Separazione: assegno di mantenimento e tenore di vita

Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2017, n. 12196
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
B.S., Elettivamente domiciliato in Roma, viale Bruno Buozzi, n. 99, nello studio dell’avv. Pier Filippo Giuggioli, che lo rappresenta e difende unitamente agli avv. Paolo Giuggioli e Giorgio De Nova;
– ricorrente –
contro
BA.MI., Elettivamente domiciliata in Roma, via Pacuvio, n. 34, nello studio dell’avv. Lorenzo Romanelli, che la rappresenta e difende, unitamente agli avv.ti Maria Cristina Morelli e Bruno Cavallone;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di Milano n. 2740, depositata in data 11 luglio 2014;
Sentita la relazione svolta all’udienza del 16 novembre 2016 dal consigliere dott. Pietro Campanile;
Sentiti per il ricorrente gli avv.ti P.F. Giuggioli e G. De Nova;
Sentiti per la controricorrente gli avv.ti L. Romanelli, M.C. Morelli e B. Cavallone;
Udite le richieste del Procuratore Generale, in persona del Sostituto dott. CERONI Francesca, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con ricorso depositato in data 4 novembre 2009 la signora Ba.Mi. chiedeva che il Tribunale di Milano pronunciasse la separazione personale dal marito B.S., con il quale era coniugata dal (OMISSIS). Venivano chiesti: la separazione personale con addebito al marito, nonché l’assegnazione della casa coniugale e un assegno di mantenimento pari a tre milioni e seicentomila Euro mensili.
2. Il convenuto, costituitosi, contestava la fondatezza della domanda di addebito, che proponeva a sua volta in via riconvenzionale nei confronti della moglie; eccepiva altresì la carenza dei presupposti per l’assegnazione della casa coniugale, in quanto i tre figli nati dal matrimonio erano ormai maggiorenni ed autosufficienti sul piano economico, nonché la disponibilità, in capo alla moglie, di risorse patrimoniali tali da escludere un contributo per il proprio mantenimento.
3. Nell’adottare i provvedimenti previstidall’art. 708 c.p.c., il Presidente, attesa la permanenza della ricorrente nella casa coniugale in assenza dei presupposti per l’assegnazione, ritenuta la carenza del potere di fissare un termine per il relativo rilascio, determinava in Euro 50.000 mensili il contributo dovuto fino al rilascio dell’abitazione, e in un milione di Euro l’assegno per il periodo successivo.
4. Successivamente, avendo le parti rinunciato alle reciproche domande di addebito, ed essendosi ritenuta la causa matura per la decisione, con sentenza depositata in data 27 dicembre 2012, il Tribunale adito dichiarava la separazione personale dei coniugi, ponendo a carico del marito, a titolo di contributo per il mantenimento della Ba., un assegno mensile di tre milioni di Euro, con decorrenza dalla data dell’udienza presidenziale.
5. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Milano, in parziale accoglimento del gravame proposto dal B., ha determinato l’assegno di mantenimento in favore della Ba. in Euro cinquantamila mensili con decorrenza dalla domanda fino al settembre del 2010, ed in due milioni di Euro mensili per il periodo successivo, ponendo a carico dell’appellante le spese processuali, compensate, nel resto, nella misura di due terzi.
6. La Corte distrettuale ha disatteso preliminarmente l’eccezione dell’appellante fondata su un’interpretazione costituzionalmente orientatadell’art. 156 c.c., nel senso che l’assegno di mantenimento, in considerazione della posizione preminente assegnata alla dignità del lavoro nella Costituzione, inconciliabile con l’acquisizione di posizioni economiche immeritate, non potrebbe superare una determinata soglia; ha ritenuto poi manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale di detta norma, sollevata in riferimento agliartt. 1, 4, 36 e 38 Cost., affermando che un bilanciamento dei valori del lavoro e della famiglia non esclude che, in caso di separazione giudiziale, la misura dell’assegno di mantenimento sia stabilita non con riferimento a una determinata attività lavorativa, bensì in maniera tale da consentire al coniuge privo di adeguati redditi propri di mantenere, considerate le capacità dell’obbligato, un tenore di vita tendenzialmente analogo a quello goduto nel periodo di convivenza matrimoniale.
7. Passando all’esame del merito alla luce delle contestazioni mosse dall’appellante alla sentenza di primo grado, si è osservato che non risultava corrispondente al vero che il Tribunale non avesse tenuto conto della posizione reddituale della Ba. quale socia unica delle società “Il Poggio” e “Reality Corp”, proprietarie di cespiti in (OMISSIS): il giudice di prime cure, all’esito della valutazione comparata delle situazioni patrimoniali e reddituali di entrambi i coniugi, pur non escludendo che i beni dell’appellata producessero un reddito annuo di un milione e 400.000,00 Euro e pur considerando l’entità del patrimonio della moglie, aveva correttamente constatato una rilevante disparità fra i redditi e i patrimoni dei due coniugi. Sotto tale profilo sono state richiamate le classifiche FORBES, che collocavano, sia pure in maniera differenziata fra le varie annualità, il B. fra gli uomini più ricchi del mondo, con un patrimonio di vari miliardi di dollari, essendo per altro proprietario di numerose ville prestigiose e usufruendo di un reddito medio annuo, sulla base delle ultime dichiarazioni fiscali, pari a 53 milioni di Euro.
8. La Corte di appello ha inoltre evidenziato che lo stesso appellante, nel corso del giudizio di primo grado, aveva ammesso, a fronte delle deduzioni istruttorie della controparte, di aver garantito alla moglie un tenore di vita assolutamente al di fuori di ogni norma, mettendole a disposizione, nella villa di (OMISSIS), adibita a casa coniugale, un maggiordomo e una segretaria personale, cuochi, autisti, cameriere e guardarobiere, nonché versandole ogni mese, solo come “argent de poche”, la somma di Euro cinquantamila.
9. Sulla base di tali dati, pur in assenza della determinazione dell’esatto ammontare dei relativi importi, la Corte territoriale ha confermato il giudizio di inadeguatezza dei mezzi di cui disponeva la Ba. al fine di conseguire il tenore di vita tenuto durante la convivenza coniugale, con conseguente diritto, tenuto conto delle evidenziate disponibilità del coniuge, all’assegno di mantenimento.
10. Passando all’esame delle doglianze relative alla quantificazione del contributo, la Corte di appello le ha condivise in parte, considerando che, essendo uno dei temi centrali della controversia la perdita per la moglie del godimento della casa coniugale, costituita dalla villa (OMISSIS) di (OMISSIS), la stessa non aveva allegato le circostanze inerenti all’abitazione da lei prescelta dopo il rilascio di detta villa, nè poteva ritenersi che l’assegno dovesse essere commisurato alle ingenti spese sostenute per la gestione di tale casa coniugale, anche perchè la stessa era funzionale al soddisfacimento delle esigenze di un’intera famiglia, e non della sola Ba..
11. Sotto tale profilo, la somma determinata dal Tribunale appariva eccessiva: la Corte di appello ha quindi ritenuto congruo – considerati, da un lato, l’elevatissimo tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale e, dall’altro, la lunga durata del rapporto matrimoniale e il contributo morale e affettivo reso dalla moglie all’intera famiglia, la dedizione alla cura della prole, nonché l’impossibilità per l’appellata di riprendere l’attività di attrice abbandonata, con il consenso del coniuge, molti anni prima – un assegno di due milioni di Euro mensili, che certamente il B., così come nel periodo anteriore alla separazione, era in grado di versare.
12. La corresponsione dell’assegno nell’indicata misura è stata fatta decorrere, in riforma della decisione di primo grado, dal settembre dell’anno 2010, in coincidenza con la cessazione del godimento della casa coniugale, rimanendo ferma, per il periodo anteriore, la somma determinata all’esito dell’udienza presidenziale.
13. Per la cassazione di tale decisione B.S. propone ricorso, affidato a tre motivi, cui la parte intimata resiste con controricorso. Sono state depositate memorie da ambedue le parti, ai sensidell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, si denuncia omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riferimento alla ritenuta incapacità della moglie di produrre reddito sulla base dell’attività di attrice, senza considerare l’effettiva attività imprenditoriale attualmente svolta dalla stessa.
1.1. In via incidentale, viene riproposta l’eccezione di illegittimità costituzionaledell’art. 156 c.c.in relazione agliartt. 1, 2, 3, 4, 36 e 38 Cost., nella parte in cui detta norma non prevede che l’obbligo solidaristico ivi disciplinato debba essere commisurato ai redditi riconosciuti ai lavoratori e, in ogni caso, in misura non superiore a tali redditi.
2. La natura ancipite della censura impone una distinta disamina dei profili in essa prospettati. Appare in ogni caso opportuno premettere che l’applicabilità, ratione temporis,dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione introdotta dalD.L. 22 giugno 2012, n. 83,art.54, convertito in legge, con modificazioni, dallaL. 7 agosto 2012, n. 134,art.1, comma 1, che ha ridotto al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione, nel senso già chiarito da questa Corte (Cass., Sez. U, 7 aprile 2014, n. 8053), secondo cui la lacunosità e la contraddittorietà della motivazione possono essere censurate solo quando il vizio sia talmente grave da ridondare in una sostanziale omissione, riduce i margini del sindacato di legittimità, limitato alla verifica dell’esame del “fatto controverso” da parte del giudice del merito.
2.1. In particolare, nella decisione sopra richiamata sono stati affermati i seguenti principi.
2.1.1. La riformulazionedell’art. 360 c.p.c., n. 5 – secondo cui è deducibile esclusivamente l’ “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” – deve essere interpretata come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile.
2.1.2. Il nuovo testodell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
2.1.3. L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cuiall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, eall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso.
2.2. La prima doglianza non appare condivisibile, in quanto nella sentenza impugnata la circostanza che costituisce l’oggetto specifico della censura del ricorrente è stata accuratamente esaminata.
In particolare, la Corte territoriale, dopo aver richiamato (pag. 23), fra gli altri, il motivo di appello secondo cui il giudice di primo grado “avrebbe erroneamente ritenuto che l’appellata non sia titolare di alcun reddito, nonostante essa sia socia unica della S.r.l. il Poggio avente un patrimonio di 78 milioni di Euro….”, ha disatteso il motivo di gravame, osservando che “non risponde al vero che il primo giudice abbia ritenuto che l’appellata non sia titolare di alcun reddito” e, precisando, al riguardo, che la stessa Ba. aveva asserito “di essere socia unica della società Il Poggio, e per il tramite di questa, della società Reality Corp di New York, proprietarie entrambe di cespiti in Italia, Stati Uniti ed Inghilterra, pur aggiungendo che uno dei cespiti – il palazzo (OMISSIS) – è gravato da un mutuo di venti milioni di Euro e che vari conduttori avevano comunicato la volontà di recesso”.
2.3. Il tema del reddito derivante dalla suddetta partecipazione societaria risulta, pertanto, esaminato nella sentenza impugnata e, come si dirà appresso, valutato nel contesto delle complessive risultanze processuali: assume un aspetto meramente terminologico la differenza fra la prospettazione, nel ricorso in esame, dello svolgimento, da parte dell’intimata, di una vera e propria attività imprenditoriale, rispetto alla percezione dei redditi derivanti dalla suddetta partecipazione societaria. Per il vero, il possesso della qualità di socio non equivale ad esercizio di impresa, né il tenore dell’atto di appello (trascritto in parte qua a pag. 17 del ricorso) depone nel senso della qualifica di imprenditrice in capo alla Ba., essendosi sostenuto, per contestare la dichiarazione della stessa di essere “casalinga”, che “nella sua qualità di socio unico di Il Poggio S.r.l. ben più opportunamente potrebbe qualificarsi come immobiliarista”.
2.4. Al di là degli aspetti di natura formale, deve rimarcarsi che la Corte distrettuale ha esaminato ogni aspetto della posizione patrimoniale e reddituale dell’intimata, rapportandola poi a quella del marito, ed ha conclusivamente osservato che “pur volendo accettare le stime del patrimonio della Ba. operate dall’odierno appellante; pur tenendo in considerazione anche il valore della villa di (OMISSIS), dalla Ba. donata alla madre; pur non volendo prestar fede alle asserite disdette dei conduttori, la disparità tra i patrimoni e redditi dei due coniugi rimane molto rilevante”. Nell’espressione di tale giudizio si condensa l’essenza della controversia in esame: a seguito delle rinunce alle reciproche domande di addebito e delle ammissioni delle parti in ordine a determinati aspetti di natura fattuale, il contraddittorio si è concentrato essenzialmente sulla concreta determinazione del contributo al mantenimento della moglie, nel cui ambito ha assunto un ruolo centrale la questione – esaminata dalla Corte di appello e risolta in termini parzialmente adesivi alla tesi in proposito sostenuta dall’appellante B. – concernente la mancata assegnazione alla moglie della villa di (OMISSIS), sia per l’insussistenza dei presupposti richiestidall’art. 337-sexies c.c.., sia per la mancata adesione, da parte della stessa Ba., all’ipotesi conciliativa che prevedeva la disponibilità in suo favore di tale bene immobile e un assegno annuo di otto milioni di Euro.
2.5. Non può, pertanto, ritenersi che vi sia stato un omesso esame nei termini lamentati dal ricorrente e riconducibili alla previsione normativa applicabile nel caso, dovendosi ribadire che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, censurabile exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., 10 febbraio 2015, n. 2498).
3. Prescindendo, per ora, dagli ulteriori aspetti inerenti alla ricostruzione dei termini fattuali della vicenda, investiti dai motivi di ricorso che saranno appresso esaminati, va osservato che, sia pure rapportato a una vicenda che, per l’eccezionale rilevanza della consistenza patrimoniale e reddituale dell’obbligato, non trova alcun riscontro, quanto meno sotto il profilo quantitativo, nelle controversie in materia di separazione personale dei coniugi che emergono dalla quotidiana esperienza giurisprudenziale, l’orientamento consolidato di questa Corte in merito all’interpretazionedell’art. 156 c.c., comma 1, risulta correttamente applicato nella decisione in esame. Tale norma dispone che “il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”.
3.1. Mette conto di rimarcare sin d’ora la profonda differenza fra il dovere di assistenza materiale fra i coniugi nell’ambito della separazione personale e gli obblighi correlati alla c.d. “solidarietà post-coniugale” nel giudizio di divorzio: nel primo caso, il rapporto coniugale non viene meno, determinandosi soltanto una sospensione dei doveri di natura personale, quali la convivenza, la fedeltà e la collaborazione; al contrario, gli aspetti di natura patrimoniale – con particolare riferimento all’ipotesi, come quella in esame, di non addebitabilità della separazione stessa – non vengono meno, pur assumendo forme confacenti alla nuova situazione.
Per quanto in questa sede maggiormente rileva, l’obbligo di assistenza materiale trova di regola attuazione nel riconoscimento di un assegno di mantenimento in favore del coniuge che versa in una posizione economica deteriore e non è in grado, con i propri redditi, di mantenere un tenore di vita analogo a quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi. Sotto tale profilo, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, con l’espressione “redditi adeguati” la norma ha inteso riferirsi al tenore di vita consentito dalle possibilità economiche dei coniugi (Cass., 24 aprile 2007, n. 9915); tale dato, non ricorrendo la condizione ostativa dell’addebito della separazione, richiede un’ulteriore verifica per appurare se i mezzi economici di cui dispone il coniuge richiedente gli consentano o meno di conservare tale tenore di vita. L’esito negativo di detto accertamento impone, poi, di procedere a una valutazione comparativa dei mezzi di cui dispone ciascun coniuge, nonché di particolari circostanze (cfr.art. 156 c.c., comma 2), quali, ad esempio, la durata della convivenza.
3.2. La Corte di appello si è conformata a tale orientamento, in quanto, dopo aver dato atto, in merito al tenore di vita, che l’appellante aveva ammesso, al fine di dimostrare l’inutilità delle richieste istruttore della moglie, di aver consentito alla stessa “un tenore di vita assolutamente al di fuori di ogni norma”, definendo poi il proprio patrimonio “ultracapiente”, è pervenuta alla conclusione che la Ba. non potesse con i propri mezzi conseguire il tenore di vita analogo a quello goduto durante la convivenza matrimoniale, escludendo, poi, che tale aspirazione comportasse la realizzazione di uno scopo eccessivamente consumistico o comunque destinato alla capitalizzazione o al risparmio.
3.3. Alla luce di quanto sopra evidenziato, deve constatarsi che non risulta violato il dettato normativo di riferimento nell’interpretazione costantemente resane da questa Corte, dovendosi precisare che, una volta verificata la corretta applicazione di tali principi, la determinazione in concreto dell’assegno di mantenimento costituisce una questione riservata al giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità se non sotto il profilo della motivazione, per la quale, per altro, valgano le richiamate limitazioni derivanti dall’attuale formulazionedell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
4. Tanto premesso, non può omettersi di evidenziare che, in relazione alla censura in esame, lo stesso ricorrente non ha in alcun modo dedotto, ai sensidell’art. 360 c.c., comma 1, n. 3, la violazione o la falsa applicazione della suddetta norma, avendo al contrario prospettato, in termini non dissimili da quelli già indicati nel corso del giudizio di merito, la eccezione di illegittimità costituzionaledell’art. 156 c.c..Tale disposizione, consentendo al coniuge beneficiario dell’assegno di percepire somme superiori a qualsiasi lavoratore, così eccedendo la possibilità di godere di un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.), si porrebbe in maniera irrazionale in contrasto con il principio solidaristico sancito dalla Carta costituzionale, privilegiando uno status sociale e così consentendo al coniuge beneficiario di sottrarsi, per altro percependo, senza espletare alcuna attività, somme eccedenti la possibilità di mantenere un’esistenza libera e dignitosa, al dovere di contribuire al progresso sociale per il tramite della propria attività lavorativa. Inoltre, ponendosi gli obblighi sanciti da detta norma solo a carico del coniuge onerato, risulterebbe violato il principio di uguaglianza.
4.1. A sostegno della fondatezza della eccezione viene richiamata un’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale in merito allaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, che in maniera analoga prevede, nell’interpretazione prevalente, il riferimento, ai fini della determinazione dell’assegno di divorzio, al tenore di vita degli ex coniugi durante la convivenza matrimoniale.
4.2. Vale bene evidenziare in via preliminare la sostanziale diversità del contributo in favore del coniuge separato dall’assegno divorzile, sia perché fondati su presupposti del tutto distinti, sia perché disciplinati in maniera autonoma e in termini niente affatto coincidenti.
Premesso che, come già rilevato, la separazione personale dei coniugi, a differenza dello scioglimento del matrimonio o della cessazione dei suoi effetti civili non elide, anzi presuppone, la permanenza del vincolo coniugale, deve ribadirsi che il dovere di assistenza materiale, nel quale si attualizza l’assegno di mantenimento, conserva la sua efficacia e la sua pienezza in quanto costituisce una dei cardini fondamentali del matrimonio e non presenta alcun aspetto di incompatibilità con la situazione, in ipotesi anche temporanea, di separazione.
4.3. Altrettanto non può affermarsi in merito alla solidarietà post-coniugale alla base dell’assegno di divorzio: al riguardo, è sufficiente richiamare la recente sentenza di questa Corte n. 11504 del 10 maggio 2017, le argomentazioni che la sorreggono (e, in particolare, il n. 2.2., lettera A, pag. 8) ed i principi di diritto con essa enunciati.
4.4. Passando all’esame della questione inerente all’assegno di mantenimento previstodall’art. 156 c.c., che violerebbe i parametri costituzionali indicati nel ricorso, in quanto includerebbe fra le conseguenze patrimoniali del vincolo matrimoniale – come sopra evidenziato, persistenti nel regime di separazione personale – delle contribuzioni a carico dell’onerato del tutto avulse dall’attività svolta dall’altro coniuge, deve in primo luogo rilevarsi che la norma, nell’interpretazione costantemente resane da questa Corte, non è intesa a promuovere, come sembra sostenersi nel ricorso, una colpevole inerzia del beneficiario, in quanto si ritiene che, in relazione all’assegno di mantenimento in esame, debba tenersi dell’attitudine del coniuge al lavoro, la quale viene in rilievo ove venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un’ attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, e non già di mere valutazioni astratte ed ipotetiche (Cass., 13 febbraio 2013, n. 3502; Cass., 25 agosto 2006, n. 18547; Cass., 2 luglio 2004, n. 12121).
4.5. Deve poi rilevarsi come l’attribuzione di un assegno di mantenimento al coniuge che non abbia adeguati redditi propri trova la sua fonte nel rilevante ruolo chel’art. 29 Cost.attribuisce alla famiglia nell’ambito dell’ordinamento. Assume particolare rilevanza il principio di uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi, più volte ribadito dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost., 4 maggio 1966, n. 46, proprio con riferimento all’obbligo di consentire al coniuge separato di mantenere lo stesso tenore di vita precedentemente goduto, sia pure con la necessità di considerare i mezzi di cui autonomamente disponga; id., 16 dicembre 1968, n. 126; id., 20 marzo 1969, n. 45; id., 27 novembre 1969, n. 147; id., 24 giugno 1970, n. 133, in cui si afferma, in tema di rapporti patrimoniali, che l’uguaglianza dei coniugi garantisce l’unità familiare, mentre “è la disuguaglianza a metterla in pericolo”; id., 14 giugno 1974, n. 187; id., 18 dicembre 1979, n. 153; id., 4 aprile 1990, n. 215; id., 6 giugno 2006. N. 254; id., 23 marzo 2010, n. 138).
4.6. In considerazione di quanto evidenziato, l’eccezione di illegittimità costituzionale in esame, sotto tutti i profili dedotti, appare manifestamente infondata, in quanto la determinazione dell’assegno di mantenimento sulla base del tenore di vita dei coniugi, tenuto conto delle altre circostanze e dei redditi dell’obbligato, costituisce l’espressione di quei valori costituzionali sopra richiamati che, secondo criteri di proporzionalità e ragionevolezza, si trovano in rapporto di integrazione reciproca con gli altri principi e diritti fondamentali affermati dalla Costituzione (Corte cost., 7 ottobre 2014, n, 242; id., 9 maggio 2013, n. 85). Vale bene richiamare, in proposito, l’affermazione del Giudice delle leggi secondo cui “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro”.
5. Con il secondo mezzo si deduce l’omesso esame, evidentemente ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, del peggioramento delle condizioni economiche e reddituali del ricorrente; sotto il medesimo profilo si denuncia la violazionedell’art. 156 c.c., comma 2, , richiamandosi l’orientamento secondo cui nel corso del giudizio di separazione rilevano le evoluzioni della situazione reddituale dei coniugi, onde adeguare la pronuncia, eventualmente stabilendo una misura dell’assegno diversa per determinati periodi, ai presupposti inerenti alla determinazione della misura dell’assegno.
5.1. La censura è infondata, sotto tutti i profili dedotti.
5.2. Deve in primo luogo rilevarsi che la deduzione inerente all’omesso esame della questione inerente al decremento dei redditi dell’onerato non trova riscontro nella motivazione della decisione impugnata.
La Corte di appello, infatti, dopo aver riportato (pag. 25) il motivo di gravame secondo cui il mutamento in peius della condizione reddituale e patrimoniale dell’appellante, dovuto alla crisi economica mondiale, avrebbe imposto una riduzione del contributo, anche al fine di evitare che egli fosse costretto a dismettere parte del suo patrimonio, ha calcolato in 53 milioni di Euro il reddito medio annuo del B., sulla base delle dichiarazioni dei redditi presentate negli anni dal 2006 al 2010, ed ha quindi espresso un giudizio di inattendibilità in merito tanto all’ultimo reddito dichiarato, nell’anno 2012, di Euro 4.515.298,00, quanto in ordine alla dedotta riduzione del valore del gruppo Fininvest.
5.3. La violazione della norma sopra indicata – per non aver la sentenza impugnata tenuto conto del decremento – può ritenersi esclusa sulla base del rilievo di inattendibilità testé indicato, essendo evidente che il giudizio di inattendibilità in merito alla deduzione esimeva la valutazione delle giuridiche conseguenze della circostanza; mette conto di precisare, per altro, che non è sufficiente il verificarsi di una variazione delle condizioni patrimoniali dei coniugi (sia in corso di causa – Cass., 22 ottobre 2002, n. 14886; Cass., 22 aprile 1999, n. 4011 – sia nei giudizi di revisione dell’assegno), essendo necessario procedere al rigoroso accertamento dell’incidenza della nuova situazione patrimoniale sul diritto al contributo o sulla sua entità (Cass., 20 giugno 2014, n. 14143; Cass., 15 settembre 2008, n. 236943; Cass., 7 dicembre 2007, n. 25618; Cass., 2 maggio 2007, n. 10133; Cass., 28 agosto 1999, n. 9056; Cass., 28 settembre 1998, n. 8654). Sotto tale profilo, come sopra evidenziato, la Corte territoriale ha posto in evidenza il rilevante divario fra le condizioni patrimoniali e reddituali degli ex coniugi, ponendo in risalto, infine, l’ammissione dello stesso B. di essere “ultracapiente”.
6. La terza censura, con la quale si deduce l’errore del calcolo della media dei redditi dell’appellante, per non essersi considerata la natura straordinaria degli elevati profitti conseguiti nell’anno 2006, con conseguente deduzione della violazione di cuiall’art. 112 c.p.c., presenta evidenti profili di inammissibilità, per non aver colto la complessiva ratio decidendi della decisione impugnata, fondata non soltanto sulla posizione reddituale dell’appellante, già di per sé estremamente rilevante, considerato anche il giudizio di inattendibilità in merito al reddito più recente, ma, soprattutto, sulla consistenza patrimoniale del ricorrente, che, con varie oscillazioni, lo collocava nel periodo considerato – fra gli uomini più ricchi del mondo, tenuto conto delle partecipazioni azionarie e della proprietà di prestigiose ville.
Tale aspetto si associa al richiamo della Corte territoriale al principio, non censurato, secondo cui non è necessaria una individuazione precisa degli elementi relativi alla situazione patrimoniale e reddituali dei coniugi, essendo sufficiente una loro ricostruzione attendibile. In proposito questa Corte ha in più occasioni affermato che, benché la separazione determini normalmente la cessazione di una serie di benefici e consuetudini di vita e anche il diretto godimento di beni, il tenore di vita goduto in costanza della convivenza va identificato avendo riguardo allo standard di vita reso oggettivamente possibile dal complesso delle risorse economiche dei coniugi, tenendo quindi conto di tutte le potenzialità derivanti dalla titolarità del patrimonio in termini di redditività, di capacità di spesa, di garanzie di elevato benessere e di fondate aspettative per il futuro. Inoltre, al fine della determinazione del “quantum” dell’assegno di mantenimento, la valutazione delle condizioni economiche delle parti non richiede necessariamente l’accertamento dei redditi nel loro esatto ammontare, essendo sufficiente un’attendibile ricostruzione delle complessive situazioni patrimoniali e reddituali dei coniugi (Cass., 22 febbraio 2008, n. 4540; Cass., 7 dicembre 2007, n. 25618; Cass., 12 giugno 2006, n. 13592; Cass., 19 marzo 2002, n. 3974).
7. In definitiva, in disparte la contestazione in apicibus della norma contenuta nell’art. 145 c.c., il ricorso non appare meritevole di accoglimento, avendo ad oggetto un decisione sostanzialmente incentrata sulla determinazione in concreto dell’assegno di mantenimento, che si fonda sostanzialmente sulla valutazione di circostanze che, avuto anche riguardo alle evidenziate limitazioni concernenti la deducibilità in questa sede del vizio di motivazione, è affidata all’apprezzamento del giudice del merito.
8. Le spese relative al presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza, e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 40.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi.

