Cane sempre legato e senza cuccia adeguata: padrone in carcere

Cassazione, sentenza n. 8036/2018
SENTENZA
sul ricorso proposto da: …..; avverso la sentenza n. 1075/15 della Corte di appello di
Ancona del 9 marzo 2015; letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso
introduttivo; sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Andrea GENTILI; sentito il PM,
in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Gabriele MAZZOTTA, il quale ha
concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO La Corte di appello di Ancona, ha riformato, con esclusivo
riferimento alla entità della sanzione penale irrogata, la sentenza con la quale, in data 26
marzo 2013, il Tribunale di Pesaro aveva dichiarato la penale responsabilità di ….. in
ordine al reato di cui all’art. 544-ter, comma secondo, cod. pen., per avere sottoposto il
proprio cane ad un trattamento incompatibile con la sua indole, tenendolo per vari giorni
legato ad una catena all’interno di un box, privo di assistenza igienica, di acqua e di cibo,
all’interno del quale vi era una cuccia in cemento non riparata dalle intemperie. Come
accennato la Corte territoriale, con sentenza del 9 marzo 2015, ha mitigato la sanzione a
suo tempo inflitta al ……, riducendola da 9 a 6 mesi di reclusione; alla determinazione
della pena nella misura dianzi indicata la Corte è pervenuta attraverso la riduzione della
entità della pena base a suo tempo irrogata dal Tribunale, ma confermando gli avvisi di
tale organo in relazione sia alla esclusione della concedibilità delle circostanze attenuanti
generiche sia in relazione alla computabilità dell’aumento per la ritenuta recidiva; i
precedenti del …… sono stati, infine, considerati ostativi alla sospensione condizionale
della pena. Avverso la predetta sentenza ha interposto ricorso per cassazione il
prevenuto, articolando tre motivi di impugnazione. Il primo ha ad oggetto la violazione di
legge per non essere stato notificato al prevenuto il decreto di citazione a giudizio, ciò
avrebbe comportato un’evidente lesione al suo diritto di difesa in quanto, non essendo
stato informato il ….. della pendenza del giudizio nei suoi confronti, egli non avrebbe
potuto difendersi in sede processuale. Il ricorrente ha, altresì, in via subordinata, dedotto
la omessa qualificazione del fatto a lui contestato entro l’ambito dell’art. 727 cod. pen.,
atteso che non emergerebbe dagli atti la circostanza che l’animale di cui al capo di
imputazione abbia patito delle lesioni dolosamente cagionategli dall’imputato. Infine il
ricorrente ha lamentato la manifesta illogicità della sentenza impugnata in relazione al
riscontro della esistenza di uno stato di abbandono dell’animale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile e come tale va dichiarato, con le derivanti conseguenze. Quanto
il primo motivo di impugnazione, concernente la dedotta omessa notificazione del decreto
di citazione in giudizio, va rilevato che, per quanto emerge dagli atti, ai quali questa Corte
può fare libero accesso attesa la natura processuale della censura formulata dal
ricorrente, il ….., in data 3 marzo 2011 elesse domicilio per la esecuzione delle
notificazioni concernenti il presente procedimento in ……, impegnandosi a comunicare
eventuali successive variazioni. Per come emerge ancora dagli atti le notificazioni relative
alla citazione in giudizio del prevenuto sono state eseguite, ai sensi dell’art. 161, n. 4),
cod. proc. pen. presso il difensore di ufficio dell’imputato in quanto, essendo stato
infruttuoso il tentativo di notificazione presso il sopraindicato domicilio eletto, stante la
evidente inidoneità della sua indicazione, è stato necessario ricorrere alla forma di
comunicazione prevista dal legislatore proprio per il caso in cui non fosse possibile
procedere al compimento dell’atto presso il domicilio indicato dall’interessato. Nessun vizio
è, pertanto, ravvisabile nella modalità di esecuzione della notificazione in questione e
perfettamente regolare è stata, pertanto, la evocazione dell’imputato in giudizio. Passando
al secondo motivo di impugnazione, va rilevato che la contestazione mossa al prevenuto
ha ad oggetto la condotta consistente nella inflizione, senza necessità, di maltrattamenti e
sevizie nei confronti di un animale domestico, nella specie un cane di razza “pastore
tedesco”, consistenti nell’imporgli un trattamento incompatibile con la sua indole, i cui
profili sono chiaramente descritti nel capo di imputazione elevato a carico del ….. Osserva,
pertanto, la Corte come sia inconferente rispetto al presente caso, diversamente da
quanto ritenuto dal ricorrente, la indagine volta a verificare la sussistenza a carico della
bestia – oggetto materiale del reato sebbene non certo titolare del bene interesse tutelato
dalla norma, dovendo questo essere rinvenuto nel sentimento di compassionevole pietas
che l’individuo umano prova dei confronti di determinate categorie di animali che, in
quanto soggetti indubbiamente senzienti, non possono essere, pertanto, sottoposti ad
ingiustificate sofferenze – di eventi avversi riconducibili, dal punto di vista nosologico, al
concetto di lesione fisica o psichica. Invero nel presente caso è stato contestato al ……. di
avere volontariamente sottoposto l’animale a sevizie ed ad un trattamento incompatibile
con la sua indole, consistente nel tenerlo legato per vari giorni ad una catena all’aperto,
senza cure igieniche, senza somministrazione né di cibo né di acqua, in assenza di un
valido riparo (a tale proposito giova ricordare che il reato è stato contestato nel mese di
gennaio, periodo in cui è ragionevole pensare che le temperature siano estremamente
rigide ed inadeguate al benessere dei cani in assenza di idonee forme di protezione).
Poco inciderebbe, atteso il descritto quadro, chiaramente incompatibile con le
caratteristiche etologiche di una bestia del tipo di quella di cui alla contestazione mossa
all’imputato, la circostanza che la istruttoria documentale acquisita agli atti non
evidenzierebbe, secondo il ricorrente, alcuna lesione a carico della povera bestia.
Osserva, infatti, la Corte che, come segnalato dalla Corte di Ancona, l’animale al momento
in cui è intervenuto il veterinario pubblico presentava uno stato di magrezza e deperimento
avanzato tanto che lo stesso subiva un “collasso” e non era in grado di reggersi sulle 4
zampe né di alimentarsi (condizione certamente riconducibile ad uno stato patologico tale
da integrare comunque il concetto di lesione). Ciò posto, è indubbio che integri il concetto
di sevizie e comportamenti incompatibili con le caratteristiche dell’animale, e pertanto sia
già di per se fattore tale da costituire l’elemento materiale del reato contestato il tenere lo
stesso, per periodi considerevoli di tempo, in isolamento, legato in uno spazio
angustamente circoscritto, senza cure igieniche né somministrazioni alimentari e senza
un’adeguata protezione dalle intemperie, con ricadute sulla sua integrità. E’, infatti,
nozione di comune esperienza il dato secondo il quale il cane sia di per sé un animale
gregario, destinato cioè a vivere – sia pure in abituali condizioni di sostanziale cattività –
non isolato ma in comunione con altri soggetti, comunemente rappresentati, data la
oramai millenaria consuetudine che tale bestia ha con la specie umana, da uomini nei cui
confronti esso non di rado riversa, in una auspicabile mutua integrazione, i segni evidenti
della propria sensibile affettività, dovendo, peraltro, ricevere dall’uomo, ove sia instaurato
con esso un rapporto di proprietà, le necessarie cure ed assistenze. E’, pertanto, evidente
come sia contrario alle oramai radicate caratteristiche etologiche della bestia in questione
il trattamento che, con insindacabile accertamento in punto di fatto, la Corte anconetana
ha verificato essere stato riservato dal ….. al cane di cui al capo di imputazione. Con
riferimento alla qualificazione della condotta realizzata dal …. entro i confine dell’art. 544-
ter cod. pen. come ritenuto in sede di sentenza impugnata, e non, invece, integrante il più
lieve illecito, contravvenzionale, di cui all’art. 727, comma secondo, cod. pen., come
rivendicato dal ricorrente, osserva la Corte che il criterio discretivo fra le due fattispecie
appare essere riconducibile al diverso atteggiamento soggettivo dell’agente nelle due
diverse fattispecie criminose, essendo la prima connotata dalla necessaria sussistenza del
dolo, persino nella forma specifica ove la condotta sia posta in essere per crudeltà o,
comunque, nello sua ordinarie forme ove la condotta sia realizzata senza necessità (Corte
di cassazione, Sezione III penale, 30 novembre 2007, n. 44822), mentre nel caso del
reato di cui all’art. 727 cod. pen. la produzione delle gravi sofferenze, quale conseguenza
della detenzione dell’animale secondo modalità improprie, deve essere evento non voluto
dall’agente come contrario alle caratteristiche etologiche della bestia, ma derivante solo da
una condotta colposa dell’agente (in tal senso si veda la recente sentenza di questa Corte
di cassazione, Sezione III penale, 25 maggio 2016, n. 21932, in qui è stata
appropriatamente differenziato, sotto il profilo della rilevanza penale, l’uso del collare
addestrativo come tale da integrare la contravvenzione di cui all’art.727 cod. pen. ove
finalizzato a realizzare, con metodi incentrati su impulsi dolorosi in caso di risposte
insoddisfacenti da pare dell’animale, tecniche di apprendimento di comportamenti
conformi alle caratteristiche etologiche della bestia, e come tale da integrare, invece, la
violazione dell’art. 544-ter cod. pen. la medesima metodica se, invece, finalizzata a
reprimere, attraverso la sofferenza fisica, comportamenti ordinari dell’animale dettati dalle
sue specificità naturalistiche; nella specie si trattava di reprimerne, attraverso impulsi
dolorosi, la naturale inclinazione ad abbaiare, quale indubbia forma di manifestazione
esterna di interne sensazioni). Nel caso di specie non vi è dubbio che la condotta del ……,
concretizzatasi nelle forme dianzi descritte, è stata posta in essere in termini di piena
consapevolezza e volontarietà, quindi, in presenza di un atteggiamento riconducibile al
dolo e non alla mera colpa. Quanto, infine, al terzo motivo di impugnazione, con il quale è,
sostanzialmente, contestata la possibilità di rinvenire nel fatto contestato all’imputato gli
estremi del reato a lui ascritto, rileva il Collegio che, per un verso la verifica della idoneità o
meno della cuccia presente nel recinto ove è stato ritrovata la bestia di cui al capo di
imputazione a proteggere quest’ultima dalle intemperie costituisce indagine non
suscettibile di essere portato alla attenzione di questa Corte, trattandosi, evidentemente di
accertamento di fatto sulla quale la motivazione della Corte di appello appare esaustiva,
laddove ha rilevato che non era stata apprestata in loco la protezione della bestia dalle
intemperie, potendosi ben convenire con la Corte territoriale che la mera esistenza di una
cuccia in cemento non può di per sé essere ritenuto adeguato mezzo di protezione dagli
avversi eventi meteorologici tanto più nella stagione invernale; mentre per ciò che attiene
al fatto che, pietatis causa, fosse stato portato da terzi qualche alimento alla bestia in
discorso, si tratta di elemento anch’esso non significativo posto che, a voler tacere del
fatto che l’animale avrebbe necessitato non solo di alimenti solidi ma anche di
abbeverarsi, è il complessivo trattamento a lui riservato che integra gli estremi degli
elementi costitutivi del reato, la cui rilevanza non è elisa dal fatto che, episodicamente, la
loro asprezza fosse solo parzialmente mitigata da occasionali ed imprevedibili condotte di
terzi. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso fa seguito, visto l’art. 616 cod. proc.
pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di
euro 2000,00 in favore della Cassa delle ammende.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di…..

L’affidamento ai nonni non è consentito senza un significativo legame con i nipoti

Cass. civ. Sez. I, 11 aprile 2018, n. 9021
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 8105/2017 proposto da:
R.S.H.M., S.F.I.N., elettivamente domiciliati in Roma, Viale Angelico n. 103, presso lo studio dell’avvocato Antinucci Mario, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Ciccarone Davide, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
M.G., nella qualità di curatore speciale delle minori R.S.H.M.B. e R.S.M., elettivamente domiciliato in Roma, Via Giovanni Nicotera n. 7, presso il proprio Studio, rappresentato e difeso da se medesimo;
– controricorrente –
contro
Casa Famiglia Villaggio SOS di Roma S.c.a.r.l., Ma.Fe.Ab.Ar., P.M. presso il Tribunale per i Minorenni di Roma, Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma, Sh.Fa.Is., Sindaco di Roma;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1175/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 21/02/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/01/2018 dal cons. ACIERNO MARIA;
lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, che ha chiesto alla Corte di Cassazione, riunita in camera di consiglio, il rinvio della decisione del ricorso all’esito della pubblica udienza, in subordine l’accoglimento del ricorso ed in ulteriore subordine l’affermazione del principio di diritto ai sensi del 363 c.p.c. sopra precisato.Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La Corte d’Appello di Roma ha confermato la dichiarazione di adottabilità delle minori B. e Me.Re.So., emessa dal Tribunale per i minorenni.
Preliminarmente il giudice di secondo grado ha rilevato che sono intervenuti nel giudizio di appello i nonni materni nel giudizio di appello deducendo di aver richiesto di essere ascoltati fin dal procedimento di primo grado e sottolineando che era pervenuta informazione dall’ambasciata italiana in Egitto avente ad oggetto la piena capacità degli stessi di prendersi cura delle nipoti a livello finanziario etico ed affettivo. Essi infine si sono dichiarati disponibili anche a trasferirsi in Italia. Il loro intervento è stato dichiarato inammissibile dalla Corte d’Appello.
Nel merito, per quel che ancora interessa, la Corte ha accertato la persistenza delle condizioni di abbandono morale e materiale delle minori già rilevato in primo grado, attesa in particolare l’incapacità materna di sottrarsi alla relazione, caratterizzata prevalentemente da violenza, con il marito e di un atteggiamento aggressivo e del tutto non comprensivo nei confronti delle figlie.
E’ stata, inoltre, constatata: a) la acquisita maggiore tranquillità delle minori, in particolare della più grande, nata (OMISSIS), lontana dall’ambiente familiare e l’affermata e riscontrata forte paura di essere ricondotta presso la madre e di rivivere in un clima di violenza fisica e psicologica pressoché quotidiano, e di essere trasferita in Egitto; b) il sostanziale sopravvenuto disinteresse del padre e la mancanza di consapevolezza della gravità della situazione familiare per le minori; la mancanza di rapporti significativi con i nonni materni che sono stati coinvolti dalla figlia solo parzialmente e molto tardivamente nelle sue problematiche familiari e sono sempre rimasti in Egitto; la mancanza di qualsiasi legame anche culturale e linguistico delle minori con l’Egitto.
Avverso tale pronuncia hanno proposto ricorso per cassazione i genitori delle minori affidandosi a tre motivi. Il procuratore generale ha depositato requisitoria scritta.
Nel primo motivo viene dedotta la violazionedell’art. 111 Cost.per assenza di motivazione in ordine all’esclusione dei nonni materni dalle figure parentali cui affidare le minori. È stata del tutto omessa la verifica della possibilità di conservare per le minori tale legame famigliare. La corte d’Appello ha omesso la loro audizione al fine di acquisire in concreto la disponibilità degli stessi e non ha svolto alcun accertamento al riguardo, limitandosi a registrare la mancanza d’interesse delle minori verso tali figure.
Nel secondo motivo la medesima censura viene svolta sotto il profilo dell’omesso esame di un fatto decisivo. Non è stato considerato che la significatività del rapporto deve essere intesa in senso potenziale e non può essere esclusa dall’estraneità linguistica e culturale.
Il terzo motivo prospetta l’illegittima valutazione negativa della disponibilità dei nonni materni sotto il profilo della violazione dell’art. 8 Cedu.
I tre motivi illustrati devono essere esaminati congiuntamente, in quanto logicamente connessi.
Deve preliminarmente rilevarsi che non viene censurata la statuizione di natura processuale relativa alla declaratoria d’inammissibilità dell’intervento nel giudizio d’appello dei nonni materni.
In ordine allo specifico oggetto della censura deve rilevarsi che il requisito, espressamente previsto dallaL. n. 184 del 1983,art.12della significatività dei rapporti con i parenti fino al quarto grado al fine di verificarne l’idoneità soggettiva e la sussistenza delle condizioni oggettive ai fini dell’affidamento dei minori è stato già ritenuto, nella giurisprudenza di questa Corte, valutabile anche sotto il profilo potenziale, quando sia stata constatata l’impossibilità incolpevole di stabilire rapporti con i minori da parte dei parenti indicati dal citato art. 12. Nella sentenza n. 2102 del 2011 è stato affermato che la mancanza di rapporti significativi pregressi può non essere assunta come elemento di valutazione dell’idoneità dei parenti ad assicurare l’assistenza e la crescita del minore in modo adeguato quando quest’ultimo sia stato allontanato subito dopo la nascita e la richiesta dei parenti sia stata ragionevolmente tempestiva.
Nella fattispecie dedotta nel presente giudizio, tuttavia, secondo l’insindacabile accertamento di fatto svolto dalla Corte d’Appello, i nonni materni prima della dichiarazione di disponibilità pervenuta in via consolare il 15/9/2015 non avevano maturato o sviluppato alcun rapporto con le minori nate rispettivamente nel (OMISSIS), risultando del tutto estranei alle tormentate e drammatiche vicende del nucleo familiare delle minori.
Nella fattispecie dedotta nel presente giudizio, pertanto, non può riscontrarsi la condizione dell’impossibilità incolpevole in ordine alla creazione e conservazione di rapporti significativi con le minori. I nonni materni sono stati assenti dalla vita delle nipoti proprio negli anni di maggiore criticità della loro esistenza e non hanno avuto significativi contatti neanche con i genitori delle minori ed in particolare con la madre delle stesse. (cfr. pag. 20 della sentenza impugnata).
Sola la nipote più grande ha trascorso i primi anni di vita in Egitto ma ha dichiarato di non avere memoria di tale fase di vita e della relazione con i nonni (cfr. pag. 24 della sentenza impugnata). La condizione di reciproca estraneità, di conseguenza, non può ritenersi fondata, nella specie, da condizioni meramente oggettive, quali la lontananza geografica, ma risulta dettata, come esattamente individuato dalla Corte territoriale, dalla situazione relazionale che i nonni materni e i genitori delle minori hanno determinato nel tempo. Tale situazione è attualmente caratterizzata non solo dalla totale assenza di rapporti significativi tra nonni e nipoti ma anche dalla mancanza di potenzialità di recupero non traumatiche in tempi compatibili con lo sviluppo equilibrato della personalità delle minori, anche in considerazione dell’oggettivo radicale cambiamento contestuale (e linguistico) che si determinerebbe e che, alla luce dell’indagine di fatto approfondita ed insindacabile svolta dalla Corte d’Appello, non è affrontabile senza un riferimento relazionale affettivo preesistente e significativo così come richiesto dalla legge.
Nel quarto motivo viene dedotta la violazione dell’art. 8 Cedu e la contraddittorietà della motivazione in ordine all’allegata modificazione delle condizioni soggettive riguardanti i ricorrenti ed in particolare la madre. In particolare viene richiesto un approfondimento istruttorio mediante consulenza tecnica d’ufficio volta ad accertare le attuali capacità genitoriali dei ricorrenti.
La censura è inammissibile in quanto mira a sostituire all’accertamento di fatto svolto dalla Corte d’Appello, peraltro sulla base della ricostruzione delle vicende del nucleo familiare in oggetto, della relazione tra i ricorrenti e dello sviluppo delle condizioni delle minori dalle prime criticità al momento della decisione, una diversa valutazione della situazione attuale peraltro affidandola a futuri accertamenti tecnici.
Il quadro fattuale posto a base della decisione impugnata risulta completo e specificamente diretto a rilevare le problematiche genitoriali e le reazioni delle minori nel tempo.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato con applicazione del principio della soccombenza in ordine alle spese processuali del presente giudizio.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna le parti ricorrenti al pagamento delle spese processuali in favore della parte controricorrente da liquidarsi in Euro 3000 per compensi ed Euro 200 per esborsi oltre accessori di legge.
In caso di diffusione omettere le generalità.

È sollevata questione di legittimità dell’art. 657 bis c.p.p. nella parte in cui non è previsto anche per i minori la possibilità di scomputare dalla pena inflitta il periodo trascorso in messa alla prova

Cass. pen. Sez. I, 12 aprile 2018, n. 16358
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
B.A.P., nato a (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del Tribunale per i minorenni di Milano in data 6/03/2017;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Carlo Renoldi;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. TOCCI Stefano, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.
Svolgimento del processo
1. A seguito della richiesta di rinvio a giudizio davanti al Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale per i Minorenni di Milano per rispondere del delitto di cui agliartt. 110 e 648 c.p., B.A. aveva beneficiato della sospensione del processo con messa alla prova ai servizi minorili applicata, per un periodo pari a un anno, con ordinanza dello stesso giudice in data 17/10/2011.
Nel corso della misura, egli era stato sottoposto a un progetto elaborato dal Servizio sociale minorile che prevedeva interventi di orientamento formativo e lavorativo, di sostegno per il conseguimento del patentino per il ciclomotore, per il mantenimento della frequenza di uno sport di squadra, per lo svolgimento di attività di utilità sociale, da individuarsi a carico dello stesso servizio sociale, nonché colloqui di monitoraggio con l’assistente sociale e di sostegno psicologico dell’equipe penale. Dopo un iniziale periodo in cui B. aveva aderito al progetto educativo, egli aveva successivamente disatteso gli impegni assunti, interrompendo bruscamente i contatti con gli operatori psico-sociali e riallacciando strumentalmente i rapporti con i servizi soltanto in prossimità dell’udienza finale.
Per tale motivo, con sentenza in data 3/10/2012 il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale per i Minorenni di Milano aveva ritenuto che la messa alla prova si fosse conclusa con esito negativo e aveva condannato l’imputato alla pena di sette mesi e quattro giorni di reclusione, riconosciute le attenuanti generiche ed applicata la diminuente della minore età.
1.1. Successivamente, B. era stato nuovamente tratto a giudizio davanti al Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale per i Minorenni di Milano per rispondere dei delitti di cui agli artt. 81, 609 octies, 609 bis e 609 ter c.p.; e conordinanza in data 14/04/2014era stato ammesso, una seconda volta, alla sospensione del procedimento con messa alla prova al Servizio sociale minorile per un periodo di un anno e sei mesi. Il progetto elaborato dal Servizio sociale prevedeva il mantenimento della frequenza scolastica, con profitto e buon comportamento, colloqui di sostegno psicologico, con cadenza quantomeno quindicinale, finalizzati anche alla rielaborazione dei reati e dei sottesi stili di vita e relazionali con i pari; lo svolgimento di attività socialmente utili inizialmente presso un oratorio e successivamente presso altri contesti al fine di incentivare “sentimenti di condivisione e di empatia”, di attività di servizio alla persona, con l’inserimento, ove possibile, in gruppi rivolti alla presa in carico di minori coinvolti in reati di stampo sessuale, nonché colloqui di verifica e di sostegno con l’assistente sociale, con il coinvolgimento dei familiari.
La misura, anche in questo frangente, non era stata gestita in maniera adeguata, sicché in sede di relazione conclusiva, datata 16/09/2015, il Servizio affidatario aveva sottolineato l’esito negativo del percorso di messa alla prova. Su tali basi, il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale per i minorenni di Milano aveva valutato sfavorevolmente l’andamento della misura, sottolineando come il giovane si fosse sottratto ad una presa in carico psicologica, avesse interrotto e ripreso i rapporti con gli operatori a proprio piacimento, si fosse mantenuto “emotivamente distante rispetto alle relazioni di aiuto a lui offerte”, avesse autonomamente orientato la propria progettualità lavorativa, dimostrando una “totale mancanza di interesse al contesto penale”, non avesse svolto “alcuna significativa riflessione sulle condotte di reato”, non palesando alcun “movimento trasformativo” sia sul piano comportamentale che attitudinale. In questa prospettiva, il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale per i minorenni di Milano, con sentenza in data 13/10/2015, lo aveva condannato, con la riduzione per il rito prescelto e con la diminuentedell’art. 98 c.p., ritenuta prevalente sulle aggravanti contestate, alla pena di due anni e sei mesi di reclusione.
1.3. Le due sentenze di condanna erano state, quindi, unificate dal provvedimento di cumulo del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Milano in data 23/08/2016, che aveva determinato la pena espianda in tre anni, un mese e quattro giorni di reclusione.
2. In data 6/10/2016, B.A.P. aveva presentato, a mezzo del difensore avv. Luigi Marinelli, richiesta di applicazione dell’art. 657 bis c.p.p., in relazione al periodo, pari a complessivi due anni e sei mesi, nel quale il giovane era stato ammesso alla prova in relazione alle condanne unificate dal menzionato provvedimento di cumulo.
In data 10/10/2016, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Milano aveva rigettato la richiesta, sul presupposto della non applicabilità al processo minorile dell’art. 657 bis c.p.p., previsto per i soli imputati adulti, avuto riguardo alle sostanziali differenze, sia sul piano strutturale che funzionale, tra le due ipotesi di sospensione del processo con messa alla prova.
2.1. Per tale ragione, in data 12/10/2016, B.A.P. aveva personalmente formulato un incidente di esecuzione volto ad ottenere il riconoscimento dello scomputo previsto dalla citata disposizione.
Tuttavia, con ordinanza in data 6/03/2017, il Tribunale per i minorenni di Milano, pronunciandosi in qualità di giudice dell’esecuzione, aveva rigettato la predetta richiesta. Anche secondo il giudice minorile, infatti, le due ipotesi di sospensione del processo con messa alla prova avrebbero una sostanziale diversità, sia sul piano strutturale che della ratio, con una spiccata vocazione in senso educativo e non afflittivo dell’istituto previsto per il processo minorile.
Tale circostanza, secondo il giudice dell’esecuzione, avrebbe impedito l’estensione dell’art. 657 bis c.p., al caso in esame, atteso che il principio di sussidiarietà previsto dalD.P.R. n. 448 del 1988,art.1, avrebbe consentito l’estensione al processo minorile delle norme del codice di procedura penale soltanto ove si fosse in presenza di una sostanziale lacuna nel sistema regolativo proprio del rito minorile; lacuna nella specie non ravvisabile.
Sotto altro, ma connesso, profilo, essendosi in presenza di una disposizione che si sarebbe inserita in uno specifico e autonomo sistema di regole, non sarebbe stato, dunque, possibile configurare alcuna violazione del principio di uguaglianza, essendo il diverso regime giustificato dalle peculiarità del processo minorile e del relativo istituto della messa alla prova.
3. Avverso l’ordinanza del giudice dell’esecuzione ha proposto ricorso per cassazione lo stesso B., a mezzo del difensore di fiducia, avv. Luigi Marinelli, deducendo, con un unico articolato motivo di impugnazione, inosservanza o erronea applicazione della legge penale e processuale nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, ai sensidell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. B), C) ed E).
Si opina, da parte del ricorrente, che ilD.P.R. n. 448 del 1988,art.1, consenta la estensione, anche al processo minorile, delle disposizioni del codice di procedura penale previste per i maggiorenni; e, sotto altro profilo, che la mancata applicazione della norma de qua sarebbe ingiustificata, creerebbe un assetto sostanzialmente discriminatorio e, dunque, sarebbe incostituzionale per contrasto con il principio di eguaglianza.
4. In data 14/07/2017, il Procuratore generale presso questa Corte ha depositato in Cancelleria la propria requisitoria scritta, con la quale ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata. A parere del P.G., l’art. 657 bis c.p.p., sarebbe, infatti, applicabile anche al processo minorile in virtù della menzionata clausola di estensione contemplata dalD.P.R. n. 448 del 1988,art.1, laddove l’opposta soluzione ricostruttiva contrasterebbe con i principi posti dagliartt. 3 e 31 Cost., su cui si baserebbe l’intero diritto penale minorile.

