltre che in virtù di prestiti personali ammontanti ad Euro 37.500,00, denegata la richiesta cautelare, l’adito Tribunale respingeva anche l’azione volta all’accertamento del diritto dell’attore sia a rimanere indenne e manlevato da qualsivoglia conseguenza pregiudizievole derivante dalle fideiussioni prestate (o, in subordine, ad ottenere la ripetizione di tutte le somme che, per effetto delle stesse, fosse stato tenuto a pagare), sia ad ottenere la restituzione dei prestiti effettuati.
Proposto appello dal P., la Corte felsinea, in accoglimento del gravame, provvedeva nei termini sopra riassunti, e ciò sul rilievo dell’inesistenza, nel caso di specie, degli “estremi per l’accertamento di una società di fatto” tra le parti, ovvero “per affermare l’esistenza di una comunione di fatto dal punto di vista patrimoniale estesa anche a rapporti estranei all’instaurata convivenza”.
Inoltre, quanto alla prima domanda attorea, la sentenza oggi impugnata sottolineava che “la veste di fideiussore del P. ha un formale riscontro documentale che non è possibile superare sulla base di considerazioni meramente indiziarie”. Con particolare riferimento, poi, alla domanda di restituzione del prestito, la stessa veniva accolta sulla base di un prospetto contabile, recante “l’indicazione dei soldi resi ad E. e da dare ad E.”, dandosi atto come siffatta scrittura fosse stata “sottoscritta dalla S.” (che provvedeva al riconoscimento di “sottoscrizione e contenuto” della stessa, in occasione dell’interrogatorio formale), evenienza che ne avrebbe avvalorato “la natura di atto formale e di riconoscimento di debito e non meramente contabile”.
3. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Bologna ha proposto ricorso per cassazione la S., sulla base – come detto di quattro motivi.
3.1. Con il primo motivo, si deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – “violazione degli artt. 1324, 1362 e 1963 c.c., e 2697 c.c., nonchè degli artt. 113 e 115 c.p.c.”, sul rilievo che sarebbero stati disattesi “i criteri ermeneutici di interpretazione indicati dall’art. 1362 c.c. e ss.”, nonchè per essere stata “omessa la ricostruzione della volontà delle parti”, oltre che per essere stato “posto a fondamento della decisione una prova non proposta dalle parti”.
In particolare, si assume che il summenzionato prospetto contabile consisterebbe in “un foglio non sottoscritto, contenente confusi dati numerici, nemmeno sommati algebricamente e comunque interpretati senza essere posti in relazione al comportamento delle parti e alla loro volontà”.
Più esattamente, la “completa assenza di sottoscrizione”, comporterebbe che il giudice di appello, “in violazione di quanto imposto dall’art. 115 c.p.c.”, avrebbe “posto a fondamento della propria decisione un documento inesistente, mai offerto in produzione dalle parti”. Inoltre, la decisione impugnata avrebbe riconosciuto “valore ricognitivo ad un calcolo (tot. Euro 37.500,00) che non ha neppure alcuna connessione con i dati numerici che lo precedono, sommando algebricamente i quali si giunge ad un risultato differente e pure inferiore”. Infine, si nega che “da detto documento possa trasparire “una specifica intenzione ricognitiva” a favore del P.”, atteso che – secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità – per l’applicazione dell’art. 1988 c.c., sarebbe “necessaria la consapevolezza del riconoscimento desunta da una dichiarazione univoca, tale da escludere che la relativa dichiarazione possa avere finalità diverse o che il riconoscimento resti condizionato da elementi estranei alla volontà del debitore.
Con specifico riferimento a tale ultimo profilo di doglianza, va rimarcato come la ricorrente censuri la sentenza impugnata giacchè avrebbe “omesso di considerare” che la dichiarazione de qua era “riferita ad un’attività gestita in comune dalle parti” (il negozio di abbigliamento), come sarebbe stato agevole accertare sulla base di una serie di dati, idonei a rivelare la effettiva volontà delle parti, e la cui mancata valorizzazione integrerebbe, dunque, violazione dei criteri ermeneutici indicati dalla legge. Rileverebbero, infatti, in tal senso: la disponibilità, da parte del P., del conto corrente intestato alla ditta S.F., avendo delega completa ad operare su di esso, con potere di emissione di assegni; la conduzione e definizione, sempre ad opera del medesimo, degli accordi per la cessione a terzi dell’azienda; l’espresso consenso, manifestato, per iscritto, a tale operazione, senza avanzare alcuna rivendicazione in merito a propri asseriti crediti verso la S.; la fattiva ed assidua presenza del P. nella gestione dell’esercizio commerciale.
3.2. Il secondo motivo, sempre prospettato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), ipotizza “violazione e falsa applicazione degli artt. 1987 e 1988 c.c.”, segnatamente laddove la sentenza impugnata ha ritenuto che il suddetto prospetto contabile fosse “di per sè fonte di obbligazione di pagamento”, così omettendo ogni accertamento sul rapporto in cui detta dichiarazione risultava intervenuta.
Sul presupposto secondo cui “la promessa di pagamento e la ricognizione di debito non costituiscono promesse unilaterali ai sensi dell’art. 1987 c.c., e dunque non sono fonti di obbligazioni”, essendo la “loro efficacia limitata al tema della prova del rapporto fondamentale che ne costituisce l’oggetto”, producendo solo una “inversione dell’onere probatorio circa l’esistenza dell’obbligazione sottostante”, la ricorrente censura la sentenza impugnata perchè avrebbe disatteso tali principi. In base ad essi, si ipotizza nel ricorso, il riconoscimento del debito “comporta unicamente l’inversione dell’onere della prova”, e ciò “in quanto la sua esistenza, estensione, validità ed efficacia dipende dalla prova del rapporto obbligatorio in cui interviene”. Orbene, nel caso di specie, la Corte di Appello di Bologna avrebbe “completamente omesso l’accertamento del rapporto sottostante alla ritenuta ricognizione”, e ciò “prescindendo dai “legami” esistenti tra le parti”, ed in particolare “omettendo ogni opportuno accertamento” con riguardo alla “comunione di fatto dal punto di vista patrimoniale”, esistente tra i conviventi more uxorio ed “estesa anche ai rapporti estranei all’instaurata convivenza”.
3.3. Il terzo motivo è, invece, proposto simultaneamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), denunciandosi, da un lato, violazione e falsa applicazione dell’art. 2034 c.c., e art. 430 c.c., comma 2, nonchè, dall’altro, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero “l’esistenza di obbligazioni naturali” a carico del P., statuendo erroneamente la Corte felisinea il diritto dello stesso a ripetere quanto pagato in forza del loro adempimento.
Si censura il fatto che il giudice di appello, nell’ambito di un’interpretazione riduttiva dei doveri morali e sociali ravvisabili nelle relazioni more uxorio, avrebbe erroneamente escluso che i versamenti di somme da parte del P. potessero costituire adempimento di detti obblighi, disattendendo quella giurisprudenza di legittimità che nega il diritto del convivente di ripetere le eventuali attribuzioni patrimoniali effettuate nel corso o in relazione alla convivenza.
La sentenza impugnata, inoltre, non avrebbe ritenuto opportuno valutare l’adeguatezza delle elargizioni rispetto alle consistenze patrimoniali del P. e della S., “limitandosi a vedere il rapporto tra le parti come una sterile interazione tra un soggetto creditore e un soggetto debitore”, mentre il primo “contribuiva alla gestione del negozio assiduamente e fattivamente”, giovandosi anche dei suoi ricavi.
3.4. Infine, il quarto motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), – censura la sentenza impugnata per avere “completamente omesso di accertare l’esistenza di una comunione di fatto” tra i due conviventi more uxorio, essendo mancato nel ragionamento del giudice di seconde cure ogni riferimento a dati che lo hanno indotto ad una simile conclusione.
4. Ha proposto controricorso P.E., per resistere all’avversaria impugnazione.
In punto di fatto, il controricorrente precisa che il documento prodotto nel presente giudizio dalla S. (il prospetto contabile), del quale ella contesta l’idoneità a costituire ricognizione di debito, in ragione, tra l’altro, dell’assenza di sottoscrizione, costituirebbe solo l’estratto di un più ampio documento già presente agli atti dei due gradi di merito del presente giudizio. Si tratterebbe, infatti, solo della prima di tre complessive pagine dell’agenda su cui l’odierna ricorrente teneva la propria contabilità, l’ultima delle quali recante non solo la sottoscrizione dell’interessata, ma anche la stampigliatura della data in cui fu trasmessa via fax al commercialista.
Ciò premesso, e non senza ulteriormente precisare come controparte non abbia “mai confutato esistenza ed ammontare delle elargizioni ricevute dal P., essendosi limitata unicamente a contestare la natura di prestito”, l’odierno controricorrente ribadisce come la S., nel corso dell’interrogatorio formale effettuato nel primo grado di giudizio, abbia confermato il contenuto e la sottoscrizione del documento de quo. Evidenzia, inoltre, che contrariamente a quanto sostenuto nell’avversario ricorso – la somma algebrica degli importi indicati nel predetto documento (Euro 37.622,73) corrisponde, sostanzialmente, a quella cifra di Euro 37.500,00 per la cui ripetizione esso P. ha agito in giudizio, al netto di un piccolo arrotondamento al ribasso.
Quanto, poi, al merito delle censure avanzate dalla ricorrente, il P. sottolinea come essa insista a sostenere, “per non restituire quanto ricevuto”, che i prestiti ricevuti “rientrano nell’alveo delle obbligazioni naturali”. Così, tuttavia, non sarebbe, giacchè “una cosa sono le spese sostenute per le necessità familiari” (delle quali esso P., difatti, “si è mai sognato di tenere una contabilità analitica e dettagliata durante il rapporto di convivenza, nè si è mai sognato di chiedere la restituzione dopo)”, altro, invece, “i prestiti effettuati in favore dell’attività commerciale della S.”.
Infondata, poi, sarebbe la doglianza relativa alla “omissione” in cui la Corte di Appello sarebbe incorsa quanto all’accertamento delle obbligazioni naturali, giacchè il giudice di seconde cure avrebbe, piuttosto, espressamente “escluso” qualsiasi ricostruzione dei rapporti intercorsi tra le parti che richiami il disposto dell’art. 2034 c.c.. Inoltre, si evidenzia come l’odierna ricorrente non abbia “mai offerto il benchè minimo elemento di prova, atto a far ipotizzare che le somme le fossero state corrisposte dal P. in adempimento di un’obbligazione naturale”.
Infine, quanto all’omesso esame della questione relativa all’esistenza di una “comunione di fatto” tra i conviventi more uxorio, il P. – non senza previamente evidenziare come l’accertamento della stessa non sarebbe stato richiesto da nessuno, nè in primo nè in secondo grado, costituendo, così, una domanda nuova – esclude, in ogni caso, che le risultanze istruttorie ne abbiano confermato la ricorrenza. Si sottolinea, infine, come siffatta tesi non possa – in ogni caso – trovare giuridico accoglimento, giacchè ciò equivarrebbe ad ipotizzare per i conviventi more uxorio un “regime di comunione legale “in automatico”, senza neppure la possibilità di scegliere un diverso regime patrimoniale, a differenza di quanto avviene per i coniugi”, in disparte ogni altro rilievo circa le conseguente aberranti soprattutto in termini di incertezza sulla circolazione dei beni derivanti dall’applicazione delle regole dettate dall’art. 177 c.c..
5. Entrambe le parti hanno presentato memorie ex art. 378 c.p.c., ribadendo quanto già affermato.

Motivi della decisione
6. Il ricorso è da respingere.
6.1. In particolare, i motivi primo, secondo e terzo – da trattare congiuntamente, in quanto censurano, sotto diversi angoli visuali, la sentenza impugnata, laddove ha ritenuto il prospetto contabile inviato dalla S. al proprio commercialista idoneo ad integrare riconoscimento del debito, ai fini ed agli effetti di cui all’art. 1988 c.c. – non sono fondati.
6.1.1. In particolare, con il primo motivo si contesta che il documento de quo possa considerarsi espressivo di uno “specifico intento ricognitivo”, trattandosi di “un foglio non sottoscritto, contenente confusi dati numerici, nemmeno sommati algebricamente e comunque interpretati senza essere posti in relazione al comportamento delle parti e alla loro volontà”.
Proposta la censura in questi termini (e non, invece, lamentando che la ricognizione, perchè possa spiegare i suoi effetti, deve essere “rimessa direttamente dall’obbligato al creditore, senza intermediazioni”, cfr. Cass. Sez. 3, sent. 14 febbraio 2012, n. 2104, Rv. 621529-01), la stessa va rigettata.
E ciò non soltanto perchè i dubbi sull’assenza della sottoscrizione e sulla congruità, dal punto vista algebrico, delle cifre in esso riportate, sono superabili sulla scorta dei rilievi proposti dal controricorrente P., ma soprattutto in ragione delle considerazioni che seguono.
Sul punto, infatti, va ribadito che la “ricognizione di debito, come qualsiasi altra manifestazione di volontà negoziale, può risultare anche da un comportamento tacito, purchè inequivoco, tale essendo il contegno che nessuno terrebbe se non al fine di riconoscersi debitore, e senza altro scopo se non quest’ultimo” (Cass. Sez. 3, sent. 21 luglio 2016, n. 14993, Rv. 641448-01), dovendo inoltre compiersi, nell’interpretazione dell’atto ricognitivo, “una ricostruzione dell'”intenzione delle parti” (rilevante sotto il profilo di cui all’art. 1362 cod. civ.) afferente, in via esclusiva, alla volontà espressa dal dichiarante, e non certamente a quella – peraltro, del tutto ipotetica del destinatario di quelle dichiarazioni” (Cass. Sez. 3, sent. 1 agosto 2002, n. 11433, Rv. 556500-01). Proprio a tale ultima volontà, per contro, pretenderebbe di attribuire rilievo la ricorrente, richiamando il contributo del P. alla gestione della (asseritamente) comune attività imprenditoriale.
Corrobora, d’altra parte, l’esito del rigetto anche il rilievo secondo cui “l’indagine sul contenuto e sul significato della dichiarazione al fine di stabilire se importino ricognizione di debito ai sensi dell’art. 1988 c.c., rientra nel potere discrezionale del giudice di merito” (cfr. Cass. Sez. 1., sent. 1 febbraio 2007, n. 2205, Rv. 595044-01), potere ormai sindacabile solo entro le strette maglie del “novellato” testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
6.1.2. Ciò premesso, spostando l’analisi dal piano della astratta “idoneità ad esprimere l’intento ricognitivo”, propria della dichiarazione suddetta, a quello – evocato dal secondo motivo di ricorso – degli effetti destinati a scaturire da essa, deve qui ribadirsi come l’odierna ricorrente censuri il fatto che l’astrazione processuale, conseguente all’avvenuta ricognizione, obbligasse il giudice di appello a compiere “l’accertamento del rapporto sottostante alla ritenuta ricognizione”, ciò che il medesimo avrebbe dovuto fare senza poter prescindere “dai “legami” esistenti tra le parti”, ed in particolare dalla supposta “comunione di fatto” tra i già conviventi more uxorio.
Ai fini del rigetto del motivo, tuttavia, è sufficiente osservare come la già ricordata astrazione processuale conseguente alla ricognizione si sostanzi in una “relevatio ab onere probandi” che dispensa il destinatario della dichiarazione dalla necessità di provare il rapporto sottostante al debito riconosciuto, che si presume fino a prova contraria, salvo, appunto, che “la parte da cui provenga dimostri che il rapporto medesimo non sia stato instaurato, o sia sorto invalidamente” (Cass. Sez. 1, sent. 13 giugno 2014, n. 13506, Rv. 631306-01), ovvero “che esista una condizione o un altro elemento ad esso attinente che possa comunque incidere sull’obbligazione derivante dal riconoscimento” (Cass. Sez. 1, sent. 13 ottobre 2016, n. 20689, Rv. 642050-03).
Conseguentemente, non era il giudice a dover accertare quale fosse il rapporto sottostante, ma essa S. a doverne dimostrare l’inesistenza, l’estinzione o l’invalidità.
6.1.3. Ne deriva, pertanto, che il discorso finisce – di nuovo – con il traslare su di un ulteriore piano (al quale fa riferimento il terzo motivo di ricorso), ovvero quello della supposta erroneità della decisione impugnata nell’escludere che i versamenti di somme da parte del P. potessero costituire adempimento di obbligazioni naturali verso la convivente S..
Nondimeno, anche questo motivo è destinato al rigetto.
Se, infatti, è innegabile – come argomenta la ricorrente nel proprio atto di impugnazione – che le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente more uxorio effettuate nel corso del rapporto configurino l’adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 c.c., purchè a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza (cfr. Cass. Sez. 1, sent. 22 gennaio 2014, n. 1277, Rv. 629802-01; Cass. Sez. 2, sent. 13 marzo 2003, n. 3713, Rv. 651116-01), siffatta conclusione non giova, di per sè, alla S..
Sarebbe stato, infatti, suo onere dimostrare che gli importi – pari, complessivamente, a Euro 37.500,00 – risultanti dal documento dalla stessa sottoscritto (ed indicati, tra l’altro, come “da dare ad E.”), dei quali il P. ha reclamato la restituzione, fossero proprio quelli corrispondenti, invece, ad attribuzioni compiute dallo stesso in adempimento degli obblighi nascenti dal rapporto di convivenza.
Valga, sul punto, rilevare che se il destinatario della dichiarazione ex art. 1988 c.c., “stante l’astrazione della causa debendi”, allorchè agisca “per l’adempimento della obbligazione”, ha soltanto l’onere di provare la ricorrenza della promessa o della ricognizione di debito, “e non anche la esistenza del rapporto giuridico da cui essa trae origine”, incombe, invece, all’autore della dichiarazione “l’onere di provare la inesistenza o la invalidità o l’estinzione del rapporto fondamentale”; di conseguenza, “è di palmare evidenza che non è sufficiente perchè detto onere possa dirsi adempiuto, che lo stesso affermi e dimostri che “altro” rapporto fondamentale è stato estinto”, essendo, invece, indispensabile non tanto la dimostrazione che “in precedenza esisteva un rapporto di debito e credito e questo, per qualsiasi motivo, si è estinto, ma che esista coincidenza – concreta tra tale rapporto (di cui è data la prova) e quello “presunto” per effetto della ricognizione di debito e non (…) una mera “compatibilità” astratta tra i due titoli” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 23 febbraio 2006, n. 4019, Rv. 587935-01).
6.2. Infine, il quarto motivo è inammissibile.
Esso, a tacer d’altro (ovvero al profilo di “novità” denunciato dal controricorrente, idoneo a comportare il medesimo esito processuale: cfr., ex multis, Cass. Sez. 1, sent. 25 ottobre 2017, n. 25319; Rv. 645791-01), si sostanzia nella censura, più che dell’omesso esame di un “fatto”, della mancata disamina, da parte della Corte felsinea, della questione giuridica della configurabilità di una “comunione di fatto” (a somiglianza della comunione patrimoniale tra i coniugi) tra i conviventi more uxorio.
Così intesa, dunque, la censura non appare idonea ad integrare, neppure astrattamente, il vizio suscettibile di riconduzione al novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), visto che esso deve investire “non una “questione” o un “punto” della sentenza” (come avvenuto, invece, nel presente caso), “ma un fatto vero e proprio, e quindi un fatto principale, ex art. 2697 c.c. (cioè, un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo), oppure secondario (cioè, dedotto in funzione di prova di un fatto principale)”; cfr., da ultimo, in motivazione Cass. Sez. 1, sent. 8 settembre 2016, n. 17761, R. 641174-01; in senso analogo – sulla necessità che l’omesso esame investa sempre un “fatto storico, principale o secondario” – si veda anche Cass. Sez. 6-5, ord. 4 ottobre 2017, n. 23238, Rv. 646308-01.
7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
8. A carico della ricorrente, rimasta soccombente, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e condanna S.F. a rifondere ad P.E. le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 9.600,00, più Euro 200,00 per esborsi e spese forfettarie nella misura del 15%, oltre accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

