Di Gianfranco Dosi
I Introduzione: la famiglia nucleare “parentale”
Nell’ambito della ricerca antropologica e sociologica, è unanime la convinzione che è impossibile ricondurre la famiglia a un sistema di relazioni basate su funzioni naturali riferibili a un modello immutato per tutte le società e per tutte le epoche [è inevitabile richiamare in questa sede quanto meno gli studi di M. Barbagli (a cura di), Famiglia e mutamento sociale, Il Mulino, Bologna, 1977; F. Heritier, Famiglia, in Enciclopedia, Vol. VI, Einaudi, Torino, 1979; W. J. Goode, Famiglia e trasformazioni sociali, Zanichelli, Bologna, 1982; M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, il Mulino, Bologna, 1984; C. Saraceno, Sociologia della famiglia, Il Mulino, Bologna, 1988]. La variabilità dei modelli peraltro ha sempre indotto anche una molteplicità di approcci [ben presentati in P. Donati, P. Di Nicola, Lineamenti di sociologia della famiglia, La nuova Italia scientifica, Roma, 1995].
Da tutti questi studi emerge molto chiaramente – come è molto noto – che il modello strutturale della famiglia moderna impostosi nel dopoguerra è quello della famiglia nucleare caratterizzata dalla convivenza tra parenti di primo grado (genitori e figli) in contrapposizione storica con il modello della famiglia patriarcale estesa caratterizzato dalla convivenza di membri della famiglia appartenenti a più generazioni (genitori, figli, nonni, zii). La famiglia estesa costituiva la norma in Italia, soprattutto nelle aree rurali, almeno fino ai primi decenni del Novecento, e consentiva ai suoi componenti di condividere la quotidianità, di collaborare nella cura reciproca e nell’organiz¬zazione domestica.
Tuttavia, anche la famiglia nucleare (fondata sul matrimonio e su una discendenza in genere nu¬merosa) si è trasformata a partire in Itala dagli anni Sessanta del secolo scorso. La rivoluzione demografica e le profonde trasformazioni socioeconomiche e culturali degli ultimi settant’anni, sono alla radice del suo declino e della diffusione ormai di una molteplicità di tipi di famiglia. La crisi dell’istituzione matrimoniale è ampiamente documentata dal calo e dal ritardo dei matrimoni, dall’aumento delle convivenze e delle unioni libere [rimane ancora fondamentale uno dei primi approfondimenti sociologici in Italia sulle convivenze di fatto di V. Pocar e P. Ronfani, Coniugi senza matrimonio, Cortina, Roma, 1992] anche tra persone dello stesso sesso, dall’aumento dei divorzi, dall’aumento delle famiglie monoparentali, di quelle ricostituite e di quelle unipersona¬li, dal calo complessivo delle nascite e dall’aumento dei figli nati fuori dal matrimonio. Fenomeni che hanno modificato e continuano a modificare la natura stessa della famiglia e del matrimonio.
In un lavoro divulgativo che resta ancora oggi un punto di riferimento per chi intende approfondire la varietà dei modelli familiari nella nostra realtà [A. L. Zanatta, Le nuove famiglie, Il Mulino, Bologna, 1997] si ricorda che nella società del passato in cui, in tutte le classi sociali, il matrimo¬nio era un’alleanza tra famiglie mentre i sentimenti degli individui erano del tutto irrilevanti, la sta¬bilità dei matrimoni era garantita dagli interessi economici e di potere che stavano alla base di tale alleanza. Quando il matrimonio d’amore ha preso il posto di quello combinato, le aspettative di fe¬licità della coppia sono aumentate. L’unione coniugale perde la sua ragion d’essere quando l’amore si dissolve. L’autonomia individuale, anche nel campo dei sentimenti e degli affetti si è affermata in una duplice direzione: in un primo tempo la coppia coniugale si è affrancata dal controllo per¬vasivo e diffuso dei parenti, rafforzando la relazione affettiva all’interno della coppia e tra genitori e figli. In un secondo tempo si è sviluppata l’indipendenza individuale in seno alla stessa famiglia coniugale con la conseguenza che le esigenze di autorealizzazione del singolo possono sembrare o diventare prioritarie rispetto a quelle dell’unità familiare. Il principio di dissolubilità del matrimonio (legge 1° dicembre 1970, n. 898) ha reso possibile la fuoriuscita legale dal matrimonio.
I cambiamenti della condizione della donna nella società e nella famiglia hanno naturalmente contribuito in modo importante alle trasformazioni della famiglia contemporanea. La maggiore autonomia sociale della donna – non solo, s’intende, l’autonomia economica, messa in crisi oggi dalla condizione di riduzione delle opportunità lavorative anche tradizionali per tutti – si è tradotta in maggior potere contrattuale all’interno della famiglia, in una maggiore capacità di negoziare rapporti familiari più paritari e anche di interrompere relazioni giudicate insostenibili o inadeguate rispetto alle aspettative. In questo senso possono essere certamente letti i dati statistici da cui risulta che i più alti tassi di divorzio si hanno dove la quota di donne lavoratrici è più elevata. In tali aree la maggior parte delle domande di divorzio proviene proprio dalle donne. Naturalmente può essere significativo, a tale proposito, osservare che una quota consistente di domande di divorzio presentate dagli uomini, può fondatamente ritenersi motivata dalla insoddisfazione per la perdita di privilegi che la divisione tradizionale dei ruoli ha sempre loro assicurato. Resta, tuttavia, il fatto ancora largamente presente di una divisione del lavoro all’interno della famiglia fortemente asim¬metrica e scompensata a svantaggio della donna.
Cambiano quindi le relazioni all’interno della coppia e si moltiplicano le strutture familiari (famiglie di fatto, famiglie con un solo genitore, famiglie ricostituite, famiglie unipersonali) anche se la fa¬miglia resta un punto di riferimento importante per la maggior parte delle persone e conserva un grande significato affettivo ed esistenziale.
In questa sede ci si interroga da giuristi sul significato della famiglia. Il diritto di famiglia non ha, però, ambizioni sociologiche o antropologiche, ma semplicemente di ricostruzione e di promozione giuridica. Ciò significa che si cercherà di ricostruire il concetto attuale di famiglia non tanto, però, attraverso l’esame strutturale dei differenti tipi di aggregazione interpersonale che la connotano nell’epoca contemporanea (è sufficiente per questo rimandare agli studi di demografia o di socio¬logia sull’argomento dove si parla di famiglie anziché di famiglia, nel senso che non è concepibile un concetto unico di famiglia da indicare come modello e che nella società coesistono oggettiva¬mente differenti forme di famiglia), quanto adottando una prospettiva funzionale, interrogandosi, cioè, soprattutto sulle garanzie che il diritto è in grado di assicurare alla persona nell’ambito delle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.) nella prospettiva per cui “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare”, come molto semplicemente (e per nulla ideologicamente) ricorda l’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950 (legge 4 agosto 1955, n. 848).
Interrogarsi sulla vita familiare e sulle situazioni giuridiche in concreto fruibili nella famiglia è l’obiettivo quindi che il giurista può pragmaticamente porsi, pur senza tralasciare di indicare al legislatore le prospettive di un adattamento continuo delle norme giuridiche alle trasformazioni sociali. In questo senso le grandi riforme di questi anni (la riforma sull’affidamento condiviso del 2006, la riforma della filiazione del 2012 e del 2013 e la riforma sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto del 2016) hanno costituito il segnale più eloquente di come questo lavoro di adattamento sia concretamente possibile anche nell’ambito di aspetti del vivere sociale fortemente permeati da principi e convinzioni etiche.
Proprio il contenuto di queste riforme consente oggi di intravedere chiaramente gli elementi co¬stitutivi di un singolare percorso di trasformazione della famiglia nel nostro Paese – dopo la dis¬soluzione della famiglia patriarcale – dal modello tradizionale della famiglia matrimoniale nucleare (tipica del codice del 1942) al modello nucleare costituzionale “paritario” (della riforma del 1975) e poi al modello attuale che potremmo chiamare nucleare “parentale”. L’avvento di quest’ultimo mo¬dello familiare – come meglio si vedrà – non è avvenuta escludendo le relazioni familiari allargate, ma, al contrario, includendole all’interno di un sistema ampio di relazioni parentali (e di affinità nel modello matrimoniale) che connotano la famiglia attuale come rete ampia di protezione e di solidarietà. Per questo si può parlare di famiglia sì nucleare ma “parentale”. Con la precisazione im¬portante che, da un punto di vista funzionale, non è più il concetto di residenzialità a connotare la famiglia ma la rete parentale all’interno della quale le relazioni familiari si vivono e si trasformano.
Sono esempi di questo concetto esteso di famiglia i confini ampi della solidarietà alimentare (art. 433 c.c.), l’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari affinché possano adem¬piere i loro doveri nei confronti dei figli (art. 316-bis), il diritto dei figli di conservare rapporti signi¬ficativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale (art. 337-ter, primo comma, c.c.) e parallelamente anche il diritto degli ascendenti a mantenere rapporti con i nipoti (art. 317- bis c.c.), l’esclusione dello stato di adottabilità se il minore è assistito adeguatamente dai parenti entro il quarto grado (articoli 8 e 10 della legge 4 maggio 1983, n. 184), l’ampiezza del concetto di familiari nell’impresa familiare (art. 230-bis c.c.), l’inclusione globale nella famiglia non matri¬moniale dell’intera rete parentale di entrambi i genitori (art. 258, primo comma, c.c.), l’inclusione a tutti gli effetti dei figli adottivi nella famiglia (art. 74 c.c.), l’ampiezza della nozione penalistica di prossimi congiunti (art. 307, ultimo comma, c.p.) ed altri elementi che saranno esaminati.
Sulla base di questi elementi non è più utilizzabile il concetto di famiglia nucleare tradizionale. Siamo in presenza, pur all’interno di un modello generale di famiglia di tipo nucleare, di una esten¬sione della significatività della rete familiare che connota la nuclearità come inclusiva di relazioni parentali, in buona parte dovuta e trainata dalla centralità che nella stessa famiglia nucleare, un tempo soprattutto coniugale, ha acquisito la condizione giuridica dei figli.
Non è più, come nella famiglia nucleare tradizionale, la residenza comune, quindi, che dà un si¬gnificato alla famiglia (considerato che l’urbanizzazione non rende possibili legami residenziali se non nell’ambito della famiglia nucleare genitori-figli e che anche l’assenza di residenza comune non impedisce il formarsi di una famiglia) ma tutti i legami parentali, anche quelli più ampi, che sono diventati nel tempo sempre più significativi, importanti per la socializzazione, talvolta vitali (come nell’assistenza dei familiari anziani) e in ogni caso giuridicamente cogenti e fonti di diritti e di doveri.
II Qualche dato sulla struttura della famiglia italiana
Oltre sessanta milioni di persone formano, in Italia, quasi venticinque milioni di famiglie. La media di persone per famiglia è quindi un po’ più di due. Addirittura una famiglia su tre è composta da una persona sola (singoli, vedovi, divorziati). A fronte di ciò vi sono undici milioni di nonni dei quali oltre sette milioni ultra sessantaquattrenni.
Non vi possono essere dubbi sulla natura nucleare della struttura familiare italiana che tuttavia, contrariamente a quanto spesso si ritiene, non è un sistema isolato dalla più ampia rete parentale. Segnali demografici ma anche giuridici – come si dirà meglio – ci dicono che la rete parentale ha acquisito una presenza che fino ai primi anni del Novecento si esprimeva per lo più nella comune residenza (di solito rurale ma anche urbana), mentre negli ultimi decenni si è espressa, e continua ad esprimersi sempre più, attraverso una significatività non più residenziale ma di diverso tipo alla quale le trasformazioni sociali, ma anche le norme giuridiche e le riforme, hanno attribuito maggio¬re rilevanza rispetto al passato. Alla famiglia allargata dei primi anni del Novecento si è sostituita nel dopoguerra la famiglia nucleare – disciplinata dal codice civile – che ha assunto oggi (dopo la riforma del 1975 e dopo le riforme di questi ultimi anni sulla filiazione, sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto), una connotazione di tipo parentale sconosciuta in passato.
Al 31 dicembre 2015, la popolazione residente in Italia era di 60.665.551 persone, oltre 130 mila in meno rispetto all’inizio dell’anno. La differenza fra le nascite e le morti si conferma negativa (-161.791).
Nel corso del 2015 è proseguito anche il calo delle nascite: i nati vivi, che nel 2014 erano 502.596, nel 2015 passano a 485.780. La fecondità delle donne passa da 1,39 figli in media nel 2013 a 1,37 nel 2014. Nel 2015 il numero dei decessi cresce rispetto all’anno precedente e raggiunge le 647.571 unità (49.207 in più rispetto all’anno precedente). Il quoziente di mortalità, a sua volta, passa dal 9,8 al 10,7 per mille. La speranza di vita alla nascita (vita media), dopo anni di crescita costante, nel 2015 subisce una battuta d’arresto, passando da 80,3 anni a 80,1 anni per i maschi e da 85,0 a 84,7 per le femmine. L’insieme di queste dinamiche rendono l’Italia uno dei paesi dove il rapporto tra la popolazione di 65 anni e oltre e quella con meno di 15 anni è più sfavorevole, pari al 161,4 per cento, ancora in crescita rispetto all’anno precedente (157,7 per cento).
Secondo i dati dell’ultimo censimento (2011) la quasi totalità della popolazione residente in Italia vive in famiglia (59.132.045 individui), il resto (301.699 individui) in convivenze comunitarie (isti¬tuti assistenziali, ospizi, istituti di cura, eccetera).
In analogia con quanto avvenuto nei precedenti decenni, negli ultimi dieci anni il numero di famiglie è aumentato, passando da 21.810.676 a 24.611.766 unità; dal 1971 ad oggi l’incremento è stato del 54,0%. Le famiglie tendono comunque ad essere sempre più piccole, mostrando una progressiva ri¬duzione del numero medio dei componenti; nel 1971 una famiglia era mediamente composta da 3,3 persone, nel 2011 da 2,4. Queste tendenze sono generalizzate e riguardano tutte le aree del Paese.
Le famiglie unipersonali sono quasi una su tre; rispetto al censimento del 2001 risultano in notevo¬le aumento a causa del progressivo invecchiamento della popolazione e dei mutamenti demografici e sociali. Dal 2001 al 2011 sono passate da 5.427.621 (24,9% delle famiglie) a 7.667.305 (31,2% del totale). L’incremento si osserva su tutto il territorio italiano.
Opposta tendenza si riscontra per la percentuale di famiglie numerose, ovvero quelle con 5 o più componenti, che registrano un moderato calo tra i due ultimi censimenti (1.635.232, il 7,5% di tutte le famiglie nel 2001, 1.408.944 nel 2011, pari al 5,7%).
Nel 2014 i matrimoni continuano la loro fase di diminuzione, passando dai 194.057 eventi del 2013 ai 189.765 del 2014 (quasi 4.300 in meno). Le separazioni legali passano da 88.886 del 2013 a 89.303 del 2014 mentre i divorzi subiscono una lieve flessione passando da 52.943 a 52.355.
Sempre in base ai base ai dati ISTAT, i nonni in Italia sono oltre undici milioni, cioè il 33,3% delle persone che hanno più di 35 anni. Essi sono così distribuiti: il 5,1% ha meno di 55 anni; il 42.2% è tra 55 e 64 anni; il 71,4% (cioè oltre 7 milioni di nonni) ha più di 64 anni.
Di questi uno su tre si occupano dei nipotini quando i genitori lavorano. La percentuale aumenta di pari passo all’abbassarsi del livello di istruzione. I nonni colti si occupano dei nipoti solo occasio¬nalmente e in caso di emergenza. In generale il 70,8% degli anziani sono nonni e in media hanno circa 4 nipoti.
III La famiglia anagrafica
E’ opportuno chiarire subito che di ben poca utilità è, ai fini che qui interessa approfondire, il concetto di famiglia anagrafica, che concerne solo il tema della residenzialità. La definizione della famiglia anagrafica – pur di grande interesse in quanto fin dal 1989 parifica la famiglia matrimo¬niale a quella di fatto – ha rilevanza ai soli fini della qualificazione come nucleo residente. Come si dirà, invece, la residenzialità non è una caratteristica significativa ai fini dell’inquadramento delle relazioni familiari estese all’interno del concetto di famiglia.
L’ordinamento anagrafico ha la sua fonte originaria nella legge 24 dicembre 1954, n. 1228 (Or¬dinamento delle anagrafi della popolazione residente) dove si prevede che in ogni Comune deve essere tenuta l’anagrafe della popolazione residente. L’anagrafe è secondo la legge il servizio pubblico e al tempo stesso l’ufficio pubblico che provvede alla registrazione delle posizioni relative alle singole persone, alle famiglie ed alle convivenze, che hanno fissato nel Comune la residenza, nonché le posizioni relative alle persone senza fissa dimora che hanno stabilito nel Comune il pro¬prio domicilio.