Separazione addebito e nesso causale

Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11448
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 256/2014 R.G. proposto da:
F.F., elett.te dom.ta in Roma, via Federico Cesi n. 72, presso l’avv. Luigi Albisinni, che la rappresenta e difende, per procura speciale a margine del ricorso, unitamente all’avv. Michele Sesta;
– ricorrente –
contro
N.G.B., elett.te dom.to in Roma, via Berengario n. 10, presso lo studio dell’avv. Paola Cecchetti, rappresentato e difeso, giusta procura speciale autenticata dal notaio G.F. di Ravenna il (OMISSIS), dall’avv. Chiara Dore;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1178/13 della Corte di appello di Bologna depositata il 17 luglio 2013;
udita la relazione della causa svolta alla pubblica udienza del 16 novembre 2016 dal Consigliere Dott. Carlo DE CHIARA;
udito per la ricorrente l’avv. Michele SESTA;
udita per il controricorrente l’avv. Chiara DORE;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso per quanto di ragione.
Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Ravenna, nel pronunciare la separazione dei coniugi sig.ra F.F. e sig. N.G.B., affidò i figli – G.L., nato il (OMISSIS) e F., nata il (OMISSIS) – ad entrambi i genitori con residenza presso il padre, cui assegnò la casa coniugale, e regolò il diritto della madre a trascorrere con i figli parte del loro tempo e a tenerli con sé. Pose infine a carico di entrambi i genitori l’obbligo di contribuire ciascuno nella misura di 600 Euro mensili al mantenimento dei figli.
2. La Corte d’appello di Bologna, sulle impugnazioni di entrambe le parti, ha confermato la decisione di collocare i figli presso il padre, assunta dal Tribunale sulla scorta della CTU, in considerazione del disagio manifestato da entrambi i ragazzi per l’eccessiva tendenza della madre a coinvolgere nella loro vita il suo nuovo compagno, contrastante con la loro esigenza di elaborare il cambiamento nei tempi dovuti; ha allungato il tempo di permanenza dei figli presso la madre e ha ridotto a 350 Euro mensili l’obbligo contributivo di quest’ultima. Ha inoltre dichiarato inammissibile, perché tardiva, la domanda della sig.ra F. di addebito della separazione al marito ed ha accolto, invece, la domanda di quest’ultimo di addebito della separazione a lei.
3. La sig.ra F. ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi. Il sig. N. ha resistito con controricorso.
La causa, inizialmente portata in Camera di consiglio su relazione ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., che ipotizzava l’inammissibilità del ricorso, è stata dal Collegio rimessa alla pubblica udienza.
Entrambe le parti hanno presentato anche memorie.

Motivi della decisione
1. I primi tre motivi di ricorso, tutti attinenti alle statuizioni relative al collocamento dei figli della coppia presso il padre, sono inammissibili per la parte in cui si riferiscono all’affidamento del figlio G.L., riguardo al quale è cessata la materia del contendere essendo il giovane divenuto maggiorenne il (OMISSIS); il loro esame va pertanto svolto con esclusivo riferimento alla posizione della figlia F., tuttora minorenne.
2. Con il primo motivo, denunciando violazionedell’art. 155 c.c.e dell’art. 8 CEDU, si censura la conferma della collocazione dei figli della coppia presso il padre, con diritto della madre di vederli per due soli fine settimana al mese. Si contestano diffusamente le motivazioni addotte dalla Corte d’appello, sostenendo che ciò lederebbe il diritto dei minori alla bigenitorialità ed a mantenere stabili relazioni con la madre.
2.1. Il motivo è inammissibile perché si risolve in critiche di merito alle ragioni indicate nella sentenza impugnata quale fondamento della valutazione di preferibilità del collocamento dei ragazzi – e in particolare, per quanto qui rileva, della ragazza presso il padre.
3. Con il secondo motivo, denunciando violazione di norme di diritto, si critica la statuizione con cui sono state ritenute legittime le audizioni dei minori ai sensi dell’art. 155 sexies c.c.. In particolare, quanto all’audizione di F., infradodicenne alla data in cui era stata assunta, si lamenta l’omessa motivazione in ordine alla sua ritenuta capacità di discernimento.
3.1. Il motivo è infondato perché la Corte d’appello ha invece spiegato che, quando il Tribunale dispose l’audizione, aveva già a disposizione la CTU, che descriveva la ragazzina come perfettamente consapevole e in grado di produrre una libera narrazione.
4. Con il terzo motivo, denunciando violazionedell’art. 116 c.p.c., si lamenta che la Corte d’appello abbia tratto argomenti di prova, a fondamento dell’opportunità della collocazione dei ragazzi presso il padre, dall’opposizione della madre all’audizione di F. da parte del giudice, ritenendo che la madre temesse che i figli confermassero quanto avevano già dichiarato al CTU (“Così quello che i due ragazzi hanno detto al CTU ne esce rafforzato da quanto accaduto davanti al giudice”, osserva testualmente la Corte). Con ciò la Corte avrebbe violatol’art. 116 c.p.c., che non può trovare applicazione allorché siano in discussione diritti indisponibili dei minori.
4.1. Il motivo è inammissibile, avendo ad oggetto un’argomentazione dei giudici di merito non decisiva, ma meramente rafforzativa o di rincalzo.
5. Con il quarto motivo, denunciando violazionedell’art. 151 c.c., comma 2 e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, si censura la statuizione di addebito della separazione alla ricorrente, basata dai giudici di appello su una sua relazione extraconiugale. Si lamenta, più specificamente, che la Corte d’appello:
a) nel considerare pacifica in causa la sussistenza di una relazione extraconiugale della sig.ra F., abbia tuttavia del tutto omesso di motivare in ordine alla circostanza decisiva della preesistenza di essa alla separazione, circostanza mai ammessa ed anzi espressamente contestata dalla ricorrente nelle sue difese;
b) abbia omesso l’esame di una ulteriore circostanza decisiva ai fini dell’addebito, ossia la crisi coniugale preesistente alla separazione, dedotta dalla ricorrente quale causa effettiva della intollerabilità della convivenza dei coniugi.
5.1. Il motivo è fondato.
In tema di separazione personale dei coniugi, la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri chel’art. 143 c.c., pone a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario accertare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale, ovvero se essa sia intervenuta quando era già maturata una situazione di intollerabilità della convivenza. Pertanto, in caso di mancato raggiungimento della prova che il comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio tenuto da uno dei coniugi, o da entrambi, sia stato la causa del fallimento della convivenza, deve essere pronunciata la separazione senza addebito (ex multis, Cass. 28/09/2001, n. 12130; 16/11/2005, n. 23071; 27/06/2006, n. 14840).
Tanto premesso, quanto alla censura sopra indicata sub a) va rilevato che manca effettivamente, nella motivazione della sentenza impugnata, qualsiasi riferimento all’epoca in cui la sig.ra F. aveva intrapreso la sua relazione extraconiugale: elemento, questo, indubbiamente decisivo, chiaro essendo che soltanto una relazione intrapresa prima della separazione potrebbe essere stata causa della stessa.
Quanto alla censura sub b), va osservato che la Corte d’appello ha esaminato le deduzioni della ricorrente, relative alla mancanza di sostegno e aiuto da parte del marito, soltanto in relazione alla domanda di addebito a carico di lui proposta dalla moglie, e a tal fine le ha ritenute irrilevanti sia a causa dell’accertata inammissibilità di quella domanda, sia valutandole comunque insufficienti a dare ad essa fondamento, essendo “incentrate su pochi episodi isolati incapaci a dare un quadro complessivo dello stato di abbandono del sostegno maritale apprezzabile oggettivamente al di là della percezione con cui possa averlo vissuto la F.”. Un conto, però, è la valutazione se i fatti denunciati possano giustificare l’addebito al marito; ben altro conto è valutare se i medesimi fatti siano comunque rivelatori di una crisi tra i coniugi, che sia stata oggettivamente la causa della intollerabilità della loro convivenza a prescindere dalla colpa dell’uno o dell’altro. Quest’ultima valutazione è appunto mancata da parte della Corte d’appello.
6. In conclusione, dichiarata la cessazione della materia del contendere in ordine all’affidamento del figlio delle parti G.L. e disattesi i primi tre motivi di ricorso, la sentenza impugnata va cassata, in accoglimento del quarto motivo, con rinvio al giudice indicato in dispositivo, per un nuovo esame della domanda di addebito della separazione alla sig.ra F. immune dalle deficienze sopra evidenziate al paragrafo 5.1.
Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte dichiara cessata la materia del contendere in ordine all’affidamento del figlio delle parti G.L.. Accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.

Pensione di reversibilità (una tantum divorzile)

Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11453
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La Corte d’appello di Messina, confermando la pronuncia di primo grado, ha rigettato la domanda avanzata da C.A., dopo il decesso di B.C. suo ex coniuge divorziato, ed avente ad oggetto il diritto di ottenere una quota della pensione di reversibilità spettante alla vedova del B., P.M.S..
A sostegno della decisione ha osservato che la C. aveva ottenuto di percepire l’assegno divorzile in un’unica soluzione avendo così perso il requisito della titolarità attuale del diritto all’assegno previsto dalla legge (L. n. 898 del 1970,art.5, commi 8 e 9e art.9, commi 2 e 3).
La Corte ha evidenziato che vi sono due orientamenti contrapposti: uno che sottolinea il profilo previdenziale del diritto in questione, tanto che soggetto destinatario della domanda è l’ente erogatore. In questo quadro la precedente corresponsione dell’assegno una tantum non esclude il diritto a richiedere la pensione di reversibilità, in quanto tale avvenuta corresponsione evidenzia la titolarità del diritto e, di conseguenza, la sussistenza del requisito di legge per il riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità.
L’orientamento contrario, invece, individua la condicio legis nella titolarità attuale del diritto all’assegno da ritenersi insussistente in quanto consumatasi con la corresponsione dell’una tantum. Secondo questo orientamento deve essere in atto un’erogazione economica periodica in favore del richiedente da sostituire con la quota di pensione di reversibilità.
La Corte d’Appello, nel condividere quest’ultimo orientamento, ha osservato che la previsione, contenuta nellaL. n. 898 del 1970,art.9 bisdi un assegno a carico dell’eredità, non indebolisce la soluzione adottata, dal momento che la titolarità attuale del diritto, comprovata dalla corresponsione periodica del contributo, costituisce una delle condizioni anche dell’assegno a carico dell’eredità. L’art. 5, comma 8, stabilisce, infatti, espressamente che la corresponsione in unica soluzione esclude che possa essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico. L’interpretazione preferita non si pone in contrasto conl’art. 3 Cost.nè con gli artt. 27 e 38 attesa la sostanziale differenza che corre tra corresponsione periodica e corresponsione una tantum la quale garantisce anche per il futuro i mezzi adeguati al sostentamento del coniuge così realizzando una condizione del tutto diversa da quella della corresponsione periodica. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione C.A. affidandosi a cinque motivi accompagnati da memoria.
Ha resistito con controricorso P.M.S..
Nel primo, secondo e quarto motivo di ricorso viene dedotta la violazione dellaL. n. 898 del 1970,artt.5e9per non essere stata ritenuta la natura previdenziale e non assistenziale del diritto ad una quota della pensione di reversibilità. Tale peculiare natura giuridica ha avuto origine dalla modifica normativa dell’art. 9, intervenuta con laL. n. 74 del 1987,art.13. Le S.U. con la sentenza n. 159 del 1998 hanno sottolineato la radicale diversità del regime giuridico all’esito della novella e l’incontestabile natura previdenziale del diritto desumibile dalla predeterminazione normativa dei requisiti e dalla conseguente esclusione del potere discrezionale del giudice in ordine all’an debeatur che caratterizzava il precedente sistema.
Deve in conclusione ritenersi, secondo la parte ricorrente, che il nuovo art. 9, comma 3 intende soddisfare l’interesse del soggetto assicurato exart. 38 Cost., comma 2 a che siano garantiti mezzi adeguati alle sue esigenze di vita nel momento in cui si realizza la situazione di stato di bisogno tipizzata in astratto dal legislatore.
Così delineato il diritto anche dalle S.U., non ha alcuna importanza l’assetto d’interessi realizzato o realizzabile dall’assegno divorzile, in quanto il diritto alla pensione di reversibilità o ad una quota di esso ha natura autonoma rispetto all’assegno divorzile. Per queste ragioni non è condivisibile l’orientamento seguito nella sentenza impugnata che ritiene necessaria la titolarità attuale dell’assegno divorzile e la esclude nel caso di avvenuta corresponsione una tantum, peraltro in contrasto con quanto ripetutamente affermato dalla Corte Costituzionale in tema di reversibilità nelle sentenze n. 777 del 1988 e n. 87 del 1995.
Infine la previsione normativa contenuta nellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 9secondo la quale in caso di corresponsione in unica soluzione dell’assegno di divorzio “non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico” non può essere interpretata nel senso di ricomprendere qualsiasi domanda che trova nel divorzio la sua giustificazione ma soltanto quelle dirette ad influire sull’attribuzione e determinazione dell’assegno.
Nel terzo motivo viene dedotta la violazione dellaL. n. 898 del 1970,artt.9e9 bisper avere la Corte d’Appello ritenuto di poter equiparare le condizioni di riconoscimento dell’assegno a carico dell’eredità, consistenti nella attuale titolarità di un assegno periodico, con quelle relative al diritto ad una quota della pensione di reversibilità, negandone la natura esclusivamente previdenziale.
Nel quinto motivo si prospetta l’eccezione d’illegittimità costituzionale dellaL. n. 898 del 1970,artt.5e9con riferimento ai parametri stabiliti negliartt. 3, 27 e 38 Cost.con riferimento alla lettura delle norme eseguita dalla Corte d’Appello in quanto fondata sull’esclusione della natura previdenziale del diritto la cui maturazione è svincolata dall’assetto d’interessi realizzato con l’assegno divorzile.
La prospettata eccezione d’illegittimità costituzionale deve ritenersi inammissibile dal momento che l’interpretazione adottata dalla Corte d’Appello non è l’unica che concorre a formare gli orientamenti giurisprudenziali anche in sede di giudizio di legittimità.
Deve infatti evidenziarsi che in ordine alla natura giuridica del diritto oggetto di esame nel presente giudizio ed in particolare in ordine all’interpretazione della condicio legis per l’esercizio del diritto consistente nell’essere il richiedente “titolare dell’assegno di cui all’art. 5” (L. n. 898 del 1970,art.9, comma 3) si registra un contrasto netto intersezionale negli orientamenti di questa Corte.
Le S.U. con la sentenza n. 159 del 1998 hanno stabilito che:
“il diritto del coniuge divorziato ad una quota del trattamento di reversibilità (art.9, comma 3, dellaL. n. 898 del 1970, art. 9, nel testo novellato dallaL. n. 74 del 1987,art.13) dello ex coniuge deceduto, non costituisce soltanto un diritto vantato nei confronti del coniuge superstite avente – in quanto tale – natura e funzione di prosecuzione del precedente assegno di divorzio, ma costituisce un autonomo diritto (avente natura previdenziale al pari di quel diritto che si configura invece – ai sensi del secondo comma dell’art. 9 cit. – allorché manchi un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità) al trattamento di reversibilità, che l’ordinamento attribuisce al coniuge superstite, con la sola peculiarità per cui un tale diritto è limitato – quantitativamente – dall’omologo diritto spettante al coniuge superstite”.
Nella successiva sentenza n. 12540 del 1998 hanno ribadito la natura previdenziale del diritto dopo la novella legislativa introdotta dallaL. n. 74 del 1987,art.13e la sua autonomia culminante nell’esclusione di qualsiasi discrezionalità del giudice nella decisione sull’an debeatur, – contrariamente a ciò che accadeva nel regime ante vigente – essendo i requisiti per il riconoscimento del diritto predeterminati dalla legge. Da questa impostazione scaturiscono, secondo questa pronuncia, effetti processuali (litisconsorzio con l’ente previdenziale) e di radicamento della competenza giurisdizionale quando non vi sia, come invece si riscontra nel caso di specie, conflitto tra coniuge superstite e coniuge divorziato.
La natura previdenziale del diritto è stata confermata anche dalla giurisprudenza lavoristica coeva o di poco successiva alle pronunce sopracitate delle S.U. ma traendone la conseguenza dell’insussistenza del diritto quando la corresponsione periodica dell’assegno di divorzio all’ex coniuge divorziato non sia in atto al momento della domanda. Fin dalla sentenza n. 10458 del 2002 si è affermato che, in considerazione della precondizione costituita dalla titolarità attuale del diritto all’assegno di divorzio la pensione di reversibilità (o una quota di essa) può essere riconosciuta “solo nei casi in cui, in sede di regolamentazione dei rapporti economici al momento del divorzio, le parti non abbiano convenuto la corresponsione di un capitale una tantum. Così interpretata, la previsione normativa di cui allaL. n. 898 del 1970,art.9, comma 3, e art. 5, comma 6, manifestamente non si pone in contrasto conl’art. 3 Cost.”.
Questa limitazione è stata seguita, anche dalla prima sezione di questa Corte, con la sentenza n. 17018 del 2003 nella quale è stato affermato, ancorché al fine d’indicare i criteri di quantificazione della quota di pensione di reversibilità spettante al coniuge divorziato in concorso con il superstite, che il diritto in questione, in quanto eziologicamente collegato alla titolarità attuale dell’assegno di divorzio, si fonda sulla precondizione della corresponsione periodica dell’assegno medesimo.
L’orientamento è, tuttavia, cambiato all’interno della medesima sezione, a partire dalla sentenza n. 13108 del 2010 nella quale si afferma che “l’accordo intervenuto tra i coniugi in ordine all’attribuzione dell’usufrutto sulla casa coniugale a titolo di corresponsione dell’assegno di divorzio in unica soluzione, a norma dellaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.5, comma 8, è idoneo a configurare la titolarità di detto assegno, alla stregua del principio della riconduzione ad assegno divorzile di tutte le attribuzioni operate in sede od a seguito di scioglimento del vincolo coniugale, dalle quali il beneficiario ritrae utilità espressive della natura solidaristico-assistenziale dell’istituto; ne consegue che tale costituzione di usufrutto soddisfa il requisito della previa titolarità di assegno prescritto dall’art. 5 della legge ai fini dell’accesso alla pensione di reversibilità, o, in concorso con il coniuge superstite, alla sua ripartizione”.
L’orientamento è confermato nella sentenza n. 16744 del 2011 con la seguente puntualizzazione: “resta irrilevante la modalità solutoria del debito, pattuita fra le parti – come nella specie – in forma “una tantum”, come espressamente consentito dallaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.5, comma 8, in via alternativa all’ordinaria corresponsione periodica”.
Il principio affermato da questo orientamento è, in conclusione il seguente: ferma la natura previdenziale e l’autonomia del diritto alla pensione di reversibilità (od ad una quota di essa) in capo al coniuge divorziato, il requisito indicato nellaL. n. 898 del 1970,art.9, comma 2consistente nella “titolarità dell’assegno” deve essere interpretato nel senso che vi deve essere stato un accertamento giudiziale relativo all’esistenza delle condizioni solidaristico-assistenziali che sottendono ad esso, risultando irrilevante che il diritto sia stato già riconosciuto e definitivamente quantificato con pagamento in un’unica soluzioneL. n. 898 del 1970, ex art. 5, comma 9 e nonostante la norma preveda che “in tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico”. (art. 5, comma 9 ultima parte).
La natura previdenziale del diritto determina, in conclusione, secondo tale opzione, la funzione dell’erogazione sganciandola dall’attualità della titolarità del diritto all’assegno di divorzio.
Nella sezione lavoro si è, invece, data continuità all’orientamento contenuto nella sentenza n. 10458 del 2002 e si è costantemente sostenuto che:
La corresponsione dell’assegno divorzile in unica soluzione su accordo tra le parti, soggetto a verifica giudiziale, è satisfattivo di qualsiasi obbligo di sostentamento nei confronti del beneficiario, il quale, quindi, non può avanzare successivamente ulteriori pretese di contenuto economico, né può essere considerato, all’atto del decesso dell’ex coniuge, titolare dell’assegno di divorzio, avente, come tale, diritto di accedere alla pensione di reversibilità o, in concorso con il coniuge superstite, a una sua quota (Cass. 9054 del 2016 nella quale è ampiamente ed efficacemente riportato il dibattito ed il contrasto giurisprudenziale sopraindicato; in precedenza cfr. le conformi n. 3635 del 2012; 26128 del 2015).
Deve evidenziarsi come nelle pronunce della sezione lavoro il rapporto processuale si è sviluppato tra il richiedente e l’Inps. Nelle sentenze della prima sezione il rapporto processuale si è sviluppato oltre che con l’ente erogatore la pensione di reversibilità anche con il coniuge superstite.
I richiami alle pronunce della Corte Costituzionale (n. 87 del 1995; 419 del 1999) non sembrano offrire una soluzione unitaria al contrasto che si è aperto riguardando la prima la necessità che il requisito della titolarità dell’assegno di divorzio derivi da una statuizione giudiziale e l’altra la non automaticità del criterio determinativo del quantum costituito dalla durata del matrimonio tra i coniugi divorziati.
Sussiste, pertanto, un netto contrasto intersezionale in ordine al diritto alla pensione di reversibilità (od ad una quota di essa) in capo al coniuge divorziato in caso di decesso dell’altro coniuge nell’ipotesi in cui sia stata stabilita la corresponsione in un’unica soluzione dell’assegno di divorzio.
In conclusione, il Collegio ritiene di rimettere la causa al Primo presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite di questa Corte.

