L’assegno di divorzio ha finalità assistenziale con la quale può concorrere, in certe ipotesi, quella compensativa

Cass. civ. Sez. I Ordinanza, 7 ottobre 2019, n. 24934
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 3555/2016 proposto da:
C.M.G., rappresentato dagli avvocati Daniela Gasparin e Stefania Santilli;
– ricorrente –
contro
Co.Do., rappresentata dall’avvocato Armando Cecatiello;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2892/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 3 luglio 2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21 maggio 2019 da Dott. LAMORGESE ANTONIO PIETRO.
Svolgimento del processo
CHE:
1.- La Corte d’appello di Milano, con sentenza del 3 luglio 2015, rigettando il gravame di C.M.G. avverso la sentenza impugnata, ha confermato la statuizione che imponeva alla ex moglie Co.Do. di contribuire al mantenimento della figlia minore C. (nata nel (OMISSIS)), affidata ad entrambi e collocata prevalentemente presso il padre, mediante il rimborso della metà delle spese straordinarie, e la statuizione che imponeva al C. di pagare alla ex moglie l’assegno divorzile nella misura di Euro 680,00 mensili.
2.- La Corte, con riguardo al contributo di mantenimento della figlia – che il C. aveva chiesto di rivedere, ponendo a carico della ex moglie l’obbligo di versare un importo fisso periodicamente – ha motivato, evidenziando lo squilibrio delle condizioni reddituali dei coniugi e il fatto che egli potesse provvedervi autonomamente; ha argomentato poi che la funzione all’assegno divorzile è di consentire all’ex coniuge di conservare il tenore di vita matrimoniale, risultando giustificata la statuizione del tribunale, tenuto conto della disparità economica tra gli ex coniugi: la situazione reddituale della Co. non era migliorata rispetto a quella goduta in costanza di matrimonio (percepiva una retribuzione di Euro 2000,00 mensili da lavoro impiegatizio, aveva acquistato un appartamento con i ricavi della vendita della casa coniugale in comproprietà con l’ex marito e con un mutuo, era titolare di assegno di mantenimento ottenuto in sede di separazione consensuale); il C. invece traeva dal suo lavoro autonomo di consulenza un reddito più alto (Euro 105294,00 nell’anno 2013), aveva acquistato anch’egli un appartamento, locato a terzi, con i ricavi della vendita della casa coniugale, godeva di un rilevante patrimonio immobiliare, seppure in parte di origine ereditaria, e dei vantaggi economici derivanti dall’unione con un compagno, dipendente dell’Alitalia; inoltre, durante il periodo di separazione, aveva concordato e pagato sia il contributo per la figlia (di circa Euro 600,00), quando abitava con la madre, sia l’assegno alla ex moglie, senza chiederne la revisione.
3.- Avverso questa sentenza il C. ha proposto ricorso per cassazione e una memoria fuori termine (di cui non si può tenere conto), cui si è opposta la Co. con controricorso e memoria.

Motivi della decisione

CHE:
1.- Con il primo motivo il C. denuncia violazione e falsa applicazione degliartt. 147 c.c.e ss.. e art. 337 ter c.c., per avere in sostanza assolto la Co. dall’obbligo di contribuire al mantenimento della figlia, divenuta maggiorenne in corso di causa, avendo ignorato i parametri normativi per la determinazione del suddetto contributo, erroneamente valutato i redditi degli ex coniugi e trascurato che egli conviveva con la ragazza e provvedeva da solo al suo mantenimento.
1.1.- Il motivo è fondato.
La Corte, ponendo a carico della Co. l’obbligo di provvedere al solo rimborso della metà delle spese straordinarie occorrenti per la figlia, in ragione della “situazione di evidenziato squilibrio tra le situazioni delle parti” e del fatto che il C. “ben (potesse…) con le sue disponibilità provvedere al mantenimento della figlia”, ha in effetti ignorato i parametri normativi riguardanti il mantenimento dei figli minori, di cui all’art. 337 ter c.c., comma 4, utilmente riferibili nei limiti della compatibilità anche ai figli maggiorenni, tra i quali vengono in considerazione le “attuali esigenze del figlio”, “le risorse economiche di entrambi i genitori” e “i tempi di permanenza presso ciascun genitore”. In particolare, ha omesso di considerare che la figlia conviveva con il C., il quale sosteneva gran parte dell’onere di mantenimento della stessa, nè ha considerato che ogni genitore è tenuto al mantenimento dei figli, anche maggiorenni, nei limiti delle proprie disponibilità, non essendo consentito ad uno di essi di essere totalmente o parzialmente esonerato sol perché l’altro genitore goda di migliori condizioni reddituali. La Corte, di conseguenza, ha falsamente applicato i pertinenti parametri normativi in materia, omettendo di accertare i fatti considerati dalla legge come condizionanti l’attribuzione patrimoniale di cui si discute.
2.- Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,artt.4,5e10e art. 2697 c.c., per avere posto a suo carico il pagamento dell’assegno divorzile, all’esito di una erronea valutazione del tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio, omettendo di valutare l’adeguatezza dei redditi della ex moglie (tra l’altro stimati al netto, al contrario dei propri redditi stimati al lordo), che erano certamente sufficienti a garantirle un tenore di vita autonomo e dignitoso, senza considerare la provenienza ereditaria del patrimonio immobiliare e che la figlia era quasi interamente a suo carico.
2.1.- Il motivo è fondato nei termini che si diranno.
2.2.- laL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, contiene un parametro – la disponibilità di “mezzi adeguati” o “comunque (l’impossibilità di) procurarseli per ragioni oggettive” – e alcuni criteri da utilizzare per l’attribuzione e la determinazione dell’assegno divorzile a favore del coniuge richiedente: le condizioni e i redditi dei coniugi, le ragioni della decisione, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune, tutti da valutare anche in rapporto alla durata del matrimonio.