Il regolamento anagrafico è stato approvato con DPR 30 maggio 1989, n. 223 (Regolamento ana¬grafico della popolazione residente) modificato dal DPR 17 luglio 2015, n. 126
Il primo Capo si occupa delle registrazioni anagrafiche e all’art. 1 prevede che l’anagrafe è costi¬tuita da schede individuali, di famiglia e di convivenza.
In tali schede sono registrate le posizioni anagrafiche desunte dalle dichiarazioni degli interessati, dagli accertamenti d’ufficio e dalle comunicazioni degli uffici di stato civile.
Premesso che per “persone residenti” si intendono quelle aventi la propria dimora abituale nel comune. negli articoli 4 e 5 vengono date le definizioni di famiglia anagrafica e di convivenza. Bisogna fare attenzione a non confondere le due definizioni. Infatti nell’ambito della nozione di “famiglia anagrafica” rientrano le persone fisiche che costituiscono anagraficamente una famiglia ivi compresi i conviventi di fatto, mentre all’interno della nozione di “convivenza anagrafica” sono allocate le convivenze comunitarie (comunità religiose, carcerarie, militari, sanitarie).
L’art. 4 dà la definizione di “famiglia anagrafica” prevedendo che “agli effetti anagrafici per fami¬glia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune” ed aggiunge che “una famiglia anagrafica può essere costituita da una sola persona”.
Viceversa l’art. 5 definisce “convivenza anagrafica” “un insieme di persone normalmente coabitanti per motivi religiosi, di cura, di assistenza, militari, di pena e simili, aventi dimora abituale nello stesso comune”.
Secondo l’art. 6 del regolamento sono responsabili delle dichiarazioni anagrafiche ciascun compo¬nente della famiglia per sé e per le persone sulle quali esercita la responsabilità genitoriale o la tutela e ugualmente ciascun componente può rendere le dichiarazioni relative alle mutazioni delle posizioni degli altri componenti della famiglia.
Tutto ciò premesso è evidente che il concetto di famiglia anagrafica è un concetto di tipo soltanto amministrativo, funzionale alle registrazioni relative alla popolazione residente, e fa riferimento sia ai vincoli che costituiscono la famiglia matrimoniale di cui si è fin qui parlato (vincoli di matrimonio, di parentela, di affinità, di adozione) sia vincoli di unione civile ovvero vincoli di natura affettiva. Non è desumibile pertanto da questa definizione null’altro che non sia funzionale al servizio di censimento e di registrazione della popolazione residente.
IV La famiglia come soggetto sociale e come sistema relazionale (oggetto di tutela giuridica)
La famiglia è certamente un soggetto sociale. L’espressione può essere interpretata, natural¬mente, in diversi sensi. L’idealismo e il marxismo ritengono che “tutto ciò che l’uomo è lo deve allo Stato, in quanto solo in esso l’uomo ha la sua essenza” solo che secondo Marx – a differenza di Hegel – tale processo sarebbe destinato ad essere “superato” con l’abolizione dello Stato. La dottrina sociale della Chiesa a partire da Leone XIII1, conferisce alla persona e alla famiglia una soggettività e una natura propria che precede e va oltre lo Stato: la famiglia, come la persona, non deve la sua “soggettività” allo Stato e non trova in esso la propria definizione. Sono evidenti in queste posizioni le anime che hanno portato all’art. 29 della Costituzione che interpreta la fa¬miglia come società naturale. Qui la soggettività sociale della famiglia è vista come originarietà pre-statuale delle relazioni matrimoniali e di filiazione, come sfera di relazioni che deve essere tutelata e protetta dalla società.
La famiglia non è, però, un soggetto giuridico. Nel nostro sistema giuridico la soggettività giuridica è correlata alla capacità giuridica, intesa come idoneità a essere titolare di diritti e doveri o più in generale di situazioni giuridiche soggettive. Questa idoneità è riconosciuta alle persone fisiche (che acquistano la capacità giuridica con la nascita: art. 1 c.c.), alle associazioni, alle fondazioni e alle altre istituzioni di carattere privato (che acquistano la personalità giuridica con il riconoscimento: DPR 10 febbraio 2000, n. 361), nonché alle associazioni prive del riconoscimento come persone giuridiche (art. 14 e seguenti c.c.).
Per questo uno degli studiosi più illustri del diritto di famiglia apre il suo libro su “La famiglia” con l’affermazione che “La famiglia non è un ente giuridico e cioè un autonomo centro di imputazione di diritti e doveri. Nessuna posizione giuridica è attribuita alla famiglia come tale… La famiglia non è portatrice di propri interessi perché gli interessi realizzati nella famiglia sono fondamentali esi¬genze delle persona… Il modello paritario conferma l’idea della famiglia come di una comunità nella quale ciascuno dei componenti realizza le prime esigenze di convivenza e di solidarietà umana” [C. M. Bianca, La famiglia, Milano, Giuffrè, 2005, pag. 10]. Una comunità quindi, ma non un soggetto giuridico.
La precisazione che la famiglia non ha soggettività giuridica – che di per sé potrebbe apparire una puntualizzazione riduttiva – ha, però, anche il significato positivo di escludere che la famiglia possa essere considerata un ente a sé, superiore, autoritario e gerarchico, sovraordinato ai suoi componenti. In verità la comunità familiare è una comunità essenzialmente paritaria e modellata sull’uguaglianza dei suoi componenti (art. 29 Cost.) anche se l’uguaglianza di per sé non comporta necessariamente l’esclusione della soggettività dell’ente. E’ una formazione sociale (art. 2 Cost.) particolarmente qualificata, ma per scelta del legislatore, non un soggetto giuridico dell’ordinamento.
La famiglia non è neanche, naturalmente, una società (art. 2247 c.c.), nonostante il nome utilizza¬to, appunto, dall’art. 29 della Costituzione (“…società naturale fondata sul matrimonio”).
Anche da un punto di vista psicologico la famiglia è indubbiamente un soggetto, essendo consi¬derato un sistema fondamentale di relazioni e di comunicazioni. L’approccio psicologico sistemico sulla famiglia molto diffuso ha spostato l’attenzione dall’individuo al contesto delle sue relazioni ed ogni comportamento acquista significato e diventa comprensibile solo se lo si interpreta in rap¬porto al contesto relazionale in cui è avvenuto. La famiglia, in questa prospettiva, è una rete di relazioni interdipendenti in cui qualunque cambiamento riguardante un suo componente coinvolge e si ripercuote anche sugli altri. Non c’è causalità lineare ma circolare nel senso che ogni soggetto influenza con il suo comportamento le altre persone ma è anche influenzato a sua volta dalla loro condotta. Naturalmente si tratta di un sistema aperto in quanto in collegamento con l’ambiente sociale più vasto con cui intrattiene scambi continui alla ricerca di un equilibrio e al tempo stesso dei cambiamenti necessari per mantenerlo nel tempo.
Le categorie giuridiche hanno una loro indipendenza da quelle psicologiche ma se si guarda con attenzione, per esempio all’addebito nella separazione (art. 151, secondo comma c.c. secondo cui ”Il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comporta¬mento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”) si capisce come la teoria sistemica abbia profondamente influenzato nel corso degli anni l’interpretazione di questa disposizione, facendo diventare sempre più rara nei tribunali la pronuncia di addebito. La giurisprudenza, infatti, sostiene che per poter pronunciare l’addebito occorre la prova che un determinato comportamento con¬
1 L’Esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Familiaris consortio (1981) riassume in qualche modo la dottri¬na sociale cattolica in tema di famiglia. Essa delinea la soggettività sociale della famiglia, anche se in maniera implicita. La soggettività della famiglia è definita in vari passi. In particolare: al pr. 15 (“Nel matrimonio e nella famiglia si costituisce un complesso di relazioni interpersonali – nuzialità, paternità-maternità, filiazione, frater¬nità – mediante le quali ogni persona umana è introdotta nella ‘famiglia umana’ e nella ‘famiglia di Dio’ che è la Chiesa”); al pr. 17 (che attribuisce alla famiglia quattro compiti generali: “1) la formazione di una comunità di persone; 2) il servizio alla vita; 3) la partecipazione allo sviluppo della società; 4) la partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa”); al pr. 45 (dove si ricorda, con le parole della Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignita¬tis Humanae, 5 del Concilio Vaticano II che “la società, e più specificatamente lo Stato, devono riconoscere che la famiglia è «una società che gode di un diritto proprio e primordiale»”); al pr. 46 (che delinea “la carta dei diritti della famiglia” quale “cellula base della società, soggetto di diritti e doveri prima dello Stato e di qualunque altra comunità”). Queste affermazioni trovano una ulteriore specificazione e una nuova valorizzazione nel concetto di “soggettività della società” quale sviluppata nell’enciclica Centesimus Annus (1991).
trario ai doveri del matrimonio abbia causato l’intollerabilità della convivenza e condotto la coppia coniugale alla separazione: ma è possibile in un’ottica circolare della causalità determinare quale comportamento ne abbia causato un altro?
Il fatto che alla famiglia (soggetto sociale e soggetto psicologico) l’ordinamento giuridico non at¬tribuisca soggettività giuridica, non significa naturalmente che la famiglia non sia oggetto di tutela giuridica. Il punto è tutto qui: la soggettività giuridica non è il presupposto della tutela giuridica. Come dimostra il fatto che gli animali (si passi il paragone del tutto infelice) non hanno certo sog¬gettività giuridica ma sono al tempo stesso oggetto di tutela, anche se troppo spesso solo quando sono… in via di estinzione.
La tutela giuridica della famiglia è al centro del diritto di famiglia e si esprime attraverso la tutela (civile e penale) di tutte le situazioni all’interno delle quali si sviluppano le relazioni tra le persone che qualifichiamo come relazioni familiari. Si pensi al danno endofamiliare e alla vita di relazione. Non esiste un unico modello di famiglia e pertanto l’oggetto della tutela giuridica non è necessa¬riamente un unico modello di famiglia. La tutela giuridica viene troppo spesso scambiata per tutela di un modello familiare. La giurisprudenza, il dibattito tra i giuristi e le riforme normative, come si vedrà, hanno ben messo in evidenza che la tutela della famiglia matrimoniale assicurata dalla Costituzione (art. 29) non impedisce affatto la tutela di tutte le altre forme di vita familiare che la stessa Costituzione all’art. 2 protegge come formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’in¬dividuo. Al giurista spetta di risolvere il problema delle garanzie e non quello della qualificazione degli istituti.
V Il modello costituzionale di famiglia (nucleare) come società naturale fondata sul matrimonio
E’ ineludibile il confronto con il concetto di famiglia ancorato all’istituto del matrimonio come pre¬cisa l’art. 29 della Costituzione, secondo cui “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”.
L’espressione “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia…” (art. 29 Cost.) – con cui indubbia¬mente il costituente intendeva risolvere il problema dei rapporti tra la famiglia e lo Stato – è sem¬pre stata interpretata pacificamente nel senso che la famiglia preesiste allo Stato che ne riconosce i diritti. La famiglia è una società originaria; non è una creazione del diritto. Il legislatore non ha il compito di inventare la famiglia, ma di adattare le regole giuridiche alla famiglia che evolve nel¬la società in trasformazione. I rapporti di famiglia trovano, infatti, essenzialmente nel costume, nella coscienza sociale e nell’ordine interno di ciascuna convivenza familiare i canoni della propria disciplina [A. M. Sandulli, Costituzione, Art. 29, in Commentario al diritto italiano della fa¬miglia, diretto da G. Cian, G. Oppo, A. Trabucchi, Padova, Cedam, 1992, p. 7; C. Grassetti, Famiglia – diritto privato, Nss. D. I. VII, Torino, Utet, 1961, p. 48 ss]. E ciò avviene perché la famiglia è un concetto metagiuridico, appunto una comunità “naturale”, preesistente allo Stato di diritto. Appartenente – si sosteneva con forza allora – più al campo degli affetti che a quello delle regole giuridiche “come un’isola che il mare del diritto può lambire soltanto” [A. C. Jemolo, La famiglia e il diritto, in Annali Catania, III, 1948/49, n. 5, p. 38].
La famiglia che la Repubblica riconosce è quella poi “fondata sul matrimonio”. E’ solo la famiglia legittima che la Costituzione prende in considerazione in una accezione ristretta e quindi nel senso della relazione tra coniugi e tra genitori e figli legittimi [P. Barcellona, Famiglia (diritto civi¬le), in Enciclopedia del diritto, XVI, Giuffrè, Milano, 1967, p. 779 ss] senza naturalmente escludere la piena dignità della filiazione fuori dal matrimonio a cui fa riferimento l’art. 30 che garantisce loro “ogni tutela giuridica e sociale” sia pure “compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima”.
L’espressione “società naturale fondata sul matrimonio” che ha oggettivamente consentito una interpretazione di tipo giusnaturalistico della famiglia e del matrimonio
La tesi della natura esclusivamente matrimoniale della famiglia tutelata dall’art. 29 ha trovato scontate conferme nella dottrina (come emerge nei principali testi sopra richiamati) ed indubbia¬mente la piena dignità della famiglia, secondo il testo costituzionale, sembra essere una preroga¬tiva della sola famiglia fondata sul matrimonio. Con la precisazione già sopra fatta che questo non può certo escludere la tutela di altre forme di aggregazione familiare.
Meno scontata appare, però, la precisazione che la famiglia legittima tutelata dalla Costituzione sarebbe la sola famiglia nucleare ristretta e non quella parentale.
La Corte costituzionale ha tratto questo convincimento dai principi indicati nell’art. 29 e nell’art. 30. Lo ha fatto allorché affrontò alcune questioni di costituzionalità riguardanti la previsione di esclusione della successione dei figli naturali in caso di concorso con ascendenti o discendenti le¬gittimi. In queste occasioni affermò che la “famiglia legittima” è la famiglia ristretta costituita col matrimonio e composta dal coniuge e dai figli legittimi e non da ascendenti o discendenti legittimi (non facenti parte della famiglia). A questa interpretazione condurrebbero, secondo la Corte, il linguaggio o il contenuto tanto delle norme costituzionali quanto della legislazione ordinaria, ol¬treché la stessa sistematica del Codice civile. Infatti nell’art. 29 la garanzia costituzionale copre il gruppo “società naturale” fondato sul matrimonio, quello, cioè, che, nato da tale unione, riposa appunto sulla parità dei coniugi, anche nel governo della famiglia, e sull’unità familiare (secondo comma dello stesso art. 29): parità ed unità che non possono esigersi né ipotizzarsi nei riguardi degli ascendenti o collaterali di chi ha costituito col matrimonio una società naturale. Del resto che solo del coniuge e dei discendenti si sia preoccupato il Costituente risulta anche dall’art. 31, dove la famiglia e i suoi compiti sono quelli che derivano dal matrimonio; risulta inoltre dall’art. 30, comma primo, che riconosce doveri e diritti dei genitori nei confronti dei figli e non nei riguardi dei propri ascendenti o collaterali. Da questo quadro non è verosimile che sia uscito il terzo comma dell’art. 30: anche qui, l’accenno alla famiglia legittima di chi ha figli naturali, evidentemente, non comprende gli ascendenti o i collaterali; poiché si contrappongono i figli nati fuori del matrimonio di lui alla sua famiglia legittima, questa non può essere che il gruppo costituitosi col suo matrimo¬nio (Corte cost. 14 aprile 1969, n. 79; Corte cost. 30 aprile 1973, n. 50; Corte cost. 27 marzo 1974, n. 82).
Perciò, secondo la posizione espressa in queste decisioni dalla Corte costituzionale (tutte prece¬denti alla riforma del 1975 e, in verità, di dubbia attualità), la famiglia fondata sul matrimonio sa¬rebbe solo quella ristretta, con esclusione di ogni riferimento alla parentela allargata (ascendenti, discendenti) e all’affinità.
Il che, però, ammesso che tale conclusione possa essere condivisa, vorrebbe dire soltanto – come giustamente si è fatto notare [F. Cuocolo, Famiglia- Profili costituzionali, Enciclopedia giuri¬dica, Treccani, Roma, 1989] – che la famiglia disciplinata e protetta primariamente dalla Costi¬tuzione sarebbe soltanto la famiglia legittima coniugale, non certo che non abbia alcuna rilevanza costituzionale la famiglia estesa con i rapporti parentali e di affinità che la caratterizzano.
VI Matrimonio e famiglia: due concetti diversi
Nella riflessione che si sta qui facendo sulla famiglia è essenziale la precisazione che matrimonio e famiglia sono due concetti differenti.
Il matrimonio connota solo una delle modalità di accesso alla famiglia, certamente la principale per simbologia, per sacralità (per la religione cattolica) e per frequenza statistica; tuttavia non può essere confuso con essa. Invece nella discussione sul significato della famiglia si compie spesso una indebita sovrapposizione tra i due concetti.