Motivi della decisione
1. Ritiene il Collegio che la sollecitata applicazione estensiva dell’art. 657 bis c.p.p., alla messa alla prova per i minorenni, prevista dal D.P.R. n. 448 del 1998, art. 28, non sia, alla luce dei dati testuali e di sistema, praticabile.
Il D.P.R. n. 448 del 1998, art. 28, stabilisce, al comma 1, che “il giudice, sentite le parti, può disporre con ordinanza la sospensione del processo quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne all’esito della prova disposta a norma del comma 2. Il processo è sospeso per un periodo non superiore a tre anni quando si procede per reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni; negli altri casi, per un periodo non superiore a un anno”; e, al comma 2, che “con l’ordinanza di sospensione il giudice affida il minorenne ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia per lo svolgimento, anche in collaborazione con i servizi locali, delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno. Con il medesimo provvedimento il giudice può impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato”.
IlD.Lgs. 28 luglio 1989, n. 272,art.27, recante Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie delD.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, recante disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, prevede, al comma 2, che il progetto di intervento elaborato dai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, in collaborazione con i servizi socio-assistenziali degli enti locali, sulla base del quale il giudice provvede a norma del citato art. 28, deve prevedere tra l’altro: a) le modalità di coinvolgimento del minorenne, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita; b) gli impegni specifici che il minorenne assume; c) le modalità di partecipazione al progetto degli operatori della giustizia e dell’ente locale; d) le modalità di attuazione eventualmente dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa.
Sul piano contenutistico le prescrizioni possono consistere in: prescrizioni formali per le esigenze di controllo sociale; prescrizioni di tipo riparatorio; prescrizioni di vario contenuto quali il trattamento sanitario, la terapia disintossicante, il trattamento psicologico/psichiatrico; prescrizioni aventi un contenuto in positivo, quali ad esempio l’obbligo di frequentare scuole professionali o di svolgere determinate attività lavorative.
Ai sensi delD.P.R. n. 448 del 1988,art.29, decorso il periodo di sospensione, il giudice fissa una nuova udienza nella quale dichiara con sentenza estinto il reato se, tenuto conto del comportamento del minorenne e della evoluzione della sua personalità, ritiene che la prova abbia dato esito positivo. Dunque, la valutazione circa l’esito della stessa viene compiuta alla stregua degli effetti che la prova ha prodotto sulla personalità del minore, essendo l’istituto rivolto, secondo una autorevole dottrina, al “completamento, al consolidamento della personalità del minore”. Ne consegue che la prova possa, quindi, ritenersi fallita nel caso in cui essa non abbia inciso positivamente sulla personalità del minore, quand’anche le sue prescrizioni siano state formalmente rispettate. Ed in caso di esito negativo, il giudice dispone la prosecuzione del procedimento e si pronuncia, nel merito, sui fatti oggetto di imputazione.
2. Quanto, invece, all’istituto della sospensione del processo per messa alla prova dell’imputato maggiorenne, introdotto dallalegge 28/04/2014, n. 67, esso si configura come un procedimento alternativo rispetto al rito ordinario, riconducibile, sul piano sostanziale, alle cause estintive del reato; effetto che si produce in caso di esito positivo della prova.
Sul piano procedimentale, ai sensi dell’art. 168 bis c.p., comma 1, e art. 464 bis c.p.p., comma 1, il rito si instaura su esclusiva iniziativa dell’imputato, il quale deve altresì consentire all’esecuzione del programma di trattamento cui viene sottoposto a seguito della sospensione del processo.
Nessun consenso deve essere espresso dal pubblico ministero, salvo il caso di domanda di sospensione del procedimento presentata nel corso delle indagini preliminari.
Il beneficio può essere chiesto unicamente dagli indagati o dagli imputati di reati puniti con pena detentiva che, sola o congiunta alla pena pecuniaria, non sia superiore nel massimo a quattro anni e di quelli previstiall’art. 550 c.p.p., comma 2. Inoltre, la sospensione è preclusa per i delinquenti e contravventori abituali o professionali e per i delinquenti per tendenza; non può essere concessa nuovamente qualora sia stata revocata o qualora la prova non abbia dato esito positivo, e, in ogni caso, non può essere concessa più di una volta.
Ai sensi dell’art. 168 bis c.p., commi 2 e 3, e art. 464 bis c.p.p., comma 4, la prova consiste in una attività, indefettibile, dal contenuto retributivo, consistente nell’affidamento dell’imputato al servizio sociale, secondo le modalità definite nel programma di trattamento concordato con l’U.E.P.E. e nello svolgimento del lavoro di pubblica utilità; nonché, in una attività, soltanto facoltativa, di natura riparativa, diretta all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, alle restituzioni, al risarcimento del danno, ove possibile nonché alla eventuale mediazione con la persona offesa.
Nel dettaglio, nel programma di trattamento devono essere indicate, se “necessario e possibile”, “le modalità di coinvolgimento dell’imputato, nonché del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale”, “le prescrizioni comportamentali” (relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali) e gli altri impegni specifici che l’imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, quali le misure finalizzate alla riparazione in favore della vittima e a vantaggio della collettività, consistenti nel lavoro di pubblica utilità e in attività di volontariato di rilievo sociale. Quanto, in particolare, al lavoro di pubblica utilità, l’art. 168 bis c.p., comma 3, stabilisce che esso consista in una prestazione non retribuita, individuata sulla base della professionalità e delle attitudini lavorative del richiedente, da svolgersi presso lo Stato, gli enti territoriali, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale sanitaria o di volontariato, da svolgersi con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato.
Ove non debba pronunciare sentenza di proscioglimento exart. 129 c.p.p., il giudice, decidendo con ordinanza, accoglie l’istanza allorquando, in base ai criteri di cuiall’art. 133 c.p., compia un apprezzamento favorevole in relazione alla gravità del fatto, alla idoneità del programma, alla prognosi positiva in relazione alla futura astensione dal commettere ulteriori reati. In tal caso, il giudice deve indicare la durata della sospensione che, comunque, non può essere superiore a due anni se si procede per un reato per il quale è prevista la pena detentiva, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria e ad un anno per i reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria.
Nella fase esecutiva, l’U.E.P.E. deve compiere le periodiche verifiche sull’andamento della prova, su cui deve relazionare il giudice, proponendo eventuali modifiche al programma di trattamento, l’abbreviazione della durata della prova, ovvero la revoca dell’ordinanza ammissiva nel caso in cui ricorra talune delle condotte previste dall’art. 168 quater c.p., (e, dunque, la grave o reiterata trasgressione al programma di trattamento o alle prescrizioni imposte; il rifiuto alla prestazione del lavoro di pubblica utilità; la commissione, durante il periodo di prova, di un nuovo delitto non colposo o di un reato della stessa indole rispetto a quello per cui si procede).
Alla fine del periodo di prova, il giudice ne valuta l’esito sulla base della relazione conclusiva dell’U.E.P.E., avuto riguardo al comportamento tenuto dall’imputato e al rispetto delle prescrizioni stabilite.
In caso di esito positivo, il giudice dichiara con sentenza che il reato è estinto; e, in caso contrario, dispone con ordinanza che il processo riprenda il suo corso.
In caso di successiva condanna, l’art. 657 bis c.p.p., stabilisce che il pubblico ministero, nel determinare la pena da eseguire, detrae un periodo corrispondente alla prova comunque eseguita, computando un giorno di reclusione o di arresto, oppure duecentocinquanta Euro di multa o di ammenda, per ogni tre giorni di prova.
3. Alla luce delle evidenziate caratteristiche dei due istituti, deve rilevarsi che la sospensione del processo con messa alla prova per gli imputati minorenni presenta significative differenze, sia sul piano strutturale che funzionale, rispetto al corrispondente istituto previsto per gli adulti.
Sotto il primo aspetto, 1) esso non ha limitazioni oggettive e soggettive; 2) comporta lo svolgimento di attività di osservazione trattamento e sostegno e l’assoggettamento a disposizioni che prescindono da richieste o dal consenso del minore; 3) ha ad oggetto, sul piano contenutistico, prescrizioni variamente modulabili e almeno tendenzialmente connotate da una minore afflittività; 4) ha una durata diversa; 5) il suo esito è strettamente correlato con la valutazione della personalità dell’imputato e, quindi, può essere negativo anche nel caso in cui vengano rispettate le prescrizioni previste nel progetto.
Sotto il profilo funzionale, mentre la presenza, nel caso della messa alla prova per gli adulti, del lavoro di pubblica utilità connota l’istituto in termini prettamente afflittivi, questa caratterizzazione, nel caso dell’istituto minorile, assume un rilievo eventuale e comunque meno pregnante, a favore delle istanze educative che sono proprie del processo minorile.
Dalle evidenziate differenze tra i due istituti consegue, come anticipato, ad avviso del Collegio la impossibilità di estendere l’art. 657 bis c.p.p., anche al processo minorile, in particolare per quanto concerne il rigido automatismo previsto dalla norma, la quale, in ragione dei profili afflittivi delle prescrizioni altrettanto rigidamente disciplinate per l’istituto previsto dall’art. 168 bis c.p., contempla un meccanismo di fungibilità costruito alla stregua di un criterio matematico: tre giorni di messa alla prova corrispondono a un giorno di pena detentiva da detrarre (ovvero a 250 Euro di pena pecuniaria), che sembra non esportabile automaticamente in ogni caso di messa alla prova del minorenne.
4. Pur in presenza delle evidenziate differenze tra i due istituti, attinenti sia al piano strutturale sia a quello funzionale, anche l’istituto della messa alla prova per i minorenni può presentare però, in concreto e caso per caso, significativi profili di afflittività.
Ciò è evidente nelle situazioni in cui, tra le prescrizioni, sia previsto l’inserimento comunitario obbligatorio con obbligo di permanenza all’interno della struttura, attesa la consistente limitazione della libertà di movimento che esso implica. Ma ad analoga valutazione deve pervenirsi anche nel caso in cui le prescrizioni, lungi dal presentare un contenuto “debole”, consistente in una mera offerta trattamentale e di sostegno educativo, consistano, come nella fattispecie in esame, in un obbligo di fare (o di non fare), atteso che anche in tali ipotesi è comunque configurabile una limitazione della libertà personale, il cui contenuto presenta, ontologicamente, un carattere afflittivo, al di là della finalizzazione verso un obiettivo di natura prettamente educativa.
Ne consegue che, in tale evenienza, l’esclusione di qualunque rilevanza del percorso seguito durante la prova, pur segnato da un epilogo sfavorevole, realizza un regime ingiustificatamente differenziato rispetto all’assetto regolativo che caratterizza l’omologo istituto per gli imputati maggiorenni, sì da confliggere con il principio di uguaglianza postodall’art. 3 Cost..E ciò tanto più ove si consideri lo specialissimo statuto, ispirato a una prospettiva di deciso favor, che l’ordinamento penale riconosce, sia sul piano sostanziale che processuale, agli imputati minorenni, a sua volta radicato nella previsionedell’art. 31 Cost., comma 2, secondo cui la Repubblica “protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”. Un principio, questo, che con specifico riferimento alla Giustizia minorile è stato declinato nel senso che l’intervento giudiziario deve essere funzionale a preservare e consolidare i processi educativi che riguardano il minore, soggetto da tutelare in quanto tale, adattando gli istituti giuridici alle sue peculiari esigenze (cfr. Corte cost., sent. n. 222 del 1983, secondo cuil’art. 31, secondo comma, Cost.è alla base del principio secondo il quale il processo minorile deve essere ispirato alla prevalente esigenza educativa del minore; sent. n. 109 del 1997, secondo cui la protezione della gioventù exart. 31 Cost., si attua attraverso la “specifica individualizzazione e flessibilità del trattamento che l’evolutività della personalità del minore e la preminenza della funzione rieducativa richiedono”). In questo modo, peraltro, si configura un evidente collegamento conl’art. 27 Cost., comma 3, il quale finalizza l’intervento penale al principio rieducativo, secondo quanto riconosciuto dalla Consulta con la sentenza n. 222 del 1983, la quale ha affermato che la funzione di recupero del minore, imposta dall’interesse superiore alla protezione del medesimo espressonell’art. 31 Cost., comma 2, deve essere perseguita mediante la richiesta di interventi individualizzati da parte di organi giurisdizionali specializzati, attraverso istituti processuali ad hoc e “mediante la sua rieducazione e il suo reinserimento sociale, in armonia con la meta additata al terzo commadell’art. 27 Cost., nonchè dall’art. 14, paragrafo 4, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (adottato a New York il 19 dicembre 1966 e la cui ratifica ed esecuzione sono state disposte conL. 25 ottobre 1977, n. 881)” oltre che dalle “Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile” (dette anche Regole di Pechino), approvate dal VI Congresso dell’ONU nel 1985.
In questa prospettiva, la previsione di un regime giuridico chiaramente sfavorevole per il minore, il quale, secondo la tesi accolta dal giudice dell’esecuzione, non potrebbe in alcun modo o misura scomputare dalla pena inflittagli il periodo trascorso in messa alla prova, diversamente da quanto previsto per l’omologo istituto applicabile agli adulti, sembra configurare una violazione dei principi di tutela del minore e della finalità educativa dell’intervento penale postidall’art. 31 Cost., comma 2, eart. 27 Cost., comma 3, e del principio di eguaglianza, non apparendo il regime, che per il minorenne non prevede alcun computo delle restrizioni eventualmente patite nella pena ancora da espiare, giustificato in rapporto alla rilevanza costituzionale degli interessi in gioco, riconducibili all’ambito della libertà personale, sottoposta a limitazioni di varia intensità e cogenza nel corso della prova.
In altri termini, attese le ragioni della già evidenziata impraticabilità di una automatica estensione dell’art. 657 bis c.p.p., alla messa alla prova minorile, il dubbio sulla legittimità costituzionale investe non la mancata applicabilità, sic et simpliciter, della norma in questione al rito minorile, quanto piuttosto l’impossibilità, per il giudice, di tenere in alcun conto, per il minore condannato a seguito di esito negativo della messa alla prova, del periodo trascorso in assoggettamento a tale regime, valutando, all’esito del pur negativo esperimento, le limitazioni della libertà personale alle quali sia stato comunque nelle more sottoposto: analogamente, a quanto è ora consentito in caso di revoca dell’affidamento in prova al servizio sociale per comportamento incompatibile con la prosecuzione della prova, ex art. 47, comma 11 (già comma 10), ord. pen. (L. n. 354 del 1975), dopo che Corte cost. n. 343 del 1987, sulla scorta di principi analoghi a quelli affermati già da Corte cost. sentenze nn. 185 del 1985 e 312 del 1985, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale normativa nella parte in cui non consente al Tribunale di sorveglianza di determinare la residua pena detentiva da espiare, tenuto conto della durata delle limitazioni patite dal condannato e del suo comportamento durante il trascorso periodo di affidamento in prova.
Il dubbio di legittimità costituzionale delle disposizioni di cui all’art. 657 bis c.p.p., eD.P.R. n. 448 del 1988,art.29, nella parte in cui non prevedono che, in caso di revoca o di esito negativo della messa alla prova di soggetto minorenne, il giudice determina la pena da eseguire tenuto conto della consistenza e della durata delle limitazioni patite e del comportamento tenuto dal minorenne durante il periodo di sottoposizione alla messa alla prova, con riferimentoall’art. 3 Cost.,art. 31 Cost., comma 2, eart. 27 Cost., comma 3, non può ritenersi, per conseguenza, manifestamente infondato.
5. Nella fattispecie concreta, la questione appare, quindi, sicuramente rilevante.
Durante i due distinti periodi di messa alla prova ai quali è stato sottoposto, in entrambi i casi dichiarati anticipatamente conclusi con esito negativo, al ricorrente è stato prescritto, tra l’altro, lo svolgimento di attività socialmente utili, la cui consistenza e afflittività, unitamente a quella delle altre attività e prestazioni indicate nei progetti, che stando agli atti risulterebbero almeno in parte realizzati e di cui si è fatto resoconto in sintesi nella parte in “fatto”, non è stata menomamente valutata dai giudici del merito.
L’incidenza della relativa decisione sul presente giudizio è resa manifesta dal fatto che, da un lato, la non valutabilità delle restrizioni connesse al periodo di messa alla prova costituisce proprio l’oggetto del ricorso; dall’altro lato, solo la invocata, ma oggi non prevista, possibilità di valutare tali afflizioni consentirebbe un annullamento del provvedimento impugnato con rinvio al Tribunale di sorveglianza perché proceda ad esame del sostanziale aggravamento del trattamento sanzionatorio subito dal condannato in ragione della sua sottoposizione alla messa alla prova.
6. Alla stregua delle considerazioni che precedono, deve in conclusione ritenersi rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agliartt. 3, 27 e 31 Cost., la questione di legittimità costituzionale delD.P.R. n. 448 del 1988,art.29, e art. 657 bis c.p.p., nella parte in cui non prevedono che, in caso di revoca o di esito negativo della messa alla prova di soggetto minorenne, il giudice possa determinare la pena da eseguire tenuto conto della consistenza e della durata delle limitazioni patite e del comportamento tenuto dal minorenne durante il periodo di sottoposizione alla messa alla prova.
Va per l’effetto disposta l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, mentre il giudizio in corso deve essere sospeso.
A cura della Cancelleria la presente ordinanza sarà notificata ai ricorrenti e alle parti civili, al Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, al Presidente del Consiglio dei Ministri e sarà comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

P.Q.M.
Dichiara rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agliartt. 3, 31 e 27 Cost., la questione di legittimità costituzionale delD.P.R. n. 448 del 1988,art.29, e art. 657 bis c.p.p., nella parte in cui non prevedono che, in caso di esito negativo della messa alla prova di soggetto minorenne, il giudice determina la pena da eseguire tenuto conto della consistenza e della durata delle limitazioni patite e del comportamento tenuto dal minorenne durante il periodo di sottoposizione alla messa alla prova. Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso. Ordina che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata al ricorrente, al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

È nulla la divisione del patrimonio ereditario operata direttamente dal testatore che pretermette un legittimario

Cass. civ. Sez. II, 22 marzo 2018, n. 7178
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso (iscritto al N.R.G. 28120/’13) proposto da:
L.S.M., (C.F.: (OMISSIS)), in proprio e quale erede di L.D., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a margine del ricorso, dall’Avv. Gian Paolo Olivetti Rason ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv. Ernesto Abbate, in Roma, Largo Trionfale, n. 7;
– ricorrente –
contro
L.L., (C.F.: (OMISSIS)), rappresentato e difeso, in virtù di procura speciale a margine del controricorso (contenente ricorso incidentale), dagli Avv.ti Carlo Martuccelli e Maurizio Dell’Unto ed elettivamente domiciliato presso lo studio del secondo, in Roma, v. Dora, n. 2;
– controricorrente – ricorrente incidentale –
Avverso la sentenza della Corte di appello di Firenze n. 593/2013, depositata il 22 aprile 2013 (e non notificata);
Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 18 dicembre 2017 dal Consigliere relatore Aldo Carrato;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e per l’inammissibilità del ricorso incidentale;
uditi l’Avv. Francesco Arnaud (per delega) nell’interesse della ricorrente principale e l’Avv. Carlo Martuccelli
per il controricorrente – ricorrente incidentale.