2.3.- La nozione di adeguatezza dei mezzi è stata intesa dalla giurisprudenza tradizionale come finalizzata alla conservazione (tendenziale) del tenore di vita matrimoniale, come desumibile dalle condizioni economiche del coniuge destinatario della domanda, all’esito, in sostanza, del cosiddetto confronto reddituale tra i coniugi al momento della decisione (a partire da Cass. SU n. 11490 e 11492 del 1990).
Sono note le numerose e fondate critiche al suddetto parametro che hanno indotto la giurisprudenza a sostituirlo con quello, intrinsecamente inerente alla nozione di adeguatezza dei mezzi, di indipendenza economica, intesa come possibilità di vita dignitosa (Cass. n. 11504 del 2017): la Corte ha precisato che “per determinare la soglia dell’indipendenza economica occorrerà avere riguardo alle indicazioni provenienti, nel momento storico determinato, dalla coscienza collettiva e, dunque, né bloccata alla soglia della pura sopravvivenza né eccedente il livello della normalità” (Cass. n. 3015 del 2018).
2.4.- Il Collegio ritiene che questo esito interpretativo non sia stato sovvertito dalle Sezioni Unite n. 18287 del 2018, ma solo in parte corretto, e che quindi si debba ribadire, con le precisazioni che si faranno di seguito.
2.5.- Le Sezioni Unite hanno confermato che: a) il parametro (della conservazione) del tenore di vita non ha più cittadinanza nel nostro sistema; b) l’onere di provare l’esistenza delle condizioni legittimanti l’attribuzione e la quantificazione dell’assegno grava sul coniuge richiedente l’assegno, mentre in passato si poneva l’onere di provare l’insussistenza delle relative condizioni a carico del coniuge potenzialmente obbligato; c) l’assegno svolge una finalità (anche o principalmente) assistenziale.
Per altro verso, le Sezioni Unite hanno: a) evidenziato l’ulteriore e concorrente finalità compensativa o perequativa dell’assegno, nei casi in cui vi sia la prova – di cui è onerato il coniuge richiedente l’assegno, trattandosi di fatto costitutivo del diritto azionato – che la sperequazione reddituale in essere all’epoca del divorzio sia direttamente causata dalle scelte concordate di vita degli ex coniugi, per effetto delle quali un coniuge abbia sacrificato le proprie aspettative professionali e reddituali per dedicarsi interamente alla famiglia, in tal modo contribuendo decisivamente alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune (da ultimo, Cass. n. 10781 e 10782 del 2019, n. 6386 del 2019); b) le Sezioni Unite non hanno condiviso la rigida distinzione tra criteri di attribuzione (an debeatur) e di quantificazione (quantum debeatur) dell’assegno, in tal modo innovando rispetto al precedente orientamento consolidato, con l’effetto che per l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, devono applicarsi i criteri equiordinati di cui alla prima parte dell’art. 5, comma 6, al fine di decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno.
2.6.- Ad avviso del Collegio, risulta confermata la imprescindibile finalità assistenziale dell’assegno, con la quale può concorrere, in determinati casi, quella compensativa.
È sufficiente constatare che in tutti i casi in cui l’assegno non sia riconosciuto, non ricorrendo in concreto le condizioni per valorizzare la ricordata funzione compensativa, è perché il coniuge richiedente, evidentemente, si trova in condizioni di “autosufficienza economica” (cfr. Cass. n. 6386 del 2019). L’esistenza di un obbligo di pagamento dell’assegno implica un perdurante legame di dipendenza (economica) tra gli ex coniugi che non c’è quando detto obbligo non sussista, cioè quando (e proprio perché) entrambi sono “indipendenti economicamente”.
È opportuno precisare che l’assegno non è comunque dovuto qualora entrambi i coniugi non abbiano mezzi propri adeguati per vivere dignitosamente, pure in presenza di un relativo squilibrio delle rispettive condizioni reddituali e patrimoniali.
2.7.- La funzione assistenziale dell’assegno, come si è detto, può anche concorrere con (o essere assorbita dalla) funzione compensativa-perequativa, a determinate condizioni, entrambe costituenti espressione della solidarietà post-coniugale valorizzata dalle Sezioni Unite.
Il parametro della (in)adeguatezza dei mezzi o della (im)possibilità di procurarseli per ragioni oggettive va quindi riferito sia alla possibilità di vivere autonomamente e dignitosamente (e, quindi, all’esigenza di garantire detta possibilità al coniuge richiedente), sia all’esigenza compensativa del coniuge più debole per le aspettative professionali sacrificate, per avere dato, in base ad accordo con l’altro coniuge, un dimostrato e decisivo contributo alla formazione del patrimonio comune e dell’altro coniuge.
La suddetta valutazione, da operare con riferimento ai criteri indicati dalla norma (art. 5, comma 6), tra i quali la durata del matrimonio, deve tenere conto delle predette esigenze che integrano il parametro dell’adeguatezza, con effetti sul piano anche della quantificazione dell’assegno in concreto.
2.8.- Nell’ambito di questo accertamento, lo squilibrio economico tra le parti e l’alto livello reddituale del coniuge destinatario della domanda non costituiscono, da soli, elementi decisivi per l’attribuzione e la quantificazione dell’assegno.
Il mero dato della differenza reddituale tra i coniugi è coessenziale alla ricostituzione del tenore di vita matrimoniale, che è però estranea alle finalità dell’assegno nel mutato contesto.
L’attribuzione e la quantificazione dello stesso non sono variabili dipendenti soltanto dall’alto (o dal più alto) livello reddituale di uno degli ex coniugi, non trovando alcuna giustificazione l’idea che quest’ultimo sia comunque tenuto a corrispondere all’altro tutto quanto sia per lui “sostenibile” o “sopportabile”, quasi ad evocare un prelievo forzoso in misura proporzionale ai suoi redditi.