Questa precisazione serve anche a sdrammatizzare il senso di assolutezza che rischia di essere at¬tribuito all’art. 29 della Costituzione che, se lo si legge, nella sua relatività storica sta a significare che il Costituente nell’epoca in cui ebbe ad affermare il concetto di “famiglia fondata sul matrimo¬nio” aveva sostanzialmente presente il dato sociologico di quel tempo; come emerge anche dalla affermazione indubbiamente ragionevole secondo cui “i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere cristallizzati con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi” (Corte cost. 15 aprile 2010, n. 138).
E’ per questo che il principio di indissolubilità è riferito al matrimonio e non alla famiglia. Il ma¬trimonio si può sciogliere (art. 191 c.c.; legge 1° dicembre 1970, n. 898) ma la famiglia non si scioglie di certo. I diritti post-divorzili sono diritti post-matrimoniali e non presuppongono lo scioglimento della famiglia che resta nei suoi legami forti che l’avevano connotata e continuano a connotarla anche dopo la fine del matrimonio.
VII La famiglia nucleare tradizionale e l’abbozzo della famiglia nucleare “parentale” nel codice civile dopo la riforma del 1975
a) la famiglia nucleare tradizionale
La famiglia nucleare tradizionale (genitori e figli) alla quale si ispirava il codice civile del 1942 (il primo libro è tuttavia del 1939) era la risultante dell’impegno con cui il fascismo aveva inteso di¬segnare un nuovo modello gerarchico di famiglia – realizzato soprattutto attraverso la legislazione sociale nella sfera dell’assistenza (nel 1925 nasceva l’Opera nazionale maternità e infanzia) e del lavoro (il riferimento è alle leggi di tutela del lavoro minorile e femminile dei primi anni del secolo, poi risistemate nel 1934, osteggiate dal mondo operaio sul rilievo che anziché favorire l’emancipa¬zione femminile avrebbero facilitato l’espulsione delle donne dal mondo del lavoro) – inquadrato nella politica volta a costruire uno Stato etico e sociale di stampo totalitario nel quale le esigenze individuali erano destinate a piegarsi a quelle dello Stato e dei suoi obiettivi, anche di incremento demografico nel contesto di una politica espansionistica (anche se il numero di figli per famiglia era all’epoca ancora alto: quasi 4 figli per coppia nel ventennio, anche se le famiglie numerose con set¬te o più figli erano solo 2 milioni di un totale di circa nove milioni di famiglie). Nel modello di fami¬glia di quel codice i protagonisti erano la donna madre e l’uomo pater e capo della famiglia. In quel codice, in verità, la protezione dei componenti della famiglia non era rivolta a tutelare i loro diritti individuali ma a tutelare, ciascuno secondo il suo specifico status, i membri di una collettività con¬siderata vitale per il mantenimento dello Stato stesso [sull’evoluzione del concetto giuridico della famiglia è fondamentale V. Pocar – P. Ronfani, La famiglia e il diritto, Laterza, Bari, 1998].
All’epoca la famiglia nucleare aveva una dimensione differenziata: la dimensione media delle fami¬glie operaie urbane era agli inizi degli anni Trenta di poco meno di tre persone, contro una dimen¬sione media della famiglia rurale di sette persone. Le famiglie nucleari numerose erano confinate, quindi, nella campagna. Il codice civile, accogliendo gli spunti della dottrina civilistica di Antonio Cicu [A. Cicu, Il diritto di famiglia. Teoria generale. Roma, 1914, e Forni, Bologna, 1978] era interessato soprattutto a prevedere per la famiglia nucleare una regolazione piramidale a marcata valenza pubblicistica. La filiazione fuori dal matrimonio era illegittima, veniva confermata la potestà maritale e, natural¬mente la patria potestà esclusiva, veniva mantenuta l’indissolubilità del matrimonio, la separazio¬ne era possibile solo per colpa, l’abbandono del tetto coniugale e l’adulterio erano puniti. Insomma la famiglia veniva costruita come un’entità chiusa, ferma e permanente, volta al raggiungimento di scopi economici e affettivi interni ma soprattutto alla realizzazione di finalità esterne e superiori.
Questo modello verticistico entrò in crisi con la Costituzione e fu riformato, come si sa, con la leg¬ge 23 maggio 1975, n. 151 che prendeva atto dei mutamenti dei costumi familiari (nel 1970 era stato introdotto il divorzio) e del nuovo ruolo della donna, anche se gli studiosi ritengono che nella realtà delle famiglie italiane ancora il modello comunitario e solidaristico disegnato dalla riforma non aveva sostituito del tutto quello piramidale e asimmetrico del primo libro del codice. Si trattò quindi di una riforma che ebbe anche una funzione di tipo promozionale più che di adattamento.
La nuova famiglia nucleare del XIX secolo a valenza paritaria ed egalitaria trova con la riforma del 1975 sempre nelle disposizioni del codice civile sul matrimonio e sulla potestà genitoriale (ancorché con i residui della supremazia paterna) il territorio più significativo della nuova disciplina giuridica [M. Bessone, G. Alpa, A. D’Angelo, G. Ferrando, La famiglia nel nuovo diritto. Dai principi della Costituzione alla riforma del codice civile, Zanichelli, Bologna, 1980]. Le norme sul regime primario contributivo e solidaristico (sostanzialmente gli obblighi di fedeltà, coabitazione, assistenza e collaborazione di cui all’art. 143 e il principio dell’accordo di cui all’art. 144), la dispo¬sizione sui doveri verso i figli (art. 147), la maggior parte delle disposizioni sui regimi patrimoniali (art. 159 e seguenti) e le stesse regole della separazione dei coniugi (art. 150 e seguenti e art. 337-bis e seguenti), si riferiscono complessivamente alla famiglia nucleare tradizionale. Questo modello di famiglia è quella a cui il codice dedica la parte più sostanziosa della disciplina legale della famiglia. Il codice civile riformato fa nel suo complesso esclusivo riferimento soprattutto alla fami¬glia fondata sul matrimonio con l’eccezione di qualche nuova disposizione che si riferiva, però, non tanto alla famiglia di fatto quanto ai figli nati fuori dal matrimonio (art. 317-bis nel testo di allora).
Nonostante, però, il generico richiamo nell’intitolazione del primo libro del codice (Delle persone e della famiglia) la famiglia non è mai nominata come tale in nessuna norma del libro medesimo, men¬tre gli unici riferimenti alla “famiglia” – anche dopo la riforma del 1975 – sono contenuti nell’art. 143 (che prescrive ai coniugi il dovere di collaborazione nell’interesse della famiglia e di contribuzione ai bisogni della famiglia), nell’art. 144 (Indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia), nell’art. 145 (che consente al giudice, su richiesta espressa e congiunta dei coniugi, di adottare in caso di disaccordo la soluzione che ritiene più adeguata alle esigenze dell’unità e della vita della famiglia), nel capo VI sul regime patrimoniale della famiglia e, in particolare nel concetto di bisogni della fa¬miglia collegato al fondo patrimoniale. Tutte norme che, collegate alla famiglia legittima, lasciano ritenere che il concetto di famiglia sia effettivamente riferibile alla sola famiglia ristretta del modello costituzionale sopra richiamato della famiglia nucleare matrimoniale ristretta [S. Puleo, Famiglia – Disciplina privatistica: in generale, Enciclopedia giuridica, Treccani, Roma, 1989].
b) La famiglia nucleare “parentale”
Tuttavia, il codice civile – che pure contiene, come si è detto, numerose disposizioni sulla fami¬glia senza però definirne mai i confini – fa qualche significativo riferimento al sistema di relazioni interpersonali di parentela e di affinità che si costituiscono con il matrimonio. Relazioni la cui significatività va oltre il concetto di famiglia che risiede insieme; non bisogna confondere il piano della residenzialità (che definisce la famiglia anagrafica) da quello della significatività, non solo psico-sociale ma anche giuridica, delle relazioni che costituiscono la famiglia.
Insomma pur non esistendo in nessuna parte del codice riformato una precisa definizione giuridica della famiglia, è la famiglia composta dai parenti oltre il primo grado che anche viene presa in con¬siderazione dal legislatore. La nozione di famiglia, insomma, non pare proprio potersi ridurre alla sola famiglia nucleare tradizionale (genitori e figli) anche se per una significatività dei riferimenti alla parentela oltre il primo grado occorrerà attendere decisamente le riforme degli anni Duemila, in particolare quella del 2006 sull’affidamento condiviso, quella del 2012 sulla filiazione e quella del 2016 sulla convivenza di fatto.
Si pensi per esempio alle norme, nel codice riformato nel 1975, sull’impresa familiare. L’art. 230- bis, trattando dell’impresa familiare, afferma che “”si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo” una delimitazione ben più ampia, quindi, di quella, ipotizzata dalla Corte costituzionale nelle decisioni a cui si è fatto sopra riferimento.
Il concetto di famiglia che deriva dalle disposizioni sulla parentela e sull’affinità è quindi ampio nel codice civile riformato del 75 anche se non ancora in modo significativo e non sembra affatto estranea già a quel codice la distinzione tra famiglia nucleare estesa (alla quale indubbiamente si riferisce la rete parentale in linea retta e collaterale e di affinità richiamata da molte disposizioni del codice civile anche in materia successoria) e la famiglia nucleare tradizionale (genitori e figli).
In ogni caso deve prevalere il dato fenomenico che depone nella vita di tutti i giorni per un concetto di famiglia più ampio di quello della sola famiglia nucleare. Scrive a tale proposito Chiara Saraceno nella introduzione alla sua “Sociologia della famiglia” che il termine famiglia è poco specifico; copre una varietà di esperienze e relazioni e ne esclude altre. Nel lessico colloquiale familiare, un marito e una moglie, che insieme danno vita ad una famiglia, possono parlare contemporaneamente della “nostra famiglia”, della “mia famiglia” e della “tua famiglia”, alludendo di volta in volta alla famiglia che fanno insieme alla famiglia di lui e a quella di lei. I “miei”, i “tuoi”, “noi” designano confini, se¬parazioni, ma anche appartenenze, incroci. Tutto ciò non è altro che un indicatore della complessità di relazioni e dimensioni implicite nello spazio della famiglia, dei vincoli e dei confini diversi che lo articolano, che chiedono di essere individuati e distinti.
Il concetto di famiglia è difficilmente enunciabile in senso oggettivo. E’ famiglia sia l’aggregazione nucleare di marito, moglie, spesso ma non necessariamente con figli; sia l’aggregazione estesa comprensiva dei parenti, degli affini. Possiamo perciò riferirci nella disciplina del codice nel suo insieme (comprensivo anche delle norme sulle successioni) alla famiglia nucleare composta dai genitori e dai figlie ma anche del tutto legittimamente alla famiglia più estesa (nucleare parentale) che include gli ascendenti, i discendenti e, per certi versi, anche gli affini.
La famiglia matrimoniale in questo contesto si costituisce con l’unione di marito e moglie, ma cia¬scuno di essi porta nella famiglia il suo ramo parentale.
Secondo l’art. 74 (Parentela), nel testo modificato dall’art. 1, primo comma, della legge 10 dicem¬bre 2012, n. 21, “La parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo…” mentre secondo l’art. 75 (Linee di pa¬rentela) “Sono parenti in linea retta le persone di cui l’una discende dall’altra; in linea collaterale quelle che, pur avendo uno stipite comune, non discendono l’una dall’altra”. Il che comporta che la nozione di famiglia non è collegata affatto alla sola linea retta (ascendenti, discendenti). Il limite della parentela è indicato nell’art. 77 (Limite della parentela) dove si avverte che “La legge non riconosce il vincolo di parentela oltre il sesto grado, salvo che per taluni effetti determinati” tra i quali l’accesso al matrimonio (in cui il vincolo di parentela ostativo è solo fino al quarto grado come tra zii e nipoti: art. 87), ovvero nella legittimazione a chiedere l’interdizione, l’inabilitazione o l’amministrazione di sostegno (in cui il limite ostativo è oltre il quarto grado: art. 417) oppure ancora in materia di alimenti (in cui l’obbligo non esiste oltre i soggetti individuati nell’art. 433) o in materia successoria in cui il coniuge eredita tutto se mancano discendenti, ascendenti o fratelli e sorelle e non altri parenti (art. 583).
Alla famiglia estesa fa riferimento anche l’art. 148 nel testo allora vigente dove si prevede per gli ascendenti l’obbligo di “fornire ai genitori i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli”.
Il concetto esteso di famiglia può riferirsi, però, non solo ai parenti ma, come si è detto, anche agli affini. Ritenere, infatti (ma il tema sembra, in verità, ignorato in dottrina), che la famiglia estesa sia costituita dalla sola rete parentale, è erroneo e certamente riduttivo. I rapporti tra un coniuge e i parenti dell’altro coniuge sono anch’essi vissuti come rapporti di famiglia. Sono relazioni, spesso quotidiane, alle quali le persone danno il significato di relazioni familiari. E alle quali lo stesso codi¬ce civile attribuisce natura di relazioni permeate da obblighi di solidarietà vitale (l’art. 433 include gli affini in linea retta tra le persone reciprocamente obbligate agli alimenti). L’inclusione degli affini all’interno della rete familiare è, quindi, reale e non simbolica. Anche l’art. 230-bis (impresa familiare) colloca, come pienamente gli affini tra i familiari.
Alle relazioni tra il ramo parentale di un coniuge e quello dell’altro coniuge fa riferimento l’art.78 (Affinità) secondo cui, appunto, “L’affinità è il vincolo tra un coniuge e i parenti dell’altro”. Il se¬condo comma precisa che “Nella linea e nel grado in cui taluno è parente di uno dei coniugi, egli è affine dell’altro coniuge” mentre il terzo comma chiarisce che “L’affinità non cessa per la morte, anche senza prole, del coniuge da cui deriva, salvo che per taluni effetti specialmente determinati” (come in materia alimentare dove, secondo l’art. 434 l’obbligo cessa se l’avente diritto agli alimenti contrae nuove nozze o quando il coniuge da cui deriva l’affinità e i figli e i loro discendenti sono morti) mentre invece “Cessa se il matrimonio è dichiarato nullo, salvi gli effetti di cui all’art. 87, n. 4” che prevede il divieto di matrimonio tra affini in linea retta sia in caso di annullamento che in caso di divorzio.
La nozione di famiglia (nucleare “parentale”), quindi, abbozzata nel codice civile, è quella in cui sono considerati familiari i parenti e gli affini (nei limiti sopra indicati). In conclusione, se è cer¬tamente vero che con il codice civile del 1942 si è verificato il passaggio dalla famiglia patriarcale a quello della famiglia nucleare tradizionale, nel codice civile riformato nel 1975 sono contenuti elementi dai quali è possibile desumere che il diritto di famiglia avesse iniziato ad allargare i confini della stessa famiglia nucleare, includendovi decisamente i rapporti parentali con gli ascendenti e i rapporti con gli affini. Saranno le riforme degli anni Duemila a dare il colpo decisivo per l’allarga¬mento del concetti di famiglia anche alle più ampie relazioni parentali.
Naturalmente – si ripete – occorre tener ben distinto il piano anagrafico (cioè la comune residenza dei familiari) dal piano della significatività delle relazioni familiari in cui consiste il nuovo concetto di famiglia nucleare “parentale”.
VIII I prossimi congiunti nel codice penale
Anche il codice penale definisce la famiglia indicandone i confini rilevanti e includendovi parenti e affini. Lo fa con il concetto – anch’esso molto ampio – di prossimi congiunti che, secondo poi la definizione, non sono per niente prossimi. Sono prossimi congiunti agli effetti della legge penale, infatti – afferma il secondo comma dell’art. 307 – “gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti: nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole”.
La norma serve ad individuare i soggetti considerati non punibili a determinate condizioni ancorché abbiano commesso gravi comportamenti quali l’assistenza ai partecipi di cospirazione e di banda armata (art. 307), alcuni delitti contro l’attività giudiziaria (art. 384) e determinati delitti contro l’ordine pubblico (art. 418).
La nozione coincide solo in parte con quella cui fa riferimento la rete parentale e di affinità richia¬mata nel codice civile (dove sono parenti tra loro non solo zii e nipoti ma anche i figli dei cugini e dove il vincolo di affinità sopravvive alla morte del coniuge da cui deriva) ma è ugualmente sinto¬matica di una concezione della famiglia allargata alla quale in fondo sia il codice civile che il codice penale si richiamano.
Più ristretta è la nozione di familiari accolta nell’art. 649 per indicare i casi di non punibilità di reati contro il patrimonio commessi senza minaccia o violenza alle persone a danno di congiunti. Qui i familiari presi in considerazione sono soltanto il coniuge, gli ascendenti e i discendenti, i fratelli e le sorelle.