Svolgimento del processo
Con sentenza non definitiva del 3 luglio 2008, il Tribunale di Firenze, decidendo sulla causa instaurata dalla sig.ra L.S.M. nei confronti del germano sig. L.L. per la divisione dell’eredità della loro genitrice B.L., così provvedeva:
– accoglieva l’azione di riduzione proposta dall’attrice (nella qualità di erede del padre L.D.), disponendo la riduzione delle disposizioni testamentarie di cui alle schede redatte dalla genitrice B.L., pubblicate il 13 marzo 2000, nella misura di tre quarti dell’intero asse ereditario;
– dichiarava la nullità della divisione di cui alle stesse schede testamentarie;
– riconosceva il diritto della stessa attrice di succedere nella misura della metà dell’intero asse relitto della B.;
– approvava il rendiconto redatto dal c.t.u. e dichiarava il diritto della medesima attrice a percepire l’importo di Euro 61.718,29.
Avverso la suddetta sentenza proponeva appello il convenuto L.L. articolato in complessivi quattro motivi, al quale resisteva l’originaria attrice che, a sua volta, formulava appello incidentale in relazione al rigetto della domanda di declaratoria di inefficacia (od invalidità) del preteso testamento, oltre che in ordine alla nullità della divisione, per effetto della pretermissione del legittimario, con la conseguente devoluzione dell’eredità in quote paritarie, deducendo, inoltre, la circostanza dell’intervenuta definizione transattiva della divisione dei cespiti immobiliari, chiedendo di procedersi alla divisione del patrimonio residuo (comprendente beni mobili e denaro) a perfetta metà.
La Corte di appello di Firenze, con sentenza non definitiva n. 593/2013 (depositata il 22 aprile 2013), in parziale riforma della impugnata sentenza di primo grado, così decideva:
– accertava e dichiarava che la successione di B.L. avrebbe dovuto essere devoluta secondo la volontà testamentaria della de cuius di cui alle schede testamentarie pubblicate dal notaio C.P. il 13 marzo 2000, previa riduzione proporzionale per la determinazione della quota legittima di 1/4 dell’eredità spettante a L.D.;
– accertava e dichiarava la devoluzione della predetta quota legittima agli eredi di L.D., e cioè a L.L. e L.S.M., ciascuno per metà;
– disponeva la rimessione della causa sul ruolo per la determinazione della quota legittima e la sua divisione.
A sostegno dell’adottata pronuncia il giudice di secondo grado disattendeva – in primo luogo – l’eccezione pregiudiziale di tardività dell’appello incidentale e respingeva quest’ultimo con riferimento alla domanda di invalidità del testamento della B.L. (sulla cui volontà devolutiva dei beni ereditari in favore di entrambi i figli non poteva nutrirsi alcun dubbio). Delibando, poi, sul merito delle censure avanzate dall’appellante principale, premessa l’insussistenza dell’incompatibilità della tutela del diritto del legittimario con la divisio inter liberos exart. 734 c.c., le accoglieva nella parte in cui il Tribunale di prime cure aveva dichiarato la nullità della divisione quale conseguenza della ritenuta fondatezza dell’azione di riduzione e nella parte in cui aveva accertato e dichiarato il diritto della L.S.M. di succedere nella metà dell’intero asse relitto. La stessa Corte territoriale confermava, poi, la riduzione delle disposizioni testamentarie della B.L. e, per l’effetto, accertato e dichiarato che la quota spettante al legittimario pretermesso L.D. era corrispondente ad 1/4, da prelevarsi proporzionalmente dalle quote attribuite ai due eredi testamentari secondo le ritenute valide disposizioni della testatrice, dava atto del venir meno dell’esigenza della formazione dei lotti secondo quote paritarie previste in sentenza e della conseguente necessità della formazione di un progetto di assegnazione dal momento che gli eredi risultavano già assegnatari, con effetti reali, dei beni loro attribuiti per testamento. Sulla base di queste disposizioni, la Corte fiorentina disponeva la rimessione della causa sul ruolo per procedere all’anzidetta individuazione dei beni da attribuire al legittimario pretermesso, pari a 1/4 del relictum, da prelevarsi proporzionalmente dalle quote già assegnate agli eredi e con la ridistribuzione di detta quota per metà, corrispondente ad 1/8 dello stesso relictum in favore di ciascuna parte, nella qualità di erede paritario del legittimario in nome del quale era stata esercitata jure successionis l’azione di riduzione.
Avverso la suddetta sentenza (non notificata) ha proposto ricorso per cassazione L.S.M., articolato in quattro motivi, al quale ha resistito l’intimato L.L. con controricorso contenente, a sua volta, ricorso incidentale riferito a tre motivi. La ricorrente principale ha formulato anche controricorso al ricorso incidentale avanzato dal L.L..
I difensori di entrambe le parti hanno anche depositato, rispettivamente, memoria illustrativa ai sensidell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Con il primo complesso motivo la ricorrente principale – avuto riguardo al rigetto dell’appello incidentale dalla stessa proposto volto ad ottenere la dichiarazione di nullità e/o di annullabilità del testamento della genitrice B.L. (sul presupposto della deduzione dell’erroneità dell’impugnata sentenza nella parte in cui aveva ritenuto che le schede redatte dalla B. avevano la natura di testamento essendo indubitabile la manifestazione della volontà testamentaria della de cuius) – ha denunciato:
– la nullità della sentenza di appello per assunta carenza di uno dei requisiti indispensabili exart. 132 c.p.c., per il raggiungimento dello scopo exart. 156 c.p.c., ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4;
– la nullità della stessa sentenza per asserita violazionedell’art. 115 c.p.c., in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4;
– l’omesso esame di un fatto decisivo per la controversia ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;
– la violazione e falsa applicazionedell’art. 624 c.c., ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
2. Con il secondo, articolato, motivo la ricorrente principale ha – con riferimento alla parte della sentenza di appello con la quale era stata ravvisata la validità della divisione disposta con le schede testamentarie della B., malgrado non avesse in essa compreso il coniuge legittimario L.D. (per la cui relativa lesione dei diritti la stessa L.S.M. aveva esercitato in via pregiudiziale “ab origine” l’azione di riduzione per il riconoscimento della quota spettantele quale erede del padre, deceduto successivamente senza testamento) – prospettato:
– l’omesso esame di un fatto decisivo per la controversia in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;
– la nullità dell’impugnata sentenza per asserita violazionedell’art. 112 c.p.c., ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4;
– l’assunta violazione o falsa applicazione degliartt. 734 e 735 c.c., in ordineall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
3. Con la terza censura – correlata all’addotta erroneità della sentenza di secondo grado nella parte in cui si era pronunciata ultra petita e, comunque, in violazione delle norme sui diritti riservati ai legittimari – la difesa della L.S.M. ha inteso denunciare:
– la nullità della sentenza per violazionedell’art. 112 c.p.c., ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4;
– la violazione o falsa applicazione degliartt. 542, 554, 556, 558 e 735 c.c., in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
4. Con la quarta ed ultima doglianza – rivolta alla denuncia dell’omessa pronuncia sull’appello incidentale formulato dalla stessa – la ricorrente principale ha dedotto la nullità della sentenza impugnata per violazionedell’art. 112 c.p.c.(in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) e l’omesso esame di un fatto decisivo per la controversia (ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
5. Con la prima censura del ricorso incidentale la difesa del L.L. ha – in ordine alla critica della stima dei beni immobili compiuta dal c.t.u. e alla ravvisata necessità della sua rielaborazione – prospettato la violazione o falsa applicazione degliartt. 115 e 116 c.p.c., (in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) nonché l’omessa o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
6. Con il secondo motivo del ricorso incidentale – riferita alla mancata condivisione dei risultati e del metodo di valutazione dei beni mobili operata dal c.t.u. – sono stati prospettati gli stessi vizi di cui all’appena riportata prima censura.
7. Con il terzo ed ultimo motivo del ricorso incidentale – riguardante la mancata disposizione del rendiconto a carico della controparte sui beni dalla stessa posseduti sul presupposto della tardività della relativa richiesta – il L.L. ha inteso far valere la violazione o falsa applicazione degliartt. 115 e 116 c.p.c., oltre chedell’art. 723 c.c., in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, unitamente al vizio di omessa o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
8. Cominciando, in ordine logico-giuridico, l’esame delle formulate censure con la considerazione del primo motivo del ricorso principale, rileva il collegio che esso deve essere dichiarato in parte inammissibile e in parte infondato.
La doglianza si prospetta, invero, inammissibile nella parte in cui con la stessa risultano denunciati vizi processuali ricondottiall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, perché, con la relativa deduzione, la ricorrente principale ha inteso solamente far valere la supposta violazione di legge attinente alla qualificazione come testamento delle schede redatte dalla B.L. avuto riguardo all’interpretazione delle disposizioni in esse contenute e all’emergenza di un’effettiva manifestazione di volontà testamentaria, in tal senso prospettando anche il vizio di cuiall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Con riferimento a quest’ultimo pure deve pervenirsi ad una pronuncia di inammissibilità perché – applicandosi, nel caso di specie, la nuova formulazione della relativa previsione normativa come introdotta dalD.L. n. 83 del 2012,art.54, comma 1, lett. b), conv., con modif., dallaL. n. 134 del 2012, (sul presupposto che la sentenza impugnata è stata pubblicata successivamente all’il settembre 2012, in virtù di quanto stabilito dal citatoD.L. n. 83 del 2012,art.54, comma 3) – la Corte di appello di Firenze ha – in linea con la giurisprudenza di questa Corte (v., per tutte, Cass. Sez. U. n. 8053 e 8054 del 2014 e, da ultimo, Cass. n. 9253/2017) – certamente esaminato la relativa doglianza sul fatto decisivo della controversia riguardante l’asserita invalidità del testamento della B., adottando una motivazione sicuramente sufficiente, non omettendola né fornendo una giustificazione argomentativa sul piano logico-giuridico meramente apparente del suo convincimento.
Il prospettato vizio di violazione di legge è, invece, privo di fondamento.
Infatti, il giudice di appello ha espressamente e logicamente motivato sull’effettività dell’emergenza dal contenuto delle schede testamentarie della univoca volontà della testatrice nel rendere le disposizioni ereditarie (riguardanti i beni immobili alla stessa appartenenti) in favore dei due figli, ancorché emesse nel convincimento (o, comunque, nell’auspicio) della ritenuta corrispondenza ai loro stessi desideri. Certamente questa finalità rafforzativa della volontà della de cuius (compendiata nell’espressione dell’incipit “…dedico ai miei due carissimi figli – per testamento il mio avere – come già da loro espresso desiderio nella divisione di: a mia figlia….; a mio figlio…”) non poteva aver determinato il venir meno del presupposto intento pienamente volitivo della testatrice, né può ritenersi che, nel caso di specie, come sostenuto dalla ricorrente principale, si fosse venuta a configurare una ipotesi di “errore sul fatto”, nel senso che la suddetta volontà era stata condizionata in modo decisivo dalla rappresentazione di un fatto (da inquadrarsi in senso oggettivo) non vero (cfr. Cass. n. 24637/2010).
Invero, secondo la concorde giurisprudenza di questa Corte (v., anche, Cass. n. 2152/1966 e Cass. 2132/1971), l’errore sul motivo, assuntodall’art. 624 c.c., comma 2, quale causa di annullamento di disposizioni testamentarie, si identifica in quello che cade sulla realtà obiettiva e non già sulla valutazione che di essa abbia fatto il testatore, nel suo libero ed insindacabile apprezzamento circa l’importanza e le conseguenze della realtà stessa, in relazione alle sue personali vedute ed aspirazioni ed ai fini perseguiti nel dettare le sue ultime volontà (donde tale soggettiva valutazione della realtà obiettiva è da qualificarsi come giuridicamente irrilevante). Peraltro, l’apprezzamento del giudice del merito circa l’esistenza o meno del motivo erroneo, dedotto quale causa di annullamento del testamento, è incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici ed errori di diritto, come verificatosi nella fattispecie.
In altri termini, il giudice di appello ha, nella vicenda che ci occupa, legittimamente ritenuto che il contenuto dei testamenti (con cui aveva disposto del suo complessivo patrimonio immobiliare) corrispondesse alla reale volontà della testatrice, senza che essi contenessero alcun errore (escludendosi, perciò, la supposta violazionedell’art. 624 c.c.), inteso nel senso di distorsione della realtà oggettiva, esprimendo gli stessi soltanto una convinzione maturata dalla B. e legittimamente dalla stessa posta a base delle proprie disposizioni di ultima volontà.
9. La seconda, complessa, censura dedotta con il ricorso principale – nei termini prima richiamati – è, ad avviso del collegio, da dichiarare inammissibile con riguardo alla dedotta violazione ricondottaall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (per le stesse ragioni esposte con riferimento al primo motivo, avendo la Corte territoriale comunque esaminato l’ulteriore fatto decisivo della causa riferito alla contestata validità della divisione operata con testamento dalla B.), infondata in relazione al supposto vizio di omessa pronuncia (palesemente insussistente) mentre è da ritenersi fondata in ordine alla denunciata violazione degliartt. 734 e 735 c.c..
E’ opportuno premettere che l’attuale ricorrente principale, fin dall’originario atto di citazione, aveva richiesto (ribadendo le domande anche in sede di precisazione delle conclusioni) – subordinatamente alla domanda principale di dichiarazione di invalidità e/o di inefficacia dei testamenti olografi della B. (come detto rigettata con la sentenza di primo grado e confermata sul punto dalla sentenza d’appello, il cui motivo, riproposto in questa sede, è stato respinto per quanto chiarito in ordine alla prima censura) – che venisse, comunque, accertata e dichiarata la nullità dei testamenti stessi ai sensidell’art. 735 c.c., comma 1, o, comunque, della sola divisione sempre in virtù della stessa norma (v. pagg. 6-8 del ricorso) per pretermissione del coniuge legittimario (ancora vivente al momento dell’apertura della successione, ancorché deceduto poco tempo dopo). Da ciò sarebbe derivata la conseguente dichiarazione che allo stesso legittimario pretermesso (poi deceduto) spettava (ai sensidell’art. 542 c.c., comma 2) la quota di riserva di 1/4 dell’eredità relitta della B. e che, pertanto, a seguito della sopravvenuta morte (“ab intestato”) del padre (marito della B.), previo accertamento che ella era erede legittima del padre per la quota del 50% ed in accoglimento dell’azione di riduzione cumulativamente proposta (quale, appunto, erede di L.D.), alla medesima avrebbe dovuto essere riconosciuta una quota pari al 50% dell’intero asse relitto dalla madre B.L..
Le domande formulate in via subordinata venivano accolte con la sentenza di primo grado del Tribunale di Firenze, il quale riteneva fondata l’azione di riduzione proposta dall’attrice in qualità di erede del padre successivamente deceduto (provvedendo alle relative riduzioni) e dichiarava la nullità della divisione di cui alle impugnate schede testamentarie della B.L., con il conseguente riconoscimento del diritto della L.S.M. a succedere nella misura della metà dell’intero asse relitto di B.L. di cui alle stesse schede testamentarie, provvedendo, inoltre, sull’approvazione del rendiconto.
La Corte di appello di Firenze (la cui sentenza qui impugnata e per come depositata nell’interesse della ricorrente principale nella forma di cuiall’art. 369 c.p.c., comma 2, pur essendo monca della pag. 9, risulta sufficientemente intelligibile ai fini dell’esame del secondo motivo, anche alla stregua del concorde richiamo del relativo contenuto nei rispettivi ricorsi di entrambe le parti in questa fase di legittimità), adita dal L.L., pur dando atto che non era stato proposto gravame dal predetto appellante sul punto della decisione di primo grado con cui erano state accertate la lesione dei diritti del legittimario L.D. e l’ammissibilità dell’azione di riduzione esercitata dalla L.S.M. quale erede dello stesso legittimario pretermesso (v. pag. 8 della sentenza di appello, donde la formazione dell’acquiescenza su tale questione e il relativo passaggio in giudicato sull’intervenuto accoglimento della inerente domanda), ha riformato la sentenza di primo grado proprio con riferimento alla dichiarazione di nullità della divisione quale conseguenza dell’accoglimento dell’azione di riduzione e nella parte in cui aveva accertato e dichiarato il diritto della L.S.M. di succedere nella metà dell’intero asse relitto.
Così statuendo, però, la Corte territoriale è incorsa nella denunciata violazione dell’art. 734 e, soprattutto,dell’art. 735 c.c..
Ad avviso del collegio, infatti, risulta erronea la sentenza impugnata nella parte in cui con essa è stata riformata la decisione di primo grado, dovendo, invece, pervenirsi – come domandato nell’originaria citazione dalla L.S.M. (che non si era, quindi, limitata solo a proporre, in via pregiudiziale, una domanda di riduzione quale erede del padre successivamente deceduto) – alla dichiarazione di nullità della divisione operata direttamente dalla testatrice che aveva disposto dei suoi beni pretermettendo il coniuge legittimario.
Così provvedendo, il giudice di appello è incorso, specificamente, nella violazione del primo comma del citatoart. 735 c.c., determinando il mancato riconoscimento, in favore della ricorrente principale, del diritto a succedere nella metà (indistinta) dell’intero asse relitto dalla B., stante l’assenza nel testamento “di criteri per la definizione delle quote da assegnare” a ciascuno dei due eredi parti in causa (con totale pretermissione del coniuge legittimario, non istituito formalmente coerede, che aveva legittimato la stessa L.S.M. ad agire per la relativa azione di riduzione essendo a sua volta diventata coerede del padre, nelle more deceduto senza testamento), sul presupposto che l’istituzione di eredi testamentari era stata fatta dalla “de cuius” per cespiti immobiliari nominati (in funzione, per l’appunto, divisoria tra i due germani eredi) e non per quote.
Ha, quindi, errato la Corte fiorentina laddove ha ritenuto che la nullità della divisione contemplatadall’art. 735 c.c., comma 1, operi solo nell’ipotesi in cui il testatore abbia espressamente previsto che il legittimario debba essere soddisfatto con beni non compresi nel relictum, ritenendo, invece, esclusa l’operatività di siffatta nullità nel caso di pretermissione del legittimario dal testamento e dalla divisione, sul presupposto che, in tal caso, la divisione sarebbe idonea a conservare i suoi effetti previa riduzione delle assegnazioni e, quindi, facendo in modo che l’erede pretermesso possa essere soddisfatto con beni provenienti dal relictum, da prelevarsi proporzionalmente da quelli attribuiti agli eredi testamentari.
Così statuendo, infatti, il giudice di appello ha illegittimamente assoggettato alla stessa disciplina il caso della pretermissione dell’erede legittimario e quello della lesione della quota di legittima che, invece, il legislatore ha voluto mantenere distinti, prevedendo una differenziata disciplina contenuta, rispettivamente, nel primo e nel più volte menzionatoart. 735 c.c., comma 2.
Infatti, in virtù del disposto di cui al primo comma di detta norma, in caso di divisione testamentaria con pretermissione del legittimario, la divisione proprio perché ne è impedita la realizzazione della causa per effetto dell’anomalia funzionale dipendente dalla mancata previsione della partecipazione ad essa di un avente diritto – è da ritenersi nulla (v. Cass. n. 2367/1970; Cass. n. 2870/1972 e, in motivazione, anche se solo per obiter, Cass. Sez. U. n. 20644/2004), ragion per cui deve escludersi, in tale ipotesi, la configurabilità dell’efficacia reale della c.d. divisici inter liberos (ritenuta, invece, operante dalla Corte di appello toscana), derivando dalla nullità della divisione testamentaria il ripristino della comunione ereditaria.
Essendo stata, quindi, nella concreta fattispecie, proficuamente reclamata, in via preliminare, la quota ereditaria riservata al legittimario per mezzo dell’accolta azione di riduzione esperita dalla ricorrente principale quale legittima erede del padre pretermesso (v., per idonei riferimenti, anche Cass. n. 3599/1992 e Cass. n. 3694/2003), il giudice di appello avrebbe dovuto ritenere fondata (come, del resto, aveva rilevato correttamente il giudice di prime cure) la correlata domanda di nullità del riparto divisorio così come operato di sua iniziativa dalla testatrice con attribuzione diretta di distinti cespiti dell’intero patrimonio ereditario immobiliare, concretamente individuati, in favore dei due figli a causa della “preterizione divisoria del legittimario”.
In definitiva, in accoglimento per quanto di ragione (ovvero relativamente alla denuncia violazione di legge sostanziale) del secondo motivo dedotto con il ricorso principale, la sentenza della Corte di appello di Firenze deve essere cassata “in parte qua”, enunciandosi – ai sensidell’art. 384 c.p.c., comma 2, il principio di diritto secondo cui “deve essere accolta la domanda di nullità, proposta dal legittimario pretermesso nel testamento (o, in sostituzione del medesimo, da un suo erede, come verificatosi nel caso di specie), della divisione del patrimonio ereditario disposta direttamente dal testatore qualora Io stesso legittimario (o un suo erede agente “iure successionis”), da considerarsi preterito per non essere stato compreso nella divisione, abbia positivamente esperito in via preventiva l’azione di riduzione”.
Alla ritenuta fondatezza di detta censura nei richiamati termini consegue, per derivazione logico-giuridica, la dichiarazione di assorbimento dei residui motivi proposti con il ricorso principale e di tutti quelli avanzati con il ricorso incidentale.
Il giudice di rinvio (che si designa in altra Sezione della Corte di appello di Firenze), oltre a conformarsi al su riportato principio di diritto, provvederà anche a regolare le spese della presente fase di giudizio.

P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo del ricorso principale; accoglie, per quanto di ragione, il secondo motivo dello stesso ricorso principale e dichiarata assorbiti gli altri motivi del ricorso principale e tutti i motivi del ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per la regolazione delle spese della presente fase di legittimità, ad altra Sezione della Corte di appello di Firenze.

È incostituzionale l’art. 92, co. 2 c.p.c. nella parte in cui non consente al giudice (in caso di soccombenza totale) di compensare le spese di lite in ipotesi ulteriori rispetto a quelle ivi previste