Un esito interpretativo di questo genere si risolverebbe in una imposizione patrimoniale priva di causa, che sarebbe arduo giustificare in nome della solidarietà post-coniugale.
2.9.- Non varrebbe evocare, in senso contrario, l’esigenza (che si assume inerente all’assegno divorzile) “riequilibratrice” delle condizioni reddituali degli ex coniugi, la quale non trova una specifica conferma come funzione autonoma dell’istituto nel testo della norma (art. 5, comma 6, cit.). La suddetta esigenza era coerente, piuttosto, nella diversa prospettiva della conservazione del tenore di vita matrimoniale, rispetto alla quale il riequilibrio dei redditi costituiva l’esito finale di quel confronto reddituale che costituiva il fulcro di ogni valutazione in ordine alla attribuzione e quantificazione dell’assegno.
E tuttavia, una volta superata la suddetta prospettiva, il (parziale) riequilibrio dei redditi altro non è che l’effetto pratico dell’imposizione patrimoniale realizzata con l’attribuzione dell’assegno alle condizioni date (non indipendenza economica e/o necessità di compensazione del particolare contributo dato da un coniuge durante la vita matrimoniale).
3.- Nella specie, la ratio decidendi esposta a fondamento della decisione, con la quale la Corte di merito ha attribuito e quantificato l’assegno divorzile in favore della Co., si basa sull’affermata esigenza di fare conservare a quest’ultima il tenore di vita matrimoniale, all’esito del mero confronto reddituale che ha evidenziato il divario tra le condizioni economiche delle parti.
Detta ratio contrasta, tuttavia, con i ricordati principi che regolano la materia, essendo l’assegno divorzile previsto dalla legge per consentire al coniuge richiedente più debole di soddisfare le esigenze di vita autonoma e dignitosa che, dopo le Sezioni Unite del 2018, devono tenere conto anche delle aspettative professionali sacrificate, in base ad accordo con l’altro coniuge, per avere dato un particolare e decisivo contributo alla formazione del patrimonio comune e dell’altro coniuge.
4.- In conclusione, la sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte di merito per un nuovo esame, alla luce dei principi indicati, e per provvedere sulle spese della presente fase.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.
Così deciso in Roma, il 21 maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2019

L’ex convivente che ha contribuito a costruire la casa familiare di proprietà dell’altro convivente ha diritto alla restituzione delle somme impiegate

Cass. civ. Sez. II, 3 ottobre 2019, n. 24721
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12080/2015 R.G., proposto da:
F.P.S.S., rappresentato e difeso dall’avv. Gerardo Pileci e dall’avv. Mauro Bilotta, con domicilio in Sassari alla Via Cavour n. 88. – ricorrente –
contro
K.M.S., rappresentata e difesa dall’avv. Francesco Fancello, con domicilio in Nuoro alla Via Giovanni XXIII, n. 8;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, n. 100/2014, depositata in data 7.3.2014;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 1.4.2019 dal Consigliere Dott. Giuseppe Fortunato.
Svolgimento del processo
K.M.S. ha adito il tribunale di Sassari, esponendo che, durante il periodo di convivenza con il F., questi aveva edificato su un proprio fondo un immobile ad uso abitativo, impiegando anche somme di spettanza dell’attrice, per un importo pari alla metà dei costi di edificazione; che con scrittura privata del 15.12.1999 il convenuto aveva espressamente riconosciuto alla K. la comproprietà della costruzione per la quota del 50%.
Ha chiesto di disporre la divisione del bene o, in via subordinata, di condannare il resistente al versamento di un importo pari alla metà degli esborsi sostenuti per la realizzazione dell’edificio.
F.P.S. ha impugnato la scrittura per violenza, assumendo che il consenso gli era stato estorto dietro la minaccia della K. di abbandonare la casa familiare, portando con sé i figli.
Ha chiesto di respingere la domanda di restituzione delle somme impiegate per la realizzazione del manufatto.
Il Tribunale ha rigettato la domanda di accertamento della comproprietà dell’immobile, ma ha riconosciuto all’attrice un credito di Euro 80.233,49 a titolo di indennità da ingiustificato arricchimento. La sentenza è stata confermata dalla Corte distrettuale, la quale, riqualificata la domanda come azione personale di restituzione, ha ritenuto provato che la K. avesse concorso nel sostenere i costi di costruzione e che le spettasse il rimborso delle 50% delle somme corrisposte al resistente.
La cassazione della sentenza è stata chiesta da F.P.S.S. sulla base di tre motivi.
K.M.S. ha depositato controricorso.
Motivi della decisione

1. Il primo motivo censura la violazionedell’art. 134 c.p.c.eart. 111 Cost., in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per difetto assoluto o contraddittorietà di motivazione, per aver la sentenza ritenuto che la richiesta di rimborso del 50% dei costi di costruzione costituisse un’azione personale di restituzione, non considerando che la domanda, essendo introdotta sul presupposto della contitolarità dell’immobile ed essendo associata alla domanda di divisione, era volta ad ottenere eventuali conguagli che scaturissero dall’esito delle operazioni divisionali.
Lamenta – inoltre – il ricorrente che nessuna restituzione poteva essere ordinata senza previamente accertare se il titolo giustificativo degli esborsi desse luogo ad obblighi restitutori o a mere pretese di carattere indennitario.
Il secondo motivo denuncia la violazionedell’art. 112 e 115 c.p.c.in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, sostenendo che la domanda di restituzione era fondata sulla situazione di comproprietà dell’immobile e non poteva avere altro oggetto che il pagamento di eventuali conguagli tra i condividenti, non essendo qualificabile come azione personale di restituzione.