Il codice di procedura penale integra in talune situazioni la definizione aggiungendo alla cerchia dei prossimi congiunti anche le persone legate da relazione affettiva stabilmente conviventi (art. 90 c.p.p, che indica chi può esercitare i diritti della persona offesa deceduta e art. 96 che indica chi può nominare il difensore di fiducia all’arrestato o al fermato finché questi non vi abbia prov¬veduto) ovvero, limitatamente ai fatti appresi durante la convivenza, oltre al convivente di fatto anche alle persone nei cui confronti è intervenuta la separazione o sentenza di divorzio (art. 199 che indica la facoltà di astensione dalla testimonianza dei prossimi congiunti).
IX La famiglia dopo la riforma dell’affidamento condiviso
E’ veramente singolare, e forse paradossale, che uno dei primi passi più significativi in direzione di un allargamento del concetto contemporaneo di famiglia, provenga da una riforma che tratta il tema della separazione dei coniugi.
Il codice civile come riformato nel 1975 prevedeva nel vecchio art. 155 (Provvedimenti riguardo ai figli) che “Il giudice che pronunzia la separazione dichiara a quale dei coniugi i figli sono affidati e adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole, con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. In particolare il giudice stabilisce la misura e il modo con cui l’altro coniuge deve contribuire al mantenimento, all’istruzione e all’educazione dei figli, nonché le modalità di esercizio dei suoi diritti nei rapporti con essi. Il coniuge cui sono affidati i figli, salva diversa disposizione del giudice, ha l’esercizio esclusivo della potestà su di essi; egli deve attenersi alle condizioni determi¬nate dal giudice. Salvo che sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i coniugi. Il coniuge cui i figli non siano affidati ha il diritto e il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse”. Nessun accenno, come si vede, al ramo parentale dei genitori.
Per oltre trent’anni queste regole (basate sostanzialmente sull’affidamento monogenitoriale) han¬no costituito la base normativa di riferimento della dottrina e della giurisprudenza nell’elaborazione del pensiero giuridico in materia di affidamento dei figli minori in sede di separazione e divorzio, anche se occorre segnalare, doverosamente, l’intervento continuo della giurisprudenza sul ver¬sante della necessaria tutela del rapporto tra nonni e nipoti (per esempio Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 2007, n. 24423 secondo cui i nonni, ai quali è impedita dai genitori la frequentazione del nipote minorenne, possono adire il giudice minorile per ottenere un provvedimento ai sensi dell’art. 333 c.c., che consenta loro di incontrare il nipote e, sebbene il provvedimento giurisdizio¬nale “innominato” non possa imporre serenità di rapporti del minore con i propri parenti, è compito del giudice minorile intervenire al fine di garantire, nell’interesse del minore, serenità ed equilibrio in detti rapporti).
Una prima significativa incrinatura dell’affidamento “monogenitoriale” si determinò nel 1987 in seguito all’introduzione – avvenuta con una modifica introdotta nella normativa sul divorzio dalla legge 6 marzo 1987, n. 74 – dell’affidamento congiunto (joint custody) non meglio precisato nel suo significato innovativo. Si legge nel secondo comma dell’art. 6 della legge 898/70 semplice¬mente che “Ove il tribunale lo ritenga utile all’interesse dei minori, anche in relazione all’età degli stessi, può essere disposto l’affidamento congiunto o alternato”.
Fu, però, solo la riforma del 2006 sull’affidamento condiviso (legge 8 febbraio 2006, n. 54 intito¬lata Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli) che deter¬minò una decisa inversione di rotta e una vera e propria operazione culturale di risistemazione dei concetti di fondo in materia di affidamento dei figli. L’impianto della riforma è piuttosto chiaro nella previsione dell’obiettivo della tutela non solo della bigenitorialità ma anche della parentalità. La riforma ribaltava il precedente regime introducendo l’affidamento condiviso come regola ordinaria in caso di separazione dei coniugi e di divorzio. Il principio esplicitato in apertura della riforma è che “il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi” con l’ulteriore precisazione, veramente nuova da un punto di vista normativo (ma non certo giurisprudenziale) che tra i diritti del figlio minore vi è anche quello “di conservare rapporti significativi con gli ascen¬denti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale” (art. 155, comma 1, c.c.).
L’allargamento dei diritti del minore al diritto di conservare rapporti significativi con “gli ascenden¬ti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale” comporta l’allargamento dei confini della famiglia significativa anche oltre il modello della famiglia nucleare tradizionale (genitori e figli). Un primo passo verso l’avvicinamento al concetto di famiglia nucleare “parentale” che sarà operato con le successive riforme degli anni Duemila.
X La famiglia dopo la parificazione dei figli con la riforma del 2012
La riforma più significativa operata dopo il 1975 nell’ambito del diritto di famiglia è certamente quella sulla filiazione che si deve alla legge 10 dicembre 2012, n. 219 e al Decreto Legislativo di attuazione 28 dicembre 2013, n. 154.
Non si può non riconoscere che questa riforma – il cui obiettivo è stata la parificazione dello status di tutti i figli – avendo completamente riformulato le norme sulla responsabilità genitoriale e sui diritti e doveri del figlio (titolo IX del primo libro del codice civile) ha indubbiamente rimodellato lo stesso concetto di famiglia estendendone il significato anche e quella non matrimoniale. Secondo il nuovo art. 315 del codice civile (Stato giuridico della filiazione) “Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico” e secondo il nuovo art. 315-bis (Diritti e doveri del figlio) “Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti…”.
Il diritto al rapporto con i parenti – che la riforma del 2006 sull’affidamento condiviso aveva ricono¬sciuto nella sola condizione di separazione e divorzio dei genitori – diventa uno dei diritti principali del figlio come tale.
Ed anzi diventa un diritto degli stessi ascendenti, sempre (fatto di straordinaria importanza) anche al di fuori della condizione di separazione e divorzio. Il nuovo art. 317-bis (Rapporti con gli ascendenti) afferma che “Gli ascendenti hanno diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni. L’ascendente al quale è impedito l’esercizio di tale diritto può ricorrere al giudice del luogo di residenza abituale del minore affinché siano adottati i provvedimenti più idonei nell’e¬sclusivo interesse del minore”.
Di fondamentale significato è anche il nuovo testo dell’art. 258 del codice civile in base al quale un tempo il riconoscimento non poteva produrre effetti se non nei confronti del genitore o dei genitori che lo avevano effettuato e non i rispettivi parenti. Il nuovo testo dell’art. 258 afferma dopo la riforma del 2012 che “Il riconoscimento produce effetti riguardo al genitore da cui fu fatto e riguardo ai parenti di esso” includendo pertanto anche i parenti del genitore nella rete parentale del figlio riconosciuto fuori dal matrimonio.
Ed inoltre, il nuovo art. 316 (Responsabilità genitoriale) affermando anche che “Il genitore che ha riconosciuto il figlio esercita la responsabilità genitoriale su di lui. Se il riconoscimento del figlio, nato fuori del matrimonio, è fatto dai genitori, l’esercizio della responsabilità genitoriale spetta ad entrambi”, estende il concetto di famiglia anche oltre il più ristretto ambito della coabitazione, chiamando alle responsabilità genitoriali pure il genitore che non convive o, addirittura, che non ha mai convissuto con il figlio.
Se per i figli non vi sono, quindi, distinzioni ammissibili nello stato giuridico, neanche per il concet¬to di famiglia (a cui si accede con la nascita) saranno accettabili distinzioni o classificazioni.
XI Le unioni civili: formazione sociale o famiglia?
a) L’unione civile non è matrimonio
Molto dibattuto è il problema della inclusione o meno nel concetto di famiglia delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e delle convivenze di fatto, dopo la riforma del 2016 appunto sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto (legge 20 maggio 2016, n. 76).
La legge non ha previsto la possibilità del matrimonio tra persone dello stesso sesso ma ha istitu¬ito “l’unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione” (art. 1, comma 1).
Ancora una volta, sovrapponendo due piani diversi (e ritenendo famiglia solo quella fondata sul matrimonio), il legislatore, per evitare l’assimilazione formale al matrimonio, definisce il regime primario dell’unione civile non con riferimento alle norme che indicano il regime primario del ma¬trimonio (sostanzialmente gli articoli 143 e 144 c.c.), ma attraverso l’indicazione dei diritti e dei doveri che le parti assumono allorché costituiscono l’unione civile. Il comma 11 dell’art. 1 precisa che “Con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stes¬si diritti e assumono i medesimi doveri; dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni” evitando accuratamente di utilizzare il concetto di “bisogni della famiglia” richiamato per i coniugi nell’art. 143 del codice civile. Tuttavia il comma 12 recupera, verosimilmente senza volerlo, il concetto di famiglia prescrivendo che “le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato”.
Rispetto al testo dell’art. 143 c.c. scompare il riferimento al dovere di fedeltà (soppresso nel corso dell’esame in Assemblea al Senato) e al dovere di collaborazione nell’interesse della famiglia, rite¬nuti evidentemente dal legislatore eccessivamente sovrapponibili ai doveri matrimoniali.
Il comma 20 dell’art. 1 dopo aver prescritto che “Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «co¬niuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso” precisa, però, che questa disposizione “non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella pre¬sente legge…”.
Così per esempio non trova applicazione la norma di cui all’art. 78 del codice civile sull’affinità – non richiamata espressamente dalla nuova legge – e pertanto il partner dell’unione civile non è affine dei parenti dell’altro. La coppia che forma l’unione civile è destinata a rimanere coppia e non nucleo familiare allargato.
b) La posizione della corte costituzionale: l’unione civile tra persone dello stesso sesso è una formazione sociale
Nella legge si parla di “unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione”, Espressamente non si parla, quindi, di famiglia. Il legislatore ha scelto di non prevedere la possibilità del matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma di considerare l’unione registrata una formazione sociale alla quale assicurare tutela giuridica ai sensi dell’art. 2 2e dell’art. 3 3 della Costituzione così evitando possibili obiezioni di costituzionalità del sistema e al tempo stesso rispondendo, però, alle ripetute esortazioni della stessa Corte costituzionale a garantire alle coppie dello stesso sesso dignità giuridica non deteriore rispetto a quella che l’ordinamento garantisce ai coniugi.
La posizione della Corte costituzionale sui problemi giuridici posti dall’aspirazione delle coppie omosessuali al matrimonio è contenuta soprattutto in due sentenze che disegnano le coordinate fondamentali per comprendere le motivazioni della scelta del legislatore di affidare alle unioni ci¬vili la funzione di tutela dei legami familiari tra persone dello stesso sesso anziché ammettere al matrimonio tali coppie.
Decisiva è l’impostazione della prima sentenza e cioè Corte cost. 15 aprile 2010, n. 138 chia¬mata a pronunciarsi sulla questione di legittimità del rifiuto dell’ufficiale di stato civile di effettuare le pubblicazioni di matrimonio richieste da persone dello stesso sesso. Le questioni erano state sollevate da un’ordinanza del Tribunale di Venezia e da un’altra ordinanza della Corte d’appello di Trento. La Corte esamina la questione di costituzionalità a) sotto il profilo della eventuale vio¬lazione dell’art. 2 della Costituzione; b) sotto il profilo della eventuale violazione degli articoli 3 e 29 della Costituzione; c) sotto il profilo della eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione nella parte in cui prevede il rispetto da parte del legislatore dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
In riferimento all’art. 2 della Costituzione la Corte dichiara inammissibile la questione “perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata” e condivide il punto di vista da cui muovono le due ordinanze e cioè che “l’istituto del matrimonio civile, come previsto nel vigente ordinamento italiano, si riferisce soltanto all’unione stabile tra un uomo e una donna. E’ l’intera disciplina dell’istituto, contenuta nel codice civile e nella legislazione speciale, che po¬stula la diversità di sesso dei coniugi, nel quadro di una consolidata ed ultra millenaria nozione di matrimonio.
Ferme le considerazioni che precedono – afferma la Corte – si deve dunque stabilire se l’art. 2 del¬la Costituzione imponga di pervenire ad una declaratoria d’illegittimità della normativa censurata estendendo alle unioni omosessuali la disciplina del matrimonio civile, in guisa da colmare il vuoto conseguente al fatto che il legislatore non si è posto il problema del matrimonio omosessuale.
Per “formazione sociale” secondo l’art. 2 della Costituzione – si precisa nella sentenza – deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello plurali¬stico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il ricono¬scimento giuridico con i connessi diritti e doveri. Si deve escludere, tuttavia, che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. È sufficiente l’esame, anche non esau¬
2 Art. 2 Cost. “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle for¬mazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
3 Art. 3 Cost. “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
stivo, delle legislazioni dei Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette per verificare la diversità delle scelte operate.
Ne deriva, dunque, che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 della Costituzione spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tu¬tela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988). Può accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontra¬bile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza.
Con riferimento agli articoli 3 e 29 della Costituzione la Corte dichiara la questione non fonda¬ta. Occorre – afferma in proposito la Corte – prendere le mosse, per ragioni di ordine logico, da quest’ultima disposizione. Essa stabilisce, nel primo comma, che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», e nel secondo comma aggiunge che «Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare». La norma, che ha dato luogo ad un vivace confronto dot¬trinale tuttora aperto, pone il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, definita “società naturale” (con tale espressione, come si desume dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente, si volle sottolineare che la famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere).
Ciò posto, è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi. Detta inter¬pretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata.
La seconda sentenza che è significativo richiamare è Corte cost. 11 giugno 2014, n. 170 nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), promosso dalla Corte di cassazione.
Si trattava di un procedimento promosso da una coppia sposata per ottenere la cancellazione della annotazione di «cessazione degli effetti del vincolo civile del matrimonio», che l’ufficiale di stato civile aveva apposto in calce all’atto di matrimonio, contestualmente all’annotazione, su ordine del Tribunale, della rettifica (da “maschile” a “femminile”) del sesso del marito. La Corte di cas¬sazione – adita in sede di impugnazione avverso il decreto della Corte di Appello di Bologna che, in riforma della statuizione di primo grado, aveva respinto la domanda dei ricorrenti – sollevava sostanzialmente la questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli articoli 2 e 29 della Costituzione, «dell’art. 4 della legge n. 164 del 1982 nella parte in cui dispone che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso provoca l’automatica cessazione degli effetti civili conseguen¬ti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso senza la necessità di una domanda e di una pronuncia giudiziale2) «degli artt. 2 e 4 della l. n. 164 del 1982 con riferimento al para¬metro costituzionale dell’art. 24 della Costituzione nella parte in cui prevedono la notificazione del ricorso per rettificazione di attribuzione di sesso all’altro coniuge, senza riconoscere a quest’ultimo il diritto di opporsi allo scioglimento del vincolo coniugale nel giudizio in questione, né di esercitare il medesimo potere in altro giudizio, essendo esclusa la necessità di una pronuncia giudiziale dalla produzione ex lege dell’effetto solutorio in virtù del passaggio in giudicato della sentenza di retti-ficazione di attribuzione di sesso»;
La questione viene ritenuta fondata. Afferma la Corte che la situazione (sul piano fattuale innega¬bilmente infrequente, ma che, nella vicenda al centro del giudizio principale, si è comunque veri¬ficata) di due coniugi che, nonostante la rettificazione dell’attribuzione di sesso ottenuta da uno di essi, intendano non interrompere la loro vita di coppia, si pone, evidentemente, fuori dal modello del matrimonio – che, con il venir meno del requisito, per il nostro ordinamento essenziale, della eterosessualità, non può proseguire come tale – ma non è neppure semplicisticamente equipara¬bile ad una unione di soggetti dello stesso sesso, poiché ciò equivarrebbe a cancellare, sul piano giuridico, un pregresso vissuto, nel cui contesto quella coppia ha maturato reciproci diritti e doveri, anche di rilievo costituzionale, che, seppur non più declinabili all’interno del modello matrimoniale, non sono, per ciò solo, tutti necessariamente sacrificabili.
Il parametro costituzionale di riferimento per una corretta valutazione della peculiare fattispecie in esame – in relazione ai prospettati quesiti sulla legittimità della disciplina, correttamente indi¬viduata dalla Corte di cassazione negli artt. 2 e 4 della Legge n. 164 del 1982, che la risolvono in termini di divorzio automatico – non è dunque quello dell’art. 29 Cost. invocato in via principale dallo stesso collegio rimettente, poiché, come già sottolineato da questa Corte, la nozione di ma¬trimonio presupposta dal Costituente (cui conferisce tutela il citato art. 29 Cost.) è quella stessa definita dal codice civile del 1942, che «stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero es¬sere persone di sesso diverso» (sentenza n. 138 del 2010). Il che comporta che anche a colui (o colei) che cambia il proprio sesso non resta impedito di formare una famiglia, contraendo nuovo matrimonio con persona di sesso diverso da quello da lui (o lei) acquisito per rettifica.