P.Q.M.
dispone la trasmissione del procedimento al Primo presidente per l’eventuale rimessione alle Sezioni Unite civili.
In caso di diffusione omettere le generalità e i riferimenti geografici.

Mancata esecuzione dolosa di provvedimenti del giudice (art. 388, co.2. c.p.)

Cass. pen. Sez. IV – 2, 2 maggio 2017, n. 20801
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
C.M., nata a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 16/06/2016 della Corte di appello di Palermo;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Ersilia Calvanese;
udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Di Leo Giovanni, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito il difensore, avv. Stefano Antonio Scaduto, che ha concluso insistendo per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. C.M. ricorre per l’annullamento della sentenza indicata in epigrafe, che ha confermato la sua condanna per il reato di cuiall’art. 81 c.p.eart. 388 c.p., comma 2, per aver eluso in più occasioni quanto stabilito, con il provvedimento di omologazione della separazione, in merito al diritto di visita dei due figli minori da parte del coniuge M.R., non consentendo a quest’ultimo di vedere i figli (reato commesso in (OMISSIS)).
Nel ricorso si deducono i seguenti motivi, enunciati nei limiti di cuiall’art. 173 disp. att. c.p.p.: violazionedell’art. 388 c.p., comma 2, per aver ritenuto efficace l’accordo dei coniugi omologato nel 2008, quando invece concordemente questi ultimi avevano deciso con la scrittura privata del 19 giugno 2009 di privare ad esso efficacia (pertanto, relativamente ai giorni e agli orari di visita previsti dall’accordo originario, non poteva configurarsi, almeno dal punto di vista soggettivo, l’elusione delittuosa ad opera dell’imputata); vizio di motivazione, perché la Corte di appello non avrebbe risposto alla censura in cui si lamentava il ricorso da parte del primo giudice a valutazioni di tipo civilistico in ordine alla validità dell’accordo modificativo; vizio di motivazione in relazione al rapporto tra i due accordi intervenuti tra i coniugi, quanto al diritto di visita dei figli minori accordato al M. e alle modalità di esercizio; vizio di motivazione in ordine all’attendibilità della persona offesa; vizio di motivazione sui riscontri degli episodi denunciati.
2. Il ricorso è inammissibile.
I motivi sono infatti, oltre che manifestamente infondati, anche diversi da quelli consentiti, prospettando – a fronte di un duplice conforme specifico apprezzamento in fatto dei due Giudici del merito, sorretto da motivazione non apparente ed immune dai vizi di manifesta illogicità e contraddittorietà che, soli, rilevano ai sensidell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), quello del Giudice d’appello in dimostrata rivalutazione autonoma del materiale probatorio deduzioni difensive che si risolvono nella mera sollecitazione ad una diversa valutazione, del tutto preclusa in questa sede di legittimità.
In particolare, la Corte palermitana ha motivato le ragioni dell’infondatezza delle censure difensive sui punti ora solo riproposti e le deduzioni del ricorso (con il riferimento diretto a parti di atti dell’istruttoria) si risolvono all’evidenza in affermazioni di mero precluso merito.
Va al riguardo ribadito che, in sede di legittimità, non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata col gravame quando la stessa è disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata. Pertanto, per la validità della decisione non è necessario che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed esplicita confutazione della tesi difensiva disattesa, essendo sufficiente per escludere la ricorrenza del vizio che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione della deduzione difensiva implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa. Sicché, ove il provvedimento indichi con adeguatezza e logicità quali circostanze ed emergenze processuali si sono rese determinanti per la formazione del convincimento del giudice, sì da consentire l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata, non vi è luogo per la prospettabilità del denunciato vizio di preterizione (tra tante, Sez. 2, n. 29434 del 19/05/2004, Candiano, Rv. 229220).
Deve anche ribadirsi che il vizio più volte evocato dalla ricorrente del travisamento della prova sussiste solo quando vi sia una incontrovertibile antinomia tra i risultati obiettivamente derivanti dalla prova assunta e le conseguenze che il giudice di merito ne abbia tratto. Tale vizio è configurabile soltanto quando l’accertata distorsione disarticoli effettivamente l’intero ragionamento probatorio e, alla stregua dei parametri di rilevanza e decisività, renda illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato probatorio trascurato o travisato (tra tante, Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte). Pertanto, non rientrano nel suddetto vizio né le critiche al “significato” opinabile di un dato probatorio né le censure riguardanti elementi probatori privi della suddetta decisività.
2.1. Sul primo motivo è sufficiente richiamare la consolidata giurisprudenza di legittimità, puntualmente citata dalla Corte di appello, sulla possibilità dei coniugi di modificare le disposizioni contenute nel decreto di omologazione della separazione ovvero nell’ordinanza presidenziale exart. 708 c.p.c.(Sez. 2 civ., n. 298 del 12/01/2016, Rv. 638452). La necessità dell’intervento del giudice sull’accordo modificativo è posto in funzione di tutela dei diritti indisponibili del soggetto più debole e dei figli.
E all’evidenza un accordo modificativo, come quello nel caso in esame, che non stabilisca le modalità di visita dei figli a favore del genitore non affidatario può risultare per la sua assoluta genericità pregiudizievole per i preminenti interessi del minore, alla cui tutela i suddetti provvedimenti devono essere essenzialmente rivolti.
Quanto alla rilevanza dell’accordo modificativo sul dolo, la Corte di appello ha ben evidenziato che era stata la stessa imputata a contestarne l’efficacia proprio per le suddette ragioni.
Né l’accordo modificativo può comunque aver influito nella individuazione della condotta elusiva, posto che gli episodi oggetto di contestazione si riferivano pur sempre a situazioni previste da entrambi gli accordi.
2.2. Il secondo, terzo e quarto motivo, ruotanti anch’essi sulla validità o efficacia dell’accordo modificativo, sono all’evidenza privi di fondamento, insistendo su aspetti del tutto irrilevanti, per quanto si è detto poc’anzi, con argomenti tra l’altro anche perplessi.
Il reato di cuiall’art. 388 c.p., comma 2, presuppone un provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento di minori, che va individuato nei termini sopra indicati, con la precisazione che l’elusione deve sostanziarsi in qualunque comportamento che ne ponga nel nulla o aggiri le finalità, il cui contenuto ed i relativi obblighi devono essere valutati non in termini letterali, ma alla luce dell’interesse del minore che vi è sotteso e che ne costituisce la ragion d’essere (tra tante, Sez. 3, n. 24294 del 07/04/2010, D. S. B., Rv. 247871).
2.3. Anche il quinto motivo, sulla credibilità ed attendibilità della persona offesa, si rivela inammissibile nella misura in cui mira ad isolare “chirurgicamente” dal ragionamento del Giudice dell’appello aspetti che non incidono sulla logicità e completezza complessiva della risposta ai motivi di gravame.
E’ sufficiente osservare che il suddetto tema è stato ampiamente affrontato dalla Corte di appello, analizzando tutte le obiezioni difensive, che la ricorrente reitera in questa (dichiarazioni del M. sulla efficacia dell’accordo tra le parti; deposizione della teste P.; relazione dell’assistente sociale sulla frase pronunciata dalla figlia minore della coppia; contenuto delle querele; rilievi sul contenuto della deposizione del M.; episodio dell'(OMISSIS); motivi di astio e rancore) e che risultano rigettate con argomenti privi di illogicità o errori giuridici.
Né può aver rilievo in sé quanto accertato in un separato giudizio riguardante la “piena attendibilità” del M., posto che in quella sede il Giudice si è limitato (come si evince dallo stesso ricorso, pag. 21) a rilevare la mancanza di riscontri alle sue dichiarazioni e non certo a bollarne la inverosimiglianza o addirittura la falsità.
2.4. Miglior sorte non ha l’ultimo motivo.
Va ribadito che le dichiarazioni della persona offesa, anche se costituita parte civile, possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, dep. 2015, Pirajno, Rv. 261730). È stato altresì affermato che può essere opportuno in questi casi corroborare il controllo dell’attendibilità del racconto con “altri elementi” (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214), che tuttavia non devono avere il carattere richiestodall’art. 192 c.p.p., comma 3.
Pertanto, è irrilevante stabilire, come pretende la ricorrente, se la teste P. abbia riscontrato i singoli episodi indicati nelle querele del M., essendo sufficiente, come la sentenza impugnata rileva, che la teste abbia riferito che “quasi tutti i giorni” la persona offesa si era lamentato con lei che non riusciva a vedere i figli e che gli stessi bambini le avevano esternato la mancanza del papà ed il desiderio di dormire a casa con lui (circostanza quest’ultima ribadita anche nella relazione dell’assistente sociale) e che, alle contestazioni dalla stessa fatte alla C., quest’ultima non abbia negato gli episodi, ma soltanto frapposto “impegni improvvisi”.
Quanto alla natura arbitraria degli impegni opposti dalla ricorrente, va rilevato che correttamente la Corte di appello ha richiamato il consolidato orientamento di legittimità, secondo cui il motivo plausibile e giustificato che può costituire valida causa di esclusione della colpevolezza per il reato mancata esecuzione di un provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento di un figlio minore, è solo quello che, pur senza configurare l’esimente dello stato di necessità, deve comunque essere stato determinato dalla volontà di esercitare il diritto-dovere di tutela dell’interesse del minore, in situazioni, transitorie e sopravvenute, non ancora devolute al giudice per l’eventuale modifica del provvedimento di affidamento, ma integranti i presupposti di fatto per ottenerla (Sez. 6, n. 7611 del 11/12/2014, dep. 19/02/2015, D. L., Rv. 262494).
È al riguardo sufficiente evidenziare che nell’appello l’imputata si era limitata a contestare soltanto la natura “ostile” della frase riferita dalla teste P., senza tuttavia giustificare la natura degli impegni, nei termini sopra espressi.
3. Alla declaratoria di inammissibilità segue, a normadell’art. 616 c.p.p.la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma a titolo di sanzione pecuniaria, che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo quantificare nella misura di Euro 1.500.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500 in favore della Cassa delle ammende.

Assistenza familiare (violazione degli obblighi) (art. 570 co.2 n.2 c.p.)

Cass. pen. Sez. II, 15 maggio 2017, n. 24050
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
S.M., N. IL (OMISSIS); nei confronti di: A.B., N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 412/2014 CORTE APPELLO di PERUGIA, del 13/10/2015;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 10/02/2017 la relazione fatta dal Consigliere Dott. LUCIANO IMPERIALI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. BIRRITTERI Luigi, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
Udito il difensore avv. Rosetta Anna Mancuso per l’ A. che si è riportata “ai motivi”.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza emessa in data 9/2/2010 il Tribunale di Ascoli Piceno, sezione distaccata di San Benedetto del Tronto, riconosceva la penale responsabilità di A.B. in ordine a reati di violazione degli obblighi di assistenza familiare – derivanti da tre separati procedimenti, riuniti in fase dibattimentale – per aver fatto mancare mezzi di sussistenza al figlio minore Y., non avendo versato per intero alla moglie separata, S.M., gli assegni relativi al mantenimento del minore, dell’importo mensile di 608,22 Euro secondo quanto disposto dalla Corte di Appello di Ancona, e non avendo partecipato alle spese straordinarie, con riguardo ai periodi da marzo a settembre 2007, ai mesi di gennaio e febbraio 2008 ed ai mesi di aprile e maggio 2008.
2. La pronuncia con la quale in data 16/2/2012 la Corte di Appello di Ancona confermava la sentenza di primo grado veniva annullata dalla Corte di Cassazione con sentenza del 27/3/2014, che accoglieva il primo dei motivi proposti, relativo al travisamento della prova, nel quale restavano assorbite le altre doglianze, e rinviava alla competente corte territoriale.
4. Con sentenza del 13/10/2015 la Corte di Appello di Perugia, in riforma della sentenza di primo grado, ha assolto l’ A. dai reati ascrittigli perché il fatto non costituisce reato.
5. Propone ricorso per Cassazione, ai soli effetti civili, la parte civile S.M. chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata in ordine alla revoca delle statuizioni civili e deducendo a tal fine i seguenti motivi di impugnazione:
5.1. travisamento dei fatti e vizio di motivazione in ordine ai conteggi relativi alle mensilità erogate ed in ordine al tempo di adempimento; in particolare, la ricorrente si duole che, a fronte dello stato di bisogno del figlio minore, il padre abbia provveduto a pagamenti solo parziali ed incompleti senza che sia stata dimostrata la sua impossibilità economica di adempiere.
5.2. violazione di legge, in particolare dell’art. 570 c.p., con riferimento agli obblighi di assistenza familiare, assumendo la ricorrente non aver considerato la Corte territoriale la reiterazione del reato, il bisogno del minore relativamente al momento del mancato mantenimento previsto dalla sentenza civile, per una mancata contribuzione totale di Euro 1.382,00 e non già di 166 Euro come ritenuto in sentenza, oltre il 50 % di spese mediche e sportive mai rimborsate per 727,00.

Motivi della decisione
6. Il ricorso è inammissibile.
6.1. Questa Corte di Cassazione, con la sentenza del 27/3/2014 dinanzi ricordata, nel riconoscere il travisamento della prova nella sentenza allora impugnata, ha riepilogato analiticamente in una tabella esplicativa, mese per mese, i versamenti effettuati dall’ A. nei periodi in contestazione, rilevando che questi non potevano ritenersi satisfattivi solo “in minima parte” delle obbligazioni familiari poste a carico del predetto imputato.
Si tratta di una tabella elaborata sulla base di quanto risultante dalla documentazione incontestata in atti e dalle dichiarazioni della persona offesa in ordine ai versamenti mensili di 350 Euro effettuati dall’imputato, e sulla base di questa la sentenza della Corte di Appello di Perugia in questa sede impugnata ha rilevato che l’ A. ha effettuato tutti i versamenti per i periodi in contestazione del 2008, come risultato dalla espressa imputazione dei relativi vaglia postali, indicati in tabella, mentre per i sette mesi del 2007 in contestazione la tabella elaborata dalla sentenza di rinvio ha indotto la Corte territoriale a riconoscere un inadempimento per circa 166 Euro, in considerazione di 258 Euro non versate per ciascuno dei tre mesi da marzo a maggio 2007 (con versamenti di Euro 350 anziché di Euro 608), solo in parte compensate dal doppio versamento del mese di luglio 2007.
La Corte territoriale ha, poi, rilevato che le spese straordinarie non erano previste a carico dell’ A. da alcuno dei provvedimenti regolanti la separazione coniugale e che, delle spese prospettate dalla persona offesa, soltanto la spesa di 30 Euro per un certificato medico risultava concretamente sostenuta nel suddetto periodo del 2007. L’esiguità dell’inadempimento a fronte di un simile arco temporale e lo spontaneo raddoppio del versamento in alcuni mesi dell’anno hanno, pertanto, indotto la Corte di Appello ad escludere che l’ A. volesse rendersi inadempiente ai propri obblighi di mantenimento.
6.2. A fronte di una ricostruzione fondata sulla tabella di cui alla sentenza della Corte di Cassazione relativa ai versamenti documentati, pertanto, la ricorrente propone contestazioni dei conteggi riportati nella sentenza impugnata, che si assumono “palesemente errati” proprio relativamente al dato, intangibile per il giudice di rinvio, delle spese già riconosciute come documentate dalla Corte di legittimità: così, la ricorrente ricorda essere stato riconosciuto che nessun versamento è stato effettuato nel gennaio del 2008, omettendo però di considerare che la tabella di cui alla sentenza di questa Corte utilizzata dal giudice di merito riferiva anche di un doppio versamento effettuato nel successivo mese di giugno, sicché nessun vizio di motivazione può ravvisarsi nell’assunto secondo cui, di fatto, l’ A. ha effettuato tutti i versamenti per i periodi in contestazione del 2008. Analogamente, con riferimento al 2007, la ricorrente deduce l’asserita erroneità del calcolo operato dalla Corte territoriale, omettendo però di considerare il doppio versamento effettuato nel luglio del 2007, e contesta altresì la quantificazione delle spese straordinarie riconosciute dalla sentenza impugnata, peraltro senza allegare al ricorso né richiamare espressamente alcuna documentazione a sostegno di tale assunto: sul punto viene proposta, pertanto, una inammissibile ricostruzione dei fatti mediante criteri di valutazione diversi da quelli adottati dal giudice di merito, il quale, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha esplicitato le ragioni del suo convincimento, mentre è noto che esula dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U., 30/4/1997, n. 6402, Rv. 207944; Sez. 4, n. 4842 del 02/12/2003, Rv. 229369).
6.3. In ordine alla censura con la quale si contesta, infine, che adempimenti parziali o tardivi possano esonerare l’ A. dalla penale responsabilità in ordine al reato ascrittogli, deve preliminarmente rilevarsi che ai fini della configurabilità del reato previstodall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, deve escludersi ogni automatica equiparazione dell’inadempimento dell’obbligo stabilito dal giudice civile alla violazione della legge penale e, nell’ipotesi di corresponsione parziale dell’assegno stabilito in sede civile per il mantenimento, il giudice penale deve accertare se tale condotta abbia inciso apprezzabilmente sulla disponibilità dei mezzi economici che il soggetto obbligato è tenuto a fornire ai beneficiari, tenendo inoltre conto di tutte le altre circostanze del caso concreto, ivi compresa la oggettiva rilevanza del mutamento di capacità economica intervenuta, in relazione alla persona del debitore (Sez. 6, n. 15898 del 04/02/2014 – dep. 09/04/2014, S., Rv. 259895). Soprattutto, però, deve rilevarsi che nel caso di specie la Corte territoriale non ha valutato l’esiguità degli inadempimenti per escludere l’elemento materiale del reato, bensì per escludere la volontà dell’imputato di rendersi inadempiente, con argomentazione da ritenersi immune da vizi logici o giuridici, giacché fondata anche sulla considerazione dell’arco temporale oggetto del procedimento, oltre che dei doppi versamenti talvolta effettuati, ritenuti poco compatibili con la volontà di non adempiere.
7. All’inammissibilità del ricorso consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1500,00.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro millecinquecento a favore della Cassa delle Ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003,art.52, in quanto imposto dalla legge.

Prescrizione dell’assegno di mantenimento e azione di rimborso spese opera dal riconoscimento di paternità non dalla nascita

Cass. civ. Sez. I, 7 aprile 2017, n. 9059

SENTENZA
sul ricorso 18920-2015 proposto da:
P.M.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RIDOLFINO VENUTI 42, presso l’avvocato ANTONIO CAUTI, VIA DELLA GIULIANA 44, presso l’avvocato LUIGI ANTONANGELI, rappresentato e difeso dagli avvocati MICHELANGELO ORTORE, FEDERICA DI BENEDETTO, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
P.M.L.;
– intimata – avverso la sentenza n. 77/2015 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 20/01/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/10/2016 dal Consigliere Dott. MASSIMO DOGLIOTTI;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato FERNANDO RUCCI che ha chiesto l’accoglimento del ricorso principale, il rigetto dell’incidentale;
udito, per il controricorrente e ricorrente incidentale, l’Avvocato MICHELANGELO ORTORE che ha chiesto l’inammissibilità o il rigetto del ricorso principale, l’accoglimento del ricorso incidentale;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale, per il rigetto dell’incidentale.

Svolgimento del processo
Con sentenza in data 03/05/2007, il Tribunale di Pescara condannava C.S. al rimborso pro quota di quanto versato dall’attrice P.M.L., per il mantenimento della figlia nata il (OMISSIS), riconosciuta subito dalla madre e dal padre soltanto in data 30/04/2003, rimborso da determinarsi dal 1971 alla data della domanda, condannando il convenuto al pagamento di una provvisionale e rinviando ad altra data per ulteriore istruzione.
Avverso la sentenza proponeva appello il C. chiedendo, tra l’altro, l’estinzione del diritto al mantenimento a far data dal 1990-1991 o al più tardi, dal 1999, la prescrizione quinquennale o in subordine decennale, decorrente dalla nascita, operando il diritto al rimborso, dal quinquennio decennio) anteriore alla domanda, con restituzione da parte dell’appellata della provvisionale.
Costituitosi il contraddittorio, l’appellata chiedeva il rigetto dell’appello.
Il Tribunale di Pescara, all’esito di ulteriore istruzione, con sentenza in data 31/3/2009, condannava il C. a pagare all’attrice, quale rimborso del mantenimento della figlia, nella misura del 50% la somma di Euro 195.525,00 calcolati sulle somme maturate dal 1971 alla data della domanda.
Anche avverso tale sentenza proponeva appello il C., chiedendo la riduzione del quantum e l’esclusione del cumulo tra rivalutazione ed interessi. Costituitosi il contraddittorio, l’appellata chiedeva il rigetto dell’appello e, in via incidentale il rimborso di somme superiori al 50%, quantificandole in Euro 696.725,54.
Riuniti gli appelli, la Corte rigettava l’appello avverso la sentenza non definitiva, dichiarava inammissibile quello incidentale avverso la sentenza definitiva e, in parziale accoglimento dell’appello principale, condannava il C. a pagare alla P. la somma di Euro 120.000,00.
Ricorre per cassazione la P., che pure deposita memoria difensiva.
Resiste con controricorso il C. che pure propone ricorso incidentale.

Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente principale lamenta vizio di motivazione e violazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) relativamente alla dichiarazione di inammissibilità dell’appello incidentale, ritenendo che le sue richieste non fossero coperte da giudicato.
Con il secondo, violazione degli artt. 316 bis, 337 bis, 337 ter eart. 112 c.p.c., nonchè vizio di motivazione relativamente al quantum liquidato.
Con un unico motivo, il ricorrente incidentale lamenta violazione degli artt. 2934 e 2935 c.c., sostenendo che la prescrizione del rimborso alla madre della minore deve decorrere dalla nascita della figlia delle parti.
Il primo motivo del ricorso principale appare infondato.
Correttamente il giudice a quo respingeva l’appello incidentale proposto avverso la sentenza definitiva, C. al mantenimento della figlia (pro quota), dunque nella misura del 50% (come precisa correttamente il giudice a quo), con evidente riferimento a quanto contenuto nell’atto di citazione della P. (la relativa statuizione è contenuta nella sentenza non definitiva in atti). Né la P. – precisa ulteriormente la Corte di merito – ha impugnato la statuizione della sentenza non definitiva che ha determinato il periodo di tempo 1971 – 2004, fino alla data della domanda, come quello per il quale essa ha diritto di ripetere il 50% di spese per il mantenimento della figlia (anche tale statuizione è contenuta nella sentenza non definitiva in atti).
Afferma la ricorrente di aver modificato la propria domanda con memoria exart. 183 c.p.c., chiedendo una somma superiore al 50%, ma non coglie esattamente la ratio dell’argomentazione censurata: il giudice a quo infatti non esclude che vi sia stata modifica, ma afferma, come si è detto, che la predetta statuizione della sentenza non definitiva, non è stata impugnata è appena il caso di precisare che se la sentenza si fosse riferita ad una somma indeterminata superiore al 50%, non avrebbe parlato di “quota”).
Quanto al secondo motivo, correttamente la sentenza impugnata rileva che, non essendovi prova del preciso ammontare degli esborsi, la liquidazione deve essere equitativa e, con motivazione adeguata ha giustificato tale liquidazione, considerando eccessivi alcuni parametri indicando la necessità di una ” devalutazione ” per evitare conseguenze paradossali relativamente al periodo più risalente, indicando un valore annuo medio, per il quale ha tenuto conto del buon tenore di vita assicurato dalla P. alla figlia, ancorché in una città di provincia, Chieti, dove il costo della vita è meno elevato rispetto a città più grandi e diversamente collocate, delle cure mediche pagate, dei redditi delle parti sostanzialmente paragonabili.
Va pertanto rigettato il ricorso principale.
Quanto all’unico motivo del ricorso incidentale esso appare infondato.
Pur con approfondimento ed accuratezza il ricorrente vorrebbe modificare un orientamento del tutto consolidato di questa Corte, che il collegio condivide pienamente.
L’obbligo dei genitori di mantenere i figli sussiste per il fatto di averli generati (ai sensidell’art. 30 Cost., artt. 147 e 315 bis c.c.) e prescinde da ogni domanda proposta, essendo sorto fin dalla nascita il diritto del figlio ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori. Quello dei due che ritarda il riconoscimento, come avviene nella specie ovvero obbliga l’altro, in rappresentanza del figlio a chiedere la dichiarazione giudiziale, non può allegare a proprio vantaggio il ritardo stesso.
Dunque la prescrizione per il diritto al mantenimento del figlio ma anche per quello del genitore al rimborso delle spese effettuate per il mantenimento stesso, non opererà dalla nascita ma dal riconoscimento da parte del genitore obbligato ovvero dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità (tra le altre, Cass. N. 5652 del 2012; 14417 del 2016, e anteriormente Cass. N. 17914 del 2007).
Conclusivamente va rigettato anche il ricorso incidentale.
Il tenore della decisione richiede la compensazione delle spese tra le parti.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale; compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

Onere della prova dell’impossibilità lavorativa in capo al richiedente l’assegno divorzile

Cass. civ. Sez. I, 11 maggio 2017, n. 11538
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
D.C.C., elettivamente domiciliato in Roma, alla via della Conciliazione n. 44, presso lo studio dell’Avv. Salvino Mondello, rappresentato e difeso dall’Avv. Gennara Basile del Foro di Catania, come da mandato a margine del ricorso;
contro
B.C., rappresentata e difesa dall’Avv. Giuseppe Torrisi del Foro di Catania;
– resistente –
avverso la sentenza n. 511/2009 della Corte d’appello di Catania del 25.3.2009, depositata il 16 aprile 2009;
sentita la relazione svolta dal Presidente Dott. Di Palma Salvatore;
non essendo comparsi i difensori;
udite le conclusioni del P.M., Dr. Ceroni Francesca, che ha chiesto la cassazione con rinvio della decisione contestata.
Svolgimento del processo
Con la sentenza impugnata, n. 511 del 25 marzo 2009 (dep. 16.4.2009), la Corte d’Appello di Catania ha riformato la decisione pronunciata in primo grado dal Tribunale di Catania con sentenza del 26.3.2007.
Il Tribunale aveva dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto il 4.6.1990 da B.C. e D.C.C. ed aveva affidato ad entrambi i genitori le figlie minori (nate il (OMISSIS) ed il (OMISSIS)) con collocamento presso la madre, ponendo un assegno di mantenimento per le sole figlie (complessivi Euro 480,00 mensili) a carico del padre, oltre a regolamentare le visite di quest’ultimo ed a disciplinare il riparto delle spese straordinarie. Il giudice di prime cure aveva quindi rigettato la domanda di assegno divorzile per il proprio mantenimento, proposta dalla B., rilevando che la stessa non aveva provato il proprio stato di disoccupazione. Il Tribunale aveva infine dichiarato compensate tra le parti le spese di lite.
Era stata proposta impugnazione da B.C., che aveva insistito nel domandare l’attribuzione di un assegno divorzile anche per sé. Aveva resistito il D.C., proponendo inoltre appello incidentale in materia di spese di lite. La Corte di merito ha riconosciuto alla ricorrente il diritto ad un assegno mensile di Euro 200,00 ed ha posto le spese di lite del grado di giudizio a carico del D.C..
La Corte territoriale ha osservato che la ricorrente non aveva prodotto la richiesta documentazione fiscale, avendo peraltro dichiarato di non aver presentato dichiarazione dei redditi, poiché aveva lavorato soltanto qualche mese in un cali center. La Corte di merito ha quindi ricordato che l’impugnante aveva evidenziato che un assegno mensile, del cui versamento era stato gravato il D.C., le era stato riconosciuto in sede di separazione dei coniugi e, non essendo intervenuta alcuna modificazione dello stato di fatto, ne domandava la conferma. Il D.C. aveva invece depositato la dichiarazione dei propri redditi, e da questi emergeva che egli lavorava quale dipendente percependo un reddito di Euro 2.500,00 al mese circa. La Corte d’Appello ha in proposito sottolineato la natura assistenziale dell’assegno divorzile, che non consente la riproduzione automatica in sede di divorzio delle statuizioni patrimoniali adottate in sede di separazione personale dei coniugi. La Corte territoriale ha poi ricordato che la B. viveva con le figlie in una casa dei suoi genitori, ed aveva evidenziato che il D.C., oltre a percepire un reddito quale lavoratore dipendente, è anche titolare di possidenze immobiliari ed appariva in grado di poter contribuire anche al mantenimento della ex moglie, oltre a provvedere al mantenimento della nuova famiglia che si era formato.
Avverso la decisione della Corte d’Appello di Catania ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro articolati motivi, completati dall’enunciazione del quesito di diritto, D.C.C.. Non si è costituita B.C..

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto, ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5. In sostanza, il ricorrente critica la decisione della Corte di merito per non aver tenuto in conto adeguato la natura assistenziale dell’assegno divorzile, che ha quale presupposto l’accertamento che la parte la quale ne domanda l’attribuzione all’ex-coniuge non dispone di redditi, adeguati, “essendo necessaria la prova dell’inesistenza assoluta di possibilità di lavoro”. Diversamente, la resistente è donna cinquantenne in possesso di diploma magistrale e può trovarsi un’occupazione redditizia, come “lo svolgimento di lezioni private o l’attività di doposcuola”.
2. Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto, ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che “l’impugnata pronuncia è sorretta da una motivazione confusa, incongrua e contraddittoria”, in particolare nella parte in cui avrebbe dovuto provvedere alla comparazione dei redditi delle due parti. La Corte d’Appello avrebbe trascurato infatti, nella prospettazione del D.C., di tener conto delle possidenze immobiliari della ex moglie e che la moglie non aveva provato il proprio stato di disoccupazione. La Corte di merito, inoltre, non avrebbe valorizzato nella misura dovuta, per quanto attiene all’odierno ricorrente, il fatto che egli ha una nuova famiglia, non è un imprenditore – come sostenuto in precedenza dalla B. – ed è pure gravato da cospicuo debito tributario.
3. Con un terzo motivo, il ricorrente ha ulteriormente contestato, ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, che la decisione della Corte d’Appello sarebbe incorsa nella violazione del disposto di cui agliartt. 115 e 116 c.p.c., eartt. 2729 e 2697 c.c., per aver formulato il proprio giudizio sulla spettanza dell’assegno divorzile alla ricorrente “sulla base di circostanze estranee al giudizio di primo grado, irrilevanti, frutto di mere affermazioni labiali dell’appellante, oltre che prive di alcun riscontro probatorio”. Ha sottolineato al proposito che la documentazione offerta dalla B. in primo grado (modello ISEE ed alcune foto) era stata dichiarata inammissibile perché prodotta tardivamente, insieme alla memoria di replica.
4. Con un quarto motivo il ricorrente ha contestato, ai sensi dell’art. 360, comma 1, comma 3, la violazione degliartt. 91 e 92 c.p.c.da parte dei giudici a quibus, per aver rigettato l’appello incidentale da lui proposto in materia di spese di lite, che impongono “la condanna della parte soccombente al rimborso delle spese in favore dell’altra parte”. Essendo l’odierno ricorrente risultato totalmente vittorioso in quel grado del giudizio, e non concorrendo giusti motivi per disporre la pur decisa compensazione delle spese di lite, la pronuncia dei giudici dell’appello sul punto dovrebbe considerarsi illegittima. Evidenzia ancora il ricorrente che le richieste patrimoniali della B., la quale in primo grado aveva domandato il riconoscimento di un complessivo assegno mensile pari ad Euro 1.200,00, per sè e per le figlie, non erano alfine state accolte dal Tribunale e neppure dalla Corte di merito.
I primi tre motivi d’impugnazione possono essere trattati congiuntamente, tenuto conto della loro attinenza al riconoscimento del diritto all’assegno divorzile in favore della B., sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione. Occorre allora osservare che non appare corretto interpretare la normativa vigente nel senso che la stessa esige sia fornita, dal richiedente l’attribuzione di un assegno divorzile, la ben difficile prova dell’inesistenza assoluta di ogni possibilità di lavoro, come invece sostenuto dal ricorrente. L’assegno divorzile ha indubbiamente natura assistenziale e deve essere disposto in favore della parte istante la quale disponga di redditi insufficienti a condurre un’esistenza libera e dignitosa, e deve essere contenuto nella misura che permetta il raggiungimento dello scopo senza provocare illegittime locupletazioni. B.C. – sono dati processuali incontestati – non dispone di un impiego fisso, e neppure beneficia dell’abitazione presso la casa coniugale, disponendo di un’abitazione messale a disposizione dai suoi genitori, nella quale vive insieme alle figlie. La donna non risulta percepire un reddito regolare, mentre la titolarità da parte sua di un quarto di un immobile di cui è per il resto proprietario il D.C., pur essendo stata invocata dal ricorrente a supporto delle proprie difese, conferma invero lo squilibrio esistente tra le capacità patrimoniali delle parti. La B. ha anche dichiarato – affermazione non contestata da controparte – di essersi impegnata a svolgere attività lavorativa, essendo stata impiegata presso un call center.
Ricordato che il D.C. dispone di possidenze immobiliari e percepisce uno stipendio mensile di circa 2.500,00 Euro, i dati necessari per pervenire ad una decisione informata da parte della Corte d’Appello erano quindi stati raccolti. Tanto osservato può concludersi che il modesto assegno mensile che è stato riconosciuto alla odierna resistente dalla Corte di merito, 200,00 Euro rivalutabili, e del cui versamento è stato gravato l’ex marito ed odierno ricorrente, deve intendersi come un mero contributo al mantenimento della B., che le è stato motivatamente riconosciuto dalla Corte di merito tenuto conto delle complessive disponibilità economiche delle parti, in misura che non appare inadeguata.
I motivi di ricorso in esame devono essere perciò respinti.
Non merita accoglimento neppure il quarto motivo di ricorso, mediante il quale il ricorrente contesta la compensazione delle spese di lite disposta dal Tribunale all’esito del giudizio di primo grado, con pronuncia confermata dal giudice dell’appello. La Corte di merito ha spiegato sul punto che “la compensazione delle spese processuali disposta in primo grado, attiene non solo all’accoglimento o meno della domanda bensì alla valutazione complessiva della causa nonché alla natura della stessa”. Questa motivazione, pur succinta, non merita censure in sede di giudizio di legittimità. Avendo il ricorrente proposto la propria critica invocando la violazione di legge, poi, occorre aggiungere che, per costante orientamento di questa Corte, in tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese. Con riferimento al regolamento delle spese il sindacato della Corte di Cassazione è pertanto limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa – fenomeno che non si è verificato nel caso in esame – con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, sia la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, tanto nell’ipotesi di soccombenza reciproca, quanto nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi (cfr., ex plurimis, Cass. n. 14349/12, nn. 17145 e 25270 del 2009), sia provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti (minimi, ove previsti e) massimi fissati dalle tabelle vigenti. Nel caso di specie, peraltro, neppure l’affermazione del ricorrente secondo cui egli sarebbe risultato completamente vittorioso nel primo grado del giudizio può condividersi, essendo sufficiente osservare che l’importo dell’assegno di cui è stato gravato per il mantenimento delle figlie minori è stato incrementato dal Tribunale rispetto a quanto da lui offerto.
Anche questo motivo di ricorso deve essere pertanto respinto.
Nulla deve provvedersi in materia di spese di lite nel presente grado, in ragione della mancata costituzione della resistente.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso.

Il punto di vista di Gianfranco Dosi

Presupposti dell’assegno divorzile e condizione femminile: perché la prima sezione della Cassazione non è convincente

La prima sezione della Cassazione ha deciso, ma in modo non convincente, di abbandonare per il divorzio il riferimento al pregresso tenore di vita quale parametro finalizzato all’attribuzione dell’assegno, agganciando il diritto del coniuge richiedente al parametro dell’indipendenza economica (Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504). Con una sentenza di poco successiva la stessa prima sezione ribadisce che il riferimento al pregresso tenore di vita continua a valere per l’assegno di separazione (Cass, civ. sez. I, 16 maggio 2017, n. 12196).

I. Il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento
1. L’assegno di separazione
L’art. 156 del codice civile prevede che il coniuge al quale la separazione non è addebitata ha “diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”. L’entità di questa somministrazione – avverte poi la stessa disposizione – “è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato”.
Si tratta dell’unica norma giuridica che disciplina gli effetti della separazione nei rapporti patrimoniali tra coniugi.
Sulla base di questa disposizione – risalente alle modifiche introdotte nel codice con la riforma del 1975 – sono stati definiti nel tempo i contorni di una teoria generale delle obbligazioni di mantenimento coniugale in sede di separazione che si è mantenuta fino ad oggi sostanzialmente inalterata.
Gli elementi di questa teoria generale sono soprattutto i seguenti.
Il primo e fondamentale elemento può essere considerato il fatto che la condizione giuridica dei coniugi in sede di separazione, da un punto di vista delle obbligazioni di contribuzione e sostegno economico reciproco, è sostanzialmente la stessa di quella sussistente nel corso del matrimonio, sia pure trasformata in obbligazione di somministrazione del mantenimento. La separazione, d’altro lato, non scioglie il matrimonio ma ne elimina solo i vincoli giuridici di natura personale di coabitazione, fedeltà e collaborazione. Con la conseguenza che l’obbligazione di mantenimento in sede di separazione ha sostanzialmente la stessa natura di quella che ai sensi dell’art. 143 c.c. costituisce la regole contributiva primaria del vincolo matrimoniale. L’obbligo di contribuzione, quindi, permane, trasformandosi in obbligo di somministrazione del mantenimento, sempre che si verifichino i presupposti indicati nell’art. 156 che condizionano in sede di separazione il permanere di questa obbligazione. Il divorzio, viceversa, comportando il venir meno del vincolo matrimoniale dovrebbe rendere più plausibile e quasi scontata una discontinuità tra la funzione e la natura delle obbligazioni di mantenimento reciproco matrimoniali e post matrimoniali, tanto che in materia di assegno divorzile il dibattito ha avuto modo di articolarsi nel corso dei decenni passati in contrasti e orientamenti difformi. Un dibattito altrettanto vivace, invece, non si è verificato in materia di assegno di separazione, dove è sostanzialmente visibile continuità e omogeneità tra obbligazioni contributive nel corso del matrimonio e in sede di separazione.
Questi principi compaiono spesso nella giurisprudenza. Per esempio molto esplicitamente Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2003, n. 18920 afferma che “la separazione instaura un regime il quale, a differenza del divorzio, tende a conservare il più possibile tutti gli effetti propri del matrimonio, compatibili con la cessazione della convivenza e, quindi, anche il tenore e il tipo di vita di ciascuno dei coniugi, nel senso esattamente che solo con il divorzio la situazione muta radicalmente, tanto da far residuare tra gli ex coniugi solo un vincolo di solidarietà di tipo preminentemente assistenziale” e Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2000, n. 5253 avverte che “durante la separazione personale non viene meno la solidarietà economica che lega i coniugi durante il matrimonio, la quale comporta la condivisione dei reciproci mezzi economici”. In Cass. civ. Sez. I, 22 aprile 1998, n. 4094 e Cass. civ. Sez. I, 10 marzo 1994, n. 2349 si legge che “durante la separazione personale non viene meno la solidarietà economica che lega i coniugi durante il matrimonio e che comporta la condivisione delle reciproche fortune nel corso della convivenza”. La recente sopra richiamata Cass, civ. sez. I, 16 maggio 2017, n. 12196 conferma questa impostazione.

Il secondo elemento di una teoria generale sul mantenimento coniugale in sede di separazione è costituito dal principio (di elaborazione soprattutto giurisprudenziale) che l’assegno di mantenimento di separazione non ha altre funzioni se non quella di continuare a garantire al coniuge debole dopo la separazione lo stesso tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale. Quasi, quindi, senza nessuna discontinuità. L’art. 156 c.c. esprime questo principio attribuendo al coniuge incolpevole, appunto “il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”. Si tratta di un principio, d’altra parte, del tutto comprensibile considerato che non si può pretendere che un coniuge possa essere privato da un giorno all’altro del sostegno di chi nel corso del matrimonio aveva, fino al giorno prima, garantito il suo sostentamento.

Il terzo aspetto di una teoria generale concerne la quantificazione del mantenimento. Nel nostro ordinamento giuridico non esiste alcun criterio di quantificazione; solo la vaga indicazione normativa (art. 156, secondo comma, c.c.) che “l’entità di tale somministrazione è determinata in relazione alla circostanze e ai redditi dell’obbligato”.
Alla teoria generale appartiene anche il presupposto fondamentale del diritto al mantenimento coniugale – esplicitato nell’art. 156 c.c. – costituito dalla previsione dell’esclusione del mantenimento per il coniuge al quale è addebitata la separazione. Principi generali di solidarietà coniugale hanno impedito finora di risolvere in altro modo il problema dell’addebito della separazione e paradossalmente sono però anche alla base della previsione che in ogni caso anche il coniuge colpevole ha diritto a ricevere gli alimenti se si trova in stato di bisogno. Connessa a quest’ultimo tema è l’ultima caratteristica del mantenimento coniugale di separazione costituito dalla distinzione teorica tra il diritto al mantenimento e il diritto agli alimenti, ma al tempo stesso l’attribuzione ad entrambi questi diritti della stessa natura in senso ampio alimentare (Corte cost. 21 gennaio 2000, n. 17).

2. L’assegno di divorzio
a) L’art. 5, comma 6, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 sul divorzio, nel testo modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74 prevede che “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.( )
Perciò il presupposto legale per l’attribuzione sia dell’assegno di separazione che di quello divorzile è oggi identico e consiste nel non avere mezzi/redditi adeguati (condizione che in sede di divorzio la legge considera equivalente al non poterseli procurare per ragioni oggettive).
Vi è, perciò, secondo il legislatore, una sostanziale continuità tra vita coniugale e vita post-coniugale che poggia su legami di assistenza e di solidarietà reciproca, connessi alla formazione di una famiglia e alla vita nella famiglia per un tempo che può essere limitato nel tempo ovvero anche molto lungo e che permangono anche oltre la crisi dei rapporti interpersonali.
b) Ad interpretare il significato dell’espressione “mezzi adeguati” utilizzata nell’art. 5, sesto comma, della legge sul divorzio (nel testo modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74) – in difetto di una chiara indicazione del legislatore – si era mossa la giurisprudenza subito dopo la riforma operata con tale legge.
Due orientamenti si contrapposero immediatamente in questa disputa. Cass. civ. Sez. I, 17 marzo 1989, n. 1322 (Relatore Finocchiaro) aveva ritenuto che sulla base del nuovo dato normativo l’obbligo di un coniuge, di somministrare periodicamente a favore dell’altro coniuge un assegno, in tanto sorge in quanto il coniuge preteso beneficiario sia privo di mezzi adeguati oppure non possa procurarseli per ragioni oggettive. Ritiene il Collegio che con l’aggettivo “adeguato” occorre far capo alla dottrina ed alla giurisprudenza che, nell’interpretare l’espressione equivalente mancanza di “adeguati redditi propri” usata in tema di separazione dall’art. 156 c.c. hanno ritenuto che il difetto dei redditi adeguati sussiste quando il coniuge preteso beneficiario dell’assegno non abbia redditi propri che gli consentano il mantenimento di un tenore di vita analogo a quello che aveva in costanza di matrimonio. Analoga interpretazione può seguirsi in relazione alla formula usata nel novellato somma sesto dell’art. 5 c.c. della legge sul divorzio, non essendovi argomenti per attribuire all’aggettivo “adeguati” una accezione diversa da quella riconosciutagli in sede di separazione personale.
Una interpretazione radicalmente diversa aveva invece successivamente proposto Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1990, n. 1652 (Relatore Senofonte) sostenendo che nel giudizio per l’attribuzione dell’assegno di divorzio, la valutazione relativa all’adeguatezza dei mezzi economici di cui dispone il richiedente deve essere compiuta con riferimento non al tenore di vita da lui goduto durante il matrimonio, ma ad un modello di vita economicamente autonomo e dignitoso, quale, nei casi singoli, configurato dalla coscienza sociale. È, dunque, l’autonomia economica (o il suo contrario) del richiedente che, nella filosofia della riforma, assume un ruolo decisivo, nel senso che l’altro coniuge tenuto ad “aiutarlo” solo se egli non sia economicamente indipendente e nei limiti, quindi, in cui l’aiuto si renda necessario per sopperire alla carenza dei mezzi conseguente alla dissoluzione del matrimonio. Questa conclusione – chiarisce la sentenza – aderisce, da un lato, ad una ricostruzione del sistema che non lascia spazio alla improbabile sopravvivenza di uno “status” economico connesso ad un rapporto personale definitivamente estinto (ma, se fosse vero il contrario, patrimonialmente indissolubile) e soddisfa, dall’altro, quelle esigenze solidaristiche che trovano non nel suo fittizio prolungamento, ma nella sua cessazione la propria ragione giustificatrice, liberando, ad un tempo, la condizione coniugale da connotazioni marcatamente patrimonialistiche, che, dando per acquisite e fornite di ultrattività posizioni, molte volte, di “pura rendita” (come si esprime la citata relazione parlamentare), oltre a stravolgere l’essenza del matrimonio, ne possono favorire la disgregazione, deresponsabilizzando il beneficiario, e, una volta che questa si sia verificata, assolverlo dall’obbligo di attivarsi per realizzare con le proprie risorse la sua personalità e acquisire, cosi, una dignità sociale effettiva e condivisa.
Chiamate a risolvere il contrasto le Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. Unite, 29 novembre 1990, n. 11490) lo risolsero aderendo all’interpretazione della prima decisione sopra ricordata e precisando che l’assegno periodico di divorzio – come modellato dalla riforma del 1987 – ha carattere esclusivamente assistenziale, atteso che la sua concessione trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di bisogno, e rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio.
Pertanto dal 1990 è prevalso in giurisprudenza l’orientamento che – proponendo una continuità tra assegno di separazione a assegno di divorzio – rapporta il giudizio di adeguatezza dei redditi al pregresso tenore di vita della vita coniugale.
c) Nell’ambito del sistema normativo sopra sintetizzato la giurisprudenza ha precisato nel tempo che il giudizio relativo all’accertamento richiesto dalla legge del divorzio, si articola in due fasi (due operazioni): quella del riconoscimento del diritto e quella della determinazione in concreto dell’assegno.
Nella prima fase/operazione il giudice è chiamato a verificare l’esistenza del diritto in relazione all’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente raffrontati al tenore di vita esistente in costanza di matrimonio (individuando una misura tendenzialmente capace di superare quella inadeguatezza), mentre nella seconda fase/operazione deve procedere ad una più concreta determinazione quantitativa dell’assegno, attraverso una valutazione ponderata dei vari criteri previsti (…condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi… valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio,…) che operano come fattori di moderazione della somma considerata in astratto e possono, se del caso, addirittura azzerarla in ipotesi estreme, quando, cioè, la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione (giurisprudenza consolidata a partire da Cass. civ. Sez. I, 13 maggio 1998, n. 4809).
Naturalmente questo percorso operativo che la Cassazione richiede al giudice di compiere non è così semplice come potrebbe apparire. E verosimilmente nessun giudice segue questo percorso nel modo con cui viene esplicitato. Il giudice si pone certamente il problema del raffronto tra l’assegno e il tenore di vita pregresso, ma compie in genere un’unica operazione contabile in cui tutti gli elementi si sovrappongono in una valutazione di fatto equitativa (per non dire approssimativa). Insomma la prassi è un po’ diversa e meno scientifica di quanto la Cassazione pretenderebbe. In ogni caso è certo che il riferimento attributivo dell’assegno sia, nella testa del giudice, il pregresso tenore di vita. Ed altrettanto avviene quando sono le parti con i loro avvocati a concordare un assegno.
d) La questione dell’interpretazione dell’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio è stata portata anche all’attenzione della Corte costituzionale che l’ha risolta – rifacendosi alla giurisprudenza vivente e confermando la plausibilità e la validità delle due operazioni/fasi a cui si è fatto sopra riferimento – e sostenendo, appunto, che “il parametro del tenore di vita rileva soltanto per determinare in astratto il tetto massimo della misura della prestazione assistenziale, da determinare poi in concreto, caso per caso, con gli altri criteri di diminuzione indicati nell’art. 5 della legge sul divorzio (condizione e reddito dei coniugi, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla formazione del patrimonio comune, durata del matrimonio, ragioni della decisione) sino al loro eventuale azzeramento” (Corte Cost. 11 febbraio 2015 n. 11).
Era avvenuto che nel corso di un giudizio civile di divorzio, il tribunale di Firenze aveva ritenuto rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, sesto comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, come modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, nell’interpretazione, secondo cui in presenza di una disparità economica tra coniugi, “l’assegno divorzile … deve necessariamente garantire al coniuge economicamente più debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio”. Ad avviso del giudice rimettente, questa interpretazione si porrebbe, infatti, in contrasto con la Costituzione in quanto l’assegno di divorzio, pur avendo una finalità meramente assistenziale, finirebbe con l’attribuire l’obbligo di garantire per tutta la vita un tenore di vita agiato in favore del coniuge ritenuto economicamente più debole. Ricondurre l’assegno divorzile al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, sarebbe non solo anacronistico ma anche irragionevole per la “contraddizione logica” ravvisabile “tra l’istituto del divorzio, che ha come scopo proprio quello della cessazione del matrimonio e dei suoi effetti, e la disciplina del divorzio che di fatto proietta oltre l’orizzonte matrimoniale il “tenore di vita” in costanza di matrimonio”.
La Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la questione, affermando che nella giurisprudenza vivente il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non costituisce affatto l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile. In effetti – ricorda la Corte costituzionale – la Corte di cassazione, in sede di esegesi della normativa impugnata, ha sempre ribadito il proprio “consolidato orientamento”, secondo il quale il parametro del “tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” rileva, bensì, per determinare “in astratto … il tetto massimo della misura dell’assegno” (in termini di tendenziale adeguatezza al fine del mantenimento del tenore di vita pregresso), ma, “in concreto”, quel parametro concorre, e va poi bilanciato, caso per caso, con tutti gli altri criteri indicati nello stesso denunciato art. 5.