Corte cost., 19 aprile 2018, n. 77
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile, come modificato dall’art.13delD.L. 12 settembre 2014, n. 132(Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nellaL. 10 novembre 2014, n. 162, promossi dal Tribunale ordinario di Torino in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 30 gennaio 2016 e dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 28 febbraio 2017, iscritte rispettivamente al n. 132 del registro ordinanze 2016 e al n. 86 del registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2016 e n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visti gli atti di costituzione di Antonio Benedetto, della REAR società cooperativa a rl, di Elvira Rasulova, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL);
udito nella udienza pubblica del 7 marzo 2018 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;
uditi gli avvocati Alberto Piccinini e Amos Andreoni per Elvira Rasulova, Vincenzo Martino e Amos Andreoni per Antonio Benedetto, Giorgio Frus per la REAR società cooperativa a rl e l’avvocato dello Stato Vincenzo Rago per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1.- Il Tribunale ordinario di Torino ed il Tribunale ordinario di Reggio Emilia, entrambi in funzione di giudice del lavoro, con le ordinanze rispettivamente del 30 gennaio 2016 e del 28 febbraio 2017, iscritte al n. 132 del 2016 e al n. 86 del 2017 del registro ordinanze, hanno sollevato questioni di legittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile, nel testo modificato dall’art.13, comma 1, delD.L. 12 settembre 2014, n. 132(Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nellaL. 10 novembre 2014, n. 162; disposizione questa che prevede che il giudice, se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto a questioni dirimenti, può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero.
Le ordinanze fanno riferimento a plurimi parametri in parte coincidenti. Il Tribunale ordinario di Torino richiama gliartt. 3, primo comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione; il Tribunale ordinario di Reggio Emilia deduce gli artt. 3, primo e secondo comma, 24, 25, primo comma, 102, 104 e 111 Cost., nonché gli artt. 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e gli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva conL. 4 agosto 1955, n. 848, questi ultimi come parametri interposti per il tramitedell’art. 117, primo comma, Cost.
Entrambi i giudici rimettenti incentrano i dubbi di legittimità costituzionale della disposizione censurata sulla mancata previsione, in caso di soccombenza totale, del potere del giudice di compensare le spese di lite tra le parti anche in casi ulteriori rispetto a quelli ivi previsti. Il solo Tribunale di Reggio Emilia deduce altresì la mancata considerazione del lavoratore ricorrente come parte “debole” del rapporto controverso al fine della regolamentazione delle spese processuali.
2.- In particolare, il Tribunale ordinario di Torino è investito del ricorso proposto da un socio lavoratore di una società cooperativa, con mansioni di addetto al controllo ingressi e alla viabilità, avente ad oggetto, in via principale, la domanda di ricalcolo retributivo in base ad un contratto collettivo diverso da quello applicato dalla datrice di lavoro, con conseguente richiesta di condanna della società resistente al pagamento delle relative differenze retributive; in via subordinata, il ricorso ha ad oggetto la domanda di condanna della società resistente al pagamento delle integrazioni contrattuali delle indennità legali di infortunio e malattia computate con riferimento al contratto collettivo applicato dalla società.
A fondamento della domanda il socio lavoratore ricorrente ha dedotto che la società aveva fatto applicazione di un contratto collettivo sottoscritto da organizzazioni datoriali e sindacali non sufficientemente rappresentative ed ha quindi chiesto l’applicazione, ai fini della verifica della congruità retributiva, di altro diverso contratto collettivo, già utilizzato in vertenze similari.
La società si è costituita ed ha chiesto il rigetto delle domande indicando, sempre ai fini del giudizio di congruità della retribuzione, quale termine di raffronto, un contratto collettivo ulteriormente diverso da quello invocato dal ricorrente. Quanto alla domanda subordinata, la resistente ha osservato che l’esclusione dell’integrazione contrattuale delle indennità legali di malattia e di infortunio aveva fatto seguito ad una delibera assembleare del 20 giugno 2011, approvata per garantire la sopravvivenza della società messa in stato di crisi, in conformità all’art. 6, comma 1, lettere d) ed e), dellaL. 3 aprile 2001, n. 142(Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore).
Ciò premesso, il rimettente, dopo aver disposto consulenza contabile, ha rigettato entrambe le domande con sentenza qualificata “non definitiva” e, con separata ordinanza, ha disposto la prosecuzione del giudizio per la definizione del regolamento delle spese di lite; all’esito di discussione orale ha sollevato, d’ufficio, questione di legittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo novellato dall’art.13, comma 1, del citatoD.L. n. 132 del 2014, quale convertito in legge.
Ad avviso del rimettente si configurerebbe la violazionedell’art. 3, primo comma, Cost., sotto il profilo del principio di ragionevolezza, in quanto sussisterebbe una sproporzione tra il fine perseguito – quello di “disincentivare l’abuso del processo” – e lo strumento normativo utilizzato, consistito nella “limitazione estrema ed oltre ogni misura delle ipotesi di compensazione” delle spese di lite. Mentre il testo, come modificato dallaL. 18 giugno 2009, n. 69(Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), era già “del tutto sufficiente a scongiurare eventuali abusi, da parte del giudice, nell’uso dello strumento della compensazione contenendo essa già una regolamentazione del tutto rigorosa ed appropriata”.
Il medesimo parametro sarebbe poi violato – secondo il giudice rimettente – sotto il profilo del principio di eguaglianza, avuto riguardo alle situazioni contemplate dalla norma raffrontate, quali tertia comparationis, con quelle escluse, di pari gravità ed eccezionalità, individuate dalla giurisprudenza di legittimità.
Il tribunale rimettente deduce altresì la violazionedell’art. 24, primo comma, Cost., in quanto la riduzione delle ipotesi di compensazione soltanto a due (oltre a quella tradizionale della soccombenza reciproca) “tende … a scoraggiare in modo indebito l’esercizio dei diritti in sede giudiziaria, divenendo così uno strumento deflattivo (e punitivo) incongruo” nelle ipotesi in cui la condotta della parte, poi risultata soccombente, non integra casi di abuso del processo, ma sia improntata a correttezza, prudenza e buona fede.
Parimenti sarebbe violatol’art. 111, primo comma, Cost., sotto il profilo del principio del giusto processo, in quanto la disposizione censurata, consentendo la compensazione nei soli casi indicati, “limita il potere – dovere del giudice di rendere giustizia, anche in ordine al regolamento delle spese di lite, in modo appropriato al caso concreto”.
3.- Nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale promosso dal Tribunale ordinario di Torino si sono costituite le parti del giudizio a quo, che hanno depositato memorie.
Il lavoratore socio ha aderito alle censure mosse dall’ordinanza di rimessione, ribadendo ciò con successiva memoria e concludendo per la dichiarazione di illegittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.
La società resistente ha rilevato in via preliminare che la regolamentazione delle spese di lite non è suscettibile di autonomo distinto giudizio, richiamando a tal proposito l’ordinanza n. 314 del 2008 di questa Corte. Nel merito sottolinea come la disposizione censurata non costituisca uno “strumento punitivo incongruo”, essendo ragionevole porre, di regola, i costi del processo a carico di colui che lo ha attivato con esito negativo, e limitare la possibile compensazione delle spese di lite ad ipotesi tassativamente previste, stante il carattere eccezionale delle medesime.
È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o l’infondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale. In particolare la difesa dell’interveniente afferma la ragionevolezza della individuazione da parte del legislatore, nell’esercizio dell’ampia discrezionalità di cui egli gode in materia processuale, di ipotesi specifiche e tassative che giustifichino la compensazione delle spese di lite. Si tratterebbe di una scelta che non entra in collisione con i parametri costituzionali che il giudice rimettente assume essere violati e che integrerebbe il giusto mezzo per conseguire la finalità deflativa al fine di “disincentivare” l’abuso del processo.
È intervenuta ad adiuvandum la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), concludendo per l’ammissibilità dell’intervento e, nel merito, per la dichiarazione di illegittimità costituzionale della censurata disposizione.
4.- Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia è investito di una controversia avente ad oggetto l’impugnazione del licenziamento, azionata mediante ricorso proposto ai sensi dell’art.1, commi 48 e seguenti, dellaL. 28 giugno 2012, n. 92(Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita). Si tratta di una lavoratrice che ha impugnato il licenziamento intimatole in data 30 novembre 2015 dalla Italservizi srl (poi A.M. srl in liquidazione) con decorrenza dal 31 dicembre 2015.
In particolare la lavoratrice ha agito nei confronti di numerosi convenuti (B.I. spa, S.C.I. srl, A.M. srl e B. S.L. personalmente ed in proprio), affermando l’esistenza “di un unico centro di imputazione giuridica o gruppo d’imprese e la contemporanea utilizzazione della prestazione lavorativa da parte di tutti i convenuti”, sicché l’intervenuto licenziamento era da porre nel nulla nei confronti di ognuno dei soggetti chiamati in causa.
Si è costituita, tra le altre parti, la B.I. spa, che ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso essendo intervenuta il 25 gennaio 2016 la revoca del licenziamento da parte della A.M. srl (successivamente in liquidazione).
All’esito della prima fase del procedimento (a cognizione sommaria) il rimettente ha pronunciato un’ordinanza di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse ad agire della ricorrente per mancanza del licenziamento e, in merito alle spese di lite, ha condannato la lavoratrice al rimborso di quelle sostenute dalla attuale (almeno formalmente) datrice di lavoro A.M. srl in liquidazione, mentre le ha compensate con riferimento alle altre parti convenute.
Nei confronti del capo dell’ordinanza relativo alla liquidazione delle spese della fase sommaria, la sola B.I. spa ha proposto opposizione per la mancanza dei presupposti richiesti a tal finedall’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.e per l’assenza di motivazione in merito alla disposta compensazione per le altre parti, censurando infine la disparità di trattamento rispetto alla A.M. srl.
Nel giudizio di opposizione si è costituita la lavoratrice per contestare in fatto e in diritto l’opposizione e ha sollevato eccezione di illegittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., evidenziando come un’interpretazione rigida di tale disposizione determinerebbe un’illegittima riduzione della discrezionalità del giudice nella valutazione degli elementi idonei a giustificare la compensazione delle spese di lite.
Anche il Tribunale ordinario di Reggio Emilia chiede alla Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo modificato dall’art.13, comma 1, delD.L. n. 132 del 2014, convertito, con modificazioni, nellaL. n. 162 del 2014, nella parte in cui – nelle cause di lavoro o di previdenza, nelle quali l’attore in primo grado è quasi sempre il lavoratore – non prevede il potere del giudice di valutare “i gravi ed eccezionali motivi” per compensare le spese di lite.
Ad avviso del rimettente si configurerebbe la violazione degli artt. 3, primo e secondo comma, 24 e 111 Cost., in quanto la disposizione censurata “priva irragionevolmente il Giudice della essenziale funzione di giustizia, ovvero quella di adeguare la pronunzia alle peculiarità del modello processuale ed alle condizioni personali e circostanze concrete del caso di specie”; dà luogo alla manifesta violazione del principio di uguaglianza sostanziale “che esigerebbe un trattamento differenziato, ma di vantaggio, per il soggetto più debole e costretto ad agire giudizialmente” per vedere accertata l’illegittimità del provvedimento datoriale, trattandosi, di regola, di “controversie a “controprova””; “esercita di fatto una gravissima limitazione del diritto all’effettività dell’accesso alla giustizia in danno del lavoratore”, già gravato dagli oneri economici, non detraibili, del pagamento del contributo unificato, dell’anticipazione delle spese legali e dell’IVA; limita il diritto all’effettività dell’accesso alla giustizia “in termini di pesante “deterrenza” in modo proporzionalmente (e vieppiù irragionevolmente) maggiore per quanto minore sia la capacità economica del lavoratore”; colpisce, irragionevolmente, anche la parte incolpevole che non ha “abusato” del processo o che non ha invocato diritti, “che a priori, sapeva essere inesistenti”.
Inoltre, sempre ad avviso del rimettente, sarebbero violati gliartt. 25, primo comma, 102 e 104 Cost., in quanto l’intervenutoD.L. n. 132 del 2014costituirebbe un’ingerenza del potere legislativo su quello giudiziario comprimendo oltremodo la discrezionalità del giudice.
Il tribunale rimettente deduce poi la violazionedell’art. 117, primo comma, Cost.in relazione all’art. 47 CDFUE che esige l’effettività del diritto d’azione e di accesso alla giustizia e l’equità del processo, “quest’ultima irragionevolmente lesa da una sanzione che colpisce una parte che non ha “responsabilità” processuale (nelle cause “a controprova”)”; nonché in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU, in rapporto al “diritto all’equo processo” ed al diritto ad un “ricorso effettivo”, in quanto la modificadell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.in chiave specificamente deflativa, rappresenta un mezzo sproporzionato rispetto allo scopo perseguito.
Altresì sarebbero violati gli artt. 14 CEDU e 21 CDFUE, in relazione al principio di non discriminazione, derivante dal divieto per il giudice di tener conto della condizione personale del lavoratore, “così pregiudicandone il diritto di azione proprio in ragione della limitata capacità economica, anche a prescindere da ragioni di “colpevolezza processuale””.
Il rimettente poi osserva che nel processo del lavoro sono frequenti le controversie cosiddette “a controprova”, nel senso che il lavoratore deve introdurle non disponendo di tutti i dati che incidono sulla legittimità, o meno, del provvedimento datoriale che egli ha già subito e di cui chiede al giudice il controllo di legittimità, da operare appunto all’esito dell’assolvimento della prova da parte del datore di lavoro convenuto in giudizio.
Con specifico riferimento alle controversie di lavoro, il rimettente deduce inoltre che il lavoratore, per introdurre la causa in primo grado, deve, di regola, sostenere l’onere del contributo unificato, l’anticipazione delle spese legali e spesso di quelle per conteggi, oltre all’IVA sulla prestazione dei professionisti; e tutti questi oneri, come pure quello eventuale delle spese di soccombenza, non sono detraibili. Al contrario, il datore, di regola, potrà recuperare l’IVA sulle prestazioni del difensore e detrarrà dal reddito la relativa parcella, come le spese di eventuale soccombenza.
In riferimento al principio di non discriminazione sancito nella CEDU, il rimettente osserva come la discriminazione vietata dall’art. 14 della Convenzione consista nel trattare in modo differente, salvo una giustificazione obiettiva e ragionevole, le persone che si trovano in situazioni simili o analoghe e che una distinzione è discriminatoria se non persegua uno scopo legittimo o se non sussiste un rapporto di ragionevole proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo che si è prefissata.
Quanto alla rilevanza della sollevata questione di legittimità costituzionale, il giudice a quo pone in rilievo che la lavoratrice, originaria ricorrente nel procedimento per l’impugnazione del licenziamento, è convenuta in opposizione, dalla società cui non è stato ritenuto riconducibile il licenziamento, per essere condannata alla rifusione delle spese processuali sia della prima fase (sommaria), sia di quella attuale di opposizione; il rimettente afferma che la vicenda riveste una peculiarità oggettiva tale da rendere difficile una ricostruzione in fatto degli avvenimenti, per i numerosi passaggi subiti dal lavoratore da una società all’altra nonché per la necessità di procedere alla ricostruzione delle trasformazioni e cessioni societarie avvenute, in forza delle quali le plurime aziende coinvolte, tra loro collegate di fatto o in diritto, hanno cambiato nome, assetto e composizione societaria, ceduto rami d’azienda ed effettuato altre intricate modifiche interne.
5.- Nel giudizio incidentale si è costituita la lavoratrice, depositando anche memoria, ed ha concluso per la fondatezza della questione.
È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o l’infondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale. La difesa dell’interveniente svolge sostanzialmente le medesime argomentazioni già prospettate nell’altro giudizio incidentale, deducendo, in particolare, che nell’ambito di controversie in materia di lavoro, dove una delle parti in causa potrebbe risultare economicamente svantaggiata rispetto all’altra, l’indicazione tassativa delle ipotesi in cui è possibile procedere alla compensazione delle spese di lite non determina un effetto preclusivo del ricorso alla tutela giurisdizionale.