Non pertinente è anche il riferimento agli artt. 8 (sul diritto al rispetto della vita familiare) e 12 (sul diritto di sposarsi e formare una famiglia) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (H. contro Finlandia – decisione del 13 novembre 2012; Schalk and Kopf contro Austria – decisione del 22 novembre 2010), invocati come norme interposte, ai sensi della denunciata violazione degli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost. E ciò perché, in assenza di un consenso tra i vari Stati nazionali sul tema delle unio¬ni omosessuali, la Corte EDU, sul presupposto del margine di apprezzamento conseguentemente loro riconosciuto, afferma essere riservate alla discrezionalità del legislatore nazionale le eventuali forme di tutela per le coppie di soggetti appartenenti al medesimo sesso.
La stessa sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo Schalk and Kopf contro Austria, citata nell’ordinanza di rimessione, nel ritenere possibile una interpretazione estensiva dell’art. 12 della CEDU nel senso della riferibilità del diritto di contrarre matrimonio anche alle coppie omosessuali, chiarisce come non derivi da una siffatta interpretazione una norma impositiva, di una tale esten¬sione, per gli Stati membri.
Neppure sussiste, nei termini della sua prospettazione, il contrasto della normativa denunciata con i precetti di cui agli articoli 24 e 3 della Costituzione. Quanto al primo parametro, perché non essendo, per quanto detto, configurabile un diritto della coppia non più eterosessuale a rimanere unita nel vincolo del matrimonio, non ne è, di conseguenza, ipotizzabile alcun vulnus sul piano della difesa. E quanto al parametro dell’art. 3 della Costituzione, poiché la diversità della peculiare fattispecie di scioglimento a causa di mutamento del sesso di uno dei coniugi rispetto alle altre cause di scioglimento del matrimonio ne giustifica la differente disciplina.
Pertinente – conclude la Corte – è invece, il riferimento al precetto dell’art. 2 della Costituzione. Al riguardo questa Corte ha già avuto modo di affermare, nella richiamata sentenza n. 138 del 2010, che nella nozione di “formazione sociale” – nel quadro della quale l’art. 2 della Costituzione dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo – «è da annoverare anche l’u¬nione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». In quella stessa sentenza è stato, però, anche precisato doversi «escludere […] che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio», come confermato, del resto, dalla diversità delle scelte operate dai Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette.
Dal che la conclusione, per un verso, che «nell’ambito applicativo dell’art. 2 della Costituzione, spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette», e, per altro verso, che resta, però, comunque, «ri¬servata alla Corte costituzionale la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni», nel quadro di un controllo di ragionevolezza della rispettiva disciplina.
Sulla linea dei principi enunciati nella riferita sentenza, è innegabile che la condizione dei coniugi che intendano proseguire nella loro vita di coppia, pur dopo la modifica dei caratteri sessuali di uno di essi, con conseguente rettificazione anagrafica, sia riconducibile a quella categoria di si¬tuazioni “specifiche” e “particolari” di coppie dello stesso sesso, con riguardo alle quali ricorrono i presupposti per un intervento di questa Corte per il profilo, appunto, di un controllo di adeguatezza e proporzionalità della disciplina adottata dal legislatore. La fattispecie peculiare che viene qui in considerazione coinvolge, infatti, da un lato, l’interesse dello Stato a non modificare il modello ete¬rosessuale del matrimonio (e a non consentirne, quindi, la prosecuzione, una volta venuto meno il requisito essenziale della diversità di sesso dei coniugi) e, dall’altro lato, l’interesse della coppia, attraversata da una vicenda di rettificazione di sesso, a che l’esercizio della libertà di scelta com¬piuta dall’un coniuge con il consenso dell’altro, relativamente ad un tal significativo aspetto della identità personale, non sia eccessivamente penalizzato con il sacrificio integrale della dimensione giuridica del preesistente rapporto, che essa vorrebbe, viceversa, mantenere in essere.
La normativa – della cui legittimità dubita la Corte rimettente – risolve un tale contrasto di interessi in termini di tutela esclusiva di quello statuale alla non modificazione dei caratteri fondamentali dell’istituto del matrimonio, restando chiusa ad ogni qualsiasi, pur possibile, forma di suo bilancia¬mento con gli interessi della coppia, non più eterosessuale, ma che, in ragione del pregresso vissu¬to nel contesto di un regolare matrimonio, reclama di essere, comunque, tutelata come «forma di comunità», connotata dalla «stabile convivenza tra due persone», «idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione» (sentenza n. 138 del 2010).
Sta in ciò, dunque, la ragione del vulnus che, per il profilo in esame, le disposizioni sottoposte al vaglio di costituzionalità arrecano al precetto dell’art. 2 della Costituzione. Tuttavia, non ne è pos¬sibile la reductio ad legitimitatem mediante una pronuncia manipolativa, che sostituisca il divorzio automatico con un divorzio a domanda, poiché ciò equivarrebbe a rendere possibile il perdurare del vincolo matrimoniale tra soggetti del medesimo sesso, in contrasto con l’art. 29 della Costituzione Sarà, quindi, compito del legislatore introdurre una forma alternativa (e diversa dal matrimonio) che consenta ai due coniugi di evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica ad una condizione, su tal piano, di assoluta indeterminatezza. E tal compito il legislatore è chiamato ad assolvere con la massima sollecitudine per superare la rilevata condizione di illegittimità della disciplina in esame per il profilo dell’attuale deficit di tutela dei diritti dei soggetti in essa coinvolti.
Va, pertanto, dichiarata – in accoglimento, per quanto di ragione, delle sollevate questioni – l’ille¬gittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982 n. 164, con riferimento all’art. 2 della Costituzione nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzio¬ne di sesso di uno dei coniugi, che comporta lo scioglimento del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, la cui disciplina rimane demandata alla discrezionalità di scelta del legislatore.
c) La posizione della Corte europea dei diritti dell’uomo: la convivenza omosessuale co¬stituisce “vita familiare”
L’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo è stato espresso con la sentenza Corte Europea dei diritti dell’uomo, 24 giugno 2010 (Prima Sezione, caso Schalk e Kopf contro Austria), di poco successiva a quella della Corte costituzionale n. 138/2010, la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha affrontato – per la prima volta – la questione se due persone dello stesso sesso “possono affermare di avere il diritto di contrarre matrimonio” (p.50).
Il caso trattato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo riguardava due cittadini austriaci di sesso maschile che avevano chiesto all’ufficio dello stato civile di adempiere le formalità richieste per contrarre matrimonio e, a fronte del rigetto della richiesta, avevano dedotto di essere stati discri¬minati in quanto, essendo una coppia omosessuale era stata loro negata la possibilità di contrarre matrimonio o di far riconoscere la loro relazione dalla legge in altro modo, in violazione della Con¬venzione europea dei diritti dell’uomo, nello specifico degli artt. 12 (Diritto al matrimonio: “Uomini e donne, in età matrimoniale, hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto”) e 14 (Divieto di discriminazione: “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione”).
La Corte ha ritenuto che non vi è stata violazione né dell’art. 12 né dell’art. 14 della Convenzione.
Nonostante il dispositivo di rigetto delle richieste dei ricorrenti, la sentenza contiene importanti novità sull’interpretazione sia dell’art. 12 sia dell’art. 14 della Convenzione.
a) In particolare quanto all’interpretazione dell’art. 12 (diritto al matrimonio) – dopo aver ram¬mentato la propria consolidata giurisprudenza, secondo cui “l’articolo 12 garantisce il diritto fon¬damentale di un uomo e di una donna di contrarre matrimonio e di fondare una famiglia” la Corte afferma che l’esercizio di questo diritto è soggetto alle leggi nazionali degli Stati contraenti, anche se le limitazioni introdotte in merito non devono limitare o ridurre il diritto in modo o in misura tale da minare l’essenza stessa del diritto” e che si deve tenere conto del contesto storico in cui è stata adottata la Convenzione. Nel 1950 il matrimonio era inteso chiaramente nel senso tradizionale di unione tra partners di sesso diverso”. La Corte non ritiene, perciò, che l’articolo 12 debba essere letto come necessariamente concedente alle coppie omosessuali l’accesso al matrimonio o, in altre parole, come facente obbligo agli Stati membri di prevedere tale accesso nelle loro legislazioni nazionali. A tale riguardo la Corte osserva che il matrimonio ha connotazioni sociali e culturali radicate che possono differire molto da una società all’altra ed afferma di non doversi spingere a sostituire l’opinione delle autorità nazionali con la propria, dato che esse si trovano in una posizio¬ne migliore per valutare e rispondere alle esigenze della società. In conclusione, la Corte ritiene che “l’art. 12 della Convenzione non obbliga uno Stato a concedere l’accesso al matrimonio a una coppia omosessuale”.
b) Quanto all’interpretazione dell’art. 14 (divieto di discriminazione) la Corte afferma che: “E’ in¬discusso che la relazione di una coppia omosessuale rientri nella nozione di vita privata nell’acce¬zione dell’articolo 8. Tuttavia la Corte ribadisce la sua giurisprudenza radicata in materia di coppie eterosessuali, vale a dire che la nozione di famiglia in base a questa disposizione non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio e può comprendere altri legami familiari di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo del matrimonio”.
La Corte osserva che dal 2001 ha avuto luogo in molti Stati Membri una rapida evoluzione degli atteggiamenti sociali nei confronti delle coppie omosessuali. A partire da quel momento un note¬vole numero di Stati Membri ha concesso il riconoscimento giuridico alle coppie omosessuali. Certe disposizioni del diritto dell’Unione Europea riflettono anche una crescente tendenza a comprendere le coppie omosessuali nella nozione di famiglia” ma è pretestuoso sostenere l’opinione che, a diffe¬renza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della vita familiare ai fini dell’articolo 8. Conseguentemente la stabile relazione di convivenza omosessuale, rientra nella nozione di vita familiare, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eteroses¬suale nella stessa situazione.
La prima indicazione importante attiene appunto alla questione se il diritto al matrimonio, ricono¬sciuto dall’art. 12 della Convenzione, comprenda anche il diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso. La risposta della Corte non lascia adito a dubbi: “Visto l’art. 9 della Carta la Corte non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all’articolo 12 debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto. Conseguentemente non si può affermare che l’art. 12 sia inapplicabile alla doglianza dei ricorrenti. Tuttavia la “garanzia” del diritto ad un matrimonio siffatto è totalmente riservata al potere legislativo degli Stati contraenti della Convenzione e/o membri dell’Unione Europea ed è proprio per questa ragione che la Corte ha potuto affermare che, nel caso sottopostole, “l’art. 12 della Convenzione non faccia obbligo allo Stato convenuto nella specie, l’Austria di concedere l’accesso al matrimonio a una coppia omosessuale come i ricorrenti”.
Corrispondentemente, l’art. 9 della Carta riconosce “il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia”, ma al contempo afferma che questi diritti “sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”. E la ragione di questa “separazione” – come emerge nitidamente dalla motivazione della sentenza della Corte Europea – sta nella constatazione delle notevoli ed a volte profonde differenze sociali, culturali e giuridiche, che ancora connotano le discipline legislative del¬la famiglia e del matrimonio dei Paesi aderenti alla Convenzione e/o membri dell’Unione Europea.
La seconda indicazione importante attiene alla questione se la relazione di una coppia omosessuale rientri nella nozione di “vita familiare” nell’accezione dell’art. 8 della Convenzione. Qui la rispo¬sta della Corte è chiarissima: “Data quest’evoluzione sociale e giuridica la Corte ritiene artificiale (pretestuoso) sostenere l’opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omo¬sessuale non possa godere della vita familiare ai fini dell’art. 8. Conseguentemente la relazione dei ricorrenti, una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra nella nozione di vita familiare, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione”.
Pertanto la Corte europea da un lato afferma che non esiste un obbligo per gli Stati di prevedere il matrimonio tra persone dello stesso sesso e dall’altro, però, afferma chiaramente che due persone dello stesso sesso hanno diritto ad una regolamentazione e ad una tutela giuridica della loro vita privata familiare.
XII La famiglia di fatto dopo la riforma del 2016
La legge 20 maggio 2016, n. 76 ha regolamentato oltre alle unioni civili tra persone dello stesso sesso, anche le convivenze di fatto (espressione che il legislatore ha scelto di utilizzare al posto di quella di “famiglia di fatto”)
Secondo l’art. 1, comma 36, della legge “Ai fini delle disposizioni di cui ai commi da 37 a 67 si intendono per: «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affet¬tivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.
Il comma 37 prevede poi che “Ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’articolo 4 e alla lettera b), comma 1, dell’articolo 13 del regolamento di cui al decreto del Pre¬sidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223”.
La convivenza di fatto (e cioè la “famiglia di fatto”) è stata al centro negli ultimi decenni di una progressiva attribuzione di rilevanza giuridica come formazione sociale (art. 2 Cost.) all’interno della quale vanno garantiti doveri di solidarietà familiare e diritti fondamentali della persona. È af¬fermazione ormai assolutamente pacifica che l’art. 2 della Costituzione e l’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo tutelano il diritto alla vita familiare non limitatamente alle relazioni basate sul matrimonio.
Nella stessa legislazione, ancorché in maniera disorganica, sono nel tempo emersi segnali sempre più significativi, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto. Sotto tale profilo pos¬sono essere per esempio richiamate in primo luogo la riforma della filiazione operata con legge 10 dicembre 2012, n. 219, con cui è stata abolita ogni residua discriminazione tra figli “legittimi” e “naturali”; la legge 8 febbraio 2006, n. 54, che, introducendo l’affidamento condiviso dei figli in sede separazione e divorzio, ha esteso la relativa disciplina ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati; la 1egge 19 febbraio 2004, n. 40, che all’art. 5 prevede l’accesso alle tec¬niche di fecondazione assistita da parte delle coppie di fatto; la legge 9 gennaio 2004, n. 6, che, in relazione ai criteri, di cui all’art. 408 c.c., per la scelta dell’amministratore di sostegno, prevede anche che la stessa cada sulla persona stabilmente convivente con il beneficiario, nonché, all’art. 5, prevede, in relazione all’art. 417 c.c., che l’interdizione e l’inabilitazione siano promosse dalla persona stabilmente convivente; la legge 4 aprile 2001, n. 154, che ha introdotto nel codice civile gli artt. 342-bis e 342-ter, estendendo al convivente il regime di protezione contro gli abusi familia¬ri; la legge 28 marzo 2001, n. 149, art. 7, che, sostituendo l’art. 6, comma 4, della legge 4 maggio 1983, n. 184, ha previsto che il requisito della stabilità della coppia di adottanti risulti soddisfatto anche quando costoro abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni.
La Corte costituzionale già negli anni Ottanta aveva affermato espressamente che l’art. 2 della Co-stituzione è riferibile “anche alle convivenze di fatto, purché caratterizzate da un grado accertato di stabilità” (Corte cost., 18 novembre 1986, n. 237).
Anche nella giurisprudenza di legittimità si rinvengono significative pronunce in cui la convivenza di fatto (more uxorio) assume il rilievo di formazione sociale dalla quale scaturiscono doveri di natura sociale e morale di ciascun convivente nei confronti dell’altro, da cui discendono, sotto vari aspetti, conseguenze di natura giuridica.
Tra le tante si evidenziano, nel solco di un più ampio riconoscimento delle posizioni soggettive sotto il profilo risarcitorio, l’affermazione della responsabilità aquiliana sia nei rapporti interni alla convivenza (Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2005, n. 9801; Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2013, n. 15481), sia nelle lesioni arrecate da terzi al rapporto nascente da un’unione stabile e duratura (Cass. iv. Sez. III, 21 marzo 2013, n. 7128 ; Cass. civ. Sez. III, 16 settembre 2008, n. 23725). In altre pronunce si è attribuita rilevanza alla convivenza intrapresa dal coniuge separato o divorziato ai fini dell’assegno di mantenimento o di quello di divorzio (Cass. civ. Sez. 1, 11 agosto 2011, n. 17195 ; Cass. civ. Sez. 1, 12 marzo 2012, n. 3923; Cass. civ. Sez. I, 18 novembre 2013, n. 25845; ancora, muovendo dal rapporto di detenzione qualificata dell’unita abitativa, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare, si è affermato che l’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del con¬vivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio (Cass. civ. Sez. II, 21 marzo 2013, n. 7214).
La convivenza di fatto “stabile”, nei limiti indicati nel comma 36, determina ipso iure, l’applicazione dello statuto giuridico previsto dalla nuova legge.