MODIFICA DELLE CONDIZIONI DI SEPARAZIONE E DIVORZIO

Di Gianfranco Dosi
I Il quadro normativo
Oggetto dei procedimenti di separazione e di divorzio sono vicende familiari in continua evoluzione. Pertanto è evidente che questi procedimenti devono essere governati non solo dal principio di intrinseca giustizia dei provvedimenti (a presidio del quale dovrebbe essere assicurata sempre la loro impugnazione), ma anche dal principio di necessaria modificabilità di tutte le decisioni, affinché i provvedimenti possano adattarsi, su istanza di parte, al variare delle circostanze che ne costituiscono il presupposto di fatto.
Le regole del processo sono chiamate, quindi, a garantire nell’ambito del diritto di famiglia sia la possibilità di impugnazione dei provvedimenti che l’attuazione del principio di modificabilità (in ra¬gione, perciò, della validità rebus sic stantibus, in questo ambito, di tutte le decisioni). Tuttavia su entrambi i fronti (impugnazione e modificazione) non sempre il sistema si presenta lineare tanto che su molti problemi, sono più gli interrogativi che le risposte certe. Per esempio non tutti i prov¬vedimenti sono considerati dalla giurisprudenza impugnabili e non tutte le decisioni sono sempre processualmente modificabili.
Ci si sofferma in questa sede sulla modificabilità dei provvedimenti, tenendo presente che l’espres¬sione “modifica delle condizioni” di separazione di divorzio fa soprattutto riferimento ai procedi¬menti rispettivamente ex art. 710 c.p.c. ed ex art. 9 della legge sul divorzio, successivi al giudicato di separazione e di divorzio, ma che in questa sede è utilizzata anche con riferimento alle modifiche dei provvedimenti in corso di causa.
Possono essere modificati sia i provvedimenti che concernono i rapporti tra coniugi che quelli che riguardano l’affidamento e il mantenimento dei figli.
a) Le decisioni che riguardano i coniugi
Separazione
Per quanto concerne la separazione, il principio sostanziale di modificabilità è espresso, per i rap¬porti tra i coniugi nell’art. 156 del codice civile (Effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra coniugi) il cui ultimo comma prevede che “qualora sopravvengano giustificati motivi, il giudice, su istanza di parte, può disporre la revoca o la modifica dei provvedimenti di cui ai commi prece¬denti”. Si tratta di un principio di diritto sostanziale e processuale, che può considerarsi espressio¬ne di un più generale principio di necessaria corrispondenza tra l’assetto economico stabilito dal giudice o concordato dalle parti e l’evoluzione dei presupposti su cui si fondava.
In sede processuale le modifiche sono possibili sia in corso di causa che dopo il giudicato.
In corso di causa il principio di modificabilità dei provvedimenti disposti con l’ordinanza presiden¬ziale è indicato nell’ultimo comma dell’art. 709 c.p.c. nel quale si prevede che “i provvedimenti temporanei ed urgenti assunti dal presidente con l’ordinanza di cui al terzo comma dell’articolo 708 possono essere revocati o modificati dal giudice istruttore”. In questo testo della norma, che si deve ad una riforma del 2005, è stato cancellato l’inciso che compariva nel previgente quarto comma dell’art. 708 dove la revoca o la modifica venivano ammesse “se si verificano mutamenti nelle circostanze” con la conseguenza che la modificabilità in corso di causa non è condizionata in linea di principio da mutamenti nelle circostanze.
Non solo i provvedimenti adottati dal presidente, ma anche quelli del giudice istruttore possono essere sempre modificati in corso di causa, in attuazione del potere generale di modificazione delle ordinanze da parte del giudice che le ha pronunciate, previsto nell’art. 177 c.p.c.
La modifica può essere naturalmente chiesta in corso di causa a prescindere dal grado di giudizio (pertanto in tribunale o in corte d’appello) ma non davanti alla Corte di cassazione. Si tornerà su questo aspetto.
Per modifiche della situazione di fatto che intervengono dopo il giudicato il codice di procedura civile nell’ambito delle disposizioni processuali sulla separazione prevede all’art. 710 che “le parti possono sempre chiedere con le forme del procedimento in camera di consiglio, la modificazione dei provvedimenti riguardanti i coniugi e la prole, conseguenti la separazione” e la disposizione trova applicazione sia per i provvedimenti disposti dal giudice nel processo che per quelli concor¬dati in sede di separazione consensuale (art. 711 ultimo comma che rinvia all’art. 710).
È opportuno ricordare che originariamente l’art. 710 del codice di procedura civile prevedeva il rito ordinario a cognizione piena. Questo rito venne sostituito dal rito camerale con la legge 29 luglio 1988, n. 331.
Divorzio
La legge sul divorzio non ha una disposizione specifica di carattere sostanziale sulla modificabilità dei provvedimenti concernenti i coniugi, analoga a quella contenuta nell’art. 156 c.c. per la sepa¬razione.
Il diritto di richiedere in corso di causa modificazioni è previsto in ambito processuale nell’art. 4, comma 8, seconda parte della legge 898/1970 dove si legge che “L’ordinanza del presidente può essere revocata o modificata dal giudice istruttore a norma dell’art. 177 del codice di procedura civile”. Quindi, anche in questo caso, “sempre” e non solo, in linea di principio, se si verificano mutamenti nelle circostanze.
Per le modifiche successive al giudicato dispone, invece, l’art. 9, primo comma, della legge sul divorzio, dove si prevede che “Qualora sopravvengono giustificati motivi dopo la sentenza che pro¬nuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, in camera di consiglio e, per i provvedimenti relativi ai figli, con la partecipazione del pubblico ministero, può, su istanza di parte, disporre la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere ai sensi degli articoli 5 e 6”.
È opportuno ricordare che ai sensi dell’art. 5, comma 8, della legge sul divorzio, ove tra ex coniugi sia stata concordata in sede divorzile la corresponsione di un assegno in unica soluzione, non sarà possibile per quanto attiene ai loro reciproci rapporti patrimoniali (non quindi per quanto concerne i figli) nessuna procedura di revisione delle condizioni economiche.
b) Le decisioni che riguardano i figli
Per le questioni connesse alla responsabilità genitoriale, il principio di modificabilità è espresso nell’art. 337-quinquies (come introdotto dal D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) intitolato “Revi¬sione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli” il quale afferma che “i genitori hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della responsabilità genitoriale su di essi e delle eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo”. Quest’ultima disposizione trova applicazione anche per il divorzio (art 6 della legge 898/1070 come da ultimo modificato dall’art. 98 del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 1541).
La riforma in tema di affidamento condiviso dei figli nati nel matrimonio o fuori dal matrimonio (legge 8 febbraio 2006, n. 54) ha ulteriormente arricchito il tema delle modifiche delle condizioni stabilite o pattuite tra i genitori in occasione della crisi di coppia, introducendo nel codice di proce¬dura civile l’art. 709-ter che attribuisce un potere di attuazione, di intervento e, appunto, anche di modifica, al giudice della causa in corso (“Per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale e della modalità di affidamento è competente il giu¬dice del procedimento in corso. Per i procedimenti di cui all’art. 710 è competente il tribunale del luogo di residenza del minore”).
II La modifica dei provvedimenti in corso di causa
Come si è visto, nel corso della causa di separazione o di divorzio il principio di modificabilità dei provvedimenti si sostanzia nella previsione legale che i provvedimenti “possono essere revocati o modificati dal giudice istruttore” (art. 709, ultimo comma c.p.c. e art. 4 comma 8, seconda parte della legge 898/1970). Non è previsto alcun presupposto ed anzi è stato cancellato nel 2005 il riferimento ai “mutamenti nelle circostanze” che era contenuto nel previgente art. 708 c.p.c. con la conseguenza che nessuna norma processuale prevede sbarramenti alla possibilità piena del giu¬dice di revocare o modificare l’ordinanza presidenziale e le stesse proprie decisioni.
È in ogni caso vero che l’art. 156 del codice civile (ma non l’art. 337-quinquies per i figli) afferma che la modifica può essere richiesta “qualora sopravvengano giustificati motivi”. Ed effettivamen¬te, proprio facendo riferimento a questa norma sostanziale, la prassi nei tribunali prevede che vi debbano essere specifiche sopravvenienze ai fini della modifica dei provvedimenti.
Forse proprio per il rigore di questa prassi il dibattito tra i giuristi negli ultimi anni si è concentrato sulle garanzie di impugnazione dei provvedimenti, finendo per convincere il legislatore ad intro¬durre il principio di reclamabilità se non altro dei provvedimenti provvisori e urgenti disposti in sede presidenziale di separazione e di divorzio. Ciò è avvenuto con la legge 8 febbraio 2006, n. 54 (sull’affidamento condiviso dei figli in sede di separazione) che ha interessato anche l’art, 708 del codice di procedura civile il quale all’ultimo comma ora prevede che entro il termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione a cura di parte, “contro i provvedimenti di cui al terzo comma si può proporre reclamo con ricorso alla corte d’appello che si pronuncia in camera di consiglio”.
Pertanto l’ordinanza presidenziale di separazione [e di divorzio per il rinvio espresso che ne fa l’art, 4 comma 3 della legge 54/2006] può essere, secondo la legge, sia reclamata in corte d’appello, che fatta oggetto di istanza di revoca o di modifica al giudice istruttore sulla base delle disposizioni richiamate all’inizio.
Sul rapporto tra reclamo dell’ordinanza presidenziale e istanza di modifica si è aperto dopo questa riforma un ampio dibattito in dottrina e in giurisprudenza che non è ancora giunto a conclusioni condivise. Per sintetizzarlo si può dire che, ferma una eterogeneità di posizioni nella giurispruden¬za di merito, la linea interpretativa che gode di maggiori consensi è quella che ritiene che nel pro¬cesso di separazione e divorzio il reclamo alla corte d’appello ex art. 708, ultimo comma, c.p.c. e il potere di revoca/modifica da parte del giudice istruttore ex art. 709, comma 4, c.p.c. rappresen¬tano entrambi strumenti di controllo pieno avverso l’ordinanza presidenziale, il cui coordinamento ha luogo sotto forma di alternatività tra i due rimedi (da ultimo App. Torino, 10 dicembre 2013) il cui principio viene condiviso anche nella parte in cui si sostiene l’inammissibilità del reclamo se proposto successivamente all’udienza davanti al Giudice istruttore (App. Firenze 9 aprile 2010;
1 Il testo attuale del secondo comma dell’art. 6 della legge sul divorzio prevede che “ Il tribunale che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio applica, riguardo ai figli, le disposizioni conte¬nute nel capo II, del titolo IX, del libro primo del codice civile”. Si applicano perciò a tutti i figli le ormai uniformi disposizioni previste in tema di separazione.
App. Firenze, 10 luglio 2008) nel senso che la parte può scegliere se reclamare in Corte d’appel¬lo il provvedimento o richiederne la revoca o la modifica al giudice istruttore, restando, s’intende, a suo carico il rischio di un provvedimento di inammissibilità da parte del giudice istruttore che inten¬desse aderire all’interpretazione che vuole quale presupposto della modifica una sopravvenienza. Quest’ultima opzione interpretativa – molto diffusa tra i giudici di merito – è stata fatta propria per esempio da Trib. Pisa, 2 marzo 2010; Trib. Pistoia 7 gennaio 2010.
Inaccettabile sembra essere l’opinione che in passato ha ritenuto inammissibile l’istanza di mo¬difica prima dello spirare del termine per il reclamo (che, in mancanza di notificazione potrebbe prolungarsi fin a sei mesi ex art. 327 c.p.c.) (Trib. Modena, 5 ottobre 2006) mentre appare ragionevole quanto deciso da App. Milano, 30 marzo 2007 che ha ritenuto inammissibile la proposizione di entrambi i rimedi.
III La modifica dei provvedimenti dopo la sentenza
a) Il presupposto del passaggio in giudicato della decisione di cui si chiede la revisione
A partire da Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 1993, n. 8389 è stato sempre confermato il princi¬pio che la domanda di modifica ai sensi dell’art. 710 c.p.c. dei provvedimenti riguardanti il coniuge e i figli conseguenti alla separazione presuppone il passaggio in giudicato della sentenza (ovvero dell’omologa della consensuale), quale evento costituente, appunto, presupposto processuale in senso tecnico, e non condizione dell’azione, con la conseguenza che la sussistenza di tale presup¬posto va accertata con riferimento al momento della domanda, non potendosi attribuire rilievo alla sua sopravvenienza nel corso del procedimento e prima della decisione.
La giurisprudenza successiva si è adeguata costantemente allo stesso principio. Così per esempio Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2001, n. 3149 e Cass. civ. Sez. I, 22 aprile 2002, n. 5861 ha dichiarato improponibile la domanda di revisione delle condizioni della separazione introdotta, ai sensi dell’art. 710 c.p.c., anteriormente al passaggio in giudicato della sentenza che ha pronuncia¬to la separazione stessa, in quanto, mancando la statuizione da modificare, il giudizio sarebbe pri¬vo di oggetto e mancherebbe del suo presupposto. Ai fini dell’applicazione di tale principio resta ir¬rilevante la circostanza che sia stato o meno proposto l’appello avverso la sentenza di separazione.
Il principio è stato ribadito anche per il divorzio da Cass. civ. Sez. VI, 15 ottobre 2014, n. 21874 con cui si è affermato che la domanda di modifica delle condizioni di divorzio presentata ai sensi dell’art. 9 della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (come l’analoga domanda ex art. 710 cod. proc. civ. in relazione alle statuizioni contenute nella sentenza di separazione personale dei coniugi), è proponibile soltanto dopo il passaggio in giudicato della decisione che ha pronunciato il divorzio.
Nell’affermare gli stessi principi Cass. civ. Sez. I, 24 luglio 2007, n. 16398 aveva osservato che eventuali richieste di modifica dei provvedimenti prima del giudicato devono essere presentate al giudice dell’impugnazione. Per questo motivo alla Corte d’appello possono senz’altro essere pre¬sentate in corso di impugnazione domande di modifica dei provvedimenti vigenti.
In pendenza del giudizio davanti alla Corte di cassazione la parte, che intenda far valere fatti nuovi sopravvenuti, può avvalersi del rimedio di cui all’art. 373 cod. proc. civ. cioè dell’istanza di sospen¬sione dell’esecuzione alla Corte d’appello (Cass. civ. Sez. VI, 15 ottobre 2014, n. 21874). Il rimedio in questione è previsto nell’art. 373 c.p.c. e non prevede termini di decadenza (analoghi a quelli previsti dall’art. 283 che impone la contestualità tra impugnazione e istanza di sospensione).
Conseguenza strettamente connessa alla circostanza che il procedimento di modifica non può essere azionato se non dopo il passaggio in giudicato della decisione di cui si chiede la modifica è che, poiché – come ha fatto notare Cass. civ. Sez. I, 7 gennaio 2008, n. 28 – la sentenza di se¬parazione o il verbale di omologazione, conservano la loro efficacia, sino a quando non intervenga la modifica di tali provvedimenti, rimanendo del tutto ininfluente il momento in cui di fatto sono maturati i presupposti per la modificazione o la soppressione dell’assegno, “in mancanza di speci¬fiche disposizioni, in base ai principi generali relativi all’autorità, intangibilità e stabilità, per quanto temporalmente limitata (rebus sic stantibus), del precedente giudicato impositivo del contributo di mantenimento, la decisione giurisdizionale di revisione non può avere decorrenza anticipata al momento dell’accadimento innovativo, rispetto alla data della domanda di modificazione”.
b) I fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione precedente
Come si è sopra visto, l’art. 710 c.p.c. non contiene un’espressa limitazione quanto ai presupposti di fatto per richiedere una modifica delle condizioni di separazione, limitandosi a prevedere che le parti “possono sempre chiedere… la modificazione.”. Viceversa l’art. 9 della legge sul divorzio al primo comma prevede espressamente che la domanda di revisione possa essere presentata solo “qualora sopravvengano giustificati motivi dopo la sentenza…”.
Il riferimento ad una necessaria sopravvenienze non va, però, neanche eccessivamente dramma¬tizzato in quanto è effettivamente del tutto plausibile che per chiedere la modifica di un deter¬minato assetto stabilito dal giudice o concordato tra le parti, debba essere prospettato un fatto sopravvenuto.
Ed in effetti la giurisprudenza – fondandosi sul testo dell’ultimo comma dell’art. 156 c.c. (“qua¬lora sopravvengano giustificati motivi, il giudice, su istanza di parte, può disporre la revoca o la modifica dei provvedimenti di cui ai commi precedenti”) – afferma che sia nel caso di separazione giudiziale che consensuale, i giustificati motivi che autorizzano la modificazione delle condizioni della separazione consistono sostanzialmente in fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della situa¬zione in relazione alla quale i provvedimenti erano stati adottati (Cass. civ. Sez. VI, 6 giugno 2014, n. 12781; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2009, n. 14093; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11488; Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2007, n. 24321; Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2001, n. 3149).
Qualsiasi evento sopravvenuto può essere posto a base di una richiesta di modifica. In genere si tratta di circostanze sopravvenute che riguardano i redditi o la condizione patrimoniale del coniuge o ex coniuge tenuto al pagamento dell’assegno (che ne chiede la revoca o la riduzione dell’impor¬to) ma possono verificarsi altre situazioni alle quali la legge ricollega determinate conseguenze. Si pensi alle situazioni che possono comportare la revoca dell’assegnazione della casa familiare (coabitazione dell’assegnatario con altri, matrimonio dell’assegnatario, autosufficienza economica dei figli).
Occorre però chiarire – per quanto attiene ai rapporti patrimoniali tra le parti – che non sono tanto i fatti sopravvenuti che incidono sulla valutazione della richiesta quanto le conseguenze di tali fatti sul coniuge che richiede la modifica. Molto chiare anche Cass. civ. Sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 214 e Cass. civ. Sez. VI, 20 giugno 2014, n. 14143 e Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 2008, n. 1595; Cass. civ. Sez. I, 9 dicembre 1993, n. 12125 secondo le quali il giudice deve veri¬ficare se, ed in quale misura, le circostanze sopravvenute abbiano alterato l’equilibrio stabilito in precedenza e ad adeguare l’importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale. Naturalmente – come osserva Cass. civ. Sez. I, 30 aprile 2015, n. 8839 – una volta accertato il difetto del presupposto della domanda proposta ai sensi dell’art. 156 c.c., ossia il dedotto peggioramento delle condizioni economiche dell’attore, il giudice deve rigettare la doman¬da di revisione delle condizioni economiche.
Il principio che ciò che ha rilevanza sono le conseguenze peggiorative delle condizioni economiche sul coniuge richiedente delle circostanze sopravvenute poste a base della domanda di modifica è stato con molta lucidità costruito nel tempo. Per esempio Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 2003, n. 11720 e poi Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11487 hanno affermato che il mero acqui¬sto di un cespite, così come la perdita di un bene, non rappresenta, di per sé, indice sufficiente a giustificare la modifica delle condizioni della separazione consensuale in punto di misura del con¬tributo di mantenimento, giacché la valutazione dei motivi sopravvenuti – la prova dell’esistenza dei quali è a carico del coniuge richiedente la modifica – postula sempre un giudizio di relazione da parte del giudice di merito, onde accertare se l’acquisto o la perdita del cespite sia l’espressione di un incremento o decremento patrimoniale dei coniugi di entità tale da mutare l’equilibrio esistente al momento della separazione.
Sulla stessa linea Cass. civ. Sez. I, 3 agosto 2007, n. 17041 ha ritenuto che il peggioramento delle condizioni economiche dell’ex coniuge, determinato dalla volontaria scelta di pensionamento o di dimissioni volontarie dal lavoro, può assumere rilevanza quale giustificato motivo per il rico¬noscimento ex novo dell’assegno di divorzio, originariamente negato o non richiesto, nell’ambito di una rinnovata valutazione comparativa della situazione reddituale delle parti. Gli stessi principi erano starti poco prima affermati da Cass. civ. Sez. I, 30 maggio 2007, n. 12687 dove si legge che il miglioramento delle condizioni patrimoniali dell’ex coniuge obbligato al pagamento di un as¬segno divorzile, derivante dall’eredità ricevuta dal proprio genitore dopo il divorzio, non costituisce giustificato motivo per l’aumento dell’assegno, in mancanza di un peggioramento della situazione economica dell’ex coniuge beneficiario.
Analogamente si è espressa Cass. civ. Sez. I, 23 agosto 2006, n. 18367 precisando che, allor¬ché a fondamento dell’istanza dell’ex coniuge obbligato, rivolta ad ottenere la totale soppressione del diritto al contributo economico, sia dedotto il miglioramento delle condizioni economiche dell’ex coniuge, il giudice, ai fini dell’accoglimento della domanda, non può limitarsi a considerare isolatamente detto miglioramento , attribuendo ad esso una valenza automaticamente estintiva della solidarietà post-coniugale, ma – assumendo a parametro l’assetto di interessi che faceva da sfondo, e da risultato, al precedente provvedimento sull’assegno divorzile – deve verificare se l’ex coniuge, titolare del diritto all’assegno, abbia acquistato, per effetto di quel miglioramento, la disponibilità di mezzi adeguati, ossia idonei a renderlo autonomamente capace, senza necessità di integrazioni ad opera dell’obbligato, di raggiungere un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio.
Principi analoghi sono contenuti in Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2000, n. 5253 che ha confermato la decisione di merito che, in riforma della sentenza di primo grado, aveva riconosciuto il diritto della moglie ad ottenere, a modifica delle condizioni patrimoniali stabilite in sede di separazione consensuale, l’attribuzione dell’assegno di mantenimento in considerazione del peggioramento delle sue condizioni economiche dovute al pensionamento.
Anche la giurisprudenza di merito si è del tutto allineata a questo ordine di valutazioni. Così, per esempio, Trib. Lamezia Terme, 17 luglio 2012 secondo cui se è vero che ai sensi dell’art. 710 c.p.c. le parti possono chiedere la modifica dei provvedimenti conseguenti la separazione al muta¬re delle condizioni in presenza delle quali i provvedimenti medesimi sono stati adottati, ciò significa che il tribunale, ai fini della delibazione sull’istanza di modifica, è chiamato a valutare la sopravve¬nienza, rispetto al giudizio di separazione, di circostanze tali da giustificare un diverso assetto dei rapporti tra le parti. Una simile valutazione, con particolare riguardo alle statuizioni economiche, postula non soltanto l’accertamento di una intervenuta modifica delle condizioni economiche dei coniugi ed eventualmente dei figli, ma anche l’idoneità di tale modifica a mutare il pregresso asset¬to patrimoniale realizzato con il precedente provvedimento attributivo dell’assegno, secondo una valutazione comparativa delle condizioni economiche delle parti.
Queste conclusioni dovrebbero valere anche per la richiesta di modifica dell’affidamento e del mantenimento dei figli, anche se a stretto rigore l’art. 337-quinquies c.c. (“i genitori hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, l’attribu¬zione dell’esercizio della responsabilità genitoriale su di essi e delle eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo”) non prevede questo presupposto. Per questo motivo peraltro la giurisprudenza ritiene che i provvedimenti sui figli in generale (assegno e affidamento) possano essere modificati anche senza circostanze sopravvenute, come affermato da Cass. civ. Sez. I, 28 giugno 2002, n. 9484 (Avverso i provvedimenti emanati dalla Corte d’appello in sede di reclamo, concernenti la modifica della statuizione riguardante il contributo per il mantenimento dei figli, è inammissibile il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111 cost., trat¬tandosi di provvedimenti che – in quanto modificabili in ogni momento, ai sensi dell’art. 155, ult. comma, c.c., anche indipendentemente dal sopravvenire di circostanze nuove, e perciò insuscet¬tibili di passare in giudicato – sono privi del carattere della decisorietà e definitività) e Cass. civ. Sez. I, 14/08/1998, n. 8046 (Avverso i provvedimenti emanati dalla Corte d’appello in sede di reclamo, concernenti la modifica della statuizione riguardante il contributo per il mantenimento dei figli, è inammissibile il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111 cost., trattandosi di provvedimenti che – in quanto modificabili in ogni momento, ai sensi dell’art. 155, ult. comma, c.c., anche indipendentemente dal sopravvenire di circostanze nuove, e perciò insuscettibili di passare in giudicato – sono privi del carattere della decisorietà e definitività)
In ogni caso è certo che un procedimento di modifica ex art. 710 c.c. non può basarsi su fatti pre¬esistenti alla separazione, ancorché non presi in considerazione in quella sede per qualsiasi motivo (Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11488).
IV La costituzione di una nuova famiglia e la nascita di figli possono legittimare la revisione delle condizioni economiche?
Oltre alla modificazione della condizione reddituale in generale vi sono specifici eventi che possono comportare la necessità di un riequilibrio tra le parti di natura economica. Tra questi eventi uno dei più diffusi è la costituzione di una nuova famiglia o la nascita di figli, da parte del coniuge o dell’ex coniuge obbligato al pagamento di un assegno.
È evidente che questi eventi non determinano la sospensione o l’estinzione delle obbligazioni sta¬bilite o concordate in sede di separazione o divorzio, ma è altrettanto evidente che l’aumento degli impegni economici collegati a tali eventi non può nemmeno essere ignorato.
È chiaro che non è appagante, né sufficiente affermare che la nascita di un figlio non ha di per sé l’effetto di ridurre o caducare il diritto l’assegno (Cass. civ. Sez. I, 24 febbraio 2006, n. 4203).
Di recente il tema è stato, sia pur sbrigativamente, trattato da Cass. civ. Sez. I, 10 luglio 2015, n. 14521 ancorché in una causa di divorzio e non di modifica. Secondo la Corte “il fatto oggettivo della nascita di un figlio di secondo letto (e il relativo obbligo di mantenimento da parte del padre) va considerato dal giudice nella determinazione dell’assegno divorzile”.
Ugualmente Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2014, n. 6289 nel confermare la sentenza di merito che aveva valutato il nuovo matrimonio dell’obbligato e la nascita di un altro figlio come circo¬stanze giustificative della modifica dell’entità dell’assegno divorzile, afferma il principio – già in passato testualmente affermato da Cass. civ. Sez. I, 23 agosto 2006, n. 18367 – che ove, a sostegno della richiesta di diminuzione dell’assegno di divorzio, siano allegati sopravvenuti oneri familiari dell’obbligato, il giudice deve verificare se si determini un effettivo depauperamento delle sue sostanze in vista di una rinnovata valutazione comparativa della situazione delle parti, salvo che la complessiva situazione patrimoniale dell’obbligato sia di tale consistenza da rendere irrile¬vanti i nuovi oneri.
Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2009, n. 16789 non ha dubbi sul fatto che in ogni caso la costi¬tuzione di una nuova famiglia possa determinare una revisione quanto meno dell’ammontare dell’assegno. Ed infatti ha escluso la fondatezza di un dubbio di legittimità costituzionale delle norme che prevedono la corresponsione dell’assegno divorzile nella parte in cui non prevedono la cessazione dell’obbligo nel caso in cui l’obbligato contragga nuove nozze “dovendo la costituzione del nuovo nucleo familiare essere valutata ai fini della determinazione dell’importo dell’assegno dovuto all’ex coniuge”.
Con specifico riferimento alla nascita di figli, in passato Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 2008, n. 1595 ha avuto modo di precisare che i sopravvenuti, giustificati motivi a sostegno della richiesta di revisione delle condizioni patrimoniali del divorzio possono riguardare anche i nuovi oneri familiari dell’obbligato, derivanti dalla nascita di un figlio, generato dalla successiva unione, sempre che detta insorgenza, considerate tutte le circostanze del caso concreto, abbia determinato un reale ed effettivo depauperamento delle sostanze o della capacità patrimoniale dell’obbligato stesso, apprezzato all’esito di una rinnovata valutazione comparativa della situazione delle parti. In ogni caso, a tal fine occorre tenere conto del fatto che, per un verso, il nuovo dovere di mantenimento dell’obbligato va valutato anche alla stregua delle potenzialità economiche della nuova famiglia in cui il bambino è stato generato, e quindi avendo riguardo pure alla condizione dell’altro genitore.
Anche nella giurisprudenza di merito non mancano le affermazioni del principio di rilevanza dei sopravvenuti oneri familiari ai fini della modificazione dei provvedimenti di natura economica.
Per esempio secondo Trib. Bari Sez. I, 8 luglio 2010 la nascita di un nuovo figlio, da una rela¬zione successiva alla pronuncia di separazione, se, da un lato, non costituisce motivo che giustifichi la riduzione dell’assegno di mantenimento stabilito a favore dei figli nati dal pregresso matrimonio, incide, invece, sull’entità dell’assegno divorzile, ovvero di quello da corrispondere all’ex coniuge. Detto evento, infatti, pur non escludendo gli obblighi assistenziali posti a carico dell’obbligato già in sede di separazione, incide senz’altro sull’entità complessiva del reddito percepito e, quindi, si riflette inevitabilmente sulla quantificazione dell’assegno divorzile che, dunque, può essere deter¬minato in misura ridotta rispetto a quello di mantenimento previsto a favore del coniuge in sede di separazione.
Ugualmente Trib. Napoli Sez. I, 2 maggio 2002 secondo cui nella determinazione dell’asse¬gno per i figli minori a carico del genitore non affidatario il giudice deve tener conto del possibile peggioramento delle condizioni economiche di quest’ultimo conseguenti alla nascita di un nuovo figlio.
V La raggiunta autosufficienza dei figli deve essere fatta valere necessariamente con un provvedimento di modifica?
Alla domanda se la raggiunta autosufficienza dei figli debba essere fatta valere necessariamente con un provvedimento di modifica viene data in giurisprudenza risposta positiva.
Si è affermato a tale proposito espressamente che il raggiungimento della maggiore età del figlio minore non può determinare, nel coniuge separato o divorziato, tenuto a contribuire al suo man¬tenimento, il diritto a procedere unilateralmente alla riduzione od eliminazione del contributo o a far valere tale condizione in sede di opposizione all’esecuzione, essendo necessario, a tal fine, pro¬cedere all’instaurazione di un giudizio volto alla modifica delle condizioni di separazione o divorzio (Cass. civ. Sez. III, 16 giugno 2011, n. 13184)
VI La convivenza di fatto del beneficiario può essere motivo di revoca dell’assegno?
La giurisprudenza su questo argomento ha espresso nel tempo posizioni sempre più precise, pas¬sando dalla iniziale previsione di una riduzione dell’importo ove si provi che il coniuge beneficiario abbia ridotto, in relazione alla convivenza more uxorio la sua condizione di bisogno, ad una posi¬zione più rigida nella quale è stato espresso il principio di quiescenza dell’assegno percepito dal beneficiario, fino alle posizioni attuali che prevedono il venir meno radicale del diritto in relazione alla intrapresa convivenza more uxorio del coniuge beneficiario dell’assegno.
Il problema – approfondito anche in altra sede2 – è se la convivenza di fatto intrapresa dal benefi¬ciario dell’assegno (che, se divorziato, in caso di nuove nozze perderebbe ex lege il diritto: art. 5, comma 10, legge divorzio) possa essere motivo di riduzione o di revoca dell’assegno a suo favore.
Secondo l’impostazione originaria e più tradizionale della giurisprudenza, nella misura in cui l’ob¬bligato al versamento dell’assegno divorzile riesca a provare che la convivenza more uxorio del beneficiario dell’assegno abbia determinato un miglioramento delle sue condizioni economiche, è consentito al giudice ridurre l’assegno di mantenimento (Cass. civ. Sez. I, 22 gennaio 2010, n. 1096; Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2009, n. 2709; Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2008, n. 18593; Cass. civ. Sez. I, 10 agosto 2007, n. 17643; Cass. civ. Sez. I, 28 giugno 2007, n. 14921; Cass. civ. Sez. I, 9 febbraio 2002, n. 13060) oppure addirittura azzerarlo se, in connessione con la convivenza more uxorio, è venuto meno del tutto lo stato di bisogno di chi ne godeva (Cass. civ. Sez. I, 2 giugno 2000, n. 7328).
Il principio di fondo cui questo orientamento si ispira è sintetizzato da una notissima – e molto spessa richiamata – decisione (Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 1997, n. 5024) dove si afferma che “la prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte di convivente more uxorio, quando di fatto esclude, oppure riduce, lo stato di bisogno del coniuge separato o divorziato, spiega rilievo sulla sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento e sulla sua quantificazione”. Già anni prima decisioni analoghe nel contenuto avevano espresso autorevolmente in sostanza gli stessi principi (Cass. civ. Sez. I, 22 aprile 1993, n. 4761; Cass. civ. Sez. I, 17 ottobre 1989, n. 4158 ed altre).
In questa prospettiva interpretativa sono due, pertanto i presupposti in virtù dei quali potrebbe essere attribuita rilevanza alla convivenza more uxorio sull’assegno divorzile. Il primo presupposto è certamente la stabilità della convivenza che deve quindi essere non una convivenza occasionale ma di una certa solidità e durata tale da potersi parlare di famiglia di fatto. Altrimenti la stessa condizione di miglior benessere che ne ricava il convivente titolare dell’assegno sarebbe connotata dall’incertezza e dalla precarietà. Serve, però un secondo presupposto (esplicitamente messo in evidenza da tutte le sentenze sopra ricordate) e cioè che la convivenza more uxorio apporti al convivente titolare dell’assegno divorzile un miglioramento delle condizioni economiche tale da ridurre o azzerare la situazione di bisogno o da comportare un risparmio di spesa e perciò idonea a costituire motivo di ridimensionamento o di cessazione dell’obbligazione di mantenimento.
Questo orientamento – ancorché del tutto equo – va considerato superato, in quanto negli ultimi anni la giurisprudenza ha proposto una graduale assimilazione della famiglia di fatto alla famiglia fondata sul matrimonio con la conseguenza di considerare venuto meno il diritto all’assegno per il fatto che il beneficiario dell’assegno instaura una stabile convivenza di fatto.
Alla fine degli anni Novanta fece da apripista a questo nuovo emergente orientamento Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3503 in una vicenda in cui la moglie, a seguito della separazione, aveva ottenuto un assegno di mantenimento a carico del marito che era stato, poi, revocato dal giudice di merito, sul presupposto che la donna, successivamente alla separazione, aveva intrattenuto una convivenza sia pure non stabile con altro uomo, a seguito della quale era anche nato un figlio. La Cassazione annullò la sentenza affermando il principio secondo cui, nel caso in cui alla convivenza “more uxorio” siano riconnesse conseguenze giuridiche, al fine di distinguere tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, deve tenersi soprattutto conto del carattere di stabilità che con¬ferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderla rilevante sotto il profilo giuridico, sia per quanto concerne la tutela dei figli minori, sia per quanto riguarda i rapporti patrimoniali tra i coniugi separati. Sulla base di questo principio la Corte chiese al giudice di rinvio di accertare se la donna ed il suo convivente avessero costituito o meno un’affidabile e stabile famiglia di fatto, trascendente la mera esistenza di rapporti sessuali, così da stabilire se questa nuova unione avesse fatto venire meno il presupposto per la percezione dell’assegno di mantenimento dal marito.
La decisione restò allora isolata, ma era chiaro che stava nascendo un orientamento che sostan¬zialmente faceva leva sulla assimilabilità al matrimonio della famiglia di fatto “che ha soppiantato – così si scriveva in quella sentenza – la convivenza more uxorio, e ancor di più il concubinato… La diffusione del fenomeno della famiglia di fatto pone l’esigenza di rivalutare il matrimonio-rapporto, da tenere ben distinto dal matrimonio-atto, in funzione della rilevanza di un’autonoma formazione sociale che si sviluppa anche in assenza di un momento iniziale di spessore istituzionale. Il mutato atteggiamento nei confronti della convivenza stabile scaturisce da una pluralità di esigenze: quella di tutelare il rapporto di coppia e di regolamentare i connessi profili patrimoniali, e quella, del tutto diversa, ma ancor più pressante, della tutela dei figli nati fuori dal matrimonio”.
Quindi l’accento veniva messo sul matrimonio-rapporto (non sul matrimonio-atto) al quale la con¬vivenza more uxorio può assimilarsi ove abbia i caratteri della solidità e della stabilità.
Nel 2003 il tema dei rapporti tra l’assegno divorzile e la convivenza more uxorio del coniuge beneficiario veniva ripreso da un’altra sentenza (Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11975) che indagando il concetto di “adeguatezza dei mezzi” del coniuge richiedente l’assegno – cui fa riferimento l’art. 5 della legge sul divorzio per ricollegarvi il diritto o meno al mantenimento divor¬zile – affermava che “fra i fattori capaci di incidere su tale nozione di “adeguatezza” è suscettibile di acquisire rilievo anche la eventuale convivenza “more uxorio”, la quale, quando si caratterizzi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità tanto da venire ad assumere i connotati della cosiddetta “famiglia di fatto” (caratterizzata, in quanto tale, dalla libera e stabile condivisione di valori e dei modelli di vita, in essi compresi anche quello economico) fa sì che la valutazione di una tale “adeguatezza” non possa non registrare una tale evoluzione esistenziale, recidendo – finché duri tale convivenza (e ferma rimanendo in questo caso la perdurante rilevanza del solo eventuale stato di bisogno in sé ove “non compensato” all’interno della convivenza) – ogni plausibile connes¬sione con il tenore e con il modello di vita economici caratterizzanti la pregressa fase di convivenza coniugale, ed escludendo – con ciò stesso – ogni presupposto per il riconoscimento, in concreto, dell’assegno divorzile fondato sulla conservazione degli stessi”.
Per la prima volta si dava rilievo molto esplicito alla famiglia di fatto del coniuge beneficiario del diritto al mantenimento, quale elemento che avrebbe potuto “escludere ogni presupposto per il riconoscimento dell’assegno divorzile”. Il fatto di vivere in una nuova famiglia, in altre parole, ta¬glia ogni collegamento con il tenore di vita goduto nel corso del precedente matrimonio venendo meno la plausibilità di mantenere attraverso l’assegno un collegamento con la precedente vita matrimoniale.
Per alcuni anni non vi furono più decisioni significative sul punto o che richiamavano la decisione di cui si è sopra detto.
Nel 2011 giunse all’attenzione dei giudici della Cassazione una vicenda nella quale la Corte d’ap¬pello di Roma, a modifica di quanto aveva stabilito il tribunale di Roma, aveva concesso un as¬segno divorzile ad una donna che aveva in corso da anni una stabile convivenza more uxorio. La Cassazione annullò la decisione (Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17195) ribadendo da un lato il principio secondo cui “la mera convivenza del coniuge con altra persona non incide di per sé direttamente sull’assegno di mantenimento” ma aggiungendo che ove “tale convivenza assuma i connotati di stabilità e continuità, tanto che i conviventi instaurino tra di loro una relazione di vita analoga a quella che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio, la mera convivenza si trasforma in una famiglia di fatto. Ciò implica il venir meno del parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei partner, poi¬ché viene a costituirsi una nuova famiglia, benché solo di fatto. Ne consegue la mancanza di ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione di esso”.
I principi di questa importante decisione – che come detto si riallacciava al precedente del 2003 – sono stati ripresi e ribaditi da Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3923 nella cui motiva¬zione si legge che” recentemente (il riferimento è alla sopra citata Cass. 17195/2011), si è so¬stenuto che, in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, la sperequazione dei mezzi del coniuge economicamente più debole a fronte delle disponibilità economiche dell’altro, che avevano caratterizzato il tenore di vita della coppia in costanza di matrimonio, non giustifica la corresponsione di un assegno divorzile a carico del primo, ove questi instauri una convivenza con altra persona che assuma i connotati di stabilità e continuità, trasformandosi in una vera e propria famiglia di fatto. Si è precisato che in detta ipotesi il diritto all’assegno viene a trovarsi in una fase di quiescenza, potendosi riproporre in caso di rottura della convivenza.
La nozione di famiglia di fatto – continua la sentenza – richiede, tuttavia, al fine di considerare rescissa – sia pure temporaneamente – ogni connessione con il tenore ed il modello di vita carat¬terizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, conseguentemente, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, che i conviventi elaborino un progetto ed un modello di vita in comune (analogo a quello che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimo¬nio). Si richiede, pertanto, un arricchimento e un potenziamento reciproco della personalità dei conviventi, la trasmissione di valori educativi ai figli, per altro ormai quasi del tutto assimilati a quelli legittimi.
In definitiva – concludono i giudici – in base al richiamato orientamento di questa Corte, non è sufficiente l’instaurazione di un rapporto di mera convivenza, essendo necessario, per il fine che qui interessa, che la stessa assuma i caratteri di una vera e propria famiglia di fatto. Del resto, questa Corte aveva da tempo affermato che, ove la convivenza more uxorio si caratterizzi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità, tanto da venire ad assumere i connotati della c.d. “famiglia di fatto”, connotata, in quanto tale, dalla libera e stabile condivisione di valori e modelli di vita (per ciò stesso anche economici), il parametro di valutazione dell’”adeguatezza” dei mezzi economici a disposizione dell’ex coniuge non possa che registrare una tale evoluzione, recidendo – finché duri tale convivenza e ferma rimanendo, in questa fase la perdurante rilevanza del solo eventuale “stato di bisogno” in sé, ove “non compensato” all’interno della convivenza – ogni plau¬sibile connessione con il tenore ed il modello di vita economici caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, e – con ciò stesso – ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile fondato sulla conservazione di esso (Cass., 8 agosto 2003, n. 11975)”.
Questo orientamento ha trovato conferma nelle più recenti decisioni.
Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2013, n. 15481 si è occupata di una vicenda piuttosto singolare. Un avvocato aveva chiesto la liquidazione del compenso per attività professionale prestata a favore di una donna in una causa civile di risarcimento per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare. Il giudice aveva rigettato la richiesta sul presupposto che la donna, non essendo coniu¬gata con l’uomo che le aveva asseritamente arrecato danno, non avrebbe avuto diritto alla tutela dell’art. 570 codice penale. L’avvocato presentava al Presidente del tribunale il reclamo previsto dal Testo Unico sulle spese di giustizia ma anche il Presidente gli dava torto e quindi ricorreva per cassazione la quale accoglieva il suo ricorso sostenendo nella motivazione che “la violazione dei diritti fondamentali della persona è configurabile anche all’interno di una unione di fatto, che abbia, beninteso, caratteristiche di serietà e stabilità, avuto riguardo alla irrinunciabilità del nucleo essen¬ziale di tali diritti, riconosciuti, ai sensi dell’art. 2 Cost., in tutte le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo. Del resto, ferma restando la ovvia diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio, è noto che la legislazione si è andata progressivamente evolvendo verso un sempre più ampio riconoscimen¬to, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto. Tra l’altro attribuendo rilievo – notano i giudici – ai fini della quiescenza del diritto all’assegno di mantenimento o divorzile, ovvero ai fini della determinazione del relativo importo, alla instaurazione, da parte del coniuge (o ex coniuge) beneficiario dello stesso, di una famiglia, ancorché di fatto. Né può, infine, sottacersi l’interpre¬tazione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, il quale tutela il diritto alla vita familiare, fornita dalla Corte EDU, che ha chiarito che la nozione di famiglia cui fa riferimento tale disposizione non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio, e può comprendere altri legami familiari di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo di coniugio”.
Particolarmente esplicita nel senso di prevedere l’insussistenza di un diritto all’assegno divorzile da parte del coniuge che abbia instaurato una convivenza di fatto è Cass. civ. Sez. I, 18 novem¬bre 2013, n. 25845 che ha ribadito il principio secondo cui in tema di diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il parametro dell’a¬deguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorché di fatto, la quale rescinde, quand’anche non definitivamente, ogni connessione con il livello ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, conseguentemente, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile.
Molto drastiche anche le più recenti decisioni che abbandonano la tesi della quiescenza dell’asse¬gno e parlano di rescissione definitiva di ogni obbligazione economica nel caso in cui il beneficiario dell’assegno instauri una stabile convivenza.
Secondo Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2015, n. 6855 la formazione di una nuova famiglia di fatto da parte del coniuge divorziato determina la perdita definitiva dell’assegno divorzile di cui il me¬desimo benefici. Infatti, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei partner, non può che venir meno di fronte all’esi¬stenza di una vera e propria famiglia, ancorché di fatto. Si rescinde così ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, con ciò, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione di esso, pur dovendosi ribadire che non vi è né identità, né analogia tra il nuovo matrimonio del coniuge divorziato, che fa automaticamente cessare il suo diritto all’assegno, e la fattispecie in esame che necessita di un accertamento e di una pronuncia giurisdizionale. La perdita dell’assegno è definitiva e non si realizza una fase di quiescenza (che può terminare con la fine della conviven¬za). Infatti, una famiglia di fatto, espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, da parte del coniuge, eventualmente potenziata dalla nascita di figli (ciò che dovrebbe escludere ogni residua solidarietà post-matrimoniale con l’altro coniuge) deve essere caratterizzata dalla assun¬zione piena di un rischio, in relazione alle vicende successive della famiglia di fatto, mettendosi in conto la possibilità di una cessazione del rapporto tra conviventi (ferma restando evidentemente la permanenza di ogni obbligo verso i figli).
Ugualmente Cass. civ. Sez. VI, 16 novembre 2015, n. 23411 secondo cui la presenza di spe¬requazione economica fra coniugi non determina in maniera assoluta ed incontrastata la deter¬minazione di un assegno divorzile in favore del più debole. Qualora sia dimostrato che lo stesso, infatti, abbia contratto una nuova relazione more uxorio, iniziando una convivenza ed acquistando un nuovo immobile contraendo un mutuo cointestato con la nuova compagna, l’obbligo di corri¬spondergli l’assegno divorzile viene senz’altro meno.
Quindi negli ultimi anni le sentenze della Corte di Cassazione, senza eccezioni, affermano il princi¬pio che la convivenza more uxorio caratterizzata da serietà e stabilità costituisce motivo di defini¬tiva cessazione del diritto all’assegno divorzile.
VII La revoca dell’assegnazione della casa familiare
L’art. 337-sexies. del codice civile (Assegnazione della casa familiare e prescrizioni in tema di re¬sidenza) dopo aver affermato al primo comma che “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli” prescrive al terzo comma che “il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio”.
Nonostante le espressioni letterali della norma che depongono senz’altro per la tesi del venir meno di diritto dell’assegnazione al verificarsi delle circostanze indicate (quanto meno per quelle ogget¬tive quali le nuove nozze dell’assegnatario), la Corte costituzionale con una sentenza interpretativa di rigetto (Corte cost., 30 luglio 2008, n. 308) ha dichiarato l’infondatezza delle censure solle¬vate sulla norma, “nella parte in cui prevede la revoca automatica dell’assegnazione della casa fa¬miliare nel caso in cui l’assegnatario conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio”. Dissero i giudici che l’evoluzione normativa e giurisprudenziale evidenzia come non solo la decisione sull’as¬segnazione della casa familiare, ma anche quella sulla cessazione della stessa, sono sempre state subordinate, pur nel silenzio della legge, ad una valutazione, da parte del giudice, di rispondenza all’interesse dei figli. Pertanto la norma censurata non viola alcuna norma costituzionale ove sia interpretata nel senso che l’assegnazione della casa coniugale non venga meno di diritto al verifi¬carsi degli eventi di cui si tratta (instaurazione di una convivenza di fatto, nuovo matrimonio), ma che la decadenza dalla stessa sia subordinata ad un giudizio di conformità all’interesse del minore.
È evidente che una interpretazione di questo tipo porta a concludere che nei casi in cui l’art. 337-sexies. del codice civile prevede il venir meno dell’assegnazione della casa familiare, la parte interessata alla revoca dovrà necessariamente azionare il procedimento di revisione (in corso di causa con una istanza di modifica ovvero dopo il giudicato con le forma del procedimento ex art. 710 c.p.c. o ex art. 9 legge 898/1970).
È questa l’opinione della giurisprudenza che si è consolidata sul punto dopo la decisione sopra ricordata della Corte costituzionale (Cass. civ. Sez. VI, 14 luglio 2015, n. 14727; Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18076; Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2013, n. 11218; Cass. civ. Sez. I, 9 agosto 2012, n. 14348; App. Catania, 12 dicembre 2013), fatto sempre salvo il diritto del terzo acquirente, in caso di inerzia del genitore ex proprietario, di agire con un’azione ordinaria di accertamento al fine di conseguire la declaratoria di inefficacia del titolo (Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2015, n. 15367).
VIII Possono essere oggetto di ricorso di modifica gli accordi contrattuali intervenuti tra i coniugi?
In due importanti decisioni (Cass. civ. Sez. I, 20 novembre 2003, n. 17607 e Cass. civ. Sez. I, 12 settembre 2014, n. 19319) i giudici della Cassazione hanno ribadito con particolare chiarezza il punto di vista della giurisprudenza sulla natura giuridica dell’accordo che sorregge la separazione consensuale, sul rapporto tra tale accordo ed il decreto di omologazione, nonché sulla natura e sulla funzione dell’intervento giurisdizionale, ribadendo che la giurisprudenza di legittimi¬tà, è orientata nel senso che la separazione trova la sua unica fonte nel consenso manifestato dai coniugi dinanzi al presidente del tribunale e che la successiva omologazione è unicamente diretta ad attribuire efficacia dall’esterno all’accordo di separazione, assumendo la funzione di condizione sospensiva della produzione degli effetti delle pattuizioni stipulate tra i coniugi, già integranti un negozio giuridico perfetto ed autonomo.
Effettivamente la Corte di cassazione ha in più occasioni qualificato l’accordo di separazione come atto essenzialmente negoziale, espressione della capacità dei coniugi di autodeterminarsi respon¬sabilmente, tanto da definirlo come uno dei momenti di più significativa emersione della nego¬zialità nel diritto di famiglia (Cass. civ. Sez. I, 15 maggio 1997, n. 4306; Cass. civ. Sez. I,15 marzo 1991, n. 2788 che riconducono gli accordi di separazione alla categoria dei negozi di diritto familiare).
Peraltro, proprio una linea di tendenza nel senso del pieno riconoscimento della negozialità tra coniugi e dell’espansione della sfera di operatività dell’autonomia privata anche in relazione ai ne¬gozi di diritto familiare, è chiaramente ravvisabile in quella giurisprudenza orientata a riconoscere la validità degli accordi non trasfusi nell’accordo omologato e di quelli successivi all’omologazione (per esempio Cass. civ. Sez. I, 24 febbraio 1993, n. 2270 e Cass. civ. Sez. I, 22 gennaio 1994, n. 657).
Posta la distinzione tra consenso alla separazione, quale concorde volontà delle parti di separarsi legalmente, e accordo sulle condizioni della separazione, ritiene la giurisprudenza, quindi, che non vi sia ragione di dubitare della natura negoziale dell’atto che dà sostanza e fondamento alla sepa¬razione consensuale, atteso che in tale accordo si dispiega pienamente l’autonomia dei coniugi e la loro valutazione della gravità della crisi coniugale, con esclusione di ogni potere di indagine del giudice sui motivi della decisione di separarsi e di valutazione circa la validità di tali motivi, in piena coerenza con la centralità del principio del consenso nel modello di famiglia delineato dalla legge di riforma ed in ragione del tasso di negozialità dalla stessa legge riconosciuto in relazione ai diversi momenti ed aspetti della dinamica familiare.
L’esclusione della natura contrattuale dell’accordo di separazione ed il suo inquadramento nella categoria negoziale, se comporta la non operatività delle norme proprie del contratto che trovano ragione nella specifica natura di questo, non esclude che possano applicarsi, nei limiti della loro compatibilità, le norme del regime contrattuale che riguardano in generale la disciplina del negozio giuridico o che esprimono principi generali dell’ordinamento, come quelle in tema di vizi del con¬senso e di capacità delle parti (peraltro richiamate in varie norme del codice relative alla materia familiare, come in tema di celebrazione del matrimonio e di riconoscimento dei figli naturali).
Non è comunque ravvisabile, nell’atto di omologazione, una funzione sostitutiva o integrativa della volontà delle parti o di governo dell’autonomia dei coniugi. L’atto di omologazione non è legato da un rapporto diretto ed immediato con il negozio di separazione, non investendo l’accordo in sé e non svolgendo una funzione sostitutiva o integrativa della volontà delle parti: in quanto diretto a controllare, come innanzi rilevato, la validità dell’”iter” processuale, a tutelare l’interesse dei figli minori ed a verificare il rispetto delle norme di ordine pubblico, esso non governa l’autonomia dei coniugi e non si confonde, ma si combina in maniera estrinseca con la loro volontà, fissata nell’ac¬cordo da omologare.
In altre significative decisioni la Cassazione aveva espresso i medesimi principi, In particolare in Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2007, n. 24321 e in Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 2008, n. 7450 si afferma chiaramente la natura negoziale dell’accordo che dà sostanza e fondamento alla separazione consensuale tra coniugi e che non è ravvisabile, nell’atto di omologazione, una funzio¬ne sostitutiva o integrativa della volontà delle parti.
Precedente giurisprudenza aveva ugualmente argomentato sulla natura negoziale degli accordi di separazione consensuale (oltre alla citata Cass. civ. Sez. I, 20 novembre 2003, n. 17607 vanno ricordate anche Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2001, n. 3149; Cass. civ. Sez. I, 4 set¬tembre 2004, n. 17902; Cass. civ. Sez. I, 29 marzo 2005, n. 6625), confermando la natura negoziale (ancorché non contrattuale) dell’accordo di separazione consensuale e il convincimento che “nell’atto di omologazione non è ravvisabile una funzione sostitutiva o integrativa della volontà delle parti o di governo dell’autonomia dei coniugi, rappresentando la procedura ed il decreto di omologazione condizioni di efficacia del sottostante accordo tra gli stessi coniugi.
Molto efficacemente in alcune sentenze – da ultimo in Cass. civ. Sez. I, 19 agosto 2015, n. 16909 – si è affermato che l’accordo di separazione ha un contenuto essenziale ed un contenuto eventuale. Si osserva, in sostanza, che l’accordo mediante il quale i coniugi pongono consen¬sualmente termine alla convivenza può racchiudere una pluralità di pattuizioni, oltre a quelle che integrano il suo contenuto tipico e che a questo non sono immediatamente riferibili, nel senso esattamente, cioè, che l’accordo stesso è suscettibile di riguardare negozi i quali, pur trovando la loro occasione nella separazione consensuale, non hanno causa in essa, risultando appunto sem¬plicemente “occasionati” dalla separazione medesima senza dipendere dai diritti e dagli obblighi che derivano dal matrimonio, onde tali negozi costituiscono espressione di libera autonomia con¬trattuale, sempre che non comportino una lesione di diritti inderogabili (si può fare riferimento, tra le altre, alle già richiamata Cass. civ. Sez. I, 15 maggio 1997, n. 4306; Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2007, n. 24321; Cass. civ. Sez. III, 14 marzo 2006, n. 5473).
Acquisita quindi la conclusione che gli accordi in sede di separazione e divorzio hanno certamente tutti natura negoziale, occorre brevemente esaminare i problemi derivanti dalla riconosciuta effica¬cia soltanto rebus sic stantibus delle clausole della separazione, per verificare se anche quelle ne¬goziali cui è attribuita natura contrattuale siano o meno soggette a questa efficacia non definitiva.
Il problema (il mito) della clausola rebus sic stantibus ricorre di continuo tra i temi più scottanti del “diritto contrattuale di famiglia”, in particolare ogni volta che si tenta di ricondurre gli accordi al principio della necessaria stabilità tra le parti delle pattuizioni negoziali.
La clausola in questione esprime il principio generale che tutte le decisioni concernenti le obbliga¬zioni che originano nella separazione e nel divorzio sono esposte – come detto nei paragrafi prece¬denti – alla revisione per mutamento delle circostanze, nel senso che le variazioni significative delle condizioni economiche di ciascuno dei coniugi o degli ex coniugi possono determinare su domanda di parte anche il mutamento delle obbligazioni post-matrimoniali assunte in sede di separazione.
L’opinione della giurisprudenza sulla validità rebus sic stantibus dei provvedimenti sui figli e sui provvedimenti economici nel diritto di famiglia appare del tutto consolidata (tra le più recenti Cass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17618; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2013, n. 10720; Cass. civ. Sez. I, 29 dicembre 2011, n. 30033; Cass. civ. Sez. I, 9 maggio 2011, n. 10077) ed alla base stessa dei principi di modificabilità espressi nell’art. 710 c.p.c. e nell’art. 9 della legge sul divorzio.
Il principio della validità rebus sic stantibus delle decisioni nel diritto di famiglia trova significativa e rilevante eccezione nell’art. 5, comma 8, della legge sul divorzio dove si prevede che “su accordo delle parti la corresponsione [della contribuzione del mantenimento divorzile] può avvenire in uni¬ca soluzione ove questa sia ritenuta equa dal tribunale. In tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico”.
Perciò la corresponsione dell’assegno divorzile in unica soluzione su accordo tra le parti, soggetto a verifica giudiziale, esclude per legge la sopravvivenza, in capo al coniuge beneficiario, di qualsi¬asi ulteriore diritto, a contenuto patrimoniale neppure ove si verifichi un peggioramento delle sue condizioni economiche e, comunque, neppure in caso di sopravvenienza di quei giustificati motivi cui sarebbe subordinata l’ammissibilità della domanda di revisione dell’assegno periodico (Cass. civ. Sez. lavoro, 3 luglio 2012, n. 11088; Cass. civ. Sez. lavoro, 8 marzo 2012, n. 3635; Cass. civ. Sez. I, 10 marzo 2006, n. 5302; Cass. civ. Sez. I, 9 ottobre 2003, n. 15064; Cass. civ. Sez. I, 5 gennaio 2001, n. 126).
La disposizione in questione è senza dubbio una importante ed eloquente conferma che l’accordo sull’una tantum divorzile ha l’effetto di attrarre nel diritto di famiglia la regola pacta sunt servanda con riferimento alla specifica pattuizione concernente la modalità di corresponsione in un’unica soluzione dell’assegno di mantenimento.
A questo riguarda occorre dare conto più approfonditamente della distinzione – accolta come si è sopra detto anche in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. I, 15 maggio 1997, n. 4306 e Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2007, n. 24321) – tra contenuto necessario degli accordi di separazione e di divorzio (da qualcuno definito “tipico” e in sostanza coincidente con le clausole collegate ai diritti e agli obblighi nascenti dal matrimonio) e contenuto eventuale (da qualcuno definito “atipi¬co” concernente clausole di vario contenuto che le parti possono sempre liberamente inserire nella loro separazione o nel loro divorzio). Nel contenuto necessario si indicano anche clausole negoziali collegate al mantenimento mentre nel contenuto eventuale si aggregano clausole contrattuali soltanto “occasionate dalla separazione” e che potrebbero anche essere stipulate al di fuori della separazione.
La distinzione serve a chiarire che tutto quanto attiene al contenuto necessario della separazione e del divorzio (riferibile all’affidamento e al mantenimento dei figli, all’assegnazione della casa familiare, alle statuizioni economiche tra coniugi relative all’assegno di mantenimento), ancorché frutto di accordo tra le parti, non può che soggiacere alla clausola rebus sic stantibus che costitui¬sce una regola necessaria nel diritto di famiglia, destinato per natura, ad adeguarsi alle circostanze sopravvenute, intuitivamente per quanto riguarda i figli e con ogni necessario accorgimento, per evitare rendite di posizione, per ciò che concerne i rapporti economici tra i coniugi (Corte costitu¬zionale 11 febbraio 2015, n. 11 che ha confermato la piena legittimità di quell’orientamento che in giurisprudenza tende a ridimensionare il peso del pregresso tenore di vita a vantaggio degli altri elementi che la legge sul divorzio indica quali criteri di attribuzione e quantificazione dell’assegno).
Non così, però, per il contenuto negoziale eventuale, sottratto certamente al potere di intervento del tribunale. Non è pensabile che gli accordi concernenti questioni che soltanto le parti possono negoziare e concordare (un trasferimento immobiliare, la trascrizione di un vincolo di destina¬zione, una donazione, un trust, appunto la determinazione una tantum del mantenimento e così via, quale che ne sia il loro carattere: divisorio, risarcitorio, compensativo) possano essere elusi dall’applicazione di una regola quale quella della validità rebus sic stantibus delle condizioni di se¬parazione e divorzio che qui contrasterebbe irrimediabilmente con il principio che “il contratto ha forza di legge tra le parti” e che “non può essere sciolto che per mutuo consenso” (art. 1372 c.c.).
La stessa decisione di un assegno in unica soluzione (una tantum divorzile) è di fatto sottoposta ad un giudizio formale di equità da parte del tribunale di così scontata inutilità da scomparire di fatto negli accordi di negoziazione ex art. 6 del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 convertito nella legge 10 novembre 2014, n. 162.
Nel determinare il contenuto eventuale degli accordi di separazione e di divorzio le parti hanno l’au-tonomia negoziale massima compatibile con i diritti personali e alimentari di natura inderogabile.
Si discute in giurisprudenza se l’omologa della separazione si estenda o meno anche agli accordi che potrebbero essere conclusi anche al di fuori del procedimento di separazione e sui quali il tri¬bunale non esercita in definitiva alcun tipo di controllo, se non quello connesso all’eventuale loro interferenza con l’interesse dei figli, come potrebbe avvenire in ordine all’esaustività o meno di un trasferimento immobiliare o di un vincolo di destinazione in funzione anche del mantenimento dei figli. Poteri che il tribunale non ha in ordine al controllo delle pattuizioni concernenti i soli coniugi.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, parrebbe che il collegamento di tali accordi, ancorché non tipici, alla separazione o al divorzio sarebbe sufficiente per considerare tali accordi oggetto anch’essi dell’omologa o della sentenza (Cass. civ. Sez. I, 15 maggio 1997, n. 4306.
Il punto centrale è, tuttavia, un altro. Se anche si convenisse sul fatto che gli accordi in questione sono anch’essi oggetto dell’omologa o ratificati in qualche modo con la sentenza di separazione (in caso di conclusioni congiunte) o con la sentenza di divorzio (su domanda o su conclusioni congiunte), non ne deriverebbe di certo la loro assoggettabilità alla clausola rebus sic stantibus che è di per sé incompatibile con la natura contrattuale di tali intese.
Ed a questa conclusione è giunta testualmente la giurisprudenza in due sentenze.
Dapprima con Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18066 in cui in sostanza si afferma che le clausole di trasferimento di immobile tra coniugi ovvero da uno dei genitori al figlio minore recepita dalla sentenza di divorzio, non sono modificabile nelle forme e secondo la procedura di cui agli artt. 710 e 711 cod. proc. civ.
Successivamente lo stesso principio è stata espresso da Cass. civ. Sez. I, 19 agosto 2015, n. 16909 la quale, sul presupposto proprio della differenza tra contenuto essenziale e contenuto eventuale, ha escluso nel modo più assoluto che le clausole contrattuali eventuali possano essere oggetto di modifica su domanda di parte. Si legge in questa importante sentenza che la separa¬zione consensuale è un negozio di diritto familiare avente un contenuto essenziale – il consenso reciproco a vivere separati, l’affidamento dei figli, l’assegno di mantenimento ove ne ricorrano i presupposti (in sostanza le pattuizioni volte ad assolvere ai doveri di solidarietà coniugale per il tempo successivo alla separazione) – ed un contenuto eventuale, non direttamente collegato al precedente matrimonio, ma costituito dalle pattuizioni che i coniugi intendono concludere in relazione all’instaurazione di un regime di vita separata, a seconda della situazione pregressa e concernenti altre statuizioni economiche. Pertanto, l’accordo mediante il quale i coniugi pongono consensualmente termine alla convivenza può racchiudere ulteriori pattuizioni, distinte da quelle che integrano il suo contenuto tipico predetto e che ad esso non sono immediatamente riferibili: si tratta di quegli accordi che pur trovando la loro occasione nella separazione consensuale, non han¬no causa in essa, risultando semplicemente assunti “in occasione” della separazione medesima, senza dipendere dai diritti e dagli obblighi che derivano dal perdurante matrimonio, ma costituen¬do espressione di libera autonomia contrattuale (nel senso che servono a costituire, modificare od estinguere rapporti giuridici patrimoniali ai sensi dell’art. 1321 c.c.), al fine di regolare in modo tendenzialmente completo tutti i pregressi rapporti, e che sono del tutto leciti, secondo le ordinarie regole civilistiche negoziali e purché non ledano diritti inderogabili. Queste diverse pattuizioni – concludono i giudici della prima sezione della Corte di cassazione – si configurano come del tutto autonome e riguardano profili fra di loro pienamente compatibili, sebbene diverso ne sarà il tratta¬mento allorché una delle parti ne chieda la modifica o la conferma, in sede di ricorso ad hoc ex art. 710 c.p.c. o in sede di divorzio. Infatti, in caso di sopravvenienza di un quid novi, modificativo della situazione in relazione alla quale gli accordi erano stati stipulati, è possibile la modificazione degli accordi solo con riguardo alle clausole aventi causa nella separazione personale, ma non per gli autonomi patti, che restano a regolare i reciproci rapporti ai sensi dell’art. 1372 del codice civile.
In passato anche la giurisprudenza di merito aveva sostenuto che l’accordo di trasferimento di beni immobili ha natura del tutto autonoma ed estranea all’ambito del contenuto necessario del¬la convenzione di separazione, derivandone che, per la modifica di tale specifica clausola, non è ammissibile il ricorso al procedimento di cui all’art. 710 c.p.c. (Trib. Mantova, 17 luglio 1995).
Resta così confermata la piena autonomia delle diverse parti dell’accordo di separazione o di di¬vorzio. La parte negoziale necessaria è modificabile in ragione della clausola rebus sic stantibus, mentre la parte contrattuale eventuale è soggetta alla regola pacta sunt servanda.