Motivi della decisione
1.- Con ordinanza del 30 gennaio 2016, iscritta al n. 132 del registro ordinanze 2016, il Tribunale ordinario di Torino, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agliartt. 3, primo comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile, nel testo modificato dall’art.13, comma 1, delD.L. 12 settembre 2014, n. 132(Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nellaL. 10 novembre 2014, n. 162, nella parte in cui non consente, in caso di soccombenza totale, la compensazione delle spese di lite anche in altre ipotesi di gravi ed eccezionali ragioni, analoghe a quelle indicate in modo tassativo dalla disposizione stessa, ossia l'”assoluta novità della questione trattata” e il “mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti”.
La questione è stata sollevata nel corso di un giudizio civile promosso da un socio lavoratore di una società cooperativa, per ottenere la condanna di quest’ultima al pagamento di differenze di compenso per l’attività svolta calcolate sulla base delle tariffe del contratto collettivo ritenute applicabili ai sensi dell’art.3, comma 1, dellaL. 3 aprile 2001, n. 142(Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore), e dell’art.7, comma 4, delD.L. 31 dicembre 2007, n. 248(Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria), convertito, con modificazioni, nellaL. 28 febbraio 2008, n. 31. In via subordinata lo stesso ricorrente aveva chiesto il riconoscimento di un’integrazione contrattuale delle indennità previste in caso di infortunio e di malattia.
Il tribunale, pronunciandosi nell’instaurato contraddittorio delle parti, ha rigettato, con sentenza qualificata “non definitiva”, sia la domanda principale che quella subordinata, ed ha disposto la prosecuzione del giudizio per la definizione della questione residua, concernente il regolamento delle spese di lite. In tale sede, ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., con riferimento ai parametri suddetti ritenendo che la limitazione a due sole ipotesi tassative della possibilità per il giudice di compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale sia contraria al principio di ragionevolezza e di eguaglianza, nonché a quello del giusto processo e comporti un’eccessiva remora a far valere i propri diritti in giudizio.
Secondo il tribunale rimettente, nella specie, l’esito della lite, sfavorevole al lavoratore, è dipeso da elementi di fatto nuovi, non previsti né prevedibili: da una parte una contrattazione collettiva utilizzata parametricamente dal consulente tecnico d’ufficio per calcolare le rivendicate differenze retributive, la quale era diversa sia da quella applicata dalla società, sia da quella allegata dal lavoratore a sostegno della sua pretesa; d’altra parte una non conosciuta delibera della società che aveva (legittimamente) sospeso l’erogazione del trattamento integrativo di malattia e di infortunio, parimenti rivendicato dal lavoratore.
2.- Con ordinanza del 28 febbraio 2017, iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2017, il Tribunale ordinario di Reggio Emilia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato analoghe questioni di legittimità costituzionale della medesima disposizione, per contrasto con gli artt. 3, primo e secondo comma; 24; 25, primo comma; 102; 104 e 111 Cost.; nonché degli artt. 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e degli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva conL. 4 agosto 1955, n. 848, questi ultimi come parametri interposti per il tramitedell’art. 117, primo comma, Cost.
La questione è stata sollevata nel corso di una controversia di lavoro avente ad oggetto l’impugnativa di un licenziamento, promossa con il rito di cui all’art.1, comma 48, dellaL. 28 giugno 2012, n. 92(Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), da una lavoratrice nei confronti non solo della società che aveva intimato il licenziamento, ma anche di altre società, sull’asserito presupposto di un unico centro di imputazione giuridica del rapporto di lavoro, stante la contemporanea utilizzazione della prestazione lavorativa da parte di tutte le società convenute. La fase sommaria si concludeva con un’ordinanza di inammissibilità del ricorso per essere stato il licenziamento revocato. Quanto alle spese di lite il tribunale condannava la lavoratrice al pagamento delle spese nei confronti della società che aveva formalmente intimato – e poi revocato – il licenziamento; invece le compensava tra la lavoratrice e le altre società convenute in giudizio. Avverso questa ordinanza proponeva opposizione una sola di queste ultime società, dolendosi della compensazione delle spese di lite e chiedendo la condanna della lavoratrice, originaria ricorrente, al pagamento delle stesse. Quest’ultima ha resistito all’opposizione eccependo, tra l’altro, l’illegittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.; eccezione che il giudice dell’opposizione ha accolto promuovendo l’incidente di legittimità costituzionale con riferimento ai parametri sopra indicati e muovendo censure analoghe a quelle del Tribunale di Torino, nonché lamentando che non venga in rilievo la posizione del lavoratore quale parte “debole” del rapporto controverso.
Secondo il tribunale rimettente l’utilizzazione delle prestazioni lavorative da parte non solo della società datrice di lavoro, ma anche di altre società, aveva creato l’apparenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro con conseguente grave incertezza in ordine a chi fosse il reale datore; sicché non ingiustificata appariva l’evocazione in giudizio delle varie società interessate.
3.- Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal Tribunale ordinario di Torino e dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, sono in larga parte sovrapponibili e quindi si rende opportuna la loro trattazione congiunta mediante riunione dei giudizi.
4.- Va preliminarmente considerato che nel giudizio di legittimità costituzionale originato dall’ordinanza di rimessione del giudice del lavoro di Torino è intervenuta ad adiuvandum la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), aderendo alle argomentazioni contenute nell’ordinanza di rimessione e chiedendo l’accoglimento della prospettata questione di legittimità costituzionale.
L’Avvocatura generale dello Stato e la difesa della società costituita hanno eccepito l’inammissibilità di tale intervento.
L’intervento è inammissibile.
La costante giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, le ordinanze allegate alle sentenze n. 16 del 2017, n. 237 e n. 82 del 2013, n. 272 del 2012, n. 349 del 2007, n. 279 del 2006 e n. 291 del 2001) è nel senso che la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale).
A tale disciplina è possibile derogare – senza venire in contrasto con il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità – soltanto a favore di soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura. Pertanto, l’incidenza sulla posizione soggettiva dell’interveniente deve derivare non già, come per tutte le altre situazioni sostanziali disciplinate dalla disposizione denunciata, dalla pronuncia della Corte sulla legittimità costituzionale della legge stessa, ma dall’immediato effetto che la pronuncia della Corte produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo.
Nella specie – essendo la CGIL titolare non di un interesse direttamente riconducibile all’oggetto del giudizio principale, bensì di un mero indiretto, e più generale, interesse connesso agli scopi statutari della tutela degli interessi economici e professionali degli iscritti – il suo intervento in questo giudizio deve essere dichiarato inammissibile.
5.- Ancora in via preliminare l’Avvocatura generale dello Stato ha sollevato eccezione di inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per mancata interpretazione adeguatrice della disposizione censurata.
L’eccezione non è fondata.
Entrambi i giudici rimettenti hanno, con motivazione plausibile, escluso la possibilità di interpretazione adeguatrice della disposizione censurata osservando che il recente ripetuto intervento del legislatore sulla disposizione censurata, di cui si dirà oltre, mostra chiaramente che si è inteso restringere sempre più la discrezionalità del giudice della controversia fino a definire le sole ipotesi che facoltizzano il giudice, in caso di soccombenza totale, a compensare, in tutto o in parte, le spese di lite; ipotesi che quindi sono tassative: la soccombenza reciproca ovvero l’assoluta novità della questione trattata o il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. Non è possibile pertanto estendere in via interpretativa tale facoltà del giudice ad altre ipotesi che parimenti consentano la compensazione delle spese di lite.
Tanto è sufficiente per ritenere l’ammissibilità della questione, anche in ragione della più recente giurisprudenza di questa Corte che ha affermato che, se è vero che le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime “perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne)”, ciò però non significa che “ove sia improbabile o difficile prospettarne un’interpretazione costituzionalmente orientata, la questione non debba essere scrutinata nel merito” (sentenza n. 42 del 2017; nello stesso senso, sentenza n. 83 del 2017).
6.- L’Avvocatura generale dello Stato ha inoltre eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per insufficiente descrizione della fattispecie.
L’eccezione non è fondata.
Entrambi i giudici rimettenti hanno descritto in dettaglio la fattispecie al loro esame nei termini sopra riportati ed hanno chiaramente evidenziato la necessità di applicare nei giudizi a quibus la disposizione censurata in ordine alla quale hanno motivatamente argomentato i loro dubbi di legittimità costituzionale.
Le sollevate questioni di legittimità costituzionale sono quindi ammissibili, sotto l’indicato profilo, e sussiste altresì la loro rilevanza.
7.- C’è poi un ulteriore, più delicato, profilo di ammissibilità concernente le questioni oggetto dell’ordinanza di rimessione del Tribunale ordinario di Torino, che – come già rilevato – ha deciso con sentenza, qualificata “non definitiva”, tutto il merito della causa ed ha riservato solo la decisione sulle spese di lite, in riferimento alla quale, con distinta ordinanza, ha posto la questione di legittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.
Deve rilevarsi al riguardo che questa Corte nell’ordinanza n. 395 del 2004ha affermato che la regolamentazione delle spese, in quanto accessoria alla decisione di merito, non è suscettibile di un autonomo giudizio.
La citata ordinanza ha riguardato una situazione analoga: quella di un giudice rimettente (di primo grado) che, nel censurare il medesimoart. 92, secondo comma, cod. proc. civ., aveva parimenti deciso, con sentenza, il merito della causa disponendo con ordinanza la sospensione del processo limitatamente alla pronuncia accessoria sulle spese legali, perché, ritenendo di dover fare uso della facoltà di compensarle, ai sensi della citata disposizione nel testo originario, dubitava della legittimità costituzionale di tale norma, “così come interpretata dalla giurisprudenza pressoché univoca e costante della Suprema Corte”, secondo cui non vi era alcun obbligo di motivare il capo della sentenza col quale fosse disposta la compensazione delle spese “per giusti motivi”, trattandosi di statuizione discrezionale, assistita da una presunzione di conformità a diritto.
Questa Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, affermando che “il “diritto vivente” in questione … si risolve in una regola – insindacabilità della compensazione delle spese non motivata – della quale è diretto destinatario il giudice dell’impugnazione, e solo indirettamente il giudice munito del potere (discrezionale) di disporre la compensazione delle spese del giudizio da lui definito”. Sicché il canone dell’insindacabilità della motivazione della compensazione delle spese di lite, all’epoca ritenuta dalla giurisprudenza di legittimità, costituiva regola di giudizio per il giudice dell’impugnazione, legittimato in ipotesi a sollevare la relativa questione di legittimità costituzionale, ma non già per un giudice di primo grado, quale era il giudice rimettente. Da ciò, l’inammissibilità manifesta della questione di legittimità costituzionale.
La Corte però ha poi aggiunto – seppur senza che ciò costituisse, o concorresse a costituire, la ratio decidendi della pronuncia di inammissibilità – che il giudice rimettente comunque “aveva consumato il suo potere decisorio”. In ragione di ciò si potrebbe ora sostenere che anche il Tribunale ordinario di Torino abbia esaurito il suo potere decisorio dopo essersi pronunciato su tutto il merito della causa, di talché la questione di legittimità costituzione sarebbe, sotto tale profilo, inammissibile.
8.- In realtà, la questione è ammissibile anche sotto questo profilo.
Nel processo civile una sentenza non definitiva è possibile allorché il giudice di primo grado – qual è il rimettente Tribunale ordinario di Torino – limiti la sua decisione alla questione di giurisdizione, o a questioni pregiudiziali o preliminari di merito, o anche solo ad alcune questioni di merito impartendo distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa (art. 279, secondo comma, cod. proc. civ.).Il giudice infatti può limitare la decisione ad alcune domande, se riconosce che per esse soltanto non sia necessaria un’ulteriore istruzione e sempre che la loro “sollecita definizione” sia di “interesse apprezzabile” per la parte che ne abbia fatto istanza (art. 277, secondo comma, cod. proc. civ.).
Ma se il giudice decide totalmente il merito della causa, accogliendo o rigettando tutte le domande, emette una sentenza definitiva, alla quale si accompagna la pronuncia sulle spese di lite, che – come già rilevato da questa Corte (nell’ordinanza n. 314 del 2008, richiamata dalla difesa della società costituita) – ha “natura accessoria” rispetto alla decisione sul merito. Non di meno però la decisione sulle spese di lite ha una sua distinta autonomia nella misura in cui è possibile l’impugnativa di questo solo capo della sentenza definitiva sicché, in tale evenienza, il giudizio di impugnazione è destinato ad avere ad oggetto la sola regolamentazione delle spese di lite.
Questo legame di accessorietà della pronuncia sulle spese alla sentenza che decida tutte le questioni di merito non è quindi indissolubile e, in particolare, è recessivo allorché il giudice – come il Tribunale ordinario di Torino – abbia un dubbio non manifestamente infondato in ordine soltanto alla disposizione che governa le spese di lite e di cui egli debba fare applicazione.
Il principio della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), coniugato con il favor per l’incidente di legittimità costituzionale il quale preclude che alcun giudice possa fare applicazione di una disposizione di legge della cui legittimità costituzionale dubiti – suggerisce che non sia ritardata la decisione del merito della causa rispondendo ciò all'”interesse apprezzabile” delle parti alla “sollecita definizione” di quanto possa essere deciso senza fare applicazione della disposizione indubbiata (ex art. 277, secondo comma, citato). Del resto, come argomento a fortiori, può richiamarsi la giurisprudenza di questa Corte che ha ritenuto, al fine dell’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, che il potere decisorio del giudice rimettente non venga meno neppure quando egli abbia, al contempo, adottato la misura cautelare richiesta da una parte e, con separato provvedimento, abbia sospeso il giudizio cautelare investendo questa Corte con incidente di legittimità costituzionale proprio sulla disposizione di cui abbia fatto applicazione provvisoria e temporanea (ex plurimis, sentenze n. 83 del 2013, n. 236 del 2010, n. 351 e n. 161 del 2008; ordinanza n. 25 del 2006).
Si ha quindi che, nella specie, non erroneamente il Tribunale ordinario di Torino non ha sacrificato l’interesse delle parti alla sollecita decisione del merito – segnatamente, di tutto il merito – della causa ed ha legittimamente limitato la sospensione del giudizio, obbligatoria ex art.23, secondo comma, dellaL. 11 marzo 1953, n. 87(Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), a quanto strettamente necessario per la decisione della questione di legittimità costituzionale.
La pur imprecisa qualificazione, ad opera dello stesso tribunale, della sentenza che ha deciso tutto il merito della causa, come pronuncia “non definitiva” anziché “definitiva” exart. 279 cod. proc. civ., rileva al fine non già dell’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, ma del regime dell’impugnazione di tale pronuncia quanto alla possibilità, o no, della riserva facoltativa d’appello exart. 340 cod. proc. civ.
9.- Nel merito la questione, sollevata congiuntamente dal Tribunale ordinario di Torino e dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, è fondata.
10.- La regolamentazione delle spese processuali nel giudizio civile risponde alla regola generale victus victori fissatadall’art. 91, primo comma, cod. proc. civ.nella parte in cui – ripetendo l’analoga prescrizionedell’art. 370, primo comma, del codice di procedura civiledel 1865 – prevede che “il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa”. Quindi la soccombenza si accompagna, di norma, alla condanna al pagamento delle spese di lite. L’alea del processo grava sulla parte soccombente perché è quella che ha dato causa alla lite non riconoscendo, o contrastando, il diritto della parte vittoriosa ovvero azionando una pretesa rivelatasi insussistente. È giusto, secondo un principio di responsabilità, che chi è risultato essere nel torto si faccia carico, di norma, anche delle spese di lite, delle quali invece debba essere ristorata la parte vittoriosa. Questa Corte ha in proposito affermato che “il costo del processo deve essere sopportato da chi ha reso necessaria l’attività del giudice ed ha occasionato le spese del suo svolgimento” (sentenza n. 135 del 1987).
La regolamentazione delle spese di lite è processualmente accessoria alla pronuncia del giudice che la definisce in quanto tale ed è anche funzionalmente servente rispetto alla realizzazione della tutela giurisdizionale come diritto costituzionalmente garantito (art. 24 Cost.).Il “normale complemento” dell’accoglimento della domanda – ha affermato questa Corte (sentenza n. 303 del 1986) – è costituito proprio dalla liquidazione delle spese e delle competenze in favore della parte vittoriosa.
Ma non è una regola assoluta proprio in ragione del carattere accessorio della pronuncia sulle spese di lite, come emerge dalla giurisprudenza di questa Corte che ha esaminato un’ipotesi di contenzioso – il processo tributario prima della riforma del 1992 – in cui non era affatto prevista la regolamentazione delle spese di lite sì che la parte soccombente non ne sopportava l’onere e la parte vittoriosa non ne era ristorata. Ha infatti affermato questa Corte (sentenza n. 196 del 1982) che “l’istituto della condanna del soccombente nel pagamento delle spese ha bensì carattere generale, ma non è assoluto e inderogabile”: come è consentito al giudice di compensare tra le parti le spese di lite ricorrendo le condizioni di cui al secondo commadell’art. 92 cod. proc. civ.(disposizione attualmente censurata), così rientra nella discrezionalità del legislatore modulare l’applicazione della regola generale secondo cui alla soccombenza nella causa si accompagna la condanna al pagamento delle spese di lite. Analogamente, con riferimento al giudizio di opposizione a sanzioni amministrative, questa Corte (ordinanza n. 117 del 1999) ha ribadito che “l’istituto della condanna del soccombente al pagamento delle spese di giudizio, pur avendo carattere generale, non ha portata assoluta ed inderogabile, potendosene profilare la derogabilità sia su iniziativa del giudice del singolo processo, quando ricorrano giusti motivi exart. 92, secondo comma, cod. proc. civ., sia per previsione di legge – con riguardo al tipo di procedimento – in presenza di elementi che giustifichino la diversificazione dalla regola generale”. Parimenti è stata ritenuta non illegittima una regola di settore che, all’opposto, escludeva in ogni caso la compensazione delle spese di lite in ipotesi di accoglimento della domanda di risarcimento del danno esercitata nel processo penale dalla parte offesa costituitasi parte civile nel regime precedente la riforma del codice di procedura penale del 1987 (sentenza n. 222 del 1985).
Ampia quindi è la discrezionalità di cui gode il legislatore nel dettare norme processuali (ex plurimis, sentenze n. 270 del 2012, n. 446 del 2007 e n. 158 del 2003) e segnatamente nel regolamentare le spese di lite. Sicché è ben possibile – ha affermato questa Corte (sentenza n. 157 del 2014) – “una deroga all’istituto della condanna del soccombente alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa, in presenza di elementi che la giustifichino (sentenze n. 270 del 2012 e n. 196 del 1982), non essendo, quindi, indefettibilmente coessenziale alla tutela giurisdizionale la ripetizione di dette spese (sentenza n. 117 del 1999)”.
11.- Muovendo da questa affermata possibile derogabilità della regola che prescrive la condanna del soccombente alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa, vanno ora esaminate le censure mosse alla disposizione indubbiata dai giudici rimettenti, che sono centrate proprio sulle possibili deroghe a tale regola. Le quali, da epoca risalente e per lungo tempo, sono state affidate ad una clausola generale che chiamava in gioco la discrezionalità del giudice al momento della decisione della causa. Disponeva infatti il secondo commadell’art. 370 cod. proc. civ.del 1865: “Quando concorrono motivi giusti, le spese possono dichiararsi compensate in tutto o in parte”. Il secondo commadell’art. 92 cod. proc. civ.del 1940 ha ripetuto la stessa norma derogatoria: “Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”. Nella relazione al Guardasigilli per la redazione del nuovo codice di procedura civile si espresse l’opzione di dare continuità all’analoga disposizione del codice di rito del 1865 e, con riferimento alla facoltà demandata al giudice di compensare le spese di lite, oltre al caso di soccombenza parziale, anche quando ricorressero “motivi giusti” – che, con mera inversione testuale sarebbero diventati “giusti motivi” – si evidenziò che “tale regola … risponde ad un evidente criterio di giustizia”, ritenendo non “attendibili” alcune osservazioni in senso critico rivolte da una parte della dottrina contro questa clausola generale, la quale affidava tale criterio derogatorio, nel momento della decisione della lite, al prudente apprezzamento del giudice, che era quello che meglio conosceva le peculiarità della causa.
La norma espressa dal secondo commadell’art. 92 cod. proc. civ., attualmente oggetto delle censure di illegittimità costituzionale, è rimasta per lungo tempo invariata anche in occasioni di profonde riforme del codice di rito, quale quella del 1950 apportata con laL. 14 luglio 1950, n. 581(Ratifica delD.Lgs. 5 maggio 1948, n. 483, contenente modificazioni e aggiunte al Codice di procedura civile) e quella del 1990 introdotta con laL. 26 novembre 1990, n. 353(Provvedimenti urgenti per il processo civile); ma non è rimasta immune da critiche di parte della dottrina. Ed in effetti, già nella vigenzadell’art. 370 cod. proc. civ.del 1865, un’autorevole dottrina del tempo aveva denunciato l’abuso nella pratica della compensazione per i motivi più vari.
Il punctum dolens era la motivazione dei “giusti motivi” che facoltizzavano il giudice a compensare, totalmente o parzialmente, le spese di lite anche in caso di soccombenza totale. Il principio di diritto, che era stato alla fine fissato in una tralaticia massima di giurisprudenza, affermava che la valutazione dei “giusti motivi” per la compensazione, totale o parziale, delle spese processuali rientrava nei poteri discrezionali del giudice di merito e non richiedeva specifica motivazione, restando perciò incensurabile in sede di legittimità, salvo che risultasse violata la regola secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa (argumenta, ex plurimis, da Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 15 luglio 2005, n. 14989).
Sempre più però si poneva in discussione questo orientamento giurisprudenziale fino al radicarsi di un vero e proprio contrasto, poi composto dalle sezioni unite della Corte di cassazione, che operarono una significativa correzione di rotta affermando che la decisione di compensazione, totale o parziale, delle spese di lite per “giusti motivi” dovesse comunque dare conto della relativa statuizione mediante argomenti specificamente riferiti a questa ovvero attraverso rilievi che, sebbene riguardanti la definizione del merito, si risolvano in considerazioni giuridiche o di fatto idonee a giustificare tale compensazione delle spese (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 30 luglio 2008, n. 20598).
12.- Intanto il legislatore era intervenuto ed aveva modificato, dopo quasi centocinquant’anni, la norma in questione confermando sì la clausola generale dei “giusti motivi”, quale presupposto della compensazione delle spese di lite, ma richiedendo che questi fossero “esplicitamente indicati nella motivazione” (art.2, comma 1, dellaL. 28 dicembre 2005, n. 263, recante “Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con ilD.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dallaL. 14 maggio 2005, n. 80, nonché ulteriori modifiche al codice di procedura civile e alle relative disposizioni di attuazione, al regolamento di cui alR.D. 17 agosto 1907, n. 642, al codice civile, allaL. 21 gennaio 1994, n. 53, e disposizioni in tema di diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato”).
La prescrizione dell’espressa indicazione dei “giusti motivi” nella motivazione della decisione del giudice sulle spese di lite non apparve però ancora sufficiente a contrastare una tendenza, esistente nella prassi, al frequente ricorso da parte del giudice alla facoltà di compensare le spese di lite anche in caso di soccombenza totale. Il legislatore è quindi intervenuto una seconda volta proprio sulla clausola generale accentuandone, in chiave limitativa, il carattere derogatorio rispetto alla regola generale che vuole che alla soccombenza totale segua anche la condanna al pagamento delle spese di lite. L’art.45, comma 11, dellaL. 18 giugno 2009, n. 69(Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), ha così riformulato il secondo comma dell’art. 92: “Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”.
I “giusti motivi” sono diventati le “gravi ed eccezionali ragioni”: ciò significava che il perimetro della clausola generale si era ridotto, ritenendo il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità – che si è già rilevato essere ampia, secondo la giurisprudenza di questa Corte – che una più estesa applicazione della regola di porre a carico del soccombente totale le spese di lite rafforzasse il principio di responsabilità di chi promuoveva una lite, o resisteva in giudizio, con conseguente effetto deflativo sul contenzioso civile.
13.- Al fondo di questo contesto riformatore è la consapevolezza, sempre più avvertita, che, a fronte di una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera.
Da ciò l’adozione, in epoca recente, di istituti processuali diretti, in chiave preventiva, a favorire la composizione della lite in altro modo, quali le misure di ADR (Alternative Dispute Resolution), cui sono riconducibili le procedure di mediazione, la negoziazione assistita, il trasferimento della lite alla sede arbitrale. Nella stessa linea è la previsione in generale, nel codice di rito (art. 185-bis cod. proc. civ.), di un momento processuale che vede la formulazione della proposta di conciliazione ad opera del giudice, introdotta in generale dall’art.77, comma 1, lettera a), delD.L. 21 giugno 2013, n. 69(Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, nellaL. 9 agosto 2013, n. 98, generalizzando quanto era già stato stabilito, qualche anno prima, per le controversie di lavoro attraverso la modificadell’art. 420, primo comma, cod. proc. civ., introdotta dall’art.31, comma 4, dellaL. 4 novembre 2010, n. 183(Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro).
Per altro verso, quando non di meno la lite arriva all’esito finale della decisione giudiziaria, appare giustificato che l’alea del processo debba allora gravare sulla parte totalmente soccombente secondo una più stretta regola generale, limitando alla ricorrenza di “gravi e eccezionali ragioni” la facoltà per il giudice di compensare le spese di lite.
Questo raggiunto equilibrio è stato però alterato da un’ulteriore, più recente, modifica del censurato secondo commadell’art. 92 cod. proc. civ.
14.- Da ultimo infatti, sull’abbrivio riformatore cominciato nel 2005, il legislatore, nel 2014, è andato ancora oltre ed ha ristretto ulteriormente il perimetro della deroga alla regola che vuole che le spese di lite gravino sulla parte totalmente soccombente: non più la clausola generale delle “gravi ed eccezionali ragioni”, ma due ipotesi nominate (oltre quella della soccombenza reciproca che non è mai mutata), ossia l’assoluta novità della questione trattata ed il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti.
Così ha disposto, da ultimo, l’art.13, comma 1, delD.L. n. 132 del 2014, convertito, con modificazioni, nellaL. n. 162 del 2014(norma che, per espressa previsione dell’art. 13, comma 2, del decreto-legge citato, si applica ai procedimenti introdotti a decorrere dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della relativa legge di conversione, avvenuta l’11 novembre 2014). Si legge nella Relazione al disegno di legge di conversione in legge deldecreto-legge n. 132 del 2014: “Nonostante le modifiche restrittive introdotte negli ultimi anni, nella pratica applicativa si continua a fare larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, con conseguente incentivo alla lite, posto che la soccombenza perde un suo naturale e rilevante costo, con pari danno per la parte che risulti aver avuto ragione”.
Questo più recente sviluppo normativo, che ha portato alla formulazione della disposizione censurata, mostra chiaramente che il legislatore ha voluto far riferimento a due ipotesi tassative, oltre quella della soccombenza reciproca, rimasta invariata nel tempo, come correttamente ritengono entrambi i giudici rimettenti.
15.- Però la rigidità di queste due sole ipotesi tassative, violando il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, ha lasciato fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa.
La prevista ipotesi del mutamento della giurisprudenza su una questione dirimente è connotata dal fatto che, in sostanza, risulta modificato, in corso di causa, il quadro di riferimento della controversia. Questa evenienza sopravvenuta – che concerne prevalentemente la giurisprudenza di legittimità, ma che, in mancanza, può anche riguardare la giurisprudenza di merito – non è di certo nella disponibilità delle parti, le quali si trovano a doversi confrontare con un nuovo principio di diritto, sì che, nei casi di non prevedibile overruling, l’affidamento di chi abbia regolato la propria condotta processuale tenendo conto dell’orientamento poi disatteso e superato, è nondimeno tutelato a determinate condizioni, precisate in una nota pronuncia delle sezioni unite civili della Corte di cassazione (sentenza 11 luglio 2011, n. 15144).
Il fondamento sotteso a siffatta ipotesi – che, ove anche non prevista espressamente, avrebbe potuto ricavarsi per sussunzione dalla clausola generale delle “gravi ed eccezionali ragioni” – sta appunto nel sopravvenuto mutamento del quadro di riferimento della causa che altera i termini della lite senza che ciò sia ascrivibile alla condotta processuale delle parti. Ma tale ratio può rinvenirsi anche in altre analoghe fattispecie di sopravvenuto mutamento dei termini della controversia senza che nulla possa addebitarsi alle parti: tra le più evidenti, una norma di interpretazione autentica o più in generale uno ius superveniens, soprattutto se nella forma di norma con efficacia retroattiva; o una pronuncia di questa Corte, in particolare se di illegittimità costituzionale; o una decisione di una Corte europea; o una nuova regolamentazione nel diritto dell’Unione europea; o altre analoghe sopravvenienze. Le quali tutte, ove concernenti una “questione dirimente” al fine della decisione della controversia, sono connotate da pari “gravità” ed “eccezionalità”, ma non sono iscrivibili in un rigido catalogo di ipotesi nominate: necessariamente debbono essere rimesse alla prudente valutazione del giudice della controversia.
Ciò può predicarsi anche per l’altra ipotesi prevista dalla disposizione censurata – l’assoluta novità della questione – che è riconducibile, più in generale, ad una situazione di oggettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza. In simmetria è possibile ipotizzare altre analoghe situazioni di assoluta incertezza, in diritto o in fatto, della lite, parimenti riconducibili a “gravi ed eccezionali ragioni”.
Del resto la stessa ipotesi della soccombenza reciproca, che, concorrendo con quelle espressamente nominate dalla disposizione censurata, parimenti facoltizza il giudice della controversia a compensare le spese di lite, rappresenta un criterio nient’affatto rigido, ma implica una qualche discrezionalità del giudice che è chiamato ad apprezzare la misura in cui ciascuna parte è al contempo vittoriosa e soccombente, tanto più che la giurisprudenza di legittimità si va orientando nel ritenere integrata l’ipotesi di soccombenza reciproca anche in caso di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 22 febbraio 2016, n. 3438).
Si ha quindi che contrasta con il principio di ragionevolezza e con quello di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.) aver il legislatore del 2014 tenuto fuori dalle fattispecie nominate, che facoltizzano il giudice a compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale, le analoghe ipotesi di sopravvenienze relative a questioni dirimenti e a quelle di assoluta incertezza, che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità di quelle tipiche espressamente previste dalla disposizione censurata. La rigidità di tale tassatività ridonda anche in violazione del canone del giusto processo (art. 111, primo comma, Cost.) e del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, primo comma, Cost.) perché la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti.
16.- Per la riconduzione a legittimità della disposizione censurata può anche considerarsi che più recentemente lo stesso legislatore, in linea di continuità con l’azione riformatrice degli ultimi anni, è ritornato alla tecnica normativa della clausola generale delle “gravi ed eccezionali ragioni”. Infatti, dopo l’introduzione della disposizione attualmente censurata, il legislatore ha novellato alcune norme del processo tributario. In particolare l’art. 9, comma 1, lettera f), numero 2), delD.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156(Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione degli articoli6e10, comma 1, lettere a e b,dellaL. 11 marzo 2014, n. 23), ha sostituito gli originari commi 2 e 2-bis dell’art.15delD.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546(Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega governativa nell’art.30dellaL. 30 dicembre 1991, n. 413) ed ha, tra l’altro, previsto che le spese del giudizio possono essere compensate in tutto o in parte, oltre che in caso di soccombenza reciproca, anche “qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni” che devono essere espressamente motivate.
Ciò orienta la pronuncia di illegittimità costituzionale che si va a rendere nel senso che parimenti le ipotesi illegittimamente non considerate dalla disposizione censurata possono identificarsi in quelle che siano riconducibili a tale clausola generale e che siano analoghe a quelle tipizzate nominativamente nella norma, nel senso che devono essere di pari, o maggiore, gravità ed eccezionalità. Le quali ultime quindi – l'”assoluta novità della questione trattata” ed il “mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti” – hanno carattere paradigmatico e svolgono una funzione parametrica ed esplicativa della clausola generale.
Va quindi dichiarata l’illegittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni.
L’obbligo di motivazione della decisione di compensare le spese di lite, vuoi nelle due ipotesi nominate, vuoi ove ricorrano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, discende dalla generale prescrizionedell’art. 111, sesto comma, Cost., che vuole che tutti i provvedimenti giurisdizionali siano motivati.
17.- L’accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale in riferimento agliartt. 3, primo comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, Cost.- indicati da entrambe le ordinanze di rimessione – comporta l’assorbimento della questione in riferimento agli ulteriori plurimi parametri indicati nella sola ordinanza del Tribunale ordinario di Reggio Emilia (artt. 25, primo comma; 102 e 104 Cost.; nonché, per il tramitedell’art. 117, primo comma, Cost., l’art. 47 CDFUE e gli artt. 6 e 13 CEDU) perché tutti orientati ad ottenere la medesima dichiarazione di illegittimità costituzionale.
Residua però il particolare profilo di censura che fa riferimento alla posizione del lavoratore come parte “debole” del rapporto controverso; censura che costituisce autonoma e distinta questione, ridimensionata ma non del tutto assorbita dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata.
Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia evidenzia la posizione di maggior debolezza del lavoratore nel contenzioso di lavoro e chiede che la disposizione censurata sia ricondotta a legittimità introducendo un’ulteriore ragione di compensazione delle spese di lite che tenga conto della natura del rapporto giuridico dedotto in causa – ossia del rapporto di lavoro subordinato – e della condizione soggettiva della parte attrice quando è il lavoratore che agisce nei confronti del datore di lavoro.
La questione è posta con riferimento al principio di eguaglianza sostanziale di cuiall’art. 3, secondo comma, Cost., che esigerebbe – secondo il giudice rimettente – un trattamento differenziato, ma di vantaggio, per il lavoratore in quanto soggetto più “debole”, costretto ad agire giudizialmente, mentre il censuratoart. 92, secondo comma, cod. proc. civ.avrebbe in concreto l’effetto opposto.
Sarebbero altresì violati, per il tramitedell’art. 117, primo comma, Cost., anche gli artt. 14 CEDU e 21 CDFUE, in punto di discriminazione fondata, rispettivamente, “sulla ricchezza” o su “ogni altra condizione” (art. 14 CEDU) o sul “patrimonio” (art. 21 CDFUE).
18.- La questione non è fondata.
Rileva in proposito da una parte il generale canone della par condicio processuale previsto dal secondo commadell’art. 111 Cost.secondo cui “ogni processo si svolge … tra le parti, in condizioni di parità”. Per altro verso la situazione di disparità in cui, in concreto, venga a trovarsi la parte “debole” – ossia quella per la quale possa essere maggiormente gravoso il costo del processo, anche in termini di rischio di condanna al pagamento delle spese processuali, sì da costituire un’indiretta remora ad agire o resistere in giudizio – trova un possibile riequilibrio, secondo il disposto del terzo commadell’art. 24 Cost., in “appositi istituti” diretti ad assicurare “ai non abbienti … i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”.
Nel binario segnato da questi due concorrenti principi costituzionali si colloca la disposizione censurata che, non considerando la situazione soggettiva, nel rapporto controverso, della parte totalmente soccombente, è ispirata al principio generale della par condicio processuale. Anche le due richiamate ipotesi che facoltizzano il giudice a compensare, in tutto o in parte, le spese di lite – le quali, a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale, sono non più tassative, ma parametriche di altre analoghe ipotesi di “gravi e eccezionali ragioni” – rinviano comunque a condizioni prevalentemente oggettive e non già a situazioni strettamente soggettive della parte soccombente, quale l’essere essa la parte “debole” del rapporto controverso.
Finanche laL. 11 agosto 1973, n. 533(Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie) – la quale pur conteneva disposizioni ispirate al favor per questo contenzioso al fine di agevolare la tutela giurisdizionale del lavoratore, quali quelle che prevedevano l’esenzione da ogni spesa o tassa (art. 10) ed il patrocinio a spese dello Stato per le parti non abbienti (art. 11) – non aveva derogato al dispostodell’art. 92 cod. proc. civ., quanto alla condanna della parte totalmente soccombente al pagamento delle spese di lite. In ogni caso per il lavoratore operava la regola generale della condanna della parte totalmente soccombente al pagamento delle spese di lite, salva la facoltà per il giudice di compensarle sulla base della già richiamata clausola generale, all’epoca vigente, dei “giusti motivi”. Ed opera tuttora la stessa regola, salva la facoltà per il giudice di compensarle ove ricorrano, secondo la disciplina attualmente vigente, le due ipotesi nominativamente previste dal secondo commadell’art. 92 cod. proc. civ., oltre – a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata – anche altre analoghe “gravi ed eccezionali ragioni”.
Solo per le controversie in materia previdenziale proposte nei confronti degli istituti di previdenza ed assistenza l’art.9dellaL. n. 533 del 1973aveva sostituito l’art. 152 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile, disponendo che il lavoratore soccombente nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali non era assoggettato al pagamento di spese, competenze ed onorari a favore degli istituti di assistenza e previdenza, a meno che la pretesa non fosse manifestamente infondata e temeraria; disposizione questa, peraltro anticipata, in una portata più limitata, dal dettato dell’art.57dellaL. 30 aprile 1969, n. 153(Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale) e successivamente estesa anche alle controversie di natura assistenziale dalla sentenza n. 85 del 1979.
Ma il collegamento dell’esonero con la condizione di “non abbiente” è stato dapprima prefigurato, come possibile, da questa Corte (sentenza n. 135 del 1987) e poi posto a fondamento della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art.4, comma 2, delD.L. 19 settembre 1992, n. 384(Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, inL. 14 novembre 1992, n. 438, per aver, tale disposizione, operato un’indiscriminata abrogazione dell’esonero stesso, trascurando qualunque distinzione tra abbienti e non abbienti (sentenza n. 134 del 1994); esonero poi ripristinato dall’art.42, comma 11, delD.L. 30 settembre 2003, n. 269(Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nellaL. 24 novembre 2003, n. 326, in favore della parte soccombente che risulti “non abbiente”, essendo l’esonero condizionato all’integrazione di un requisito reddituale significativo della debolezza economica del ricorrente (ordinanza n. 71 del 1998).
Quindi da una parte la condizione soggettiva di “lavoratore” non ha mai comportato alcun esonero dall’obbligo di rifusione delle spese processuali in caso di soccombenza totale nelle controversie promosse nei confronti del datore di lavoro; d’altra parte nelle controversie di previdenza ed assistenza sociale, promosse nei confronti degli enti che erogano prestazioni di tale natura, la condizione di assicurato o beneficiario della prestazione deve concorrere con un requisito reddituale perché, in via eccezionale, possa comportare siffatto esonero.
La ragione di tale eccezione in favore della parte soccombente “non abbiente”, e quindi “debole”, risiede nella diretta riferibilità della prestazione previdenziale o assistenziale, oggetto del contenzioso, alla speciale tutela prevista dal secondo commadell’art. 38 Cost., che mira a rimuovere, o ad alleviare, la situazione di bisogno e di difficoltà dell’assicurato o dell’assistito.
Invece la qualità di “lavoratore” della parte che agisce (o resiste), nel giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, non costituisce, di per sé sola, ragione sufficiente – pur nell’ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale (art. 3, secondo comma, Cost.) – per derogare al generale canone di par condicio processuale quanto all’obbligo di rifusione delle spese processuali a carico della parte interamente soccombente. Di ciò non si è dubitato in riferimentoall’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.nel testo vigente fino al 2009; ma lo stesso può affermarsi nell’attuale formulazione della medesima disposizione, quale risultante dalla presente dichiarazione di illegittimità costituzionale. Dalla quale comunque consegue che la circostanza – segnalata dal giudice rimettente – che il lavoratore, per la tutela di suoi diritti, debba talora promuovere un giudizio senza poter conoscere elementi di fatto, rilevanti e decisivi, che sono nella disponibilità del solo datore di lavoro (cosiddetto contenzioso a controprova), costituisce elemento valutabile dal giudice della controversia al fine di riscontrare, o no, una situazione di assoluta incertezza in ordine a questioni di fatto in ipotesi riconducibili alle “gravi ed eccezionali ragioni” che consentono al giudice la compensazione delle spese di lite.
19.- Né la ritenuta non fondatezza della questione di legittimità costituzionale è revocata in dubbio dai citati parametri sovranazionali interposti, che vietano trattamenti discriminatori basati sul censo.
La considerazione che sovente il contenzioso di lavoro possa presentarsi in termini sostanzialmente diseguali, nel senso che il lavoratore ricorrente, che agisca nei confronti del datore di lavoro, sia parte “debole” del rapporto controverso, giustifica norme di favore su un piano diverso da quello della regolamentazione delle spese di lite, una volta che quest’ultima è resa meno rigida a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale del secondo commadell’art. 92 cod. proc. civ.con l’innesto della clausola generale delle “gravi ed eccezionali ragioni”. Si sono già ricordate le disposizioni di favore contenute negli artt.10e11dellaL. n. 533 del 1973(peraltro successivamente abrogati); ad esse può aggiungersi anche l’art.13, comma 3, delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)”, il quale prevede che il contributo unificato per le spese di giustizia è ridotto alla metà per le controversie individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego.
Più in generale può dirsi che è rimesso alla discrezionalità del legislatore ampliare questo favor praestatoris, ad esempio rimodulando, in termini di minor rigore o finanche di esonero, il previsto raddoppio di tale contributo in caso di rigetto integrale, o di inammissibilità, o di improcedibilità dell’impugnazione (art. 13, comma 1-quater, delD.P.R. n. 115 del 2002).
20.- In conclusione risulta non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, mirante ad innestare nella disposizione censurata, come deroga alla regola secondo cui la parte soccombente è condannata alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa – oltre alle ipotesi nominativamente previste dalla disposizione stessa, come integrate dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale nei termini di cui sopra al punto 16. – un’ulteriore deroga centrata sulla natura della lite, perché controversia di lavoro, ed a favore solo del lavoratore che agisca in giudizio nei confronti del datore di lavoro.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibile l’intervento della Confederazione generale italiana del lavoro;
2) dichiara l’illegittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile, nel testo modificato dall’art.13, comma 1, delD.L. 12 settembre 2014, n. 132(Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nellaL. 10 novembre 2014, n. 162, nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo modificato dall’art.13, comma 1, delD.L. n. 132 del 2014, convertito, con modificazioni, nellaL. n. 162 del 2014, sollevate, in riferimento agliartt. 3, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva conL. 4 agosto 1955, n. 848, e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