Occorre fare una precisazione sull’elemento della convivenza. Innanzitutto la convivenza di fatto (il vivere insieme stabilmente), ancorché per motivi diversi possa naturalmente non essere con¬tinuativa, costituisce un elemento imprescindibile, sebbene naturalmente il legislatore non abbia previsto – né avrebbe certamente potuto prevedere – che alla decisione di vivere insieme possa conseguire un obbligo di coabitazione, simmetricamente a quanto previsto per l’obbligo di coabita¬zione coniugale o nell’unione civile. Pur non avendo un obbligo di coabitazione, tuttavia i conviventi ai quali si applica la nuova legge sono quelli che coabitano insieme e cioè che hanno una medesima dimora abituale nello stesso Comune come chiarisce bene il comma 37. L’elemento della necessa¬ria coabitazione emerge anche da quanto previsto nell’art. 4 del regolamento anagrafico (DPR 30 maggio 1989, n. 223 come modificato dal DPR 17 luglio 2015, n. 126) dove si precisa, come me¬glio si dirà tra breve, che agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, “coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune”.
La stessa giurisprudenza di legittimità ha bene enfatizzato questa condizione di comunanza e di vicinanza affettiva (Cass. civ. Sez. II, 21 marzo 2013, n. 7214; Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11975) affermando che per potersi parlare di convivenza di fatto more uxorio – nello specifico ai fini della tutela possessoria – è necessaria la presenza di una situazione interpersonale di natura affettiva con carattere di tendenziale stabilità, con un minimo di durata temporale e che si esplichi “in una comunanza di vita” e di interessi.
La legge non trova, quindi, applicazione per le persone che si vogliono bene senza convivere stabil¬mente sotto lo stesso tetto. Non trova applicazione per le persone che hanno legami sentimentali o anche rapporti continuativi sessuali, ma che per motivi diversi non decidono di abitare stabilmente insieme. Anche due persone che abbiano un figlio comune e che quindi esercitano la responsabilità genitoriale non sono destinatari delle norme se non convivono stabilmente. La legge si applica a chi decide di “convivere”, cioè di elaborare un progetto di vita che – analogamente al matrimonio o all’unione civile – si fonda sulla decisione di costituire una famiglia (in senso sociologico). Che si tratti, come detto, di eterosessuali o di persone dello stesso sesso non rileva. Ciò che conta è la decisione di “metter su famiglia”.
La necessità della convivenza traspare – come detto – non solo dal nome utilizzato (“conviventi di fatto” e non, per esempio, “coppie” di fatto) ma soprattutto dal riferimento ai fini dell’individua¬zione dell’inizio della “stabile convivenza” agli articoli 4 e 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223 che prevedono l’iscrizione all’anagrafe di ogni Comune anche delle convivenze (cioè delle persone legate da vincoli affettivi) e il rilascio delle relative certificazioni anagrafiche. Tuttavia, l’iscrizione anagrafica costituisce solo un elemento probatorio ai fini dell’individuazione dell’inizio della stabile convivenza, mentre i diritti e doveri pre¬visti nella legge scattano unicamente per il fatto di trovarsi in una condizione di convivenza di fatto stabile (anche se la convivenza non risultasse iscritta all’anagrafe). Quindi non esiste secondo la nuova legge nessuna differenziazione giuridica (come avviene invece in altri Paesi) tra convivenze registrate (cioè iscritte all’anagrafe) e convivenze non registrate. La convivenza costituisce un uni¬co fenomeno familiare e non, come si ipotizzava in lontani disegni di legge, un fenomeno scindibile in “convivenze registrate” cui si applicano le norme di tutela e “convivenze non registrate” come luogo sottratto alle garanzie di legge.
Il comma 36 prescrive che la legge trova applicazione solo per le persone conviventi e unite da lega¬mi affettivi di coppia e di reciproca assistenza “non vincolate da rapporti di parentela, affinità o ado¬zione, da matrimonio o da un’unione civile”. Pertanto stando alla definizione testuale della norma, essendo le persone separate ancora considerate unite in matrimonio, nel caso di conviventi di cui almeno uno sia separato, non può trovare applicazione la legge. La convivenza vi sarà ma non avrà le caratteristiche per ricevere la tutela della legge. Perciò le persone separate e le coppie di convi¬venti (ancorché stabili) di cui almeno uno sia separato non sono destinatari della nuova normativa.
Al quesito se la convivenza di fatto costituisca o meno una famiglia risponde in modo affermativo il regolamento anagrafico (approvato con DPR 30 maggio 1989, n. 223 modificato dal DPR 17 luglio 2015, n. 126) nel cui art. 4 si dà la definizione di “famiglia anagrafica” prevedendo che “agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune”.
Tuttavia il regolamento anagrafico risponde a funzioni di tipo classificatorio amministrativo mentre il definire che cosa sia o non sia famiglia è compito del pensiero giuridico. Ebbene si è detto in apertura di questo lavoro che le scienze sociali non riferiscono la famiglia a un modello immutato per tutte le società e per tutte le epoche e che pertanto è anche opportuno per il giurista evitare di addentrarsi in compiti definitori che potrebbero cristallizzare il modello familiare all’interno di un’unica definizione, come ha fatto la nostra carta costituzionale con l’art. 29 della Costituzione. D’altro lato anche alcune acquisizioni delle scienze antropologiche che sembravano acquisite una volta per tutte (come quella che la famiglia si caratterizza per l’organizzazione universale delle sue relazioni basate sulla differenza di genere e sulla differenza generazionale) [E. Sponchiado, Capire le famiglia, Carocci, Roma, 2001] sono messe in crisi dalla pressoché ormai universale regolamentazione del matrimonio o delle unioni civili tra persone dello stesso sesso.
Molto più ragionevole quindi attribuire alla famiglia il significato minimo di “formazione sociale” (art. 2 Cost.) all’interno della cui definizione non c’è dubbio che trovi posto la “famiglia di fatto” vissuta al di fuori del matrimonio.
XIII La famiglia adottiva (i figli adottivi nella rete parentale degli adottanti)
L’art. 27 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (diritto del minore ad una famiglia) prevede al primo comma che per effetto dell’adozione di minori dichiarati in stato di adottabilità “l’adottato acquista lo stato di figlio nato nel matrimonio degli adottanti dei quali dei quali assume e trasmette il co¬gnome” mentre l’ultimo comma afferma che “Con l’adozione cessano i rapporti dell’adottato verso la famiglia d’origine, salvi i divieti matrimoniali”.
Si tratta quindi di un’adozione piena – una volta chiamata “legittimante” (terminologia abolita dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 di riforma della filiazione) – in forza della quale il minore cessa i rapporti con la famiglia d’origine ed entra a pieno titolo nella famiglia che lo ha adottato. L’effetto cosiddetto legittimante non consente di definire la nuova famiglia come adottiva ma, appunto, soltanto famiglia.
Di famiglia adottiva si parla, invece, più propriamente con riferimento all’adozione di minori a cui nella legge sopra richiamata si riferisce l’art. 44 (adozione cosiddetta “in casi particolari”) dove si prevede che i minori possono essere adottati anche se non vi è stata dichiarazione di adottabilità: a) da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, anche maturato nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento, quando il minore sia orfano di padre e di madre; b) dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge; c) quando il minore si trovi nelle condizioni indicate dall’articolo 3, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e sia orfano di padre e di madre; d) quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo. La natura eccezionale di queste situazioni consente alla legge di prevedere che nei casi di cui alle lettere a), c), e d) l’adozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato. Si tratta quindi di forme di adozione permesse anche alle persone singole.
Per quanto riguarda gli effetti di questo tipo di adozione l’art. 55 della legge 4 maggio 1983, n. 184 – che chiude la parte concernente l’adozione di minori in casi particolari – fa rinvio alle “dispo¬sizioni degli articoli 293, 294, 295, 299, 300 e 304 del codice civile” che si occupano dell’adozione di persone maggiori di età.
Tra queste norme quella che esprime specificamente gli effetti è l’art. 300 c.c. secondo cui “l’adot¬tato conserva tutti i diritti e i doveri verso la sua famiglia d’origine, salve le eccezioni stabilite dalla legge” [sostanzialmente in materia di impedimenti matrimoniali]; il che significa che l’adottato “in casi particolari” ai sensi dell’art. 44 della legge 4 maggio 1983, n. 184, ha di fatto due famiglie: quella originaria (biologica) e quella adottiva (affettiva). Anche in giurisprudenza si ammette la pacifica cessazione dell’obbligazione di mantenimento in capo al genitore biologico a seguito di adozione “in casi particolari” (Cass. civ. Sez. I, 30 gennaio 1998, n. 978).
L’adottato con questa forma di adozione “in casi particolari” conserva i rapporti con la sua famiglia d’origine e per questo si dice che l’adozione non è piena. Tuttavia, la responsabilità genitoriale sull’adottato ed il relativo esercizio spettano all’adottante o agli adottanti (art. 48). L’adottante ha l’obbligo di mantenere l’adottato, di istruirlo ed educarlo conformemente a quanto prescritto dall’articolo 147 del codice civile.
Lo status del minore adottato con l’adozione “in casi particolari” (che mantiene i rapporti con la famiglia d’origine) non sarebbe, quindi, identico – secondo la normativa sopra richiamata – allo status del minore adottato con l’adozione piena.
Sennonché la riforma della filiazione operata dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219 ha modificato l’art. 74 del codice civile (parentela) che ora risulta così riformulato: “La parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’in¬terno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo. Il vincolo di parentela non sorge nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli articoli 291 e seguenti”.
L’effetto di questa nuova formulazione della definizione della “parentela” è che, anche per i minori adottati con l’adozione “in casi particolari”, trova applicazione il principio fondamentale introdotto dalla riforma della filiazione del 2012 secondo cui “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico” (nuo¬vo art. 315 c.c. intitolato “stato giuridico della filiazione”). Pertanto, nonostante la differenza degli effetti, lo status giuridico del minore adottato con l’adozione in casi particolari è il medesimo del minore adottato con l’adozione “legittimante”. Il che non significa che tutti i minori adottati sono diventati figli “legittimi” (dal momento che questa qualificazione distintiva rispetto ai figli “naturali” è venuta meno) ma che tutti i figli (nati dal matrimonio o fuori dal matrimonio ovvero adottati) han¬no lo stesso status giuridico, non essendo più concepibili distinzioni relative, appunto, allo status.
La conseguenza immediata di questa nuova impostazione è che anche per i minori adottati “in casi particolari”, ai sensi dell’art. 44 della legge 4 maggio 1983, n. 184, si realizzano gli effetti di parentela nei riguardi dei familiari degli adottanti o dell’adottante. Il vincolo di parentela non sorge nei soli casi di adozione di persone maggiori di età.
La disposizione, quindi, contenuta nel secondo comma dell’art. 304 c.c. (“L’adozione non induce alcun rapporto civile tra l’adottante e la famiglia dell’adottato, né tra l’adottato e i parenti dell’adot¬tante…”) è da considerare tacitamente abrogata relativamente all’adozione dei minori di età in casi particolari. Si potrebbe anche dire – ma è la stessa cosa – che per l’adozione in casi particolari dei minori di età è tacitamente abrogato l’art. 55 della legge n. 184/1983 nella parte in cui richiama l’art. 300, secondo comma, del codice civile. Il vincolo di parentela caratterizza perciò ogni tipo di filiazione, con la sola eccezione della filiazione adottiva del maggiorenne.
Al di là dello status unico rimane naturalmente la differenza degli effetti nel senso che l’adozione piena fa cessare ogni rapporto con la famiglia d’origine (art. 27 legge 184/83) a differenza di quanto avviene per l’adozione di minori in casi particolari in cui la responsabilità genitoriale con i connessi obblighi di mantenimento viene ad essere attribuita completamente all’adottante o agli adottanti con la conseguente esclusione (sospensione) quindi di doveri di istruzione, educazione e mantenimento a carico dei genitori biologici del minore.
La sopravvivenza dei rapporti giuridici anche di parentela con la famiglia biologica d’origine (quindi la possibile coesistenza, quando vi siano, di più genitori o di più nonni) costituisce certamente una asimmetria se valutata con riferimento alle regole delle normali relazioni familiari.
XIV Resta famiglia quella dei separati e dei divorziati?
Nella definizione dei confini della famiglia (sia quella “nucleare” che quella “estesa” inclusiva della rete parentale e degli affini) si possono verificare eventi che determinano la cessazione della coa¬bitazione o della convivenza o che, nella famiglia matrimoniale, sciolgono il vincolo matrimoniale, come la morte o l’annullamento del matrimonio o il divorzio.
La separazione dei coniugi o la cessazione della convivenza determinano indubbiamente il ve¬nir meno della condizione che in precedenza connotava la vita di coppia dal punto di vista delle reciproche condizioni soggettive. Con la separazione si attenua il regime primario contributivo (trasformandosi in eventuale obbligazione di mantenimento) e si scioglie il regime secondario pa¬trimoniale mentre con la cessazione della convivenza di fatto viene meno il rapporto di convivenza potendo residuare tra i due ex conviventi una obbligazione alimentare (art. 1, comma 65, della legge 20 maggio 2016, n. 76).
Con lo scioglimento del vincolo (o con l’annullamento del matrimonio o dell’unione civile) la con¬dizione degli ex coniugi o delle ex parti dell’unione civile, cessa del tutto (ex nunc ovvero ex tunc in caso di annullamento). Possono anche in questo caso però residuare obbligazioni di natura eco¬nomica o post divorzili. Con la morte si determina poi l’apertura della successione a beneficio dei soggetti che la legge o il testamento individuano come eredi.
Il problema se, a seguito degli eventi che si sono descritti, viene meno per gli interessati la fa¬miglia, è praticamente un problema quasi del tutto ignorato in dottrina. Qualche accenno si rin¬viene in A. Trabucchi, Natura, legge, famiglia, in Rivista di diritto civile, 1977, I, pag. 1 ss dove si afferma che il significato proprio ed esclusivo della famiglia legittima si manifesta anche in situazioni che sono espressione della natura e della forza del vincolo che essa comporta. Così avviene con il diritto attribuito al coniuge in caso di morte dell’altro coniuge, di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che la corredano (art. 540 c.c.) oltre che con i diritti successori. Dopo lo scioglimento del vincolo – afferma Trabucchi in quel lontano contributo – “la famiglia non si dissolve nel nulla, ma sopravvivono situazioni derivate dal vecchio rapporto, come la legittimità della parentela, e tutto ciò che non si può cancellare, come conseguenza della precedente situazione legittima”.
Si è già in precedenza accennato al fatto che il matrimonio connota solo una delle modalità di ac¬cesso alla famiglia, certamente la principale, ma non può essere confuso con essa.
E’ per questo che il principio di indissolubilità è riferito al matrimonio e non alla famiglia. Il ma¬trimonio si può sciogliere (art. 191 c.c.; legge 1° dicembre 1970, n. 898) ma la famiglia non si scioglie di certo. Il giudice pronuncia il divorzio quando “accerta che la comunione spirituale e materiale dei coniugi non può essere mantenuta o ricostituita”. L’esistenza di diritti post-divorzili collegati alle esigenze di solidarietà assistenziale nascenti dal matrimonio testimonia di legami giuridici (di natura soprattutto economica e previdenziale) che permangono dopo lo scioglimento del vincolo. Senza contare che l’affinità non cessa con il divorzio (art. 78 c.c.) e il marito divorziato non potrebbe in nessun caso dopo il divorzio sposare la suocera (art. 84 c.c.).
La famiglia resta, poi, nei suoi legami forti che l’avevano connotata e continuano a connotarla anche dopo la fine del matrimonio, soprattutto se vi sono figli [essenziale è la lettura di E. Scabini – R. Iafrate, Psicologia dei legami familiari, Il Mulino, Bologna, 2003]. Non vi sono limiti alla solidarietà genitori-figli neanche dopo il divorzio. La rete parentale creatasi con il matrimonio o con il riconoscimento di un figlio nato fuori dal matrimonio (art. 258 c.c.) non viene certamente meno con la cessazione del vincolo o con l’annullamento dell’atto che ha dato vita al rapporto). La relazione genitoriale, ove esistente, permane del tutto integra (art. 337-bis e seguenti c.c. e art. 6 della legge sul divorzio). Tutto ciò è sufficiente per ritenere che la famiglia – intesa come rete di relazioni familiari – non si dissolve con la separazione o con la cessazione del vincolo.
Il concetto di famiglia è, come si è visto, un concetto nel quale si sovrappongono aspetti perso¬nali tra le parti e aspetti genitoriali se esistenti. Questi aspetti permangono nel tempo. Nessuna norma di legge definisce il confine della famiglia ma solo quello del matrimonio e nessuna norma, ugualmente, esclude che le relazioni familiari restino tali dopo la cessazione del vincolo o dopo la cessazione della convivenza di fatto.
Il separato e il divorziato restano, perciò, parti della famiglia – intesa come rete di relazioni e le¬gami significativi – anche se non vi siano figli, o non si condivida più la quotidianità o non vi siano obblighi patrimoniali.