1.1. I due motivi, che vertono su questioni strettamente connesse e che vanno esaminati congiuntamente, sono infondati.
L’esame diretto della citazione conduce a rilevare che la K., dopo aver rivendicato – in via principale – la comproprietà dell’immobile, chiedendo la divisione giudiziale e l’attribuzione di eventuali conguagli, aveva chiesto, in via subordinata, che le fosse comunque restituito un importo pari al 50% dei costi della costruzione, versato, per tale causale, all’ex convivente (cfr. ricorso pag. 6).
La domanda subordinata era volta a reintegrare il patrimonio della resistente qualora non fosse stata riconosciuta la comproprietà dell’immobile e non fosse stata disposta la divisione, divisione che invece costituiva il presupposto indispensabile per l’eventuale attribuzione di somme a titolo di conguaglio, il che impediva di identificare le due azioni.
2. Ciò posto, non sussiste – anzitutto – alcuna carenza assoluta di motivazione, poiché l’esame della pronuncia consente di comprendere agevolmente le ragioni della condanna, avendo il giudice di merito evidenziato che le dichiarazioni del F. contenute nella scrittura del 15.12.1999 comprovavano che questi aveva ricevuto in importo pari al 50% dei costi della costruzione in vista della realizzazione della casa familiare e che, non essendosi concretizzato l’acquisto della comproprietà del bene da parte della resistente, le somme andavano restituite.
La contribuzione oggetto di lite, documentata dalla scrittura del 15.12.1999, era, invero, indebita.
L’accertamento in fatto – insindacabile in questa sede sotto i profili dedotti dal ricorrente – che la dazione di denaro era rivolta al solo scopo di realizzare la casa familiare, destinata, nelle previsioni della ricorrente, a divenire comune (cfr. sentenza pag. 8), giustificava, ai sensidell’art. 2033 c.c., il rimborso delle somme versate a titolo di concorso nelle spese di costruzione del manufatto rimasto in proprietà esclusiva del F. (conformemente a quanto già statuito da questa Corte con riferimento alla disciplina della comunione legale dei coniugi per l’ipotesi di realizzazione di una costruzione su un fondo in titolarità esclusiva di uno di essi, ma con l’impiego di denaro di entrambi: Cass. 27412/2018; Cass. 20508/2010; Cass. 7060/2004; Cass. 8585/1999; Cass. 407671998), spettando semmai al ricorrente l’onere di provare che il pagamento fosse avvenuto per una causale (ad es. a titolo di liberalità o in virtù dei legami affettivi o di solidarietà tra i conviventi), tale da non legittimare alcuna pretesa restitutoria.
3. Il terzo motivo censura la violazione degliartt. 1362, 1363 e 1324 c.c., in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la sentenza, in violazione dei canoni di interpretazione testuale e sistematica, valorizzato unicamente un inciso contenuto nella scrittura del 15.12.1999 (“avendo contribuito alla metà delle spese”), per accordare alla resistente la restituzione di un importo pari alla metà dei costi di costruzione dell’immobile, mentre il documento non provava affatto che le somme fossero state date in prestito ed anzi poteva giustificare solo l’attribuzione di un’indennità, come dimostrava il fatto che la K. aveva richiesto il pagamento dell’indennizzo exart. 2041 c.c..
Il motivo è inammissibile.
La Corte non ha affatto asserito che la scrittura del 15.12.1999 comprovasse l’effettuazione di un prestito in favore del F., ma ha utilizzato il documento in funzione probatoria, per l’accertamento del concorso nelle spese di costruzione da parte della resistente (e dell’entità delle somme corrisposte), quale fatto oggettivo correttamente ritenuto idoneo a giustificarne la restituzione.
La critica mossa in ricorso, volta a denunziare un erroneo impiego dei criteri di interpretazione contrattuale, non si confronta con la ratio decidendi della pronuncia ed è per tale aspetto inammissibile. Il ricorso è quindi respinto con spese secondo soccombenza, come da liquidazione in dispositivo.
NON sussistono le condizioni per dichiarare che il ricorrente è tenuto a versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, poiché il ricorrente è stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, apri ad Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5600,00 per compenso, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali, in misura del 15%.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 1 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 3 ottobre 2019

L’unica interpretazione sistematicamente coerente e costituzionalmente compatibile dell’art. 570 bis c.p. è quella della sua applicazione anche alla violazione degli obblighi di natura economica che riguardano i figli nati fuori dal matrimonio

Corte cost., 18 luglio 2019, n. 189
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionaledell’art. 570-bis del codice penale, introdotto dall’art.2, comma 1, lettera c), delD.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, recante “Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo1, comma 85, lettera q), dellaL. 23 giugno 2017, n. 103”, nonché degli artt. 2, comma 1, lettera c), e 7, comma 1, lettere b) e o), dello stesso decreto legislativo, promossi dal Tribunale ordinario di Nocera Inferiore, dalla Corte di appello di Milano, dalla Corte di appello di Trento e dal Tribunale ordinario di Civitavecchia, con ordinanze del 26 aprile, del 22 ottobre, del 21 settembre, dell’8 ottobre, del 12 ottobre, del 9 ottobre e del 25 settembre 2018, iscritte rispettivamente ai numeri 109 e 191 del registro ordinanze 2018 e ai numeri 4, 10, 24, 26 e 33 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numero 35, prima serie speciale, dell’anno 2018 e numeri 3, 5, 6, 8, 9 e 10, prima serie speciale, dell’anno 2019;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2019 il Giudice relatore Francesco Viganò.
1.- Con ordinanza del 26 aprile 2018 (r. o. n. 109 del 2018), il Tribunale ordinario di Nocera Inferiore ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimentoall’art. 3 della Costituzione,dell’art. 570-bis del codice penale, “nella parte in cui esclude dall’ambito di operatività della disciplina penale ivi prevista i figli di genitori non coniugati”.