La nomina di curatore speciale per il figlio minore è necessaria soltanto quando il genitore si trovi in posizione di contrasto effettivo e non quando dall’atto ne possa conseguire un vantaggio per entrambi

Cass. 5 aprile 2018, n. 8438
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7159/2017 proposto da:
F.A., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato DARIO SEMINARA;
– ricorrente –
contro
ISLAND REFINANCING SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in
ROMA, VIA ARCHIMEDE 44, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO TARTAGLIA, rappresentata e difesa dagli avvocati VINCENZO FAZZINO, MARIALETIZIA FAZZINO:
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
F.R., T.F., T.A., F.C.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1763/2016 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 23/11/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 16/01/2018 dal Consigliere
Dott. DANILO SESTINI.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
pronunciando sulla domanda proposta dal Banco di Sicilia s.p.a., il Tribunale di Siracusa dichiarò l’inefficacia, ex art. 2901 cod. civ., dell’atto con cui i coniugi F.R. e T.F. avevano donato alle figlie F.A. e C. un terreno sito in (OMISSIS);
la Corte di Appello di Catania ha rigettato l’appello con cui F.A. aveva dedotto la nullità del giudizio di primo
grado per vizio di costituzione del rapporto processuale (conseguente al fatto che, essendo ella ancora
minorenne, l’atto di citazione era stato indirizzato – quali legali rappresentanti – ai suoi genitori che, tuttavia, si trovavano in conflitto di interessi con la figlia);
la F. ha proposto ricorso per cassazione, affidandosi a due motivi;
ha resistito, a mezzo della procuratrice speciale Cerved Credit Management s.p.a., la Island Refinancing s.r.l. (già succeduta nella posizione processuale del Banco di Sicilia), la quale ha proposto ricorso incidentale e ricorso incidentale condizionato;
i ricorsi sono stati rimessi all’adunanza camerale, ex art. 380 bis c.p.c., con proposta di manifesta infondatezza del ricorso principale e di inammissibilità di quello incidentale;
entrambe le parti hanno depositato memoria.
Considerato che:
il primo motivo del ricorso principale denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 320 c.c., u.c., artt. 78 e 102 c.p.c., artt. 24 e 111 Cost., e censura la Corte per non aver considerato la sussistenza di un conflitto di interessi fra la ricorrente e i genitori;
il motivo è infondato, alla luce del principio espresso da Cass. n. 1721/2016 (secondo cui la verifica del conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale va operata in concreto e non in astratto ed “ex ante”, ponendosi una diversa soluzione in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo”), al quale il Collegio intende dare continuità e che, pur enunciato in riferimento all’ipotesi in cui il legale rappresentante si sia costituito in giudizio anche in nome e per conto del rappresentato, risulta ovviamente applicabile anche all’ipotesi in cui il legale rappresentante si sia limitato a ricevere la notifica (e non abbia ritenuto di costituirsi in nome e per conto del rappresentato);
è pur vero che Cass. n. 1294/1975 ebbe a ritenere sussistente il conflitto di interessi in un’ipotesi in cui il
curatore del fallimento dei genitori aveva proposto azione revocatoria nei confronti dei figli minori, in relazione ad una donazione fatta a questi ultimi dai falliti, e che analogo principio venne espresso da Cass. n. 1586/1990 (anch’essa relativa ad un’ipotesi di azione revocatoria promossa dal curatore del fallimento dei genitori), individuando la ragione del conflitto di interessi fra genitore fallito e minore nel “vantaggio che deriverebbe al primo dall’accoglimento della domanda, con un incremento dell’attivo fallimentare”;
tale indirizzo – espresso in relazione alla peculiare ipotesi del fallimento del genitore – è stato tuttavia superato da successivi arresti di legittimità, che hanno evidenziato che “il conflitto d’interessi tra padre e figlio minore che legittima la nomina di un curatore speciale sussiste soltanto quando i due soggetti si trovino o possano in seguito trovarsi in posizione di contrasto, nel senso che l’interesse proprio del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, mal si concili con quello del rappresentato”, cosicché “il conflitto in questione non si configura quando, pur avendo tali soggetti un interesse proprio e distinto al compimento dell’atto, questo corrisponda al vantaggio comune di entrambi, per cui i due interessi, secondo l’apprezzamento del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato, siano tra loro concorrenti e compatibili” (Cass. n. 5591/1981; conforme Cass. n. 599/1982).
tale principio è stato ribadito e sviluppato dalla citata Cass. n. 1721/2016 che, affermando la necessità di un
accertamento in concreto sulla sussistenza del conflitto, ha superato i precedenti che avevano ritenuto rilevante una incompatibilità di interessi “anche solo potenziale, a prescindere dalla sua effettività”, postulando la necessità di una verifica “in astratto ed “ex ante” secondo l’oggettiva consistenza della materia del contendere dedotta in giudizio, anziché in concreto e “a posteriori” alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa” (Cass. n. 13507/2002; conforme a Cass. n. 10822/2001);
in linea con tali principi, la sentenza impugnata ha rilevato come nello specifico e alla luce dell’atteggiamento processuale concretamente assunto dai genitori, non fossero ravvisabili situazioni di conflitto, a fronte di un interesse del tutto convergente fra i medesimi genitori e la figlia; peraltro, non può sottacersi che un conflitto non si sarebbe profilato sussistente neppure secondo una valutazione ex ante, giacché, a fronte dell’azione revocatoria proposta dall’istituto bancario, l’interesse dei genitori e quello della figlia risultavano coincidenti nel fine di sottrarre l’atto di donazione alla revocatoria;
né può ritenersi che la mera possibilità che la nomina di un curatore speciale consentisse alla minore di svolgere difese o eccezioni ulteriori rispetto a quelle sviluppate dai genitori valga a concretizzare, di per sé, una situazione di conflitto di interessi;
il secondo motivo (che deduce, “in subordine”, l’omesso esame circa un fatto decisivo) è inammissibile poiché non evidenzia fatti (principali o secondari) decisivi di cui sia stato omesso l’esame, ma si limita a reiterare considerazioni funzionali all’affermazione della ricorrenza del conflitto di interessi negato dalla Corte;
il “ricorso incidentale” dell’Island Refinancing è inammissibile in quanto formulato in modo estremamente
generico e proposto come reiterazione di un motivo di appello incidentale condizionato che, come tale, non è stato esaminato dalla Corte a seguito del rigetto dell’appello principale e non può “rivivere” per il solo fatto che la sentenza sia stata impugnata per cassazione;
il “ricorso incidentale condizionato” – enunciato in modo assolutamente generico – risulta assorbito;
la reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese di lite;
in relazione ad ambedue i ricorsi, proposti successivamente al 30.1.2013, sussistono le condizioni per
l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile quello incidentale, compensando le spese di lite.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il
versamento, da parte della ricorrente principale e di quella incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per i rispettivi ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 5 aprile 2018

La corresponsione dell’assegno divorzile una tantum necessita della verifica giudiziale dei presupposti di legge

Cass. civ. Sez. I, 28 febbraio 2018, n. 4764
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23795/2014 proposto da:
B.D.M., elettivamente domiciliata in Roma, Via Arno n.88, presso lo studio dell’avvocato Ungari Trasatti Camillo, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
Ba.Lu., elettivamente domiciliato in Roma, Via Fornovo n. 3, presso lo studio dell’avvocato Proietti Stefano, rappresentato e difeso dall’avvocato Casale Michele Idolo, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 530/2014 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 18/04/2014;udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/01/2018 dal cons. TRICOMI LAURA;
lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, che ha chiesto alla Corte di Cassazione, riunita in camera di consiglio, disporsi un rinvio a nuovo ruolo.
Svolgimento del processo
CHE:
La Corte di appello di Genova, con la sentenza in epigrafe indicata, ha confermato la decisione di primo grado, in controversia concernente le statuizioni economiche in giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario tra B.D.M. e B.L..
Secondo la Corte di appello, correttamente il primo giudice aveva interpretato la pretesa sostanziale fatta valere in giudizio da B.D., come domanda del beneficio di cui allaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.5, comma 6, avendo tenuto conto della natura della causa e delle vicende dedotte, sulla base dell’art.2 delle condizioni della separazione consensuale omologata, ove era previsto che il Ba. si impegnava a provvedere al pagamento di un canone di affitto sino a Lire 800.000= mensili per un immobile per la moglie, fino al momento in cui non avesse provveduto ad acquistare un altro immobile per un valore massimo di Lire 100.000.000=, del quale sarebbe dovuto diventare nudo proprietario attribuendo l’usufrutto alla B.. Osservava che, diversamente opinando, la domanda avrebbe dovuto essere coltivata in un procedimento di esecuzione forzata del titolo giudiziale ottenuto all’esito della separazione.
Ancora, per la Corte di appello, il Tribunale correttamente aveva quantificato il beneficio richiesto dalla B. come una capitalizzazione “una tantum”L. n. 898 del 1970, ex art. 5, comma 8, sulla somma di Euro.51.645,69=, corrispondente al valore dell’immobile sul quale avrebbe dovuto essere costituito l’usufrutto come concordato tra i coniugi nel verbale di separazione omologato e dagli stessi ritenuto adeguato alle possibilità economiche del marito ed alle esigenze della moglie, e non su una somma maggiore, poiché le stesse parti avevano stabilito che il prezzo dell’immobile da acquistare a spese del Ba. fosse di Lire 100.000.000=, di guisa che il riferimento a tale somma non poteva mutare per il solo fatto che il valore degli immobili era mutato nel tempo ed era divenuto impossibile l’acquisto di un immobile della tipologia desiderata. Da ultimo ha riconosciuto la congruità del calcolo dell’usufrutto, effettuato con riferimento alla età della B. sulla somma concordata di Lire 100.000.000=, adeguandola all’inflazione, ed ha escluso la spettanza di altre somme.
La B. propone ricorso per cassazione con tre mezzi, corredato da memoria exart. 378 c.p.c., al quale replica Ba.Lu. con controricorso.
Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensidell’art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380 bis c.p.c., comma 1.
Il pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte con cui ha chiesto il rinvio a nuovo ruolo del procedimento.

Motivi della decisione
CHE:
1.1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degliartt. 99 e 112 c.p.c., in relazione agliartt. 167 e 189 c.p.c.ed allaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.5, commi 6 e 8, (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e sostiene che erroneamente la Corte di appello, così come il Tribunale, ha interpretato la domanda come domanda di corresponsione dell’assegno divorzile in un’unica soluzione, poiché nessun accordo tra le parti era intervenuto in tal senso, atteso che in sede di separazione consensuale omologata i coniugi avevano solo convenuto che il Ba. si impegnava ad acquistare a proprio nome un immobile, del valore massimo di Lire 100.000.000=, e ad attribuirne l’usufrutto alla B., e, nelle more dell’acquisto, Ba. si era impegnato a versare alla moglie Lire 800.000= mensili a titolo di canone di locazione di altro appartamento.
Deduce, in particolare di non avere “azionato alcuna pretesa sostanziale che possa essere, neppure implicitamente, interpretabile, come richiesta del beneficio di cui allaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, men che meno capitalizzato una tantum ai sensi del comma 8 della medesima disposizione, nell’assenza di qualsiasi accordo sul punto.” (fol. 12 del ricorso), lamentando sostanzialmente una non corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Precisa quindi di essersi opposta alla capitalizzazione dell’usufrutto, richiesta inutilmente dal Ba. come modifica delle pattuizioni di separazione e riproposta nel giudizio di divorzio dallo stesso promosso, ma di avere sempre insistito per l’adempimento dell’obbligazione contratta dal Ba. in sede di separazione consensuale chiedendo però la costituzione dell’usufrutto con riferimento ad un immobile di maggior valore, di circa Euro 120.000,00=, sulla considerazione che il valore degli immobili era triplicato nelle more.
1.2. Il primo motivo è fondato e va accolto.
1.3. Giova preliminarmente rammentare che laL. n. 898 del 1970,art.5, commi 6 e 8, che disciplina i rapporti patrimoniali conseguenti al divorzio, recita:
“6. Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive. (…) 8. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal Tribunale. In tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico.”.
1.4. Orbene, costituisce approdo indiscusso la differente natura giuridica che connota l’assegno divorzile periodico (comma 6), rispetto all’assegno divorzile corrisposto in un’unica soluzione (comma 8).
Anche la Corte Costituzionale (Ord. n. 113 del 2007, confermativa dell’Ord. n.383 del 2001) ha avuto modo di puntualizzare che “le due suddette forme di adempimento, pur avendo entrambe la funzione di regolare i rapporti patrimoniali derivanti dallo scioglimento o dalla cessazione del vincolo matrimoniale, hanno connotazioni giuridiche e di fatto diverse, tali da legittimare il legislatore a prevedere, nella sua discrezionalità, diversi regimi fiscali; che, infatti, mentre l’assegno periodico è determinato dal giudice in base ai parametri indicati dallaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6con possibilità di revisione (in aumento o in diminuzione), ai sensi dell’art. 9, comma 1 stessa legge, invece l’assegno versato una tantum non corrisponde necessariamente alla capitalizzazione dell’assegno periodico, ma è liberamente concordato dalle parti – sia pure con soggezione al controllo di equità da parte del giudice -, al fine di fissare un definitivo e complessivo assetto degli interessi personali, familiari e patrimoniali dei coniugi, tale da precludere ogni successiva domanda di contenuto economico (citato art. 5, comma 8)” sottolineando così che l’assegno in un’unica soluzione, da un lato, è frutto del libero accordo tra le parti, e dall’altro è soggetto al controllo di equità del giudice; quindi, dopo avere ricordato che le differenze tra le due tipologie di assegno “hanno indotto parte cospicua della dottrina e della giurisprudenza ad attribuire all’accordo per il pagamento una tantum una peculiare natura “transattiva” o “novativa”, oltre che “aleatoria”” ha concluso affermando la non irragionevolezza di un trattamento fiscale differenziato riservato alle due fattispecie.
1.5. Di recente è stato quindi chiarito da questa Corte, con specifico riferimento all’assegno divorzile corrisposto una tantum, che “laL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.5, comma 8, a norma del quale, su accordo delle parti, la corresponsione dell’assegno divorzile può avvenire in un’unica soluzione senza che si possa, in tal caso, proporre alcuna successiva domanda a contenuto economico, non è applicabile al di fuori del giudizio di divorzio, in quanto l’accordo sulla corresponsione una tantum richiede sempre una verifica di natura giudiziale. Di tali accordi non può, pertanto, tenersi conto non solo quando limitino o escludano il diritto del coniuge economicamente più debole, ma anche quando soddisfino dette esigenze, poiché una preventiva pattuizione potrebbe determinare il consenso alla dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio.” (Cass. civ. Sez. 1, 30/01/2017, n. 2224), così sottolineando che l’accordo in questione non può collocarsi al di fuori del giudizio di divorzio, in quanto una preventiva pattuizione, anche in sede di separazione, potrebbe condizionare il consenso alla dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di guisa che la stessa risulta invalida per illiceità della causa, perché stipulata in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale di cuiall’art. 160 c.c..
1.6. Orbene, sulla scorta di tali principi, nella misura in cui ridondano sul caso in esame, si deve escludere che, in via interpretativa, la domanda di corresponsione dell’assegno divorzile una tantum possa essere ritenuta implicita sulla scorta di quanto concordato in sede di separazione consensuale, laddove – come nel caso di specie – attese le posizioni di aperta contrapposizione delle parti nel giudizio divorzile, non sia stata puntualmente verificata proprio in detta sede la sussistenza dei presupposti di legge in merito all’accordo secondo quanto previsto dallaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 8.
Invero, la decisione impugnata, ove sembra attribuire alla previsione contenuta negli accordi di separazione consensuale omologati il valore di preventiva pattuizione anche sul quantum della obbligazione divorzile, non risulta conforme al principio della Cassazione ricordato.
2.1. Con il secondo motivo si denuncia l’omesso esame della asserita “oggettiva impossibilità di Ba.Lu. di acquistare un immobile del valore massimo di Euro 51.645,69 da concedere in usufrutto vitalizio a B.D., come previsto nelle condizioni della separazione”, addotta dal Ba. per ottenere la autorizzazione a corrispondere alla B. il valore legale dell’usufrutto, fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
2.2. Con il terzo motivo si denuncia, in via subordinata, la violazione e falsa applicazione degliartt. 99 e 112 c.p.c., in relazione agliartt. 167 e 189 c.p.c.ed allaL. n. 898 del 1970,art.5, commi 6 e 8, (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), con riferimento alla quantificazione dell’assegno divorzile una tantum, e si sostiene che la Corte di appello ha ritenuto congruo quanto stabilito dal Tribunale, omettendo ogni valutazione in merito ai criteri stabiliti dall’art. 5, comma 6 Legge cit. e senza considerare fatti notori, come la situazione sfavorevole conseguente al passaggio da Lira ad Euro, il conseguente aumento del valore degli immobili e la svalutazione monetaria.
2.3. L’esame dei motivi secondo e terzo è assorbito dall’accoglimento del primo.
3. In conclusione, il ricorso va accolto sul primo motivo, assorbiti gli altri; la sentenza impugnata va cassata e rinviata alla Corte di appello di Genova in diversa composizione per il riesame alla luce dei principi espressi e per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.

P.Q.M.
– Accoglie il ricorso sul primo motivo, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Genova in diversa composizione per il riesame, alla luce dei principi espressi e per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.

L’adozione mite tutela il minore quando non è possibile l’affidamento preadottivo.

Cass. 16 aprile 2018 n. 9373
Fatti di causa
gli odierni ricorrenti sono i genitori di S.G. , nato il (omissis), e sono stati dichiarati decaduti dalla potestà
genitoriale con decisione del Tribunale per i minorenni di Palermo, dep. il 3.6.2013.
Con successivo decreto del 26.6.2013, lo stesso Tribunale aveva affidato il minore agli odierni
controricorrenti per un anno.
Con sentenza n. 59, dep. l’11.3.2015, il Tribunale per i Minorenni di Palermo ha disposto l’adozione in casi
particolari del minore, ai sensi dell’art. 44, lett. d), della legge n. 184 del 1983, in favore degli odierni
controricorrenti. I genitori, con separati ricorsi poi riuniti, hanno impugnato la decisione, domandando la
revoca della pronuncia di decadenza dalla potestà e l’affidamento a loro del bambino. In subordine, hanno
chiesto disporsi la revoca del provvedimento di adozione e la ripresa dei servizi di osservazione e degli
incontri del minore con loro, suoi genitori biologici, al fine di valutare la possibilità del reinserimento nella
famiglia di origine. A sostegno delle sue domande, il padre ha chiesto tenersi anche conto del suo
proscioglimento da ogni accusa “di aver avuto attenzioni sessuali nei confronti del figlio”.
La Corte territoriale ha innanzitutto rilevato di non poter esaminare la domanda di reintegra nella potestà
proposta dai genitori, non essendo stata avanzata in primo grado, perché la possibilità di revoca o
modifica dei provvedimenti relativi alla potestà è indubbiamente prevista dall’ordinamento, ma non è
consentito eludere la regola del doppio grado di giudizio di merito in materia.
La Corte siciliana ha quindi specificato che il Tribunale ha già accertato, con pronuncia passata in
giudicato, che non ricorre l’abbandono del minore, e pertanto non è possibile attivare la procedura di
adozione c.d. legittimante. Si verte, pertanto, in una ipotesi di impossibilità giuridica di procedere a tale
forma di adozione. Il provvedimento impugnato ha, pertanto, condiviso l’impostazione proposta dal
Tribunale, secondo cui l’adozione c.d. mite di cui all’art. 44, lett. d., l. adozioni, ha quale presupposto
l’attitudine a soddisfare il preminente interesse del minore, secondo il disposto di cui all’art. 57 della
legge n. 184 del 1983. Ritenuto che i requisiti previsti dalla legge risultassero soddisfatti, la Corte
territoriale ha confermato la decisione di primo grado.
La pronuncia della Corte d’Appello di Palermo è stata impugnata per cassazione dai genitori biologici, che
si affidano a due motivi di ricorso. Resistono con controricorso i genitori dichiarati adottivi, ai sensi
dell’art. 44, lett. d), della legge n. 184 del 1983.
La causa, chiamata in data 13.3.2017 innanzi alla sesta sezione civile della Suprema Corte, riscontrata
l’apparente sussistenza di contrasti di giurisprudenza in ordine a taluni profili della materia trattata,
veniva rimessa alla pubblica udienza.
Ragioni della decisione
1.1 – Con il primo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., i
genitori biologici contestano la violazione o falsa applicazione dell’art. 44, lett. d), della legge n. 184 del
1983, perché l’impossibilità di affidamento preadottivo, presupposto della decisione adottata, non
consiste in una impossibilità giuridica, come sostenuto dalla Corte territoriale, bensì nella impossibilità di
fatto di procedere all’adozione, nozione che attiene solo all’ipotesi di mancato reperimento (o rifiuto) di
aspiranti all’adozione legittimante, e non a quella di contrasto con l’interesse del minore. Ad opinare
diversamente si trasformerebbero gli affidi familiari in adozioni miti senza la preventiva verifica della
ricorrenza delle condizioni di adottabilità.
1.2 – Con il secondo motivo di ricorso, proposto ancora ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod.
proc. civ., i genitori biologici censurano la violazione o falsa applicazione degli artt. 44, lett. d), nonché
57, della legge n. 184 del 1983, perché l’adozione in casi particolari è da considerare una extrema ratio,
da utilizzarsi solo quando la famiglia di origine non è in grado di assicurare al minore tutte le cure di cui
necessita (ric., p. 3), avendo il minore il diritto costituzionalmente riconosciuto di crescere ed essere
allevato nella sua famiglia naturale. Lamentano i ricorrenti che il procedimento concluso con la decisione
impugnata ha di fatto impedito agli odierni ricorrenti di ricostituire un positivo rapporto con il bambino, e
1
pure la funzione svolta dai servizi sociali appare biasimevole, perché agli stessi non compete solo
registrare le carenze genitoriali, ma anche assicurare un supporto alla genitorialità.
2.1. – Con il primo motivo di impugnazione i ricorrenti contestano la nozione di impossibilità di procedere
all’adozione proposta dalla Corte d’Appello, la quale ha ritenuto che essa debba consistere nella
impossibilità giuridica di procedervi, e non nella impossibilità di fatto.
In proposito la Suprema Corte, con pronuncia recente e condivisibile, cui si intende pertanto assicurare
continuità, ha affermato che “in tema di adozione in casi particolari, l’art. 44, comma 1, lett. d), della l. n.
183 del 1994, integra una clausola di chiusura del sistema, intesa a consentire l’adozione tutte le volte in
cui è necessario salvaguardare la continuità affettiva ed educativa della relazione tra adottante ed
adottando, come elemento caratterizzante del concreto interesse del minore a vedere riconosciuti i legami
sviluppatisi con altri soggetti che se ne prendono cura, con l’unica previsione della “condicio legis” della
“constatata impossibilità di affidamento preadottivo”, che va intesa, in coerenza con lo stato
dell’evoluzione del sistema della tutela dei minori e dei rapporti di filiazione biologica ed adottiva, come
impossibilità “di diritto” di procedere all’affidamento preadottivo e non di impossibilità “di fatto”, derivante
da una situazione di abbandono (o di semi abbandono) del minore in senso tecnico-giuridico”, Cass. sez.
I, sent. 22.6.2016, n. 12962. Il riscontro che, in un passato neppure lontano, lo stesso Giudice di
legittimità aveva espresso diversi orientamenti, come correttamente segnalato dai ricorrenti, induce a
ritenere che il motivo di ricorso debba essere rigettato e non dichiarato inammissibile, e si terrà conto
della circostanza anche in materia di governo delle spese di lite.
Il motivo di ricorso dev’essere pertanto respinto.
2.2. – Con il secondo motivo di ricorso gli impugnanti criticano la Corte d’Appello, innanzitutto, per non
aver valorizzato il principio secondo cui l’adozione deve sempre essere considerata una extrema ratio.
Inoltre, la Corte di merito avrebbe omesso di rilevare che il loro diritto di difesa è stato ingiustamente
compresso nel corso del procedimento e, ancora, la stessa Corte d’Appello non ha tenuto conto di avere
pur essa escluso la ricorrenza di uno stato di abbandono del minore.
Invero i ricorrenti non provvedono ad indicare nel dettaglio quale sia il fondamento della loro
affermazione secondo cui il procedimento concluso con la decisione impugnata avrebbe, di fatto, impedito
loro di ricostituire un positivo rapporto con il bambino. Sostengono pure che la funzione svolta dai servizi
sociali appare biasimevole, perché agli stessi non compete solo registrare le carenze genitoriali, ma anche
assicurare un supporto alla genitorialità; tuttavia, i ricorrenti non hanno cura di indicare neppure quali
utili azioni di supporto alla genitorialità siano state omesse. Non è questa la sede, comunque, per
riesaminare le attitudini genitoriali dei ricorrenti, che sono stati dichiarati decaduti dalla responsabilità
genitoriale, con decisione che doveva essere contestata in altra sede ed è anche passata in giudicato.
Questo giudizio ha ad oggetto la legittimità del provvedimento con il quale è stata dichiarata, in favore
dei controricorrenti, l’adozione ai sensi dell’art. 44, lett. d), della legge n. 184 del 1983 del minore. Tale
forma di adozione, talvolta qualificata come “mite”, non rappresenta una extrema ratio, come avviene
invece nell’ipotesi dell’adozione c.d. legittimante. L’adozione in questione non presuppone lo stato di
abbandono del minore, e non comporta la recisione dei rapporti del minore con la famiglia di origine.
Risponde piuttosto all’esigenza di assicurare il rispetto del preminente interesse del minore, ai sensi del
disposto di cui all’art. 57 della legge n. 184 del 1983.
La Corte d’Appello non ha mancato di analizzare questo profilo, ed ha espresso una valutazione non
suscettibile di revisione in sede di giudizio di legittimità, in quanto congruamente illustrata e motivata. La
Corte siciliana ha osservato che il minore “ha istaurato una relazione molto intensa con la coppia di
coniugi che… lo ha preso in affidamento da oltre due anni, consentendogli di elaborare il grave disagio
psicologico vissuto in ambito familiare e di riappropriarsi di una dimensione di vita adatta alla sua età”
(sent. C.d’A., p. 4 s.). Positive informazioni sono state fornite anche dai servizi sociali, i quali hanno
sottolineato il buon inserimento del minore nella famiglia, di cui fa parte anche un’altra figlia, “e che il
bambino rivendica con forza la sua appartenenza a questa nuova famiglia, fra l’altro anche in ambito
scolastico, chiedendo con insistenza di assumere il cognome degli affida tari sia nel corso della sua
audizione in Tribunale, sia indirettamente agli stessi affida tari e agli operatori del servizio sociale” (sent.
C.d’A., p. 5).
I genitori biologici del bambino, peraltro, neppure indicano quali siano i propri familiari che pure,
2
affermano, avrebbero potuto prendersi cura del bambino. Gli unici elementi di novità allegati dai genitori,
evidenzia la Corte territoriale, sono: l’avere il padre conseguito il risarcimento per ingiusta detenzione, e
l’avere la madre formato una nuova famiglia. Questi elementi non sono stati ritenuti sufficienti, dalla
Corte di merito, per poter esprimere un giudizio prognostico favorevole in ordine al rientro del minore
nella famiglia di origine. I tempi per una verifica della possibilità di rientro del bambino nella famiglia di
origine sono apparsi, alla Corte territoriale, comunque incompatibili con le esigenze di stabilità del
bambino. In conseguenza, soddisfa le esigenze del minore l’adozione in casi particolari, che assicura al
minore la possibilità di vivere nell’ambito di una famiglia che gli assicura cure adeguate, e nell’ambito
della quale lui, ormai adolescente e capace di giudizio, vuole crescere.
I genitori non contestano specificamente le valutazioni proposte dalla Corte di merito, e propongono
piuttosto censure nella forma della violazione di legge, che appaiono però riferibili alla diversa ipotesi
dell’adozione c.d. legittimante, ed appaiono pertanto infondate in questa sede.
Anche il secondo motivo di ricorso deve quindi essere respinto.
Il ricorso deve essere pertanto rigettato. Le peculiarità della fattispecie trattata, ed i contrasti di
giurisprudenza riscontrati in passato in materia, inducono a ritenere equo disporre la totale
compensazione tra le parti delle spese di lite.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso proposto da S.D. e N.G. .
Dichiara compensate tra le parti le spese di lite.
Dispone, ai sensi dell’art. 52, comma 5, del D.Lgs. 30.6.2003, n. 196, che, in caso di riproduzione per la
diffusione della presente decisione, le generalità e gli altri dati identificativi delle parti e dei soggetti
menzionati siano omessi.