XV La famiglia ricostituita
Il tema delle famiglie ricostituite (o ricomposte) (non più del 5%, comunque, di tutti i nuclei fa¬miliari) non è stato finora mai affrontato in sede ordinamentale o giuridica, salvo che nella legge 20 maggio 2016, n. 76 in ordine alle famiglie di fatto costituite successivamente alla cessazione di una precedente esperienza familiare (matrimoniale). Qui l’art. 1, comma 36, della legge, al fine di evitare una sovrapposizione di tutele tra la precedente famiglia coniugale e una successiva convi¬venza di fatto, ha previsto che “Ai fini delle disposizioni di cui ai commi da 37 a 67 si intendono per: «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.
La nuova legge trova applicazione, perciò, solo per le persone conviventi e unite da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza “non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”. Pertanto stando alla definizione testuale della norma, essendo le persone separate ancora considerate unite in matrimonio, nel caso di conviventi di cui almeno uno sia separato, non possono trovare applicazione le tutele per i conviventi di fatto previste dalla nuova legge. La convivenza vi sarà ma non avrà le caratteristiche per ricevere la tutela legale. Per¬ciò le persone separate e le coppie di conviventi (ancorché stabili) di cui almeno uno sia separato non sono destinatari della nuova normativa.
Salvo che in questo caso di vincolo da precedente matrimonio, la famiglia ricostituita è, però, una famiglia vera e propria che si aggiunge a quella originaria.
Ed è proprio con le seconde nozze (o con il successivo matrimonio del vedovo) che si delinea, in genere, questo nuovo modello familiare in cui almeno uno dei coniugi è, appunto al secondo ma¬trimonio. Tuttavia si parla di ricomposizione familiare in genere per alludere soprattutto al fatto in cui i figli nati dalla prima unione sono accuditi da uno dei genitori insieme al suo successivo partner, sposato o meno che sia. La compresenza di più figure “genitoriali”, una sociale e l’altra biologica, pone considerevoli problemi sul piano della regolazione sociale ma anche su quello della regolazione giuridica, considerata la complessità delle sovrapposizioni di più figure adulte e di una vera e propria rete di parentela sociale per il minore. Si tratta perciò di trovare le giuste forme di legittimazione sociale di questo fenomeno: al termine step-family (dove step significa privato, reso orfano) la letteratura sociologica preferisce l’espressione blended-family che allude ad una armonica mescolanza.
Il fenomeno non è sconosciuto nel mondo del diritto in quanto, come si è visto, nel caso di adozio¬ne di maggiorenni o di minori “in casi particolari” “l’adottato conserva tutti i diritti e i doveri verso la sua famiglia d’origine, salve le eccezioni stabilite dalla legge” (art. 300 c.c.). Il che significa che la legge non considera impossibile la sovrapposizione tra due famiglie ai fini successori a favore dell’adottato (art. 304 c.c.) o ai fini della riespansione dello status originario in caso di revoca dell’adozione (art. 305 c.c. e art. 51 della legge 4 maggio 1983, n. 184).
La ricostituzione di una famiglia fondata o meno sul matrimonio – dopo lo scioglimento del vincolo da quella precedente – salvo quando già si è detto in ordine agli effetti patrimoniali, che dovessero permanere, non cancella naturalmente le relazioni familiari connesse alla genitorialità. Ed anzi le problematiche giuridiche della famiglia ricostituita sono proprio soprattutto riferite, come si è det¬to, al rapporto tra i figli e i genitori, quello biologico e quello sociale.
XVI Il danno non patrimoniale alla vita familiare
Nel 2003 per la prima volta una decisione di legittimità (Cass. civ. Sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828) affermava che il soggetto che chiede “iure proprio” il risarcimento del danno subito in con¬seguenza della uccisione di un congiunto per la definitiva perdita del rapporto parentale, lamenta l’incisione di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute, del quale è titolare (la cui tutela ex art. 32 Cost., ove risulti intaccata l’integrità psicofisica, si esprime mediante il risarcimento del danno biologico), sia dall’interesse all’integrità morale (la cui tutela, ricollegabile all’art. 2 Cost., ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo), e ciò in quanto l’interesse fatto valere è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia e alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost. Trattasi di interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la cui lesione non apre la via ad un risarcimento ai sensi dell’art. 2043 c.c., nel cui ambito rientrano i danni patrimoniali, ma ad una riparazione ai sensi dell’art. 2059 c.c. – senza il limite ivi previsto in correlazione all’art. 185 c.p. in ragione della natura del valore inciso -, vertendosi in materia di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato.
In questa prima decisione è visibile e lucidamente affermata la tutela civilistica della famiglia come tutela di rilievo costituzionale delle relazioni familiari primarie.
Il principio è stato poi ribadito in molte altre decisioni tra cui Cass. civ. Sez. III, 3 maggio 2004, n. 8333, Cass. civ. Sez. III, 3 febbraio 2011, n. 2557, Cass. civ. Sez. III, 21 marzo 2013, n. 7128 che hanno tutte riaffermato con espressioni identiche lo stesso principio e Cass. civ. Sez. III, 12 giugno 2006, n. 13546 che ha parlato di danno parentale (non patrimoniale) per riferirsi allo sconvolgimento delle abitudini di vita con alterazione del modo di rapportarsi con gli altri nell’ambito della comune vita di relazione, sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare, in con¬seguenza dell’irreversibile venir meno del godimento del rapporto personale con lo stretto congiunto nel suo essenziale aspetto affettivo o di assistenza morale (cura, amore) cui ciascun componente del nucleo familiare ha diritto nei confronti dell’altro; aspetto che costituisce espressione di interessi essenziali della persona estrinsecantisi nel diritto all’intangibilità della sfera degli affetti e della reci¬proca solidarietà nell’ambito della famiglia e alla libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia.
XVII La tutela penale della famiglia
Come si è detto all’inizio la famiglia non è un soggetto giuridico. Il che però non comporta che non sia oggetto di tutela. La tutela penale è tuttavia, meno evidente di quanto non possa ipotizzarsi. Infatti il codice penale riserva l’intero titolo XI ai Delitti contro la famiglia, ma quando si entra nel merito delle singole fattispecie penali ci si accorge che la tutela della famiglia è solo sullo sfondo, quasi simbolica. E tutto ciò, nonostante che nella relazione al progetto definitivo del codice si legge che questa sistematica intendeva dare grande importanza all’ordine familiare tutelando la famiglia intesa come realtà sociale a se stante di cui si vuole assicurare il fondamento, la struttura morale e giuridica, le finalità essenziali. Avevano certamente ragione gli studiosi più attenti a questa siste¬matica ad affermare che in fondo questa allocazione di delitti in uno stesso titolo non ha alcuna va¬lidità scientifica [G. D. Pisapia, Famiglia – Diritto penale, in Nss. Dig. It. VII, Torino, 1961; F. Antolisei, Manuale di diritto penale, II, Milano, Giuffrè, 1977]. E d’altra parte la stessa concezione, all’epoca del codice penale, della famiglia – come istituzione trascendente i singoli – non era certo quella della famiglia adottata in seguito dalla Costituzione, fondata sul consenso, sul rispetto, sull’uguaglianza dei suoi componenti.
Il titolo XI è suddiviso in quattro capi di cui nessuno specificamente ha di mira la famiglia come bene giuridico tutelato. I delitti contro il matrimonio (contenuti nel capo I) sono la bigamia (art. 556) e l’induzione al matrimonio mediante inganno (art. 558), in quanto l’adulterio (art. 559) e il concubinato (art. 560) sono stati dichiarati incostituzionali. I delitti contro la morale familiare (capo II) sono l’incesto (art. 564) e gli attentati contro la morale familiare commessi col mezzo della stampa periodica (art. 565) I delitti contro lo stato di famiglia (capo III) sono la supposizione o la soppressione di stato (art. 566), l’alterazione di stato (art. 567) e l’occultamento di stato (art. 568). I delitti contro l’assistenza familiare sono la violazione degli obblighi di assistenza (art. 570), l’abuso dei mezzi di correzione (art. 571), i maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572), la sottrazione consensuale di minorenni (art. 573 e 574-bis) e la sottrazione di incapaci (art. 574).
Non è questa la sede per esaminare nel dettaglio tutte queste fattispecie – contenenti oggettività giuridiche tra loro assai diversificate – né per entrare nel merito delle scelte sanzionatorie del legi¬slatore. Si può, però, osservare che nel loro insieme i reati in questione hanno tutti una evidente plurioffensività essendo il bene giuridico famiglia di fatto mai il bene giuridico leso direttamente. Ad essere tutelate sono, in definitiva, le situazioni giuridiche soggettive dei familiari più che la famiglia in sé. La famiglia nel suo significato simbolico più ampio resta solo sullo sfondo di tutti i delitti sopra richiamati, che colpiscono di volta in volta o una delle modalità di accesso alla vita familiare (il matrimonio o l’unione civile), o una non meglio precisata morale familiare turbata da fatti che producono scandalo (incesto o attentati per mezzo della stampa), o l’alterazione della verità dello status filiationis (delitti contro lo stato di famiglia) oppure le persone più esposte nella vita familiare (violazioni, abusi, maltrattamenti). La plurioffensività è molto evidente, soprattutto in questi ultimi delitti e la giurisprudenza lo ha più volte sottolineato (per esempio Cass. pen. Sez. Unite, 20 dicembre 2007, n. 8413 nel reato di violazione degli obblighi di assistenza familia-re; Cass. pen. Sez. VI, 6 luglio 2004, n. 34522 e Cass. pen. Sez. VI, 27 maggio 2003, n. 37019 nel delitto di maltrattamenti)
Una ricostruzione efficace e sintetica delle teorie sull’oggetto giuridico dei delitti contro la famiglia è contenuta in A. Pezzi, Famiglia, delitti contro la famiglia, Enciclopedia Giuridica, Roma, Treccani, 1989 mentre essenziale resta, anche per un esame moderno e critico delle singole fattispecie, l’ottimo volume a cura di S. Riondato, Diritto penale della famiglia, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, Vol. IV, Milano, Giuffrè, 2002.
Il dato che emerge è quindi non tanto l’insufficienza di una tutela penale della famiglia quanto for¬se l’inutilità di una normativa penale che vuole a tutti i costi includere tra i beni giuridici lesi anche la famiglia, senza riuscire in questo ad essere convincente.
L’elemento più significativo è, anche in questo caso, comunque, il progressivo adattamento del sistema penale nel suo complesso ad una concezione della famiglia non ristretta a quella “matri¬moniale”. La dottrina e la giurisprudenza per lungo tempo hanno ritenuto che oggetto della tutela penale fosse soltanto la famiglia fondata sul matrimonio escludendo la rilevanza della famiglia degli affetti. Se si consulta l’opinione di G. Pecorella, Famiglia (delitti contro la), in Enc. dir, XVI, Milano, Giuffrè, 1967, si legge a pag. 790 che il concetto di famiglia adottato dal codice, dovendo corrispondere a quella forma di aggregato che trova un riconoscimento giuridico nel diritto civile, non può che essere solo quello di famiglia legittima. Oggi questa opinione è stata abbandonata, grazie anche alla ricostruzione proposta da molti autori [F. Uccella, La tutela pe¬nale della famiglia, Padova, Cedam, 1984; G. D. Pisapia, Famiglia- Diritto penale, in Nss. Dig. It.- Appendice, III, Torino, Utet, 1982]. Riferimenti essenziali sono contenuti nel volume a cura di S. Riondato, Diritto penale della famiglia, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, Vol. IV, Milano, Giuffrè, 2002, già sopra richiamato.
La stessa evoluzione legislativa ha confermato la rilevanza della convivenza di fatto, quale forma della vita familiare, ormai senza alcuna possibilità di ritorno al passato (legge 20 maggio 2016, n. 76). Nell’ambito del sistema penale si è detto della facoltà di astensione dal testimoniare dei prossimi congiunti estesa al convivente di fatto e ai componenti della famiglia adottiva già con la riforma del 1988 del codice di procedura penale (art. 199 c.p.p.). Sintomatico è stato, sempre, il percorso della giurisprudenza sul significato della “famiglia” nei delitti di maltrattamenti, concluso poi dal legislatore, con l’inclusione di qualunque soggetto convivente con l’autore del reato, con le modifiche apportate alla norma dalla legge 1° ottobre 2012, n, 172. Altrettanto significativa è l’inclusione delle persone legate al reo da qualunque tipo di relazione affettiva, tra i soggetti passivi degli atti persecutori (art. 612-bis c.p. inserito dal Decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11 conver¬tito con modificazioni nella legge 23 aprile 2009, n. 38), la previsione dell’aggravante nell’omicidio negli stessi casi (operata dal medesimo Decreto legge) e l’estensione dell’aggravante non solo ai separati o divorziati ma anche a chi è o è stato legato da relazione affettiva alla persona offesa (comma secondo, come sostituito dal Decreto legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modifi¬cazioni, nella legge 15 ottobre 2013, n. 119.
Già si è visto che, sia pure al fine di escludere la punibilità di gravi comportamenti, la nozione penalistica della famiglia (“prossimi congiunti”) è molto ampia, includendo relazioni familiari che superano i confini della famiglia nucleare (art. 307, ultimo comma c.p.).
Sintomatico è anche il nuovo art. 574-ter (costituzione di un’unione civile agli effetti penali) – in¬serito nel codice penale, nella parte che concerne i delitti contro l’assistenza familiare, dall’art. 1, comma 1, lett. b del D. lgs 19 gennaio 2017, n. 6 a seguito della riforma operata dalla legge 20 maggio 2016, n. 76 – secondo cui “Agli effetti della legge penale il termine matrimonio si intende riferito anche alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso. Quando la legge penale considera la qualità di coniuge come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato essa si intende riferita anche alla parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso”.
FAMIGLIA
Giurisprudenza
Corte cost. 11 giugno 2014, n. 170 (Foro It., 2014, 10, 1, 2674)
Sono incostituzionali gli art. 2 e 4 L. 14 aprile 1982, n. 164, nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore.
Cass. civ. Sez. I, 18 novembre 2013, n. 25845 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio in caso di cessazione degli effetti civili del matri¬monio, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimo¬niale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorché di fatto, la quale rescinde, quand’anche non definitivamente, ogni connessione con il livello ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, conseguentemente, ogni presupposto per la ri¬conoscibilità di un assegno divorzile.
Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2013, n. 15481 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La violazione dei diritti fondamentali della persona è configurabile anche all’interno di una unione di fatto, che abbia, beninteso, caratteristiche di serietà e stabilità, avuto riguardo alla irrinunciabilità del nucleo essenziale di tali diritti, riconosciuti, ai sensi dell’art. 2 Cost., in tutte le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo Del resto, ferma restando la ovvia diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla con¬vivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio, è noto che la legislazione si è andata progressivamente evolvendo verso un sempre più ampio riconoscimento, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto.
Cass. civ. Sez. II, 21 marzo 2013, n. 7214 (Giur. It., 2013, 12, 2491 nota di FERRETTI)
La. convivenza “more uxorio” determina, sulla casa di abitazione ove si svolge la vita in comune, un potere di fat¬to basato su un interesse proprio distinto rispetto a quello derivante da ragioni di mera ospitalità; ne deriva che l’estromissione violenta o clandestina del convivente dall’unità abitativa, compiuta dal partner, giustifica il ricorso alla tutela possessoria, consentendo l’esperimento dell’azione di spoglio nei confronti dell’altro. La convivenza di fatto, infatti — con il reciproco rispettivo riconoscimento di diritti del partner, che si viene progressivamente consolidando nel tempo, e con la concretezza di una condotta spontaneamente attuata — dà vita, anch’essa, ad un autentico consorzio familiare, investito di funzioni promozionali.
Cass. civ. Sez. III, 21 marzo 2013, n. 7128 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra di per sé un danno risarcibile ex art. 2059 cod. civ. – giacché lede un interesse della persona costituzio¬nalmente rilevante, ai sensi dell’art. 2 Cost. – il pregiudizio recato al rapporto di convivenza, da intendere quale stabile legame tra due persone connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti, anche quando non sia contraddistinto da coabitazione. In caso, invece, di relazione prematrimoniale o di fidanzamento che – a prescindere da un rapporto di convivenza attuale al momento dell’illecito – era destinato successivamente ad evolvere (e di fatto si sia evoluto) in matrimonio, il risarcimento del danno non patrimoniale trova fondamen¬to nell’art. 29 Cost., inteso come norma di tutela costituzionale non solo della famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio, ma anche del diritto del singolo a contrarre matrimonio e ad usufruire dei diritti-doveri reciproci inerenti le persone dei coniugi, nonché a formare una famiglia quale modalità di piena realizzazione della propria vita individuale.
Cass. civ. Sez. 1, 12 marzo 2012, n. 3923 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio in caso di cessazione degli effetti civili del matrimo¬nio, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorché di fatto.
Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17195 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio in caso di cessazione degli effetti civili del matrimo¬nio, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorché di fatto; la conseguente cessazione del diritto all’assegno divorzile, a carico dell’altro coniuge, non è però definitiva, po¬tendo la nuova convivenza – nella specie, uno stabile modello di vita in comune, con la nascita di due figli ed il trasferimento del nuovo nucleo in una abitazione messa a disposizione dal convivente – anche interrompersi, con reviviscenza del diritto all’assegno divorzile, nel frattempo rimasto in uno stato di quiescenza.
Cass. civ. Sez. III, 3 febbraio 2011, n. 2557 (Nuova Giur. Civ., 2011, 7-8, 1, 656 nota di AMRAM)
Il soggetto che chiede “iure proprio” il risarcimento del danno subito in conseguenza della uccisione di un con¬giunto per la definitiva perdita del rapporto parentale lamenta l’incisione di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute, del quale è titolare (la cui tutela ex art. 32 Cost., ove risulti intaccata l’integrità psicofisica, si espri¬me mediante il risarcimento del danno biologico), sia dall’interesse all’integrità morale (la cui tutela, ricollegabile all’art. 2 Cost., ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo), e ciò in quanto l’interesse fatto valere è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia e alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla fami¬glia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost.. Trattasi di interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la cui lesione non apre la via ad un risarcimento ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., nel cui ambito rientrano i danni patrimoniali, ma ad una riparazione ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., senza il limite ivi previsto in correlazione all’art. 185 cod. pen. in ragione della natura del valore inciso, vertendosi in materia di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato.
Corte europea dei diritti dell’Uomo, I sezione, 24 giugno 2010 (Famiglia, Persone e Successioni n. 4/201)
Non costituisce violazione dell’articolo 12 da parte di uno Stato membro la mancata estensione dell’accesso al matrimonio alle coppie costituite da individui dello stesso sesso. Ciò perché, si tratta di un istituto giuridico profondamente connesso alle radici storiche e culturali di una determinata società e rispetto al quale non è ravvisabile un’univoca tendenza negli ordinamenti interni degli Stati membri. Pertanto, rientra nell’ambito della discrezionalità proprio di uno Stato la scelta in merito all’introduzione di una normativa in tal senso, secondo le ragioni di opportunità politica e sociale che ritenga preponderanti.
Considerata l’evoluzione sociale e giuridica è pretestuoso sostenere l’opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della vita familiare ai fini dell’art. 8. Conseguente¬mente la relazione di una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra nella nozione di vita familiare, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione.
Corte cost. 15 aprile 2010, n. 138 (Famiglia e Diritto, 2010, 7, 653 nota di GATTUSO)
L’unione omosessuale intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso è da annoverare tra le formazioni sociali a norma dell’art. 2 Cost. cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. È inammissibile la questione di illegittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis c.c in riferimento all’art. 2 Cost. ed all’art. 117 Cost., perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata. La questione è infondata con riferimento ai parametri indi¬viduati negli artt. 3 e 29 Cost. in quanto la nozione di matrimonio riferita alle unioni di persone di sesso diverso non può essere superata per via ermenenutica.
Cass. pen. Sez. Unite, 20 dicembre 2007, n. 8413 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’omessa somministrazione di mezzi di sussistenza, posta in essere nei confronti di più soggetti conviventi nello stesso nucleo familiare, non configura un reato unico bensì una pluralità di reati, eventualmente avvinti dal vincolo della continuazione. Invero, i primi due commi dell’art. 570 c.p. puniscono condotte che, pur assimilabili nel fine unitario di tutela della famiglia e dei rapporti di assistenza in ambito familiare, si differenziano sotto il profilo del bene giuridico tutelato. Più precisamente, la fattispecie punita dal primo comma si pone a tutela della convivenza e dell’unità familiare, di talché, non essendo in tal caso ipotizzabile una protezione differenziata in capo ai vari componenti della famiglia , la sua violazione darà sempre vita ad un reato unico. Al contrario, le condotte incriminate dal secondo comma tutelano, accanto all’unità familiare, anche specifici interessi economici dei singoli, quali il patrimonio del congiunto “debole” (n. 1) o la sopravvivenza economica del medesimo (n. 2), potendo pertanto dare luogo ad una pluralità di reati nel caso in cui le condotte criminose siano realizzate nei confronti di più soggetti della stessa famiglia.
Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 2007, n. 24423 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I nonni, ai quali è impedita dai genitori la frequentazione del nipote minorenne, possono adire il giudice minorile per ottenere un provvedimento ai sensi dell’art. 333 c.c., che consenta loro di incontrare il nipote. Sebbene il provvedimento giurisdizionale “innominato” non possa imporre serenità di rapporti del minore con i propri paren¬ti, è compito del giudice minorile intervenire al fine di garantire, nell’interesse del minore, serenità ed equilibrio in detti rapporti.
Cass. civ. Sez. III, 12 giugno 2006, n. 13546 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il c.d. danno esistenziale, riparabile ex art. 2059 cod. civ., lo sconvolgimento delle abitudini di vita con alterazione del modo di rapportarsi con gli altri nell’ambito della comune vita di relazione, sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare, in conseguenza dell’irreversibile venir meno del godimento del rapporto perso¬nale con lo stretto congiunto (cosiddetto danno parentale) nel suo essenziale aspetto affettivo o di assistenza morale (cura, amore) cui ciascun componente del nucleo familiare ha diritto nei confronti dell’altro, come per i coniugi in particolare previsto dall’art. 143 cod. civ. (dalla relativa violazione potendo conseguire l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza e l’addebitabilità della separazione personale); per il genitore dall’art. 147 cod. civ., e ancor prima da un principio immanente nell’ordinamento fondato sulla responsabilità genitoriale (v. Corte Cost., 13/5/1998, n. 166 ), da considerarsi in combinazione con l’art. 8 legge adoz. (la violazione dell’ob¬bligo di cura o assistenza morale determinando lo stato di abbandono del minore che ne legittima l’adozione); per il figlio nell’art. 315 cod. civ., valorizzabile secondo tale orientata lettura. Tale aspetto, peraltro, costituisce espressione di interessi essenziali della persona estrinsecantisi nel diritto all’intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia e alla libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia , la quale trova riconoscimento nelle norme di cui agli artt. 2, 29, 30, Cost., con incisione di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute (la cui tutela “ex” art. 32 Cost., ove risulti intaccata l’integrità psicofisica, si esprime mediante il risarcimento del danno biologico) sia dall’interesse all’integrità morale (la cui tutela, ricollegabile all’art. 2 Cost., ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo).
Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2005, n. 9801 (Giur. It., 2006, 4, 691 nota di FRACCON, CARBONE)
Il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente del nucleo familiare assume il connotato di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia costituisce il presup¬posto logico della responsabilità civile, non potendo ritenersi che diritti definiti inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare.
Cass. pen. Sez. VI, 6 luglio 2004, n. 34522 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di maltrattamenti in famiglia si estrinseca nel compimento di una pluralità di atti volti a ledere l’integrità fisica e il patrimonio morale del soggetto passivo. L’addebito di assunzione, da parte del prevenuto, del modello di padre famiglia prevaricatore, pur configurando un comportamento deprecabile, se posto in relazione ad un modo di gestire il rapporto familiare oggi improntato ad una sostanziale parità dei coniugi nelle decisioni della vita familiare, mai può costituire ed integrare quella lesione del bene giuridico tutelato dall’art. 572 c.p.
Cass. civ. Sez. III, 3 maggio 2004, n. 8333 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il soggetto che chiede “iure proprio” il risarcimento del danno subito in conseguenza della uccisione di un con¬giunto per la definitiva perdita del rapporto parentale lamenta l’incisione di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute, del quale è titolare (la cui tutela ex art. 32 Cost., ove risulti intaccata l’integrità psicofisica, si espri¬me mediante il risarcimento del danno biologico), sia dall’interesse all’integrità morale (la cui tutela, ricollegabile all’art. 2 Cost., ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo), e ciò in quanto l’interesse fatto valere è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia e alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla fami¬glia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost. Trattasi di interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la cui lesione non apre la via ad un risarcimento ai sensi dell’art. 2043 c.c., nel cui ambito rientrano i danni patrimoniali, ma ad una riparazione ai sensi dell’art. 2059 c.c. – senza il limite ivi previsto in correlazione all’art. 185 c.p. in ragione della natura del valore inciso -, vertendosi in materia di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato.
Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11975 (Famiglia e Diritto, 2004, 195). Tra i fattori capaci di incidere sulla nozione di “adeguatezza” è suscettibile di acquisire rilievo anche la eventuale convivenza “more uxorio”, la quale, quando si caratterizzi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità tanto da venire ad assumere i connotati della cosiddetta “famiglia di fatto” (caratterizzata, in quanto tale, dalla libera e stabile condivisione di valori e dei modelli di vita, in essi compresi anche quello economico).
Cass. civ. Sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il soggetto che chiede “iure proprio” il risarcimento del danno subito in conseguenza della uccisione di un con¬giunto per la definitiva perdita del rapporto parentale lamenta l’incisione di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute, del quale è titolare (la cui tutela ex art. 32 Cost., ove risulti intaccata l’integrità psicofisica, si espri¬me mediante il risarcimento del danno biologico), sia dall’interesse all’integrità morale (la cui tutela, ricollegabile all’art. 2 Cost., ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo), e ciò in quanto l’interesse fatto valere è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia e alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla fami¬glia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost. Trattasi di interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la cui lesione non apre la via ad un risarcimento ai sensi dell’art. 2043 c.c., nel cui ambito rientrano i danni patrimoniali, ma ad una riparazione ai sensi dell’art. 2059 c.c. – senza il limite ivi previsto in correlazione all’art. 185 c.p. in ragione della natura del valore inciso -, vertendosi in materia di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato.
Cass. pen. Sez. VI, 27 maggio 2003, n. 37019 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. l’oggetto giuridico non è costituito solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell’inco¬lumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari; tuttavia, deve escludersi che la compromissione del bene protetto si verifichi in presenza di semplici fatti che ledono ovvero mettono in pericolo l’incolumità personale, la libertà o l’onore di una persona della famiglia, essendo necessario, per la configurabilità del reato, che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile. (In motivazione, la Corte ha precisato che fatti episodici lesivi di diritti fondamentali della persona, derivanti da situazioni contingenti e particolari, che possono verificarsi nei rapporti interpersonali di una convivenza familiare, non integrano il delitto di maltrattamenti, ma conservano la propria autonomia di reati contro la persona).
Cass. civ. Sez. I, 30 gennaio 1998, n. 978 (Famiglia e Diritto, 1998, 3, 277)
L’obbligo di mantenimento del figlio minore, sancito, nei confronti del padre non affidatario, dalla sentenza di divorzio, cessa per effetto della successiva adozione del predetto minore da parte di un terzo, poiché la potestà sull’adottato, ed il connesso obbligo di mantenimento, giusto disposto degli art. 147 c.c., 48 e 50 l. n. 183 del 1984, spetta, ormai, in via principale, al genitore adottivo ed al di lui coniuge, pur non rivestendo la cessazione dell’obbligo di mantenimento da parte del padre biologico carattere incondizionato ed assoluto, in quanto tale dovere (perdurandone, comunque, il carattere sussidiario) è potenzialmente idoneo a riacquistare attualità nella ipotesi di cessazione dell’esercizio della potestà da parte dell’adottante, ovvero in correlazione con la eventuale insufficienza di mezzi del predetto e del suo coniuge. Ne consegue la legittimità della declaratoria, da parte del giudice del merito, della cessazione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento per il figlio minore – obbligo stabilito, in sede di pronuncia di divorzio, a carico del padre non affidatario – qualora il nuovo coniuge della ex moglie (passata a seconde nozze) abbia adottato il minore stesso, e qualora manchi la prova di una situazione di carenza economica della nuova famiglia tale da comportare la reviviscenza, in capo al genitore biologico, dell’obbligo di mantenimento, “in parte qua”, del minore adottato.
Corte cost., 18 novembre 1986, n. 237 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Un consolidato rapporto (come la convivenza more uxorio), ancorché di fatto, non appare costituzionalmente irrilevante se si abbia riguardo al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manife¬stazioni solidaristiche (art. 2 Cost.) e ciò tanto più se vi sia presenza di prole. Siffatti interessi sono indubbia¬mente meritevoli, nel tessuto delle realtà sociali odierne, di compiuta obiettiva valutazione. Tuttavia, nel caso in questione, la eventuale parificazione della convivenza e del coniugio relativamente all’imputato art. 307, quarto comma, c.p., trascenderebbe i ristretti termini del caso, coinvolgendo le altre ipotesi di reato ex art. 384 c.p. e altri istituti, di ordine processuale – la ricusazione del giudice (art. 64, n. 3 e n. 4, cod. proc. pen.), la facoltà di astensione dal deporre (art. 350) la titolarità nella richiesta di revisione delle sentenze di condanna e di connesso esercizio dei relativi diritti (artt. 556, 564) ovvero nella presentazione di domanda di grazia (art. 595) – nonché la disciplina della separazione dei coniugi, con conseguente necessità di apprestare un’esaustiva regolamentazione comportante scelte e soluzioni di natura discrezionale, riservate al solo legislatore, al quale peraltro si rinnova la già espressa sollecitazione a provvedere in proposito. (Inammissibilità della questione di legittimità costituziona¬le, in relazione all’art. 3 Cost., dell’art. 307, comma quarto, cod. pen. e dell’art. 384 cod. pen. (concernenti casi di non punibilità per il reato di favoreggiamento), nella parte in cui non si prevede che la scriminante di cui allo stesso art. 384, possa estendersi al convivente more uxorio).
Corte cost. 27 marzo 1974, n. 82 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 575 c.c. nella parte in cui, in mancanza di figli legittimi e del coniuge del genitore, ammette un concorso tra i figli naturali riconosciuti o dichiarati e gli ascendenti del genitore. Appare evidente l’incostituzionalità della norma nella parte in cui, pur non essendovi prole legittima e coniuge del geni¬tore, ammette un concorso nella successione degli ascendenti del genitore con i figli naturali attribuendo a questi ultimi i due terzi dell’eredità. Questo trattamento, che è diverso da quello riconosciuto ai figli legittimi, i quali conseguono l’intera eredità escludendo dal concorso gli ascendenti, non è giuridicamente giustificato. I diritti ereditari dei figli naturali riconosciuti o dichiarati possono essere legittimamente limitati allorché essi concorrono con i figli legittimi ed il coniuge del genitore, ma non già quando vi siano soltanto gli ascendenti poiché questi – agli effetti qui considerati – non sono membri della famiglia legittima.
Corte cost. 30 aprile 1973, n. 50 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I diritti successori dei figli naturali dichiarati o riconosciuti debbono avere una previsione paritaria rispetto a quella prevista per i figli legittimi anche nel caso di concorso con i soli ascendenti legittimi o con gli ascendenti legittimi e il coniuge. Gli ascendenti legittimi, infatti, non rientrano tra “i membri della famiglia legittima” e, non sussistendo in tali ipotesi incompatibilità con l’art. 30, terzo comma. Cost., l’art. 545 e l’art. 546 c.c. vanno di¬chiarati incostituzionali; conseguentemente l’incostituzionalità si estende anche all’art. 538, all’art. 539 e all’art. 540 dello stesso codice nelle parti in cui richiamano i predetti art. 545 e art. 546.
Corte cost. 14 aprile 1969, n. 79 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 577 c.c., che ammette alla successione “ab intestato” il figlio naturale del figlio del “de cuius”, ma solo se quest’ultimo non lasci né coniuge né parenti entro il terzo grado. La norma ha come presupposto, nel codice, l’assenza di un diritto di rappresentazione del figlio naturale ed è stata emanata, (si dice), “aequitatis causa”, proprio in sostituzione di quel diritto. Perciò, comunque si qualifichi la situazione, l’articolo 577 c.c. è totalmente illegittimo poiché risponde a un sistema successorio che contrasta col diritto di successione del figlio naturale. Infatti, dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 467 c.c., quegli succede o non succede a seconda che non vi siano o vi siano discendenti legittimi del rappresentato; mentre a norma dell’art. 577 c.c.succederebbe o non succederebbe a seconda che non vi fossero o vi fossero coniugi o parenti entro il terzo grado del “de cuius”: il che non si concilia col principio ricavato dal raffronto dell’art. 467 c.c. con l’art. 30 della Costituzione.artt. 467 e 577 del Codice civile: norme di cui l’una attribuisce in generale il diritto di rappresentazione ai soli discendenti legittimi del chiamato, l’altra attribuisce un diritto analogo, nella successione ab intestato, anche al figlio naturale del chiamato, ma soltanto se il de cuius non lasci parenti legittimi entro il terzo grado.