1.1.- Il giudice a quo premette di essere chiamato a giudicare della responsabilità penale di A. B., imputato del reato di omessa prestazione dei mezzi di assistenza ai figli previsto dall’art. 570, secondo comma, numero 2, cod. pen., per non aver versato l’assegno mensile stabilito in favore dei figli nati fuori dal matrimonio, facendo mancare a questi i mezzi di sussistenza.
Osserva il rimettente che nel corso del giudizio era risultato provato – da un lato – che l’imputato, in seguito alla interruzione della convivenza, non aveva versato l’assegno mensile stabilito dal tribunale per i minorenni nei confronti dei figli, ma – dall’altro – che la ex convivente aveva sempre provveduto alle loro necessità, dovendosi pertanto escludere lo stato di bisogno dei medesimi, che costituisce implicito presupposto del delitto contestato all’imputato.
Il giudice rimettente, all’esito dell’istruttoria dibattimentale, aveva pertanto invitato le parti a concludere anche in relazione alla possibile diversa qualificazione del fatto quale violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio, ai sensidell’art. 570-bis cod. pen., applicabile ratione temporis ai fatti di causa, posti in essere a partire dal maggio 2013 con condotta tuttora perdurante.
1.1.1.- Rileva il giudice a quo che tale fattispecie di reato è stata introdotta dall’art.2, comma 1, lettera c), delD.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, recante “Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo1, comma 85, lettera q), dellaL. 23 giugno 2017, n. 103”. Peraltro, essa si limiterebbe a riprodurre le previgenti disposizioni penali di cui all’art.12-sexiesdellaL. 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e all’art.3dellaL. 8 febbraio 2006, n. 54(Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), abrogate dall’art.7, lettere b) e o),delD.Lgs. n. 21 del 2018, “con conseguente continuità nel rapporto di successione nel tempo tra le predette disposizioni normative, trattandosi di un limitato diverso collocamento ordinamentale delle stesse”.
Tuttavia, il rimettente evidenzia come il nuovoart. 570-bis cod. pen.non contenga alcun riferimento, neppure implicito, alla disciplina dei rapporti dei figli con i genitori non coniugati.
Tale lacuna determina, ad avviso del giudice a quo, l’incompatibilità della disposizione conl’art. 3 Cost.”per violazione del principio di uguaglianza e disparità di trattamento tra la tutela penale prevista per i figli di genitori coniugati rispetto alla minore tutela apprestata in favore dei figli nati fuori dal matrimonio”.
Il rimettente sottolinea in proposito come, nel vigore della fattispecie di reato di cui all’art.3dellaL. n. 54 del 2006, una lettura sistematica e costituzionalmente orientata delle disposizioni della legge consentisse di equiparare, anche dal punto di vista penale, la tutela accordata in favore dei figli di genitori non coniugati a quella dei figli nati in costanza di matrimonio (sono citate le sentenze della Corte di cassazione, sesta sezione penale, 22 febbraio-30 marzo 2018, n. 14731 e 6 aprile-19 maggio 2017, n. 25267).
Detta estensione non sarebbe oggi più possibile, in ragione del chiaro dato letterale della disposizione censurata. Una tale situazione normativa sarebbe, ad avviso del rimettente, distonica rispetto “alla totale equiparazione dello status di figlio avvenuta in sede civile” per effetto delD.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154(Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo2dellaL. 10 dicembre 2012, n. 219), con conseguente “irragionevole ed ingiustificata diversità di trattamento nell’ambito dei rapporti tra genitori e figli nati in costanza o al di fuori del matrimonio in palese contrasto con il principio di eguaglianza formale e sostanziale, consacratonell’art. 3 Cost.”.
1.1.2.- In punto di rilevanza, il rimettente sottolinea in sostanza come l’accoglimento della questione consentirebbe di ritenere la responsabilità penale dell’imputato per il delitto in questione.
1.2. – Nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni predette siano dichiarate inammissibili, in quanto il giudice rimettente non avrebbe esperito un tentativo di interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata.
Il giudice a quo, infatti, non avrebbe attribuito il giusto rilievo alla circostanza che l’art.4, comma 2, dellaL. n. 54 del 2006, in forza della quale le disposizioni della predetta legge si applicano anche ai procedimenti relativi a figli di genitori non coniugati, è ancora vigente.
La norma censurata, ove letta in combinato disposto con l’art.4dellaL. n. 54 del 2006, non precluderebbe dunque una interpretazione costituzionalmente orientata, che consenta di ritenere sanzionabile con le pene previstedall’art. 570-bis cod. pen.anche la violazione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento in favore dei figli nati fuori dal matrimonio.
2.- Con le ordinanze, di contenuto largamente sovrapponibile, del 22 ottobre 2018, 8 ottobre 2018 e 25 settembre 2018, rispettivamente iscritte al n. 191 del r. o. 2018 e ai numeri 10 e 33 del r. o. 2019, anche la Corte d’appello di Milano ha sollevato questioni di legittimità costituzionaledell’art. 570-bis cod. pen., nella parte non prevede che la disciplina ivi prevista si applichi anche nei confronti di colui che non adempia alle prestazioni di natura economica stabilite in favore dei figli minorenni nati fuori dal matrimonio. Le questioni sono prospettate in riferimento agliartt. 3 e 30 Cost., nonché – limitatamente all’ordinanza iscritta al n. 191 del r. o. 2018 – agliartt. 76 e 25 Cost.
2.1.- I giudici rimettenti si trovano a giudicare della responsabilità penale di imputati del delitto di cui all’art.3dellaL. n. 54 del 2006, in relazione al mancato pagamento delle somme stabilite dal tribunale per i minorenni a titolo di contributo al mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio.