II. Separazione, divorzio e condizione femminile
Nel 2015 (ultimo dato istat disponibile) sono stati celebrati in Italia 194.377 matrimoni (di 24.000 tra coppie miste: il 12,4%). Nel 2014 ne erano stati celebrati 189.765). Nel periodo 2008-2014 i matrimoni sono diminuiti in media al ritmo di quasi 10.000 l’anno.
Gli sposi celibi hanno in media 35 anni e le spose nubili 32.
Le seconde nozze, o successive, sono 33.579. L’incidenza sul totale dei matrimoni raggiunge il 17%.

Le separazioni sono state 91.706 (+2,7% rispetto al 2014). Le separazioni in tribunale sono state 74.000 (l’80%). Le altre sono state concordate fuori dai tribunali (5.688 – e quindi il 6,2% – ex art 6 della normativa sulla negoziazione assistita; 11.980 – e quindi il 13% – ex art. 12 davanti all’ufficiale di stato civile).
La durata media del matrimonio al momento della separazione è di circa 17 anni.
Ci si separa oggi ad una età più avanzata rispetto al passato. La classe più numerosa è quella tra i 40 e i 44 anni per le mogli (18.631 separazioni, il 20,3% del totale) mentre per i mariti è quella tra i 45 e i 49 anni (18.055 pari al 19,7%). Nel 2000, invece, il maggior numero delle separazioni ricadeva sia per i mariti sia per le mogli nella classe 35-39 anni.
In media al momento della separazione i mariti hanno 48 anni, le mogli 45 anni.
I divorzi nel 2015 sono stati 82.469 (+57% sul 2014: dato spiegabile con l’introduzione proprio nel 2015 della possibilità di chiedere il divorzio in tempi più ravvicinati alla separazione). L’età al momento del divorzio è più avanzata rispetto a quella della separazione (in media quindi dopo i 48 anni per gli uomini e dopo i 45 anni per donne).
Nel 40% delle separazioni è previsto un assegno per la moglie, solo per lei o anche per i figli (nel 10% delle separazioni per la solo moglie e nel 30% delle separazioni per la moglie e i figli). Nel 30% delle separazioni non è previsto alcun assegno per la moglie. In oltre il 30% delle separazioni è previsto un assegno (a titolo di contributo ordinario) solo per i figli, in genere versato dal padre.
Si tratta si percentuali abbastanza stabili nel tempo, che non hanno subito negli ultimi anni variazioni di rilievo.
Nel 2015 le separazioni con figli in affidamento (condiviso o meno) sono state circa il 90%% di tutte le separazioni. La quota di separazioni in cui la casa coniugale è assegnata alla moglie è di circa il 70%.
In conclusione la donna che, in prime nozze, si separa lo fa dopo un periodo medio di 17 anni e dopo un matrimonio che l’ha impegnata per un periodo di età tra i 32 e i 45 anni. Nel 40% dei casi (quindi ad un flusso stabile di oltre 41.000 donne ogni anno) le viene riconosciuto il diritto ad un assegno coniugale. E in una percentuale che va dal 70% al 90% ha anche figli che ha concorso a crescere in famiglia e che nella stragrande maggioranza dei casi rimangono con lei dopo la separazione.
Non esistono statistiche sull’entità degli eventuali redditi a disposizione delle 41.000 donne che ogni anno si separano e alle quali viene riconosciuto l’assegno di mantenimento. Può trattarsi di donne che non hanno alcun reddito o di donne che pur avendo mezzi economici li hanno di entità tale da non poter garantire il godimento del pregresso tenore di vita (pacificamente considerato in sede di separazione presupposto di attribuzione dell’assegno). Pertanto non è possibile stimare con sufficiente attendibilità il numero di donne che potrebbero vedersi confermato o meno in sede di divorzio l’assegno.
Il tasso di occupazione femminile (46%: ma 56% al nord e 30% al sud) è più basso di quello dell’uomo e sussistono differenze rilevanti di salario e stipendio tra uomini e donne. Il tasso di occupazione femminile in Europa è più alto raggiungendo mediamente il 60%. Il divario diviene molto elevato, superando i 20 punti, con la Germania e l’Olanda. Nelle coppie che si separano, le donne hanno un tasso di occupazione più alto della media; segno evidente che per la donna il reddito lavorativo influenza la scelta stessa di separarsi.
Il regime di comunione legale può in qualche modo favorire il riequilibrio economico tra coniugi nel corso del matrimonio e al momento della separazione ma il regime della separazione die beni non ha alcun meccanismo di riequilibrio a favore del coniuge più debole.

III. L’ineliminabile necessaria valorizzazione del contributo dato da entrambi i coniugi alla vita matrimoniale
Nel contesto sopra delineato della attuale condizione femminile in Italia è ineliminabile l’attribuzione all’assegno divorzile di una funzione che contenga in sé la valorizzazione del contributo dato dalla moglie alla vita matrimoniale, senza correre il rischio che tale contributo resti annullato dalla ritenuta indipendenza economica. L’indipendenza economica è un elemento che può essere preso in considerazione come elemento di moderazione ma non come presupposto attributivo dell’assegno, perché in tal modo potrebbe seriamente mortificare o vanificare il peso del contributo offerto dalla donna alla vita matrimoniale e della famiglia.
Attualmente la funzione di valorizzazione del contributo in questione è assolta dal criterio di attribuzione dell’assegno collegato al pregresso tenore di vita.
Le condizioni e il tenore di vita che due coniugi hanno avuto nel matrimonio sono strettamente dipendenti dal “contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune”.
Perciò, il riferimento al pregresso tenore di vita (cioè alle pregresse condizioni di vita della famiglia) quale presupposto per l’attribuzione dell’assegno (di separazione e di divorzio) contiene in sé oggettivamente una carica compensativa che non può essere eliminata (e che, infatti, la stessa prima sezione della Cassazione dichiara di voler confermare per la separazione). La famiglia ha potuto godere di un certo tenore di vita perché entrambi lo hanno reso possibile con il loro contributo personale, professionale o casalingo. Ed anche con il loro sacrificio personale. Le opportunità di cui la famiglia si è avvantaggiata derivano anche dalla divisione del lavoro che i coniugi hanno concordato o accettato. In tanto il lavoro professionale di un coniuge ha potuto garantire un particolare assetto economico in quanto magari il lavoro dell’altro, che si è dedicato (solo o di più) alla casa e ai figli, ha reso possibile quell’assetto.
Dopo 17 anni di matrimonio (questa è la durata media del matrimonio, come si è visto, vissuto da lei nell’arco medio di età tra i 32 e i 45 anni) – quando lui ha 48 anni e lei 45 – come si può pretendere di non considerare questo fattore l’elemento determinante da cui partire per garantire che quel contributo abbia un ragionevole riconoscimento nell’assetto post-matrimoniale? Soprattutto, come si è detto, in assenza di significativi fattori di riequilibrio connessi al regime patrimoniale sia della comunione legale che della separazione dei beni.
La circostanza che vi possano essere nel corso del matrimonio (e anche dopo) situazioni di parassitismo generate dall’approfittamento da parte di un coniuge delle fortune dell’altro è situazione che può trovare ristoro in sede di quantificazione dell’assegno (“fino ad azzerarlo” come ha sempre riconosciuto la giurisprudenza) ma non per cancellare il riferimento alle condizioni di vita nel corso del matrimonio.
Il riferimento alle pregresse condizioni di vita è, dunque, l’unico criterio capace di garantire un punto di partenza equlibrato per decidere l’assetto economico post-matrimoniale. Non ve ne possono essere altri.
E se questo criterio di riferimento vale per la separazione non può non valere anche per il divorzio. Non vi sono due momenti della crisi o due momenti diversi della condizione femminile, ma un unico momento (al quale il nostro sistema giuridico appresta la duplice sempre più ravvicinata soluzione della separazione e del divorzio.

IV. Le ragioni del dissenso rispetto all’orientamento espresso dalla prima sezione della Cassazione in materia di presupposti dell’assegno divorzio
1. La contraddizione in sé di due diversi criteri attributivi dell’assegno
L’orientamento espresso dalla prima sezione della Cassazione con le due sentenze richiamate (11504/2017 e 12196/2017) è prima di tutto contraddittorio perché fa leva su una distinzione, tipica del nostro Paese, (tra separazione e divorzio) che non può assumere alcuna ragionevole funzione distintiva (che non sia meramente formale) tra criteri di attribuzione dell’assegno di mantenimento. Separazione e divorzio sono espressioni di una medesima condizione post-matrimoniale (che in alcuni Stati sono tra loro condizioni alternative, ma che in quasi tutti confluiscono nella sola condizione divorzile). La funzione dell’assegno post-matrimoniale non può che essere la stessa. In tutti i Paesi del mondo è così.
D’altro lato la distinzione tra separazione e divorzio nel nostro ordinamento si è oggettivamente sdrammatizzata (anche se non è ancora stata superata) in seguito alla legge 55/2015 che ha ravvicinato così tanto i termini minimi di tempo previsti tra la separazione e il divorzio, da rendere la distinzione tra i due istituti quasi solo formale: sei mesi dall’udienza presidenziale di separazione se c’è stata consensuale o consensualizzazione, oppure un anno.
Ed è stata, paradossalmente, proprio la stessa Corte di Cassazione a chiarirlo, suggerendo una sorta di continuità sostanziale tra separazione e divorzio con due sentenze di legittimità (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981 e Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078) nelle quali lo stato di separazione viene praticamente omologato a quello divorzile. Si afferma in queste due sentenze che – contrariamente a quanto si era sempre prima ritenuto nell’interpretazione dell’art. 2941 n. 1 c.c. – non ha senso prevedere la sospensione della prescrizione tra coniugi successivamente alla loro separazione, posto che due coniugi separati sono di fatto in una condizione di reciproca autonomia personale simile a quella del divorzio (dal quale si è sempre fatta ricominciare a decorrere la prescrizione). Un passo, insomma, pienamente consapevole, verso una tendenziale equiparazione sostanziale tra la condizione di separazione e condizione divorzile.
In questo contesto, costruire riferimenti diversi per l’attribuzione dell’assegno di separazione e per quello divorzile è una esercitazione che finisce per essere ideologica perché sulla base del dato formale costituito dalla maggiore o minore continuità con il regime primario del matrimonio (la separazione ne sarebbe solo un indebolimento, mentre il divorzio ne romperebbe del tutto la continuità) spezza la condizione post-matrimoniale in due momenti in cui dal punto di vista della condizione femminile o non si verifica nessuna discontinuità sostanziale (e il coniuge debole rimane tale, continuando ad aver diritto all’assegno) o si creano le condizioni per un cambiamento improvviso del tutto incomprensibile in quanto nell’arco di sei mesi si potrebbe passare – sulla base di questo orientamento – dal diritto all’assegno (garantito dal riferimento al pregresso tenore di vita) al non diritto all’assegno (in ragione della ritenuta indipendenza economica dell’ex coniuge richiedente).
Si pensi al dato paradossale di due coniugi che si separano dopo vent’anni di matrimonio: se il divorzio sopraggiunge dopo sei mesi dalla separazione, la moglie potrebbe aver diritto ad un assegno (necessario per garantire il pregresso tenore di vita) solo per sei mesi!

2. La distinzione tra criteri di attribuzione e criteri di quantificazione potrebbe essere superata solo eliminando il criterio di attribuzione ma non sostituendolo con quello dell’indipendenza economica
La distinzione tra criteri di attribuzione (an) e criteri di quantificazione (quantum) dell’assegno divorzile, si fonda sul testo stesso della legge 898/70 come riformata nel 1987 (in cui diritto è attribuito al coniuge richiedente “…quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati “) in simmetria con quanto previsto in sede di separazione (in cui il diritto è garantito al medesimo ex coniuge richiedente “…qualora egli non abbia adeguati redditi propri”) ed ha rappresentato fino ad oggi la più ragionevole soluzione che i giudici abbiano oggettivamente potuto offrire al problema di come valorizzare il contributo dato dalla donna alla vita matrimoniale.
Come si è già detto, la giurisprudenza afferma per il divorzio a tale proposito, in continuità con quanto previsto in sede di separazione, che il giudice del divorzio è chiamato a verificare dapprima l’esistenza del diritto in relazione all’inadeguatezza dei mezzi raffrontati alla condizione e al tenore di vita in costanza di matrimonio individuando un importo capace di fronteggiare quella inadeguatezza, e poi a procedere alla modulazione quantitativa di quell’importo attraverso una valutazione ponderata dei vari criteri previsti che operano come fattori di moderazione dell’importo come sopra considerato, potendo ridurlo (in presenza, per esempio, di redditi significativi) o addirittura azzerarlo in ipotesi estreme (per esempio quando la separazione era stata addebitata alla moglie).
Pertanto – e salvo quanto si è già detto in merito alla scarsa scientificità di questa operazione concreta affidata al giudice – se due coniugi con un reddito di circa 8.000 euro al mese del marito professionista e i 2.000 euro al mese della moglie insegnante di scuola media, hanno potuto garantirsi per dieci anni un tenore di vita più che accettabile (reso possibile da 10.000 euro di complessivo reddito familiare) il giudice del divorzio dovrebbe ipotizzare astrattamente una misura capace di fronteggiare la inadeguatezza dei redditi della moglie a conservare l’assetto al quale ha anche lei contributo (esattamente come il giudice fa in sede di separazione) e procedere poi ad una quantificazione più precisa dell’assetto economico divorzile tenendo presenti i criteri legali previsti nell’art, 5, comma 6, della legge sul divorzio.
Si deve ricordare che originariamente il testo dell’art. 5 della legge sul divorzio prevedeva solo criteri di quantificazione dell’assegno ( ) lasciando al giudice il compito, in verità difficile, di valutare il quantum dell’assegno sulla base di criteri che, con l’aggiunta di quello della durata del matrimonio” sono poi diventati (con la riforma del 1987) i criteri di quantificazione, utilizzabili dopo la verifica del diritto all’attribuzione di un assegno.
Questi criteri sarebbero destinati a scomparire del tutto – e con essi ogni aspetto compensativo ad essi riferibile – ove con il nuovo orientamento il giudice decidesse che il coniuge è autosufficiente economicamente. Giudizio nel quale gli aspetti compensativi non sarebbero mai in ogni caso recuperabili.
Il riferimento al criterio dell’indipendenza economica quale criterio di attribuzione dell’assegno non è in grado di offrire, perciò, in sede divorzile la possibilità di recupero della dimensione compensativa dell’assegno divorzile. Se, infatti, nella prima fase di valutazione del diritto, il giudizio è quello di indipendenza economica di chi ha redditi di 2.000 euro mensili, non sarà possibile passare alla seconda fase di quantificazione. Il diritto viene negato e tutto finisce lì. Con la scomparsa di ogni possibile recupero di qualsiasi criterio di valutazione “delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio”.

3) I diritti dell’ex coniuge obbligato
Il riferimento nella sentenza 11504/2017 al diritto (evidentemente del marito gravato dall’obbligo dell’assegno) a poter ricostituire una famiglia, non pare del tutto pertinente non potendosi certamente ipotizzare che il diritto di un coniuge a ricostituire una famiglia possa realizzarsi comprimendo i diritti della famiglia precedente.
Il problema di conciliare i doveri che scaturiscono dalla solidarietà post-coniugale con quelli che derivano dalla formazione di una seconda famiglia non possono essere naturalmente ignorati, ma di per sé non richiedono necessariamente l’adozione di una prospettiva generale diversa da quella del riferimento per l’attribuzione dell’assegno divorzile al pregresso tenore di vita familiare, sebbene richiedono semplicemente l’adozione di criteri che nel caso singolo possano essere con ragionevolezza utilizzati per venire incontro a quei problemi, come è avvenuto per il tema della rilevanza della convivenza di fatto sull’assegno divorzile o come avviene per l’ex coniuge obbligato in caso di nascita di un figlio.

V. La concezione della famiglia
E’ proprio, però, sulla concezione della famiglia che l’orientamento della prima sezione della Cassazione finisce per ripercuotersi in senso negativo.
La sentenza11504/2017 considera espressamente la famiglia come una somma di persone singole. Come qualcosa che può morire e rinascere senza problemi. Come un insieme di ostacoli da superare più che un insieme di opportunità da valorizzare. Una concezione che non è accettabile.
La famiglia è, viceversa, una rete di relazioni primarie – sia che la si veda dal punto di vista dei figli che dal punto di vista dei coniugi – la cui caratteristica fondante è la solidarietà. Non è un insieme di persone singole, ma un insieme di relazioni da cui dipende l’equilibrio e il benessere presente e futuro di tutti i suoi componenti.
Devono perciò essere le relazioni al centro dell’interesse del sistema giuridico verso la famiglia. La patrimonialità fa parte di queste relazioni.
La separazione e il divorzio non annullano l’importanza delle relazioni ma ne richiedono il superamento (non la distruzione). Distruggere o ignorare le relazioni familiari è distruggere o ignorare le relazioni primarie e creare le basi per lo squilibrio psicologico e per la sofferenza anche degli individui.
Una concezione della famiglia interessata all’equilibrio e al benessere delle persone dovrebbe proporre di superare i legami familiari (coniugali e generazionali) non distruggendo o ignorando le relazioni primarie ma fondando su quelle relazioni primarie le premesse per la tutela dei diritti che conseguono alla fine dal matrimonio. Il riferimento alla vita in comune e alla relazioni primarie che si sono formate nella vita in comune dovrebbe costituire l’unico riferimento plausibile per verificare il diritto all’attribuzione dell’assegno divorzile, ferma la possibilità in sede di quantificazione di trovare soluzioni compatibili con i diritti e le responsabilità post-matrimoniali.

VI. Quali prospettive per un nuovo modello unitario?
Separazione e divorzio sono aspetti giuridici della medesima crisi della vita matrimoniale che possono e devono essere trattati con un criterio identico.
La Corte di cassazione trattando il tema dei presupposti di attribuzione, mentre con la sentenza 11504/2017 applica al divorzio il criterio dell’indipendenza economica, nella sentenza 12196/2017 conferma, invece, per la separazione il criterio del pregresso tenore di vita, anche se sembra farlo più per evitare una crisi di sistema che per convinzione e lasciando intendere – parlando di autoresponsabilità – che, se potesse, applicherebbe anche alla separazione il criterio dell’indipendenza economica.
Premesso che la soluzione non dovrebbe venire dalla Cassazione ma dal legislatore, ci si può interrogare su quale potrebbe essere una soluzione da applicare all’assegno post-matrimoniale (unitariamente inteso e senza quindi irragionevoli distinzioni tra assegno di separazione e assegno di divorzio).
Il meccanismo francese della prestation compensatorie è il sistema che più si presta ad essere preso come modello. Non c’è in questo meccanismo come presupposto per l’attribuzione dell’assegno l’inadeguatezza dei redditi di una parte (che inevitabilmente porta a chiedersi rispetto a cosa misurarla: se al pregresso tenore di vita o all’indipendenza del coniuge richiedente) ma il solo presupposto della “eventuale disparità di reddito” tra le parti. E’ la disparità di reddito che conta e null’altro. Se vi è disparità tra i redditi il giudice è chiamato ad una operazione di riequlibrio tenendo in considerazione i criteri oggi utilizzati come criteri di quantiifcazione e, soprattutto, la durata del matrimonio.
La prestation compensatorie serve a “compenser, autant qu’il est possible, la disparité que la rupture du mariage crée dans les conditions de vie respectives” ed è prevista nel codice nelle forme della corresponsione di un capitale in un’unica soluzione o trasformato in un assegno periodico per un tempo massimo di 8 anni. E’ determinata sulla base dei bisogni di chi la richiede e delle risorse dell’altro, tenuto conto della situazione al momento del divorzio di entrambi i coniugi e sulla base di criteri sostanzialmente analoghi a quelli di quantificazione previsti dalla nostra legge sul divorzio.
Il vigente art. 270 del codice civile francese prevede che “Le divorce met fin au devoir de secours entre époux” ma che “L’un des époux peut être tenu de verser à l’autre une prestation destinée à compenser, autant qu’il est possible, la disparité que la rupture du mariage crée dans les conditions de vie respectives. Cette prestation a un caractère forfaitaire. Elle prend la forme d’un capital dont le montant est fixé par le juge” sebbene lo stesso giudice la possa per motivi equitativi escludere (“…Toutefois, le juge peut refuser d’accorder une telle prestation si l’équité le commande, soit en considération des critères prévus à l’article 271, soit lorsque le divorce est prononcé aux torts exclusifs de l’époux qui demande le bénéfice de cette prestation, au regard des circonstances particulières de la rupture”).
Secondo l’art. 271 “La prestation compensatoire est fixée selon les besoins de l’époux à qui elle est versée et les ressources de l’autre en tenant compte de la situation au moment du divorce et de l’évolution de celle-ci dans un avenir prévisible” con criteri precisi identificati dalla legge che sono sostanzialmente l’età la salute, la qualificazione professionale, i sacrifici e altro ( ).
Sulla base di quanto dispone l’art. 274 “Le juge décide des modalités selon lesquelles s’exécutera la prestation compensatoire en capital parmi les formes suivantes : 1° Versement d’une somme d’argent, le prononcé du divorce pouvant être subordonné à la constitution des garanties prévues à l’article 277 ; 2° Attribution de biens en propriété ou d’un droit temporaire ou viager d’usage, d’habitation ou d’usufruit, le jugement opérant cession forcée en faveur du créancier. Toutefois, l’accord de l’époux débiteur est exigé pour l’attribution en propriété de biens qu’il a reçus par succession ou donation” ma, – come chiarisce l’art. 275 – “.Lorsque le débiteur n’est pas en mesure de verser le capital dans les conditions prévues par l’article 274, le juge fixe les modalités de paiement du capital, dans la limite de huit années, sous forme de versements périodiques indexés selon les règles applicables aux pensions alimentaires”.