IX Può essere chiesta la modifica dei provvedimenti in relazione a nuovi orientamenti della giurisprudenza di legittimità?
Va affrontato il problema se il procedimento di revisione delle condizioni di separazione o di divor¬zio possa essere azionato sulla base della sopravvenienza di un orientamento nuovo della giuri¬sprudenza di legittimità.
Il problema si è posto in questi tempi soprattutto in seguito alle sentenze con cui la prima sezione della Corte di Cassazione (Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 ed altre successive) avevano ribaltato l’orientamento costantemente seguito dalla giurisprudenza da quasi trent’anni (a seguito di Cass. civ. Sez. Unite, 29 novembre 1990, n. 11490) – con l’avallo di Corte Cost. 11 febbraio 2015 n. 11 – secondo cui il diritto all’assegno divorzile trova fondamento e giusti¬ficazione nella circostanza che l’ex coniuge richiedente non ha “mezzi adeguati” (art. 5, comma 6, della legge sul divorzio) a mantenere tendenzialmente il tenore di vita goduto nel corso della convivenza matrimoniale. La prima sezione della Cassazione con le sentenze sopra richiamate ha ritenuto che questo criterio attributivo e giustificativo del diritto all’assegno divorzile debba essere sostituito da altro criterio basato su diversa interpretazione dell’espressione “mezzi adeguati”. Sa¬rebbero tali, secondo l’interpretazione che era stata proposta, quelli che possono garantire, a chi li possiede, una autosufficienza economica. Il problema è ora superato dal fatto che le Sezioni Unite, intervenute a risolvere questa questione (Cass. civ. Sez. Unite, 11 luglio 2018, n. 18287) han¬no sconfessato il suddetto orientamento della Prima sezione e modificato il principio affermando che “ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, dopo le modifiche introdotte con la L. n. 74 del 1987, il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assisten¬ziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’a¬vente diritto. Si tratta di principi nuovi che modificano anche l’impostazione precedente di Cass. civ. Sez. Unite, 29 novembre 1990, n. 11490 e che quindi pongono problemi, per così dire intertemporali, di interpretazione giurisprudenziale delle norme di legge.
Ci si deve, quindi, chiedere se un nuovo orientamento possa legittimare una parte (per esempio l’ex coniuge obbligato al pagamento dell’assegno divorzile) a richiedere una modifica dell’assetto economico stabilito in precedenza sulla base di un orientamento difforme.
a) Il valore delle decisioni della Corte di cassazione
L’attività interpretativa della giurisprudenza nei Paesi di civil law racchiude in sé ineliminabili mo¬menti di creazione del diritto. Tuttavia l’art. 1 delle preleggi non indica tra le fonti del diritto le sentenze dei giudici.
Un conto è, però, il valore della sentenza nell’ordinamentale generale e un conto è il valore che le sentenze, specificamente quelle della Corte di cassazione, hanno in ambito giudiziario. In base a quanto dispone l’art. 65 dell’Ordinamento giudiziario (Attribuzioni della corte suprema di cassazio¬ne) “La Corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osser¬vanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni…”. Il che comporta che le decisioni della Cassazione sono di fatto vincolanti per i giudici. L’art. 374 c.p.c.3 (Pronuncia a sezioni unite) pone solo una deroga riferibile al rapporto tra una sezione della Corte e le Sezioni unite prescrivendo al quarto comma che “…Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”.
Proprio per sottolineare il valore delle decisioni della Corte di cassazione l’art. 360-bis c.p.c. di¬chiara che il ricorso per cassazione è inammissibile, tra l’altro, “quando il provvedimento impugna¬to ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa”.
L’interpretazione delle norme di diritto da parte della Corte di cassazione (nell’esercizio della sua essenziale funzione nomofilattica) determina quello che viene chiamato significativamente “diritto vivente” ed in questi limiti è certamente corretto affermare che le sentenze acquisiscono in senso lato una funzione di creazione delle regole di diritto.
Pertanto un nuovo orientamento interpretativo della Corte di cassazione in una determinata ma¬teria si traduce in una sopravvenienza in grado di imporsi nell’applicazione al caso concreto come nuova regola di diritto applicabile nei giudizi aventi ad oggetto quella materia.
b) L’applicazione di nuovi orientamenti giurisprudenziali nei procedimenti in corso
Si è visto che sia in sede separazione che in sede di divorzio l’ordinanza del presidente può essere revocata o modificata dal giudice istruttore e naturalmente il giudice istruttore ha poi sempre il potere di modificare anche i provvedimenti da lui stesso emessi.
Le ragioni della modifica che viene richiesta non sono rilevanti. Qualsiasi ragione può essere pro¬posta al giudice, ivi compresa quindi quella di adeguare l’assetto economico ad una legge soprav¬venuta o ad un nuovo orientamento giurisprudenziale di legittimità. Le norme sopra richiamate non impongono alcuna restrizione. E d’altra parte lo stesso giudice, ove il nuovo orientamento provenisse da decisioni della Corte di cassazione, avrebbe il dovere di applicarne i principi.
Ciò premesso, non possono esserci dubbi sul fatto che un nuovo orientamento della giurispruden¬za di legittimità debba trovare applicazione nei procedimenti in corso, anche d’ufficio, fatta salva l’esistenza dei presupposti e l’assolvimento dell’onere della prova da parte dell’interessato che ne potrebbe essere impedito dalle eventuali preclusioni processuali già intervenute. In tal caso nulla impedirebbe anche d’ufficio al giudice di rimettere la causa sul ruolo per la formazione della prova in ordine ai nuovi presupposti attributivi dell’assegno. Nei procedimenti in corso (in primo grado e in fase di impugnazione), insomma, prima del formarsi del giudicato, è sempre proponibile una richiesta di modifica dei provvedimenti vigenti per adeguarli ad un nuovo orientamento.
c) Il problema dell’applicabilità di nuovi orientamenti dopo il giudicato sull’assegno
Più problematica si presenta, invece, la situazione ove si intendesse fare applicazione di un nuo¬vo orientamento giurisprudenziale dopo il giudicato già formatosi sull’assegno di separazione o sull’assegno divorzile.
3 Art. 374 (Pronuncia a sezioni unite)
La Corte pronuncia a sezioni unite nei casi previsti nel n. 1) dell’articolo 360 e nell’articolo 362. Tuttavia, tranne che nei casi di impugnazione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, il ricorso può essere as¬segnato alle sezioni semplici, se sulla questione di giurisdizione proposta si sono già pronunciate le sezioni unite.
Inoltre il primo presidente può disporre che la Corte pronunci a sezioni unite sui ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, e su quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza.
Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso.
In tutti gli altri casi la Corte pronuncia a sezione semplice.
Per quanto si dirà, benché la soluzione possa apparire ingiusta, non sembra sussista la possibilità di poter pretendere, attraverso un procedimento di modifica delle condizioni di divorzio, l’applica¬zione di nuovi orientamenti giurisprudenziali dopo il giudicato sull’assegno.
Le ragioni sono connesse sostanzialmente al tema dell’intangibilità del giudicato.
1) La ratio della regola rebus sic stantibus
La validità rebus sic stantibus di tutti i provvedimenti anche di natura economica nel diritto di famiglia è alla base stessa dei principi di modificabilità espressi nell’art. 9 della legge sul divorzio. Il principio costantemente affermato è che la sentenza, in relazione alle statuizioni di carattere patrimoniale in essa contenute, passa in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, anche se la soprav¬venienza di fatti nuovi, successivi alla sentenza, non è di per sé idonea ad incidere direttamente ed immediatamente sulle statuizioni di ordine economico da essa recate e a determinarne automati¬camente la modifica, essendo al contrario necessario che i “giustificati motivi” sopravvenuti siano esaminati dal giudice e che il giudice, valutati detti fatti, rimodelli, in relazione alla nuova situazio¬ne, ricorrendone le condizioni di legge, le precedenti statuizioni (tra le tante Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2017, n. 2953; Cass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17618; Cass. civ. Sez. I, 29 dicembre 2011, n. 30033; Cass. civ. Sez. I, 9 maggio 2011, n. 10077).
La giurisprudenza considera quali presupposti della domanda di modifica “fatti nuovi sopravve¬nuti”, modificativi della situazione in relazione alla quale il provvedimento era stato adottato o l’accordo su quelle statuizioni era stato stipulato (tra le tante Cass. civ. Sez. VI, 6 giugno 2014, n. 12781; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2009, n. 14093; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11488; Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2007, n. 24321; Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2001, n. 3149).
La ratio di questa vera e propria deroga all’intangibilità del giudicato, quindi, sta proprio nella necessità che nell’ambito del diritto di famiglia i provvedimenti possano essere costantemente adeguati alla situazione di fatto che li aveva giustificati. Al di là di questo non è, però, ipotizzabile una generale modificabilità dei provvedimenti.
2) L’intangibilità del giudicato
L’art. 2909 c.c. (Cosa giudicata) afferma il principio che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. Da un punto di vista sostanziale il giudicato si riferisce all’accertamento contenuto nella sentenza che abbia acquisito l’autorità della cosa giudicata formale, in quanto non sia più soggetta a regolamento di competenza o ad alcuno dei mezzi ordinari di impugnazione (appello, ricorso per cassazione, re¬vocazione per i motivi di cui all’art. 395, n. 4 e 5), previsti nell’art. 324 c.p.c. traducendosi in un preciso vincolo giuridico, in forza del quale quell’accertamento fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. La conseguenza di questa preclusione è l’immodificabilità della sentenza.
La formula secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile significa che il giudicato copre non soltanto le ragioni giuridiche fatte valere (giudicato esplicito) ma anche tutte le altre – propo¬nibili sia in via di azione che di eccezione – le quali, sebbene non dedotte specificamente si carat¬terizzano per la comune inerenza ai fatti costitutivi delle pretese anteriormente svolte (giudicato implicito).
Questi concetti sono stati affermati in generale (Cass. civ. Sez. III, 20 aprile 2017, n. 9954; Cass. civ. Sez. lavoro, 23 febbraio 2016, n. 3488; Cass. civ. Sez. I, 5 luglio 2013, n. 16824; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 agosto 2012, n. 14535; Cons. Stato Sez. IV, 17 maggio 2012, n. 2833; Cass. civ. Sez. I, 28 ottobre 2011, n. 22520; Cass. civ. Sez. lavoro, 30 giugno 2009, n. 15343; Cass. civ. Sez. lavoro, 3 agosto 2007, n. 17078; Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 2007, n. 14055; Cass. civ. Sez. lavoro, 24 marzo 2004, n. 5925; Cass. civ. Sez. I, 29 maggio 1999, n. 5263; Cass. civ. Sez. I, 19 agosto 1993, n. 8784) ma anche spesso in vicende relative proprio all’assegno di divorzio (Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2017, n. 2953; Cass. civ. Sez. I, 1 febbraio 2016, n. 1863; Cass. civ. Sez. I, 25 agosto 2005, n. 17320; Cass. civ. Sez. I, 2 novembre 2004, n. 21049; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 1998, n. 1031) dove il principio costantemente affermato è che le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata rebus sic stantibus, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli, in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile.
Anche l’efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale trova un limite nei rapporti esauriti in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato (art. 136 Cost. e art. 30 legge 11 marzo 1953, n. 87 secondo cui la norma dichiarata incostituzionale cessa di avere effetti dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione). Come è stato ben ribadito recentemente (Cons. Stato Sez. III, 20 ottobre 2016, n. 4396; Cons. Stato Sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1458) la dichiarazione di illegittimità costituzionale determina la invalidità originaria della legge, sia essa di natura sostanziale, procedimentale o processuale, per contrasto con un precetto costi¬tuzionale, sicché essa elimina la norma con effetto ex tunc, con la conseguenza che essa non è più applicabile, indipendentemente dalla circostanza che la fattispecie sia sorta in epoca anteriore alla pubblicazione della decisione; fermo restando il principio che gli effetti dell’incostituzionalità non si estendono ai diritti quesiti e ai rapporti ormai esauriti in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l’ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali, o decadenze e prescrizio¬ni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d’incostituzionalità.
3) Solo la legge può disporre l’applicazione di una normativa nuova ai rapporti definiti con il giudicato
Quanto sopra detto, circa l’intangibilità del giudicato, trova una conferma anche nella legge 8 feb¬braio 2006 n. 54 sull’affidamento condiviso. L’art. 4 di tale legge (disposizioni finali) prevedeva che “Nei casi in cui il decreto di omologa dei patti di separazione consensuale, la sentenza di separa¬zione giudiziale, di scioglimento, di annullamento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio sia già stata emessa alla data di entrata in vigore della presente legge, ciascuno dei genitori può richiedere, nei modi previsti dall’articolo 710 del codice di procedura civile o dall’articolo 9 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, l’applicazione delle disposizioni della presente legge”.
Questa norma – che si riferisce ai casi in cui era passata in giudicato la sentenza (imprecisa formu¬lazione: “già stata già emessa”) che aveva fatto applicazione dei precedenti criteri di affidamento – ha senso solo se si considera che altrimenti anche la stessa legge nuova non avrebbe potuto estendere i suoi effetti ai rapporti definiti con decisioni passate in giudicato (ancorché rebus sic stantibus).
Anche la giurisprudenza affermò che questa norma non autorizzava a ritenere immediatamente applicabili le disposizioni della nuova legge al passato, non rinvenendosi una deroga al principio generale, sancito dall’art. 11 delle preleggi, della irretroattività della legge, ma che le nuove di¬sposizioni potevano trovare applicazione soltanto attraverso un nuovo procedimento nelle forme previste dall’art. 710 cod. proc. civ. (Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2006, n. 20256; Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2010, n. 24996).
Pertanto se non ci fosse stata la legge a prevederlo espressamente, la normativa sopravvenuta non avrebbe potuto essere posta a fondamento di un procedimento di revisione delle condizioni di divorzio, ostandovi l’intangibilità giudicato.
4) Il mutamento repentino di giurisprudenza
Si ritiene in ambito processualistico che soltanto i fatti giuridici (costitutivi, modificativi, impeditivi od estintivi), i quali non sarebbero stati nemmeno “deducibili” (o suscettibili di allegazione e di prova) in un processo, per essere ontologicamente sopravvenuti dopo il maturarsi dell’ultima pre¬clusione utile, non sono “coperti” o “preclusi” da quel giudicato.
Si parla a tale proposito di overruling giurisprudenziale che ricorre quando si registra una svolta re¬pentina rispetto ad un precedente diritto vivente consolidato che si risolve in una compromissione del diritto di azione e di difesa di una parte. Secondo la giurisprudenza tale situazione ricorre quan¬do il cambio di orientamento ha ad oggetto una norma processuale, quando si tratta di un muta¬mento imprevedibile e quando esso determina un effetto preclusivo del diritto di azione o difesa.
Nel caso del cambiamento relativo ai presupposti attributivi dell’assegno non siamo in presenza di un cambiamento relativo ad una regola processuale.
I principi richiamati sono stati elaborati in applicazione dei valori del giusto processo, e tendono ad escludere la validità di un nuovo e improvviso orientamento giurisprudenziale nei confronti della parte che abbia confidato nella consolidata precedente interpretazione della stessa regola.
Secondo Cass. civ. Sez. Unite, 11 luglio 2011, n. 15144 – che ha precisato e riassunto tutti questi principi – per effetto di essi il comportamento processuale che si era conformato al prece¬dente diritto vivente, va valutato con riferimento alla giurisprudenza vigente al momento dell’atto stesso e non con riferimento a quella nuova. Trattasi di una “soluzione confortata dall’esigenza di non alterare il parallelismo tra legge retroattiva e interpretazione giurisprudenziale retroattiva, per il profilo dei limiti, alla retroagibilità della regola, imposti dal principio di ragionevolezza. Ciò che non è consentito alla legge non può similmente essere consentito alla giurisprudenza”.
La giurisprudenza si è adeguata a questi limiti di rilevanza del cambiamento repentino rispetto al precedente diritto vivente (T.A.R. Abruzzo Pescara Sez. I, 10 agosto 2016, n. 291 secondo cui il giudicato è insensibile ai mutamenti legislativi e giurisprudenziali sopravvenuti; Cass. civ. Sez. VI, 27 luglio 2016, n. 15530, Cass. civ. Sez. II, 11 marzo 2016, n. 4826 e Cass. civ. Sez. I, 28 ottobre 2015, n. 22008, Cass. civ. Sez. VI, 9 gennaio 2015, n. 174; Cass. civ. Sez. Unite, 16 giugno 2014, n. 13676 nelle quali tutte si precisa che in tema di overruling rileva il solo mutamento imprevedibile di un consolidato orientamento giurisprudenziale di una regola del processo, che comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte).
Applicazione nell’ambito del diritto di famiglia è stata fatta da Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2015, n. 25676 secondo cui alla luce del principio costituzionale del giusto processo, non ha rilevanza preclusiva l’errore della parte che, convenuta in un giudizio di delibazione di sentenza ecclesiastica dichiarativa di nullità matrimoniale, abbia tardivamente eccepito, quale situazione ostativa alla delibazione, la convivenza di lunga durata “come coniugi”, facendo affidamento su una giurisprudenza di legittimità, consolidata al momento della sua tempestiva costituzione ma poi travolta da un mutamento interpretativo (dovuto alla sentenza n. 16379 del 2014 delle Sezioni Unite che, innovando quella giurisprudenza, hanno qualificato detta eccezione come in senso stret¬to), che riteneva il relativo fatto rilevabile d’ufficio, dovendo altresì individuarsi nella rimessione in termini lo strumento per ovviare a quell’errore. In seguito, però, con altra decisione (Cass. civ. Sez. I, 19 dicembre 2016, n. 26188) la rimessione in termini, sulla stessa questione, non è stata riconosciuta.
Da quanto precede deriva che al mutamento improvviso di giurisprudenza viene riconosciuta rile¬vanza solo se il mutamento riguarda una regola processuale prima consolidata in giurisprudenza e sempre che il mutamento si rivolge in danno (e non a vantaggio) della parte che aveva incolpe¬volmente confidato nel precedente indirizzo.
Sulla base di queste premesse non è possibile attribuire al mutamento di giurisprudenza in ordine ai presupposti attributivi dell’assegno divorzile la forza idonea a giustificare un’istanza di revisione delle condizioni di divorzio.
d) I nuovi orientamenti della giurisprudenza come “motivo giustificato” di revisione?
Come si è ampiamente detto, una domanda di revisione (dopo il giudicato) può essere presentata solo “qualora sopravvengano giustificati motivi dopo la sentenza…”.
La giurisprudenza, come anche si è già detto, ha sempre interpretato i giustificati motivi che auto¬rizzano la modifica delle condizioni della separazione come “fatti” nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale i provvedimenti erano stati adottati (Cass. civ. Sez. I, 30 aprile 2015, n. 8839; Cass. civ. Sez. VI, 6 giugno 2014, n. 12781; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2009, n. 14093; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11488; Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2007, n. 24321; Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2001, n. 3149) e che in genere consi¬stono in circostanze sopravvenute che riguardano il peggioramento o il miglioramento dei redditi o della condizione patrimoniale – anche rispetto a nuovi eventi della vita quali la nascita id un figlio, un nuovo matrimonio o altro – e per le quali il giudice deve verificare se, ed in quale misura, ab¬biano alterato l’equilibrio stabilito in precedenza (Cass. civ. Sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 214 e Cass. civ. Sez. VI, 20 giugno 2014, n. 14143; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11487; Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 2008, n. 1595; Cass. civ. Sez. I, 3 agosto 2007, n. 17041; Cass. civ. Sez. I, 30 maggio 2007, n. 12687; Cass. civ. Sez. I, 23 agosto 2006, n. 18367; Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 2003, n. 11720; Cass. civ. Sez. I, 9 dicembre 1993, n. 12125).
Questa impostazione è assolutamente in linea con la ratio della validità rebus sic stantibus delle sentenze o dei provvedimenti camerali di separazione e divorzio e con il limite generale di cui si è parlato dell’intangibilità del giudicato.
Al di fuori di questi limiti la violazione del giudicato sarebbe arbitraria.
Pertanto non sarebbe accettabile una ricostruzione delle cause giustificative della revisione delle condizioni di separazione e divorzio che volesse intrepretare l’espressione “giustificati motivi” oltre il significato che la giurisprudenza ha fin qui dato a questa espressione.
Astrattamente pertanto – e volendo seguire una interpretazione solamente letterale dell’espres¬sione – si potrebbe anche sostenere che un nuovo e diverso orientamento della giurisprudenza potrebbe integrare quei “giustificati motivi” che consentono l’istanza di revisione. Così facendo, però (e dando alla parola “motivi” un senso generico e completamente diverso da quello ristretto di “fatti sopravvenuti”) si finisce per violare e incrinare quei limiti di intangibilità del giudicato che, come si è sopra detto, costituiscono il fondamento del processo civile.
Viceversa si deve ribadire che l’unica eccezione all’intangibilità del giudicato nell’ambito del diritto di famiglia è la regola rebus sic stantibus prevista e valida al solo fine di consentire l’adeguamento dei provvedimenti alle circostanze di fatto che modificano i presupposti in base ai quali quei prov¬vedimenti erano stati adottati.
In conclusione a seguito della decisione Cass. civ. Sez. Unite, 11 luglio 2018, n. 18287 nulla cambia, rispetto al passato, in ordine alla richiesta di riduzione o di revoca dell’assegno divorzile (ove una sopravvenienza riduca le possibilità economiche della parte che eroga l’assegno), mentre problematica si rivela la possibile richiesta di aumento dell’importo da parte del beneficiario in quanto la disparità economica è stata inevitabilmente già considerata al momento dell’attribuzione e non può certamente essere oggetto di un giudizio di revisione. E’ viceversa da escludere che il mancato riconoscimento dell’assegno divorzile con sentenza passata in giudicato (allorché la sentenza abbia ritenuto insussistenti i presupposti di attribuzione) possa portare ad una richiesta di revisione, ostandovi proprio il giudicato sulla inesistenza dei presupposti, restando confermato che il principio del giudicato rebus sic stantibus opera con riguardo agli elementi di fatto e non ai presupposti di diritto.
X La disciplina processuale
a) Rito camerale e natura contenziosa dei procedimenti di revisione
Il procedimento di revisione delle condizioni di separazione e di divorzio è disciplinato dal rito camerale.
Come si è visto, il rito camerale è previsto espressamente per la separazione nell’art. 710 c.p.c. (“le parti possono sempre chiedere con le forme del procedimento in camera di consiglio, la modificazio¬ne dei provvedimenti riguardanti i coniugi e la prole, conseguenti la separazione”) e per il divorzio, fin dall’origine, nell’art. 9 della legge 898/1970 (ancorché successivamente modificato dalla legge 1° agosto 1978, n. 436 e in seguuto anche dalla legge 6 marzo 1987, n. 74) dove si prescrive che “Qualora sopravvengano giustificati motivi dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la ces¬sazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, in camera di consiglio e, per i provvedimenti relativi ai figli, con la partecipazione del pubblico ministero, può, su istanza di parte, disporre la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere ai sensi degli articoli 5 e 6”. Il testo originario dell’art. 9 – prima delle modifiche operate dalla legge 436/78 – precedeva che “il tribunale provvede in camera di consiglio, assunte informazioni e sentite le parti ed il pubblico ministero”.
La previsione dell’assunzione di “informazioni” e della sola audizione degli interessati” apparve limitativa del diritto di difesa e del dirrto più generale alla prova, in un ambito importante come quello della modifica delle condizioni divorzili. E fu così che la questione giunse subito davanti alla Corte costituzionale.
Si deve a Corte cost. 10 luglio 1975, n. 202 la prima importante precisazione sui presuppisti di plausibilità del rito camerale in questo ambito (in seguito scelto dal legislatore come rito elettivo in quasi tutte le procedure di diritto di famiglia). Affermò la Corte in particolare che, pur ammettendo la natura decisoria del provvedimento emesso a norma dell’art. 9, impugnato, l’ordinamento cono¬sce vari casi di provvedimenti decisori adottati in camera di consiglio, in cui la procedura é disposta anche in presenza di elementi della giurisdizione contenziosa. L’adozione di tale procedimento nei casi suddetti risponde a criteri di politica legislativa, inerenti alla valutazione che il legislatore ha compiuto in relazione alla natura degli interessi regolati ed alla opportunità di adottare determi¬nate forme processuali. Questa scelta é discrezionale ed é indubbiamente esente da sindacato in questa sede, poiché, mentre il procedimento in camera di consiglio non é, di per sé, contrastante con il diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost., il problema della scelta concreta del procedimento da adottare é problema di politica processuale, il cui esame sfugge alla competenza della Corte nei limiti in cui, ovviamente, non si risolva nella violazione di specifici precetti costituzionali e non sia viziata da irragionevolezza. Pertanto, la scelta del rito camerale per la revisione delle pronunzie di ordine patrimoniale di cui alla sentenza di divorzio, si presenta con le suesposte caratteristiche di legittima discrezionalità.
Aggiunse però la Corte che, “secondo la costante giurisprudenza della Corte, l’osservanza del diritto di difesa non preclude la possibilità che la relativa disciplina si conformi alle speciali ca¬ratteristiche della struttura dei singoli procedimenti, purché ne vengano assicurati lo scopo e la funzione, cioé la garanzia del contraddittorio, in modo che sia escluso ogni ostacolo a far valere le ragioni delle parti. Il procedimento in esame riflette condizioni generalmente tali da garantire l’osservanza del diritto di difesa, salvo che in un punto particolare che verrà esaminato in seguito. Infatti, secondo quanto espressamente dispone l’articolo impugnato, le parti debbono essere sen¬tite ed é certo, quindi, che compete al giudice il potere-dovere di controllarne la convocazione, il che costituisce sufficiente garanzia della possibilità per le parti stesse di esporre le proprie ragioni in relazione all’oggetto del ricorso. D’altra parte, la lettera e la “ratio” della norma non escludono l’assistenza del difensore, non rinvenendosi nessuna disposizione ostativa al riguardo, mentre é nel sistema, anche a proposito dei procedimenti speciali, che la parte si possa far rappresentare o almeno assistere da un difensore. Onde, in mancanza di una norma che vieti codesta assistenza, si deve ritenere che la stessa sia implicitamente ammessa e consentita”. Ed é, d’altra parte, nota la giurisprudenza della Corte con cui é stato ripetutamente affermato il principio in base al quale l’assistenza del difensore in ogni tipo di procedimento ed in ogni fase processuale non é assoluta¬mente inderogabile, essendone possibile la disciplina in aderenza alle speciali caratteristiche del singolo atto o procedimento preso in considerazione purché sia assicurata la finalità sostanziale. Il diritto di difesa deve, quindi, ritenersi garantito da norme in virtù delle quali, come quelle in esame, é assicurata alla parte la “possibilità” di tutelare in giudizio le proprie ragioni facendosi assistere da un difensore”.
Uguali considerazioni faceva la Corte per quanto riguarda la lamentata violazione del diritto di difesa, che deriverebbe dal fatto che le modifiche, in revisione delle statuizioni contenute nella sentenza di divorzio, sono disposte con decreto, e verrebbero ad incidere, pertanto, su materia già decisa con sentenza e con efficacia di giudicato. Deve riconoscersi, al riguardo, che vi sono sen¬tenze, le quali, nella regolazione di tutto o di parte del rapporto dedotto in giudizio, vengono pro¬nunziate sulla base di una valutazione discrezionale, da parte del giudice, delle circostanze di fatto assunte a base della decisione. Tali sentenze sono modificabili con una nuova decisione, qualora intervengano mutamenti nelle dette circostanze, nell’evidente intento di salvaguardare le esigenze di giustizia ed equità cui la sentenza si deve ispirare. Ed é, appunto, espressione di tale principio la modificabilità del regime patrimoniale della separazione personale e del divorzio, le cui disposizioni vengono infatti assunte dal giudice rebus sic stantibus in base a valutazione discrezionale delle condizioni obbiettive dei coniugi separati o divorziati al momento della pronunzia.
Viceversa fu molto severo il giudizio sulla concreta modalità del rispetto del diritto di difesa. Rilevò infatti la Corte che l’art. 9 della legge sul divorzio, nell’indicare i mezzi probatori consentiti, per coonestare o per contraddire la domanda di revisione, fa riferimento testuale alla sola “assunzione di informazioni” ossia ad un mezzo di indagine non formale, ma atipico, consistente tradizional¬mente nell’acquisizione di dati forniti, a richiesta, dalla polizia giudiziaria o dalla pubblica ammini¬strazione. Ciò può concorrere al fine dell’indagine da compiere, ma non esaurirla, trattandosi, in materia, di accertamenti che richiedono ogni possibile approfondimento, data la pluralità, come si é detto, degli elementi di giudizio, in relazione all’istituto del divorzio e delle sue conseguenze. Così potrebbe profilarsi, nel corso delle indagini ufficiose affidate al giudice, ovvero richieste con istanza di parte, la necessità o l’opportunità di acquisire una diretta e personale attestazione da parte di terzi, sotto forma di testimonianza, circa i fatti in controversia: come le stesse esigenze potrebbero verificarsi per quanto riguarda l’espletamento di una consulenza tecnica. In questi casi, l’attuale formula di legge é espressa in senso restrittivo, che solo con evidente forzatura del testo, potrebbe essere ritenuta estensibile ad ipotesi non contemplate. Da ciò consegue, constatata questa limita¬zione del diritto di difesa, la dichiarazione di illegittimità in parte qua della disposizione impugnata.
Quindi la Corte dichiarava la illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma secondo, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nella parte in – cui non consente il normale esercizio di facoltà di prova; ma non fondata la questione di legittimità costi¬tuzionale dell’art. 9 sotto gli altri profili.
Pertanto l’acquisizione più importante che si deve alla Corte costituzionale è l’aver precisato che il rito camerale è plausibile se rispetta anche in concreto il diritto di difesa e il diritto pieno alla prova. Nel procedimento di revisione sono quindi ammissibili tutti i mezzi di prova.
Poiché, come meglio si dirà, secondo la giurisprudenza ormai pacifica, il procedimento di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio ha natura contenziosa e si svolge nel pieno contraddit¬torio delle parti, titolari di confliggenti diritti soggettivi è evidente che tale natura contenziosa pre¬suppone e impone che le parti siano obbligatoriamente assisteite da un difensore ai snesi dell’art. 82 del codice di procedura civile.
È anche non controverso, inoltre, che nel procedimento si applicano le disposizioni compatibili del rito ordinario (per esempio in ordine alla possibilità della domanda riconvenzionale della parte resistente ammesaa da Cass. civ. Sez. I, 9 maggio 2011, n. 10077; in ordine all’intervento del figlio maggiorenne ammesso da Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2012, n. 4296) e delle regole sostanziali del procedimento (per esmepio in ordine all’audizione del figlio minore, come chiarito da Cass. civ. Sez. Unite, 21 ottobre 2009, n. 22238).
Con queste premesse si possono ora esaminare alcune questioni specifiche.
b) Competenza per materia e “vis actractiva” del tribunale ordinario
Come si sa l’art. 38, primo comma, delle disposizioni di attuazione del codice civile (come modifi¬cato dall’art. 3, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219) prescrive che, per i procedimenti di cui agli artt. 330 e 333 cod. civ., la competenza è attribuita in via generale al tribunale dei mi¬norenni, ma, quando sia pendente un giudizio di separazione, di divorzio o ex art. 316 cod. civ., e fino alla sua definitiva conclusione, in deroga a questa attribuzione, le azioni dirette ad ottenere provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale, proposte successivamente, spet¬tano al giudice del conflitto familiare, individuabile nel tribunale ordinario, se sia ancora in corso il giudizio di primo grado, ovvero nella corte d’appello in composizione ordinaria, se penda il termine per l’impugnazione o sia stato interposto appello.
Recentemente Cass. civ. Sez. VI 19 maggio 2016, n. 10365 ha esteso espressamente questa regola anche ai procedimenti di modifica delle condizioni di separazione affermando che la “vis ac¬tractiva” del tribunale ordinario relativamente ad un ricorso ex art. 333 c.c. opera, ai sensi dell’art. 38, comma 1, disp. att. c.c., come modificato dalla l. n. 219 del 2012, anche in pendenza di un giu¬dizio di modifica delle condizioni di separazione riguardanti la prole, a ciò non ostando la diversità di ruolo del P.M. nei due procedimenti (ricorrente in quello minorile ed interventore obbligatorio nell’altro), atteso che una diversa opzione ermeneutica, facente leva sul solo tenore letterale della citata disposizione, ne tradirebbe la “ratio” di attuare, nei limiti previsti, la concentrazione delle tu¬tele onde evitare, a garanzia del preminente interesse del minore, il rischio di decisioni contrastan¬ti ed incompatibili, tutte temporalmente efficaci ed eseguibili, resi da due organi giudiziali diversi.
c) La competenza territoriale.
Mentre nessun dubbio vi è sul fatto che la competenza per materia appartenga al tribunale (art. 710. secondo comma, c.p.c.) in composizione collegiale (trattandosi di procedimento in camera di consiglio: art. 50-bis c.p.c.), per quanto concerne la competenza territoriale (inderogabile ex art. 28 c.p.c.), nel silenzio dell’art. 710 c.p.c., la giurisprudenza ritiene pacificamente che si applicano (non le regole della competenza per la separazione ma) i criteri ordinari indicati nell’art. 18 c.p.c. (giudice del luogo in cui il convenuto risiede) ovvero dell’art. 20 c.p.c. (giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione) e quindi il luogo in cui è stata pronunciata la separazione ovvero il luogo di residenza del creditore ex art. 1182, comma 3, c.c. (Cass. civ. Sez. Unite, 16 gennaio 1991, n. 381).
L’orientamento si è poi consolidato nel tempo. È quindi competente secondo la giurisprudenza oltre al tribunale del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio (foro generale delle persone fisiche ex art. 18 c.p.c.), anche in via alternativa e facoltativa innanzitutto il tribunale del luogo in cui è sorta l’obbligazione e cioè il tribunale dove è stata omologata o decisa la separazione. Invece è stato escluso decisamente che sia competente il tribunale del luogo in cui è stato celebrato il matrimonio in quanto le obbligazioni connesse alla separazione non nascono con il matrimonio ma con la sentenza o con l’omologa della separazione (Cass. civ. Sez. I, 22 marzo 2001, n. 4099).
In secondo luogo e in via facoltativa è anche competente il tribunale del luogo in cui deve essere eseguita l’obbligazione dedotta in giudizio (art. 20 c.p.c.) (Cass. civ. Sez. VI, 2 aprile 2013, n. 8016; Cass. civ. Sez. I, 5 settembre 2008, n. 22394; Cass. civ. Sez. I, 22 marzo 2001, n. 4099 e per la giurisprudenza di merito Trib. Genova Sez. IV, 7 marzo 2013 (nello specifico per il mantenimento di figli minori), Trib. Trieste 26 gennaio 2010, Trib. Santa Maria Capua Vetere, 25 giugno 1996) e quindi il tribunale del luogo in cui, in sostanza, risiede la parte credi¬trice del mantenimento (art. 1182, comma 3, c.c. che indica il domicilio del creditore quale luogo dell’adempimento di obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro).
Queste conclusioni valgono sia per le obbligazioni economiche connesse al mantenimento coniu¬gale che per quelle connesse al mantenimento dei figli.
Non vi sono ragioni per non applicare sostanzialmente gli stessi principi alle modifiche delle con¬dizioni economiche stabilite in sede divorzile con la precisazione che i criteri di competenza terri¬toriale indicati nell’art. 4 della legge sul divorzio per la domanda introduttiva (così come risultanti a seguito della sentenza Corte cost. 23 maggio 2008, n. 169 che ha escluso il foro dell’ultima residenza comune) coincidono con i criteri del foro generale delle persone fisiche e sono validi per¬tanto anche per i procedimenti di revisione delle condizioni economiche (art. 9, comma 1, legge divorzio), a differenza di quanto si è visto per la separazione (in cui i criteri previsti per la domanda introduttiva dall’art. 706 c.p.c. non valgono per le domande di modifica).
Per i procedimenti di revisione delle condizioni economiche stabilite in sede di divorzio (relative all’assegno divorzile e a quello per i figli). Il legislatore ha sentito il bisogno di ribadire (introdu¬cendo con la riforma di cui alla legge 74/1987 un apposito art. 12-quater nella legge sul divorzio) la validità del criterio generale del foro delle persone fisiche. L’art. 12-quater prevede espressa¬mente che “per le cause relative ai diritti di obbligazione di cui alla presente legge [quindi anche per le domande di revisione] è competente anche il giudice del luogo in cui deve essere eseguita l’obbligazione dedotta in giudizio”. Questa disposizione è stata al centro di un dibattito in giurispru¬denza ritenendosi da parte di qualcuno (Tribunale Firenze, 3 maggio 2006) che essa escluda la competenza del tribunale del luogo in cui è sorta l’obbligazione (cioè il luogo in cui è stata pronun¬ciato il divorzio), non espressamente menzionato nell’art. 12-quater. Benché qualche pronuncia di legittimità abbia dato adito a dubbi in proposito (Cass. civ. Sez. I, 22 marzo 2001, n. 4099; Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2004, n. 336) la soluzione adottata dalla giurisprudenza succes¬siva ammette insieme al foro generale delle persone fisiche, la possibilità di ricorso ad entrambi i fori alternativi previsti dall’art. 20 c.p.c. (Cass. civ. Sez. VI, 2 aprile 2013, n. 8016 dove si afferma che la competenza territoriale a conoscere dei procedimenti di revisione delle disposizioni economiche contenute nella sentenza di divorzio è devoluta al giudice del luogo in cui è sorta l’ob¬bligazione controversa, dovendo applicarsi a tali procedimenti i criteri ordinari di competenza per territorio stabiliti dagli articoli da 18 a 20 del codice di procedura civile. Nella sentenza si afferma – confermando quindi che la soluzione concerne anche le domande di revisione del mantenimento dei figli – che l’art. 12-quater della legge sul divorzio fa chiaro riferimento alla disponibilità dei generali criteri alternativi di determinazione della competenza per le cause relative ai diritti di obbligazione di cui alla legge stessa, tra le quali non vi è ragione per non includere le controversie concernenti l’obbligo dei coniugi di contribuire al mantenimento dei figli. Anche la giurisprudenza di merito si è orientata in questo senso (Trib. Genova Sez. IV, 7 marzo 2013).
La sentenza Cass. civ. Sez. VI, 2 aprile 2013, n. 8016 sopra citata è interessante perché chia¬risce anche che la competenza territoriale per le cause di revisione del mantenimento dei figli non è quella di residenza del minore indicata nell’art. 709-ter, ultimo comma, cod. proc. civ. destinata alla soluzione di controversie insorte tra genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o alle modalità di affidamento (“Per i procedimenti di cui all’art. 710 c.p.c. è competente il tribunale del luogo di residenza del minore”). Affermano i giudici che “inserito in un ambito così delimita¬to, il riferimento, ai fini della attribuzione della competenza al tribunale del luogo di residenza del minore, ai “procedimenti di cui all’art. 710”, che sono destinati invece alla modificazione dei provvedimenti conseguenti alla separazione riguardanti i coniugi ed i figli (analogamente a quanto previsto, in caso di divorzio, dalla L. n. 898 del 1970, art. 9, non si presta certo ad una inequivoca lettura, nè comunque appare idoneo di per sé ad estendere l’ambito di applicazione dell’art. 709- ter regolando in via generale la competenza per i distinti procedimenti di modifica o revisione, sia pure con il limite – peraltro inespresso e di non immediata definizione – alle sole modifiche “coin¬volgenti” i figli. Oltretutto, se questa fosse stata la voluntas legis, la norma avrebbe fatto riferi¬mento all’art. 155-ter del codice civile. Collocato piuttosto nell’ambito dello specifico procedimento regolato dall’art. 709 ter, il generico richiamo all’art. 710, posto in relazione con la disposizione che immediatamente lo precede, appare più semplicemente diretto a regolare la competenza per tale procedimento ove, essendosi concluso il giudizio di separazione o di divorzio, non sia più operan¬te – in ciò analogamente ai procedimenti di cui all’art. 710 – la competenza attribuita dalla norma stessa al giudice della separazione o del divorzio”.
Non è ancora stato affrontato in giurisprudenza il problema se anche per le modifiche del contri¬buto di mantenimento per i figli nati fuori dal matrimonio possano essere seguiti gli stessi criteri ordinari di competenza per territorio stabiliti dagli articoli da 18 a 20 del codice di procedura civile. Non dovrebbe esserci alcun ostacolo a questa soluzione, salvo che assieme al mantenimento non venga richiesta anche una modifica del regime di affidamento in quanto in questo caso la compe¬tenza è del giudice della residenza del minore.
d) La provvisoria esecuzione del decreto camerale del tribunale
Su questo tema era prevalsa in passato l’opinione secondo cui il decreto emesso all’esito del proce-dimento di modifica delle condizioni di separazione non è immediatamente esecutivo, a meno che il giudice non abbia disposto, in presenza di ragioni di urgenza, che esso abbia efficacia immediata. Secondo questo primo orientamento della giurisprudenza di legittimità, quindi, i decreti camerali pronunciati nei giudizi di revisione non sarebbero immediatamente esecutivi poiché acquistano efficacia secondo le speciali regole di cui all’art. 741 c.p.c. (Cass. civ. Sez. I, 27 aprile 2011, n. 9373).
Questa decisione venne presa sulla base della considerazione formale che l’art. 710 c.p.c. venne modificato dalla legge 331 del 1988 che aveva introdotto “le forme del procedimento in camera di consiglio”, richiamandone le regole (articolo 737 e seguenti c.p.c.). Ebbene, l’art. 23 della legge n. 74 del 1987, da intendersi ancora operante, estende ai giudizi di separazione personale, “in quanto compatibili”, le regole dell’art. 4 della legge sul divorzio ove si disciplina la procedura (“per la parte relativa ai provvedimenti di natura economica, la sentenza di primo grado è provvisoria¬mente esecutiva”) facendo, quindi, rimanere estranei alla previsione tanto la disciplina dei pro¬cedimenti di modifica del regime di divorzio, inserita nella legge n. 898, art. 9, quanto quella dei procedimenti di modifica delle condizioni di separazione di cui all’art. 710 c.p.c. Entrambi gli articoli richiamano espressamente la disciplina dei procedimenti in camera di consiglio (art. 737 c.p.c. e ss.), e di essa, dunque, anche la previsione dell’esecutorietà, solo ad opera del giudice (art. 744 c.p.c.). Dunque che i provvedimenti di modifica delle condizioni di separazione (e di divorzio), non sarebbero, secondo questo orientamento, immediatamente esecutivi4.
Il principio è stato successivamente ribaltato da Cass. civ. Sez. III, 20 marzo 2012, n. 4376 secondo cui il provvedimento di chiusura del procedimento di modifica delle condizioni di sepa¬razione (tanto consensuale che giudiziale), previsto dall’art. 710 c.p.c., è immediatamente e au¬tomaticamente esecutivo per quanto si desume all’interno dello stesso art. 710 c.p.c., restando, invece, esclusa la sua soggezione alla disciplina della norma generale del procedimento camerale, di cui all’art. 741 c.p.c.
La questione – affermano i giudici – è ampiamente dibattuta in dottrina e si registrano sul punto orientamenti contrastanti nella giurisprudenza di merito. Di recente questa Corte è intervenuta affermando il seguente principio di diritto: “Il provvedimento di modifica delle condizioni di sepa¬razione, previsto dall’art. 710 cod. proc. civ., non è immediatamente esecutivo, ma solo ove in tal senso sia disposto dal giudice ai sensi dell’art. 741 cod. proc. civ. (il riferimento è alla sentenza 9373/2011 sopra riportata). Il Collegio ritiene, tuttavia, che la conclusione cui è pervenuta la Prima Sezione non sia condivisibile, perché è espressa sulla base di un approccio esegetico che non appare persuasivo. Il punto che non convince in questa prospettazione è che il problema dell’immediata esecutività del provvedimento di chiusura del procedimento di cui all’art. 710 c.p.c., sembrava fin dalla sua introduzione da risolvere e sia ancora da risolvere domandandosi se può e deve avere rilievo ai fini della sua soluzione la disposizione dell’art. 23, comma 1, della legge 87/74 e, quindi, il rinvio con la clausola di compatibilità in esso previsto. Ritiene, infatti, questo Collegio che invece il problema fosse risolvibile attraverso la stessa esegesi dell’art. 710 c.p.c. fin dalla sua introduzione e che la soluzione che si poteva ab origine prospettare abbia nel tempo acquisito ancora maggiore giustificazione.
Sostengono i giudici della Terza sezione che la norma dell’art. 710 nel testo attualmente vigente venne introdotta con la legge n. 331 del 1988 allo scopo di snellire le forme del procedimento e, quindi, in vista dell’accelerazione della tutela da essa assicurata. A questo scopo fu fatta la scelta del rito camerale. Ora nel caso di specie era ed è da domandarsi, non diversamente che in molti altri casi di ricorso alla cameralizzazione, quale ne sia il significato e la risposta a tale quesito deve darsi dando rilievo innanzitutto a quanto il legislatore pur evocando le forme camerali ha inteso disciplinare direttamente o indirettamente in modo tale che l’applicazione al procedimento di tutte le norme del rito camerale risulti fatta espressamente o implicitamente in modo selettivo e non totale. Ebbene i dati in proposito rilevanti nella disciplina introdotta nel 1988 e poi rima¬sta immutata sono numerosi e significativi di un rinvio alle forme camerali non pieno, ma con il limite della compatibilità con le previsioni espresse o implicite della norma. Per esempio il terzo comma stabilisce che “ove il procedimento non possa essere immediatamente definito, il tribunale può adottare provvedimenti provvisori e può ulteriormente modificarne il contenuto nel corso del procedimento”, il che significa che nell’ambito del procedimento si prevede il potere del giudice di adottare provvedimenti anticipatoli della tutela che dovrà scaturire dalla decisione finale, laddove nello schema generale della tutela camerale come disciplinato dagli artt. 737 e ss. c.p.c. non è pre-vista alcuna possibilità di provvedimenti anticipatoli di tutela. Se il legislatore consente una tutela sommaria anticipatoria, anche il provvedimento finale, al di là di un’espressa previsione, si intende regolato nel senso che consente tutela esecutiva immediata: ciò per la ragione che se la situazione giuridica tutelata con il procedimento esige tutela durante il suo svolgimento, a maggior ragione la esige alla sua chiusura. L’esegesi qui indicata si palesa per queste ragioni anche dovuta sul piano costituzionale, atteso che il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale, desumibile dall’art. 24 della Costituzione in riferimento alla garanzia del diritto di azione implicava che alla valutazione del legislatore circa la necessità di una tutela sommaria anticipatoria esecutiva rispetto alla de¬finizione del giudizio, necessariamente corrispondesse una valutazione di identica immediatezza di tutela esecutiva sulla base del provvedimento definitivo, sì da non tollerare l’operatività della diversa regola dell’art. 741 c.p.c..
A risolvere questo contrasto tra orientamenti diversi sull’art. 710 c.p.c. furono chiamate a deci¬dere – in un caso di decreto camerale di revisione delle condizioni di divorzio – le Sezioni unite che aderirono al secondo orientamento, affermando che in materia di revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere a seguito dello scioglimento e della cessazione degli effetti civili del matrimonio, a norma dell’art. 9 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, il decreto pronunciato dal tribunale è immediatamente esecutivo, in conformità di una regola più generale, desumibile dall’art. 4 della stessa legge, che è incompatibile con l’art. 741 cod. proc. civ. in tema
4 Nella giurisprudenza di merito App. Milano, 25 febbraio 2004 aveva ritenuto che i soli provvedimenti di natura economica pronunciati in camera di consiglio nel giudizio di revisione sono immediatamente esecutivi. Di contrario avviso Trib. Torino, 28 agosto 2012 secondo cui tutti i provvedimenti di modifica delle condizioni di separazione non sono immediatamente esecutivi (ma solo ove in tal senso sia disposto dal giudice ai sensi dell’art. 741 c.p.c.). di procedimenti camerali, il quale subordina l’efficacia esecutiva al decorso del termine per la pro¬posizione del reclamo (Cass. civ. Sez. Unite, 26 aprile 2013, n. 10064).
Innanzitutto i giudici osservano che il problema dell’efficacia esecutiva del provvedimento emesso in primo grado ha assunto un carattere più acuto dal momento in cui, con la novella dell’art. 282 c.p.c. (legge 26 novembre 1990 n. 353, art. 33), la sentenza pronunciata in primo grado in tutti i giudizi ordinari è divenuta esecutiva ex lege, mentre il testo dell’art. 741 c.p.c., che nega ai prov¬vedimenti camerali efficacia esecutiva ex lege, è rimasto invariato.
Ciò premesso precisano che nel giudizio di divorzio – come, del resto, in quello di separazione personale dei coniugi – la tutela interinale del regime di affidamento della prole e dei rapporti eco¬nomici tra i coniugi assume un carattere particolare, nel senso che essa non si pone in posizione meramente strumentale e accidentale rispetto al giudizio di cognizione. Infatti il procedimento prevede che, sin dalla fase preliminare della comparizione dei coniugi davanti al presidente del tribunale, i loro rapporti siano regolati da opportuni provvedimenti temporanei e urgenti, i quali garantiscono – nello stesso disegno del legislatore – che non vi siano lacune temporali nella disci¬plina giudiziaria dei loro rapporti. Il principio è consacrato da una norma che, per la sua specialità, è sempre stata al centro dell’attenzione degli interpreti: l’art. 189 disp. att. c.p.c. stabilisce non soltanto (al comma 1) che l’ordinanza con la quale il presidente del tribunale o il giudice istruttore da i provvedimenti di cui all’at. 708 (oggi anche art. 709, a seguito delle modifiche apportate dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 2 convertito con mod. dalla L. 14 maggio 2005, n. 80) del codice costituisce titolo esecutivo; ma, inoltre (comma 2), che essa conserva la sua efficacia anche dopo l’estinzione del processo, finché non sia sostituita con altro provvedimento emesso dal presidente o dal giudice istruttore a seguito di nuova presentazione della domanda. Nel disegno normativo, il ruolo di questi provvedimenti è dunque così rilevante, che non viene meno neppure nel caso che il processo si estingua, e che perciò il provvedimento conclusivo, che dovrebbe costituirne il titolo, non sia emesso. Il valore della norma deve essere apprezzato nel quadro della giurisprudenza consolidata di questa corte, per la quale i provvedimenti adottati dal presidente del tribunale e poi dal giudice istruttore hanno natura cautelare (Cass. 1 dicembre 1966 n. 2823; 22 maggio 1990 n. 4613; 1 aprile 1998 n. 3374). La forma camerale non è mai stata ritenuta di ostacolo al riconosci¬mento della loro natura contenziosa; al tempo stesso, la singolarità che essi possano sopravvivere all’estinzione del processo, in tal modo contraddicendo il loro carattere meramente strumentale e anticipatorio, non è mai stata di ostacolo alla loro qualificazione cautelare, anche prima che l’ordi¬namento conoscesse altri casi di provvedimenti cautelari ultrattivi (art. 669 octies c.p.c.).
Nel giudizio di scioglimento o cassazione degli effetti del matrimonio, il provvedimento pronuncia¬to nella fase preliminare dal presidente del tribunale è poi sostituito dalla sentenza pronunciata all’esito del giudizio di primo grado, che ha immediata efficacia esecutiva (L. n. 898 del 1970, art. 4 come modificato già dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 8). La limitazione di questa efficacia ai provvedimenti di natura economica è oggi superata dal nuovo testo dell’art. 282 c.p.c. (L. 26 no¬vembre 1990, n. 353, art. 33), e conserva il significato di escludere solo gli effetti propriamente costitutivi della sentenza in ordine allo status personale dei coniugi. La differenza essenziale tra il regolamento contenuto nei provvedimenti provvisori e urgenti e quello dettato dalla sentenza che conclude il giudizio di primo grado è costituita dal fatto che, diversamente dal primo, quello contenuto nella sentenza del tribunale – e ciò vale altresì per il provvedimento che sia emesso a conclusione dell’eventuale giudizio di secondo grado – è idoneo ad acquistare l’efficacia del giu¬dicato. Nella materia in oggetto, tuttavia, questa differenza è attenuata dal fatto che il giudicato è da intendere sempre sottoposto alla clausola rebus sic stantibus. La possibilità della revisione delle condizioni stabilite al termine di quel giudizio è appunto espressione della predetta clausola: il relativo giudizio assume pertanto il carattere di una prosecuzione – evidentemente circoscritta al tema delle condizioni regolatrici dei rapporti tra gli ex coniugi – di quel primo giudizio, del quale necessariamente condivide gli aspetti legati all’oggetto comune.
Nel sistema normativo il regime dettato dalla sentenza conclusiva del processo di scioglimento o di cessazione della sentenza di divorzio presenta, per gli aspetti qui considerati, un carattere non dissimile – quanto alla sua efficacia – da quello contenuto nel provvedimento iniziale del presidente del tribunale, e che regolerebbe ancora il rapporto qualora per qualsiasi ragione il giudizio di co¬gnizione non fosse giunto alla sua conclusione.
Ed è proprio lo stretto collegamento che deve ravvisarsi tra il giudizio di scioglimento o di cessa¬zione degli effetti del matrimonio e quello successivo, di revisione, e che impone per il problema qui esaminato, dell’efficacia esecutiva del provvedimento emesso al termine del giudizio di primo grado, una soluzione uniforme.
A ciò non varrebbe opporre il rilievo formale che nel primo giudizio si ha a che fare con una sen¬tenza, provvisoriamente esecutiva per una regola più generale, specificamente ribadita in materia, mentre nel secondo caso si ha a che fare con un provvedimento camerale, soggetto alla disciplina dell’art. 741 c.p.c.. Non soltanto, infatti, in questo caso il procedimento camerale è applicabile non in ragione della natura propria della materia trattata – che non è di giurisdizione volontaria ma contenziosa – bensì di una scelta del legislatore, in funzione di semplificazione e accelerazione del processo, sostanzialmente contrastante con la conclusione alla quale si perverrebbe altrimenti.
Pertanto l’orientamento ormai accolto dalla giurisprudenza di legittimità (e confermato da Cass. civ. Sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 1164 che riguarda, tuttavia, anch’esso un decreto di revisio¬ne delle condizioni di divorzio) è nel senso di prevedere che il decreto camerale del tribunale che decide sull’istanza di revisione, va considerato provvisoriamente esecutivo senza necessità che il tribunale disponga la sua immediata efficacia ai sensi dell’art. 741 del codice di procedura civile.
Considerate le motivazioni, sopra riepilogate, delle decisioni che hanno accolto il principio di im¬mediata esecutività del decreto camerale di revisione dei provvedimenti divorzili, non vi sono ragioni, naturalmente, per non applicare la stessa conclusione anche all’articolo 710 del codice di procedura civile.
e) La tutela d’urgenza
L’ultimo comma dell’art. 710 c.p.c. prevede che “ove il procedimento non possa essere immediata¬mente definito, il tribunale può adottare provvedimenti provvisori e può ulteriormente modificarne il contenuto nel corso del procedimento”.
Si tratta di una norma poco utilizzata dalla prassi dal momento che il procedimento camerale di revisione delle condizioni di separazione o di divorzio ha in genere una durata piuttosto limitata nel tempo che non richiede inevitabilmente l’adozione di provvedimenti provvisori. Si tratterebbe in ogni caso di provvedimenti – anch’essi necessariamente emessi nella forma del decreto camerale collegiale, anche eventualmente inaudita altera parte – che lo stesso collegio in sede di decisione potrebbe poi confermare o modificare.
La possibilità di emettere provvedimenti provvisori e urgenti esclude in questa materia l’uso della tutela cautelare d’urgenza. Correttamente, infatti, in passato – proprio riferendosi alla turela di cui all’ultimo comma dell’art. 710 c.p.c. – Cass. civ. Sez. I, 8 settembre 1992, n. 10292 ha messo in rilievo il fatto che il potere di emettere i provvedimenti di cui all’art. 700 c.p.c. deve ritenersi precluso in ogni caso in cui la legge stabilisca per situazioni e rapporti determinate una completa disciplina procedimentale, comprensiva anche dei provvedimenti provvisori ed urgenti, designando il giudice competente ad adottarli.
f) L’intervento del pubblico ministero
Nonostante posizioni in passato contrastanti, non vi sono oggi dubbi sul fatto che nel giudizio camerale volto ad ottenere le modificazioni delle condizioni economiche della separazione (giudi¬ziale e consensuale) o del divorzio riguardanti la prole, sia obbligatorio l’intervento del pubblico ministero.
Ciò già a seguito di Corte Cost. 9 novembre 1992, n. 416 che aveva perentoriamente dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 710 c.p.c., nel testo precedente a quello sostituito dall’art. 1 l. 29 luglio 1988 n. 331, nella parte in cui non prevede l’intervento del pubblico ministero per la modifica dei provvedimenti riguardanti la prole dei coniugi separati.
Non è richiesto quindi, in via generale, l’intervento del pubblico ministero nei procedimenti di re¬visione delle condizioni di separazione salvo quando si tratta di provvedimenti riguardanti la prole.
Per il divorzio è la legge stessa che lo prevede. Infatti l’art. 9 della legge 898/1970 nel testo in parte modificato dalla legge 1° agosto 1978, n. 436 e successivamente dalla legge 6 marzo 1987, n. 74, prevede che “qualora sopravvengano giustificati motivi dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, in camera di consiglio e, per i provvedimenti relativi ai figli, con la partecipazione del pubblico ministero, può, su istanza di parte, disporre la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere ai sensi degli articoli 5 e 6”.
Si ricorda che la Corte costituzionale ha anche previsto che è incostituzionale l’art. 70 c.p.c., nella parte in cui non prescrive l’intervento obbligatorio del pubblico ministero. nei giudizi tra genitori naturali che comportino provvedimenti relativi ai figli (Corte Cost. 25 giugno 1996, n. 214).
g) Il reclamo e i termini per l’impugnazione
Il procedimento di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio si conclude con un decreto motivato avente natura sostanziale di sentenza e soggetto a reclamo davanti alla Corte d’appello, nel termine perentorio di dieci giorni, ai sensi dell’art. 739 c.p.c. (Cass. civ. Sez. I, 30 dicembre 2004, n. 24265; Cass. civ. Sez. I, 6 marzo 1996, n. 1786; Cass. civ. Sez. I, 18 ottobre 1991, n. 11042).
Il termine di dieci giorni per proporre reclamo decorre dalla notificazione del provvedimento che deve essere eseguita ad istanza di parte e non del cancelliere, in quanto i procedimenti camerali che si svolgono nei confronti di più parti hanno natura contenziosa (Cass. civ. Sez. I, 18 genna¬io 2002, n. 14781 e Cass. civ. Sez. I, 30 luglio 1997, n. 7118 hanno chiarito che il termine decorre dalla notificazione del menzionato provvedimento eseguita ad istanza di parte e non ad istanza del cancelliere).
Nel procedimento d’appello vi è la ordinaria delimitazione del riesame da parte del giudice di secon¬do grado alle questioni a lui devolute con i motivi di impugnazione, con la conseguenza che viziata da ultrapetizione la pronuncia del giudice del reclamo che abbia riformato il provvedimento impu¬gnato in difetto di apposito motivo di censura (Cass. civ. Sez. I, 4 settembre 1996, n. 8063).
h) Il ricorso per cassazione
Quanto alla ricorribilità per cassazione del decreto della Corte d’appello emesso in seguito ad un’impugnazione di quello del tribunale, in passato Cass. civ. Sez. I, 18 ottobre 1991, n. 11042 aveva precisato che il giudizio per la revisione delle disposizioni relative ai coniugi ed alla prole, contenute nella sentenza di separazione o di divorzio, configura, nonostante il rito camerale, pur sempre un procedimento contenzioso che si svolge nel pieno contraddittorio delle parti, titolari di confliggenti diritti soggettivi, e che si chiude con un decreto che ha natura sostanziale di sen¬tenza, con la conseguenza che il provvedimento così reso dalla corte di appello, in sede di reclamo contro il decreto emesso dal tribunale, è impugnabile con ricorso per cassazione.
Poiché l’ultimo comma dell’art. 739 c.p.c. prescrive che nel rito camerale contro i decreti della corte d’appello – ancorché evidentemente aventi natura di sentenza – “non è ammesso reclamo” si capisce che il ricorso per cassazione non può essere quello ordinario di cui all’art. 360 c.p.c. ma che sarà ammissibile solo il ricorso straordinario ex art. 111 della Costituzione. (Cass. civ. Sez. I, 30 dicembre 2004, n. 24265; Cass. civ. Sez. I, 28 maggio 1999, n. 5201). Il ter¬mine ultimo per il ricorso è naturalmente quello previsto all’art. 327 c.p.c. il quale stabilisce che non può essere proposto ricorso per cassazione dopo che è decorso il termine di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza.
La ricorribilità ex art. 111 della Costituzione significa che – in virtù dei principi elaborati in ma¬teria (per tutte Cass. civ. Sez. Unite, 16 maggio 1992, n. 5888) – tale ricorso può investire la motivazione del provvedimento solo per lamentarne la radicale carenza o la mera apparenza (ravvisabile quest’ultima in presenza di argomentazioni inidonee a rivelare la “ratio decidendi”) e non già per dedurre eventuali lacune od inadeguatezze, rapportabili al mero difetto di motivazione.
Mentre però si ritiene ammesso il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost. contro i provvedimenti emanati dalla corte d’appello in sede di reclamo, concernenti la modifica della statuizione riguardante l’assegno a favore del coniuge separato o a favore dell’ex coniuge divorziato, non veniva ammesso in passato il ricorso straordinario per cassazione contro le deci¬sioni della corte d’appello allorché l’oggetto dei provvedimenti di separazione riguardasse la prole in quanto provvedimenti che, essendo sempre modificabili e revocabili a norma dell’art. 742 c.p.c. sono privi del carattere della definitività e, come tali, insuscettibili di passare in cosa giudicata (Cass. civ. Sez. I, 28 giugno 2002, n. 9484; Cass. civ. Sez. I, 22 maggio 1999, n. 4988; Cass. civ. Sez. I, 14 agosto 1998, n. 8046).
Viceversa in senso favorevole rispetto alla possibilità del ricorso straordinario per cassazione anche contro le decisioni della corte d’appello che hanno ad oggetto provvedimenti riguardanti i figli si è espressa Cass. civ. Sez. I, 30 dicembre 2004, n. 24265 secondo cui “in consapevole contrasto con l’orientamento seguito da alcune pronunce di questa Corte” è decisamente ammissibile il ricor¬so ai sensi dell’art. 111, comma 7, della Costituzione avverso i decreti della Corte d’appello resi in sede di modifica delle condizioni di separazione riguardanti il mantenimento dei figli, l’affidamento ed i rapporti con il genitore non affidatario, avendo tali decreti natura decisoria e definitiva, pur essendo suscettibili di revisione ai sensi dell’art. 155, u.c., c.c.
Si precisa nella sentenza che se è vero che l’applicazione delle forme camerali introdotta con l’art. 1 della legge n. 331 del 1988, ha reso non più proponibile il ricorso ordinario per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c. avverso la pronuncia della corte di appello, tale legge non ha inciso sulla natura contenziosa del procedimento, che si svolge nel pieno contraddittorio delle parti, titolari di confliggenti diritti soggettivi, e si conclude con un decreto che ha natura sostanziale di sentenza; e pertanto i provvedimenti concernenti il mantenimento ed i rapporti con i figli, in quanto incidano sui diritti/doveri dei genitori relativi all’aspetto economico, all’affidamento, alla vigilanza sulla loro istruzione ed educazione, alla possibilità di concorrere alla adozione delle decisioni di maggiore interesse per la loro vita, hanno natura decisoria e definitiva, senza che tali aspetti di decisorietà e definitività, da riferire alla situazione esistente al momento della decisione, vengano meno per es¬sere essi suscettibili di revisione in ogni tempo. Tale indirizzo appare peraltro del tutto coerente con il costante orientamento giurisprudenziale che riconosce in via generale la proponibilità del ricorso straordinario per cassazione sia avverso i decreti emessi dalla corte di appello in sede di modifica delle condizioni della separazione personale, sia avverso quelli adottati successivamente al divorzio.
XI I rapporti tra l’opposizione al precetto e il procedimento di modifica
Il procedimento di separazione e quello di divorzio, così come quelli di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio, sono giudizi di merito. Pertanto, come si è visto, ogni richiesta di modifi¬ca di tali provvedimento va rivolta nel merito al giudice competente della causa, se il giudizio è in corso (giudice istruttore, tribunale o corte d’appello) ovvero al tribunale in sede camerale ex art. 710 s.p.c. o ex art. 9 della legge 898/1970 se la richiesta è successiva al giudicato di separazione o di divorzio.
Non è possibile, quindi, che altri giudici possano entrare nel merito dei provvedimenti o che pos¬sano modificare quei provvedimenti.
Il principio è stato più volte ribadito con riguardo ai rapporti tra giudice dell’opposizione al precetto e giudice della separazione e del divorzio affermandosi che con l’opposizione a precetto relativo ai crediti maturati per il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento, determinato a favore, del coniuge o figlio in sede di separazione o divorzio, possono proporsi soltanto questioni relative alla validità ed efficacia del titolo, mentre non possono dedursi fatti sopravvenuti alla separazione, da farsi valere col procedimento di modifica delle condizioni di cui all’art. 710 c.p.c. (Cass. civ. Sez. VI, 25 settembre 2014, n. 20303; Cass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17618; Trib. Bari Sez. II, 18 marzo 2016; Trib. Modena Sez. I, 7 giugno 2013; Trib. Trieste, 16 giugno 2010; Trib. Modena Sez. I, 20 novembre 2009; Trib. Genova, Sez. VII, 6 agosto 2009).
Il principio è stato anche applicato in un caso di opposizione a precetto, proposta dal padre che aveva provveduto al versamento dell’assegno di mantenimento diretto in favore dei figli anziché all’altro genitore (App. Palermo, 1 ottobre 2014).
Non è stato invece applicato in un caso in cui era venuto meno il rapporto di locazione dell’alloggio coniugale, avendo ritenuto Trib. Genova, 30 ottobre 2012 che questa circostanza determini la cessazione dell’obbligo, posto a carico dell’coniuge in sede di separazione coniugale, di correspon¬sione della somma mensile dovuta all’occupante l’alloggio predetto per il pagamento del canone di locazione non potendo trovare applicazione, secondo i giudici, in questo caso, il principio secondo cui eventuali fatti sopravvenuti, incidenti sulle condizioni di vita dei coniugi, devono essere dedotti chiedendo la modifica delle condizioni della separazione mentre non potrebbero essere fatti valere in sede di opposizione all’esecuzione.
XII I rapporti tra il procedimento di modifica della separazione e il giudizio di divorzio