Essendo intervenuto, nelle more del processo, ilD.Lgs. n. 21 del 2018, che ha abrogato l’art.3dellaL. n. 54 del 2006introducendo contestualmentel’art. 570-bis cod. pen., i giudici a quibus si domandano se la mancata estensione della disciplina prevista dalla nuova disposizione al fatto commesso a danno dei figli minorenni nati fuori dal matrimonio sia compatibile con i parametri costituzionali sopra indicati, non essendo peraltro praticabile – ad avviso dei rimettenti – alcuna interpretazione costituzionalmente orientata di tale disciplina.
2.1.1.- In particolare, la disciplina censurata determinerebbe – in violazionedell’art. 3 Cost.- un’irragionevole disparità di trattamento con riferimento alla diversa tutela assicurata ai figli nati all’interno e al di fuori del matrimonio, in contrasto con la costante perequazione delle due posizioni da parte dell’ordinamento e con l’obbligo, discendentedall’art. 30 Cost., di mantenere i figli, anche se nati fuori dal matrimonio.
Nell’ordinanza iscritta al n. 191 del r. o. 2018 si argomenta, altresì, che l’introduzionedell’art. 570-bis cod. pen.”abbia integrato un eccesso di delega in violazione dell’art. 76 in relazioneall’art. 25 Cost.”, dal momento che laL. 23 giugno 2017, n. 103(Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario) avrebbe richiesto la mera ricollocazione nel codice penale di una serie di norme incriminatrici previste in leggi speciali, senza però autorizzare il governo ad abrogare fattispecie incriminatrici previste in precedenza dalla legge.
2.1.2.- Evidente sarebbe d’altra parte, in tutti i giudizi a quibus, la rilevanza delle questioni sollevate, il cui accoglimento consentirebbe una pronuncia di responsabilità penale degli imputati, altrimenti preclusa.
2.2.- Anche in tali giudizi di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo – con riferimento alle ordinanze iscritte ai numeri 191 del r. o. 2018 e 10 del r. o. 2019 – che le questioni predette siano dichiarate infondate, sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate che sarebbe già stata fornita dalla giurisprudenza della Corte di cassazione e che consentirebbe di estendere la tutela penale ivi prevista anche ai figli nati fuori dal matrimonio.
Con riferimento all’ordinanza iscritta al n. 33 del r. o. 2019, il Presidente del Consiglio dei ministri, come sopra rappresentato, chiede invece che le questioni siano dichiarate inammissibili, non avendo il giudice compiuto alcun tentativo di compiere un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata.
3.- Con ordinanza del 9 ottobre 2018, iscritta al n. 26 del r. o. 2019, la Corte d’appello di Milano ha parimenti sollevato, in riferimento agliartt. 3 e 30 Cost., questioni di legittimità costituzionaledell’art. 570-bis cod. pen., “nella parte in cui non prevede che la disciplina in esso prevista si applichi anche nei confronti di colui che non adempia alle prescrizioni di natura economica stabilite in favore dei figli maggiorenni e senza colpa non economicamente autosufficienti nati fuori dal matrimonio”.
3.1. – Il giudice a quo evidenzia di dover giudicare della responsabilità penale di un imputato per il delitto di cui all’art.3dellaL. n. 54 del 2006, in relazione al mancato pagamento dell’assegno mensile di mantenimento in favore del figlio maggiorenne nato fuori dal matrimonio, ma senza colpa non economicamente indipendente.
3.1.1.- A parere del rimettente, la mancata estensione a quest’ultimo della tutela apprestata dal nuovoart. 570-bis cod. pen.determinerebbe la violazione degliartt. 3 e 30 Cost., per le medesime ragioni poste alla base delle ordinanze iscritte ai numeri 10 e 33 del r. o. 2019, sopra menzionate (punto 2.1.1.).
3.1.2.- La rilevanza delle questioni discenderebbe, anche in questo caso, dalla considerazione che solo in caso di loro accoglimento potrebbe essere riconosciuta la responsabilità penale dell’imputato.
3.2. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, non avendo il giudice a quo esperito alcun tentativo di sperimentare un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata.
4. – Conordinanza del 21 settembre 2018, iscritta al n. 4 del r. o. 2019, la Corte di appello di Trento ha sollevato questioni di legittimità costituzionale “relativamente agli articoli 2 comma 1 lettera c), e 7 comma 1 lettere b) e o) delD.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21nella parte in cui è abrogata la previsione incriminatrice della violazione degli obblighi di assistenza familiare da parte del genitore non coniugato, per contrasto con gliartt. 25 e 76 della Costituzione”.
4.1.- La Corte rimettente espone di essere investita dell’appello proposto da un imputato condannato per il delitto di cui all’art.12-sexiesdellaL. n. 898 del 1970, come richiamato dall’art.3dellaL. n. 54 del 2006, in relazione al mancato pagamento delle somme dovute a figli nati fuori dal matrimonio.
4.1.1.- Il giudice a quo osserva come l’abrogazione – ad opera dell’art.7, comma 1, lettere b) e o),delD.Lgs. n. 21 del 2018- degli artt.12-sexiesdellaL. n. 898 del 1970e 3 dellaL. n. 54 del 2006, e la loro contestuale sostituzione conl’art. 570-bis cod. pen.- ad opera dell’art. 2, comma 1, lettera c), del medesimo decreto legislativo – abbiano determinato la sopravvenuta penale irrilevanza delle condotte di mancato versamento dell’assegno stabilito dall’autorità giudiziaria in favore dei figli nati fuori dal matrimonio, in precedenza ritenute dalla giurisprudenza della Cassazione riconducibili all’alveo applicativo dell’art.3dellaL. n. 54 del 2006, in forza del richiamo contenuto nell’art. 4, comma 2, della medesima legge.