La riduzione dell’assegno divorzile decorre dalla data della domanda di modifica

Cass. civ. Sez. VI – 1, 3 maggio 2017, n. 10787
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
L.A., elettivamente domiciliato in Roma via della Balduina 289, presso lo studio dell’avv. Maria Gloria Di Loreto, rappresentato e difeso dall’avv. Doriana Buccarello, giusta procura speciale in calce al ricorso che dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo al fax n. 0871/330939 e alla p.e.c. avvdorianabuccarella-pec.ordineavvocatichieti; (AMMESSO G.P. Delib. CONS ORD. AVV. C/0 C.A. L’AQUILA 1/2/2010);
– ricorrente –
nei confronti di:
S.G., elettivamente domiciliata in Roma, via Bergamo 43, presso l’avv. Rosa Maria Ciancaglini, rappresentata e difesa dall’avv. Luciano Carinci, giusta procura speciale in calce al controricorso, che dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo al fax n.0871/349643 e alla p.e.c. avvlucianocarinci-pec.ordineavvocatichieti.it;
(ammessa G.P. CONS. ORD. AVV. C/O C.A. L’AQUILA 1/4/16);
– controricorrente – avverso il decreto n. 700/2015 della Corte di appello di L’Aquila, emesso il 21 luglio 2015 e depositato il 17 agosto 2015, n. R.G. 78/2015.
Svolgimento del processo
Che:
1. Il Tribunale di Chieti, con ordinanza 27 settembre – 4 ottobre 2011, ha respinto il ricorso, proposto da L.A.L. n. 898 del 1970, ex art. 9 inteso alla revoca dell’obbligo di corrispondere un assegno divorzile in favore di S.G., determinato in 550 Euro mensili nella sentenza di divorzio n. 836/06 del Tribunale di Chieti.
2. La Corte di appello di L’Aquila, con decreto del 25 giugno 2012, ha dichiarato l’improcedibilità del reclamo perché notificato oltre il termine assegnato dal giudice.
3. La Corte di Cassazione con ordinanza n. 21669/2014 ha cassato il decreto impugnato dal L. e ha rinviato alla Corte di appello di L’Aquila che con decreto n. 700/2015 ha accolto parzialmente il reclamo riducendo l’importo dell’assegno a 350 Euro mensili con decorrenza dal deposito della decisione. Ha ritenuto che il peggioramento delle condizioni economiche del ricorrente giustificasse tale rideterminazione.
4. Ricorre per cassazione L.A. che si affida a due motivi di impugnazione: a) violazione ed errata applicazione delle norme di diritto ovvero dellaL. n. 898 del 1970,art.4, comma 10e art.9in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 3; b) violazione ed errata applicazione delle norme di diritto ovvero degliartt. 91 e 92 c.p.c., in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 3.
5. Si difende con controricorso S.G..
6. Con il primo motivo di ricorso il L. lamenta la decorrenza della riduzione dell’assegno dalla data del deposito della sentenza della Corte di appello nel giudizio di rinvio nonostante fosse stato accertato che al momento della proposizione del ricorso era già intervenuta la perdita del lavoro.
7. Con il secondo motivo si lamenta la decisione di compensazione delle spese del giudizio di cassazione e di rinvio nonostante la soccombenza della S. in entrambi i gradi.

Motivi della decisione
che:
8. Il primo motivo è fondato alla luce della giurisprudenza che fa decorrere dalla domanda di modificazione l’efficacia della revisione in presenza di un accadimento che la giustifichi anche se antecedente ad essa (Cass. civ. sez. 1, n. 11913 del 22 maggio 2009 e sez. 6-1 n. 16173 del 30 luglio 2015). Nella specie la perdita del lavoro, che ha costituito l’evento dedotto dal ricorrente come ragione giustificativa della domanda di revisione, si era già verificata al momento del ricorso introduttivo del giudizio (1 giugno 2011). Il riferimento da parte della Corte di appello alle condizioni economiche anche attuali della S. risulta finalizzato a escludere che la ragione della riduzione dell’assegno dipendente dalla perdita del lavoro del L. potesse essere neutralizzata dall’intervenuto peggioramento delle condizioni della beneficiaria che la Corte ha escluso ipotizzando anche un miglioramento in seguito al suo attuale trasferimento presso la famiglia di origine.
9. Il secondo motivo è parzialmente fondato perché la compensazione delle spese del giudizio di cassazione può giustificarsi in relazione alla natura meramente processuale della controversia decisa con il giudizio di cassazione e in relazione alla giurisprudenza sulla questione della possibilità di concedere un nuovo termine per la rinnovazione della notifica che si è consolidata solo in seguito all’intervento delle Sezioni Unita (Cass. civ. S.U. n. 5700/2014). L’accoglimento solo parziale della domanda di revisione può giustificare la compensazione parziale delle spese del giudizio di rinvio che può essere determinata nella misura del 50%.
10. Va pertanto accolto il primo motivo di ricorso con conseguente cassazione del decreto impugnato e decisione nel merito di rideterminazione della decorrenza della revisione dell’assegno dalla domanda introduttiva del giudizio (giugno 2011).
11. Quanto alle spese del giudizio di rinvio vanno poste a carico della S. nella misura del 50% restando invece compensate quelle del precedente giudizio di cassazione. Le spese del presente giudizio fanno carico interamente alla contro ricorrente.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa il decreto impugnato e decidendo nel merito fissa la decorrenza della riduzione dell’assegno dalla domandaL. n. 898 del 1970, ex art. 9. Conferma la compensazione delle spese del precedente giudizio di cassazione. Compensa per metà le spese del giudizio di rinvio e condanna la ricorrente al pagamento della residua quota liquidata in 1.050 Euro. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in 2.100 Euro di cui 100 per spese, oltre accessori di legge e spese forfettarie. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.

ABITAZIONE

di Gianfranco Dosi

I. In che consiste, come si costituisce e come si estingue il diritto di abitazione?
II. Il diritto di abitazione è strettamente personale ma tutela anche i familiari e il convi¬vente di fatto del suo titolare
III. Le differenze tra il diritto di abitazione e il diritto di usufrutto
IV. Le differenze tra diritto d’uso e diritto di abitazione
V. Il diritto di abitare la casa familiare derivante dall’assegnazione in sede di separazione ha natura reale o personale?
VI. Il diritto di abitazione del coniuge superstite
VII. Il diritto di abitazione del convivente di fatto superstite
VIII. Il diritto di abitazione è suscettibile di autonoma espropriazione?
IX. I rapporti tra il diritto di abitazione e l’espropriazione forzata del bene su cui grava