Il problema, molto discusso nella prassi, della ammissibilità o meno della proponibilità di un pro¬cedimento di modifica delle condizioni di separazione in pendenza di una causa di divorzio è stato al centro di una decisione di legittimità del 2008 che, pur richiamandosi a precedenti pronunce, presenta aspetti di specificità che meritano di essere qui messi in evidenza (Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2008, n. 28990). La sentenza ha ritenuto proponibile direttamente al giudice del divorzio un’istanza di modifica dell’assegno di separazione stabilito in sede di separazione, in tal caso escludendo che si possa proporre un ricorso autonomo di modifica ex art.710 c.p.c..
La vicenda è la seguente. Il Tribunale di Modena aveva dichiarato inammissibile un ricorso di modi¬fica delle condizioni economiche di una separazione consensuale omologata in quanto il ricorrente aveva proposto analoga domanda nel ricorso di divorzio al medesimo tribunale. La Corte d’appello di Bologna respingeva l’impugnazione rilevando che se è esatto il rilievo che sino all’esito del pro¬cesso di separazione i rapporti tra i coniugi restano regolati dalla sentenza di separazione o dagli accordi omologati, la modifica di questi può domandarsi sia ai sensi dell’art. 710 c.p.c., che con il ricorso di divorzio, come accaduto nel caso. Le richieste nel processo di divorzio erano identiche a quelle proposte in sede di revisione dei patti di separazione e fondate sui medesimi presupposti di fatto.
La Corte di cassazione riteneva il ricorso infondato ribadendo che solo il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio fa venir meno il vincolo matrimoniale e lo stato di separati, che costitu¬isce il presupposto dell’obbligo di mantenimento della moglie, il quale contestualmente cessa ed è eventualmente sostituito da quello di corrispondere l’assegno divorzile. Pertanto si è affermato che la sentenza di divorzio non necessariamente comporta la cessazione della materia del contendere nella controversia sulle richieste di modifiche delle condizioni accessorie alla separazione, qualora permanga un interesse delle parti alla definizione di tale ultimo giudizio. Le affermazioni che pre¬cedono non escludono però che “poichè l’assegno dì mantenimento in favore di uno dei coniugi è dovuto fino al passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia il divorzio, deve sempre ritener¬si ammissibile, proprio per l’opportunità del simultaneus processus innanzi allo stesso giudice per la definizione delle questioni patrimoniali indubbiamente connesse, la domanda di adeguamento dell’assegno di separazione nel corso del giudizio di divorzio” (così espressamente in passato an¬che Cass. civ. Sez. I, 24 agosto 1994 n. 7488)
Il principio affermato sarebbe, insomma, quello secondo cui nel corso della causa di divorzio è am¬missibile proporre al giudice del divorzio una domanda di modifica dell’assegno di mantenimento (che fino al giudicato di divorzio va qualificato assegno ancora di separazione). Ove ciò avvenga si verifica altresì l’ulteriore conseguenza che, “in pendenza del giudizio di divorzio, deve ritenersi preclusa dal divieto del ne bis in idem la medesima richiesta proposta in sede di modifica delle condizioni di separazione”.
Successivamente Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2008, n. 28990 ha ribadito lo stesso identico principio.
Secondo un diverso orientamento, più recente, sarebbe, invece, ammissibile la pendenza di un procedimento di divorzio e di un procedimento di modifica (Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2009, n. 14093) in quanto, qualora la revisione delle condizioni della separazione abbia ad oggetto i provvedimenti relativi ai rapporti tra i coniugi, vi può essere contestuale pendenza del giudizio di divorzio e del giudizio ex art. 710 c.p.c., data la diversità tra la “causa petendi e il petitum” dei due giudizi.
Secondo Cass. civ. Sez. I, 8 febbraio 2012, n. 1779 i mutamenti reddituali verificatisi in pen¬denza del giudizio di divorzio restano oggetto di valutazione del giudice investito della domanda di modifica delle condizioni di separazione, essendo queste ultime destinate alla perdurante vigenza fino all’introduzione di un nuovo regolamento patrimoniale per effetto della sentenza di divorzio.
Perciò la pendenza del giudizio di divorzio non costituirebbe ostacolo alla proposizione della do¬manda di modifica delle condizioni di separazione, attesa la reciproca autonomia dei due proce¬dimenti e la peculiare natura delle condizioni oggetto della richiesta di modifica, rese rebus sic stantibus, destinate a spiegare efficacia sino al momento dell’adozione di analoghi provvedimenti da parte del giudice del divorzio.
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. Unite, 11 luglio 2018, n. 18287
Ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, dopo le modifiche introdotte con la L. n. 74 del 1987, il ricono¬scimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contribu¬to fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e persona¬le di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto”.
Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2017, n. 15481 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto all’assegno di divorzio, di cui all’art. 5, comma 6, della L. n. 898 del 1970, come sostituito dall’art. 10 della L. n. 74 del 1987, è condizionato dal suo previo riconoscimento in base ad una verifica giudiziale che si articola necessariamente in due fasi, tra loro nettamente
distinte e poste in ordine progressivo dalla norma (nel senso che alla seconda può accedersi solo all’esito della prima, ove conclusasi con il riconoscimento del diritto): una prima fase, concernente l’an debeatur, informata al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali “persone singole” ed il cui oggetto è co¬stituito esclusivamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o meno, del diritto all’assegno divorzile fatto valere dall’ex coniuge richiedente; una seconda fase, riguardante il quantum debeatur, improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro quale persona economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), che investe soltanto la determinazione dell’importo dell’assegno stesso.
Il giudice del divorzio, richiesto dell’assegno di cui all’art. 5, comma 6, della L. n. 898 del 1970, come sostituito dall’art. 10 della L. n. 74 del 1987, nel rispetto della distinzione del relativo giudizio in due fasi: a) deve verifica¬re, nella fase dell’an debeatur, se la domanda dell’ex coniuge richiedente soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di «mezzi adeguati» o, comunque, impossibilità «di procurarseli per ragioni oggettive»), non con riguardo ad un “tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”, ma con esclusivo riferimento all’indipendenza o autosufficienza economica” dello stesso, desunta dai principali “indici” – salvo altri, rilevanti nelle singole fattispecie – del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed im¬mobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri “lato sensu” imposti e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), della capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso e al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione; ciò sulla base dellepertinenti allegazioni deduzioni e prove offerte dal richiedente medesimo, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’altro ex coniuge; b) deve tener conto, nella fase del quantum debeatur, di tutti gli elementi indicati dalla norma («condizioni dei coniugi», «ragioni della decisione», «contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione fami¬liare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune», «reddito di entrambi») e valutare «tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio» al fine di determinare in concreto la misura dell’assegno divorzile, sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione dell’onere della prova.
Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto all’assegno di divorzio, di cui all’art. 5, comma 6, della L. n. 898 del 1970, come sostituito dall’art. 10 della L. n. 74 del 1987, è condizionato dal suo previo riconoscimento in base ad una verifica giudiziale che si articola necessariamente in due fasi, tra loro nettamente
distinte e poste in ordine progressivo dalla norma (nel senso che alla seconda può accedersi solo all’esito della prima, ove conclusasi con il riconoscimento del diritto): una prima fase, concernente l’an debeatur, informata al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali “persone singole” ed il cui oggetto è co¬stituito esclusivamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o meno, del diritto all’assegno divorzile fatto valere dall’ex coniuge richiedente; una seconda fase, riguardante il quantum debeatur, improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro quale persona economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), che investe soltanto la determinazione dell’importo dell’assegno stesso. Nella prima fase il giudice è chiamato a verificare se la domanda dell’ex coniuge richiedente soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di «mezzi adeguati» o, comunque impossibilità «di procu¬rarseli per ragioni oggettive»), non con riguardo ad un “tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”, ma con esclusivo riferimento all’indipendenza o autosufficienza economica” dello stesso.
Il parametro del “tenore di vita” – se applicato anche nella fase dell’an debeatur – collide radicalmente con la natura stessa dell’istituto del divorzio e con i suoi effetti giuridici: infatti, con la sentenza di divorzio il rapporto matrimoniale si estingue sul piano non solo personale ma anche economico-patrimoniale – a differenza di quanto accade con la separazione personale, che lascia in vigore, seppure in forma attenuata, gli obblighi coniugali di cui all’art. 143 cod. civ. – sicché ogni riferimento a tale rapporto finisce illegittimamente con il ripristinarlo sia pure limitatamente alla dimensione economica del “tenore di vita matrimoniale” ivi condotto – in una indebita prospettiva, di “ultrattività” del vincolo matrimoniale.
Cass. civ. Sez. III, 20 aprile 2017, n. 9954 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudicato sostanziale di cui all’art. 2909 c.c., il quale, come riflesso di quello formale previsto dall’art. 324 c.p.c., fa stato ad ogni effetto tra le parti quanto all’accertamento di merito, positivo o negativo, del diritto con¬troverso, si forma soltanto su ciò che ha costituito oggetto della decisione, ricomprendendosi in esso anche gli accertamenti di fatto che abbiano rappresentato le premesse necessarie ed il fondamento logico-giuridico per l’emanazione della pronuncia, precludendo l’esame di quegli stessi elementi in un successivo giudizio quando l’azione ivi dispiegata abbia identici elementi costitutivi.
Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2017, n. 2953 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 9 della l. n. 898 del 1970 (così come modificato dall’art. 2 della l. n. 436 del 1978 e dall’art. 13 della l. n. 74 del 1987), le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile. Pertanto, nel caso di mancata attribuzione dell’assegno divorzile, in sede di giudizio di divorzio per rigetto o per mancanza della relativa domanda, la determinazione dello stesso può avvenire solo in caso di sopravvenienza di fatti nuovi concernenti le condizioni o il reddito di uno dei coniugi.
Cons. Stato Sez. III, 20 ottobre 2016, n. 4396 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La dichiarazione di illegittimità costituzionale determina la invalidità originaria della legge, sia essa di natura so¬stanziale, procedimentale o processuale, per contrasto con un precetto costituzionale, sicché essa elimina la nor¬ma con effetto ex tunc, con la conseguenza che essa non è più applicabile, indipendentemente dalla circostanza che la fattispecie sia sorta in epoca anteriore alla pubblicazione della decisione (fermo restando il principio che gli effetti dell’incostituzionalità non si estendono ai diritti quesiti e ai rapporti ormai esauriti in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l’ordinamento collega il consoli¬damento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali, o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d’incostituzionalità).
T.A.R. Abruzzo Pescara Sez. I, 10 agosto 2016, n. 291 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudicato è insensibile ai mutamenti legislativi e giurisprudenziali sopravvenuti (e quindi anche alle presunte ipotesi di cd. overruling)
Cass. civ. Sez. VI, 27 luglio 2016, n. 15530 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In linea generale e, dunque, anche in materia tributaria, affinché si possa parlare di “prospective overrulling”, devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giuri¬sprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del precedente indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte ad un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte.
Cass. civ. Sez. VI 19 maggio 2016, n. 10365 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La “vis attractiva” del tribunale ordinario relativamente ad un ricorso ex art. 333 c.c. opera, ai sensi dell’art. 38, comma 1, disp. att. c.c., come modificato dalla l. n. 219 del 2012, anche in pendenza di un giudizio di modifica delle condizioni di separazione riguardanti la prole, a ciò non ostando la diversità di ruolo del P.M. nei due pro¬cedimenti (ricorrente in quello minorile ed interventore obbligatorio nell’altro), atteso che una diversa opzione ermeneutica, facente leva sul solo tenore letterale della citata disposizione, ne tradirebbe la “ratio” di attuare, nei limiti previsti, la concentrazione delle tutele onde evitare, a garanzia del preminente interesse del minore, il rischio di decisioni contrastanti ed incompatibili, tutte temporalmente efficaci ed eseguibili, resi da due organi giudiziali diversi.
Cons. Stato Sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1458 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma di legge determina la cessazione della sua efficacia erga omnes ed impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che essa possa esser applicata ai rapporti, in relazione ai quali la norma dichiarata incostituzionale risulti anche rilevante, stante l’effetto retroattivo dell’an¬nullamento escluso solo per i cd. rapporti esauriti (art. 136 Cost.)
Cass. civ. Sez. II, 11 marzo 2016, n. 4826 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di sanzioni amministrative per abuso di informazioni privilegiate, l’annullamento della delibera adottata dalla CONSOB contenente il regolamento sul procedimento sanzionatorio, ove successivo alla proposizione del ri¬corso per cassazione avverso la sentenza di rigetto dell’opposizione ex art. 187-septies TUF, non consente alcuna rimessione in termini per la proponibilità di motivi aggiunti fondati su tale annullamento giacché, non investendo esso una norma processuale, né precludendo l’esercizio del diritto di azione o di difesa, non risultano applicabili i principi elaborati in materia di “overruling”.
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 febbraio 2016, n. 3488 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudicato copre il dedotto e il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e, pertanto, non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto esercitate in giudizio ma anche tutte le possibili questioni, proponibili in via di azione o ec¬cezione, che, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici, essenziali e necessari, della pronuncia.
Cass. civ. Sez. I, 1 febbraio 2016, n. 1863 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La richiesta di corresponsione dell’assegno periodico di divorzio costituisce una domanda connessa ma autonoma rispetto alla domanda di scioglimento del matrimonio per cui la parte che nel corso del giudizio divorzile non l’ab¬bia ritualmente proposta, può esperirla successivamente, senza che a ciò sia di ostacolo l’intervenuta pronuncia di scioglimento del vincolo di coniugio e ciò in applicazione del principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile con esclusivo riferimento alla domanda fatta valere in concreto, ma non anche relativamente ad una richiesta diversa nel petitum e nella stessa causa petendi che la parte ha facoltà di introdurre, o meno, nello stesso giudizio.
Cass. civ. Sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 214 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In ordine alla domanda concernente la revisione del contributo al mantenimento dei figli minori, proposta ex art. 9 della legge n. 898 del 1970, il giudice non può procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei presup¬posti o dell’entità dell’assegno, sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti, ma, nel pieno rispetto delle valutazioni espresse al momento dell’attribuzione dell’emolumento, deve limitarsi a verificare se, ed in quale misura, le circostanze sopravvenute abbiano alterato l’equilibrio così raggiunto e ad adeguare l’importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale.
Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2015, n. 25676 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Alla luce del principio costituzionale del giusto processo, non ha rilevanza preclusiva l’errore della parte che, con¬venuta in un giudizio di delibazione di sentenza ecclesiastica dichiarativa di nullità matrimoniale, abbia tardiva¬mente eccepito, quale situazione ostativa alla delibazione, la convivenza di lunga durata “come coniugi”, facendo affidamento su una giurisprudenza di legittimità, consolidata al momento della sua tempestiva costituzione ma poi travolta da un mutamento interpretativo (dovuto alla sentenza n. 16379 del 2014 delle Sezioni Unite che, innovando quella giurisprudenza, hanno qualificato detta eccezione come in senso stretto), che riteneva il rela¬tivo fatto rilevabile d’ufficio, dovendo altresì individuarsi nella rimessione in termini lo strumento per ovviare a quell’errore.
Cass. civ. Sez. VI, 16 novembre 2015, n. 23411 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La presenza di sperequazione economica fra coniugi non determina in maniera assoluta ed incontrastata la determinazione di un assegno divorzile in favore del più debole. Qualora sia dimostrato che lo stesso, infatti, abbia contratto una nuova relazione more uxorio, iniziando una convivenza ed acquistando un nuovo immobile contraendo un mutuo cointestato con la nuova compagna, l’obbligo di corrispondergli l’assegno divorzile viene senz’altro meno.
Cass. civ. Sez. I, 28 ottobre 2015, n. 22008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le preclusioni e le decadenze derivanti da un imprevedibile mutamento di giurisprudenza, sopraggiunto in modo inopinato e repentino, operano solo per il futuro, a partire da quando esso diventi oggettivamente conoscibi¬le. I principi del giusto processo, volti ad assicurare l’effettività dei mezzi di azione e difesa, tutelano infatti, attraverso l’istituto del prospective overruling, la parte che abbia confidato incolpevolmente su un precedente consolidato orientamento (Nel caso di specie, muovendo dal presupposto che l’impugnante si era conformato all’insegnamento al tempo impartito dalla giurisprudenza di legittimità e che solo in un momento successivo tale insegnamento era imprevedibilmente cambiato, la Corte ha pertanto disatteso, pur ritenendola fondata alla luce della nuova giurisprudenza, l’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione contro una declinatoria di competenza in favore degli arbitri proposta nelle forme dell’appello anziché in quelle del regolamento necessario di competenza).
Cass. civ. Sez. I, 19 agosto 2015, n. 16909 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La separazione consensuale è un negozio di diritto familiare avente un contenuto essenziale – il consenso re¬ciproco a vivere separati, l’affidamento dei figli, l’assegno di mantenimento ove ne ricorrano i presupposti – ed un contenuto eventuale, che trova solo occasione nella separazione, costituito da accordi patrimoniali del tutto autonomi che i coniugi concludono in relazione all’instaurazione di un regime di vita separata (nella specie vendita della casa familiare e attribuzione del ricavato a ciascun coniuge in proporzione al denaro investito nel bene stesso). Ne consegue che questi ultimi non sono suscettibili di modifica (o conferma) in sede di ricorso “ad hoc” ex art. 710 c.p.c. o anche in sede di divorzio, la quale può riguardare unicamente le clausole aventi causa nella separazione personale, ma non i patti autonomi, che restano a regolare i reciproci rapporti ai sensi dell’art. 1372 c.c.
Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2015, n. 15367 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 6, comma 6, della l. n. 898 del 1970 (nel testo sostituito dall’art. 11 della l. n. 74 del 1987), il provvedimento di assegnazione della casa familiare al coniuge (o al convivente) affidatario di figli minori (o mag¬giorenni non autosufficienti) è opponibile – nei limiti del novennio, ove non trascritto – anche al terzo acquirente dell’immobile, ma solo finché perdura l’efficacia della pronuncia giudiziale, sicché il venire meno del diritto di go¬dimento del bene (nella specie, perché la prole è divenuta maggiorenne ed economicamente autosufficiente) le¬gittima il terzo acquirente dell’immobile, divenutone proprietario, a proporre un’ordinaria azione di accertamento al fine di conseguire la declaratoria di inefficacia del titolo e la condanna degli occupanti al pagamento della re¬lativa indennità di occupazione illegittima, con decorrenza dalla data di deposito della sentenza di accertamento.
Cass. civ. Sez. VI, 14 luglio 2015, n. 14727 (Quotidiano Giuridico, 2015 nota di FIGONE)
Il trasferimento del genitore assegnatario comporta la revoca dell’assegnazione della casa familiare; il figlio maggiorenne non autosufficiente, già convivente con lui, potrà chiedere ai genitori il mantenimento, che do¬vrebbe permettergli anche di procurarsi un nuovo alloggio, senza poter pretendere di continuare ad abitare nella casa medesima.
Cass. civ. Sez. I, 10 luglio 2015, n. 14521 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il fatto oggettivo della nascita di un figlio di secondo letto (e il relativo obbligo di mantenimento da parte del padre) va considerato dal giudice nella determinazione dell’assegno divorzile.
Cass. civ. Sez. I, 30 aprile 2015, n. 8839 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Una volta accertato il difetto del presupposto della domanda proposta ai sensi dell’art. 156 c.c., ossia il dedotto peggioramento delle condizioni economiche dell’attore, il giudice deve rigettare la domanda di revisione delle condizioni economiche dell’accordo di separazione consensuale dei coniugi.
Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2015, n. 6855 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni con¬nessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consape¬vole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
Corte cost. 11 febbraio 2015, n. 11 (Foro It., 2015, 4, 1, 1136)
E’ infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, 6° comma, L. 1° dicembre 1970 n. 898, come modificato dall’art. 10 L. 6 marzo 1987 n. 74, nella parte in cui, nella interpretazione del diritto vivente, prevede che l’assegno divorzile debba necessariamente garantire al coniuge economicamente più debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost.
Cass. civ. Sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 1164 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il decrerto camerale del tribunale che decide sull’istanza di revisione, va considerato provvisoriamente escutivio senza necssità che il tribunale disponga la sua immediata efficacia ai sensi dell’art. 741 del codice di procedura civile.
Cass. civ. Sez. VI, 9 gennaio 2015, n. 174 (Nuova Giur. Civ., 2015, 6, 501 nota di MOLINARO)
I precedenti della Corte di Cassazione sulla necessità di tutelare la parte che si è conformata alla precedente giurisprudenza della stessa Corte, successivamente travolta dall’ overruling, hanno riguardato esclusivamente gli effetti processuali di un mutamento giurisprudenziale e non quelli di natura sostanziale, introducendo, dunque, un principio innovatore a tutela dell’affidamento delle parti nella stabilità delle regole del processo. Pertanto, affinché si possa parlare di prospective overruling , devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte.
Cass. civ. Sez. VI, 15 ottobre 2014, n. 21874 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La domanda di modifica delle condizioni di divorzio presentata ai sensi dell’art. 9 della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (come l’analoga domanda ex art. 710 cod. proc. civ. in relazione alle statuizioni contenute nella sentenza di separazione personale dei coniugi), é proponibile soltanto dopo il passaggio in giudicato della decisione che ha pronunciato il divorzio, senza che ciò determini alcuna lesione di tutela della parte, che, ove intenda far valere fatti nuovi sopravvenuti durante la pendenza del giudizio di legittimità, può avvalersi del rimedio di cui all’art. 373 cod. proc. civ.
App. Palermo, 1 ottobre 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In presenza di figli maggiorenni non indipendenti economicamente, il coniuge affidatario della prole è legittimato in via autonoma e concorrente con i figli maggiorenni, che non hanno mai agito in via diretta per chiedere al padre l’adempimento dei suoi obblighi, a chiedere il versamento dell’assegno di mantenimento per i figli in suo favore, in virtù della sentenza di separazione giudiziale. E’ quindi infondata l’opposizione a precetto, giacché non può avere effetto estintivo dell’obbligo di versamento in favore del coniuge affidatario la circostanza che il padre abbia provveduto al versamento diretto in favore dei figli minorenni, né che i figli siano divenuti nel frattempo indipendenti economicamente o che non coabitino più con la madre, poiché trattasi di circostanze che possono essere dedotte e provate solo nel giudizio di separazione dei coniugi e, se intervenute successivamente al pas¬saggio in giudicato della sentenza di separazione, solo con richiesta di revisione delle condizioni di separazione ex articolo 710 c.p.c.
Cass. civ. Sez. VI, 25 settembre 2014, n. 20303 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con l’opposizione al precetto relativo a crediti maturati per il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento, determinato a favore del figlio in sede di separazione, possono essere dedotte soltanto questioni relative alla validità ed efficacia del titolo e non anche fatti sopravvenuti, da farsi valere col procedimento di modifica delle condizioni della separazione di cui all’art. 710 cod. proc. civ..
Cass. civ. Sez. I, 12 settembre 2014, n. 19319 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’accordo di separazione dei coniugi omologato non è impugnabile per simulazione poiché l’iniziativa proces¬suale diretta ad acquisire l’omologazione, e quindi la condizione formale di coniugi separati, è volta ad assicurare efficacia alla separazione, così da superare il precedente accordo simulatorio, rispetto al quale si pone in antitesi dato che è logicamente insostenibile che i coniugi possano “disvolere” con detto accordo la condizione di separati ed al tempo stesso “volere” l’emissione di un provvedimento giudiziale destinato ad attribuire determinati effetti giuridici a tale condizione.
Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18066 (Famiglia e Diritto, 2015, 4, 357 nota di FILAURO)
La clausola di trasferimento di immobile tra coniugi ovvero da uno dei genitori al figlio minore recepita dalla sen¬tenza di divorzio, anche sulla base di conclusioni uniformi, è valida tra le parti e nei confronti dei terzi. Essa può essere oggetto di annullamento per vizio di volontà in un autonomo giudizio di cognizione e non può costituire motivo di impugnazione della sentenza di divorzio. Detta pattuizione non è modificabile nelle forme e secondo la procedura di cui agli artt. 710 e 711 cod. proc. civ.
Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18076 (Foro It., 2015, 3, 1, 1021)
In tema di separazione di coniugi, il genitore che non intenda più provvedere al mantenimento del figlio mag¬giorenne, anche con riferimento alla revoca dell’assegnazione della casa familiare, è onerato della prova del raggiungimento, da parte dello stesso, dell’indipendenza economica, ovvero dell’imputabilità al figlio del man¬cato conseguimento di quest’ultima, tenuto conto che l’obbligo di mantenimento non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo.
Cass. civ. Sez. VI, 20 giugno 2014, n. 14143 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di revisione dell’assegno divorzile, il giudice non può procedere ad una nuova ed autonoma valutazio¬ne dei presupposti o della entità dell’assegno, sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economi¬che delle parti, ma, nel pieno rispetto delle valutazioni espresse al momento dell’attribuzione dell’emolumento, deve limitarsi a verificare se, ed in che misura, le circostanze sopravvenute abbiano alterato l’equilibrio così raggiunto ed ad adeguare l’importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale.
Cass. civ. Sez. Unite, 16 giugno 2014, n. 13676 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il termine decadenziale per la presentazione delle istanze di rimborso delle imposte sui redditi, ex art. 38, commi 1 e 2, del D.P.R. n. 602/1973, decorre dalla data di versamento delle somme di cui si chiede la ripetizione e non dalla data di pubblicazione della sentenza della Corte di Giustizia Europea che crea il presupposto da cui scatu¬risce il riconoscimento del diritto al rimborso. Non puo, a tal fine, invocarsi l’istituto dell’overruling che attiene all’improvviso mutamento di una regola processuale prima consolidata in giurisprudenza e che riguarda il caso in cui tale mutamento si rivolge in danno (e non a vantaggio) della parte che aveva incolpevolmente confidato nel precedente indirizzo.
Cass. civ. Sez. VI, 6 giugno 2014, n. 12781 (Famiglia e Diritto, 2015, 7, 685 nota di GRAZZINI)
I “giustificati motivi”, la cui sopravvenienza consente di rivedere le determinazioni adottate in sede di separazio¬ne dei coniugi, sono ravvisabili nei fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale la sentenza era stata emessa o gli accordi erano stati stipulati.
L’accordo di separazione consensuale fra coniugi il quale preveda che il marito non dovrà versare alcun contribu¬to di mantenimento alla moglie a partire da una certa data “essendo la stessa economicamente autosufficiente”, deve essere interpretato alla luce del suo tenore testuale, e valutato, ai fini del procedimento ex art. 710 c.p.c., con riferimento alla mancata allegazione di fatti nuovi rispetto alla situazione economica delle parti al momento della separazione stessa. Pertanto, poiché a quell’epoca la moglie non svolgeva attività lavorativa in quanto casa¬linga, non è apprezzabile quale fatto nuovo, idoneo a dare luogo alla corresponsione dell’assegno, la dimissione dell’attività lavorativa reperita successivamente alla omologazione della separazione.
Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2014, n. 6289 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ove, a sostegno della richiesta di diminuzione dell’assegno di divorzio, siano allegati sopravvenuti oneri familiari dell’obbligato (nello specifico il nuovo matrimonio dell’obbligato e la nascita di un altro figlio), il giudice deve verificare se si determini un effettivo depauperamento delle sue sostanze in vista di una rinnovata valutazione comparativa della situazione delle parti, salvo che la complessiva situazione patrimoniale dell’obbligato sia di tale consistenza da rendere irrilevanti i nuovi oneri.
App. Catania, 12 dicembre 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 155-quater c.c., comma 1, anche nella parte in cui dispone che il diritto al godimento della casa fami-liareviene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare, deve essere interpretato nel senso che la prova degli eventi che legittimano la revoca è a carico di colui che agisce chiedendola e tale prova deve essere particolarmente rigorosa in presenza di prole affidata o convivente con l’assegnatario ed attestare in modo univoco che gli eventi medesimi sono connotati dal carattere della stabilità e cioè dell’irreversibilità, ed inoltre nel senso che il giudice investito della domanda di revoca deve comunque verificare che il provvedimento richiesto non contrasti con i preminenti interessi della prole affidata o convivente con l’assegnatario
App. Torino, 10 dicembre 2013 (Famiglia e Diritto, 2014, 3, 257 nota di DANOVI)
Nel processo di separazione e divorzio il reclamo alla corte d’appello ex art. 708, comma 4, c.p.c. e il potere di revoca/modifica da parte del giudice istruttore ex art. 709, comma 4, c.p.c. rappresentano entrambi strumenti di controllo pieno avverso l’ordinanza presidenziale, il cui coordinamento ha luogo sotto forma di alternatività tra i due rimedi.
Cass. civ. Sez. I, 18 novembre 2013, n. 25845 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio in caso di cessazione degli effetti civili del matri¬monio, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimo¬niale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorché di fatto, la quale rescinde, quand’anche non definitivamente, ogni connessione con il livello ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, conseguentemente, ogni presupposto per la ri¬conoscibilità di un assegno divorzile.
Cass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17618 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di divorzio, in relazione alle statuizioni di carattere patrimoniale in essa contenute, passa in cosa giudicata “rebus sic stantibus”; tuttavia, la sopravvenienza di fatti nuovi, successivi alla sentenza di divorzio, non è di per sé idonea ad incidere direttamente ed immediatamente sulle statuizioni di ordine economico da essa recate e a determinarne automaticamente la modifica, essendo al contrario necessario che i “giustificati motivi” sopravvenuti siano esaminati, ai sensi dell’art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, e succ. modif., dal giudice di tale norma previsto, e che questi, valutati detti fatti, rimodelli, in relazione alla nuova situazione, ricorrendone le condizioni di legge, le precedenti statuizioni. Da tanto consegue che l’ex coniuge, tenuto, in forza della sentenza di divorzio, alla somministrazione periodica dell’assegno divorzile, il quale abbia ricevuto la noti¬fica di atto di precetto con l’intimazione di adempiere l’obbligo risultante dalla predetta sentenza, non può – in assenza di revisione, ai sensi del citato art. 9 della legge n. 898 del 1970, delle disposizioni concernenti la misura dell’assegno di divorzio da corrispondere all’ex coniuge – dedurre la sopravvenienza del fatto nuovo, in ipotesi suscettibile di determinare la modifica dell’originaria statuizione contenuta nella sentenza di divorzio, nel giudizio di opposizione a precetto, essendo del pari da escludere che il giudice di questa opposizione debba rimettere la causa al giudice competente ex art. 9 della legge n. 898 del 1970.
Cass. civ. Sez. I, 5 luglio 2013, n. 16824 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudicato non si estende ad ogni proposizione contenuta in una sentenza con carattere di semplice afferma¬zione incidentale, atteso che per aversi giudicato implicito è necessario che tra la questione decisa in modo espresso e quella che si vuole tacitamente risolta sussista un rapporto di dipendenza indissolubile, e dunque che l’accertamento contenuto nella motivazione della sentenza attenga a questioni che ne costituiscono necessaria premessa ovvero presupposto logico indefettibile.
Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2013, n. 15481 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La violazione dei diritti fondamentali della persona è configurabile anche all’interno di una unione di fatto, che abbia, beninteso, caratteristiche di serietà e stabilità, avuto riguardo alla irrinunciabilità del nucleo essenziale di tali diritti, riconosciuti, ai sensi dell’art. 2 Cost., in tutte le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’in¬dividuo (v., in tal senso, Cass., sent. n. 4184 del 2012). Del resto, ferma restando la ovvia diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio, è noto che la legislazione si è andata progressivamente evolvendo verso un sempre più ampio riconoscimento, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto. Siffatto percorso è stato in qualche misura indicato, e sollecitato, dalla giurisprudenza costituzionale. Analoghe considerazioni sono alla base delle pronunce della Cassazione che hanno, tra l’altro, attribuito rilievo, ai fini della cessazione (rectius: quiescenza) del diritto all’assegno di man¬tenimento o divorzile, ovvero ai fini della determinazione del relativo importo, alla instaurazione, da parte del coniuge (o ex coniuge) beneficiario dello stesso, di una famiglia, ancorché di fatto (v. sentt. n. 3923 del 2012, n. 17195 del 2011).
Trib. Modena Sez. I, 7 giugno 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I fatti sopravvenuti alla separazione non possono essere dedotti nel giudizio di opposizione al precetto avente ad oggetto crediti maturati per il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento, determinato a favore del figlio in sede di separazione. In tale sede, invero, possono proporsi unicamente questioni relative alla validità ed efficacia del titolo, mentre i fatti sopravvenuti devono essere fatti valere col procedimento di modifica delle condizioni della separazione ex art. 710 c.p.c.
Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2013, n. 11218 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale tra i coniugi, colui che agisca per la revoca dell’assegnazione della casa fa¬miliare ha l’onere di provare in modo inequivoco il venir meno dell’esigenza abitativa con carattere di stabilità, cioè di irreversibilità (nella specie la madre affidataria utilizzava l’abitazione familiare solo per il periodo estivo), prova che deve essere particolarmente rigorosa in presenza di prole affidata o convivente con l’assegnatario; inoltre il giudice deve comunque verificare che il provvedimento richiesto non contrasti con i preminenti interessi della prole.
Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2013, n. 10720 (Famiglia e Diritto, 2014, 1, 31 nota di LAI)
Nel processo di separazione, il giudice d’appello, può modificare l’assegno di mantenimento per i figli minori anche soltanto con una diversa valutazione delle circostanze di fatto poste a fondamento della decisione im¬pugnata, senza che sia necessario il concorso di circostanze nuove. Infatti le circostanze nuove costituiscono condizione necessaria soltanto nel giudizio di revisione di cui agli artt. 155 ter c.c. e 710 c.p.c. ma non anche per il giudizio d’appello promosso dal coniuge che richieda una modificazione dell’assegno.
Cass. civ. Sez. Unite, 26 aprile 2013, n. 10064 (Famiglia e Diritto, 2013, 12, 1085 nota di FRASSINETTI)
In materia di revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere a seguito dello scioglimento e della cessazione degli effetti civili del matrimonio, a norma dell’art. 9 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, il decreto pro¬nunciato dal tribunale è immediatamente esecutivo, in conformità di una regola più generale, desumibile dall’art. 4 della stessa legge, che è incompatibile con l’art. 741 cod. proc. civ. in tema di procedimenti camerali, il quale subordina l’efficacia esecutiva al decorso del termine per la proposizione del reclamo.
Cass. civ. Sez. VI, 2 aprile 2013, n. 8016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza territoriale a conoscere dei procedimenti di revisione delle disposizioni economiche contenute nella sentenza di divorzio è devoluta al giudice del luogo in cui è sorta l’obbligazione controversa, dovendo appli¬carsi a tali procedimenti i criteri ordinari di competenza per territorio stabiliti dagli articoli da 18 a 20 del codice di procedura civile e non il disposto dell’art. 709 ter, ultimo comma, cod. proc. civ., introdotto dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54, destinato alla soluzione di controversie insorte tra genitori in ordine all’esercizio della potestà ge¬nitoriale o alle modalità di affidamento e, in tale ambito, all’adozione, in caso di gravi inadempienze dei genitori o di atti che arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, dei provvedimenti sanzionatori previsti dalla norma stessa, anche in unione con la modifica dei provvedimenti in vigore relativamente a tali modalità L’art. 12 quater della legge sul divorzio, introdotto dalla L. n. 74 del 1987 fa chiaro riferimento alla disponibilità dei generali criteri alternativi di determinazione della competenza per le cause relative ai diritti di obbligazione di cui alla legge stessa, tra le quali non vi è ragione per non includere le controversie concernenti l’obbligo dei coniugi di contribuire al mantenimento dei figli.
Trib. Genova Sez. IV, 7 marzo 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La domanda di modifica dell’assegno di mantenimento dovuto per la prole, che investe rapporti obbligatori, non è equiparabile alla domanda di separazione e si sottrae alle speciali regole di competenza stabilite sia per il giu¬dizio di separazione, che per il giudizio di divorzio, nell’ambito del quale è invocabile anche il criterio alternativo previsto dall’art. 12 quater della legge n. 898 del 1970, ossia il luogo ove l’obbligazione deve essere eseguita. Nel giudizio avente ad oggetto la modifica dell’assegno di mantenimento dovuto per i figli, in particolare, in virtù degli artt. 148 e 155 c.c., è pacifica la sussistenza in capo al genitore dell’obbligo di contribuire al mantenimento del minore, obbligo che va specificato nel suo ammontare in ragione dei criteri facoltativi stabiliti dalla norma. Alla luce del criterio generale di cui all’art. 18 c.p.c. o dei criteri facoltativi di cui agli artt. 20 c.p.c. e 12 quater della legge n. 898 del 1970, competente è il Giudice del luogo ove il convenuto ha la residenza o il domicilio, oppure ove è sorta o deve essere eseguita l’obbligazione dedotta in giudizio.
Trib. Genova, 30 ottobre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il venir meno di rapporto di locazione dell’alloggio coniugale, costituisce circostanza legittimamente la cessa¬zione dell’obbligo, posto a carico dell’coniuge in sede di separazione coniugale, di corresponsione della somma mensile dovuta all’occupante l’alloggio predetto per il pagamento del canone di locazione. Nell’ipotesi descritta, invero, non occorre introdurre apposita domanda giudiziale ex art. 710 c.p.c., non potendo trovare applicazione il principio secondo cui eventuali fatti sopravvenuti, incidenti sulle condizioni di vita dei coniugi, devono essere dedotti chiedendo la modifica delle condizioni della separazione ai sensi della richiamata disposizione codicistica, ma non possono essere fatti valere in sede di opposizione all’esecuzione.
Trib. Torino, 28 agosto 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Mentre il provvedimento di modifica delle condizioni di separazione, previsto dall’art. 710 c.p.c., non è immedia¬tamente esecutivo (ma solo ove in tal senso sia disposto dal giudice ai sensi dell’art. 741 c.p.c.), l’art. 4, comma 14, legge 1 dicembre 1970, n. 898, dispone invece la provvisoria esecutività della sentenza di primo grado pronunciata all’esito del giudizio di divorzio, regola estesa dall’art. 23, legge 6 marzo 1987, n. 74 ai giudizi di separazione personale, ma non a quelli di modifica del regime di separazione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 16 agosto 2012, n. 14535 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudicato, formatosi con la sentenza intervenuta tra le parti, copre il dedotto e il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e cioè non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto esercitate in giudizio, ma anche tutte le possibili questioni, proponibili sia in via di azione, sia in via di eccezione, le quali, sebbene non dedotte specifi¬camente, costituiscono precedenti logici, essenziali e necessari, della pronuncia.
Cass. civ. Sez. I, 9 agosto 2012, n. 14348 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 155-quater c.c., nello stabilire che il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli, risponde all’esigenza, prevalente su qualsiasi altra, di conservare ai figli di coniugi separati l’habitat domestico, da intendersi come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare e tale ratio devono ispirarsi anche le determinazioni sulla revoca dell’as¬segnazione della casa familiare. L’inciso secondo cui “il diritto al godimento della casa familiareviene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o con¬tragga nuovo matrimonio” va, pertanto, interpretato nel senso che l’assegnazione della casa coniugale non viene meno di diritto al verificarsi degli eventi indicati (instaurazione di una convivenza di fatto, nuovo matrimonio), dovendosi la decadenza subordinare ad un giudizio di conformità all’interesse del minore. È onere, inoltre, di chi agisce per la revoca attestare in modo univoco che l’eventuale abbandono della casa coniugale da parte del coniuge affidatario è connotato dal carattere della “stabilità”, cioè dell’irreversibilità ed il giudice investito della domanda di revoca deve comunque verificare, anche una volta offerta tale prova, che il provvedimento richiesto non contrasti con i preminenti interessi della prole affidata o convivente con l’assegnatario.
Trib. Lamezia Terme, 17 luglio 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 710 c.p.c. le parti possono chiedere la modifica dei provvedimenti conseguenti la separazione al mutare delle condizioni in presenza delle quali i provvedimenti medesimi sono stati adottati. Ciò significa che il Tribunale, ai fini della delibazione sull’istanza di modifica, è chiamato a valutare la sopravvenienza, rispetto al giudizio di separazione, di circostanze tali da giustificare un diverso assetto dei rapporti tra le parti. Una simile valutazione, con particolare riguardo alle statuizioni economiche, postula non soltanto l’accertamento di una intervenuta modifica delle condizioni economiche dei coniugi ed eventualmente dei figli, ma anche l’idoneità di tale modifica a mutare il pregresso assetto patrimoniale realizzato con il precedente provvedimento attributivo dell’assegno, secondo una valutazione comparativa delle condizioni economiche delle parti.
Cass. civ. Sez. lavoro, 3 luglio 2012, n. 11088 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di divorzio, qualora le parti, in sede di regolamentazione dei loro rapporti economici, abbiano con-venuto di definirli in un’unica soluzione, come consentito dall’art. 5, comma 8, della legge n. 898 del 1970, attribuendo al coniuge che abbia diritto alla corresponsione dell’assegno periodico previsto nel comma 6 dello stesso art. 5, una determinata somma di denaro o di altra utilità, il cui valore il Tribunale, nella sentenza di pronuncia dello scioglimento del matrimonio, abbia ritenuto equo ai fini della concordata regolazione patrimo¬niale, tale attribuzione, indipendentemente dal nomen juris che gli ex coniugi le abbiano dato nelle loro pat¬tuizioni, deve ritenersi adempitiva di ogni obbligo di sostentamento nei confronti del beneficiario, dovendosi, quindi, escludere che costui possa avanzare, successivamente, ulteriori pretese di contenuto economico e, in particolare, che possa essere considerato, all’atto del decesso dell’ex coniuge, titolare dell’assegno di divorzio, avente, come tale, diritto di accedere alla pensione di reversibilità o (in concorso con il coniuge superstite) a una sua quota.
Cons. Stato Sez. IV, 17 maggio 2012, n. 2833 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In generale, ai sensi dell’art. 2909 c.c. la forza del giudicato deve intendersi circoscritta alle questioni di fatto e di diritto fatte valere in via di azione o di eccezione, ovvero alle questioni (c.d. dedotto e deducibile) che costi¬tuiscono il presupposto logico e indefettibile della decisione
Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2012, n. 4296 (Corriere Giur., 2012, 6, 772 nota di DANOVI)
È ammissibile nei giudizi di separazione e divorzio l’intervento del figlio maggiorenne che abbia diritto al mantenimento, in tale veste legittimato in via prioritaria a ottenere il versamento diretto del contributo. L’intervento in giudizio del figlio maggiorenne economicamente non autosufficiente può avvenire in tutte le forme previste dall’art. 105 c.p.c. (per far valere un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo della controversia, o eventualmente in via adesiva) e assolve una funzione di ampliamento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito all’entità e al versamento del contributo al mantenimento sulla base di un’approfondita ed effettiva disamina delle istanze dei soggetti interessati.
Cass. civ. Sez. I, 12 marzo 2012, n. 3923 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, la sperequazione dei mezzi del coniuge economicamente più debole a fronte delle disponibilità economiche dell’altro, che avevano caratterizzato il tenore di vita della coppia in costanza di matrimonio, non giustifica la corresponsione di un assegno divorzile a carico del primo, ove questi instauri una convivenza con altra persona che assuma i connotati di stabilità e continuità, trasformandosi in una vera e propria famiglia di fatto. In detta ipotesi il diritto all’assegno viene a trovarsi in una fase di quie¬scenza, potendosi riproporre in caso di rottura della convivenza.
Cass. civ. Sez. lavoro, 8 marzo 2012, n. 3635 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La corresponsione dell’assegno divorzile in unica soluzione su accordo tra le parti, soggetto a verifica giudiziale, esclude la sopravvivenza, in capo al coniuge beneficiario, di qualsiasi ulteriore diritto, a contenuto patrimoniale o meno, nei confronti dell’altro coniuge, attesa la cessazione, per effetto del divorzio e della suddetta erogazione “una tantum”, di qualsiasi rapporto fra gli stessi, con la conseguenza che nessuna ulteriore prestazione può es¬sere richiesta, neppure per il peggioramento delle condizioni economiche dell’assegnatario o, comunque, per la sopravvenienza dei giustificati motivi cui è subordinata l’ammissibilità della domanda di revisione del medesimo assegno periodico.
Cass. civ. Sez. I, 8 febbraio 2012, n. 1779 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di assegno di mantenimento, i mutamenti reddittuali verificatisi in pendenza del giudizio di divorzio restano oggetto di valutazione del giudice investito della domanda di modifica delle condizioni di separazione, essendo queste ultime destinate alla perdurante vigenza fino all’introduzione di un nuovo regolamento patrimo¬niale per effetto della sentenza di divorzio.
Cass. civ. Sez. III, 20 marzo 2012, n. 4376 (Fam. Pers. Succ., 2012, 5, 388)
Il provvedimento di chiusura del procedimento di modifica delle condizioni di separazione (tanto consensuale che giudiziale), previsto dall’art. 710 c.p.c., è immediatamente e automaticamente esecutivo per quanto si desume all’interno dello stesso art. 710 c.p.c., restando, invece, esclusa la sua soggezione alla disciplina della norma generale del procedimento camerale, di cui all’art. 741 c.p.c..
Cass. civ. Sez. I, 29 dicembre 2011, n. 30033 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È ammissibile la richiesta di assegno di divorzio nel procedimento per la modifica delle relative condizioni, ove esso non sia stato precedentemente chiesto, purché si dia conto di circostanze sopravvenute, rispetto alle statuizioni del divorzio operanti “rebus sic stantibus”.
Cass. civ. Sez. I, 28 ottobre 2011, n. 22520 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudicato, formatosi con la sentenza intervenuta tra le parti, copre il dedotto ed il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e cioè non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto fatte valere in giudizio, ma anche tutte le possibili questioni, proponibili sia in via di azione, sia in via di eccezione, le quali, sebbene non dedotte speci¬ficamente, costituiscono precedenti logici essenziali e necessari della pronuncia. (In applicazione del suddetto principio, si è ritenuta l’eccezione di nullità di un contratto di associazione in partecipazione preclusa dal giudica¬to, avendo il riconoscimento dell’esistenza di un valido contratto ex art. 2549 cod. civ. costituito il presupposto logico-giuridico della decisione).
Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17195 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio in caso di cessazione degli effetti civili del matrimo¬nio, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorché di fatto; la conseguente cessazione del diritto all’assegno divorzile, a carico dell’altro coniuge, non è però definitiva, po¬tendo la nuova convivenza – nella specie, uno stabile modello di vita in comune, con la nascita di due figli ed il trasferimento del nuovo nucleo in una abitazione messa a disposizione dal convivente – anche interrompersi, con reviviscenza del diritto all’assegno divorzile, nel frattempo rimasto in uno stato di quiescenza.
Cass. civ. Sez. I, 28 ottobre 2011, n. 22520 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudicato, formatosi con la sentenza intervenuta tra le parti, copre il dedotto ed il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e cioè non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto fatte valere in giudizio, ma anche tutte le possibili questioni, proponibili sia in via di azione, sia in via di eccezione, le quali, sebbene non dedotte specifi¬camente, costituiscono precedenti logici essenziali e necessari della pronuncia.
Cass. civ. Sez. Unite, 11 luglio 2011, n. 15144 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il fenomeno del cd. overruling ricorre (soltanto) quando si registra una svolta inopinata e repentina rispetto ad un precedente diritto vivente consolidato che si risolve in una compromissione del diritto di azione e di difesa di una parte. Elementi costitutivi sono quindi: l’avere a oggetto una norma processuale, il rappresentare un mutamento imprevedibile, il determinare un effetto preclusivo del diritto di azione o difesa. In questi casi, trova diretta applicazione il valore del Giusto processo attraverso l’esclusione dell’operatività della preclusione deri¬vante dall’overruling nei confronti della parte che abbia confidato nella consolidata precedente interpretazione della regola stessa. Per essa, insomma, la tempestività dell’atto va valutata con riferimento alla giurisprudenza vigente al momento dell’atto stesso. Trattasi di soluzione confortata dall’esigenza di non alterare il parallelismo tra legge retroattiva e interpretazione giurisprudenziale retroattiva, per il profilo dei limiti, alla retroagibilità della regola, imposti dal principio di ragionevolezza. Ciò che non è consentito alla legge non può similmente essere consentito alla giurisprudenza.
Cass. civ. Sez. III, 16 giugno 2011, n. 13184 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il raggiungimento della maggiore età del figlio minore non può determinare, nel coniuge separato o divorziato, tenuto a contribuire al suo mantenimento, il diritto a procedere unilateralmente alla riduzione od eliminazione del contributo o a far valere tale condizione in sede di opposizione all’esecuzione, essendo necessario, a tal fine, procedere all’instaurazione di un giudizio volto alla modifica delle condizioni di separazione o divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 9 maggio 2011, n. 10077 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di revisione dell’assegno di divorzio, ai fini dell’adeguamento del predetto alla rivalutazione monetaria è ammissibile la domanda riconvenzionale, che sia introdotta dal coniuge convenuto, ai fini della ri¬duzione dell’assegno stesso, poiché si tratta di pretesa strettamente collegata con quelle oggetto della domanda principale, implicante l’opportunità di un “simultaneus processus”; si tratta invero, pur se nel rito camerale, di un giudizio contenzioso, nel quale il giudice ha il dovere di pronunciarsi sulle domande ritualmente proposte, avendo tra l’altro la possibilità, nell’ambito di una loro trattazione congiunta, di valutare la complessiva situazio¬ne determinatasi e così se si siano verificate circostanze tali da giustificare la modifica di una decisione assunta “rebus sic stantibus”.
Cass. civ. Sez. I, 27 aprile 2011, n. 9373 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il decreto emesso all’esito del procedimento di modifica delle condizioni di separazione non è immediatamente esecutivo, a meno che il giudice non abbia disposto, in presenza di ragioni di urgenza, che esso abbia efficacia immediata. L’art. 23 della legge n. 74/1987 estende ai giudizi di separazione personale, in quanto compatibili, le norme dell’art. 4 della legge sul divorzio che regolano i relativi giudizi: rimangono pertanto estranei dall’àm¬bito di applicazione dell’art. 23 la disciplina dei procedimenti di revisione sia del regime del divorzio sia delle condizioni della separazione, sicché è da ritenersi che i decreti camerali pronunciati nei giudizi di revisione non siano immediatamente esecutivi poiché acquistano efficacia secondo le speciali regole di cui all’art. 741 c.p.c..
Trib. Trieste, 27 aprile 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il contributo per il mantenimento può essere ridotto solo mediante provvedimento giudiziale, così come ogni mo¬difica degli accordi di separazione deve avvenire esclusivamente per il tramite del procedimento di cui all’art. 710 del codice di rito. Ne consegue che le doglianze concernenti l’eliminazione e/o riduzione degli assegni di mante¬nimento per fatti sopravvenuti alla sentenza di omologazione non possono proporsi con l’opposizione a precetto.
Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2010, n. 24996 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 4, comma primo, della legge n. 54 del 2006 stabilisce che nel caso in cui la sentenza di separazione giu¬diziale sia già stata emessa al momento della entrata in vigore della stessa legge, ciascuno dei coniugi possa richiedere, nei modi previsti dall’art. 710 cod. proc. civ., l’applicazione delle nuove disposizioni della citata legge n. 54 del 2006, riconducendo l’innovato regime nell’ambito delle sopravvenienze valutabili; ne discende che, in virtù di una interpretazione costituzionalmente orientata ai sensi degli artt. 2, 3, 29 e 30 Cost., tale nuovo regime giuridico sostanziale deve ritenersi applicabile anche nei giudizi di separazione personale ancora in corso.
Trib. Pescara, 2 settembre 2010 (P.Q.M., 2010, 3, 64 nota di SERAFINI)
Nel caso di contestuale pendenza di giudizio per la modifica delle condizioni di separazione e di divorzio, la do¬manda di assegno proposta dopo la pronuncia della sentenza di divorzio non può essere qualificata quale istanza per la modifica delle condizioni di separazione.
Le statuizioni economiche del Giudice del divorzio assorbono le statuizioni della separazione, per cui deve rite¬nersi l’improcedibilità della domanda di modifica delle condizioni di separazione in quanto inammissibile.
Trib. Bari Sez. I, 8 luglio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La nascita di un nuovo figlio, da una relazione successiva alla pronuncia di separazione, se, da un lato, non costituisce motivo che giustifichi la riduzione dell’assegno di mantenimento stabilito a favore dei figli nati dal pregresso matrimonio, incide, invece, sull’entità dell’assegno divorzile, ovvero di quello da corrispondere all’ex coniuge. Detto evento, infatti, pur non escludendo gli obblighi assistenziali posti a carico dell’obbligato già in sede di separazione, incide senz’altro sull’entità complessiva del reddito percepito e, quindi, si riflette inevitabil¬mente sulla quantificazione dell’assegno divorzile che, dunque, può essere determinato in misura ridotta rispetto a quello di mantenimento previsto a favore del coniuge in sede di separazione.
Trib. Trieste, 16 giugno 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le doglianze concernenti l’eliminazione e/o riduzione degli assegni di mantenimento per fatti sopravvenuti alla sentenza di omologazione non possono proporsi con l’opposizione a precetto, in quanto la modifica degli accordi di separazione può unicamente avvenire per il tramite del procedimento di cui all’art. 710 del c.p.c.
App. Firenze 9 aprile 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La parte può scegliere se reclamare in Corte d’appello il provvedimento o richiederne la revoca o la modifica al giudice istruttore.
Trib. Pisa, 2 marzo 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Presupposto dell’istanza di modifica delle condizioni di separazione è la sopravvenienza di nuove circostanze.
Trib. Trieste 26 gennaio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La domanda di modificazione dell’assegno alimentare o di mantenimento, che venga proposta, ai sensi degli artt. 710 e 711 cod. proc. civ., da uno dei coniugi separati in base a sentenza o verbale di separazione consensuale omologato, è soggetta ai normali criteri di competenza per valore e per territorio e, quindi, con riguardo alla competenza per territorio, anche al foro concorrente del luogo dell’esecuzione dell’obbligazione, da identificarsi con il domicilio dell’avente diritto.
Cass. civ. Sez. I, 22 gennaio 2010, n. 1096 (Famiglia e Diritto, 2015, 5, 470 nota di BUZZELLI)
La nascita di un figlio nell’ambito di un rapporto di convivenza, caratterizzato da precarietà e privo di tutela giu¬ridica nei confronti del soggetto economicamente più debole, non costituisce evento idoneo ad incidere, sotto il profilo giuridico, sulla natura della convivenza, potendo unicamente cementare l’unione, ma non certo dar luogo alla insorgenza di diritti ed obblighi. In tal senso, non costituisce causa legittimante una revisione delle condizioni patrimoniali stabilite in sede di divorzio, in quanto il soggetto economicamente più debole non acquisisce quel grado di tutela necessario a giustificare la perdita dei diritti di carattere economico derivanti dal matrimonio. In sede di revisione delle condizioni di carattere patrimoniale disposte con la sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio, deve aversi riguardo unicamente alle circostanze sopravvenute alla pronuncia di divorzio, nella specie costituite dall’intervenuto mutamento di residenza della beneficiaria, trasferitasi nella medesima abitazione del suo compagno, e dalla realizzazione da parte della medesima di alcuni acquisti immo¬biliari, e non già di circostanze preesistenti al processo di divorzio, quali la convivenza della beneficiaria con altro uomo e la nascita di un figlio.
Trib. Pistoia 7 gennaio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Presupposto dell’istanza di modifica delle condizioni di separazione è la sopravvenienza di nuove circostanze.
Trib. Modena Sez. I, 20 novembre 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con l’opposizione al precetto relativo a crediti maturati per il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento, determinato a favore del figlio in sede di separazione, possono proporsi soltanto questioni relative alla validità ed efficacia del titolo, mentre non possono dedursi fatti sopravvenuti, da farsi valere con il procedimento di modifica delle condizioni della separazione di cui all’art. 710 c.p.c..
Cass. civ. Sez. Unite, 21 ottobre 2009, n. 22238 (Famiglia e Diritto, 2010, 4, 364 nota di GRAZIOSI)
Il decreto emesso in camera di consiglio dalla corte d’appello a seguito di reclamo avverso i provvedimenti emanati dal tribunale sull’istanza di revisione delle disposizioni accessorie alla separazione, in quanto incidente su diritti soggettivi delle parti, nonché caratterizzato da stabilità temporanea, che lo rende idoneo ad acquistare efficacia di giudicato, sia pure “rebus sic stantibus”, è impugnabile dinanzi alla Corte di cassazione con il ricor¬so straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost., e, dovendo essere motivato, sia pure sommariamente, può essere censurato anche per carenze motivazionali, le quali sono prospettabili in rapporto all’ultimo comma dell’art. 360 cod. proc. civ., nel testo novellato dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, che qualifica come violazione di legge il vizio di cui al n. 5 del primo comma, alla luce dei principi del giusto processo, che deve svolgersi nel contraddittorio delle parti e concludersi con una pronuncia motivata.
È ammissibile il ricorso per cassazione avverso il decreto emesso dalla corte d’appello sui reclami contro i provvedimenti del tribunale sulle istanze di modifica di disposizioni accessorie della separazione.
È obbligatoria l’audizione dei figli minori nel procedimento ex art. 710 c.p.c. di modifica delle condizioni di separazione tra i coniugi, e la sua omissione determina la nullità del provvedimento decisorio per violazione dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 1996 sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, dell’art. 155-sexies c.c., oltreché dei principi del contraddittorio e del giusto processo.
Trib. Genova, Sez. VII, 6 agosto 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con l’opposizione al precetto relativo a crediti maturati per il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento, determinato a favore del figlio in sede di separazione, possono proporsi soltanto questioni relative alla validità ed efficacia del titolo, mentre non possono dedursi fatti sopravvenuti, da farsi valere col procedimento di mo¬difica delle condizioni della separazione di cui all’art. 710 c.p.c. In particolare, la sopravvenuta autosufficienza economica del figlio deve essere fatta valere nelle forme del procedimento speciale di cui all’art. 710 c.p.c.: in mancanza di tale accertamento giudiziale si deve quindi ritenere che le condizioni economiche del figlio non siano mutate dal momento dell’omologazione della separazione consensuale, con la conseguenza che gli assegni di mantenimento intimati nell’atto di precetto risultano dovuti.
Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2009, n. 16789 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell›art. 5, comma sesto, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, sollevata in relazione agli artt. 29, 3, 31 Cost., nella parte in cui contempla il diritto all›assegno per il coniuge divorziato che non abbia mezzi adeguati; tale diritto trova infatti fondamento nella solidarietà post-coniugale, espressione del più generale dovere di solidarietà economico-sociale sancito all›art. 2 Cost., dalla quale sorge l›obbligo di corrispondere un assegno periodico a favore dell›ex coniuge privo di mezzi adeguati, nonché di riparare allo squilibrio economico derivante dal divorzio, in piena conformità al valore del matrimonio come indicato dall›art. 29 Cost.; neppure può ravvisarsi contrasto nella parte in cui l›articolo richiamato non esclude la permanenza del diritto all›assegno, qualora l›obbligato contragga nuove nozze, non potendo la sussistenza di tale diritto essere fatta dipendere dalla volontà dell’obbligato, e dovendo la costituzione del nuovo nucleo familiare essere valutata ai fini della determinazione dell’importo dell’assegno dovuto all’ex coniuge.
Cass. civ. Sez. lavoro, 30 giugno 2009, n. 15343 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In relazione al principio per cui l’autorità del giudicato copre il dedotto e il deducibile, e cioè non solo le ragioni giuridiche fatte valere in giudizio (giudicato esplicito) ma anche tutte le altre – proponibili sia in via di azione che di eccezione – le quali, sebbene non dedotte specificamente si caratterizzano per la loro comune inerenza ai fatti costitutivi delle pretese anteriormente svolte (giudicato implicito), qualora si sia formato il giudicato sull’in¬sussistenza di un diritto di credito (nella specie relativo ai compensi dovuti dall’A.S.L. ad un medico a titolo di rimborso spese e di indennità forfettaria a copertura del rischio per avviamento professionale), deve ritenersi preclusa una seconda pronuncia relativa a tale diritto, sia pure in relazione a diversa voce di credito (nella specie spese a titolo di produzione del reddito), determinata in base a circostanze e criteri diversi da quelli posti a base dell’anteriore statuizione; né detta voce può essere riconosciuta a titolo di arricchimento senza causa, posto che anche la relativa azione deve ritenersi coperta dal giudicato formatosi sull’azione sostanziale relativa al medesi¬mo oggetto, anche richiesto ad un diverso titolo.
Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2009, n. 14093 (Nuova Giur. Civ. 2010, 1, 1, 80 nota di PULITI)
I giustificati motivi ex art. 156, comma 7, c.c., consistono in fatti nuovi sopravvenuti, dunque non preesistenti e deducibili nel corso del giudizio di separazione, tali da modificare la situazione esistente al tempo della decisione.
Qualora la revisione delle condizioni della separazione abbia ad oggetto i provvedimenti relativi ai rapporti tra i coniugi, vi può essere contestuale pendenza del giudizio di divorzio e del giudizio ex art. 710 c.p.c., data la diversità tra la “causa petendi e il petitum” dei due giudizi.
Trib. Bari, 22 giugno 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con l’opposizione al precetto relativo a crediti maturati per il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento, determinato a favore del figlio in sede di separazione, possono proporsi soltanto questioni relative alla validità ed efficacia del titolo, mentre non possono dedursi fatti sopravvenuti, che possono farsi valere solo con il proce¬dimento di modifica delle condizioni della separazione di cui all’art. 710 c.p.c..
Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2009, n. 2709 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di divorzio, l’eventuale nascita di un figlio non costituisce elemento di prova di per sé sufficiente e idoneo a dimostrare l’esistenza di una situazione di convivenza more uxorio tra il coniuge beneficiario dell’assegno ed un terzo, avente nel tempo i caratteri di stabilità e continuità tali, da far presumere che il beneficiario dell’assegno tragga da tale convivenza vantaggi economici che giustifichino la revisione dell’assegno medesimo.
Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2008, n. 28990 (Famiglia e Diritto, 2009, 7, 694 nota di BIANCHI
In tema di assegno di mantenimento, deve ritenersi ammissibile, stante l’opportunità del “simultaneus proces¬sus” innanzi allo stesso giudice per la definizione delle questioni patrimoniali connesse, la proposizione della domanda di adeguamento dell’assegno di separazione nel corso del giudizio di divorzio, poichè questo è dovuto fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce detto giudizio; con la conseguenza che può convertirsi il contributo al mantenimento del coniuge separato in assegno provvisorio ai sensi dell’art. 4 della legge 1 dicem¬bre 1970, n. 898 e con l’ulteriore conseguenza che, in pendenza del giudizio di divorzio, deve ritenersi preclusa dal divieto del “ne bis in idem” la medesima richiesta proposta in sede di modifica dei patti della separazione.
Solo il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio fa venir meno il vincolo matrimoniale e lo stato di separa¬ti, che costituisce il presupposto dell’obbligo di mantenimento del coniuge, un obbligo che contestualmente cessa ed è eventualmente sostituito da quello di corrispondere l’assegno divorzile. Pertanto la sentenza di divorzio non necessariamente comporta la cessazione della materia del contendere nella controversia sulle richieste di mo¬dificare le condizioni accessorie della separazione, qualora permanga un interesse delle parti alla definizione di tale ultimo giudizio che ha ad oggetto l’assegno dovuto al coniuge sino al passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia il divorzio e, pertanto, deve ritenersi ammissibile la domanda di adeguamento dell’assegno di separazione anche nel corso del giudizio di divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 5 settembre 2008, n. 22394 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai giudizi di modifica delle condizioni economiche stabilite nella separazione, si applicano gli ordinari criteri di competenza e, quindi, oltre al foro generale delle persone fisiche, è competente anche il foro concorrente relativo alle obbligazioni; pertanto, sussiste la competenza del tribunale che ha pronunziato o ha omologato la separa¬zione, nel cui circondario sono sorte le obbligazioni di cui si tratta.
Corte cost., 30 luglio 2008, n. 308 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 155-quater, primo comma, c.c., introdotto dall’art. 1, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54, anche in combinato disposto con l’art. 4 della stessa legge, censurato, in riferimento agli artt. 2, 3, 29 e 30 Cost., nella parte in cui prevede la revoca automatica dell’assegnazione della casa familiare nel caso in cui l’assegnatario conviva more uxorio o contragga nuovo ma¬trimonio. Premesso che la dichiarazione di illegittimità di una disposizione è giustificata dalla constatazione che non ne è possibile un’interpretazione conforme a Costituzione e premesso, altresì, che l’evoluzione normativa e giurisprudenziale evidenzia come non solo la decisione sulla assegnazione della casa familiare, ma anche quella sulla cessazione della stessa, sono sempre state subordinate, pur nel silenzio della legge, ad una valutazione, da parte del giudice, di rispondenza all’interesse della prole, la norma censurata non viola gli indicati parametri ove sia interpretata nel senso che l’assegnazione della casa coniugale non venga meno di diritto al verificarsi degli eventi di cui si tratta (instaurazione di una convivenza di fatto, nuovo matrimonio), ma che la decadenza dalla stessa sia subordinata ad un giudizio di conformità all’interesse del minore.
App. Firenze, 10 luglio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La parte può scegliere se reclamare in Corte d’appello il provvedimento o richiederne la revoca o la modifica al giudice istruttore.
Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2008, n. 18593 (Giur. It., 2009, 5, 1155, nota di SUBRANI)
La circostanza che l’ex coniuge – titolare dell’assegno di divorzio – abbia instaurato una convivenza more uxorio con altra persona, non è idonea ad escludere automaticamente il diritto all’assegno; tale convivenza incide solo sulla misura dell’assegno qualora venga fornita la prova, da parte dell’ob¬bligato, che la convivenza stessa, ben¬ché non assistita da garanzie giuridiche di stabilità, sia in grado di influire in melius sulle condizioni economiche dell’avente diritto, a seguito di un contributo al suo mantenimento da parte del convivente, o quanto meno di apprezzabili risparmi di spesa derivatigli dalla convivenza. In tema di assegno di divorzio, la circostanza che il titolare abbia iniziato una convivenza more uxorio può giustificare la riduzione dell’assegno se abbia determinato un miglioramento delle sue condizioni economiche.
Corte cost. 23 maggio 2008, n. 169 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 4, comma 1, della legge n. 898 del 1970, nel testo sostituito dall’art. 2, comma 3-bis, del D.L. n. 35 del 2005, inserito dalla legge di conversione, L. n. 80 del 2005, limitatamente alle parole “del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza”. La previsione, tra i criteri di competenza per territorio applicabili ai procedimenti concernenti lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, di quello del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi, è manifestamente irragionevole ove si consideri che negli indicati procedimenti, nella maggioranza delle ipotesi, la residenza comune è cessata, quanto meno dal momento in cui i coniugi, in occasione della domanda di separazione – giudiziale consensuale – sono stati autorizzati a vivere separatamente, sicché non è ravvisabile alcun collegamento fra i coniugi e il tribunale individuato dalla norma.
Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11488 (Famiglia e Diritto, 2008, 12, 1120 nota di ARCERI)
Così come la separazione giudiziale dà luogo ad un giudicato “rebus sic stantibus”, non modificabile in relazione ai fatti che avrebbero potuto esser dedotti nel relativo giudizio, analogamente gli accordi negoziali sottoscritti in sede di separazione consensuale omologata non sono modificabili in relazione a fatti dei quali le parti avrebbero dovuto tenere conto al momento della conclusione di detti accordi, ma unicamente in relazione alla sopravve¬nienza di fatti nuovi, che abbiano alterato la situazione preesistente, mutando i presupposti in base ai quali le parti avevano stabilito le condizioni della separazione. Del tutto estranei a tale ambito sono dunque i fatti pre¬esistenti alla regolamentazione pattizia della separazione, non presi in considerazione, per qualsiasi motivo, in quella sede.
In materia di assegno di mantenimento, i “giustificati motivi” , la cui sopravvenienza consente di rivedere le de¬terminazioni adottate in sede di separazione dei coniugi, sono ravvisabili nei fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale la sentenza era stata emessa o gli accordi erano stati stipulati, con la con¬seguenza che esulano da tale oggetto i fatti preesistenti alla separazione, ancorché non presi in considerazione in quella sede per qualsiasi motivo.
Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11487 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il mero acquisto di un cespite, così come la perdita di un bene, non rappresenta, di per sé, indice sufficiente a giustificare la modifica delle condizioni della separazione consensuale in punto di misura del contributo di mante¬nimento, giacché la valutazione dei motivi sopravvenuti – la prova dell’esistenza dei quali è a carico del coniuge richiedente la modifica – postula sempre un giudizio di relazione da parte del giudice di merito, onde accertare se l’acquisto o la perdita del cespite sia l’espressione di un incremento o decremento patrimoniale dei coniugi di entità tale da mutare l’equilibrio esistente al momento della separazione.
Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 2008, n. 7450 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione consensuale, la natura negoziale dell’accordo rende applicabili le norme generali che disciplinano la materia dei vizi della volontà e della simulazione, i quali, tuttavia, non sono deducibili attraverso il giudizio camerale ex artt.710-711 cod. proc. civ.; infatti, costituisce presupposto del ricorso a detta procedura l’allegazione dell’esistenza di una valida separazione omologata, equiparabile alla separazione giudiziale pronun¬ciata con sentenza passata in giudicato, con la conseguenza che la denuncia degli ipotetici vizi dell’accordo di separazione, ovvero della sua simulazione, resta rimessa al giudizio ordinario.
Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 2008, n. 1595 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La disposizione della L. n. 898 del 1970, art. 9, consente la revisione delle condizioni del divorzio relative (tra l’al¬tro) ai rapporti economici per sopravvenienza di “giustificati motivi”, sicché il relativo provvedimento postula non soltanto l’accertamento di una sopravvenuta modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma anche la idoneità di tale modifica ad immutare il pregresso assetto patrimoniale realizzato con il precedente provvedi¬mento attributivo dell’assegno, secondo una valutazione comparativa delle condizioni economiche di entrambe le parti. L’apprezzamento della rilevanza dei fatti sopravvenuti (onde inferirne l’esistenza dei “giustificati motivi” richiesti dalla norma) va infatti compiuto con riguardo alla natura ed alla funzione dell’assegno divorzile, rivolto ad assicurare, in ogni tempo, la disponibilità di quanto necessario al godimento di un tenore di vita adeguato alla pregressa posizione economico-sociale dell’ex coniuge.
I sopravvenuti, giustificati motivi a sostegno della richiesta di revisione delle condizioni patrimoniali del divorzio possono riguardare anche i nuovi oneri familiari dell’obbligato, derivanti dalla nascita di un figlio, generato dalla successiva unione, sempre che detta insorgenza, considerate tutte le circostanze del caso concreto, abbia deter¬minato un reale ed effettivo depauperamento delle sostanze o della capacità patrimoniale dell’obbligato stesso, apprezzato all’esito di una rinnovata valutazione comparativa della situazione delle parti.
Cass. civ. Sez. I, 7 gennaio 2008, n. 28 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di revisione dell’assegno di mantenimento, il diritto a percepirlo di un coniuge ed il corrispondente obbligo a versarlo dell’altro, nella misura e nei modi stabiliti dalla sentenza di separazione o dal verbale di omolo¬gazione, conservano la loro efficacia, sino a quando non intervenga la modifica di tali provvedimenti, rimanendo del tutto ininfluente il momento in cui di fatto sono maturati i presupposti per la modificazione o la soppressione dell’assegno, con la conseguenza che, in mancanza di specifiche disposizioni, in base ai principi generali relativi all’autorità, intangibilità e stabilità, per quanto temporalmente limitata (“rebus sic stantibus”), del precedente giudicato impositivo del contributo di mantenimento, la decisione giurisdizionale di revisione non può avere de¬correnza anticipata al momento dell’accadimento innovativo, rispetto alla data della domanda di modificazione.
Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2007, n. 24321 (Famiglia e Diritto, 2008, 5, 446 nota di CASABURI)
In tema di separazione consensuale, applicandosi in via analogica l’art. 156, settimo comma, cod. civ., i giu-stificati motivi che autorizzano il mutamento delle relative condizioni consistono in fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale gli accordi erano stati stipulati; ne consegue che gli eventuali vizi (nullità o annullabilità) che inficiano la validità dell’accordo di separazione omologato e la sua eventuale si¬mulazione non sono deducibili attraverso il giudizio camerale attivato a norma del combinato disposto degli artt. 710 e 711 cod. proc. civ. ma attraverso un giudizio ordinario, secondo le regole generali.
Gli accordi di separazione consensuale tra i coniugi possono contenere, oltre che un contenuto necessario, atti¬nente allo stesso consenso alla separazione, ai patti relativi alla prole e al mantenimento del coniuge economi¬camente più debole, un contenuto eventuale, solo occasionalmente collegato al primo, ed attinente a pattuizioni patrimoniali tra i coniugi, che configurano non una convenzione matrimoniale ma un contratto atipico, valido sempre che non incida negativamente sui diritti e i doveri nascenti dal matrimonio e che comunque – ove se ne configuri l’invalidità – non può essere impugnato nelle forme del procedimento camerale ex art. 710 c.p.c., che presuppone da un lato l’intervento di sopravvenienze, dall’altro la validità della separazione consensuale, ma con un ordinario giudizio di cognizione.
Cass. civ. Sez. I, 10 agosto 2007, n. 17643 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di separazione, quanto all’incidenza della convivenza “more uxorio” di un coniuge sul diritto all’as¬segno di mantenimento nei confronti dell’altro coniuge, in riferimento alla persistenza delle condizioni per l’at¬tribuzione dello stesso, deve distinguersi tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, sulla base del carattere di stabilità, che conferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderlo rilevante giuridicamente.
Cass. civ. Sez. lavoro, 3 agosto 2007, n. 17078 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa, entro i limiti oggettivi che sono segnati dai suoi elementi costitutivi, come tali rilevanti per l’identificazione dell’azione giudiziaria sulla quale il giudicato si fonda,costituiti dal titolo della stessa azione (causa petendi), dal bene della vita che ne forma l’oggetto (pe¬titum mediato)a prescindere dal tipo di sentenza adottato (petitum immediato); entro questi limiti, il giudicato copre il dedotto e il deducibile, restando salva e impregiudicata soltanto la sopravvenienza di fatti e di situazioni nuove, che si siano verificate dopo la formazione del giudicato o, quantomeno, che non fossero deducibili nel giudizio, in cui il giudicato si è formato, e fissa la regola del caso concreto, partecipando della natura dei comandi giuridici, e la sua interpretazione deve essere assimilata alla interpretazione delle norme giuridiche; ne conse¬gue che il giudicato può essere interpretato direttamente dalla Corte di Cassazione e l’erronea interpretazione che di esso sia stata data dal giudice di merito può essere denunciata in sede di legittimità sotto il profilo della violazione di norme di diritto.
Cass. civ. Sez. I, 3 agosto 2007, n. 17041 (Famiglia e Diritto, 2008, 6, 577 nota di LA ROSA)
Il peggioramento delle condizioni economiche dell’ex coniuge, determinato dalla volontaria scelta di pensiona¬mento o di dimissioni volontarie dal lavoro, può assumere rilevanza quale giustificato motivo per il riconoscimen¬to ex novo dell’assegno di divorzio, originariamente negato o non richiesto, nell’ambito di
Cass. civ. Sez. I, 24 luglio 2007, n. 16398 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La domanda ex art.710 c.p.c. può essere esperita solo dopo che si sia formato il giudicato, sulla separazione mentre la natura e la funzione dei provvedimenti diretti a regolare i rapporti economici tra i coniugi in conse¬guenza della separazione, postulano la possibilità di adeguare l’ammontare del contributo al variare nel corso del giudizio delle loro condizioni patrimoniali o reddituali, ed anche, eventualmente, di modularne la misura secondo diverse decorrenze riflettenti il verificarsi di dette variazioni, con la conseguenza che il giudice di appello, nel rispetto del principio di disponibilità e di quello generale della domanda, è tenuto a considerare l’evoluzione delle condizioni delle parti verificatesi nelle more del giudizio.
Cass. civ. Sez. I, 28 giugno 2007, n. 14921 (Famiglia e Diritto, 2008, 3, 257, nota di VISALLI)
Il diritto all’assegno divorzile, in linea di principio, non può essere automaticamente negato in presenza di una convivenza “more uxorio”, rappresentando quest’ultima solo un elemento valutabile al fine di accertare se la parte che richiede l’assegno disponga o meno di mezzi adeguati rispetto al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. La convivenza more uxorio, infatti, pur ove acquisti carattere di stabilità, non dà luogo ad un obbligo di mantenimento reciproco fra i conviventi e può essere instaurata anche con persona priva di redditi o di patri¬monio, conseguentemente l’incidenza economica della convivenza deve essere valutata in relazione all’insieme delle circostanze che la caratterizzano.
Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 2007, n. 14055 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Può ritenersi formato un giudicato implicito tutte le volte in cui tra la questione risolta espressamente e quella risolta implicitamente sussista un rapporto indissolubile di dipendenza, nel senso che l’accertamento contenuto nella motivazione della sentenza cade su questioni che si presentano come la necessaria premessa o il presup¬posto logico e giuridico della decisione, coprendo il dedotto e il deducibile, e cioè non solo le questioni espressa¬mente fatte valere in giudizio, ma anche tutte le altre che si caratterizzano per la loro inerenza ai fatti costitutivi delle domande o eccezioni dedotte in giudizio. Il giudicato, così inteso, comporta una limitazione del potere del giudice di conoscere “ex officio “ di determinate questioni.
Cass. civ. Sez. I, 30 maggio 2007, n. 12687 (Fam. Pers. Succ., 2007, 12, 1000 nota di DOSSETTI)
Il miglioramento delle condizioni patrimoniali dell’ex coniuge obbligato al pagamento di un assegno divorzile, derivante dall’eredità ricevuta dal proprio genitore dopo il divorzio, non costituisce giustificato motivo per l’au¬mento dell’assegno, in mancanza di un peggioramento della situazione economica dell’ex coniuge beneficiario.
App. Milano, 30 marzo 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ inammissibile la contemporanea presentazione di un reclamo avverso l’ordinanza presidenziale di separazione e la richiesta di modifica della stessa ordinanza al giudice istruttore.
Cass. civ. Sez. I, 19 dicembre 2016, n. 26188 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza stabile e duratura “come coniugi”, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla de¬libazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, e deve essere opposta, a pena di decadenza, solo con la comparsa di costituzione e risposta e non anche con la memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. o nel giudizio di legittimità, così rispettandosi l’autono¬mia del coniuge convenuto, libero di proporre o meno l’eccezione, e ponendosi altresì un limite alla valutazione, altrimenti troppo incisiva, del giudice, rendendola opportunamente scevra da ogni forma di paternalismo. Né tale interpretazione configura un’ipotesi di cd. “ overruling” tale da giustificare la rimessione in termini della parte che aveva fatto affidamento su di un diverso orientamento giurisprudenziale tutt’altro che consolidato.
Trib. Modena, 5 ottobre 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ inammissibile l’istanza di modifica dei provvedimenti presidenziali prima dello spirare del termine per il recla¬mo dell’ordinanza presidenziale.
Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2006, n. 20256 (Nuova Giur. Civ., 2007, 7, 1, 895 nota di BARBANERA)
Qualora sia stata pronunciata sentenza di separazione, le nuove disposizioni dettate dalla l. n. 54/2006, possono trovare applicazione soltanto attraverso un nuovo procedimento nelle forme previste dall’art. 710 cod. proc. civ.
Cass. civ. Sez. I, 23 agosto 2006, n. 18367 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di revisione dell’assegno di divorzio, allorché a fondamento dell’istanza dell’”ex” coniuge obbligato, rivol¬ta ad ottenere la totale soppressione del diritto al contributo economico, sia dedotto il miglioramento delle con¬dizioni economiche dell’ex coniuge beneficiario (nella specie dipendente dall’acquisto per successione ereditaria della proprietà e della comproprietà di beni immobili), il giudice, ai fini dell’accoglimento della domanda, non può limitarsi a considerare isolatamente detto miglioramento , attribuendo ad esso una valenza automaticamente estintiva della solidarietà postconiugale, ma – assumendo a parametro l’assetto di interessi che faceva da sfondo, e da risultato, al precedente provvedimento sull’assegno divorzile – deve verificare se l’”ex” coniuge, titolare del diritto all’assegno, abbia acquistato, per effetto di quel miglioramento, la disponibilità di “mezzi adeguati”, ossia idonei a renderlo autonomamente capace, senza necessità di integrazioni ad opera dell’obbligato, di raggiungere un tenore di vita an alogo a quello avuto in costanza di matrimonio.
Trib. Firenze, 3 maggio 2006 (Famiglia e Diritto, 2006, 6, 646, nota di DORONZO)
La domanda di revisione dell’assegno di divorzio per l’ex coniuge può essere proposta al giudice del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio, oppure al giudice del luogo in cui deve essere eseguita l’obbligazione, ma non anche al giudice del foro in cui l’obbligazione è sorta (nella specie, è stata dichiarata l’incompetenza per territorio del Tribunale di Firenze, adito quale giudice del luogo in cui, essendo stata emessa la sentenza di divorzio, era sorto l’obbligo di somministrazione periodica dell’assegno divorzile).
Cass. civ. Sez. III, 14 marzo 2006, n. 5473 (Nuova Giur. Civ., 2007, 3, 1, 371 nota di MARTINO)
Gli accordi di separazione personale fra i coniugi, contenenti attribuzioni patrimoniali da parte dell’uno nei confronti dell’altro e concernenti beni mobili o immobili, non risultano collegati necessariamente alla presenza di uno specifico corrispettivo o di uno specifico riferimento ai tratti propri della “donazione”, e – tanto più per quanto può interessare ai fini di una eventuale loro assoggettabilità all’actio revocatoria di cui all’art. 2901 c.c. – rispondono, di norma, ad un più specifico e più proprio originario spirito di sistemazione dei rapporti in occa¬sione dell’evento di “separazione consensuale” (il fenomeno acquista ancora maggiore tipicità normativa nella distinta sede del divorzio congiunto), il quale, sfuggendo – in quanto tale – da un lato alle connotazioni classiche dell’atto di “donazione” vero e proprio (tipicamente estraneo, di per sé, ad un contesto – quello della separazione personale – caratterizzato proprio dalla dissoluzione delle ragioni dell’affettività), e dall’altro a quello di un atto di vendita (attesa oltretutto l’assenza di un prezzo corrisposto), svela, di norma, una sua “tipicità” propria la quale poi, volta a volta, può, ai fini della più particolare e differenziata disciplina di cui all’art. 2901 c.c., colorarsi dei tratti dell’obiettiva onerosità piuttosto che di quelli della “gratuità”, in ragione dell’eventuale ricorrenza – o meno – nel concreto, dei connotati di una sistemazione “solutorio-compensativa” più ampia e complessiva, di tutta quell’ampia serie di possibili rapporti (anche del tutto frammentari) aventi significati (o eventualmente solo riflessi) patrimoniali maturati nel corso della (spesso anche lunga) quotidiana convivenza matrimoniale.
Cass. civ. Sez. I, 10 marzo 2006, n. 5302 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, i reciproci rapporti economici in relazione al futuro ed eventuale divorzio con riferimento all’assegno divorzile sono nulli per illiceità della causa, avuto riguardo alla natura assistenziale di detto assegno, previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il diritto a richiederlo. Ne consegue che la disposizione dell’art. 5, ottavo comma, della legge n. 898 del 1970 nel testo di cui alla legge n. 74 del 1987 – a norma del quale, su accordo delle parti, la corresponsione dell’assegno divorzile può avvenire in un’ unica soluzione, ove ritenuta equa dal tribunale, senza che si possa, in tal caso, proporre alcuna successiva domanda a contenuto economico – , non è applicabile al di fuori del giudizio di divorzio, e gli accordi di separazione, dovendo essere interpretati
Cass. civ. Sez. I, 24 febbraio 2006, n. 4203 (Famiglia e Diritto, 2006, 6, 599, nota di LONGO)
La funzione insostituibile dell’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli minorenni o maggiorenni non auto¬sufficienti economicamente, comporta che tale contribuito non possa essere ridotto pur in presenza di una con¬vivenza “more uxorio” del genitore affidatario, caratterizzata da condizioni di vita e di abitazione stabili e sicuri.
Trib. Novara, 16 ottobre 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con l’opposizione al precetto relativo a crediti maturati per il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento determinato a favore del coniuge in sede di separazione possono proporsi soltanto questioni relative alla validi¬tà ed efficacia del titolo, mentre non possono dedursi fatti sopravvenuti, da farsi valere con il procedimento di modifica delle condizioni di separazione di cui all’art. 710 c.p.c., che costituisce l’unico mezzo a disposizione di entrambe le parti per far valere i mutati presupposti.
Cass. civ. Sez. I, 29 marzo 2005, n. 6625 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La dichiarazione di addebito della separazione personale dei coniugi può essere richiesta e adottata solo nell’am¬bito del giudizio di separazione, dovendosi escludere l’esperibilità, in tema di addebito, di domande successive a tale giudizio, poiché il capoverso dell’art. 151 c.c. espressamente attribuisce la cognizione della relativa doman¬da alla competenza esclusiva del giudice della separazione. Ne consegue che, successivamente alla pronuncia di separazione senza addebito, come alla omologazione di separazione consensuale, le parti non possono chiedere, né per fatti sopravvenuti, né per fatti anteriori alla separazione, una pronuncia di addebito, a nulla rilevando, nel caso di separazione consensuale, nemmeno il carattere negoziale della stessa, e la conseguente applicabilità ad essa delle norme generali relative alla disciplina dei vizi della volontà – nei limiti in cui siano compatibili con la specificità di tale negozio di diritto familiare – implicando tale regime solo la possibilità di promuovere il relativo giudizio di annullamento.
Cass. civ. Sez. I, 25 agosto 2005, n. 17320 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 9 legge n. 898 del 1970 (così come modificato dall’art. 2 legge n. 436 del 1978 e dall’art. 13 legge n. 74 del 1987), le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli, in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile. Pertanto, nel caso di mancata attribuzione dell’assegno divorzile, in sede di giudizio di divorzio, per rigetto o per mancanza della relativa domanda, la determinazione dello stesso può avvenire solo in caso di sopravvenienza di giustificati motivi, concernenti la indisponibilità di mezzi adeguati e la impossibilità oggettiva di procurarseli, ovvero le condizioni o il reddito dei coniugi. Tale principio trova applicazione anche nella ipotesi in cui il coniuge divorziato che chiede per la prima volta l’assegno sia rimasto contumace nel giudizio di divorzio, non potendosi essere a lui riconosciuta una posizione diversa da quella del coniuge che, essendosi costituito, non abbia chiesto l’attribuzione di detto assegno.
Cass. civ. Sez. I, 30 dicembre 2004, n. 24265 (Famiglia e Diritto, 2005, 5, 501 nota di BIANCHI)
È ammissibile il ricorso ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., avverso i decreti della Corte d’appello resi in sede di modifica delle condizioni di separazione riguardanti il mantenimento dei figli, l’affidamento ed i rapporti con il genitore non affidatario, avendo tali decreti natura decisoria e definitiva, pur essendo suscettibili di revisione ai sensi dell’art. 155, u.c., c.c.
ll decreto pronunciato dalla Corte d’Appello in sede di reclamo avverso il provvedimento del tribunale in materia di modifica delle condizioni della separazione dei coniugi concernenti il mantenimento dei figli, l’affidamento ed i rapporti con il genitore non affidatario è ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., in quanto la de¬cisione della domanda con le forme del procedimento camerale fa escludere l’ammissibilità del ricorso ordinario (art. 360 c.p.c.), ma non incide sulla natura contenziosa del procedimento, che ha ad oggetto diritti soggettivi ed è definito con un decreto che, nonostante sia modificabile in ogni tempo, ha natura sostanziale di sentenza e ca¬rattere decisorio e definitivo, dato che la definitività va riferita alla situazione esistente alla data della decisione.
Cass. civ. Sez. I, 2 novembre 2004, n. 21049 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 9 L. n. 898 del 1970 (così come modificato dall’art. 2 L. n. 436 del 1978 e dall’art. 13 L. n. 74 del 1987), le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli, in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane viceversa esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile. Ne consegue che l’attribuzione in favore di un ex coniuge dell’assegno divorzile non può essere rimessa in discus¬sione in altro processo sulla base di fatti anteriori all’emissione della sentenza, ancorchè ignorati da una parte, se non attraverso il rimedio della revocazione, nei casi eccezionali e tassativi di cui all’art. 395 c.p.c.
Cass. civ. Sez. I, 4 settembre 2004, n. 17902 (Famiglia e Diritto, 2004, 473 nota di CONTE)
Stante la natura negoziale dell’accordo che dà sostanza e fondamento alla separazione consensuale tra coniugi, e non essendo ravvisabile, nell’atto di omologazione, una funzione sostitutiva o integrativa della volontà del¬le parti, ma rappresentando la procedura ed il decreto di omologazione condizioni di efficacia del sottostante accordo tra i coniugi (salvo che per quanto riguarda i patti relativi all’affidamento ed al mantenimento dei figli minorenni, sui quali il giudice è dotato di un potere d’intervento più penetrante), deve ritenersi ammissibile l’azione di annullamento della separazione consensuale omologata per vizi della volontà, la cui esperibilità, non limitata alla materia contrattuale, ma estensibile ai negozi relativi a rapporti giuridici non patrimoniali, genus cui appartengono quelli di diritto familiare – presidia la validità del consenso come effetto del libero incontro della volontà della parti.
Cass. civ. Sez. lavoro, 24 marzo 2004, n. 5925 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 2909 c.c., il giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa, entro i limiti oggettivi dati dai suoi elementi costitutivi, ovvero della causa petendi, intesa come titolo dell’azione proposta e del bene della vita che ne forma l’oggetto (petitum mediato), a prescindere dal tipo di sentenza adottato (peti¬tum immediato); entro tali limiti, l’autorità del giudicato copre il dedotto e il deducibile, ovvero non soltanto le questioni di fatto e di diritto fatte valere in via di azione e di eccezione, e comunque, esplicitamente investite dalla decisione, ma anche le questioni non dedotte in giudizio che costituiscano, tuttavia, un presupposto logico essenziale e indefettibile della decisione stessa, restando salva ed impregiudicata soltanto la sopravvenienza di fatti e situazioni nuove verificatesi dopo la formazione del giudicato; l’interpretazione di esso è assimilabile all’interpretazione delle norme giuridiche, cosicché essa può essere effettuata dalla Corte di cassazione anche d’ufficio e l’erronea interpretazione da parte del giudice di merito può essere denunciata sotto il profilo della violazione di norme di diritto. (Nel caso di specie, la S.C. ha ritenuto esente da vizi la sentenza di merito, con la quale era stata rigettata la domanda del ricorrente volta al riconoscimento del diritto alla rendita per malattia professionale, in quanto identica questione era già stata oggetto di decisione passata in giudicato, con la quale si era accertato che il ricorrente era effettivamente portatore di una malattia professionale, comportante una inabilità permanente nella misura dell’11 per cento, e si era rigettata la domanda sull’assunto – erroneo, ma coperto dal giudicato – che la malattia professionale dovesse raggiungere la soglia minima del venti per cento al fine dell’indennizzabilità).
App. Milano, 25 febbraio 2004 (Famiglia e Diritto, 2005, 5, 521 nota di NARDELLI)
I provvedimenti di natura economica pronunciati in camera di consiglio nel giudizio di revisione delle condizio¬ni di separazione di cui all’art. 710 c.p.c., sono immediatamente esecutivi a norma di quanto dispone l’art. 4, comma 11, l. div., applicabile ai sensi dell’art. 23 l. div. e, pertanto, sono sottratti alla disciplina dell’efficacia dei provvedimenti camerali di cui all’art. 741 c.p.c. Ne deriva che la sospensione può essere disposta solo per gravi motivi, in applicazione di quanto disposto dall’art. 283 c.p.c.
Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2004, n. 336 (Foro It., 2004, 1, 1089)
Il soggetto che, al fine di ottenere la quota di pensione dell’ex coniuge deceduto, agisce nei confronti del coniuge superstite e dell’ente pensionistico, può avvalersi del foro del luogo in cui l’obbligazione deve essere adempiuta, ossia del luogo in cui l’ente erogatore ha la propria sede.
Cass. civ. Sez. I, 20 novembre 2003, n. 17607 (Famiglia e Diritto, 2004, 473 nota di CONTE)
L’accordo di separazione ha natura negoziale e a esso possono applicarsi, nei limiti della loro compatibilità, le norme del regime contrattuale che riguardano in generale la disciplina del negozio giuridico o che esprimono principi generali dell’ordinamento, come quelle in tema di vizi del consenso e di capacità delle parti. È tuttavia inammissibile l’impugnazione della separazione per simulazione quando i coniugi abbiano chiesto al tribunale l’omologazione della loro (simulata) separazione. In tal caso, la volontà di conseguire lo status di separati – dal quale la legge fa derivare effetti irretrattabili tra le parti e nei confronti dei terzi, salve le ipotesi della riconci¬liazione e dello scioglimento definitivo del vincolo – è effettiva e non simulata. Pur non potendosi dubitare della natura negoziale (quand’anche non contrattuale) dell’accordo che dà sostanza e fondamento alla separazione consensuale tra i coniugi, e pur non essendo ravvisabile, nell’atto di omologazione, una funzione sostitutiva o integrativa della volontà delle parti o di governo dell’autonomia dei coniugi, è da escludere l’impugnabilità per simulazione dell’accordo di separazione una volta omologato, giacché l’iniziativa processuale diretta ad acquisire l’omologazione, e quindi la condizione formale dei coniugi separati, con le conseguenti implicazioni giuridiche, si risolve in una iniziativa nel senso della efficacia della separazione che vale a superare il precedente accordo simulatorio, ponendosi in antitesi con esso, essendo logicamente insostenibile che i coniugi possano “disvolere” con detto accordo la condizione di separati ed al tempo stesso “volere” l’emissione di un provvedimento giudi¬ziale destinato ad attribuire determinati effetti giuridici a detta condizione.
Cass. civ. Sez. I, 9 ottobre 2003, n. 15064 (Arch. Civ., 2004, 1335)
Ogni patto stipulato in epoca antecedente al divorzio volto a predeterminare il contenuto dei rapporti patrimoniali del divorzio stesso deve ritenersi nullo; è consentito, invece, che le parti, in sede di divorzio, dichiarino espres¬samente che, in virtù di una pregressa operazione (ad es. trasferimento immobiliare) tra di esse, l’assegno di divorzio sia già stato corrisposto una tantum con conseguente richiesta il giudice di stabilire conformemente l’assegno medesimo, ma in assenza di tale inequivoca richiesta è inibito al giudice di determinare l’assegno riconoscendone l’avvenuta corresponsione in unica soluzione. Del tutto diversa è l’ipotesi in cui le parti abbiano già regolalo i propri rapporti patrimoniali e nessuna delle due richieda un assegno (tale regolamento, infatti non necessariamente comporta la corresponsione di un assegno una tantum potendo le parti avere regolato diversa¬mente i propri rapporti patrimoniali e riconosciuto, sulla base di ciò, la sussistenza di una situazione di equilibrio tra le rispettive condizioni economiche con conseguente non necessità della corresponsione di alcun assegno), nel qual caso l’accordo è valido per l’attualità, ma non esclude che successivi mutamenti della situazione patri¬moniale di una delle due parti possa giustificare la richiesta di corresponsione di un assegno a carico dell’altra.
Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11975 (Famiglia e Diritto, 2004, 195)
Tra i fattori capaci di incidere sulla nozione di “adeguatezza” è suscettibile di acquisire rilievo anche la eventuale convivenza “more uxorio”, la quale, quando si caratterizzi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità tanto da venire ad assumere i connotati della cosiddetta “famiglia di fatto” (caratterizzata, in quanto tale, dalla libera e stabile condivisione di valori e dei modelli di vita, in essi compresi anche quello economico). Ciò fa sì che la valutazione di una tale “adeguatezza” non possa non registrare una tale evoluzione esistenziale, recidendo – finché duri tale convivenza (e ferma rimanendo in questo caso la perdurante rilevanza del solo eventuale stato di bisogno in sé ove “non compensato” all’interno della convivenza) – ogni plausibile connessione con il tenore e con il modello di vita economici caratterizzanti la pregressa fase di convivenza coniugale, ed escludendo – con ciò stesso – ogni presupposto per il riconoscimento, in concreto, dell’assegno divorzile fondato sulla conservazione degli stessi.
Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 2003, n. 11720 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il mero acquisto di un cespite, così come la perdita di un bene, non rappresenta, di per sé, indice sufficiente a giustificare la modifica delle condizioni della separazione consensuale in punto di misura del contributo di mante¬nimento, giacché la valutazione dei motivi sopravvenuti – la prova dell’esistenza dei quali è a carico del coniuge richiedente la modifica – postula sempre un giudizio di relazione da parte del giudice di merito, onde accertare se l’acquisto o la perdita del cespite sia l’espressione di un incremento o decremento patrimoniale dei coniugi di entità tale da mutare l’equilibrio esistente al momento della separazione.
Cass. civ. Sez. I, 28 giugno 2002, n. 9484 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Avverso i provvedimenti emanati dalla Corte d’appello in sede di reclamo, concernenti la modifica della statuizio¬ne riguardante il contributo per il mantenimento dei figli, è inammissibile il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111 cost., trattandosi di provvedimenti che – in quanto modificabili in ogni momento, ai sensi dell’art. 155, ult. comma, c.c., anche indipendentemente dal sopravvenire di circostanze nuove, e perciò insu¬scettibili di passare in giudicato – sono privi del carattere della decisorietà e definitività.
Trib. Napoli Sez. I, 2 maggio 2002 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In sede di divorzio, nella determinazione dell’assegno per i figli minori a carico del genitore non affidatario il giudice deve tener conto del possibile peggioramento delle condizioni economiche di quest’ultimo conseguenti alla nascita di un nuovo figlio.
Cass. civ. Sez. I, 22 aprile 2002, n. 5861 (Famiglia e Diritto, 2002, 5, 480 nota di VULLO)
E’ improponibile la domanda di revisione delle condizioni della separazione introdotta, ai sensi dell’art. 710 c.p.c., anteriormente al passaggio in giudicato della sentenza che ha pronunciato la separazione stessa, in quanto, mancando la statuizione da modificare, il giudizio sarebbe privo di oggetto e mancherebbe del suo presupposto. Ai fini dell’applicazione di tale principio resta irrilevante la circostanza che sia stato o meno proposto l’appello avverso la sentenza di separazione.
Cass. civ. Sez. I, 18 gennaio 2002, n. 14781 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione dei coniugi e di modifica delle condizioni della separazione, in quanto privi di definitività e decisorietà non sono suscettibili di ricorso per cassazione – ex articolo 111 della Costituzione – i provvedimenti emessi dalla Corte d’appello avverso le statuizioni del tribunale, ai sensi dell’articolo 710 del c.p.c., ove questi ri¬guardino statuizioni relative ai figli minori, le quali sono – a norma dell’articolo 155 del c.c. – sempre modificabili.
Cass. civ. Sez. I, 9 febbraio 2002, n. 13060 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza “more uxorio” di un coniuge separato, che abbia acquisito carattere di stabilità, pur se non esclu¬de – di per sé – il diritto dello stesso all’assegno di divorzio, influisce comunque sulla determinazione della sua entità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, ai fini della determinazione della misura dell’assegno di divorzio, aveva attribuito rilievo ad una convivenza “more uxorio” di durata pari a quella del matrimonio).
Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2001, n. 13872 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con l’opposizione al precetto relativo a crediti maturati per il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento, determinato a favore del figlio in sede di separazione, possono proporsi soltanto questioni relative alla validità ed efficacia del titolo, mentre non possono dedursi fatti sopravvenuti, da farsi valere col procedimento di modifica delle condizioni della separazione di cui all’art. 710 c.p.c.
Cass. civ. Sez. I, 22 marzo 2001, n. 4099 (Giust. Civ., 2001, I, 1189)
In tema di competenza per territorio, la domanda di modifica dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge consensualmente separato, proposta a norma degli art. 710 e 711 c.p.c., la quale investe rapporti obbligatori, non è equiparabile alla domanda di separazione personale e si sottrae alle speciali regole di competenza stabilite per il giudizio di separazione. Ciò vale ovviamente rispetto sia alle regole di competenza dettate specificamente per la separazione sia per quelle dettate per il divorzio, ma dichiarate applicabili anche al giudizio di separazione. Inapplicabile sembra anche l’art. 12 quater della legge n. 898 del 1970 sul divorzio, introdotto dall’art. 18 della legge n. 74 del 1987, che regola la competenza per le cause di obbligazione di cui a quella legge. Per tali giudizi di modifica dell’assegno di mantenimento, è territorialmente competente, ai sensi dell’art. 20 c.p.c., anche il giudice del luogo in cui è sorto il debito di mantenimento, che si identifica nel luogo in cui è stata omologata la separazione consensuale e non in quello in cui il matrimonio è stato contratto.
Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2001, n. 3149 (Famiglia e Diritto, 2001, 4, 442)
Applicandosi l’art. 156, comma 7, c.c. in via analogica alla separazione consensuale, i “giustificati motivi” che au¬torizzano la modificazione delle condizioni della separazione consistono in fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale gli accordi erano stati stipulati; ne consegue che nè gli eventuali vizi del consenso rispetto all’atto di separazione omologato nè la sua eventuale simulazione sono deducibili con il giudi¬zio camerale attivato ai sensi degli art. 710 e 711 c.p.c., costituendo presupposto del ricorso a detta procedura l’allegazione dell’esistenza di una valida separazione consensuale omologata.
Cass. civ. Sez. I, 5 gennaio 2001, n. 126 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La corresponsione in unica soluzione dell’assegno divorzile esclude la sopravvivenza, in capo al coniuge benefi¬ciario, di qualsiasi ulteriore diritto, di contenuto patrimoniale e non, nei confronti dell’altro coniuge, attesa la ces¬sazione, per effetto del divorzio, di qualsiasi rapporto tra gli ex coniugi, con la conseguenza che nessuna ulteriore prestazione può essere legittimamente invocata dal coniuge assegnatario, in base al disposto dell’art. 5, comma 8, della legge n. 898 del 1970, neanche per la sopravvenienza di quei giustificati motivi cui l’art. 9 della stessa legge subordina l’ammissibilità della istanza di revisione dell’assegno corrisposto periodicamente. Peraltro, la corresponsione in unica soluzione dell’assegno è, a sua volta, assoggettata a determinati presupposti, previsti dal citatocomma 8 dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970, la cui sussistenza è oggetto di valutazione da parte del giudice di merito, impugnabile con i mezzi ordinari, pena la formazione del giudicato sul punto, con conseguente preclusione della proposizione di successive domande di contenuto economico nei confronti dell’ex coniuge.
Cass. civ. Sez. I, 2 giugno 2000, n. 7328 (Giust. Civ., 2000, I, 2225)
La convivenza “more uxorio” ove abbia carattere di stabilità e dia luogo, nei confronti del coniuge richiedente l’assegno di divorzio, a prestazioni di assistenza economica di tipo familiare da parte del convivente, può spie¬gare rilievo, a seconda dei casi, sia sul diritto sia sulla misura dell’assegno di divorzio.
La prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte di convivente “more uxorio”, quando di fatto esclude, oppure riduce, lo stato di bisogno del coniuge separato o divorziato, spiega rilievo sulla sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento e sulla sua quantificazione.
Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2000, n. 5253 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poichè durante la separazione personale non viene meno la solidarietà economica che lega i coniugi durante il matrimonio, la quale comporta la condivisione dei reciproci mezzi economici, a norma dell’art. 156, ultimo comma, c.c., il coniuge al quale non sia stato attribuito nessun assegno di mantenimento, ove la propria situa¬zione economica si sia deteriorata successivamente alla separazione, ovvero sia migliorata quella dell’altro, può chiedere l’attribuzione di un assegno rapportato al tenore di vita che avrebbe avuto ove la separazione non fosse intervenuta, dovendosi, peraltro, tenere conto che tale riferimento non è matematico, ma tendenziale. Al fine di stabilire se l’assegno sia dovuto, ed in quale misura, il giudice di merito non è tenuto ad accertare quale fosse il tenore di vita dei coniugi in costanza di matrimonio, ma unicamente a comparare le condizioni economiche dei coniugi al momento della domanda. (Nella specie è stata confermata la decisione della Corte territoriale che, in riforma della sentenza di primo grado, aveva riconosciuto il diritto della moglie ad ottenere, a modifica delle condizioni patrimoniali stabilite in sede di separazione consensuale dal coniuge, l’attribuzione dell’assegno di mantenimento in considerazione del peggioramento delle sue condizioni economiche dovute al pensionamento).
Cass. civ. Sez. I, 29 maggio 1999, n. 5263 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Può ritenersi formato un giudicato implicito tutte le volte in cui tra la questione risolta espressamente e quella risolta implicitamente sussista un rapporto indissolubile di dipendenza, nel senso che l’accertamento contenuto nella motivazione della sentenza cade su questioni che si presentano come la necessaria premessa o il presup¬posto logico e giuridico della decisione, coprendo il dedotto e il deducibile, e cioè non solo le questioni espressa¬mente fatte valere in giudizio, ma anche tutte le altre che si caratterizzano per la loro inerenza ai fatti costitutivi delle domande o eccezioni dedotte in giudizio. Il giudicato, così inteso, comporta una limitazione del potere del giudice di conoscere “ex officio” di determinate questioni.
Cass. civ. Sez. I, 28 maggio 1999, n. 5201 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il decreto pronunciato dalla Corte d’appello in sede di reclamo contro i provvedimenti del tribunale in materia di revisione delle condizioni di separazione dei coniugi è ricorribile per cassazione soltanto ai sensi dell’art. 111 cost., con conseguente limitazione del “thema decidendum” alle sole violazioni della legge regolatrice del rapporto sostanziale e di quella regolatrice del processo (a tale tipo di vizi essendo, per l’effetto, riconducibile l’inosservanza dell’obbligo di motivazione solo quando questa sia materialmente omessa, ovvero risulti mera¬mente apparente, perplessa ed obiettivamente incomprensibile, o contenente affermazioni tra loro inconciliabili), e non anche ai sensi dell’art. 360 c.p.c., per effetto della cameralizzazione del procedimento conseguente alla riformulazione dell’art. 710 c.p.c. di cui alla l. n. 331 del 1988.
Cass. civ. Sez. I, 22 maggio 1999, n. 4988 (Giur. It., 2000, 711 nota di FERRI)
È Inammissibile il ricorso per cassazione proposto avverso il decreto, pronunciato dalla Corte d’appello in camera di consiglio ex art. 710 c.p.c., che revisiona le disposizioni di separazione riguardanti i figli, di cui all’ultimo comma dell’art. 155 c.c., in quanto tale provvedimento è privo del carattere della decisorietà e definitività.
Cass. civ. Sez. I, 14 agosto 1998, n. 8046 (Famiglia e Diritto, 1999, 2, 132 nota di PORCARI)
Il provvedimento emesso dalla Corte d’appello ai sensi dell’art. 739 c.p.c. su reclamo avverso il decreto del tribu¬nale in materia di modificazione dei provvedimenti di separazione riguardanti i coniugi, dichiarato espressamente non reclamabile ai sensi del citato art. 739, è caratterizzato dagli elementi della decisorietà e definitività ed è perciò ricorribile per Cassazione ai sensi dell’art. 111 cost., diversamente da quanto accade per i provvedimenti di separazione riguardanti la prole, atteso che tali provvedimenti, essendo modificabili, a norma dell’art. 155, comma ultimo, c.p.c., senza bisogno che per la modifica sia dedotto un mutamento delle circostanze esaminate dal giudice sono privi del carattere della definitività e insuscettibili di passare in cosa giudicata.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3503 (Famiglia e Diritto, 1998, 4, 333, nota di DE PAOLA)
Nel caso in cui alla convivenza “more uxorio” siano riconnesse conseguenze giuridiche, al fine di distinguere tra semplice rapporto occasionale e fa¬miglia di fatto, deve tenersi soprattutto conto del carattere di stabilità che conferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderla rilevante sotto il pro¬filo giuridico, sia per quanto concerne la tutela dei figli minori, sia per quanto riguarda i rapporti patrimoniali tra i coniugi separati ed, in particolare, con riferimento alla persistenza delle condizioni per l’attribuzione dell’assegno di separazione (nella specie, la moglie, a seguito della separazione, aveva ottenuto un assegno di mantenimento a carico del marito che era stato, poi, revocato dal giudice di merito, sul presupposto che la stessa, successiva¬mente alla separazione, aveva intrattenuto una periodica convivenza con altro uomo, a seguito della quale era nato un figlio. La S.C. ha cassato la sentenza impugnata perché il giudice di merito, adeguandosi all’enunciato principio, accertasse se la donna ed il suo convivente avessero costituito o meno un’affidabile e stabile famiglia di fatto, trascendente la mera esistenza di rapporti sessuali, così da stabilire se questa nuova unione avesse fatto venire meno il presupposto per la percezione dell’assegno di mantenimento dal marito).
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 1998, n. 1031 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La richiesta di corresponsione dell’assegno periodico di divorzio di cui all’art. 5 della l. n. 898 del 1970 si confi¬gura come domanda (connessa ma) autonoma rispetto a quella di scioglimento del matrimonio, e, pertanto, la parte che, nel corso del giudizio divorzile, non l’abbia ritualmente avanzata ben può proporla successivamente, senza che, a ciò, sia di ostacolo la (ormai intervenuta) pronuncia di scioglimento del vincolo di coniugio, ope¬rando il principio secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile con esclusivo riferimento alla domanda fatta valere in concreto, ma non anche relativamente ad una richiesta diversa nel petitum e nella stessa causa petendi (come appunto, quella di riconoscimento dell’assegno rispetto a quella di divorzio), che la parte ha fa¬coltà di introdurre, o meno, nello stesso giudizio.
Cass. civ. Sez. I, 30 luglio 1997, n. 7118 (Giur. It., 1998, 1377)
Il termine perentorio di dieci giorni per proporre reclamo avverso il decreto motivato emesso all’esito del proce¬dimento di revisione delle condizioni contenute nella sentenza di separazione personale o di quelle consensual¬mente convenute ed omologate dal tribunale (previsto dall’art. 739 c.p.c., in relazione all’art. 710 c.p.c., come modificato dall’articolo unico della delle n. 331 del 1988) decorre dalla notificazione del menzionato provvedi¬mento eseguita ad istanza di parte e non ad istanza del cancelliere. I procedimenti camerali che si svolgono nei confronti di più parti hanno infatti natura contenziosa e si applica pertanto la regola dettata dall’art. 285 c.p.c. in tema di impugnazioni, in forza della quale bisogna aver riguardo alla notificazione fatta ad istanza di parte: attribuire alla sola parte il potere di far decorrere il termine per il reclamo ben si armonizza con la struttura dispositiva anzichè officiosa propria dei procedimenti contenziosi
Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 1997, n. 5024 (Famiglia e Diritto, 1997, 4, 305, nota di CARBONE)
La prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte di convivente more uxorio, quando di fatto esclude, oppure riduce, lo stato di bisogno del coniuge separato o divorziato, spiega rilievo sulla sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento e sulla sua quantificazione.
Cass. civ. Sez. I, 15 maggio 1997, n. 4306 (Famiglia e Diritto, 1997, 5, 417, nota di CARAVAGLIOS)
L’accordo di separazione ha un contenuto essenziale – il consenso reciproco a vivere separati – ed un contenuto eventuale, costituito dalle pattuizioni necessarie ed opportune, in relazione all’instaurazione di un regime di vita separata, a seconda della situazione familiare (affidamento dei figli; assegni di mantenimento; statuizioni eco¬nomiche connesse). Nel contenuto eventuale dell’accordo di separazione rientra quindi ogni statuizione finaliz¬zata a regolare l’assetto economico dei rapporti tra i coniugi in conseguenza della separazione, comprese quelle attinenti al godimento ed alla proprietà dei beni, il cui nuovo assetto sia ritenuto dai coniugi stessi necessario in relazione all’accordo di separazione e che il tribunale – con l’omologazione – non abbia considerato in contrasto con interessi familiari prevalenti rispetto a quelli disponibili di ciascuno di essi.
Cass. civ. Sez. I, 4 settembre 1996, n. 8063 (Famiglia e Diritto, 1997, 1, 39 nota di VULLO)
Nei procedimenti camerali – quale quello per la modifica dei provvedimenti relativi ai coniugi e ai figli conseguenti alla separazione coniugale – aventi ad oggetto contrapposte posizioni di diritto soggettivo, e quindi definiti con provvedimento suscettibile di acquisire autorità di giudicato, trovano applicazione i principi del processo di cogni¬zione circa l’onere dell’impugnazione e la conseguente delimitazione del riesame da parte del giudice di secondo grado alle questioni a lui devolute con i motivi di gravame, con la conseguenza che è viziata da ultrapetizione la pronuncia del giudice del reclamo che abbia riformato il provvedimento reclamato in difetto di apposito motivo di censura. (Nella specie è stato annullato il decreto che aveva provveduto, in difetto di richiesta, sulla assegna¬zione della casa coniugale).
Corte cost. 25 giugno 1996, n. 214 (Foro It., 1997, I, 61, nota di CIPRIANI)
È incostituzionale l’art. 70 c.p.c., nella parte in cui non prescrive l’intervento obbligatorio del p.m. nei giudizi tra genitori naturali che comportino “provvedimenti relativi ai figli”, nei sensi di cui agli art. 9 l. n. 898/1970 e 710 c.p.c. (in motivazione, la Corte ha precisato che resta impregiudicato se tra tali giudizi rientrino quelli vertenti unicamente sull’”an” e sul “quantum” del mantenimento).
Trib Santa Maria Capua Vetere, 25 giugno 1996 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio dimodifica delle condizioni di separazione trovano applicazione i criteri di competenza ordinaria per territorio e non quelli stabiliti per il giudizio di separazione. In particolare, si applica il criterio relativo al foro ge¬nerale del convenuto ex art. 18 ed anche quello riguardante il foro facoltativo per le cause concernenti i diritti di obbligazione previsto nell’art. 20. I fori concorrenti di cui ex art. 20 riguardano sia il luogo in cui è sorto il debito di mantenimento che è il luogo in cui è stata omologata la separazione consensuale e sia il luogo dell’esecuzione dell’obbligazione che si identifica con il domicilio dell’avente diritto.
Cass. civ. Sez. I, 6 marzo 1996, n. 1786 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il procedimento per la modificazione dei provvedimenti della separazione riguardanti i coniugi e la prole, regolato dall’art. 710 c.p.c., nel testo introdotto con la legge n. 331 del 1988, costituisce un procedimento camerale che si conclude con un decreto motivato, soggetto a reclamo dinanzi alla Corte d’appello, nel termine perentorio di dieci giorni, ai sensi dell’art. 739 c.p.c., ancorchè erroneamente emesso sotto forma di sentenza, dovendo applicarsi, anche nell’indicata ipotesi, la disciplina dei provvedimenti camerali da adottare con decreto, prevista in via generale dalla legge.
Trib. Mantova, 17 luglio 1995 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’accordo mediante il quale i coniugi, nel quadro della complessiva regolamentazione dei loro rapporti in sede di separazione consensuale, stabiliscono il trasferimento di beni immobili, dà vita ad un contratto atipico e caratte¬rizzato da propri presupposti posto in essere in occasione di tale circostanza sicché, ove esso non sia correlato alla attribuzione di un assegno di mantenimento né previsto in vista dell’affidamento della prole, ha natura del tutto autonoma ed estranea all’ambito del contenuto necessario della convenzione di separazione, derivandone che, per la modifica di tale specifica clausola, non è ammissibile il ricorso al procedimento di cui all’art. 710 c.p.c..
Cass. civ. Sez. I, 24 agosto 1994, n. 7488 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poichè l’assegno di mantenimento in favore di uno dei coniugi in regime di separazione è dovuto fino al passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia il divorzio, deve sempre ritenersi ammissibile – proprio per l’opportu¬nità del simultaneus processus innanzi allo stesso giudice per la definizione delle questioni patrimoniali indub¬biamente connesse – la domanda di adeguamento dell’assegno di separazione nel corso del giudizio di divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 22 gennaio 1994, n. 657 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione consensuale, mentre le modificazioni pattuite dai coniugi successivamente all’omolo¬gazione, trovando fondamento nell’art. 1322 c.c., devono ritenersi valide ed efficaci, anche a prescindere dallo speciale procedimento disciplinato dall’art. 710 c.p.c., quando non varchino il limite di derogabilità consentito dall’art. 160 c.c., le pattuizioni convenute antecedentemente o contemporaneamente all’accordo omologato sono operanti soltanto se si collocano in posizione di “non interferenza” rispetto a quest’ultimo (perchè concernono un aspetto che non è disciplinato nell’accordo formale, oppure perchè hanno un carattere meramente specifi¬cativo di disciplina secondaria) ovvero in posizione di conclamata e incontestabile maggior rispondenza rispetto all’interesse tutelato, come per l’assegno di mantenimento concordato in misura superiore a quella sottoposta ad omologazione.
Cass. civ. Sez. I, 9 dicembre 1993, n. 12125 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di assegno di mantenimento, la cui sopravvenienza consente di rivedere le determinazioni adottate in sede di separazione dei coniugi (art. 156 c.c., 710 e 711 c.p.c.), i giutsificati motivi di revisione non sono ravvi¬sabili nella mera perdita da parte dell’obbligato di un cespite o di un’attività produttiva di reddito, restando da dimostrare, con onere a carico dell’interessato, che la perdita medesima si sia tradotta in una riduzione delle complessive risorse economiche.
Cass. civ. Sez. I, 19 agosto 1993, n. 8784 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’autorità del giudicato – salva la configurabilità di un caso di revocazione che consenta l’esperimento della rela¬tiva azione – copre sia il dedotto che il deducibile, senza che assuma rilievo l’ignoranza, da parte di colui contro il quale si sia formato il giudicato, di fatti che avrebbero potuto dare fondamento ad azioni o eccezioni non fatte va¬lere (in forza di tale principio, la suprema corte ha confermato la decisione di merito, secondo cui l’avallante, per effetto del giudicato formatosi in sede di rigetto della propria opposizione a decreto ingiuntivo non può eccepire, nel successivo giudizio di opposizione all’esecuzione, l’estinzione del debito da parte dell’avallato, verificatasi anteriormente all’esito del primo giudizio, ma non venuta, all’epoca, a conoscenza dell’avallante).
Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 1993, n. 8389 (Foro It., 1994, I, 724 nota di CIPRIANI)
Ai sensi dell’art. 710 c.p.c., anche successivamente alle modifiche introdotte dalla legge n. 331 del 1988, la facoltà dei coniugi separati di domandare la modificazione dei provvedimenti, in ordine ai rapporti coniugali e parentali, di cui alla sentenza di separazione, presuppone il passaggio in giudicato di tale sentenza, quale evento costituente, appunto, presupposto processuale in senso tecnico, e non condizione dell’azione: la sussistenza di tale presupposto va quindi accertata con riferimento al momento della domanda, non potendosi attribuire rilievo alla sua sopravvenienza nel corso del procedimento e prima della decisione.
Cass. civ. Sez. I, 22 aprile 1993, n. 4761 (Giur. It., 1994, I,1, 1831, nota di OCCHINO)
La convivenza more uxorio di una delle parti rileva in solo (e nei limiti) in cui incida sulla loro reale e concreta situazione economica, risolvendosi, sul piano fattuale, in una condizione e fonte (non aleatoria) di reddito per il coniuge convivente (cfr. n. 1477 del 1982, n. 5717 del 1985, per tutte). La relazione more uxorio della mo¬glie non fa, quindi venir meno per il marito l’obbligo di corrisponderle l’assegno di mantenimento fissato in via provvisoria dal presidente del tribunale o dalla sentenza di primo grado, ma rileva comunque nei limiti in cui detta relazione incida sulla reale e concreta situazione economica della donna, risolvendosi per questa in una condizione e fonte, effettiva e non aleatoria, di reddito, posto che la convivenza extraconiugale non comporta alcun diritto al mantenimento.
Cass. civ. Sez. I, 24 febbraio 1993, n. 2270 (Giust. Civ., 1994, I, 213 nota di SALA)
In tema di separazione consensuale, le modificazioni pattuite dai coniugi successivamente all’omologazione, trovando fondamento nell’art. 1322 c.c., devono ritenersi valide ed efficaci, anche a prescindere dallo speciale procedimento disciplinato dall’art. 710 c.p.c., quando non varchino il limite di derogabilità consentito dall’art. 160 c.c.; per contro, alle pattuizioni convenute dai coniugi prima del decreto di omologazione e non trasfuse nell’accordo omologato, può riconoscersi validità solo quando assicurino una maggiore vantaggiosità all’interesse protetto dalla norma (ad esempio concordando un assegno di mantenimento in misura superiore a quella sotto¬posto ad omologazione), o quando concernano un aspetto non preso in considerazione dall’accordo omologato e sicuramente compatibile con questo in quanto non modificativo della sua sostanza e dei suoi equilibri, o quando costituiscano clausole meramente specificative dell’accordo stesso, non essendo altrimenti consentito ai coniugi incidere sull’accordo omologato con soluzioni alternative di cui non sia certa a priori la uguale o migliore rispon¬denza all’interesse tutelato attraverso il controllo giudiziario di cui all’art. 158 c.c.
Corte Cost. 9 novembre 1992, n. 416 (Giur. It., 1993, I,1, 1152 nota di DALMOTTO)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 710 c.p.c. nella parte in cui non prevede l’intervento del p.m. per la modifica dei provvedimenti riguardanti la prole dei coniugi separati.
Cass. civ. Sez. I, 8 settembre 1992, n. 10292 (Giust. Civ., 1992, I, 2642)
Spetta al tribunale ordinario la competenza per materia a provvedere, anche in via provvisoria ed urgente, sulla modifica delle condizioni della separazione fra i coniugi riguardanti l’affidamento del minore ed i rapporti fra lo stesso ed il genitore affidatario, senza che residui alcuna competenza del pretore adito ai sensi dell’art. 700 c. p. c.
Cass. civ. Sez. Unite, 16 maggio 1992, n. 5888 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il decreto emesso in Camera di Consiglio dalla Corte d’Appello a seguito di reclamo avverso i provvedimenti emanati dal Tribunale (sempre in Camera di Consiglio) sull’istanza di revisione delle disposizioni relative alla mi¬sura ed alle modalità dell’assegno, posto precedentemente a carico di uno dei coniugi dalla sentenza che aveva pronunciato la separazione, può essere impugnato avanti alla Corte di Cassazione solo per violazione di legge ai sensi dell’art. 111 Cost., essendo esclusa la proponibilità di un ordinario ricorso per Cassazione dall’art. 739, comma 3, c.p.c., applicabile a tutti i procedimenti in camera di consiglio anche di natura contenziosa, in forza dell’effetto estensivo previsto dall’art. 742-bis c.p.c.
Cass. civ. Sez. Unite, 16 maggio 1992, n. 5888 (Foro It., 1992, I, 1737 nota di BARONE C. M.)
Nella violazione di legge, deducibile, in base all’art. 111 cost. come motivo di ricorso in cassazione contro le deci¬sioni, in unico grado o in appello, del tribunale superiore delle acque pubbliche, può ricomprendersi il solo vizio di motivazione (sotto i profili della inesistenza, della contraddittorietà o della mera apparenza) risultante dal testo dei provvedimenti impugnati. Tale ricorso può investire la motivazione del provvedimento solo per lamentarne la radicale carenza o la mera apparenza (ravvisabile quest’ultima in presenza di argomentazioni inidonee a rivelare la “ratio decidendi”) e non già per dedurre eventuali lacune od inadeguatezze, rapportabili al mero difetto di motivazione di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c.
Cass. civ. Sez. I, 18 ottobre 1991, n. 11042 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudizio per la revisione delle disposizioni relative ai coniugi ed alla prole, contenute nella sentenza di sepa¬razione o di divorzio, ancorché a seguito della l. 29 luglio 1988 n. 331 si svolga con rito camerale e non più con le forme del processo ordinario come in precedenza previsto dall’art. 710 c. p. c., configura pur sempre un pro¬cedimento contenzioso che si svolge nel pieno contraddittorio delle parti, titolari di confliggenti diritti soggettivi, e che si chiude con un decreto che ha natura sostanziale di sentenza, con la conseguenza che il provvedimento così reso dalla corte di appello, in sede di reclamo contro il decreto emesso dal tribunale, è impugnabile con ricorso per cassazione.
Cass. civ. Sez. I, 15 marzo 1991, n. 2788 (Foro It., 1991, I, 1787)
L’accordo volto a regolare la separazione consensuale può contenere anche negozi che, in quanto non siano direttamente collegati ai diritti e agli obblighi connessi al matrimonio, rinvengono nella separazione una sem¬plice occasione e restano distinti dalle convenzioni di famiglia (nella specie, obbligazione di trasferimento di un immobile da un coniuge all’altro).
Cass. civ. Sez. Unite, 16 gennaio 1991, n. 381 (Foro It., 1991, I, 3165 nota di VILLANI)
La domanda di modificazione dell’assegno di mantenimento, che venga proposta ai sensi degli art. 710 e 711 (originario testo) c. p. c., da uno dei coniugi separati in base a sentenza o verbale di separazione consensuale omologato, è soggetta ai normali criteri di competenza per territorio di cui agli art. 18 e 20 c. p. c.
La domanda di modificazione dell’assegno alimentare o di mantenimento, che venga proposta, ai sensi degli artt. 710 e 711 (originario testo) cod. proc. civ., da uno dei coniugi separati in base a sentenza o verbale di separa¬zione consensuale omologato, è soggetta ai normali criteri di competenza per valore e per territorio (e, quindi, con riguardo alla competenza per territorio, anche al foro concorrente del luogo dell’esecuzione dell’obbligazione, da identificarsi con il domicilio dell’avente diritto all’assegno), tenuto conto che la domanda medesima investe rapporti obbligatori, non è equiparabile alla domanda di separazione, e si sottrae, pertanto, alle speciali regole di competenza per quest’ultima dettate dall’art. 706 cod. proc. civ.
Cass. civ. Sez. Unite, 29 novembre 1990, n. 11490 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Presupposto per l’attribuzione dell’assegno di divorzio è che il coniuge richiedente non abbia mezzi adeguati a conservare un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, tenuto conto non solo dei suoi redditi ma anche dei cespiti patrimoniali e delle altre utilità di cui può disporre.
Cass. civ. Sez. I, 17 ottobre 1989, n. 4158 (Giur. It., 1990, I,1, 587, nota di GENTILI)
In tema di valutazione delle condizioni economiche dei coniugi ai fini della determinazione dell’assegno di di¬vorzio, concorrono a formare la situazione reddituale del coniuge avente diritto all’assegno anche eventuali elargizioni non meramente saltuarie, ma continuative e protraentisi nel tempo, ricevute dal terzo con il quale lo stesso coniuge conviva.