Un tale effetto di abolitio criminis si porrebbe tuttavia in contrasto con il criterio direttivo contenuto nell’art.1, comma 82, lettera q), dellaL. n. 103 del 2017, che si limitava a delegare il Governo a trasferire nel codice penale una serie di disposizioni previste da leggi speciali, senza però determinare alcuna modificazione della rispettiva portata applicativa. Dal che, ad avviso della Corte rimettente, l’illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate delD.Lgs. n. 21 del 2018, per contrasto con gliartt. 25, secondo comma, e 76 Cost.
4.1.2.- Le questioni prospettate sarebbero d’altra parte rilevanti nel giudizio a quo, posto che il loro accoglimento determinerebbe la possibilità di confermare la sentenza di condanna già pronunciata a carico dell’imputato.
Esse sarebbero altresì ammissibili ancorché in malam partem, sulla scorta dei principi già affermati da questa Corte nella sentenza n. 5 del 2014.
4.2.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate, alla luce dell’interpretazione sopravvenuta fornita dalla Corte di cassazione, la quale avrebbe già ritenuto la perdurante efficacia dell’estensione ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati della disciplina sanzionatoria di cui all’art.3dellaL. n. 54 del 2006.
5. Infine, con ordinanza del 12 ottobre 2018, iscritta al n. 24 del r. o. 2019, il Tribunale ordinario di Civitavecchia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale del solo art.2, comma 1, lettera c), delD.Lgs. n. 21 del 2018, “nella parte in cui non prevede chel’art. 570-bis cod. pen.si applichi anche al genitore che violi gli obblighi di natura economica disposti nei procedimenti relativi ai figli nati fuori dal matrimonio”, in riferimento agliartt. 76 e 25, secondo comma, Cost.
5.1.- Il giudice a quo espone di dover giudicare della responsabilità penale di un imputato per il delitto di cui all’art.3dellaL. n. 54 del 2006, in relazione al mancato versamento di somme dovute a titolo di contributo al mantenimento della figlia minore, nata fuori dal matrimonio.
5.1.1.- Anche il Tribunale ordinario di Civitavecchia osserva che la disposizione censurata, trasferendo nel nuovoart. 570-bis cod. pen.la fattispecie criminosa precedentemente prevista dall’art.3dellaL. n. 54 del 2006, avrebbe lasciato impunite le condotte di mancato adempimento degli obblighi di natura economica stabiliti dall’autorità giudiziaria in favore dei figli nati fuori dal matrimonio, in precedenza riconducibili alla disposizione abrogata secondo la giurisprudenza prevalente e più recente della Corte di cassazione.
Tale parziale abolitio criminis si porrebbe, tuttavia, in contrasto con il criterio direttivo di cui all’art.1, comma 85, lettera q), dellaL. n. 103 del 2017, che – come chiarito dalla relazione illustrativa del Governo allo schema di decreto legislativo – delegava il Governo ad attuare un mero “riordino” della materia penale in relazione alle fattispecie menzionate, “ferme restando le scelte incriminatrici già operate dal Legislatore”; con conseguente violazione degliartt. 76 e 25, secondo comma, Cost.
5.1.2.- Le questioni sarebbero rilevanti nel giudizio a quo, dal momento che – in assenza di dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata – la condotta contestata all’imputato non ricadrebbe nell’ambito applicativo del nuovoart. 570-bis cod. pen., che pure si porrebbe in rapporto di piena continuità normativa con l’art.3dellaL. n. 54 del 2006, a suo tempo contestato all’imputato medesimo.
Esse sarebbero, altresì, ammissibili nonostante i loro effetti in malam partem, in applicazione – in particolare – dei principi enunciati da questa Corte nella sentenza n. 5 del 2014.
5.2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate.
L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, in questo caso, tre diversi motivi di inammissibilità.
Anzitutto, l’interpretazione dell’art.3dellaL. n. 54 del 2006posta a base della questione, secondo cui tale previgente disposizione sarebbe stata applicabile al mancato adempimento degli obblighi stabiliti dal giudice in favore del figlio nato fuori dal matrimonio, non risulterebbe del tutto stabilizzata, stante la presenza di indirizzi ancora contrastanti presso la giurisprudenza di legittimità.
In secondo luogo, il giudice a quo si sarebbe sottratto al doveroso tentativo di interpretazione conforme a Costituzione della disposizione impugnata, non chiarendo in particolare perché tale interpretazione non sia praticabile.
Infine, il rimettente non avrebbe correttamente individuato la disposizione censurata: lo scrutinio avrebbe, infatti, dovuto estendersi all’art.4dellaL. n. 54 del 2006, ancor oggi in vigore.
Alla luce di tali considerazioni, dovrebbe in conclusione escludersi che la disposizione censurata abbia apportato modifiche all’ambito applicativo delle incriminazioni previgenti, con conseguente insussistenza dell’eccesso di delega lamentato dal rimettente.
5.3.- In prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria, nella quale – dopo aver ribadito le eccezioni e gli argomenti spiegati nell’atto d’intervento – ha richiamato una sentenza di legittimità nel frattempo sopravvenuta (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 24 ottobre-12 dicembre 2018, n. 55744), la quale ha confermato che il precedente orientamento volto a estendere la portata dell’art.3dellaL. n. 54 del 2006al mancato versamento dell’assegno in favore dei figli nati fuori dal matrimonio non è stato superato dalla novella introdottadall’art. 570-bis cod. pen., che si sarebbe limitato a traslare la previsione della sanzione penale già stabilita dalla disposizione previgente all’interno del codice penale; di talché l’unica interpretazione sistematicamente coerente e costituzionalmente compatibile della novella è quella della sua applicazione anche alla violazione degli obblighi di natura economica che riguardano i figli nati fuori dal matrimonio.
Il rimettente avrebbe tuttavia omesso di sperimentare una tale interpretazione, con conseguente inammissibilità delle questioni prospettate.