I
In che consiste, come si costituisce e come si estingue il diritto di abitazione?
Il codice civile all’art. 1022 definisce il diritto di abitazione di un immobile come il diritto di una persona di abitarlo “limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia”. Un diritto il cui limite, però, non deve essere inteso in senso quantitativo, che imporrebbe la difficile determinazione della parte di casa necessaria a soddisfare tali bisogni, ma solo come divieto di utilizzo della casa in altro modo che non sia l’abitazione diretta del titolare e dei suoi familiari (Cass. civ. Sez. II, 27 giugno 2014, n. 14687).
La definizione non deve trarre in inganno. Non si tratta, infatti, di un diritto personale di godimento, naturalmen¬te, ma di un diritto reale limitato su cosa altrui. E quindi anche in questa situazione esistono due soggetti: da un lato il nudo proprietario e dall’altro il titolare del diritto di abitazione il quale ultimo si vede riconosciuto un diritto che limita i diritti del proprietario e che è esteso alla soddisfazione dei bisogni anche della sua famiglia. Ed è proprio questa estensione che giustifica, come si vedrà, una particolare disciplina di protezione del diritto.
Trattandosi di un diritto reale, il diritto di abitazione può essere costituito mediante testamento, usucapione o contratto, per il quale è richiesta ad substantiam la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata. Il principio è stato affermato molto chiaramente in una lontana decisione (Cass. civ. Sez. II, 21 maggio 1990, n. 4562) in una vicenda nella quale una persona era stata condannata a risarcire i danni in seguito ad una sentenza che ave¬va dichiarato abusiva l’occupazione dell’immobile in cui viveva, nonostante che l’interessato avesse esibito una lettera con cui asseriva che sarebbe stato concesso alla di lui moglie un diritto di abitazione. La Cassazione af¬fermò che la tesi era infondata per la ragione che il diritto di abitazione non può essere costituito con una lettera ma, avendo natura reale, solo mediante testamento, usucapione o contratto. In seguito il principio è stato ripreso e ribadito anche dalla giurisprudenza di merito (Trib. Bari, 23 marzo 2007). Pertanto nessuna manifestazione di benevolenza e di disponibilità, può avere come conseguenza la costituzione di un diritto reale di abitazione.
Se costituito con atto negoziale, ai sensi degli articoli 2643 n. 4 e 2644 c.c. il diritto di abitazione grava sulla pro¬prietà ed è naturalmente opponibile ai successivi acquirenti o aventi causa dal proprietario che abbiano trascritto il proprio titolo successivamente alla sua trascrizione.
Il diritto di abitazione si estingue per morte di chi lo abita e per rinuncia al diritto. Si vedrà più oltre come in base all’art. 2812 c.c. il diritto di abitazione trascritto dopo l’iscrizione di una ipoteca si estingue con l’espropriazione del bene.
II
Il diritto di abitazione è strettamente personale ma tutela anche i familiari
e il convivente di fatto del suo titolare
Non bisogna confondere il problema di cui ora si tratta, con quello, diverso, del diritto del convivente di fatto superstite a continuare ad abitare nella casa di cui era proprietario il convivente deceduto. Questo problema (risolto dal comma 42 dell’art. 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze).
Qui il problema che si discute è, invece, se i familiari e nello specifico il convivente di fatto del titolare del diritto di abitazione abbiano o meno titolo per pretendere la stessa tutela garantita al titolare del diritto, dal momento che non essendo essi titolari potrebbe essere loro per esempio chiesto il pagamento di una indennità di occupa¬zione da parte del nudo proprietario.
Secondo quanto dispone l’art. 1023 c.c. nella famiglia sono compresi non solo i familiari esistenti al momento della costituzione del diritto (coniuge e figli già esistenti) ma anche i figli nati dopo che il diritto ha avuto inizio “quantunque nel tempo in cui il diritto è sorto la persona non avesse contratto matrimonio” e comunque i figli nati anche fuori dal matrimonio o successivamente adottati. Si tratta di una norma risalente alla versione origi¬naria del codice non toccata dalla riforma del diritto di famiglia del 1975). Con l’espressione “familiari” la norma certamente non si riferiva all’epoca della compilazione del codice civile ai “conviventi di fatto” ma l’estensione è oggi obbligata. D’altro lato l’ultima parte della stessa disposizione annovera nell’”ambito della famiglia” (questa è la rubrica della norma) anche “le persone che convivono con il titolare del diritto per prestare a lui o alla sua famiglia i loro servizi”. Come potrebbe essere possibile che il diritto di abitazione offra tutela alla badante alla baby-sitter o ai domestici (cioè a chi convive per prestare determinati servizi di tipo familiare) ma non ai con¬viventi di fatto? E quindi come avviene per il coniuge, anche il partner dell’unione civile e il convivente di fatto possono essere considerati “familiari” e quindi tutelati dalla norma.
Quindi il diritto di abitazione tutela anche il coniuge del titolare, il suo partner di una unione civile e il convivente di fatto. Non però verosimilmente fino al punto da consentire a questi soggetti l’usucapione del diritto stesso (come ritenuto, invece, da Trib. Torino, 14 marzo 2002 secondo cui il diritto di abitazione sull’appartamento del convivente potrebbe essere usucapito in relazione al cogodimento con il defunto per oltre vent’anni) e questo perché quel cogodimento potrebbe dargli titolo per la nascita di un autonomo diritto di abitazione dopo la mor¬te del titolare (come oggi prevede il comma 42 della riforma sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto), ma non certo per il periodo in cui il titolare era ancora vivo dal momento che in questa situazione il convivente del titolare è solo considerato familiare del titolare (art. 1023 c.c.) e quindi non occupante abusivo, ma non come titolare di un diritto autonomo. In altre parole il nudo proprietario non potrebbe espellerlo dall’abitazione perché egli appartiene alla famiglia del titolare, e solo dal momento della morte del titolare la sua occupazione potrebbe dare luogo al decorso del termine per l’usucapione.
Come avviene per l’usufrutto (art. 979 cui rinvia l’art. 1026 c.c.) anche la durata del diritto di abitazione non può eccedere la durata della vita del suo titolare e pertanto il diritto di estingue per morte del titolare. In tal caso anche le persone che sono inglobate nell’ambito della famiglia del titolare del diritto di abitazione (cioè il coniuge o il partner dell’unione civile, i domestici, le badanti, i conviventi di fatto) perderanno il titolo giustificativo della tutela loro garantita.
Se muore, invece, il nudo proprietario, il diritto di abitazione continua nella sua esistenza gravando sugli eredi del nudo proprietario, salvo che la sua durata non sia stata limitata per testamento o per accordo tra le parti – come certamente è possibile – alla durata della vita del nudo proprietario.
III
Le differenze tra il diritto di abitazione e il diritto di usufrutto
Dalla definizione stessa del diritto di usufrutto e del diritto di abitazione si comprende bene come i due diritti siano fortemente differenziati.
L’usufruttuario ha diritto di godere della cosa potendone trarre sostanzialmente ogni utilità che sia capace e in grado di trarne (art. 981 c.c.), viceversa il titolare del diritto di abitazione può solo abitare nell’immobile per di più limitatamente ai suoi bisogni e a quelli della sua famiglia (art. 1022 c.c.). Il primo può trarre dalla cosa quindi ogni utilità economica possibile per esempio affittando l’immobile o concedendolo in locazione; il secondo può solo pretendere di abitare nell’immobile. Entrambi sono tenuti alle riparazioni ordinarie e al pagamento dei tributi (art. 1025 c.c.).
La giurisprudenza ha chiarito, a tale proposito, che i tributi sull’immobile sono considerati imposte sul patrimonio e che, pertanto, gravano sul proprietario a prescindere da chi abbia il godimento esclusivo dell’appartamento. Da ultimo Cass. civ. Sez. III, 10 febbraio 2016, n. 2675; Cass. civ. Sez. V, 13 ottobre 2011, n. 21135 hanno affermato che il coniuge separato ed assegnatario della casa coniugale non è da considerarsi soggetto passivo dei tributi sulla casa. Pertanto, come tale, non è tenuto a pagare l’imposta comunale in luogo del coniuge proprietario dell’immobile. Ciò perché l’assegnazione della casa coniugale integra un atipico “diritto di godimen¬to” e non un diritto reale. Infatti, in capo al coniuge solo assegnatario, non è ravvisabile la titolarità di un diritto di proprietà o di un diritto di godimento previsti dalla norma che regola l’imposta sulla casa e che dà obbligo al pagamento dell’imposta.
A differenza dell’usufrutto che, se non è vietato espressamente dal titolo costitutivo, può essere oggetto di ces¬sione (art. 980 c.c.), il diritto di abitazione non è cedibile né può essere dato in locazione (art.1024 c.c.).
A proposito del diritto d’uso la giurisprudenza ha però precisato che il divieto di cessione del diritto di uso (ma non di abitazione), sancito dall’art. 1024 c.c., non ha natura pubblicistica e quindi carattere di inderogabilità nei confronti del nudo proprietario, ma attiene piuttosto ai diritti patrimoniali di carattere disponibile; con la con¬seguenza che il nudo proprietario e l’usuario possono convenire di derogare al divieto, ed il relativo negozio è perfettamente valido ed operante in quanto riflette un diritto di cui i titolari possono liberamente disporre (Cass. civ. Sez. II, 27 aprile 2015, n. 8507).
L’art. 1026 c.c. dichiara applicabile al diritto di abitazione le norme sull’usufrutto in quanto compatibili.
IV
Le differenze tra diritto d’uso e diritto di abitazione
In genere il diritto di abitazione è accostato al diritto d’uso. La stessa intitolazione del capo II del titolo V lo con¬ferma (“Dell’uso e dell’abitazione”). Quali sono, quindi, le differenze?
Innanzitutto, a differenza del diritto di abitazione che può avere ad oggetto solo immobili, il diritto di uso può avere ad oggetto mobili o immobili, fruttiferi o meno che siano. “Chi ha il diritto d’uso di una cosa – prescrive l’art. 1021 c.c. – può servirsi di essa e, se è fruttifera può raccogliere i frutti per quanto occorre ai bisogni suoi e della sua famiglia. I bisogni si devono valutare secondo la condizione sociale del titolare del diritto”.
Quindi l’usuario – così viene chiamato il titolare del diritto di uso – può avvantaggiarsi dei frutti naturali. Vice¬versa né l’usuario né l’habitator possono trarre dalla cosa frutti civili vigendo per entrambi il divieto ex art. 1024 c.c. di “cedere o dare in locazione” la cosa. In altre parole sia il diritto di abitazione che il diritto di uso consen¬tono solo il godimento diretto del bene a differenza dell’usufrutto che consentono anche il godimento indiretto attraverso per esempio la locazione del bene.
L’uso è, quindi, il diritto di natura reale temporaneo – attribuito dal proprietario della cosa ad un’altra persona – di trarre dalla cosa (usandola o raccogliendone i frutti naturali) quanto necessario ai propri bisogni e a quelli della propria famiglia. Una particolare specie di usufrutto, quindi, consistente nel diritto di godimento di una cosa, mobile o immobile, limitatamente ai bisogni del titolare e della sua famiglia.
Non si tratta perciò, per definizione, di un diritto che può avere natura perpetua (Cass. civ. Sez. II, 12 ottobre 2012, n. 17491 dove si afferma che ai sensi dell’art. 1026 c.c. si applica al diritto d’uso, non essendovi ragione di incompatibilità, la disposizione relativa all’usufrutto di cui all’art. 979 secondo il quale la durata di questo non può eccedere la vita dell’usufruttuario. Anche Trib. Padova Sez. I, 8 gennaio 2015).
L’ampiezza di tale potere, se può incontrare limitazioni derivanti dalla natura e dalla destinazione economica del bene, non può soffrire condizionamenti maggiori o ulteriori derivanti dal titolo (Cass. civ. Sez. II, 31 agosto 2015, n. 17320)
Secondo Cass. civ. Sez. II, 26 febbraio 2008, n. 5034 la differenza, dal punto di vista sostanziale e con-tenutistico, tra il diritto reale d’uso e il diritto personale di godimento è proprio costituita dall’ampiezza ed illi¬mitatezza del primo, in conformità al canone della tipicità dei diritti reali, rispetto alla multiforme possibilità di atteggiarsi del secondo che, in ragione del suo carattere obbligatorio, può essere diversamente regolato dalle parti nei suoi aspetti di sostanza e di contenuto.
Il carattere poi strettamente personale del diritto di uso si traduce nella necessità che il diritto di uso sulla cosa venga esercitato effettivamente da chi ne è titolare, esigenza che la legge rafforza con il vincolo di incedibilità posto dall’art. 1024 c.c., limite peraltro che, non risultando dettato per motivi di ordine pubblico, è ritenuto libe¬ramente derogabile in sede di atto costitutivo del diritto; il limite quantitativo legato ai bisogni propri dell’usuario e della propria famiglia è invece posto dalla legge soltanto con riguardo al percepimento dei frutti. La possibilità della costituzione del diritto reale di uso in favore della persona giuridica deve essere pertanto pienamente rico¬nosciuta, non trovando essa alcun ostacolo nel carattere personale del relativo diritto, rettamente inteso.
La prestazione che costituisce il contenuto del diritto non è l’abitazione di un immobile ma l’uso di qualcos’altro: per esempio la corte circostante di un immobile (Cass. civ. Sez. II, 31 agosto 2015, n. 17320), un’area di parcheggio (Cass. civ. Sez. II, 17 dicembre 1997, n. 12736), un immobile destinato ad uso non abitativo (Cass. civ. Sez. III, 26 settembre 1995, n. 10155), una cappella all’interno di una chiesa (Cass. civ. Sez. I, 14 settembre 1991, n. 9593).
Sia il titolare del diritto di abitazione che quello del diritto di uso non possono modificare unilateralmente la de¬stinazione economica della cosa (art. 1026 in relazione all’art. 981 c.c.).
Anche il diritto di uso, come quello di abitazione, si estingue per morte del titolare del diritto (Cass. civ. Sez. II, 12 ottobre 2012, n. 17491).
V
Il diritto di abitare la casa familiare derivante dall’assegnazione in sede di separazione ha natura reale o personale?
L’art. 337-sexies c.c. – intitolato “assegnazione della casa familiare e prescrizioni in tema di residenza” – prevede che in sede di separazione “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’inte¬resse dei figli” e, più oltre, che “il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare…”. Inoltre “il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili ai terzi ai sensi dell’art. 2643”. In senso pressoché analogo si esprime l’art. 6 della legge sul divorzio.
Come si vede, quindi, nelle disposizioni in materia di assegnazione della casa familiare in separazione o divorzio sono sovrapposti aspetti collegati in senso ampio al diritto di abitazione, con espressioni, tuttavia, che da un lato richiamano i diritti personali di godimento (“il godimento della casa familiare…”) e dall’altro anche i diritti reali (trascrizione ex art. 2643 c.c.).
Come ha avuto modo di precisare e ribadire anche recentemente la giurisprudenza il diritto di abitazione della casa familiare derivante dall’assegnazione in sede di separazione o divorzio è un atipico diritto personale di godimento (e non un diritto reale), previsto nell’esclusivo interesse dei figli e non nell’interesse del coniuge affi¬datario (Cass. civ. Sez. II, 9 settembre 2016, n. 17843; Cass. civ. Sez. III, 10 febbraio 2016, n. 2675).
La differenza, dal punto di vista sostanziale e contenutistico, tra il diritto reale d’uso e il diritto personale di godimento è costituita dall’ampiezza ed illimitatezza del diritto reale, in conformità al canone della tipicità dei diritti reali, rispetto alla multiforme possibilità di atteggiarsi dei diritti personali che, in ragione del loro carattere obbligatorio, possono essere diversamente regolato dalle parti nella sostanza e nel contenuto (Cass. civ. Sez. II, 26 febbraio 2008, n. 5034).
Sulla base del principio generale che colloca l’istituto dell’assegnazione della casa familiare in sede di separazio¬ne e divorzio nell’area dei diritti personali di godimento e non dei diritti reali, si afferma, in giurisprudenza che il coniuge affidatario dei figli al quale sia assegnata la casa di abitazione di proprietà dell’altro coniuge, non è soggetto passivo dell’imposta comunale sugli immobili per la quota dell’immobile stesso sulla quale non vanti il diritto di proprietà, ovvero un qualche diritto reale di godimento, in quanto “con il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa coniugale, in sede di separazione personale o di divorzio viene riconosciuto al coniuge un atipico diritto personale di godimento e non un diritto reale, sicché in capo ad esso non è ravvisabile la titolarità di un diritto di proprietà o di uno di quei diritti reali di godimento, specificamente previsti dalla norma, costituenti l’unico elemento di identificazione del soggetto tenuto al pagamento dell’imposta sugli immobili” (Cass. civ. Sez. III, 10 febbraio 2016, n. 2675).
In senso analogo in passato si erano espressa anche Cass. civ. Sez. V, 13 ottobre 2011, n. 21135; Cass. civ. Sez. I, 11 novembre 1986, n. 6570).
Gli stessi concetti sono ripresi e confermati dalla giurisprudenza tributaria (Commiss. Trib. Prov. Emilia-Romagna Reggio Emilia Sez. I, 1 giugno 2009, n. 102 e Commiss. Trib. Prov. L’Aquila Sez. V, 26 apile 2004, n. 21 secondo cui nel caso della assegnazione di un bene immobile disposta in sede di provvedimento di separazione consensuale dei coniugi l’Ici rimane a carico del proprietario dell’immobile stesso e non già dell’asse¬gnatario, il quale è titolare di un diritto di abitazione atipico, finalizzato al godimento della casa familiare nell’in¬teresse prioritario dei figli, revocabile, diverso dal diritto di abitazione previsto dall’art. 1022 c.c.).
VI
Il diritto di abitazione del coniuge superstite
Rinviando alle osservazioni più approfondite contenute nella voce dedicata alla riserva del diritto di abitazione a favore del coniuge superstite1, si può qui ricordare che il secondo libro del codice civile – dedicato alle succes¬sioni – colloca al primo posto tra i successibili il coniuge superstite (art. 565 c.c.), inserendolo anche, sempre al primo posto, nella categoria degli eredi necessari (art. 536 c.c.).
Nel contesto proprio dei diritti successori l’art. 540, secondo comma, del codice civile riconosce al coniuge super¬stite il “diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredono”.
Si tratta di un diritto riconosciuto soltanto sulla casa familiare (Cass. civ. Sez. II, 14 marzo 2012, n. 4088; Cass. civ. Sez. II, 27 febbraio 1998, n. 2159), se di proprietà del coniuge defunto o in comproprietà con il coniuge defunto.
A tale diritto non si applicherebbero, secondo la giurisprudenza, gli art. 1021 e 1022 c.c. nella parte in cui limi¬tano il diritto in relazione al fabbisogno del titolare (Cass. civ. Sez. II, 13 marzo 1999, n. 2263). Il principio era stato affermato in passato anche dalla giurisprudenza di merito (Trib. Palermo, 13 giugno 2003 e App. Venezia, 3 febbraio 1982)
La giurisprudenza aveva affermato la natura di diritto reale del diritto di abitazione ex art. 540 c.c. (Cass. civ. Sez. III, 24 giugno 2003, n. 10014) esattamente come quello di cui tratta l’art. 1022, e non deve trarre in inganno quanto affermato da Cass. civ. Sez. II, 9 settembre 2016, n. 17843 circa la natura di atipico diritto personale di godimento del diritto di abitazione che si riferisce al diritto derivante dall’assegnazione della casa familiare.
Inoltre è stato precisato che il diritto di abitazione è devoluto automaticamente al coniuge del de cuius in base ad un meccanismo assimilabile al prelegato ex lege, sicché la concreta attribuzione di tale diritto non è subordi¬nata alla domanda del coniuge, cui il diritto medesimo deve essere riconosciuto – nell’ambito della controversia avente ad oggetto lo scioglimento della comunione ereditaria – senza necessità di espressa richiesta (Cass. civ. Sez. II, 31 luglio 2013, n. 18354).
La collocazione dell’art. 540 c.c. nel titolo dedicato ai “diritti riservati ai legittimari” e la sua stessa denomina¬zione, potrebbe far ritenere che la riserva a favore del coniuge del “diritto di abitazione” sia prevista esclusi¬vamente per il caso di successione testamentaria. Invece le Sezioni unite della Cassazione con una decisione storica (Cass. civ. Sez. Unite, 27 febbraio 2013 n. 4847) e in adesione all’interpretazione prevalente data in dottrina all’istituto in questione, hanno ritenuto di estenderne l’applicazione anche al di fuori della successione testamentaria e quindi in tutte le ipotesi in cui si apre la successione. Analogamente di recente il principio è stato ribadito da Cass. civ. Sez. VI, 16 novembre 2015, n. 23406.
Il valore del diritto di abitazione e di uso dei mobili che la corredano va determinato con una specifica stima che faccia riferimento al loro valore venale al tempo dell’apertura della successione e per l’intera prevedibile durata della vita del beneficiario.
Essendo il diritto di abitazione un diritto reale di contenuto sostanzialmente analogo a quello di usufrutto per la stima si possono utilizzare i coefficienti previsti nella tabella allegata al DPR 26 aprile 1986, n. 131 (Testo Unico delle imposte di registro) predisposta per il pagamento delle imposte proporzionali di registro, catastale e ipote¬caria nel caso di atti che concernono l’attribuzione, appunto, dell’usufrutto.
È pacifico in giurisprudenza che la riserva del diritto di abitazione non è riconosciuta in caso di convivenza more uxo¬rio (Cass. civ. Sez. II, 13 giugno 1994, n. 5731; Corte cost., 26 maggio 1989, n. 310) anche se la riforma del 2016 sulle unioni civili e le convivenze di fatto la inserisce come diritto non solo del partner dell’unione civile (com¬ma 21 dell’art. 1 della legge di riforma) ma anche come diritto temporeneo pe ril convivente di fatto (comma 42).
La riserva opera di diritto, al momento dell’apertura della successione, senza necessità di accettazione (Cass. civ. Sez. V, 29 gennaio 2008, n. 1920) sia quando il coniuge superstite è l’unico chiamato all’eredità, sia quando concorre con altri chiamati.
Pertanto il coniuge superstite non deve fare nulla. Può tranquillamente continuare nel godimento dell’immobile del quale acquista ex lege il diritto di abitazione, ancorché ne sia comproprietario e ancorché alla successione vi siano altri chiamati. L’acquisizione di un diritto reale limitato sull’intera proprietà dell’immobile si spiega per il fatto che su di esso potrebbero vantare diritti successori di natura reale altri soggetti (chiamati all’eredità o semplici legatari).
Come si è detto, la problematica connessa alla riserva a favore del coniuge del diritto di abitazione è contras¬segnata dal fatto che l’art. 540 c.c. è collocato nel titolo della successione necessaria e che nella disposizione si utilizza conseguentemente la terminologia della successione necessaria (“riserva”, “disponibile”). Ciò potrebbe indurre a ritenere che il meccanismo che si sta esaminando operi solo in presenza di un lascito testamentario, come tutte le problematiche concernenti la successione necessaria. E’ invece oggi pacifico il giurisprudenza che il meccanismo di cui si parla opera anche nell’ambito della successione senza testamento.
In dottrina prevale l’orientamento secondo cui i diritti abitazione e di uso dei mobili, pur non essendo espressa¬mente menzionati negli artt. 581 e 582 c.c. (che indicano le quote ereditarie nella successione senza testamen¬to) spettano al coniuge anche nella successione legittima, anche se gli orientamenti sono contrastanti sia circa la fonte normativa di tale diritto, sia sui criteri di calcolo del valore della quota del coniuge, se cioè il valore del diritto di abitazione si aggiunga o sia compreso nella quota dell’eredità attribuita per legge.
In presenza di orientamenti contrastanti in giurisprudenza la questione è stata decisa dalle Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. Unite, 27 febbraio 2013, n. 4847) che hanno innanzitutto riconosciuto anche nella successione legittima i diritti di abitazione ed uso riservati espressamente al coniuge superstite dal secondo comma dell’art. 540 del codice civile, “conformemente all’opinione espressa ormai unanimemente dalla dottrina” e richiaman¬dosi alla ratio che aveva ispirato il legislatore della riforma del diritto di famiglia del 1975 che era quella “di re¬alizzare anche nella materia successoria una nuova concezione della famiglia tendente ad una completa parifica¬zione dei coniugi non solo sul piano patrimoniale ma anche sotto quello etico e sentimentale” e “sul presupposto che la ricerca di un nuovo alloggio per il coniuge superstite potrebbe essere fonte di un grave danno psicologico e morale per la stabilità delle abitudini di vita della persona”. Ciò premesso, affermano i giudici, “ è evidente che tale finalità dell’istituto è valida per il coniuge supersite sia nella successione necessaria che in quella legittima, cosicché i diritti in questione trovano necessariamente applicazione anche in quest’ultima”, anche se poi il legi¬slatore ne ha disciplinato l’effettiva realizzazione per il caso di successione necessaria, con la finalità di incidere soltanto entro ristretti limiti sulle quote di riserva di altri legittimari.
Per i criteri di calcolo del valore della quota si rinvia alla voce ridedicata alla riserva del diritto di abitazione a favore del coniuge superstite.
VII
Il diritto di abitazione del convivente di fatto superstite
Come giustamente ha sottolineato una recente decisione di merito, la convivenza fuori dal matrimonio, nel caso in cui uno dei conviventi sia possessore iure proprio dell’abitazione, dà luogo, come i rapporti nella famiglia fondata sul matrimonio, ad un vero e proprio possesso giuridicamente tutelabile della casa di abitazione, sia in considerazione dei principi costituzionali di tutela della funzione sociale del bene- abitazione , sia in considera¬zione che nel rapporto di fatto con il bene (Trib. Padova Sez. I, 21 marzo 2017).
A tale proposito il comma 42 dell’art. 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), prescrive che in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. Ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni.
Il comma 43 prevede che il diritto di cui al comma 42 viene meno nel caso in cui il convivente superstite cessi di abitare stabilmente nella casa di comune residenza o in caso di matrimonio, di unione civile o di nuova con¬vivenza di fatto.
Le scadenze indicate sono automatiche e pertanto non è necessario il ricorso da alcun procedimento. Eventuali contestazioni da parte degli eredi potranno essere risolte in un normale giudizio contenzioso avente ad ogget¬to l’accertamento dell’estensione del diritto di godimento dell’immobile ovvero, ove necessario, l’occupazione senza titolo2.
La riforma del 2016 risolve, quindi, per legge le problematiche sui diritti di abitazione che la giurisprudenza non ha potuto finora risolvere.
In caso di morte del proprietario della “casa adibita a residenza comune dei conviventi” (perifrasi con cui il le¬gislatore indica quella che anche tra conviventi può essere certamente chiamata la “casa familiare”) il comma 42 introduce pertanto una sorta di riserva del diritto di abitazione per il convivente superstite, prevedendo che quest’ultimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa in questione per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni.
Nonostante le simmetrie con la riserva a favore del coniuge superstite il diritto di continuare ad abitare nella resi¬denza già comune di cui si è detto non appare riconducibile ai diritti di natura reale ma ad un diritto personale di godimento di natura atipica analogo a quello del coniuge assegnatario dell’abitazione (qualificato come diritto di natura personale: da ultimo Cass. civ. Sez. II, 9 settembre 2016, n. 17843) che limita temporalmente, senza oneri a carico del convivente superstite, il diritto di proprietà sull’immobile degli eredi del convivente deceduto.
La disposizione fa espressamente salvo “quanto previsto dall’articolo 337-sexies del codice civile” (Assegnazio¬ne della casa familiare e prescrizioni in tema di residenza) a mente del quale il giudice attribuisce il godimento della casa familiare, in caso di separazione dei genitori, tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli. La norma fa quindi riferimento all’ipotesi in cui in caso di rottura della convivenza, essendovi uno o più figli comuni, il giudice abbia già attribuito al convivente superstite un diritto di assegnazione che cesserà solo quando il figlio sarà autosufficiente e che quindi potrebbe anche superare le scadenze sopra indicate.
VIII
Il diritto di abitazione è suscettibile di autonoma espropriazione?
Il diritto di abitazione, anche acquistato mortis causa, è strettamente legato alla persona a favore della quale è costituito ed è insuscettibile di autonoma espropriazione, come si ricava dalle norme che lo dichiarano incedibile (art. 1024 codice civile: “i diritti di uso e di abitazione non si possono cedere o dare in locazione”) e non ipoteca¬bile (art. 2810 codice civile che dichiara oggetto di ipoteca, tra i diritti reali limitati, solo l’usufrutto, la superficie e l’enfiteusi). Se non è possibile iscrivere ipoteca non sono possibili neanche il sequestro e il pignoramento che per loro natura sono destinati a vincolare determinati beni per la soddisfazione di un determinato credito.
In un recente studio del (n. 21-2013/E) del Consiglio nazionale del notariato si precisa che l’opinione che nega l’espropriabilità autonoma del diritto di abitazione è uniforme e consolidata, essendo considerati inammissibili tutti i negozi giuridici o gli atti che importino un trasferimento, volontario o coattivo, del diritto. Tale inespropria¬bilità troverebbe anche fondamento nel principio di tipicità e numerus clausus dei diritti reali; principio che non tutela solo l’interesse privato dei soggetti del rapporto ma che sarebbe rivolto anche a circoscrivere le modalità attraverso le quali il diritto di proprietà può essere compresso, così da assumere una valenza di tipo pubblicistico.
La conclusione è quindi che la sottrazione alla disponibilità (vendita o locazione) da parte del suo titolare stabilita nell’art. 1024 c.c. si colloca, insieme alla non ipotecabilità del diritto (art. 2810 c.c.) in una cornice di assoluta impossibilità di circolazione autonoma del diritto reale per atto del suo titolare o dei suoi aventi causa.
Pertanto il creditore del titolare del diritto di abitazione non può sottoporre ad espropriazione forzata il diritto di abitazione spettante al proprio debitore.
Anche in sede tributaria siè ritenuto che non è ammessa l’adozione della misura cautelare dell’iscrizione ipote¬caria su diritti non suscettibili di esecuzione forzata quale il diritto di abitazione, ai sensi degli artt. 1024 e 2810 c.c..(Commiss. Trib. Prov. Puglia Bari Sez. XV, 25 giugno 2010).
IX
I rapporti tra il diritto di abitazione e l’espropriazione forzata del bene su cui grava
Come si è più volte detto l’immobile su cui grava il diritto di abitazione può essere certamente espropriato dai creditori del nudo proprietario.
In che liniti il diritto di abitazione in questi casi è opponibile ai creditori che procedono e quindi ai terzi acquirenti del bene immobile?
Nel caso di diritto di abitazione attribuito con atto negoziale, in base alle norme sulla trascrizione che espressa¬mente lo prevedono (articoli 2643 n. 4, 2644 e 2645 c.c.), è pacifica l’opponibilità ai terzi acquirenti del bene su cui il diritto è costituito che abbiano trascritto il loro titolo successivamente alla trascrizione dell’atto negoziale attributivo del diritto di abitazione.
Ugualmente il diritto di abitazione è opponibile al creditore ipotecario che abbia iscritto ipoteca successivamente alla trascrizione del negozio attributivo del diritto di abitazione (art. 2812 c.c.) ed altrettanto avviene, in base alle norme relative agli effetti del pignoramento (art. 2913, 2914, 2915 c.c.), relativamente all’opponibilità ai creditori pignoranti degli atti negoziali trascritti anteriormente al pignoramento oltre che all’opponibilità all’ac¬quirente da vendita forzata (art. 2919 c.c.); in tal caso il titolare del diritto di abitazione è terzo rispetto al pro¬cedimento esecutivo e il suo diritto non sarà pregiudicato dalla vendita forzata della proprietà.
Il diritto di abitazione è invece inopponibile al creditore ipotecario anteriore il quale può far “subastare”, cioè vendere all’asta, la proprietà del bene come libera da vincoli (art. 2812, secondo comma c.c.). In tal caso – come prevede la norma citata – il diritto di abitazione si estingue con l’espropriazione.