L’avvocato che invia la corrispondenza (informativa di avvenuto pagamento del debito dei propri clienti) anche alla controparte “per conoscenza”, non commette illecito disciplinare

Cass. civ. Sezioni Unite, 4 luglio 2018, n. 17534
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 29727/2017 proposto da:
G.D.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FRATELLI RUSPOLI 2, presso lo studio dell’avvocato FRANCO GLANDARELLI, rappresentato e difeso dal sè medesimo;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI MONZA, PUBBLICO MINISTERO PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;
– intimati –
avverso la sentenza n. 159/2017 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 6/11/2017.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/05/2018 dal Consigliere LUCIA TRIA;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale RENATO FINOCCHI GHERSI, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato G.D.V..
Svolgimento del processo

1. Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Monza, con decisione n. 30/2014, sanzionò con l’ammonimento l’avvocato G.D.V., per violazione degli artt. 6 e 27 del Codice deontologico forense applicabile ratione temporis consistita nell’avere inviato una lettera raccomandata – contenente alcune contestazioni ad un conteggio asseritamente non corrispondente al tariffario forense effettuato dal collega della controparte insieme con l’assegno circolare intestato alla stessa controparte ad estinzione del debito dei propri clienti – non solo direttamente all’avvocato della controparte ma anche “per conoscenza” a quest’ultima, senza che ricorresse alcuna delle ipotesi previste dal canone I del citato art. 27.
2. Il Consiglio nazionale forense, con decisione depositata l’8 novembre 2017, ha respinto l’impugnazione proposta dall’avvocato G. avverso la suindicata decisione del COA di Monza, precisando, per quel che qui interessa, quanto segue:
a) va ribadito il consolidato principio secondo cui il divieto di inviare direttamente corrispondenza alla controparte assistita da un collega trova fondamento nella tutela della riservatezza del mittente e della credibilità del destinatario (si cita: CNF, 11 marzo 2015, n. 19);
b) non ricorre, nella specie, alcuna delle eccezioni a tale regola tassativamente indicate dal canone I dell’art. 27 cit. ed ora previste dall’art. 41, comma 3, del Codice deontologico forense vigente, in quanto tali eccezioni riguardano comunicazioni dirette a richiedere alla controparte determinati comportamenti sostanziali tra i quali non è certamente compresa la trasmissione dell’assegno circolare allegato alla missiva di cui si tratta (vedi CNF decisione n. 122 del 2007);
c) quanto all’elemento soggettivo, per consolidata giurisprudenza del CNF, per l’integrazione degli illeciti disciplinari non si richiede la consapevolezza dell’illegittimità della condotta (dolo o colpa) ma si ritiene sufficiente la c.d. suitas, ossia la volontà consapevole dell’atto che si compie;
d) deve pertanto ritenersi sussistente la responsabilità disciplinare dell’incolpato, precisandosi che l’art. 6 del previgente Codice deontologico è stato trasfuso nell’art. 9 del nuovo Codice deontologico, la cui applicazione comporta la sanzione dell’avvertimento, come stabilito dal COA di Monza.
3. Il ricorso dell’avvocato G.D.V. domanda la cassazione di tale decisione per un unico motivo.
Nessuno degli intimati ha spiegato difese in questa sede.