L’art. 484 c.c. che disciplina l’accettazione con beneficio di inventario delinea una fattispecie a formazione progressiva, per la cui realizzazione i due adempimenti sono indispensabili

Cass. 26 marzo 2018, n. 7477
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 8898-2016 proposto da:
BANCA POPOLARE SONDRIO S.C.P.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 11, presso
lo studio dell’avvocato ANTONIO PACIFICO, rappresentata e difesa dall’avvocato MARCO BONOMO;
– ricorrente –
contro
P.E.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VARRONE 9, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO
VANNICELLI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato VERONICA BERTANI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 388/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 03/02/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/01/2018 dal Consigliere Dott. ANTONIO
SCARPA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Del Core Sergio, il quale ha concluso per
l’accoglimento del primo e del secondo motivo del ricorso, assorbito il terzo;
uditi gli Avvocati Pacifico, per delega dell’Avvocato Bonomo, e Bertani.
Svolgimento del processo
La società cooperativa per azioni Banca Popolare di Sondrio, sulla base del decreto ingiuntivo n. 569/09 del 9 novembre 2009, pronunciato dal Tribunale di Sondrio, intimò precetto ad P.E.M., quale avente causa, per
effetto di successione legittima, del marito V.A..
L’intimata P.E.M. propose opposizione, deducendo di non essere debitrice della somma ingiuntale, atteso che aveva accettato l’eredità del marito con beneficio di inventario e che i beni erano stati rilasciati ai creditori.
Non avendo la Banca provveduto ad intraprendere l’esecuzione minacciata ed essendo perciò cessata l’efficacia del precetto, il Tribunale di Sondrio, quale giudice dell’opposizione, con sentenza n. 338/2014 del 17 settembre 2014, dichiarò cessata la materia del contendere e condannò la creditrice al rimborso delle spese di lite ed al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 388/2016 del 3 febbraio 2016, rigettò il gravame della Banca Popolare di Sondrio, rilevando che P.E.M. aveva accettato l’eredità del marito V.A., morto il (OMISSIS), con beneficio di inventario mediante dichiarazione dell’11 settembre 2009, e che le operazioni di redazione di inventario (anche a seguito di proroga concessa dal Tribunale) erano terminate in data 5 marzo 2010, con successiva designazione del curatore incaricato di procedere alla liquidazione dell’eredità rilasciata ai creditori ed ai legatari.
In data 9 novembre 2009 era stato però emesso, su domanda della Banca Popolare di Sondrio, un decreto
ingiuntivo nei confronti di P.E.M., nella qualità di erede del defunto coniuge. L’importo di tale decreto, a seguito del rilascio dei beni, venne poi inserito nello stato di graduazione redatto dal curatore e portato ad esecuzione, una volta divenuto definitivo, con il pagamento in favore dei vari creditori, essendosi quindi pervenuti alla chiusura dell’eredità beneficiata con provvedimento del Presidente del Tribunale di Sondrio del 27 gennaio 2012.
Sostenne la Corte d’Appello che la P. non avesse perciò mai acquisito la qualità di erede pura e semplice e
quindi non dovesse rispondere dell’intero ammontare del decreto ingiuntivo. Sebbene alla data dell’emissione del decreto ingiuntivo P.E.M. avesse già dichiarato di accettare l’eredità del marito V.A., fino ancora alla scadenza del termine per proporre la relativa opposizione ex art. 641 c.p.c. non era stata ultimata la redazione dell’inventario, formalità costituente un elemento della fattispecie a formazione progressiva di accettazione con beneficio di inventario. Da ciò i giudici dell’appello conclusero che la limitazione di responsabilità scaturente dal beneficio in questione ben poteva essere fatta valere in sede di opposizione a precetto, sicché la valutazione di soccombenza virtuale in danno della creditrice opposta compiuta dal Tribunale, ai fini della regolamentazione delle spese di lite, doveva reputarsi corretta. Del pari condivisibile risultava per la Corte di Milano la valutazione del primo giudice in merito alla sussistenza della responsabilità ex art. 96 c.p.c. della Banca, la quale non solo aveva intrapreso la procedura monitoria quando era stata resa edotta della volontà degli ingiunti di accettare con beneficio di inventario (missiva del 24 ottobre 2009), ma aveva altresì intimato il precetto una volta che aveva riscontrato il mancato soddisfacimento del proprio credito nell’ambito della liquidazione compiuta dal curatore.
La Banca Popolare di Sondrio s.c.p.a. ha formulato ricorso avverso tale sentenza sulla base di tre motivi.
P.E.M. ha resistito con controricorso.
Su proposta del relatore, che aveva ritenuto il giudizio definibile nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in
riferimento all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), era stata dapprima fissata l’adunanza della camera di consiglio.
Il Collegio, con ordinanza del 27 marzo 2017, ritenne tuttavia che non ricorressero le ipotesi di cui all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), e rimise la causa alla pubblica udienza.
Le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Il Collegio reputa pregiudizialmente che non sussistono ragioni di economia processuale per disporre la
riunione dei ricorsi R.G. n. 8898/2016 e R.G. n. 2355/2017, entrambi discussi all’udienza del 30 gennaio 2018, stante la parziale difformità delle vicende e delle progressioni procedimentali inerenti alla due diverse controversie.
Il primo motivo del ricorso della Banca Popolare di Sondrio lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 459, 470, 484 e 487 c.c., nonché dei “principi generali in tema di acquisto della qualità di erede con beneficio di inventario”.
Il secondo motivo di ricorso deduce la violazione dell’art. 2909 c.c. “in tema dei limiti dei fatti opponibili al
giudicato”.
Evidenziano le prime due censure, che per la loro connessione possono essere esaminate congiuntamente,
come il decreto ingiuntivo n. 569/2009 fosse stato emesso allorquando P.E.M. aveva già dichiarato di accettare con beneficio di inventario e come il medesimo provvedimento monitorio, una volta notificato, fosse divenuto definitivo, per la scadenza del termine previsto per l’opposizione, prima che fossero state completate le operazioni di inventario. La ricorrente sostiene così che la P. aveva ormai definitivamente acquistato la qualità di erede ed era perciò subentrata nei debiti del de cuius, senza che su questo potesse incidere la mancata redazione o il non tempestivo completamento dell’inventario. Di tal che, la limitazione di responsabilità, che sarebbe derivata dal perfezionamento della fattispecie a formazione progressiva costituita dall’accettazione con beneficio di inventario, avrebbe dovuto essere fatta valere già in sede di opposizione a decreto ingiuntivo. Il giudicato altrimenti formatosi a seguito della mancata opposizione al provvedimento monitorio precludeva, ad avviso della ricorrente, che la detta limitazione di responsabilità potesse essere fatta valere in sede di opposizione a precetto.
1.1. I primi due motivi, che vanno peraltro soggetti ad un rilievo di carattere pregiudiziale, sono in ogni caso
da respingere.
Il Tribunale di Sondrio, nella sentenza poi confermata dalla Corte d’Appello di Milano, ha dichiarato cessata la materia del contendere tra le parti, in conseguenza della maturata inefficacia del precetto per l’inutile decorso del termine di inizio dell’esecuzione. Tale pronunzia ha pertanto affermato che fosse venuto meno il dovere del giudice di pronunziare sul merito della domanda, essendo svanito l’interesse delle parti alla decisione, con conseguente sentenza finale di rito. Di tale sentenza le parti potevano allora dolersi nel merito in sede di impugnazione solo contestando l’esistenza del presupposto per emetterla, risultando invece precluso per difetto di interesse ogni altro motivo di censura, atteso che è comunque onere della parte, che contesti, appunto, la decisione per questioni di merito, impugnare preliminarmente la declaratoria di cessazione della materia del contendere (Cass. Sez. U, 09/07/1997, n. 6226, Cass. Sez. 3, 01/06/2004, n. 10478; Cass. Sez. 1, 28/05/2012, n. 8448; Cass. Sez. 6 – L, 13/07/2016, n. 14341).
Essendo comunque sottratta all’ambito del devoluto in sede di legittimità, sulla base dei motivi di ricorso, la
statuizione di cessazione della materia del contendere, la quale è coperta da giudicato interno formatosi ai
sensi dell’art. 329 c.p.c., comma 2, va ulteriormente evidenziato come spetti al giudice del merito, nel caso in cui dichiari cessata la materia del contendere, di deliberare il fondamento della domanda per decidere sulle spese secondo il principio della soccombenza virtuale, con apprezzamento di fatto la cui motivazione non postula certo di dar conto di tutte le risultanze probatorie, e che è sindacabile in cassazione sol quando, a sua giustificazione, siano enunciati motivi formalmente illogici o giuridicamente erronei, cosa che non si evince nel caso di specie (Cass. Sez. 1, 27/09/2002, n. 14023; Cass. Sez. 3, 14/07/2003, n. 10998).
Il primo ed il secondo motivo di ricorso, ove intesi come volti unicamente a contestare la soccombenza della Banca Popolare di Sondrio ai soli fini della regolamentazione delle spese, si rivelano comunque infondati.
Deve essere ribadito l’orientamento di questa Corte (a far tempo da Cass. Sez. 2, 15/07/2003, n. 11030; poi
Cass. Sez. 2, 09/08/2005, n. 16739; Cass. Sez. L, 06/08/2015, n. 16514) secondo cui, disponendo che
“l’accettazione col beneficio d’inventario si fa mediante dichiarazione… ” e che questa “deve essere preceduta o seguita dall’inventario”, l’art. 484 c.c. chiaramente delinea una fattispecie a formazione progressiva, per la cui realizzazione i due adempimenti sono entrambi indispensabili, come suoi elementi costitutivi. Dunque la dichiarazione di accettazione, ha ex se una propria immediata efficacia, comportando il definitivo acquisto della qualità di erede da parte del chiamato e quindi il suo subentro in universum ius defuncti, compresi i debiti del de cuius, senza però incidere sulla limitazione della relativa responsabilità intra vires hereditatis, la quale è condizionata (anche) alla preesistenza o alla tempestiva sopravvenienza dell’inventario, mancando il quale l’accettante “è considerato erede puro e semplice” (artt. 485, 487 e 488 c.c.), come se non avesse conseguito il beneficio ab initio. D’altra parte, l’intempestivo compimento dell’inventario, se non nella eccezionale previsione dell’art. 489 c.c. (che però concerne unicamente la speciale disciplina stabilita per gli incapaci) non è inserito dall’ordinamento tra le ipotesi di decadenza dal beneficio (artt. 493, 494 e 505 c.c., tutte riferite ad altre condotte dell’erede attinenti alla fase della liquidazione e quindi necessariamente successive alla redazione dell’inventario), e ciò conferma che tale formalità ha natura di elemento costitutivo della fattispecie.
Va allora considerata la parallela costante interpretazione giurisprudenziale, ad avviso della quale
l’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, determinando la limitazione della responsabilità dell’erede per i debiti del “de cuius” entro il valore dei beni a lui pervenuti, va eccepita nel giudizio di cognizione promosso dal creditore del defunto che faccia valere per intero la sua pretesa, in modo da contenere quantitativamente l’estensione e gli effetti dell’invocata pronuncia giudiziale; ne consegue che, ove non sia stata proposta la relativa eccezione nel processo di cognizione (nè tale fatto sia stato rilevato d’ufficio dal giudice: Cass. Sez. U, 07/05/2013, n. 10531), la qualità di erede con beneficio d’inventario e la correlata limitazione della responsabilità non sono deducibili per la prima volta in sede esecutiva, coprendo il giudicato tanto il dedotto quanto il deducibile (Cass. Sez. 3, 16/04/2013, n. 9158; Cass. Sez. L, 15/04/1992, n. 4633; Cass. Sez. 3, 25/11/1988, n. 6345).
Vale tuttavia il più generale principio in forza del quale il titolo esecutivo giudiziale (nella specie, decreto
ingiuntivo dichiarato esecutivo perché non opposto) copre i soli fatti estintivi, modificativi o impeditivi del
credito intervenuti anteriormente alla formazione del titolo, non potendo essere rimesso in discussione dinanzi al giudice dell’esecuzione ed a quello dell’opposizione per fatti anteriori alla sua definitività. Ciò significa che, qualora a base di una qualunque azione esecutiva sia posto un titolo esecutivo giudiziale, il giudice dell’esecuzione non può effettuare alcun controllo intrinseco sul titolo, diretto cioè ad invalidarne l’efficacia in base ad eccezioni o difese che andavano dedotte nel giudizio nel cui corso è stato pronunziato il titolo medesimo, potendo solo controllare la persistente validità di quest’ultimo ed attribuire rilevanza ai fatti posteriori alla sua formazione (Cass. Sez. L, 14/02/2013, n. 3667; Cass. Sez. L, 21/04/2004, n. 7637).
Ne consegue che allorché al momento della formazione del titolo esecutivo giudiziale nei confronti dell’erede per un debito del cuius (nella specie, al momento della conseguita esecutorietà del decreto ingiuntivo 9 novembre 2009 per mancata opposizione nel termine) non fossero ancora decorsi i termini per il compimento dell’inventario da parte del chiamato all’eredità, il quale abbia dichiarato di accettare col beneficio, la limitazione della responsabilità della responsabilità dell’erede per i debiti entro il valore dei beni a lui pervenuti, ex art. 490 c.c., in quanto effetto del beneficio medesimo subordinato per legge alla preesistenza o alla tempestiva sopravvenienza dell’inventario stesso, può essere utilmente eccepita dinanzi al giudice dell’esecuzione ed a quello dell’opposizione, trattandosi di fatto successivo alla definitività del titolo. 2. Il terzo motivo di ricorso deduce, da ultimo, la violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c., per avere i giudici di merito ravvisato la temerarietà dell’azione promossa dalla Banca Popolare di Sondrio. Tale censura è fondata. La sentenza impugnata ha evidenziato come la Banca avesse agito con grave imprudenza, intimando precetto e quindi minacciando l’esecuzione sulla base di un titolo formatosi prima della chiusura delle operazioni di inventario, dopo aver visto le proprie ragioni negate nello stato di graduazione ed allorquando alla creditrice era ben nota la correlata limitazione di responsabilità della quale la signora P. poteva beneficiarsi.
Nell’accertare la responsabilità processuale aggravata della parte precettante, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., per
aver intimato il pagamento di somme che sapeva essere non dovute, il giudice dell’opposizione deve comunque valutare, alla stregua della mala fede o dell’ordinaria diligenza, la condotta tenuta dal creditore nel giudizio di esecuzione (arg. da Cass. Sez. 3, 16/04/2013, n. 9152).
Nel caso in esame, allora, l’evidente complessità delle questioni giuridiche che erano ricomprese nell’oggetto del giudizio di opposizione a precetto appare tale da escludere che l’esercizio dell’azione fosse stato del tutto imprudente. D’altro canto, dall’esposizione dei fatti della causa in esame emerge come la Banca non avesse poi provveduto ad intraprendere l’esecuzione minacciata, con conseguente perdita di efficacia del precetto, sicché doveva negarsi la ravvisabilità della coscienza dell’infondatezza della pretesa e delle tesi sostenute, ovvero del difetto della normale diligenza funzionale all’acquisizione di detta consapevolezza.
3. Conseguono l’accoglimento del terzo motivo di ricorso, il rigetto del primo e del secondo motivo di ricorso, nonché la cassazione della sentenza impugnata nei limiti della censura accolta. Non essendo al riguardo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, accogliendo l’appello proposto dalla Banca Popolare di Sondrio avverso la sentenza del Tribunale di Sondrio n. 338/2014 del 17 settembre 2014 nei limiti del rigetto della domanda di P.E.M. di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c., ferma ogni altra statuizione della sentenza della Corte d’Appello di Milano n. 388/2016 del 3 febbraio 2016, anche quanto alla regolamentazione delle spese processuali, vista la prevalente soccombenza della Banca.
In ragione della prevalente soccombenza della Banca Popolare di Sondrio, alla luce del devoluto, le spese del giudizio di cassazione vanno comunque poste a carico della ricorrente principale nell’importo liquidato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta il primo ed il secondo motivo di ricorso, cassa la sentenza
impugnata in ragione della censura accolta, e, decidendo nel merito, accoglie l’appello proposto dalla Banca
Popolare di Sondrio avverso la sentenza del Tribunale di Sondrio n. 338/2014 del 17 settembre 2014 nei limiti del rigetto della domanda di P.E.M. di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c.; condanna la ricorrente a
rimborsare alla controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 10.2000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione,
il 30 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 26 marzo 2018