In sede di merito Trib. Monza, 27 dicembre 2011 ha precisato che il diritto di abitazione, gravante sull’immo¬bile in favore della coniuge superstite, per averlo adibito a residenza familiare, ai sensi dell’art. 540, 2 comma c.c., non preclude l’azione esecutiva promossa sull’immobile da terzi soggetti, creditori del comproprietario. La titolarità da parte di un terzo di un diritto reale sul bene pignorato, se opponibile, incide sul prezzo di vendita dell’immobile, determinandone la riduzione a causa del vincolo gravante sul bene, ma non impedisce la prose¬cuzione dell’azione esecutiva e la vendita del bene. L’esistenza di un diritto reale sul bene pignorato non può, invero, paralizzare l’azione esecutiva, pregiudicando il soddisfacimento di crediti da parte di soggetti che hanno legittimamente pignorato il bene di proprietà del debitore esecutato.
Se il de cuius in vita aveva disposto della proprietà con atto regolarmente trascritto – per esempio se aveva tra¬sferito il diritto anche parzialmente o aveva sottoposto ad ipoteca il bene – anche il diritto di abitazione acquisito mortis causa ex art. 540 c.c. dal coniuge superstite subirà gli effetti di quell’atto. Il coniuge superstite – fatta sempre salva l’applicazione dell’art. 540 c.c. – vedrà quindi intaccato il godimento del diritto nei limiti dell’atto dispositivo del de cuius, fino alla possibile estinzione del diritto con l’espropriazione (Cass. civ. Sez. III, 13 gennaio 2009, n. 463). Perché sì verifichi questo effetto di inopponibilità del legato ex lege rispetto all’atto an¬teriore è sufficiente che l’atto sia anteriore all’apertura della successione non essendo ritenuta in giurisprudenza necessaria la trascrizione del legato ex lege (Cass. civ. Sez. II, 30 aprile 2012, n. 6625; in senso contrario si sono espressi però Trib. Monza, 27 dicembre 2011; Trib. Bologna Sez. IV, 30 agosto 2004 che hanno ritenuto necessaria la trascrizione del legato ex lege).
Se invece è l’erede a disporre dopo l’apertura della successione del diritto di proprietà? Come è regolamentato il conflitto tra gli aventi causa dell’erede e il coniuge superstite?
Il problema è stato al centro di una vicenda giudiziaria nella quale la giurisprudenza in passato si è espressa indicando i principi e le norme applicabili.
Era avvenuto – dopo il decesso di un uomo che aveva lasciato come eredi la moglie e il figlio – che il figlio avesse concesso sull’immobile ipoteca ad una banca a garanzia di un mutuo. La banca, cioè, aveva acquistato, in segui¬to alla concessione del mutuo, il diritto di iscrivere ipoteca. Aveva acquistato tale diritto dall’erede apparente, cioè da colui che appariva titolare della piena proprietà del bene e che si era comportato come se fosse erede di un diritto di proprietà pieno. Alla fattispecie i giudici (Cass. civ. Sez. III, 24 giugno 2003, n. 10014) hanno applicato non le norme sugli effetti della trascrizione tra più aventi causa da un medesimo soggetto (per i motivi di cui tra breve si dirà) ma l’art. 534 del codice civile il cui secondo comma prevede che “sono salvi i diritti acqui¬stati per effetto di convenzione a titolo oneroso con l’erede apparente dai terzi i quali provino di aver contrattato in buona fede”. La buona fede è esclusa, in caso di beni immobili – come prevede il terzo comma della stessa disposizione – solo se l’erede (o il legatario) abbiano trascritto il proprio acquisto mortis causa (trascrizione im¬posta dal primo comma dell’art. 2648 c.c.) prima della trascrizione dell’acquisto del terzo (nell’esempio prima dell’iscrizione di ipoteca da parte della banca).
Tuttavia, sulla base dell’orientamento di cui si è detto – che considera non necessaria la trascrizione del legato ex lege, a differenza del legato testamentario (Cass. civ. Sez. II, 30 aprile 2012, n. 6625) – la buona fede del terzo deve sempre essere oggetto di prova e non potrà considerarsi esclusa per la mancanza in sé della tra¬scrizione del legato ex lege.
I giudici non hanno applicato alla fattispecie le norme generali sulla trascrizione perché, nonostante che l’erede (cioè il figlio) e il legatario (cioè il coniuge superstite) abbiano acquistato il proprio diritto sullo stesso bene dal comune dante causa, il diritto di proprietà si trasmette all’erede per effetto della legge come gravato dal diritto di abitazione, mentre l’articolo 2644 del codice civile, disciplinando gli effetti della trascrizione, lo fa con riguardo alla situazione rappresentata dal fatto che due soggetti acquistano successivamente (e non contestualmente) dallo stesso autore diritti tra loro incompatibili.
In definitiva mentre il conflitto tra atti dispositivi effettuati in vita dal de cuius e diritti del legatario ex lege (co¬niuge superstite) va risolto in base all’art. 2644 c.c. sull’anteriorità della trascrizione, viceversa il conflitto tra il coniuge superstite e l’erede (apparente: che si comporta, cioè, come se avesse un titolo pieno e non gravato dal diritto di abitazione) è regolato dall’art. 534, 2° e 3° comma, c.c. e cioè in base alla buona fede degli aventi causa dall’erede apparente; quindi accertando se l’acquisto del terzo dall’erede apparente sia stato fatto o meno in buona fede. Se vi è buona fede l’acquisto è salvo e prevale sul legato ex lege.
Giurisprudenza
Trib. Padova Sez. I, 21/03/2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza more uxorio, come i rapporti della famiglia legittima, danno luogo, nel caso in cui uno dei conviventi sia posses¬sore iure proprio, ad un vero e proprio possesso giuridicamente tutelabile della casa di abitazione , e ciò sia in considerazione dei principi costituzionali di tutela della funzione sociale del bene- abitazione , sia in considerazione che nel rapporto di fatto con il bene, costituito dal possesso tutelato ex lege, il convivente non può essere discriminato rispetto ai componenti della famiglia legittima, pur se contitolari del diritto di proprietà.
Cass. civ. Sez. II, 9 settembre 2016, n. 17843 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto di abitazione della casa familiare (derivante dall’assegnazione in sede di separazione o divorzio) è un atipico diritto personale di godimento (e non un diritto reale), previsto nell’esclusivo interesse dei figli e non nell’interesse del coniuge affidatario, che viene meno con l’assegnazione della casa familiare in proprietà esclusiva al coniuge affidatario dei figli, non avendo più ragione di esistere. L’assegnazione del godimento della casa familiare, ex art. 337-sexies c.c., non può essere presa in considerazione in occasione della divisione dell’immobile in comproprietà tra i coniugi, al fine di determinare il valore di mercato dell’immobile, allorquando l’immobile venga attribuito al coniuge che sia titolare del diritto al godimento stesso.
Cass. civ. Sez. III, 10 febbraio 2016, n. 2675 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di imposta comunale sugli immobili, il coniuge affidatario dei figli al quale sia assegnata la casa di abitazione posta nell’immobile di proprietà dell’altro coniuge, non è soggetto passivo dell’imposta per la quota dell’immobile stesso sulla quale non vanti il diritto di proprietà, ovvero un qualche diritto reale di godimento, come previsto dall’art. 3, D.Lgs. n. 504 del 1992. Con il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa coniugale, in sede di separazione personale o di divorzio, invero, viene riconosciuto al coniuge un atipico diritto personale di godimento e non un diritto reale, sicché in capo ad esso non è ravvisabile la titolarità di un diritto di proprietà o di uno di quei diritti reali di godimento, specificamente previsti dalla norma, costituenti l’unico elemento di identificazione del soggetto tenuto al pagamento dell’imposta in parola sull’immobile.
Cass. civ. Sez. VI, 16 novembre 2015, n. 23406 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La permanenza, dopo il decesso di un coniuge, da parte dell’altro nella casa familiare è qualificabile “come esercizio del diritto di abitazione e di uso dei mobili che la corredano, spettante al coniuge superstite quale legatario ex lege art. 540 c.c.) in ogni caso, anche nell’ipotesi di successione legittima, e quindi a prescindere dalla sua ulteriore qualità di chiamato all’eredità.
Cass. civ. Sez. II, 31 agosto 2015, n. 17320 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il titolare del diritto reale d’uso ha diritto di servirsi della cosa e di trarne i frutti per il soddisfacimento dei bisogni propri e della propria famiglia, sì da poter ricavare dal bene, nel suo concreto esercizio, ogni utilità ricavabile. Ne consegue che l’ampiezza di tale potere, se può incontrare limitazioni derivanti dalla natura e dalla destinazione economica del bene, non può soffrire con¬dizionamenti maggiori o ulteriori derivanti dal titolo. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso l’esistenza di qualunque diritto d’uso su una corte circostante un immobile oggetto di alienazione, senza però tener conto della natura rurale del fabbricato, della specifica distinta individuazione anche dei dati catastali di tale corte, nonché della facoltà di utilizzo attribuita al bene).
Cass. civ. Sez. II, 27 aprile 2015, n. 8507 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il divieto di cessione del diritto di uso, sancito dall’art. 1024 c.c., non ha natura pubblicistica e quindi carattere di inderogabilità nei confronti del nudo proprietario, ma attiene piuttosto ai diritti patrimoniali di carattere disponibile; con la conseguenza che il nudo proprietario e l’usuario possono convenire di derogare al divieto, ed il relativo negozio è perfettamente valido ed operante in quanto riflette un diritto di cui i titolari possono liberamente disporre.
In tema di diritto d’uso, il divieto di cessione sancito dall’art. 1024 cod. civ. non è inderogabile, non avendo natura pubblicistica e attenendo a diritti patrimoniali disponibili, sicché nell’atto costitutivo del diritto il nudo proprietario e l’usuario possono derogare al vincolo d’incedibilità.
Trib. Padova Sez. I, 8 gennaio 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il termine diritto di uso esclusivo e perpetuo confligge con il diritto reale disciplinato dall’art. 1021 c.c., concretandosi, quest’ul¬timo, nel diritto del titolare di servirsi di un bene per i propri bisogni e quelli della propria famiglia.
Cass. civ. Sez. II, 27 giugno 2014, n. 14687 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di diritto di abitazione, il limite sancito dall’art. 1022 cod. civ. riguardo ai bisogni del titolare e della sua famiglia non deve essere inteso in senso quantitativo, che imporrebbe l’ardua determinazione della parte di casa necessaria a soddisfare tali bisogni, ma solo come divieto di utilizzo della casa in altro modo che per l’abitazione diretta dell’”habitator” e dei suoi familiari.
Cass. civ. Sez. II, 31 luglio 2013, n. 18354 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di successione legittima, il diritto di abitazione ed uso, ai sensi dell’art. 540, secondo comma, cod. civ. è devoluto al coniuge del de cuius in base ad un meccanismo assimilabile al prelegato ex lege, sicché la concreta attribuzione di tale diritto non è subordinata alla domanda del coniuge, cui il diritto medesimo deve essere riconosciuto – nell’ambito della controversia avente ad oggetto lo scioglimento della comunione ereditaria – senza necessità di espressa richiesta.
Cass. civ. Sez. Unite, 27 febbraio 2013, n. 4847 (Famiglia e Diritto, 2013, 11, 983, nota di GRAGNANI)
Nella successione legittima spetta al coniuge del de cuius il diritto di abitazione sulla cosa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano previsti dall’art. 540, comma secondo.
Cass. civ. Sez. II, 12 ottobre 2012, n. 17491 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di morte dell’usuario di un immobile, con conseguente estinzione del diritto d’uso dovuta alla sua intrasferibilità “mortis causa” è inapplicabile, in favore degli eredi che siano subentrati nel godimento del bene, la successione nel possesso, agli effetti dell’art. 1146 cod. civ.
Ai sensi dell’art. 1026 cod. civ., si applica al diritto d’uso, non essendovi ragione di incompatibilità, la disposizione relativa all’u¬sufrutto di cui all’art. 979 cod. civ., secondo il quale la durata di questo non può eccedere la vita dell’usufruttuario.
Cass. civ. Sez. II, 30 aprile 2012, n. 6625 (Famiglia e Diritto, 2012, 10, 869, nota di CALVO)
Il diritto di abitazione, riservato dall’art. 540, secondo comma, cod. civ. al coniuge superstite sulla casa adibita a residenza familiare, si configura come un legato ex lege, che viene acquisito immediatamente da detto coniuge, secondo la regola di cui all’art. 649, secondo comma, cod. civ., al momento dell’apertura della successione. Ne consegue che non può porsi un conflitto, da risolvere in base alle norme sugli effetti della trascrizione, tra il diritto di abitazione, che il coniuge legatario acquista diretta¬mente dall’ereditando, ed i diritti spettanti agli aventi causa dall’erede.
Il diritto di abitazione di cui all’art. 540 c.c., il quale si configura come legato ex lege, che viene immediatamente acquisito dal coniuge superstite direttamente dall’ereditando, in base alla regola dei legati di specie di cui al secondo comma dell’art. 649 c.c. al momento dell’apertura della successione, non è soggetto a trascrizione.
Cass. civ. Sez. II, 14 marzo 2012, n. 4088 (Famiglia e Diritto, 2012, 6, 619)
Il diritto di abitazione, che la legge riserva al coniuge superstite (art. 540, secondo comma, cod. civ.), può avere ad oggetto sol¬tanto l’immobile concretamente utilizzato prima della morte del “de cuius” come residenza familiare. Il suddetto diritto, pertanto, non può mai estendersi ad un ulteriore e diverso appartamento, autonomo rispetto alla sede della vita domestica, ancorché ricompreso nello stesso fabbricato, ma non utilizzato per le esigenze abitative della comunità familiare.
Trib. Monza, 27 dicembre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di successione legittima, il diritto di abitazione del coniuge superstite sussiste in aggiunta alla quota di eredità legittima spettante al coniuge. Poiché il diritto reale di abitazione è acquistato in forza di un legato stabilito dalla legge e si trasmette al coniuge superstite al momento della morte del coniuge, l’erede acquista su tale immobile un diritto di proprietà gravato dal diritto reale limitato di abitazione. I diritti di abitazione e di uso, in quanto diritti reali, devono essere soggetti a trascrizione. Se non viene trascritto, il diritto di abitazione non è opponibile ai terzi, che a qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in base ad un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione dell’atto da cui il diritto di abitazione discende. Quanto al titolo idoneo alla trascrizione, in assenza di testamento, sono idonei sia il certificato di denunciata successione che la presentazione al conservare di una nota, accompagnata dal certificato di morte in cui sia indicato lo stato di coniuge e l’operare ex lege del secondo comma dell’art. 540 del codice
Cass. civ. Sez. V, 13 ottobre 2011, n. 21135 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il coniuge affidatario dei figli al quale sia assegnata la casa di abitazione posta nell’immobile di proprietà (anche in parte) dell’al¬tro coniuge non è soggetto passivo dell’Ici per la quota dell’immobile stesso sulla quale non vanti il diritto di proprietà ovvero un qualche diritto reale di godimento.
Il coniuge affidatario dei figli al quale sia assegnata la casa di abitazione posta nell’immobile di proprietà (anche in parte) dell’al¬tro coniuge non è soggetto passivo dell’Ici per la quota dell’immobile stesso sulla quale non vanti il diritto di proprietà ovvero un qualche diritto reale di godimento.
Trib. Monza, 27 febbraio 2011
ESECUZIONE FORZATA
Esecuzione forzata, in genere
SEPARAZIONE DEI CONIUGI
Alloggio
Il diritto di abitazione, gravante sull’immobile in favore della coniuge superstite, per averlo adibito a residenza familiare, ai sensi dell’art. 540, 2 comma c.c., non preclude l’azione esecutiva promossa sull’immobile da terzi soggetti, creditori del com¬proprietario. La titolarità da parte di un terzo di un diritto reale sul bene pignorato, se opponibile, incide sul prezzo di vendita dell’immobile, determinandone la riduzione a causa del vincolo gravante sul bene, ma non impedisce la prosecuzione dell’azione esecutiva e la vendita del bene. L’esistenza di un diritto reale sul bene pignorato non può, invero, paralizzare l’azione esecuti¬va, pregiudicando il soddisfacimento di crediti da parte di soggetti che hanno legittimamente pignorato il bene di proprietà del debitore esecutato.
FONTI
Sito Il caso.it, 2012
Commiss. Trib. Prov. Puglia Bari Sez. XV, 25 giugno 2010
ESECUZIONE FORZATA
Pignoramento
(pignorabilità ed impignorabilità)
IMPOSTE E TASSE IN GENERE
Esecuzione fiscale, in genere
Non è ammessa l’adozione della misura cautelare dell’iscrizione ipotecaria su diritti non suscettibili di esecuzione forzata quale il diritto di abitazione, ai sensi degli artt. 1024 e 2810 c.c..
FONTI
Fisco on line, 2010
Commiss. Trib. Prov. Emilia-Romagna Reggio Emilia Sez. I, 1 giugno 2009, n. 102 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso della assegnazione di un bene immobile disposta in sede di provvedimento di separazione consensuale dei coniugi, ancorché erroneamente trascritta, l’Ici rimane a carico del proprietario dell’immobile stesso e non già dell’assegnatario, il quale è titolare di un diritto di abitazione atipico, finalizzato al godimento della casa familiare nell’interesse prioritario dei figli, revo¬cabile, diverso dal diritto di abitazione previsto dall’art. 1022 c.c., non trascrivibile e, pertanto, privo delle caratteristiche del diritto reale.
Cass. civ. Sez. III, 13 gennaio 2009, n. 463 (Famiglia e Diritto, 2009, 5, 525)
L’ipoteca dà diritto ai creditori ad espropriare i beni su cui è stata iscritta, anche se questi pervengono per effetto della succes¬sione a soggetto diverso dall’erede, in quanto oggetto di legato. Se i diritti parziari in questione costituiscano oggetto di legato disposto dalla legge a favore del coniuge superstite oppure vadano ricondotti nel novero dei diritti oggetto di riserva a favore dei legittimari, ciò non fa differenza rispetto al dato costituito dal fatto che l’immobile su cui i diritti in questione insistono entra a far parte dell’eredità gravato da ipoteca a favore di un creditore ereditario. Orbene, tra i presupposti perché l’acquisto dei diritti di cui si tratta si realizzi in sede di successione a favore del coniuge superstite è che l’immobile, che sia stato e si trovi ad essere destinato ad abitazione della famiglia, appartenga all’ereditando e non pure ad altri, che non sia lo stesso coniuge superstite. Se alla morte dell’ereditando sulla proprietà dell’immobile persiste un’ipoteca, siccome ciò consente al creditore ipotecario di assoggettare ad espropriazione forzata tale diritto, l’azione esecutiva già intrapresa nei suoi confronti e la successiva vendita non possono risultare impedite dai diritti attribuiti al coniuge superstite dall’art. 540, secondo comma, c.c.. Gli spetterà, invece, all’esito del processo esecutivo, in corrispondenza del valore dei diritti rimasti estinti, l’eventuale residuo.
Il creditore ipotecario può opporre il proprio titolo al coniuge del debitore che, alla morte di questi, abbia acquistato ex art. 540 cod. civ. il diritto di abitazione sulla casa familiare. Ne consegue che la procedura esecutiva già iniziata prima della morte del debitore può validamente proseguire nei confronti del coniuge di quest’ultimo, al quale spetta solo l’attribuzione del controvalore monetario del suo diritto, nel caso di eccedenza del ricavato della vendita forzata.
Cass. civ. Sez. II, 26 febbraio 2008, n. 5034 (Nuova Giur. Civ., 2008, 11, 1, 1266 nota di TESSERA)
La differenza, dal punto di vista sostanziale e contenutistico, tra il diritto reale d’uso e il diritto personale di godimento è costituita dall’ampiezza ed illimitatezza del primo, in conformità al canone della tipicità dei diritti reali, rispetto alla multiforme possibilità di atteggiarsi del secondo che, in ragione del suo carattere obbligatorio, può essere diversamente regolato dalle parti nei suoi aspetti di sostanza e di contenuto (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale – in relazione al conferimen¬to di attrezzature sciistiche e di uso di terreni nell’ambito del patrimonio di una società in fase di costituzione – aveva ritenuto che tale conferimento avesse il carattere di un diritto personale di godimento e non di un diritto reale di uso, in considerazione della stretta connessione tra l’uso dei terreni ed il mantenimento degli impianti sciistici in questione).
Il carattere personale del diritto di uso si traduce nella necessità che il diritto di uso sulla cosa venga esercitato effettivamente da chi ne è titolare, esigenza che la legge rafforza con il vincolo di incedibilità posto dall’art. 1024 c.c., limite peraltro che, non risultando dettato per motivi di ordine pubblico, è ritenuto liberamente derogabile in sede di atto costitutivo del diritto; il limite quantitativo legato ai bisogni propri dell’usuario e della propria famiglia è invece posto dalla legge soltanto con riguardo al per-cepimento dei frutti. La possibilità della costituzione del diritto reale di uso in favore della persona giuridica deve essere pertanto pienamente riconosciuta, non trovando essa alcun ostacolo nel carattere personale del relativo diritto, rettamente inteso.
Cass. civ. Sez. V, 29 gennaio 2008, n. 1920 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di imposta di registro, non sussistono le condizioni per l’applicazione dell’aliquota proporzionale nei confronti del coniuge del “de cuius” che abbia dichiarato tardivamente di rinunciare all’eredità, in relazione all’abitazione coniugale in possesso del me¬desimo e di proprietà del “de cuius”. Ed infatti in primo luogo non può ritenersi che il possesso di detto bene comporti “ope legis” l’acquisizione della qualità di erede con conseguente effetto traslativo dell’atto abdicativo sottoponibile ad imposta di registro, posto che il coniuge, con l’apertura della successione, diviene titolare del diritto reale di abitazione della casa adibita a residenza familiare, ai sensi del combinato disposto degli artt. 540 e 1022 cod. civ., e quindi non a titolo successorio-derivativo bensì a diverso titolo costitutivo, fondato sulla qualità di coniuge, che prescinde dai diritti successori. In secondo luogo quand’anche la rinunzia all’eredità fosse da ritenersi tardiva per mancato rispetto del termine di cui all’art. 485 cod. civ., la qualità di erede così assunta sarebbe improduttiva dell’effetto traslativo della proprietà, in quanto il trasferimento del bene potrebbe conseguire unicamente ad un valido atto di rinunzia con effetti traslativi, nella specie insussistente.
Trib. Bari, 23 marzo 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto reale di abitazione si costituisce per testamento, usucapione o contratto scritto a pena di nullità. Nell’ipotesi di costitu¬zione del diritto di abitazione a titolo gratuito non è necessaria la forma della donazione, ma solo l’atto scritto. (In virtù di tale principio il Tribunale ha affermato che la costituzione di un diritto di abitazione a favore di un terzo, effettuata all’interno di un atto di donazione della nuda proprietà del bene, è valida anche senza la accettazione del terzo).
Commiss. Trib. Prov. L’Aquila Sez. V, 26 aprile 2004, n. 21 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché la posizione del coniuge assegnatario, in caso di separazione personale, della casa coniugale è pacificamente riconducibile alla categoria dei diritti personali di godimento (non confondibile con il diritto reale di abitazione di cuiall’art. 1022 del codice civile), tale soggetto, ove non sia anche proprietario dell’intero immobile, non può qualificarsi come debitore per esso dell’impo¬sta comunale sugli immobili, il cui presupposto è il possesso di immobile a titolo di proprietà o di altro diritto reale di godimento (numerus clausus), con esclusione di ogni altra situazione giuridica soggettiva non connotata di realità.
Cass. civ. Sez. III, 24 giugno 2003, n. 10014 (Corriere Giur., 2004, 11, 1490, nota di NAPOLITANO)
Rispetto ad un immobile, destinato ad abitazione familiare e su cui il coniuge del defunto abbia acquistato il diritto di abitazione sulla base dell’art. 540, 2° comma, c.c., l’ipoteca iscritta dal creditore sulla piena proprietà dello stesso bene, in forza del diritto concessogli dall’erede, è opponibile al legatario alle condizioni stabilite dall’art. 534, 2° e 3° comma, c.c.; non è invece utilizzabi¬le come regola di risoluzione del conflitto quella dell’anteriorità della trascrizione dell’acquisto dell’erede rispetto alla trascrizione dell’acquisto del legatario, perché la norma sugli effetti della trascrizione, dettata dall’art. 2644 c.c. non riguarda il rapporto del legatario con l’erede e con gli aventi causa da questo: infatti, il legatario acquista il diritto di abitazione direttamente dall’e¬reditando, e perciò non si verifica né in rapporto all’acquisto dell’erede dall’ereditando né in rapporto all’acquisto del creditore ipotecario dall’erede la situazione del duplice acquisto, dal medesimo autore, di diritti tra loro confliggenti
Trib. Palermo, 13 giugno 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto di abitazione del coniuge superstite non incontra le limitazioni di cui agli artt. 1021 e 1022 c.c. per i quali tale diritto è rivolto alla soddisfazione del mero fabbisogno del titolare.
Trib. Bologna, 18 marzo 2002 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai diritti reali di abitazione della casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che l’arredano, attribuiti al coniuge super¬stite dall’art. 540, comma 2, c.c., non si applicano gli artt. 1021 e 1022 c.c. nella parte in cui limitano il diritto in relazione al fabbisogno del titolare. Tali diritti si configurano, pertanto, come diritti esclusivi e non comprimibili del coniuge superstite, con la conseguenza che, così come non potrà trovare accoglimento la domanda di riconoscimento di un diritto di coabitazione o di coutilizzazione dei beni da parte di un coerede, al contrario dovrà essere accolta la domanda di esclusione dall’uso dei beni e dal diritto di abitazione della casa già residenza familiare, di un terzo, per quanto contitolare dell’immobile per diritto ereditario.
Trib. Torino, 14 marzo 2002 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto di abitazione sull’appartamento del convivente può essere usucapito (il tribunale, nel caso di specie, ha ammesso che il convivente “more uxorio” del defunto comproprietario dell’immobile avesse usucapito, per averne avuto il cogodimento esclusivo con il defunto per oltre vent’anni, il diritto di abitazione dell’intera casa in cui aveva convissuto con il “de cuius”).
Cass. civ. Sez. II, 13 marzo 1999, n. 2263 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai diritti reali di abitazione della casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che l’arredano, attribuiti al coniuge su¬perstite dall’art. 540 comma 2 c.c. non si applicano gli art. 1021 e 1022 c.c. nella parte in cui limitano il diritto in relazione al fabbisogno del titolare.
Cass. civ. Sez. II, 27 febbraio 1998, n. 2159 (Famiglia e Diritto, 1998, 4, 390)
I diritti reali di abitazione e di uso dei mobili che l’arredano, riservati per legge, a titolo di legato, al coniuge superstite (art. 540 c.c.), hanno ad oggetto la casa coniugale, ossia quella che in concreto era adibita a residenza familiare, e non quella ove i coniugi, prima del decesso di uno di essi, avrebbero voluto fissare la residenza della famiglia (art. 144 c.c.).
Cass. civ. Sez. II, 17 dicembre 1997, n. 12736 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto all’uso dell’area pertinente ad un fabbricato per parcheggio dell’auto è di natura reale (art. 18 l. 6 agosto 1967 n. 765 e 26 l. 28 febbraio 1985 n. 47), e pertanto si prescrive dopo vent’anni dall’acquisto dell’unità immobiliare.
Cass. civ. Sez. III, 26 settembre 1995, n. 10155 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è viziato da nullità, ai sensi dell’art. 79 l. 27 luglio 1978, n. 392, il contratto con il quale il proprietario locatore di un immo¬bile urbano destinato a uso non abitativo e il conduttore convengono la costituzione temporanea a favore di quest’ultimo di un diritto reale di uso sulla cosa locata, con l’effetto di determinare la cessazione del rapporto locativo per la costituzione del diritto reale e la perdita da parte di chi era conduttore del diritto all’indennità di avviamento, che non gli compete più avendo continuato a utilizzare il bene perché titolare di un diritto reale dopo la cessazione del rapporto locativo. (Nel caso di specie il conduttore era obbligato in forza di verbale di conciliazione al rilascio dell’immobile a una data, anteriore di un giorno alla stipulazione del contratto con il quale era stata convenuta per la durata di un anno la costituzione del diritto di uso).
Cass. civ. Sez. II, 13 giugno 1994, n. 5731 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il coniuge che continua ad abitare la casa di abitazione coniugale in comune proprietà, dopo la morte dell’altro (coniuge), anche per la quota di questo, in forza del diritto di abitazione che è a lui riservato dall’art. 540 c.c., acquista il possesso solo rappre¬sentativo della quota trasferita in proprietà agli eredi del coniuge deceduto i quali, conseguentemente subentrano egualmente, ai sensi dell’art. 1146 c.c., nel possesso del bene senza necessità di materiale apprensione.
Cass. civ. Sez. I, 14 settembre 1991, n. 9593 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto d’uso, così come disciplinato dal codice civile, è un diritto reale di natura temporanea, al quale non può essere attribuito carattere di perpetuità.
Con riguardo al godimento di una cappella gentilizia all’interno di una chiesa, la perpetuità del godimento medesimo, ove debba escludersi una situazione proprietaria, ovvero una situazione di in virtù di concessione canonica, non può essere riconosciuto sulla base di titolo costitutivo di un diritto d’uso, a norma degli art. 1021 e segg. c. c., attesa la temporaneità di tale diritto.
Cass. civ. Sez. II, 21 maggio 1990, n. 4562 (Pluris, Wolters Kluwer Italia Il diritto di abitazione è un diritto reeale che può essere costituito solo mediante testamento, usucapione o contratto, per il quale è richiesta ad substantiam la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata. Pertanto nessuna manifestazione di benevolenza e di disponibilità, per esempio una lettera privata, può avere come conseguenza la costituzione di un diritto reale di abitazione.
Corte cost., 26 maggio 1989, n. 310 (Foro It., 1991, I, 446)
È inammissibile, richiedendosi un’innovazione del sistema normativo riservata al legislatore, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 540, 2° comma, c. c., nella parte in cui non prevede il convivente more uxorio tra i componenti della famiglia del defunto aventi diritto di abitazione sull’alloggio comune, in riferimento agli art. 2 e 3 costituzione
Cass. civ. Sez. I, 11 novembre 1986, n. 6570 (Nuova Giur. Civ., 1987, I, 361 nota di DI NARDO)
L’art. 155 c. c., secondo le modifiche apportate dall’art. 36, l. 19 maggio 1975, n. 151, ha accentuato e accresciuto i poteri di¬screzionali del giudice della separazione e, nel regolare con disposizione innovativa l’assegnazione della casa familiare al coniuge cui sono affidati i figli, ha posto non una regola assoluta e inderogabile, ma una norma direttiva, rimettendo al giudice stesso l’applicazione discrezionale; ne consegue che il giudice, non solo ha il potere di non effettuare quell’assegnazione, ove non ne¬cessaria o comunque, non opportuna, ma anche quello di limitarla alla parte occorrente ai bisogni delle persone conviventi della famiglia, in analogia alla definizione del diritto di abitazione di cui all’art. 1022 c. c., ancorché di diversa natura (reale) e origine (negoziale).
App. Venezia, 3 febbraio 1982 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I diritti di abitazione e di uso riservati al coniuge superstite non sono soggetti alla disciplina dei corrispondenti diritti reali di godimento nella parte in cui il contenuto di questi ultimi è commisurato ai bisogni del titolare e della sua famiglia, perché il legi¬slatore ha voluto garantire al coniuge superstite la continuità nel godimento dell’ambiente in cui si era svolta la vita familiare e tale esigenza può soddisfarsi solo con la conservazione dello stato di fatto esistente al momento dell’apertura della successione.