Motivi della decisione

I – Sintesi delle censure.
1. Con l’unico motivo di ricorso si denuncia, in riferimentoall’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione ed errata applicazione degli artt. 6 e 27 del Codice deontologico forense applicabile ratione temporis.
Si rileva che la missiva in oggetto non è stata inviata direttamente alla controparte, ma è stata inviata direttamente al legale della controparte e solo “per conoscenza” a quest’ultima, sicché il comportamento posto in essere non rientra tra quelli sanzionati dall’art. 27 cit., in quanto oltre a perseguire “fini di giustizia” (come recita il preambolo del previgente Codice deontologico) è stato principalmente diretto a tutelare i propri clienti e indirettamente la controparte medesima.
2. Il ricorso è da accogliere per le ragioni di seguito esposte.
3. Per una migliore comprensione della decisione impugnata è opportuno chiarire che il presente procedimento disciplinare si colloca, per così dire, “a cavallo” tra il precedente e il successivo codice deontologico forense.
Infatti, mentre la missiva che ha dato luogo alla sanzione è del 14 aprile 2011, la delibera del COA di Monza è del 10 novembre 2014 e la decisione del CNF impugnata è del 6 novembre 2017, quando il codice deontologico pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 16 ottobre 2014 era entrato in vigore (visto che l’art. 73 del codice stesso ne ha previsto l’entrata in vigore sessanta giorni dopo tale pubblicazione: cioè il 16 dicembre 2014). Tale codice è stato poi modificato in alcuni articoli una prima volta con decorrenza 2 luglio 2016 e, da ultimo, con un testo pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 13 aprile 2018 la cui vigenza è stata fissata al 12 giugno 2018.
Peraltro, tale cronologia, non produce alcun effetto nel presente giudizio.
Infatti, per consolidata giurisprudenza di queste Sezioni unite le norme del nuovo codice deontologico possono essere applicate anche nei procedimenti disciplinari in corso al momento della relativa entrata in vigore per fatti ad essa anteriori soltanto se più favorevoli per l’incolpato rispetto a quelle del codice previgente, giusta il criterio del “favore rei” desumibile dallaL. n. 247 del 2012,art.65, comma 5, (tra le tante: Cass. SU 16 febbraio 2015, n. 3023; Cass. SU 20 settembre 2016, n. 18394; Cass. SU 6 giugno 2017, n. 13982).
Nella specie tale evenienza non si verifica in quanto sia il codice deontologico previgente (art. 6) sia quello vigente (art. 9) stabiliscono che l’avvocato deve svolgere la propria attività professionale con lealtà e correttezza e disciplinano, in modo analogo, l’obbligo per il legale di astenersi dal mettersi in contatto diretto con la controparte che sia assistita da altro collega (rispettivamente nell’art. 27 del vecchio codice e nell’art. 41 del nuovo codice). Inoltre, all’attuale ricorrente è stata inflitta la sanzione dell’avvertimento che, per il nuovo codice, è la sanzione più lieve dopo il richiamo verbale che però non ha carattere di sanzione disciplinare.
4. Detto questo, si deve osservare che la decisione impugnata risulta, in primo luogo, fondata su un’affermazione che non ha alcuna corrispondenza nel testo degli artt. 6 e 27, del vecchio codice deontologico, richiamati nel capo di incolpazione e che quindi non ha attinenza con il comportamento sanzionato.
In essa, infatti, nella parte iniziale della motivazione il fondamentale divieto di inviare “direttamente” corrispondenza alla controparte assistita da un collega – che è una delle applicazioni del basilare obbligo dell’avvocato di svolgere la propria attività professionale con lealtà, correttezza, probità verso i colleghi ed anche nei confronti della controparte (vedi: Cass. SU 25 giugno 2013, n. 15873) – viene invece fatto discendere dalla necessità di “tutelare la riservatezza del mittente e la credibilità del destinatario”, aggiungendosi argomentazioni esplicative sempre riferite al disvalore della compromissione della tutela dei due suindicati beni, senza considerare che si tratta di una questione del tutto estranea alla presente vicenda, visto che è pacifico che la lettera inviata dall’avvocato G. al collega e per conoscenza alla società da questi assistita non conteneva alcuna divulgazione a terzi di notizie riservate o similari.
E il suddetto equivoco è reso palese dal richiamo, sul punto, della sentenza del CNF, 11 marzo 2015, n. 19, che si è occupata di un caso di violazione dell’art. 28 del codice previgente il quale, diversamente dall’art. 27, prevede il divieto di produrre o riferire in giudizio la corrispondenza espressamente qualificata come riservata quale che ne sia il contenuto, nonché quella contenente proposte transattive scambiate con i colleghi a prescindere dalla suddetta clausola di riservatezza.
5. Questo equivoco di fondo incide indirettamente anche sulle successive statuizioni con le quali viene identificato il contenuto precettivo dell’art. 27.
In particolare ne risultano influenzate le successive statuizioni prive di richiami alla giurisprudenza del Consiglio nazionale forense afferenti alla fattispecie sub judice – secondo cui:
a) l’elencazione delle eccezioni al divieto di corrispondenza con la controparte assistita da altro legale, contenuta nel canone I dell’art. 27 cit. (ed ora nell’art. 41, comma 3, del Codice deontologico forense vigente) avrebbe carattere tassativo;
b) sarebbe, pertanto, impossibile includervi la presente fattispecie perché le eccezioni elencate riguardano comunicazioni dirette a richiedere alla controparte determinati comportamenti sostanziali o comunque si riferiscono ad atti di “natura sostanziale” tra i quali non è certamente compresa la trasmissione dell’assegno circolare allegato alla missiva di cui si tratta.
5.1. Per quanto riguarda il ritenuto carattere tassativo delle suindicate eccezioni, si deve precisare che si tratta di un’affermazione che viene effettuata senza tenere nel debito conto dell’incipit del canone I dell’art. 27 cit., nel quale si fa un generico riferimento a “casi particolari”.
Al riguardo, nella giurisprudenza del CNF in molteplici occasioni è stato affermato che “la formulazione utilizzata dal codice con il rinvio generico, a casi particolari, fa sì che si tratti di una elencazione esemplificativa, priva di qualsivoglia ambizione di tassatività”.
Ciò è accaduto anche nella decisione n. 122 del 2007, correttamente richiamata dall’incolpato, dalla cui motivazione – diversamente da quanto ritenuto nella decisione impugnata – non risulta che, neppure implicitamente, si sia inteso affermare che i “casi particolari” devono pur sempre essere riferibili alle tipologie di comunicazioni elencate nella norma, visto che il caso esaminato era analogo all’attuale, riguardando un avvocato che, per evitare un’iniziativa giudiziaria nei confronti della propria cliente, aveva inviato una lettera alla controparte nella quale erano anche contenuti indiretti apprezzamenti sull’attività difensiva del legale della controparte medesima. La relativa valutazione ha portato il CNF ad escludere la sanzionabilità del comportamento addebitato, trattandosi di una corrispondenza funzionale a sollecitare una condotta collaborativa cioè un “determinato comportamento”.
Analoga interpretazione dell’art. 27 cit. è stata data dal CNF in altre occasioni e in molte pronunce (vedi, ad esempio: CNF n. 203 del 2011) è stato affermato che per costante giurisprudenza del CNF in base all’art. 27 cit. il comportamento di un avvocato è considerato scorretto nei confronti di un collega, con il quale si devono avere rapporti improntati a lealtà e correttezza, quando l’avvocato, pur sapendo che la controparte è assistita da un difensore, conferisce e tratta con la controparte in assenza del collega o senza che questi ne sia informato (CNF n. 137 del 2004, ove è stata confermata la sanzione dell’avvertimento in un caso di contatto diretto con la controparte all’insaputa del suo difensore e in senso conforme: CNF n. 79 del 2016; n. 241 del 2015; n. 87 del 2008; n. 137 del 2004).
In sintesi, l’art. 27, canone I, consente di scrivere direttamente alla controparte in “casi particolari e per richiedere determinati comportamenti”, quando copia della corrispondenza sia inviata anche al collega (CNF n. 203 del 2011 cit.).
Alla medesima conclusione si perviene con riguardo all’art. 41 del vigente codice deontologico, in quanto in base ad una interpretazione non formalistica (e, quindi, conforme ai principi del giusto processo) è irrilevante che l’incipit dell’art. 27 – “soltanto in casi particolari”, la cui interpretazione da parte della giurisprudenza del CNF ha portato ad escludere il carattere tassativo delle eccezioni di cui si è detto – sia stato sostituito l’avverbio “esclusivamente”, visto che il testo complessivo delle due norme è di uguale contenuto.
5.2. Come si è detto, nella decisione impugnata è stato anche affermato che sarebbe impossibile includere “la trasmissione dell’assegno bancario allegato alla missiva di cui trattasi” – ma più esattamente deve dirsi la trasmissione alla controparte, per conoscenza, di una missiva che era indirizzata, con allegato l’assegno in oggetto, al legale della controparte stessa – tra le eccezioni al divieto de quo perché tali eccezioni riguardano comunicazioni dirette a richiedere alla controparte determinati comportamenti sostanziali o comunque si riferiscono ad atti di “natura sostanziale” tra i quali non è certamente compresa la suindicata trasmissione dell’assegno circolare.
Anche tale statuizione appare priva di fondamento logico, oltre che giuridico.
Dal punto di vista logico, infatti, va rilevato che la comunicazione dell’avvenuto integrale pagamento (tramite invio al collega di assegno circolare) del debito dei propri clienti in favore della controparte, consistendo nella mera notizia di un fatto storico – pacificamente non collegato ad alcun processo tra le parti – non può che essere configurata come atto avente natura e contenuto “sostanziale”.
E’ anche evidente che se, come si è detto, è consentito inviare alla controparte corrispondenza “per richiedere determinati comportamenti”, purché ne sia informato il legale della controparte stessa, laddove tale ultima condizione sia stata rispettata, come accaduto nella specie, non si vede perché debba essere vietato comunicare alla controparte un fatto significativo – come l’avvenuto pagamento del debito da parte dei propri clienti – visto che tale comunicazione è stata diretta ad evitare l’inizio di procedure esecutive nei confronti dei propri clienti e quindi ha avuto una finalità di prevenzione non dissimile da quella propria di molte delle eccezioni elencate (in modo non tassativo) dall’art. 27 cit.
Pertanto può dirsi che l’invio della lettera anche alla controparte sia stato funzionale a sollecitare una condotta collaborativa – cioè la chiusura dei rapporti tra le parti – cioè un “determinato comportamento” (CNF n. 122 del 2007 cit.).
6. Tale conclusione appare conforme ai principi generali che, in base alla giurisprudenza di queste Sezioni Unite, informano il nuovo codice deontologico forense, a partire dal testo entrato in vigore il 16 dicembre 2014, secondo cui anche se tale codice ha un apparato sanzionatorio ispirato alla tendenziale tipizzazione delle sanzioni, tuttavia il principio di stretta tipicità dell’illecito, proprio del diritto penale, non trova per esso applicazione. Infatti, nella materia disciplinare forense non è prevista una tassativa elencazione dei comportamenti vietati, ma solo l’enunciazione dei doveri fondamentali, tra cui segnatamente quello di esercitare la professione forense “con indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo sociale e della difesa e rispettando i principi della corretta e leale concorrenza” di cui all’art. 9, già artt. 5 e 6, del previgente codice deontologico forense (Cass. SU 18 luglio 2017, n. 17720).
Il suddetto art. 9 costituisce una “norma di chiusura” che consente attraverso il sintagma “per quanto possibile”, previsto nellaL. n. 247 del 2012,art.3, comma 3, di contestare l’illecito anche solo sulla sua base, onde evitare che la mancata “descrizione” di uno o più comportamenti e della relativa sanzione generi immunità (Cass. SU 29 dicembre 2017, n. 31227).
Ma questo non esclude che nel sistema disciplinare forense convivano due principi: quello della teorica idoneità di ogni comportamento che violi precetti normativi o deontologici ad integrare illecito disciplinare e quello dell’esclusione di qualsiasi automatismo sanzionatorio, anche in presenza della tipizzazione della fattispecie, in quanto la sanzione va sempre rapportata alle condizioni soggettive dell’incolpato e alle circostanze in cui si sono realizzati i fatti contestati (Cass. SU 11 luglio 2017 n. 17115; Cass. SU 18 luglio 2017, n. 17720; Cass. SU 29 dicembre 2017, n. 31227; CNF n. 139 del 2017; CNF n. 9 del 2018).
In altri termini, i comportamenti posti in essere dall’avvocato nell’esercizio della sua professione per essere sanzionati devono o corrispondere ad una delle fattispecie tipizzate o comunque essere idonei a ledere, in misura più o meno grave, quei valori fondamentali indicati nella suddetta norma di chiusura.
7. Comunque, il procedimento disciplinare forense è governato dal principio del favor per l’incolpato, che è stato mutuato dai principi di garanzia che il processo penale riserva all’imputato, per cui la sanzione disciplinare può essere irrogata, all’esito del relativo procedimento, solo quando sussista prova sufficiente dei fatti contrastanti la regola deontologica addebitati all’incolpato, dovendosi per converso assolversi in assenza di certezza nella ricostruzione del fatto e dei comportamenti.
Conseguentemente, l’incolpato deve essere assolto in ordine all’illecito contestatogli, quando non è stata raggiunta la prova certa della sua colpevolezza (CNF n. 191 del 2013; CNF n. 17 del 2015; CNF n. 108 del 2015; CNF n. 194 del 2015; CNF n. 9 del 2018).
8. In ossequio al principio enunciato dall’art. 21 del nuovo codice disciplinare (già art. 3 del codice previgente), nei procedimenti disciplinari l’oggetto di valutazione è il comportamento complessivo dell’incolpato e tanto al fine di valutare la sua condotta in generale, quanto a quello di infliggere la sanzione più adeguata (Cass. SU 30 marzo 2018, n. 8038; CNF n. 291 del 2016; CNF n. 241 del 2017; CNF n. 38 del 2018).
In base alla suddetta disposizione la sanzione deve essere determinata tenendo conto: della gravità del fatto, del grado della colpa, della eventuale sussistenza del dolo e della sua intensità, del comportamento dell’incolpato, precedente e successivo al fatto, avuto riguardo alle circostanze, oggettive e soggettive, nel cui contesto è avvenuta la violazione (comma 3), del pregiudizio eventualmente subito dalla parte assistita e dal cliente, della compromissione dell’immagine della professione forense, della vita professionale dell’incolpato, dei suoi precedenti disciplinari (comma 4).
9. Al riguardo va ricordato che, in base alla giurisprudenza di queste Sezioni Unite, nei procedimenti disciplinari a carico degli avvocati, l’apprezzamento della gravità del fatto e della condotta addebitata all’incolpato, rilevante ai fini della scelta della sanzione opportuna è rimesso all’Ordine professionale. Ma, pur non essendo consentito alle Sezioni Unite sindacare sul piano del merito le valutazioni del giudice disciplinare, la Corte può esprimere un giudizio sulla congruità e ragionevolezza della decisione finale che attiene non alla congruità della relativa motivazione, ma all’individuazione del precetto e rileva, quindi, exart. 360 c.p.c., n. 3 (Cass. SU 17 marzo 2017, n. 6967; Cass. SU 13 novembre 2012, n. 19705).
10. D’altra parte, la mancata menzione dell’art. 21 del codice deontologico tra le norme delle quali il ricorrente ha denunciato la violazione è del tutto irrilevante, in quanto è jus receptum che la disposizionedell’art. 366 c.p.c., n. 4, – secondo cui il ricorso per la cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione delle norme di diritto che si assumono violate – va interpretata nel senso che tale indicazione è richiesta al solo fine di chiarire il contenuto dei motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza. Pertanto, ove si possa identificare il contenuto delle censure attraverso le ragioni prospettate dal ricorrente, il profilo sostanziale dell’atto deve prevalere su quello formale, sicché l’omessa o l’erronea indicazione degli articoli di legge viene a perdere ogni rilevanza (vedi, per tutte: Cass. 16 gennaio 1996, n. 30; Cass. SU 20 aprile 1998, n. 4018; Cass. 14 ottobre 2004, n. 20292).
Tale ultima evenienza si verifica nella specie visto che la corretta applicazione dell’art. 21 cit. ai fini della valutazione del comportamento complessivo dell’incolpato è alla base della sanzione la cui irrogazione è stata confermata nella decisione impugnata.
11. Ebbene, per consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:
a) il “comportamento complessivo dell’incolpato” di cui all’art. 21, comma 2, del nuovo codice deontologico forense, in riferimento alla congruità, nel merito, della sanzione, assume una valenza autonoma tale da prescindere dall’ipotesi relativa ad una pluralità di violazioni poiché, al fine di determinare la sanzione in concreto, non possono non venire in considerazione la gravità dell’infrazione, il grado di responsabilità, i precedenti dell’incolpato e il suo comportamento successivo al fatto (ex multis: Cass. SU 16 novembre 1996, n. 10046; Cass. SU 30 marzo 2018);
b) peraltro, nell’ambito del comportamento successivo non possono farsi rientrare condotte omissive o commissive adottate nel corso del giudizio disciplinare, quali manifestazioni del diritto di difesa (Cass. SU 23 febbraio 1999, n. 98);
c) inoltre, così come accade in sede penale, a maggior ragione nell’ambito del procedimento disciplinare forense il movente non può costituire elemento che consenta di superare le discrasie di un quadro probatorio di per sé imprecisa e/o non convincente. Infatti, la causale intanto può fungere da fatto catalizzatore e rafforzativo della valenza degli indizi posti a fondamento di un giudizio di responsabilità, in quanto essi, all’esito dell’apprezzamento analitico e nel quadro di una valutazione globale di insieme, si presentino, anche in virtù della chiave di lettura offerta dal movente, chiari, precisi e convergenti per la loro univoca significazione (Cass. SU pen. 30 ottobre 2003, n. 45276; Cass. pen. 10 gennaio 2017, n. 813).
12. Nella specie dal capo di incolpazione riportato nella decisione del CNF de qua e dalla complessiva lettura della decisione stessa risulta che il comportamento addebitato all’avvocato G. è stato esclusivamente quello di avere inviato “direttamente” alla controparte la lettera in oggetto indirizzata peraltro al legale della controparte stessa “senza che sussistesse una delle ipotesi per ciò previste dal canone I dell’art. 27” del codice deontologico da applicare.
Pertanto, non risulta che nella lettera stessa fossero contenuti apprezzamenti sull’attività professionale del collega destinatario della missiva (come accaduto nel caso conclusosi con la già richiamata decisione n. 122 del 2007 nella quale il CNF ha escluso la sanzionabilità della condotta dell’incolpato) o comunque espressioni che manifestassero la scarsa fiducia del mittente nel collega della controparte.
Ne deriva che tale elemento – che rappresenta la causale interna o il movente – della decisione dell’avvocato di inviare la lettera “per conoscenza” alla controparte, in applicazione dei suddetti principi e di tutti quelli che governano il procedimento disciplinare forense, per effetto di una corretta applicazione dell’art. 21 cit. non può farsi rientrare nel “comportamento complessivo dell’incolpato” da valutare in sede disciplinare, perché esso, come affermato dal CNF, è emerso soltanto per effetto di dichiarazioni effettuate dall’incolpato nel corso del procedimento disciplinare e tali dichiarazioni sono da considerare quindi manifestazioni del diritto di difesa.
Del resto, di tale sentimento di sfiducia non vi è traccia nel capo di incolpazione.
13. In sintesi, in base ad una corretta interpretazione del combinato disposto degli artt. 6 e 27 del codice deontologico previgente (trasfusi negli artt. 9 e 41 del codice deontologico vigente) e dell’art. 21 dello stesso codice:
a) l’elencazione delle eccezioni al divieto di inviare direttamente corrispondenza alla controparte (di cui agli artt. 27 e 41 citati) non deve considerarsi tassativa ma meramente esemplificativa potendo rientrarvi anche altre ipotesi purchè si tratti di fattispecie nelle quali il collega della controparte sia stato informato o la corrispondenza sia stata inviata anche a lui e non siano rilevabili elementi che denotino mancanza di lealtà o correttezza nell’operato del mittente o nel contenuto della corrispondenza;
b) pertanto, alle suddette condizioni, può rientrarvi anche l’invio di una lettera alla controparte nella quale senza richiedersi alla stessa il compimento di determinati comportamenti le vengano fornite informazioni di fatti significativi nell’ambito dei rapporti intercorsi tra le parti, come l’avvenuto pagamento del debito da parte dei propri clienti;
c) infatti, anche una simile corrispondenza ha un contenuto di natura sostanziale e risulta diretta ad evitare l’inizio di procedure esecutive o di altre iniziative nei confronti dei propri clienti e quindi ha una finalità di prevenzione non dissimile da quella propria di molte delle eccezioni elencate (in modo non tassativo) dall’art. 27 cit., sicché può essere configurata come funzionale a sollecitare una condotta collaborativa della controparte cioè un “determinato comportamento”, consistente nella chiusura dei rapporti tra le parti;
d) alle suddette condizioni e in particolare in assenza di elementi che denotino mancanza di lealtà o correttezza nell’operato del mittente o nel contenuto della corrispondenza, non può farsi applicazione della norma di chiusura di cui all’art. 9 del codice deontologico vigente (già artt. 5 e 6 del previgente codice deontologico) facendo riferimento alla causale interna – o movente della decisione dell’avvocato di inviare la corrispondenza anche alla controparte, se essa è emersa soltanto per effetto di dichiarazioni effettuate dall’incolpato nel corso del procedimento disciplinare, in quanto tali dichiarazioni sono da considerare manifestazioni del diritto di difesa e quindi, per effetto di una corretta applicazione dell’art. 21 del codice deontologico, non possono farsi rientrare nel “comportamento complessivo dell’incolpato”.
III – Conclusioni.
14. La sentenza impugnata che non risulta conforme ai suindicati principi, in accoglimento del ricorso, deve essere cassata con rinvio al Consiglio Nazionale Forense, in diversa composizione, per nuovo esame del ricorso dell’avvocato G. avverso la decisione del COA di Monza.
Nulla va disposto per le spese del presente giudizio non avendo gli intimati svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa al Consiglio Nazionale Forense, in diversa composizione. Nulla per le spese del presente giudizio.

Il tutore può, in nome e per conto dell’interdetto rappresentato, promuovere il giudizio di separazione

Cass. civ. Sez. I, 6 giugno 2018, n. 14669
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 21529/2016 proposto da:
C.A., elettivamente domiciliata in Roma, Via Valpolicella n.12, presso lo studio dell’avvocato Andrea Provini, rappresentata e difesa dall’avvocato Massimo Caucci, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
K.A., in persona del tutore avv. N.A., elettivamente domiciliato in Roma, Viale Giulio Cesare n.14, presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi, rappresentato e difeso dall’avvocato Gianluca Tessier, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
contro
P.G. presso la Corte d’appello di Venezia;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1296/2016 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 06/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/11/2017 dal cons. MAGDA CRISTIANO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale CERONI Francesca, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato Elisa Mellina, con delega avv. Caucci, che si riporta al ricorso;
udito, per il controricorrente, l’Avvocato Tessier che chiede il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. La Corte d’appello di Venezia ha respinto l’appello proposto da C.A. contro la sentenza non definitiva del Tribunale di Padova che aveva accolto la domanda di separazione giudiziale avanzata nei suoi confronti dall’avv. N.A., nella sua qualità di tutore e legale rappresentante del marito K.A., dichiarato interdetto nel 2004, dopo circa un anno di matrimonio, per il gravissimo danno cerebrale riportato a seguito di un incidente stradale.
La corte del merito ha ritenuto che l’autorizzazione rilasciata dal giudice tutelare all’avv. N., conforme alla richiesta di questi di “dar corso allo scioglimento del matrimonio”, fosse certamente comprensiva dell’autorizzazione a promuovere il preliminare giudizio di separazione; ha inoltre escluso che il tutore non potesse procedere ad attivare detto giudizio e che, a tal fine, fosse necessaria la nomina di un curatore speciale dell’interdetto.
2. La sentenza, pubblicata il 6.6.2016, è stata impugnata da C.A. con ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui l’avv. N., nella qualità, ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente, denunciando la violazionedell’art. 81 c.p.c., lamenta che la corte d’appello abbia ritenuto ammissibile la domanda di separazione proposta, in nome e per conto del marito interdetto, dal tutore N.A. nonostante quest’ultimo si fosse limitato a richiedere al giudice tutelare di essere autorizzato a conferire a due avvocati del foro di Padova mandato al fine “di dar corso al procedimento di scioglimento del matrimonio contratto in (OMISSIS) fra i signori K.A. ed C.A.” ed il giudice si fosse limitato ad “autorizzare quanto richiesto”.
Osserva, inoltre, che l’autorizzazione non poteva in nessun caso ritenersi comprensiva della domanda di addebito, autonoma rispetto a quella di separazione, e si duole che tale specifica questione, dedotta in sede di gravame, non sia stata esaminata dal giudice d’appello.
2. Col secondo motivo – che denuncia violazionedell’art. 85 c.c., e delle norme dalle quali si desume il divieto per il tutore di assumere, in nome e per conto dell’interdetto, iniziative giudiziali non specificamente contemplate – C. rileva che il nostro ordinamento consente all’incapace di agire per la tutela di alcuni suoi diritti personalissimi (artt. 119, 245, 264 e 273 c.c.,L. n. 194 del 1978,art.13) ma non per ottenere la separazione o il divorzio, atteso che laL. n. 898 del 1970, all’art. 4, comma 5, prevede unicamente che egli possa essere convenuto in giudizio e che, in tal caso, venga nominato un curatore speciale che rappresenti i suoi interessi. Deduce, ancora, che a tale conclusione dovrebbe giungersi anche in considerazione del dispostodell’art. 85 c.c., che preclude all’interdetto per infermità di mente di contrarre matrimonio. Contesta poi che il diritto dell’interdetto a richiedere la separazione possa essere affermato in via di applicazione analogica del citato art. 4, comma 5, L. divorzile, senza sollevare una questione di legittimità costituzionale della norma, e sostiene che, in ogni caso, l’interdetto dovrebbe essere rappresentato in giudizio da un curatore speciale nominato dal giudice, il quale sarebbe tenuto a far precedere la nomina “dall’assunzione delle opportune informazioni e possibilmente sentendo le persone interessate”.
3. Con il terzo motivo, che denuncia violazionedell’art. 100 c.p.c., la ricorrente contesta che il tutore potesse rendersi “interprete” della volontà del marito, il quale non era in grado di svolgere alcuna valutazione circa l’impossibilità di prosecuzione della propria vita coniugale. Assume, inoltre, che l’istanza di autorizzazione a promuovere la separazione (depositata dopo oltre sette anni dalla dichiarazione d’interdizione e solo all’esito del giudizio promosso dall’avv. N. per il risarcimento del danno subito dal proprio rappresentato, conclusosi con una transazione e con il versamento al tutore, da parte dell’assicurazione del danneggiante, di una somma di cui le è stato sempre taciuto l’effettivo ammontare) è stata avanzata senza alcuna concreta motivazione, al solo fine di soddisfare le pressanti richieste in tal senso provenienti dalle sorelle di K., evidentemente interessate ad evitare che, in caso di morte dell’interdetto, ella possa beneficiare della sua eredità.
4) Il primo motivo è inammissibile.
4.1) Nella sua prima parte si risolve, infatti, nella pretesa di un’interpretazione del decreto autorizzativo del giudice tutelare (che non risulta essere stato impugnato) diversa da quella, del tutto logica, che ne hanno dato i giudici del merito, ma non illustra compiutamente il contenuto (integralmente, ancorché implicitamente, recepito nel provvedimento) dell’istanza avanzata dall’avv. N., che certamente non si esauriva nella richiesta conclusiva di dar corso allo scioglimento del matrimonio, né precisa in quale esatta sede processuale tale istanza, non allegata specificamente al ricorso, sia rintracciabile, onde dar modo a questa Corte, che non ha accesso diretto agli atti di causa, di esaminarla al fine di valutare se davvero essa dovesse considerarsi volta unicamente ad ottenere l’autorizzazione a promuovere il giudizio di divorzio.
4.2) Nella sua seconda parte attiene invece ad una questione astrattamente fondata (la domanda di addebito è autonoma rispetto a quella di separazione e dunque per la sua proposizione sarebbe stato indubbiamente necessario uno specifico provvedimento autorizzativo) sulla quale, però, la sentenza non definitiva non aveva pronunciato e che pertanto non poteva formare oggetto di esame nel successivo grado di appello.
5) Il secondo motivo è infondato.
5.1) LaL. n. 898 del 1970,art.4, comma 5, ha rappresentato una prima risposta del legislatore al problema della tutela processuale dell’incapace. La norma, probabilmente dando per presupposto che il tutore non potesse rappresentare l’interdetto negli atti personalissimi, ha accomunato la posizione del malato di mente, privo di protezione, a quella dell’infermo già dichiarato incapace di intendere e di volere, stabilendo che anche quest’ultimo, ancorché già sottoposto a tutela, debba essere rappresentato nel procedimento di divorzio da un curatore speciale: ciò, peraltro, in un’ottica meramente difensiva, atteso che la nomina è espressamente prevista per il solo caso in cui l’incapace sia convenuto in giudizio.
La disposizione è stata però ritenuta applicabile da questa Corte (Cass. n. 9582/2000) anche all’ipotesi in cui interessato ad ottenere il divorzio sia il soggetto incapace, al quale è stata perciò riconosciuta la legittimazione ad agire ed a promuovere il relativo giudizio per il tramite di un curatore speciale, nominato su istanza del tutore.
La sentenza ha affermato che la prospettata interpretazione analogica dell’art. 4 cit., appare costituzionalmente obbligata per evitare che l’interdetto infermo di mente sia privato dell’esercizio di un diritto di particolare rilievo e sia sottoposto ad una disparità di trattamento rispetto all’altro coniuge ed ha, in particolare, sottolineato: i) che nell’ordinamento è configurabile il diritto di ciascun coniuge a chiedere ed ottenere il divorzio nei casi previsti dalla legge; ii) che l’interesse al divorzio può sussistere per l’interdetto infermo di mente indipendentemente dalla posizione assunta dall’altro coniuge, ovvero qualora quest’ultimo non sia d’accordo sul divorzio o non intenda avviare la relativa iniziativa giudiziale; iii) che il divorzio può realizzare una forma di protezione per l’interdetto rispetto al mantenimento del vincolo coniugale; iv) che lo stato di interdizione per infermità di mente non esclude che la tutela degli specifici interessi dell’interdetto in tema di divorzio possa essere rimessa ad altro soggetto.
5.2) I principi appena enunciati, che il collegio pienamente condivide, non possono ritenersi inapplicabili alla separazione per il solo fatto che l’ordinamento non contempla, in materia, un’espressa previsione, analoga a quella dettata per il divorzio.
Già con la sentenza n. 5652/89 questa Corte aveva infatti rilevato che l’incapacità di provvedere ai propri interessi, richiestadall’art. 414 c.c., ai fini dell’interdizione dell’infermo di mente, deve essere riferita anche agli interessi non patrimoniali suscettibili di subire un pregiudizio; d’altro canto, ritenere che l’interdetto per infermità non possa farsi sostituire da chi è tenuto a rappresentarlo nel porre in essere un atto personalissimo equivarrebbe a sostenere che egli ha perso, in concreto, il relativo diritto, non avendone più l’esercizio.
Deve allora concludersi, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata degliartt. 357 e 414 c.c., che all’interdetto è consentito, per il tramite del rappresentante legale, il compimento di tali atti (a meno che, come nel casodell’art. 85 c.c., non gli siano espressamente vietati), ben potendo l’esercizio del corrispondente diritto rendersi necessario per assicurare la sua adeguata protezione.
Non v’è dubbio, poi, e neppure la ricorrente lo contesta, che fra le situazioni giuridiche soggettive che realizzano la personalità dell’individuo si collochi anche “il diritto alla separazione” (cfr. Cass. nn. 21099/07, 2183/2013).
5.3) Diversa questione, che pure si pone nel presente giudizio, è se la rappresentanza dell’incapace nell’esercizio di un diritto personalissimo possa spettare al tutore o debba invece essere sempre affidata ad un curatore speciale, nominato ad istanza del primo o su iniziativa del giudice tutelare.
Va premesso che le conclusioni raggiunte sul punto dalla richiamata Cass. n. 9582/2000 non costituiscono vero e proprio precedente, atteso che la sentenza ha ritenuto che il diritto dell’interdetto ad agire per il divorzio dovesse essere affermato non in forza dei principi generali dell’ordinamento, ma sulla scorta di un’interpretazione analogica dellaL. n. 898 del 1970,art.4, comma 5, il quale richiede, per l’appunto, la nomina di un curatore speciale.
Ritiene per contro questo collegio che – una volta ammesso che, in mancanza di un espresso divieto, in nome e per conto dell’interdetto per infermità possa essere compiuto anche un atto personalissimo (sempre che sia accertato che l’atto corrisponda al suo interesse e volto effettivamente a dare attuazione alle sue esigenze di protezione) – la designazione di un soggetto terzo, nominato ad hoc, che, insieme al giudice tutelare, valuti l’opportunità di promuovere la connessa azione e ne determini il contenuto, per essere poi autorizzato ad esperirla, si prospetti necessaria solo nel caso di conflitto di interessi fra il tutore ed il proprio rappresentato, risolvendosi, altrimenti, in un inutile formalismo.
La soluzione non trova ostacoli sotto il profilo sostanziale, non evincendosi dal nostro sistema di diritto civile un principio di generale e tassativa preclusione al compimento di atti di straordinaria amministrazione da parte del legale rappresentante dell’incapace: al contrario, il tutore può impugnare il matrimonio dell’interdetto (art. 119 c.c.), può promuovere l’azione per ottenere che ne sia giudizialmente dichiarata la paternità o la maternità (art. 273 c.c., u.c.), può presentare la richiesta di interruzione volontaria della gravidanza in luogo della propria rappresentata (L. n. 194 del 1978,art.13); per altro verso, l’art. 420, u.c., (sia pur con riferimento ad atti di straordinaria amministrazione a contenuto patrimoniale) richiede la nomina di un curatore speciale solo se il legale rappresentante non possa o non voglia compiere uno o più di tali atti.
Sotto il profilo processuale la soluzione trova poi pieno confortonell’art. 78 c.p.c., che stabilisce, al comma 1, che “se manca la persona a cui spetta la rappresentanza o l’assistenza” può essere nominato all’incapace un curatore speciale che lo rappresenti e lo assista in giudizio “finché subentri colui al quale spetta l’assistenza o la rappresentanza” ed, al comma 2, che si deve procedere alla nomina di un curatore speciale al rappresentato “quando vi è conflitto di interessi con il rappresentante”.
Nel caso di specie non consta la ricorrenza di un conflitto di interessi fra K.A. e l’avv. N.: ne consegue che quest’ultimo, nella sua qualità di tutore, era pienamente legittimato a proporre la domanda di separazione in nome e per conto del primo.
5.4) Resta assorbita la ragione di censura con la quale, nel terzo motivo, si contesta che il tutore potesse rendersi interprete della volontà del proprio rappresentato.
6) Le ulteriori censure illustrate nel terzo mezzo, attinenti a questioni di fatto che non risultano essere state sottoposte all’esame della corte del merito e che, comunque, avrebbero dovuto essere dedotte in sede di reclamo al provvedimento autorizzativo del giudice tutelare, vanno invece dichiarate inammissibili.
7) La novità della questione di diritto trattata giustifica la declaratoria di integrale compensazione fra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Dispone che, in caso di diffusione della presente sentenza, siano omessi i nominativi delle parti e degli altri soggetti in essa menzionati.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

Non sussiste per il comodatario il diritto al rimborso delle spese sostenute per l’effettuazione delle opere di ristrutturazione (salvo per quelle necessarie ed urgenti per la conservazione della cosa)

Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2018, n. 15699
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 9470/2013 proposto da:
Fallimento della S.n.c. (OMISSIS) e del socio illimitatamente responsabile M.A.M.R., in persona del curatore rag. Mi.Ro., elettivamente domiciliato in Roma, Viale Trastevere n.78, presso lo studio dell’avvocato Coccia Sergio, rappresentato e difeso dall’avvocato Tarricone Pasquale, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
B.R., anche in proprio, D.L.M., De.Lu.Ma., D.L.S., tutte nella qualità di eredi di D.L.A., elettivamente domiciliate in Roma, Largo Faravelli n. 22, presso lo studio dell’avvocato Boccia Franco Raimondo, rappresentate e difese dall’avvocato Pannone Fabio, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrenti –
avverso il decreto del TRIBUNALE di BENEVENTO, depositato il 05/03/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/03/2018 dal cons. DI MARZIO MAURO;
lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale DE RENZIS LUISA che ha chiesto che la Corte di Cassazione respinga il ricorso con le conseguenze previste dalla legge.
Svolgimento del processo
1. – Condecreto del 5 marzo 2013il Tribunale di Benevento ha accolto l’opposizione allo stato passivo proposta da B.R., D.L.M., De.Lu.Ma., D.L.S., anche quali eredi del defunto D.L.A., nei confronti del Fallimento (OMISSIS) S.n.c. e del socio illimitatamente responsabile M.A.M.R., ammettendo gli opponenti al passivo del fallimento per l’importo di Euro 131.705,25 in chirografo, a titolo di rimborso di spese sostenute, quali comodatari, da B.R. e D.L.A., per la ristrutturazione di un immobile loro concesso in comodato dalla M..
A fondamento della decisione il Tribunale, esclusa l’esperibilità dell’azione di arricchimento spiegata dagli opponenti, ha osservato:
-) l’immobile aveva subito un intervento di ristrutturazione 1998 ed il 2000 per un importo di Euro 131.705,25;
-) l’intervento aveva secondo il consulente tecnico d’ufficio natura straordinaria, in quanto l’appartamento versava in pessimo stato di conservazione e manutenzione, per cui non era possibile utilizzarlo, né tantomeno concederlo in locazione;
-) il comodante, non potendosi limitare ad un generico dovere di astensione, è gravato da specifici obblighi contrattuali, riconducibili al suo impegno contrattuale finalizzato all’attribuzione del godimento di un bene immune da alterazioni materiali ed idoneo all’uso concordato.
2. – Per la cassazione del decreto il Fallimento ha proposto ricorso per sei motivi illustrati da memoria.
B.R., D.L.M., Di.Lu.Ma. e D.L.S. hanno resistito con controricorso.
Il procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione

1. – Il ricorso contiene sei motivi con cui il Fallimento ha denunciato:
-) violazione e falsa applicazione di norme di diritto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n 3, in relazioneall’art. 1808 c.c., in riferimento alla natura dei lavori eseguiti dai comodatari;
-) violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazioneall’art. 2697 c.c., eart. 115 c.p.c., in ragione della omessa applicazione del principio dispositivo;
-) omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riguardo alla consulenza tecnica di parte depositata dal Fallimento;
-) omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riguardo alla comunicazione di inizio lavori del 26 febbraio 1998;
-) omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riguardo al contratto di comodato del 5 agosto 1977;
-) omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione, ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riguardo alle risultanze della integrazione della consulenza tecnica d’ufficio circa il rimborso delle spese riconosciute.
2. – Il ricorso va accolto.
2.1. – I primi cinque motivi, che per il loro collegamento possono essere trattati simultaneamente, attinendo tutti alla sussistenza del diritto al rimborso da parte del comodatario per l’effettuazione delle opere di ristrutturazione in discorso, sono fondati.
2.1.1. – Sotto la rubrica: “Spese per l’uso della cosa e spese straordinarie”, stabiliscel’art. 1808 c.c., al comma 1, che: “Il comodatario non ha diritto al rimborso delle spese sostenute per servirsi della cosa”, e, al comma 2, che: “Egli però ha diritto di essere rimborsato delle spese straordinarie sostenute per la conservazione della cosa, se queste erano necessarie e urgenti”.
La norma, dunque, pone anzitutto, al primo comma, la intuitiva regola generale secondo cui le spese sostenute per l’uso della cosa gravano sul comodatario, quale naturale limitazione dell’obbligazione assunta dal comodante. Detto obbligo, d’altronde, altro non è che un semplice corollario di quello di conservare e custodire la cosa, gravante sul comodatario, ai sensidell’art. 1804 c.c., con il carico del conseguente onere delle spese ordinarie, ivi compresa l’ordinaria manutenzione.
Il comma 2, a differenza del primo, ha tratto non già alle spese sostenute per l’uso della cosa, bensì a quelle, straordinarie, per la sua conservazione. Qui l’impiego dell’espressione “conservazione” è sinonimo di “manutenzione”, disciplinata in diversi frangenti di coesistenza di distinti diritti sul medesimo bene, come nel caso degliartt. 1575 e 1576 c.c., riferiti alla locazione, i quali pongono a carico del locatore una specifica obbligazione di eseguire tutti gli interventi di manutenzione, salvo quelli di piccola manutenzione che sono a carico del conduttore, ovvero degliartt. 1004 e 1005 c.c., che ripartiscono gli oneri di manutenzione tra nudo proprietario ed usufruttuario, fornendo altresì un’indicazione esemplificativa dei caratteri della manutenzione straordinaria.
2.1.2. – La disciplina del comodato non reca invece alcuna previsione in ordine alla sussistenza di un’obbligazione di manutenzione straordinaria, ma si limita a fissare, al secondo comma del citatoart. 1808 c.c., il diritto del comodatario al rimborso delle spese di manutenzione straordinaria qualora si tratti di spese necessarie ed urgenti.
Orbene, se è pur vero che le spese per la manutenzione straordinaria ricadranno normalmente sul comodante (v. Cass. 13 gennaio 2015, n. 296), ove egli sia anche proprietario della cosa comodata, come nella pratica può dirsi che d’ordinario accada, occorre qui chiedersi, ai fini della soluzione della controversia in esame, se il comodante sia esposto ad un’obbligazione di manutenzione straordinaria nei confronti del comodatario, giacché, come si è visto, quella ordinaria grava senz’altro su quest’ultimo, ed altresì quali siano i limiti del diritto al rimborso riconosciuto dal secondo commadell’art. 1808 c.c., al comodatario.
2.1.3. – Occorre anzitutto dire, in proposito, che il comodante si limita a consegnare la cosa al comodatario in assenza di una preesistente obbligazione in tal senso, attesa la tradizionale collocazione del comodato nell’ambito dei contratti reali. Sicché non è pensabile immaginare l’applicazione al comodante, a fronte del precetto normativo in forza del quale il comodato si caratterizza per la pura e semplice consegna della cosa affinché il comodatario se ne serva per un tempo o per un uso determinato, di un precetto modellato su quello stabilitodall’art. 1575 c.c., il quale obbliga il locatore a consegnare la cosa “in buono stato di manutenzione” e successivamente a “mantenerla in stato da servire all’uso convenuto”.
Val quanto dire che il comodante consegna al comodatario la cosa nello stato in cui si trova, buono o cattivo che sia, e non è in alcun modo tenuto a far sì che la cosa consegnata sia idonea all’uso cui il comodatario intende destinarla, giacché, al contrario, detto uso è contemplato dalla norma quale limite imposto al godimento del comodatario e non quale parametro cui rapportare l’idoneità della cosa. Ciò trova conferma nella previsione secondo cui, ove la cosa presenti vizi, il comodante che ne sia consapevole è semplicemente tenuto ad avvisarne il comodatario, essendo altrimenti chiamato a rispondere dei danni dal medesimo subiti ai sensidell’art. 1812 c.c..
2.1.4. – Escluso che il comodante sia assoggettato ad un’obbligazione di consegna della cosa tale da soddisfare un determinato standard qualitativo, è parimenti da escludere che egli sia gravato da un’obbligazione di manutenzione straordinaria, la quale avrebbe senso soltanto se sussistesse un’obbligazione del comodante di mantenere inalterata la qualità del godimento. Ciò ben si spiega, evidentemente, con il carattere di gratuità del rapporto, il quale, nel complesso, esclude che il comodante sia tenuto ad alcunché nei confronti del comodatario, se non ad astenersi – senza che occorra qui cimentarsi con la questione se tale dovere gravante sul comodante possa configurarsi come obbligazione in senso tecnico – dall’interferire con il godimento che, una volta stipulato il contratto di comodato, a questi spetta. Ed invero, l’imposizione al comodante di un’obbligazione di manutenzione straordinaria, nel quadro di un contratto connotato per la sua essenziale gratuità, renderebbe particolarmente gravoso il suo sacrificio economico: ed è per l’appunto tale la ragione per cui di una simile obbligazione non v’è traccia nella legge.
2.1.5. – Né in contrario si può argomentare dal comma secondo dell’articolo 1808 già richiamato. Ed infatti, la circostanza che il comodatario abbia diritto di esser rimborsato, in determinati frangenti, delle spese fatte sulla cosa comodata non implica affatto che il comodante sia tenuto ad effettuarle.
Né la disposizione pone il dovere per il comodatario di effettuare quelle spese, straordinarie, che sono necessarie (ossia indispensabili per la conservazione della cosa), con diritto al rimborso, quando tali spese siano altresì urgenti (e, cioè, quando non vi sia tempo di avvisare il comodante, al quale spetta la decisione se effettuarle o meno, perché nel tempo la cosa correrebbe pericolo di perire o di subire ulteriori danni). In presenza della necessità e urgenza di interventi straordinari sulla cosa, il comodatario è invece solo tenuto a darne avviso al comodante, in ossequio al generale obbligo di custodia sancitodall’art. 1804 c.c..
In conclusione,l’art. 1808 c.c., comma 2, si limita a stabilire che, se – e solo se – le spese di manutenzione straordinaria, con caratteri di necessità e urgenza, sono state sostenute dal comodatario questi ha diritto al relativo rimborso: poiché, come è stato chiarito, sarebbe insensato istituire un rapporto di cortesia, qual è il comodato, per effetto del quale il beneficiato da essa rimanga esposto ad un esborso di somme le quali, nella normalità dei casi, superano l’entità del favore che è stato concesso.
2.1.6. – Va allora data continuità al principio secondo cui il comodatario che, al fine di utilizzare la cosa, debba affrontare spese di manutenzione straordinaria (non riconducibili alla categoria delle spese straordinarie necessarie e urgenti per la conservazione della cosa) può liberamente scegliere se provvedervi o meno, ma, se decide di affrontarle, lo fa nel suo esclusivo interesse e non può, conseguentemente, pretenderne il rimborso dal comodante (Cass. 6 novembre 2002, n. 15543). Ne consegue – ed è sostanzialmente questa che segue la situazione verificatasi nel caso di specie, con l’unica differenza che, per quanto è dato comprendere, l’immobile è stato in questo caso inizialmente comodato alla coppia D.L.- B. ed è stato successivamente ristrutturato da entrambi – che, se un genitore concede un immobile in comodato per l’abitazione della costituendafamiglia, egli non è obbligato al rimborso delle spese, né necessarie né urgenti, sostenute da uno dei coniugi comodatari durante la convivenza familiare per la migliore sistemazione dell’abitazione coniugale (Cass. 27 gennaio 2012, n. 1216; v. pure Cass. 18 ottobre 2016, n. 21023).
2.1.7. – Detto questo, si colloca evidentemente al di fuori del quadro normativo così descritto l’assunto svolto dal Tribunale di Benevento, il quale ha posto a carico del comodante le spese di ristrutturazione dell’immobile, come tali dirette neppure alla conservazione della cosa quale consegnata in dipendenza della stipulazione del comodato, bensì al miglioramento delle sue condizioni, sia che detto intervento debba essere ricondotto al campo della mera manutenzione, sebbene straordinaria, sia che, addirittura, lo stesso intervento si collochi dal versante dei miglioramenti e delle addizioni.
Basterà rammentare, al riguardo, che finanche nel quadro del rapporto di locazione, che, a differenza del comodato, si connota per la sua onerosità, ed impone al locatore di consegnare e mantenere la cosa in stato da servire all’uso convenuto, il locatore non è mai obbligato, almeno per regola generale, ad effettuare interventi sulla cosa locata tali da migliorarne le condizioni, dovendo egli – come bene è stato detto – semplicemente mantenere la cosa nello stesso stato in cui è obbligato a consegnarla. Sicché, le obbligazioni del locatore previste dagliartt. 1575 e 1576 c.c., non comprendono l’esecuzione di opere di modificazione o trasformazione della cosa locata per rendere la cosa stessa idonea all’uso convenuto, nè il locatore è tenuto a rimborsare al conduttore le spese sostenute per l’esecuzione di tali opere, salva l’applicazione della normativa in tema di miglioramenti (Cass. 30 gennaio 2009, n. 2458; Cass. 25 novembre 2014, n. 24987): normativa in forza della quale il conduttore non ha diritto al rimborso delle spese per miglioramenti e addizioni, ma soltanto, a determinate condizioni, ad un’indennità.
A maggior ragione, ovviamente, non è pensabile che si facciano gravare sul comodante – o perché egli debba sostenerle, o perché debba rimborsarle – spese dirette nemmeno a conservare la cosa quale essa è, ma ad effettuare sulla medesima interventi volti a migliorarne lo stato.
Nel caso in esame, dunque, è incorso in errore il Tribunale nell’affermare che il comodante fosse tenuto “all’attribuzione del godimento di un bene immune da alterazioni materiali ed idoneo all’uso concordato”, avendo viceversa il rapporto ad oggetto la cosa così com’era, neppure rilevando alcunché la circostanza che il contratto di comodato contenesse l’autorizzazione ai comodatario a “riattare detti appartamenti”, giacché detta autorizzazione valeva al fine di rimuovere il divieto altrimenti gravante sul comodatario, quale conseguenza dell’obbligazione di custodia, di operare interventi sulla cosa, ma non faceva certo sorgere un obbligo del comodante di sopportare il costo degli interventi.
2.2. – Il sesto motivo è assorbito.
3. – Il decreto è cassato e, non occorrendo ulteriori accertamenti di fatto, l’opposizione allo stato passivo è rigettata.
4. – Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
accoglie i primi cinque motivi di ricorso, assorbito il sesto, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’opposizione allo stato passivo, condannando D.L.M., De.Lu.Ma., D.L.S. al rimborso, in favore del Fallimento (OMISSIS) S.n.c. e del socio illimitatamente responsabile M.A.M.R., delle spese sostenute per il giudizio di opposizione, liquidate in complessivi Euro 4.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% ed agli accessori di legge, ponendo a carico delle medesime le spese di c.t.u., nonché delle spese sostenute per questo giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 7.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% ed agli accessori di legge.

Salvi accertati casi di disgregazione del contesto familiare d’origine del minore, il dissenso dell’esercente la responsabilità genitoriale è preclusivo all’adozione

Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2018, n. 18827
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n.r.g. 25764/2016 proposto da:
M.P. (cod. fisc. (OMISSIS)) ed E.L. (cod. fisc. (OMISSIS)), rappresentati e difesi, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato Elisabetta Rampelli, presso il cui studio elettivamente domiciliano in Roma, alla via Cicerone n. 28. – ricorrenti –
contro
A.H. (cod. fisc. (OMISSIS), quale madre del minore Z.A., rappresentata e difesa, giusta procura speciale apposta in calce al controricorso, dagli Avvocati Maria Cristina Gariup e Sergio Maglio, presso il cui studio elettivamente domicilia in Roma, alla via di San Saba n. 7. – controricorrente –
e PROCURA GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI ROMA; PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DEI MINORENNI DI ROMA. – intimati –
avverso la sentenza della CORTE di APPELLO di ROMA, Sezione per i Minorenni, depositata il 12/07/2016
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/06/2018 dal Consigliere dott. Eduardo Campese;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Federico Sorrentino, che ha chiesto accogliersi il ricorso.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. La Corte di appello di Roma, Sezione per i Minorenni, con sentenza del 12 luglio 2016, n. 4433, statuendo sul corrispondente gravame proposto da M.P. e E.L., confermò la decisione del Tribunale per i Minorenni di quella stessa città nella parte in cui aveva respinto la loro domanda diadozione, ex art. 44, comma 1, lett. d), di Z.A., evidenziando come la stessa non potesse trovare accoglimento in virtù dell’efficacia preclusiva del dissenso opposto dalla madre del minore. Inoltre, in ragione dell’evidente disagio psicologico manifestato da quest’ultimo, desunto dalla relazione della ASL Roma (OMISSIS) del 13 maggio 2016, modificò la sentenza di primo grado, revocando gli incontri liberi tra il minore e la madre, nonché i suoi pernottamenti presso la stessa, ed incaricando la ASL Roma (OMISSIS) – (OMISSIS) di predisporre un progetto della durata di un anno “diretto a superare l’attuale situazione di disagio psicologico del minore Z.A. e di conflittualità fra gli affidatari e la madre del bambino, mediante incontri protetti madre-figlio ed incontri di mediazione tra le parti (affidatari e madre) al fine di pervenire al ricomponimento dell’attuale conflitto nel superiore interesse del minore, nonché un percorso di sostegno alla genitorialità per la madre A.H., segnalando alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Roma eventuali condotte pregiudizievoli per il minore”.
2. Avverso la descritta decisione, non notificata, ricorrono il M. e la E., formulando cinque motivi, resistiti dalla A., mentre non ha spiegato difese la Procura Generale presso la suddetta corte di appello. Entrambe le parti costituite hanno depositato memorie exart. 380-bis c.p.c., comma 1, mentre va ritenuto inammissibile l’ulteriore deposito di quanto allegato alla nota della A. datata 4 giugno 2018, trattandosi di documento non attinente alla nullità della decisione impugnata e/o alla ammissibilità del ricorso e del controricorso, come invece richiestodall’art. 372 c.p.c., comma 1.
2.1. Il primo motivo, rubricato “Art. 360 c.p.c., n. 3. Violazione o falsa applicazione di norme di diritto, nella specie laL. n. 184 del 1983,art.46, comma 2, come modificata dallaL. n. 173 del 2015, e degliartt. 29 e 30 Cost.”, ascrive alla corte distrettuale di aver ritenuto insindacabile il dissenso della madre naturale facendo riferimento ad un orientamento giurisprudenziale restrittivo e minoritario, laddove un valido dissenso deve necessariamente provenire “dal genitore che non sia mero titolare della potestà genitoriale, ma ne abbia altresì il concreto esercizio, grazie ad un rapporto effettivo con il minore, caratterizzato di regola dalla convivenza, in ragione della centralità attribuita dagliartt. 29 e 30 Cost.alla effettività del rapporto genitore-figlio”.
2.2. Il secondo motivo, intitolato “Art. 360, nn. 3 e 5. Violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare dellaL. n. 184 del 1983,art.44nonché dellaL. n. 173 del 2015,art.1. Omessa valutazione dello stato di semiabbandono permanente del minore, successivamente nuovamente evolutosi in abbandono, e della continuità dei rapporti affettivi tra il minore e la famiglia affidataria”, critica la decisione impugnata per aver focalizzato la propria attenzione esclusivamente sulla ritenuta, a torto, efficacia preclusiva del dissenso della madre naturale, senza valutare ogni altro aspetto della vicenda, compreso l’interesse preminente del minore. In particolare, si enfatizza il contesto sociale e familiare di grande soddisfazione in cui quest’ultimo vive da almeno sette anni ed il forte legame intercorrente tra lui ed i ricorrenti, contestualmente stigmatizzandosi l’assenza di un rapporto affettivo costante tra il medesimo e la madre naturale.
2.3. Il terzo motivo, recante “Art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare dellaL. n. 184 del 1983,art.44, lett. d)e art.46, comma 2, dellaL. n. 173 del 2015,art.1, dell’art. 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dell’art. 3, comma 1, art. 18, comma 1 e art. 21, comma 1, della Convenzione di New York. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Omessa valutazione dell’interesse del minore”, imputa alla corte distrettuale di aver anteposto l’interesse della madre naturale a quello del minore; di non aver offerto alcuna valutazione in ordine alla richiesta diadozione “mite”; di non aver considerato i numerosi periodi di abbandono del figlio da parte della madre.
2.4. Il quarto motivo prospetta, in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in particolaredell’art. 99 c.p.c..Ultrapetizione”, ed invoca la cassazione della sentenza impugnata nella parte in cui si è pronunciata in ordine agli incontri protetti madre bambino.
2.5. Il quinto motivo, infine, rubricato “Art. 360, n. 3. Violazione di legge (e) di norme di diritto, in particolaredell’art. 2697 c.c.,artt. 356, 115 e 116 c.p.c., nonché dellaL. n. 184 del 1983,art.15, comma 2. Valutazione erronea delle prove e mancata ammissione di prove addotte dalla difesa dei coniugi M.”, lamenta che la corte capitolina aveva assunto a fondamento del proprio convincimento la relazione dei servizi sociali del 17 settembre 2015, non redatta in contraddittorio delle parti, ed aveva omesso di motivare in ordine alla richiesta consulenza tecnica d’ufficio psicodiagnostica sul minore ed in relazione alla richiesta di prova per testi e di ascolto del minore medesimo, così incorrendo in una insanabile nullità della procedura.
3. Ritiene il Collegio di poter scrutinare congiuntamente, attesa la evidente connessione tra loro esistente, i motivi primo, secondo, terzo e quinto, il cui esame ne rivela, nel complesso, la infondatezza per le ragioni tutte di seguito esposte.
3.1. La Corte di appello di Roma, Sezione per i Minorenni, ha respinto la domanda diadozione, ai sensi dellaL. n. 184 del 1983,art.44, lett. d), del minore Z.A., formulata dal M. e dalla E., attribuendo rilevanza determinante al diniego di consenso al riguardo manifestato dalla madre di detto minore.
La Corte territoriale ha affermato, in proposito, che, “poiché, ai sensi dellaL. n. 184 del 1983,art.46assume decisivo rilievo il rifiuto dell’assenso all’adozioneda parte dei “genitori esercenti la potestà”, deve tenersi conto dell’incidenzasull’art. 317-bis c.c.(evidentemente nel testo ante riforma di cui alD.Lgs. n. 154 del 2013, ndr), secondo cui l’esercizio della potestà genitoriale spetta congiuntamente ad entrambi genitori qualora siano conviventi, ovvero, se non convivono, a quello con il quale i figlio convive, della modifica apportataall’art. 155 c.c. dallaL. n. 54 del 2006(la quale prevede, all’art. 4, la sua applicabilità ai procedimenti relativi ai figli di minori non coniugati), con particolare riferimento all’attribuzione della potestà genitoriale ad entrambi i genitori, anche dopo la cessazione della convivenza” (cfr. pag. 9 della sentenza impugnata). Pertanto, richiamando i principi espressi da Cass. n. 10265 del 2011, da Corte cost. n. 182 del 1998 e da Cass. n. 9795 del 2000, ha concluso che, nella specie, la A., benché non fosse attualmente convivente con il figlio minore, non aveva comunque perduto l’esercizio della responsabilità genitoriale sullo stesso (posto che, con la sentenza del 9 maggio 2014, il Tribunale per i Minorenni di Roma ne aveva revocato la sospensione e la nomina del tutore provvisorio nella persona della E., disponendo l’affidamento del minore alla coppia M. – E. per la durata di due anni), sicché il suo diniego di assenso all’adozione predetta doveva considerarsi assolutamente ostativo ad essa, precludendo al giudice ogni valutazione circa la sua giustificabilità, o meno, e la sua rispondenza all’interesse del minore (cfr. pag. 10-11 della menzionata sentenza).
3.2. La sentenza impugnata, dunque, ha interpretato laL. n. 184 del 1983,art.46, comma 2, nel senso che il rifiuto dell’assenso all’adozioneda parte del genitore esercente la responsabilità sul minore, benché nella specie non convivente con quest’ultimo, “deve considerarsi assolutamente ostativo all’adozione, precludendo al giudice ogni valutazione circa la giustificabilità o meno di tale rifiuto e la rispondenza di esso all’interesse del minore”.
3.3. Questa Corte si è già pronunciata sulla questione con la sentenza n. 18575 del 21 settembre 2015, la quale – nel ricordare che già nella precedente decisione della medesima Corte n. 11604 del 26 ottobre 1992 si legge che “l’aver conferito effetti ostativi alla sola volontà dei genitori esercenti la potestà, escludendoli nel caso in cui l’assenso sia stato rifiutato dal genitore che quella potestà non esercita, trova ragion d’essere nella considerazione che solo la comunanza di vita e la conseguente conoscenza degli interessi e delle esigenze del minore rendono rilevante il dissenso – ha affermato che “in tema diadozioneparticolare, ha efficacia preclusiva ai sensi dellaL. n. 184 del 1983,art.46, comma 2, il dissenso manifestato dal genitore che non sia mero titolare della responsabilità genitoriale, ma ne abbia altresì il concreto esercizio grazie ad un rapporto effettivo con il minore, caratterizzato di regola dalla convivenza, in ragione della centralità attribuita dagliartt. 29 e 30 Cost.all’effettività del rapporto genitore-figlio”.
Come rilevato in precedenza, a tale orientamento si sono riportati i ricorrenti nel censurare la sentenza impugnata.
3.4. Ritiene il Collegio di dare continuità al principio secondo cui non ha efficacia preclusiva, ai sensi dellaL. n. 184 del 1983,art.46, comma 2, il dissenso manifestato dal genitore che sia meramente titolare della responsabilità genitoriale, senza averne il concreto esercizio grazie a un rapporto effettivo con il minore, e che, tuttavia, detto principio debba essere meglio puntualizzato con le precisazioni e le limitazioni che seguono.
3.4.1. Al riguardo, va in primo luogo rilevato che quel principio fu enunciato con riferimento ad una fattispecie concreta in cui il genitore (la madre) non esercitava in concreto, da molti anni, la responsabilità genitoriale sulla figlia, con la quale non intratteneva alcun effettivo rapporto, se non quello esplicantesi, in epoca più recente, negli incontri protetti. In particolare, la richiamata sentenza n. 18575 del 2015 riguardò una fattispecie in cui il giudice di appello, respingendo il gravame della madre di una minore, confermò la sentenza di primo grado che aveva pronunciato l’adozioneparticolare, ai sensi dellaL. n. 184 del 1983,art.44, comma 1, lett. d), della minore stessa da parte di una coppia di coniugi escludendo l’illegittimità dell’adozioneper difetto di consenso della madre dell’adottanda, non avendo ella mai instaurato un rapporto con la figlia, che sin da tenera età era stata inserita in un istituto per minori e poi assegnata in affidamento preadottivo ai coniugi suddetti, attuali adottanti, ed era stata nuovamente affidata ai predetti anche dopo che il medesimo giudice d’appello aveva revocato la dichiarazione di adottabilità con sentenza passata in giudicato; sentenza che si basava sulla sopravvenuta condotta del padre della bambina – che tuttavia si era poi convinto della opportunità dell’adozioneparticolare, non opponendovisi – e confermava, invece, il disinteresse della madre. In considerazione della inesistenza di rapporti, sia attuali che pregressi, fra madre e figlia, e quindi della non conoscenza degli interessi e delle esigenze della seconda da parte della prima, evincibile anche dalle dichiarazioni rese da questa nel corso del giudizio, il dissenso materno era superabile, rivelandosi, infatti, pienamente conforme al preminente interesse della minore l’adozione da parte di quei coniugi, i quali avevano amorevolmente accudito, educato ed istruito sia l’indicata minore che sua sorella, assecondandone le inclinazioni naturali e facendole vivere per la prima volta in un ambiente familiare sereno e rassicurante.
3.4.2. La Suprema Corte in quell’occasione, respingendo il corrispondente motivo di ricorso della madre, giunse alla conclusione di cui si è precedentemente detto ricordando che la ricorrente, al momento dell’adozione, non esercitava in concreto, da molti anni, la responsabilità genitoriale sulla figlia adottanda, con la quale pacificamente non intratteneva alcun effettivo rapporto se non quello esplicantesi, in epoca più recente, negli incontri protetti; pertanto, il dissenso della stessa all’adozioneben poteva essere superato in base alla valutazione del preminente interesse della minore in concreto operata dalla corte di merito.
3.5. Si trattava, dunque, di fattispecie concreta affatto diversa da quella su cui è intervenuta la sentenza in questa sede impugnata, la quale, invece, alla stregua di quanto risulta da una lettura doverosamente unitaria e complessiva della motivazione (e non frammentata, come avvenuto da parte del sostituto procuratore generale nella sua requisitoria scritta), ha posto in rilievo che la madre naturale non si è mai completamente disinteressata del figlio (nato nel settembre 2008, e, fin dal successivo luglio 2009, accolto presso l’abitazione dei coniugi M. – E. che avevano offerto il loro aiuto per sopperire alle condizioni di precarietà del nucleo familiare, estendendo, dall’aprile 2010, l’ospitalità anche alla A.), non sussistendo, pertanto, un effettivo mancato esercizio della genitorialità, e, soprattutto, che la coppia di adottanti ha tenuto un comportamento non conforme allo spirito dell’affido e dell’adozionespeciale, creando progressivamente una situazione di fatto che ha scavato un solco di incomunicabilità ed avversione tra madre e figlio: un atteggiamento, quindi, volto non a favorire il coinvolgimento della madre naturale nel rapporto con il figlio, ma ad estrometterla progressivamente dalla vita affettiva del minore.
3.5.1. Significative, in proposito, sono le affermazioni della corte distrettuale in cui si evidenzia che: i) nel corso di un precedente procedimento volto all’accertamento dello stato di abbandono del minore (conclusosi con una dichiarazione di non luogo a provvedere), era emerso che sua madre aveva continuato a vivere con lui presso la famiglia M., lavorando presso una pizzeria nei pressi di (OMISSIS) fino al novembre 2012, allorquando aveva iniziato a convivere, nel Comune di Carsoli, con il nuovo compagno, T.A., con cui aveva instaurato una relazione affettiva dal luglio 2012, sfociata in un successivo matrimonio dal quale erano nati altri due figli (cfr. pag. 2-3);
ii) nel periodo successivo al novembre 2012, la A. si era recata con stabilità (1 -2 volte a settimana) a visitare il figlio A., che era sempre molto contento di trascorrere del tempo con lei, sicché non poteva dirsi che la madre avesse realizzato un abbandono di quel figlio (cfr. pag. 3);
iii) nella motivazione del provvedimento impugnato innanzi ad essa, il Tribunale per i Minorenni di Roma aveva rilevato “che la sfiducia degli affidatari nelle risorse materne non permette loro di favorire il legame tra la madre H. ed A., come sarebbe nello spirito dell’affido, ponendosi più come sostituti genitoriali che come persone favorenti il rapporto ed il rientro presso la madre e la sua famiglia ricostituita; che i coniugi M. – E., nel corso del periodo di affidamento, non hanno aiutato il bambino a recuperare e consolidare il rapporto con la madre, venendo meno allo spirito ed al significato dell’affido e ponendo il bambino in una trama ansiosa, dannosa alla già provata serenità del bambino che, infatti, presenta allo stato segnali di disagio psicologico” (cfr. pag. 4); iv) “Nella relazione di aggiornamento sulla condizione psicologica del minore del 13.05.2016, la ASL Roma (OMISSIS) ha riferito che A., apparso in evidente condizione di angoscia e prostrazione, ha assunto un ruolo attivo di contrapposizione alla richiesta materna e la sua posizione di rifiuto non è dovuta solo agli ultimi eventi, in quanto già nel novembre 2014 aveva, manifestato il suo rifiuto della sola idea di andare a vedere dove viveva la madre. Di fronte alla minaccia di essere portato via da quello che negli anni è stato il suo contesto familiare, il bambino reagisce con l’esasperazione degli atteggiamenti di rifiuto e con la determinazione di spogliarsi dell’identità di figlio di H. per rimanere solo figlio degli attuali affidatari. Rileva, al riguardo, il servizio che questa posizione, se, attualmente, protegge il bambino da vissuti di dolore e separazione, comporta, a livello prognostico, dei rischi nella crescita psichica del bambino, da cui lo stesso va tutelato, prevedendo che gli adulti coinvolti, nelle rispettive responsabilità, gli garantiscano la possibilità di ricostruire con la madre una relazione di fiducia” (cfr. pag. 11).
3.5.2. Va altresì rilevato che il riferimento operato nella sentenza n. 18575 del 2015 alla convivenza tra genitore biologico e minore quale elemento caratterizzante “di regola” il concreto esercizio del rapporto affettivo con il minore sembra porsi in contrasto con il diverso orientamento espresso dalla Corte di legittimità nella sentenza n. 10265 del 10 maggio 2011, nella quale si è affermato che “in tema diadozionein casi particolari, ha efficacia preclusiva, ai sensi dellaL. 4 maggio 1983, n. 184,art.46il dissenso manifestato dal genitore naturale non convivente all’adozionedel figlio minore a norma dell’art. 44, lett. b) della legge richiamata, dovendo egli ritenersi comunque “esercente la potestà”, pur quando lo stesso non sia mai stato convivente con il minore”. Può pertanto affermarsi che non sia la convivenza l’elemento sintomatico necessario, di regola, per verificare la sussistenza del concreto esercizio di un effettivo rapporto con il minore, potendosi e dovendosi desumere tale concreto esercizio dalle reali e qualificanti modalità di svolgimento delle relazioni tra genitore e minore anche se non conviventi tra loro.
3.5.3. Ritiene di conseguenza il collegio che debbano essere delimitati la portata ed il perimetro applicativo del principio enunciato dalla sentenza n. n. 18575 del 2015, anche per evitare che, nella assolutezza della sua formulazione, esso rischi di porsi in dissonanza con le linee guida che governano i presupposti e ispirano la disciplina dell’adozione- in forza dei quali l’interesse prevalente del minore è quello “di vivere, per quanto possibile, con i propri genitori e di essere allevato nell’ambito della propria famiglia” di origine (Cass. n. 13435 del 2016), con la conseguenza che il ricorso alla dichiarazione di adottabilità deve rappresentare la “extrema ratio” (Cass. n. 23979 del 2015; n. 3915 del 2018), richiedendosi al giudice di merito di operare un giudizio prognostico teso, in primo luogo, a verificare l’effettiva ed attuale possibilità di recupero delle capacità e competenze genitoriali (Cass. n. 7559 del 2018) – e di rovesciare, invece, i termini di confronto con riferimento all’adozionespeciale di cui allaL. n. 184 del 1983,art.44, comma 1, lett. d), in cui il consenso del genitore biologico rileva solo se conforme all’interesse del minore e solo se sorretto da un rapporto effettivo con lui, caratterizzato di regola dalla convivenza.
3.5.4. Il principio enunciato dalla sentenza n. 18575 del 2015 deve essere anche più specificamente raccordato con la funzione propria del particolare tipo diadozionespeciale oggetto del presente giudizio, la quale, come esattamente rilevato dal giudice di appello, consente di formalizzare il rapporto affettivo instaurato dal minore con i soggetti impegnati nella sua cura, creando uno status personale tra adottante e adottato, senza però far venir meno il vincolo esistente con i genitori biologici e la famiglia di origine. Diversamente ragionando, si rischia di svilire il preminente interesse del minore alla piena tutela delle relazioni familiari “effettive”, parimenti riducendo a mera declamazione verbale, ma smentita nei fatti, il carattere “funzionale” della potestà, il suo essere oggi “responsabilità” e non diritto.
4. Sembra, dunque, necessario guardare alla realtà effettiva delle relazioni familiari. E’ su questa via, d’altra parte, che si muove la giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo (cfr. Wagner c. Lussemburgo, 28 giugno 2007; Schneider v. Germany, 15 settembre 2011, c. 17080/7), secondo la quale, per vita familiare ai sensi dell’art. 8 CEDU, si devono intendere non solo i vincoli formali di genitorialità e parentela, ma, ancor prima, le relazioni di fatto esistenti, intese come ambiente familiare che soddisfa i bisogni esistenziali del minore.
4.1. Se, dunque, si considerano le relazioni familiari nella loro effettività e l’interesse del minore alla salvaguardia di quelle non meramente formali, ma realmente esistenti nella sua esperienza di vita, si comprende anche che cosa debba intendersi per “esercizio della potestà (oggi “responsabilità”). Non un’investitura formale da parte del legislatore – che non può mai mancare quando ad essere attribuito è un potere che ha senso in quanto si abbia la possibilità di esercitarlo – ma effettivo esercizio delle responsabilità. Questo, sì, può mancare quando il genitore, pur formalmente investito del potere, in concreto non lo eserciti. In questi casi l’intervento del giudice che valuti la corrispondenza dell’adozioneall’interesse del minore si giustifica e si apprezza come momento di bilanciamento degli interessi in gioco: del genitore a conservare un rapporto privilegiato con il figlio, e di quest’ultimo ad essere inserito a tutti gli effetti, con pieno riconoscimento di diritti e doveri, nella famiglia che si prende cura di lui (cfr., ad esempio, Cass. n. 6633 del 2002).
4.2. Non può sottacersi, peraltro, che, nella sentenza n. 182 del 1988, con la quale è stata dichiarata l’incostituzionalità dellaL. n. 184 del 1983,art.45, comma 2e art.56, comma 2, nella parte in cui prevedevano (prima delle modifiche introdotte dallaL. 28 marzo 2001, n. 149) la necessità, in vista dell’adozione particolare, del consenso anziché della mera audizione del legale rappresentante del minore, la Corte costituzionale ha svolto anche importanti considerazioni circa la giustificazione dell’ulteriore limite alla valutazione dell’interesse dell’adottando, da parte del giudice, costituito dalla insuperabilità del dissenso dei genitori esercenti la potestà (ora responsabilità) o del coniuge convivente. “Siffatto limite”, ha osservato, “ha una giustificazione in valori costituzionalmente garantiti, quali quello della conservazione della compagine familiare e della società coniugale effettivamente vissute, di cui agliartt. 29 e 30 Cost., che prevalgono anche in presenza degli opposti consensi manifestati dall’adottante e dall’adottando. L’interesse dell’adottando si deve intendere qui considerato in via definitiva dai genitori o dal coniuge, i quali dalla richiesta diadozioneda parte di un determinato adottante o dalla richiesta di aggiunzione di un qualunque rapporto adottivo al vincolo originario di filiazione o a quello di coniugio, l’uno e l’altro attualmente ed effettivamente convissuti, possono ritenere di ricevere pregiudizio o presumere di soffrire turbamento o semplicemente interferenza non gradita nella propria vita di relazione con il minore figlio o consorte”.
4.3. Nel passo sopra riportato è evidente il ruolo centrale attribuito alla effettività del rapporto genitore-figlio. Non già l’astratta spettanza della responsabilità genitoriale, bensì la effettività del vincolo familiare giustificano, secondo la Corte costituzionale, la speciale protezione attribuita a tale vincolo dallaL. n. 184 del 1983,art.46, in applicazione dei principi di cui agliartt. 29 e 30 Cost..
4.4. Proprio alla stregua di tali considerazioni, dunque, il Collegio ritiene, da un lato, di dare continuità al principio generale desumibile da Cass. n. 18575 del 2015, ribadendo, così, che, per genitori esercenti la responsabilità genitoriale, il cui dissenso, ai sensi dellaL. n. 184 del 1983,art.46, comma 2, impedisce l’adozione particolare, debbano intendersi i genitori che non siano meri titolari della responsabilità stessa, ma ne abbiano, altresì, il concreto esercizio, grazie a un rapporto effettivo con il minore; dall’altro, però, reputa che laL. n. 184 del 1983,art.46, comma 2, laddove sancisce che il dissenso all’adozioneex art. 44 della medesima legge manifestato dal genitore esercente la responsabilità genitoriale osti alla pronuncia di quell’adozione, debba comunque configurarsi come una norma di salvaguardia, trovando un siffatto limite la sua giustificazione in valori costituzionalmente garantiti, quali quello della conservazione della compagine familiare e della società coniugale effettivamente vissute, di cui agliartt. 29 e 30 Cost., che prevalgono anche in presenza di opposti consensi manifestati dall’adottante e dall’adottando.
5. Il dissenso espresso dal genitore titolare della responsabilità genitoriale, ed esercente la stessa benché, come nella specie, non convivente con il proprio figlio minorenne, mantiene, dunque, il suo valore preclusivo all’adozioneL. n. 184 del 1983, ex art. 44 salvo che non si sia già manifestata – come era palesemente accaduto nella fattispecie all’attenzione della menzionata sentenza n. 18575 del 2015 – una situazione di disgregazione del contesto familiare d’origine del minore.
Deve conseguentemente affermarsi il seguente principio di diritto: “In tema diadozioneparticolare, il dissenso manifestato dal genitore titolare della responsabilità genitoriale, anche se non convivente con il figlio minore, ha efficacia preclusiva ai sensi dellaL. n. 184 del 1983,art.46, comma 2, salvo che non sia stata accertata una situazione di disgregazione del contesto familiare d’origine del minore in conseguenza del protratto venir meno del concreto esercizio di un rapporto effettivo con il minore stesso da parte del genitore esercente la responsabilità”.
5.1. Nella vicenda all’esame di questa Corte, come si è ricordato in precedenza, la sentenza impugnata ha chiaramente riferito che, dalle relazioni dei servizi sociali, risulta che la A. ha continuato a manifestare interesse al recupero del rapporto con il figlio minore, in ciò certamente non agevolata dalla condotta assunta, nel corso degli anni, dagli odierni ricorrenti, i quali, nel corso del periodo di affidamento, non hanno aiutato il bambino a recuperare e consolidare il rapporto con la madre, venendo meno allo spirito ed al significato dell’affido e ponendo il bambino, che presenta segnali di disagio psicologico, in una trama ansiosa, dannosa alla sua già provata serenità. Non è, dunque, ravvisabile, nella specie, quella situazione di disgregazione del contesto familiare di origine del minore che, per quanto si è fin qui detto, avrebbe consentito al giudice di merito di non tener conto del dissenso all’adozionemanifestato dalla madre.
5.2. La Corte di appello di Roma, Sezione per i Minorenni, pertanto, nel respingere la domanda diadozione formulata dal M. e dalla E.,L. n. 184 del 1983, ex art. 44, comma 1, lett. d), attribuendo esclusiva rilevanza al diniego di consenso al riguardo manifestato dalla madre naturale del minore Z.A. (“la domanda diadozione degli appellanti non può essere accolta in ragione dell’efficacia preclusiva del dissenso manifestato dalla madre del minore”, pag. 11), non ha statuito in conformità al principio di diritto enunciato al precedente p. 5, in ragione dell’efficacia preclusiva attribuita al dissenso manifestato dalla madre, senza in alcun modo attribuire rilievo alla verifica dell’inesistenza di una situazione di disgregazione del contesto familiare d’origine del minore, in conseguenza del protratto venir meno, da parte del genitore esercente la responsabilità, del concreto esercizio di un effettivo rapporto con il minore medesimo.
5.3. Pertanto, la sentenza impugnata risulta erroneamente motivata in diritto, ma il suo dispositivo, per quanto riguarda la conferma della sentenza appellata nella parte relativa al rigetto della domanda diadozione speciale formulata da M.P. e E.L., è conforme al diritto, risultando accertato in atti, per le ragioni già illustrate nei precedenti p.p. 3.5 e 3.5.1., che la madre naturale non si è mai completamente disinteressata del figlio, non potendosi, pertanto, ravvisare nella specie un effettivo mancato esercizio della genitorialità da parte sua.
La motivazione in diritto della sentenza impugnata va conseguentemente corretta sulla base del principio in precedenza enunciato al p. 5, secondo quanto previsto dal dispostodell’art. 384 c.p.c., u.c..
5.4. Quanto al lamentato mancato ascolto del minore in appello, dedotto nel quinto motivo, rileva il collegio che il medesimo è certamente stato ascoltato in primo grado (udienza del 26.10.2015. Cfr. pag. 3 del ricorso), mentre non risulta, stando al tenore delle conclusioni dell’atto di appello riprodotte alla pag. 8 dell’odierno ricorso, che la relativa questione sia stata prospettata al giudice del gravame ed in questa sede di legittimità i ricorrenti non hanno indicato, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, se ed in quale atto del giudizio di appello la richiesta di ascolto del minore sia stata effettuata.
5.5. In ordine alle istanze istruttorie formulate ma non accolte in grado di appello (estromissione della relazione dei servizi sociali del 17 settembre 2015, ammissione di una consulenza tecnica d’ufficio psicodiagnostica diretta ad accertare lo stato psicologico del minore e ammissione di prova testimoniale), la doglianza deve ritenersi inammissibile nella fase di legittimità, costituendo censura sull’esercizio dei poteri istruttori del giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza (cfr. Cass. n. 19547 del 2017). Anche il giudizio sulla necessità ed utilità di far ricorso allo strumento della consulenza tecnica d’ufficio rientra nel potere discrezionale del giudice del merito, la cui decisione è, di regola, incensurabile nel giudizio di legittimità (cfr. Cass. n. 7472 2017). Nel caso di specie, la corte di appello ha fatto riferimento non alla relazione dei servizi sociali del 17 settembre 2015, di cui i ricorrenti hanno chiesto “l’estromissione”, ma alla relazione della ASL Roma (OMISSIS), del 13 maggio 2016, dettagliatamente richiamata e posta alla base della motivazione della propria decisione, con implicito rigetto della richiesta di prova per testi e di consulenza tecnica formulata dagli appellanti, prova per testi e consulenza cui i giudici di appello hanno preferito, nell’interesse del minore e nell’esercizio dei loro poteri istruttori non sindacabile in questa sede di legittimità, – tenuto anche conto della genericità delle argomentazioni addotte dai ricorrenti a sostegno della censura sulla mancata ammissione delle richieste istruttorie, fondate, quelle relative alla consulenza, esclusivamente su soggettive valutazioni di merito tese a confutare, senza riscontri, l’attendibilità della citata relazione del 13 maggio 2016 – l’affidamento ad una struttura pubblica (Asl Roma 2 (OMISSIS)) della predisposizione di “un progetto – della durata di un anno – diretto a superare l’attuale disagio psicologico del minore Z.A. e di conflittualità fra gli affidatari e la madre del bambino, mediante incontri protetti madre-figlio ed incontri di mediazione fra le parti (affidatari e madre) al fine di pervenire al ricomponimento dell’attuale conflitto nel superiore in interesse del minore nonché un percorso di sostegno alla genitorialità per la madre A.H., segnalando alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Roma eventuali condotte pregiudizievoli per il minore”.
6. Analoga negativa sorte, merita, infine, il quarto motivo.
6.1. Giova, in proposito, ricordare che, con la sentenza del 30 dicembre 2015/29 gennaio 2016, n. 34, il Tribunale per i minorenni di Roma, oltre a respingere la domanda diadozioneex art. 44, lett. d), proposta dagli odierni ricorrente, già affidatari, dal 2009, di Z.A., incaricò i Servizi Sociali del 7^ Municipio di Roma “di seguire, in tempi ravvicinati, il minore perché ne sia favorito il rapporto libero, senza presenza di alcun elemento delle rete familiare affidataria, con la madre e con i fratelli e ne sia consentito il pernottamento presso la casa materna per almeno tre fine settimana al mese, e di relazionare entro e non oltre il 15 maggio 2016”.
6.2. Contro quella sentenza proposero appello i coniugi M. – E., deducendo, su questo specifico punto, che: i) il tribunale “si era pronunciato anche sui rapporti tra A. e la madre biologica, sul marito di quest’ultima e sui figli nati dal loro matrimonio, nonostante i ricorrenti avessero limitato la domanda all’adozione”mite”, statuendo anche sul pernottamento e sugli incontri “liberi” in assenza dei componenti della famiglia M.” (cfr. pag. 6-7 dell’odierno ricorso), così incorrendo nel vizio di ultrapetizione, posto che le questioni dell’affidamento e delle frequentazioni con la madre biologica erano già oggetto di altro e specifico procedimento pendente innanzi al Tribunale per i Minorenni di Roma (n.r.g. 76/2010); ii) in ogni caso, l’affidamento e la frequentazione predetti “non potevano e non dovevano essere regolate in forma libera, introducendo, per di più, il pernottamento del minore presso la madre, senza alcuna pregressa preparazione psicologica del minore” (cfr. pag. 7 del citato ricorso).
6.3. La Corte di appello di Roma, sezione per i minorenni, con la decisione oggi impugnata, modificò, come si è già detto, solo su questo aspetto la sentenza di primo grado, revocando gli incontri liberi tra il minore e la madre, nonchè i suoi pernottamenti presso la stessa, e incaricando la ASL Roma (OMISSIS) – (OMISSIS) di predisporre il progetto cui si è fatto riferimento al precedente.
6.4 Fermo quanto precede, ritiene il Collegio che i provvedimenti diversi dalla statuizione sulla domanda diadozioneL. n. 184 del 1983, ex art. 44, lett. d), nella specie resi dal tribunale per i minorenni, erano, sebbene formalmente adottati unitamente alla sentenza pronunciata da quest’ultimo, da essa distinti e non si differenziavano dai provvedimenti provvisori che, in ogni tempo, il tribunale medesimo può adottare dopo l’apertura del procedimento innanzi ad esso.
6.4.1. Questi ulteriori provvedimenti erano appellabili da chi avesse avuto interesse ad impugnare anche la sentenza cui gli stessi accedevano (cfr. Cass. n. 15341 del 2012, nonché la più recente Cass. n. 5134 del 2014), e costituisce giudizio di merito riservato al giudice di appello l’avvenuta l’interpretazione del complessivo contenuto della riportata doglianza formulata in sede di gravame, nel senso di ritenere, nell’interesse del minore, che la censura degli appellanti comportasse la rivalutazione dei provvedimenti provvisori adottati dal giudice di primo grado.
6.5. Ne consegue, dunque, l’insussistenza del vizio di ultrapetizione lamentato dagli odierni ricorrenti.
7. Il ricorso va, dunque, respinto, ma le spese di questo giudizio di legittimità possono essere interamente compensate tra le parti in ragione della peculiarità della fattispecie trattata e della non completa univocità della riscontrata giurisprudenza in materia.
8. Non sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, stante l’esplicita esenzione dei procedimenti riguardante la prole sancita dall’art. 10, comma 2, medesimo D.P.R..
9. Va, disposta, da ultimo, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Dispone, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 7 giugno 2018.