PROVA DELLA PROPRIETÀ IN REGIME DI SEPARAZIONE DEI BENI

Di Gianfranco Dosi

I. Il quadro giuridico di riferimento: l’art. 219 c.c.
II. La tutela del coniuge non proprietario
III. La prova della proprietà dei beni
IV. La disciplina dei conti correnti bancari cointestati tra coniugi
V. Fruizione comune e comproprietà di un bene mobile
I Il quadro giuridico di riferimento
Nell’ambito delle norme che disciplinano il regime patrimoniale della separazione dei beni l’art. 219 c.c. (prova della proprietà dei beni) prevede che
Il coniuge può provare con ogni mezzo nei confronti dell’altro la proprietà esclusiva di un bene.
I beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di pro¬prietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi.
La disposizione trova applicazione anche alle unioni civili (art. 1, comma 13, legge 20 maggio 2016, n. 76) laddove i partner scelgano il regime della separazione dei beni, ma non alle convi¬venze di fatto in cui i conviventi sono in situazione di reciproca autonomia patrimoniale e in cui semmai, con l’adozione di un contratto di convivenza, il regime patrimoniale potrebbe essere solo quello della comunione dei beni.
Il senso della norma è quello di rendere possibile tra i coniugi (ed anche nelle controversie eredi¬tarie), senza alcuna limitazione, la prova della proprietà di beni mobili nel corso della vita matri¬moniale e, soprattutto, al momento della cessazione del regime quando può porsi un problema di riacquisizione delle proprietà di rispettiva pertinenza ovvero di divisione dei beni comuni.
Al momento del matrimonio oppure nel corso della vita coniugale avvengono da parte di ciascuno acquisti che nel regime di separazione, in linea di principio, restano di proprietà di chi li effettua.
Del regime di separazione dei beni – che oggi costituisce statisticamente il regime patrimoniale più diffuso nelle famiglie coniugali – sono sopravvissute nel codice civile, dopo la riforma del 75, soltanto quattro norme1
1 Cfr la voce SEPARAZIONE DEI BENI : l’art. 215 che esplicita il meccanismo distributivo su cui il regime si fonda (ciascun coniuge conserva la titolarità esclusiva dei beni che acquista durante il matrimonio); l’art. 217 che disciplina l’amministrazione e il godimento dei beni acquistati; l’art. 218 che assimila le obbligazioni del coniuge che partecipa al godimento delle proprietà dell’altro a quelle dell’usufrut¬tuario e, infine, l’art. 219 che detta la disciplina della prova nel contenzioso sulla proprietà dei beni.
Quindi i coniugi possono scegliere il regime della separazione dei beni. Se non effettuano alcuna scelta rimarranno nel regime legale della comunione dei beni (art. 159 c.c.).
Gli acquisti quindi che ciascun coniuge effettua in regime di separazione dei beni, rimangono di esclusiva proprietà del coniuge acquirente. Il bene, invece, acquistato e pagato da entrambi i co¬niugi, entra naturalmente in comunione ordinaria.
Il regime di separazione dei beni comporta, perciò, in linea di principio, l’esclusiva proprietà dei beni in capo al coniuge che li acquista. Correttamente quindi l’art. 217 c.c. prevede che il coniuge titolare della proprietà del bene “ha il godimento e l’amministrazione dei beni di cui è titolare”. Titolo di proprietà e diritti di godimento e di amministrazione coincidono.
II La tutela del coniuge non proprietario
Il regime di separazione dei beni sembra porre il coniuge proprietario in una condizione di potere assoluto. La legge gli attribuisce infatti la proprietà, il godimento e l’amministrazione dei beni ci cui è proprietario (art. 217 c.c.).
L’applicazione rigida delle regole della proprietà potrebbe quindi condurre nelle relazioni coniugali a risultati iniqui, se solo si riflette sulla circostanza che il coniuge non proprietario finirebbe per non avere alcuna tutela rispetto ai poteri del proprietario ovvero anche solo di godimento e di ammini¬strazione esercitati dal coniuge proprietario. Forse che il coniuge non proprietario non sia titolare di nulla solo perché non ha acquistato un certo bene fruito da entrambi? O che debba subire tutte le decisioni dell’altro sui beni goduti da entrambi? Il coniuge proprietario può fare tutto quello che vuole sui beni di cui ha la titolarità esclusiva? O ci sono dei limiti? Può, per esempio, il coniuge proprietario decidere di vendere la casa familiare di cui ha la proprietà anche senza il consenso dell’altro coniuge? Può vendere tutti i mobili di casa sul semplice presupposto che, avendoli acqui¬stati con denaro proprio, ne ha la esclusiva proprietà?
Un potere assoluto del coniuge proprietario potrebbe porsi potenzialmente in grave conflitto con le regole della solidarietà coniugale e cioè dell’obbligo di entrambi i coniugi “di contribuire ai bisogni della famiglia” (art. 143 c.c..). Per questo motivo si ritiene pacificamente che il regime primario della solidarietà coniugale (espresso nelle regole fondamentali degli articoli 143 e 144 del codice civile) non può non permeare anche il regime secondario di tipo patrimoniale, in particolare so¬prattutto della separazione dei beni (considerato che il regime di comunione legale esprime certa¬mente un potenziale di compartecipazione più accentuato).
Per questo motivo in dottrina si ritiene giustamente – a commento di questo regime patrimoniale – che non può certo negarsi il potere di godimento del bene comune al coniuge non proprietario e che il bene acquistato per esigenze comuni o di fruizione comune, ovvero acquistato in base ad un accordo tra i coniugi, non possa che essere considerato appartenente ad entrambi.
In altri ordinamenti (Francia, Germania) il coniuge proprietario non può vendere la casa familiare o i mobili che l’arredano senza il consenso del coniuge non proprietario che la abiti insieme. Il nostro sistema giuridico non prevede una limitazione del genere.
La giurisprudenza si è occupata del problema del potere assoluto del coniuge proprietario affer¬mando che la condotta del coniuge che dispone o intende disporre dei beni di sua proprietà esclu¬siva senza tener conto del parere e dei desideri dell’altro coniuge potrebbe dare spazio all’addebito della separazione ma non a poteri di carattere inibitorio dell’altro coniuge, neppure se si configu¬rasse una violazione di un accordo dei coniugi, ad eccezione dei casi però in cui l’atto costituisca una violazione dell’obbligo di contribuzione o di quelli della solidarietà coniugale o costituisca addi¬rittura espediente per sottrarsi a tali regole (Cass. sez. I, 7 maggio 1992, n. 5415 che non ha ravvisato questa violazione in un caso in cui il marito aveva espresso la volontà di trasferire in un quartiere ritenuto più adatto la casa coniugale di sua proprietà).
III La prova della proprietà dei beni
L’art. 219 c.c. costituisce uno dei correttivi legali al potere assoluto del coniuge proprietario. Il primo comma della norma, ai fini della presunzione di comproprietà indicata nel secondo comma, consente ad un coniuge di provare con ogni mezzo – e quindi senza alcuna delle limitazioni previste dal codice di procedura civile – di essere proprietario di un particolare bene. Perciò la norma viene considerata una deroga espressa agli articoli 2721 e seguenti c.c. e all’art. 2729, co. 2, c.c. (che in materia di prova dei contratti stabiliscono limiti alla testimonianza e alla prova per presunzioni).
La norma si riferisce naturalmente alle controversie su beni mobili (Cass. civ. Sez. I, 2 agosto 2013, n. 18554; Cass. civ. Sez. Unite, 23 aprile 1982, n. 2494) ed intende agevolare la prova in tali controversie proprio in ragione del principio, collegato al regime primario di solidarietà, di comune fruizione dei beni acquistati da un coniuge nel corso del matrimonio. Pertanto è volta principalmen¬te a derogare alla regola generale sull’onere della prova in tema di rivendicazione dei beni mobili.
Il secondo comma dell’art. 219 c.c. chiarisce la conseguenza di questa deroga. Infatti seguendo i principi tradizionali del processo civile chi non riesce a provare la proprietà di un bene dovrebbe soc¬combere nella causa di rivendica. In questo caso invece, proprio in relazione al condizionamento del regime primario solidaristico, le regole dell’onere della prova subiscono una compressione e il bene di cui non si riesce a provare la proprietà si considera di proprietà indivisa di ciascuno dei coniugi.
Nessuna deroga, invece, l’art. 219 c.c. configura alla normale disciplina della prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari (Cass. civ. Sez. I, 2 agosto 2013, n. 18554; Cass. civ. Sez. I, 15 novembre 1997, n. 11327; Cass. civ. Sez. Unite, 23 aprile 1982, n. 2494) dove peraltro la prova della proprietà risulta da titoli non equivoci. Pertanto, quando un immobile sia intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo d’acquisto, l’altro coniuge che alleghi l’interposizione reale non può provarla né con giuramento né con testimoni, giacché l’ob¬bligo dell’interposto di ritrasmettere all’interponente i diritti acquistati deve risultare, sotto pena di nullità, da atto scritto, salvo che nell’ipotesi di perdita incolpevole del documento e non anche, dunque, nel caso in cui si deduce un semplice principio di prova per iscritto (Cass. civ. Sez. Unite, 23 aprile 1982, n. 2494; Cass. civ. Sez. II, 10 febbraio 1995, n. 1482; Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 1990, n. 2540; Trib. Catania, 11 luglio 1986; Trib. Milano, 19 settembre 1983).
La specifica disposizione che consente tra coniugi di provare senza limitazioni di prova la proprie¬tà di un bene vale naturalmente nei soli rapporti tra coniugi – ovvero tra un coniuge e gli eredi dell’altro ovvero tra gli eredi dell’uno e gli eredi dell’altro – e non nei rapporti con i terzi. La pre¬cisazione è stata fatta molto opportunamente in giurisprudenza dove si è affermato che l’art. 219 c.c. non può essere esteso ai rapporti di ciascun coniuge con i terzi, con la conseguenza – per esempio – che, in tema di opposizione all’esecuzione, il coniuge opponente incontra tutti i limiti di prova previsti dal codice di procedura (Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 1998, n. 6589). Naturalmente il terzo creditore del coniuge può giovarsi della presunzione di comproprietà come se ne potrebbe giovare il coniuge stesso.
IV La disciplina dei conti correnti bancari cointestati tra coniugi
Per quanto concerne i depositi sui conti correnti bancari cointestati la giurisprudenza ha ritenuto che i coniugi intestatari, nei rapporti tra i correntisti e la banca, debbono essere ritenuti creditori o debitori in solido del saldo del conto (in base a quanto prevede espressamente l’art. 1854 c.c.) mentre nei rapporti interni troverà applicazione l’art. 1298, co. 2, c.c. a mente del quale “le parti di ciascuno si presumono uguali se non risulta diversamente” (Cass. civ. 9 settembre 1989, n. 3241; Trib. Verona, 8 aprile 1994) Pertanto qualora si dimostri che il saldo attivo del conto cointestato è dovuto unicamente ai versamenti e alle rimesse di uno dei due coniugi, l’altro nei rapporti interni non potrà avanzare alcuna pretesa. Analogamente è stato deciso nel caso in cui uno dei due coniugi aveva provato di aver egli da solo acquistato con proprio denaro un quan¬titativo di buoni del tesoro depositati in banca (Cass. Civ. Sez. I, 29 aprile 1999, n. 4327). L’orientamento è stato confermato da un’altra decisione (Cass. civ. Sez. II, 15 febbraio 2010, n. 3479) nella quale, nonostante il raggiungimento della prova circa la partecipazione di entrambi al soddisfacimento delle esigenze familiari e, nello specifico, alla creazione di riserve finanziarie, il coniuge non era stato in grado di dimostrare con esattezza l’entità del proprio contributo e per¬tanto il giudice aveva provveduto alla suddivisione pro quota delle somme di denaro oggetto di controversia. Se questa prova vi fosse stata il coniuge non titolare avrebbe perso ogni diritto sul denaro depositato nel corso della vita familiare.
Il che dimostra – essendo palese la mortificazione della tutela verso il coniuge più debole non titolare della proprietà – come vi siano ancora zone d’ombra nell’applicazione dei principi solida¬ristici primari (articoli 143 e 144 c.c.) al regime della separazione dei beni. Per questo motivo la giurisprudenza – anche se non sempre in passato in modo lineare2
2 Cfr la voce CONTO CORRENTE BANCARIO COINTESTATO – ammette il coniuge non proprietario a provare l’eventuale liberalità indiretta della cointestazione (Cass. civ. Sez. II, 28 febbraio 2018, n. 4682; Cass. civ. Sez. II, 16 gennaio 2014, n. 809; Cass. civ. Sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983; Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2000, n. 12552; Trib. Mondovì, 15 febbraio 2010; Trib. Palermo, sez. I, 9 luglio 2001).
V Fruizione comune e comproprietà di un bene mobile
Sempre nell’ottica di tutela del coniuge non proprietario, si deve qui affrontare un problema parti¬colare che potrebbe offrire rilevante protezione nella situazione in cui uno dei coniugi (per esempio la moglie casalinga) non abbia alcun provento che gli consenta di acquistare beni e che, al momen¬to, del conflitto potrebbe, conseguentemente, trovarsi nella assoluta impossibilità di dimostrare di aver acquistato qualcosa.
La questione che si intende affrontare non è, naturalmente, se la fruizione comune di un bene possa comportare l’acquisto della proprietà di quel bene, dal momento che la fruizione comune non costituisce un modo di acquisto della proprietà, ma se l’acquisto da parte un coniuge di un bene destinato all’uso comune possa essere considerato donazione indiretta all’altro coniuge della comproprietà di quel bene.
Naturalmente se due coniugi si trovano in regime di comunione legale è evidente che l’acquisto di un bene (mobile o immobile) effettuato da un coniuge determina l’acquisizione di quel bene alla comunione (art. 177 lett. a c.c.) fatti salvi gli acquisti di beni personali alle condizioni previste (art. 179 c.c.).
Se però i coniugi sono in regime di separazione non c’è una norma che disponga la stessa cosa e l’acquisto di un bene da parte di un coniuge non determina quindi a vantaggio dell’altro l’effetto comunione.
Ipotizzando che solo uno dei coniugi in regime di separazione disponga di proventi, l’altro non sarà mai proprietario di nulla. Ed è proprio questa situazione che potrebbe determinare una condizione di iniquità al termine del regime patrimoniale non potendo il coniuge privo di proventi rivendicare oggettivamente la proprietà di nulla (salvo quanto acquistato per donazione o successione), non avendo mai avuto proventi per acquistare direttamente alcunché.
Questa iniquità può essere superata facendo ricorso all’istituto della donazione indiretta relativa¬mente ai beni di fruizione comune.
Va premesso che ovviamente la donazione (diretta) formale (art. 769 c.c.) tra coniugi è piena¬mente ammissibile. Inoltre un coniuge, al di fuori del contratto formale di donazione, può sempre provare che l’altro gli ha donato direttamente un bene (per esempio nelle forme della liberalità d’uso di cui al secondo comma dell’art. 770 c.c. o della donazione di modico valore di cui all’art. 783 c.c.). Si pensi al marito che regala alla moglie un computer, un orologio o una bicicletta. In questi casi la moglie ai sensi dell’art. 219 c.c. è ammessa certamente a provare che il bene è di sua proprietà. La moglie potrebbe anche provare, però, che un bene mobile acquistato con i proventi del marito e fruito da entrambi nel corso della vita matrimoniale sia in comproprietà in seguito a donazione indiretta del bene comune (come i beni destinati ad arredo della casa comune). Quale altro spirito, se non quello di liberalità, potrebbe animare nel corso della vita familiare un coniuge nell’acquisto di un bene da fruire in comune?
Esattamente come si potrebbe dimostrare – come sopra detto – che il denaro immesso dal marito nel conto cointestato venga considerata una donazione indiretta.
L’istituto dell’usucapione non sarebbe invocabile in quanto la tolleranza nell’uso di un bene (evi¬dente soprattutto tra coniugi e parenti) è notoriamente ostativa all’usucapione di quel bene.
PROVA DELLA PROPRIETÀ IN REGIME DI SEPARAZIONE DEI BENI
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. II, 28 febbraio 2018, n. 4682 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei contestatari – può essere qualificato come donazione indiretta solo quando sia verificata l’esistenza dell’animus donandi, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointesta¬zione, altro scopo che quello della liberalità. Nella donazione indiretta la liberalità si realizza, anziché attraverso il negozio tipico di donazione, mediante il compimento di uno o più atti che, conservando la forma e la causa che è ad essi propria, realizzano, in via indiretta, l’effetto dell’arricchimento del destinatario, sicché l’intenzione di donare emerge non già, in via diretta, dall’atto o dagli atti utilizzati, ma solo, in via indiretta, dall’esame, neces¬sariamente rigoroso, di tutte le circostanze di fatto del singolo caso, nei limiti in cui risultino tempestivamente e ritualmente dedotte e provate in giudizio da chi ne abbia interesse.
Cass. civ. Sez. II, 16 gennaio 2014, n. 809 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cointestazione di un conto corrente, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto (art. 1854 c.c.) sia nei confronti dei terzi, che nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto (art. 1298 c.c., comma 2), ma tale presunzione da luogo soltanto all’inversione dell’o¬nere probatorio, e può essere superata attraverso presunzioni semplici – purché gravi, precise e concordanti – dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa.
L’animus donandi non può essere riconosciuto sulla sola base della cointestazione di un conto corrente. Il giudice deve motivare sullo spirito di liberalità che assiste ogni versamento.
Cass. civ. Sez. I, 2 agosto 2013, n. 18554 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 219 cod. civ. – riconoscendo al coniuge di poter provare con ogni mezzo, nei confronti dell’altro, la proprietà esclusiva di un bene, ed aggiungendo che quelli di cui nessuno di essi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa, per pari quota, di entrambi – riguarda essenzialmente le controversie relative a beni mobili, ed è volto principalmente a derogare, attraverso la presunzione posta nel secondo comma, alla regola generale sull’onere della prova in tema di rivendicazione, mentre nessuna eccezione configura alla normale disciplina della prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari. Pertanto, quando un immobile sia intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo d’acquisto, l’altro coniuge, che alleghi l’interposizione reale, non può provarla con giuramento, nè con testimoni, giacché l’obbligo dell’interposto di ritrasmettere all’interponente i diritti acquistati deve risultare, a pena di nullità, da atto scritto, salvo che nell’ipotesi di perdita incolpevole del documento e non anche, dunque, nel caso in cui si deduce un semplice principio di prova per iscritto.
Cass. civ. Sez. II, 15 febbraio 2010, n. 3479 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In applicazione dell’art. 219 c.c. i beni mobili – ivi comprese le somme di denaro – di cui ciascun coniuge non può dimostrare la proprietà esclusiva devono essere, in sede di separazione, divisi pro quota. Qualora, quindi, nonostante il raggiungimento della prova circa la partecipazione di entrambi al soddisfacimento delle esigenze familiari e, nello specifico, alla creazione di riserve finanziarie, il coniuge non sia in grado di dimostrare con esattezza l’entità del proprio contributo, il giudice, sulla scorta del mancato superamento di detta presunzione semplice di comproprietà, non potrà che provvedere nel senso di una divisione pro quota delle somme di denaro oggetto di controversia.
Trib. Mondovì, 15 febbraio 2010 (Famiglia e Diritto, 2010, 7, 709, nota di CORDIANO)
La cointestazione di un conto corrente bancario, relativa a somme già depositate e originariamente appartenenti ad uno dei cointestatari, non costituisce donazione indiretta, se non venga provata l’esistenza della funzione do¬nativa, nella specie integrata da un atto di rinuncia alle pretese di rendicontazione e di restituzione delle somme prelevate, che indichi una dismissione dei diritti sorretta da un intento liberale.
Cass. civ. Sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La possibilità che costituisca donazione indiretta l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito – qualora la predetta somma, all’atto della coin¬testazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari – può sussistere solo quando sia verificata l’esistenza dell’”animus donandi”, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità.
Trib. Palermo, sez. I, 9 luglio 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cointestazione di un cospicuo patrimonio mobiliare del marito in favore della moglie dimostra indiscutibilmen¬te l’intento liberale di attribuire, non fittiziamente o artificiosamente, ma piuttosto in via stabile e definitiva, al¬meno la metà degli importi investiti in fondi alla comunione legale dei coniugi; e pertanto le domande restitutorie avanzate dagli attori vanno disattese in quanto si dimostrano contrarie a diritto oltre che alla morale corrente (nella specie il marito pretendeva, dopo che il matrimonio stava definitivamente naufragando, la restituzione di quanto in precedenza era stato messo a totale disposizione della moglie).
Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2000, n. 12552 (Giur. It., 2001, 757, nota di DIMARTINO)
Dalla cointestazione di un contratto di deposito in custodia e amministrazione di titoli al portatore non discende la comproprietà dei titoli acquistati con denaro appartenente ad uno solo dei cointestatari, tranne che le circostanze del caso concreto rivelino in maniera univoca la volontà delle parti di realizzare una donazione.
Cass. Civ. Sez. I, 29 aprile 1999, n. 4327 (Foro It. 2000, I, 2920)
In caso di deposito presso un istituto di credito di titoli al portatore (nella specie: buoni ordinari del Tesoro), cointestato a coniugi in regime di separazione dei beni, i rapporti interni tra i depositanti sono regolati dall’art. 1298, comma 2, c.c., onde il credito si divide in quote uguali solo se non risulti diversamente. Correttamente, pertanto, qualora rimanga accertato che le somme utilizzate per l’acquisto di tali titoli provengono da un conto corrente di corrispondenza intestato ad un solo coniuge, il giudice del merito ritiene quest’ultimo proprietario esclusivo dei titoli.
Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 1998, n. 6589 (Giur. It., 1999, 1170 nota di FRATINI)
Il comma 2 dell’art. 219 c.c. (che, con riferimento alla ipotesi di separazione di beni tra coniugi, sancisce una presunzione semplice di comproprietà per i beni mobili dei quali nessuno di essi sia in grado di dimostrare la proprietà esclusiva), pur non contenendo una esplicita limitazione dell’efficacia della presunzione di comunione ai soli rapporti interni tra i coniugi (a differenza di quanto stabilito al comma 1, contenente un espresso riferimento ai rapporti predetti), va interpretato secondo criteri ermeneutici di tipo logico unitario, non meno che storici, e non consente, pertanto, di estendere gli effetti della presunzione in parola anche ai rapporti di ciascun coniuge con i terzi, con la conseguenza che, in tema di opposizione all’esecuzione, il coniuge opponente incontra tutti i limiti di prova previsti, in linea generale, dall’art. 621 c.p.c. (che esclude, in particolare, l’efficacia probatoria di qualsiasi forma di presunzione).
Cass. civ. Sez. I, 15 novembre 1997, n. 11327 (Rivista notarile, 1998, 182)
L’art. 219 c.c. – che riconosce al coniuge la facoltà di provare con ogni mezzo nei confronti dell’altro, la proprietà esclusiva di un bene (comma 1) ed aggiunge che i beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi (comma 2) – concerne essenzialmente le controversie relative a beni mobili ed è volto principalmente a derogare, attraverso la presunzione posta nel comma 2, alla regola generale sull’onere della prova in tema di rivendicazione, mentre nessuna deroga configura alla normale disciplina della prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari.
Cass. civ. Sez. II, 10 febbraio 1995, n. 1482 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 219 c.c. (nel testo novellato dalla l. 19 maggio 1975 n. 151) – che riconosce al coniuge la facoltà di provare con ogni mezzo nei confronti dell’altro, la proprietà esclusiva di un bene (comma 1) ed aggiunge che i beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi (comma 2) – concerne essenzialmente le controversie relative a beni mobili, ed è volto principalmente a derogare, attraverso la presunzione posta nel comma 2, alla regola generale sull’onere della prova in tema di rivendicazione, mentre nessuna deroga congiura alla normale disciplina della prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari. Pertanto, quando un immobile sia intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo d’acquisto, l’altro coniuge che alleghi l’interposizione reale non può provarla né con giuramento né con testimoni, giacché l’obbligo dell’interposto di ritrasmettere all’interponente i diritti acquistati deve risultare, sotto pena di nullità, da atto scritto, salvo che nell’ipotesi di perdita incolpevole del documento e non anche, dunque, nel caso in cui si deduce un semplice principio di prova per iscritto.
Trib. Verona, 8 aprile 1994 (Dir. Famiglia, 1995, 558 nota di CONTE)
Se il saldo attivo di un conto corrente bancario cointestato a coniugi in regime di separazione di beni risulta discendere da versamenti effettuati solo dal marito e con somme provenienti dal proprio reddito da lavoro, de¬vesi escludere che l’altro coniuge, casalingo e privo di redditi propri, nel rapporto interno tra correntisti, possa avanzare diritti di partecipazione al saldo predetto.
Cass. civ. Sez. I, 7 maggio 1992, n. 5415 (Giur. It., 1993, I,1, 1318 nota di FITTANTE)
Non è configurabile, in costanza di matrimonio, alcun potere in capo al coniuge non proprietario sull’immobile adibito a residenza familiare di appartenenza esclusiva dell’altro, ove questi intenda, senza il consenso del primo, alienare il bene e trasferire altrove l’abitazione della famiglia; e ciò anche nell’eventualità in cui l’atto di disposi¬zione concretizzi la violazione di un preesistente accordo.
Il sistema delineato dal diritto di famiglia non attribuisce, in costanza di matrimonio, al coniuge non proprietario alcun potere sulla proprietà esclusiva dell’altro coniuge, né gli conferisce il potere di impedirgli il compimento di atti eventualmente contrari a precedenti intese; ne deriva che la condotta del coniuge che disponga dei beni di sua proprietà esclusiva senza tener conto del parere o dei desideri dell’altro coniuge e degli altri membri della famiglia, può costituire, se del caso, soltanto motivo per addebitargli una eventuale separazione personale, ma non può formare oggetto di un provvedimento giudiziale coercitivo-inibitorio, salvo che gli atti di disposizione comportino la concreta violazione degli obblighi di assistenza economico-materiale della famiglia incombenti sul coniuge proprietario, o costituiscano addirittura attuazione di un disegno preordinato a sottrarsi alla loro osser¬vanza, nel qual caso i familiari, suoi creditori, sono legittimati all’esercizio di azioni cautelari o di conservazione delle garanzie patrimoniali (fattispecie nella quale il marito aveva manifestato l’intenzione di vendere la casa familiare, di sua esclusiva proprietà, per trasferirsi con i familiari in altro alloggio, contro la volontà della moglie).
Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 1990, n. 2540 (Arch. Civ., 1990, 782)
L’art. 219 c. c. (nel testo novellato dalla l. 19 maggio 1975, n. 151) – che riconosce al coniuge la facoltà di pro¬vare con ogni mezzo, nei confronti dell’altro, la proprietà esclusiva di un bene (primo comma) ed aggiunge che i beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi (2° comma) – concerne essenzialmente le controversie relative a beni mobili, ed è volto principalmente a derogare, attraverso la presunzione posta nel 2° comma, alla regola generale sull’onere della prova in tema di rivendicazione, mentre nessuna deroga configura alla normale disciplina della prova dei con¬tratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari; pertanto, quando un immobile sia intestato ad uno dei co¬niugi in virtù di idoneo titolo d’acquisto, l’altro coniuge che alleghi l’interposizione reale non può provarla né con giuramento né con testimoni, giacché l’obbligo dell’interposto di ritrasmettere all’interponente i diritti acquistati deve risultare, sotto pena di nullità, da atto scritto, salvo che nell’ipotesi di perdita incolpevole del documento e non anche, dunque, nel caso in cui si deduce un semplice principio di prova per iscritto.
Cass. civ. Sez. I, 9 luglio 1989, n. 3241 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel conto corrente bancario cointestato a più persone, con facoltà di compiere operazioni anche separatamente, i rapporti interni tra i correntisti sono regolati non dall’art. 1854 c. c., che riguarda i rapporti tra i medesimi e la banca, ma dall’art. 1298, 2° comma, c. c., in base al quale il debito od il credito solidale si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente; pertanto, ove il saldo attivo del conto cointestato a due coniugi risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno soltanto di essi (nella specie, trattandosi dell’indennità di buonuscita riscossa con il collocamento a riposo), si deve escludere che l’altro coniuge, nel rapporto interno, possa avanzare diritti sul saldo medesimo.
Trib. Catania, 11 luglio 1986 (Dir. Famiglia, 1987, 228)
Qualora uno dei coniugi alleghi di essere comproprietario di un bene immobile, acquistato dall’altro, per il fatto di avere sborsato metà del denaro impiegato per l’acquisto, egli deduce la sussistenza di una interposizione reale, da dimostrare con atto scritto, essendo consentita la prova testimoniale soltanto nei casi di cui agli art. 2724 e 2725 c. c.; né può farsi ricorso all’art. 219 c. c., che si applica essenzialmente alle controversie relative a beni mobili.
Trib. Milano, 19 settembre 1983 (Dir. Famiglia, 1984, 159)
L’art. 219 c. c., secondo cui il coniuge può provare con ogni mezzo nei confronti dell’altro la proprietà esclusiva di un bene, si applica soltanto alle controversie relative ai beni mobili, perché la prova della proprietà degli immobili risulta di solito da un titolo non equivoco; ne consegue che, allorquando un immobile sia intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo di acquisto, l’altro coniuge che alleghi l’interposizione reale, non può provarla né con testimoni e neppure con giuramento, giacché l’obbligo dell’interposto di trasmettere il bene all’interponente deve risultare, a pena di nullità, da atto scritto.
Cass. civ. Sez. Unite, 23 aprile 1982, n. 2494 (Foro It., 1982, I, 1895 nota di JANNARELLI)
L’art. 219 cod. civ. (nel testo novellato dalla legge 19 maggio 1975, n. 151) – che riconosce al coniuge la facoltà di “provare con ogni mezzo, nei confronti dell’altro, la proprietà esclusiva di un bene” (primo comma) ed aggiun¬ge che “i beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi” (secondo comma) – concerne essenzialmente le controversie relative a beni mobili, siccome la prova della proprietà degli immobili risulta di solito da un titolo non equivoco, ed è volto principalmen¬te a derogare, attraverso la presunzione posta nel secondo comma, alla regola generale sull’Onere della prova in tema di rivendicazione, mentre nessuna deroga configura alla normale disciplina della prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari. Pertanto, quando un immobile sia intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo d’acquisto, l’altro coniuge che alleghi l’interposizione reale non può provarla né con giuramento, né con testimoni, giacché l’obbligo dell’interposto di ritrasmettere all’interponente i diritti acquistati deve risultare, sotto pena di nullità, da atto scritto.