Motivi della decisione

1.- Con ordinanza iscritta al n. 109 del r. o. 2018, il Tribunale ordinario di Nocera Inferiore ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimentoall’art. 3 della Costituzione,dell’art. 570-bis del codice penale, “nella parte in cui esclude dall’ambito di operatività della disciplina penale ivi prevista i figli di genitori non coniugati”.
2.- Con le ordinanze, di contenuto largamente sovrapponibile, rispettivamente iscritte al n. 191 del r. o. 2018 e ai numeri 10 e 33 del r. o. 2019, anche la Corte d’appello di Milano ha sollevato questioni di legittimità costituzionaledell’art. 570-bis cod. pen., nella parte in cui non prevede che la disciplina ivi prevista si applichi anche nei confronti di colui che non adempia alle prestazioni di natura economica stabilite in favore dei figli minorenni nati fuori dal matrimonio. Tali questioni sono formulate in riferimento agliartt. 3 e 30 Cost., nonché – limitatamente all’ordinanza iscritta al n. 191 del r. o. 2018 – agliartt. 76 e 25 Cost.
3.- Con ordinanza iscritta al n. 26 del r. o. 2019, la Corte d’appello di Milano ha parimenti sollevato, in riferimento agliartt. 3 e 30 Cost., questioni di legittimità costituzionaledell’art. 570-bis cod. pen., “nella parte in cui non prevede che la disciplina in esso prevista si applichi anche nei confronti di colui che non adempia alle prescrizioni di natura economica stabilite in favore dei figli maggiorenni e senza colpa non economicamente autosufficienti nati fuori dal matrimonio”.
4.- Con ordinanza iscritta al n. 4 del r. o. 2019, la Corte di appello di Trento ha poi sollevato, in riferimento agliartt. 25, secondo comma, e 76 Cost., questioni di legittimità costituzionale “relativamente agli articoli2 comma 1 lettera c)e7 comma 1 lettere b) e o)delD.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21”, recante “Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’art.1, comma 85, lettera q), dellaL. 23 giugno 2017, n. 103”, “nella parte in cui è abrogata la previsione incriminatrice della violazione degli obblighi di assistenza familiare da parte del genitore non coniugato”.
5.- Con ordinanza iscritta al n. 24 del r. o. 2019, il Tribunale ordinario di Civitavecchia ha infine sollevato, in riferimento agliartt. 76 e 25, secondo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale del solo art.2, comma 1, lettera c), delD.Lgs. n. 21 del 2018, “nella parte in cui non prevede chel’art. 570-bis cod. pen.si applichi anche al genitore che violi gli obblighi di natura economica disposti nei procedimenti relativi ai figli nati fuori dal matrimonio”.
6.- Deve preliminarmente disporsi la riunione dei predetti giudizi, che pongono questioni analoghe, e si fondano su argomenti in larga misura comuni.
In effetti, tutte le ordinanze censurano nella sostanza il nuovoart. 570-bis cod. pen., introdotto dall’art.2, comma 1, lettera c), delD.Lgs. n. 21 del 2018, nella parte in cui – sostituendo l’art.12-sexiesdellaL. 1 dicembre 1970, n. 898(Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e l’art.3dellaL. 8 febbraio 2006, n. 54(Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), contestualmente abrogati dall’art. 7, comma 1, lettere b) e o), del medesimoD.Lgs. n. 21 del 2018- avrebbe determinato la parziale abolitio criminis dell’omesso versamento dell’assegno periodico per il mantenimento, l’educazione e l’istruzione dei figli (minorenni, ovvero maggiorenni ma ancora non autosufficienti) nati fuori dal matrimonio; condotta che in precedenza era ricompresa – secondo l’interpretazione fatta propria dalla giurisprudenza prevalente della Corte di cassazione – nell’alveo applicativo dell’abrogato art.3dellaL. n. 54 del 2006.
Tale parziale abolitio criminis avrebbe determinato, secondo i giudici a quibus, il contrasto delle disposizioni censurate con una pluralità di parametri costituzionali, di volta in volta identificati dalle singole ordinanze di rimessione negliartt. 3, 25, secondo comma, 30 e 76 Cost.
7.- Preliminare all’esame dell’ammissibilità e della fondatezza delle questioni è la ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale sotteso alle medesime.
7.1.- Prima del 1987, l’adempimento degli obblighi di assistenza nei confronti dei figli era presidiato penalmente dal soloart. 570 cod. pen., che in particolare prevedeva, al secondo comma, numero 2), la pena della reclusione congiunta a quella della multa per chi “fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro”, ovvero agli ascendenti o al coniuge non legalmente separato “per sua colpa”.
Tale previsione – originariamente circoscritta dalla giurisprudenza alla sola posizione dei figli riconosciuti (tra le altre, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 2 maggio-20 ottobre 1973, n. 7178) – è stata poi ritenuta operante anche nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio, in seguito alla piena equiparazione della posizione giuridica di questi ultimi rispetto a quella dei figli legittimi (si veda, di recente, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 12 novembre-10 dicembre 2014, n. 51215).
7.2.- A questa originaria previsione si aggiunse, ad opera dellaL. 6 marzo 1987, n. 74(Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), quella di cui all’art.12-sexiesdellaL. n. 898 del 1970, che stabiliva l’applicabilità delle “pene previstedall’art. 570 del codice penale” al coniuge che, a seguito della cessazione degli effetti civili del matrimonio, si sottraesse all’obbligo di corresponsione dell’assegno stabilito in sede giudiziale in favore dell’altro coniuge o dei figli.
Tale disposizione fu introdotta principalmente per assicurare una tutela penale nei confronti del coniuge beneficiario dell’assegno, atteso che nei suoi confronti la cessazione degli effetti civili del matrimonio comporta l’inapplicabilità dell’art. 570, secondo comma, numero 2), cod. pen.
Peraltro, il nuovo art.12-sexiesdellaL. n. 898 del 1970fu largamente applicato dalla giurisprudenza anche nell’ipotesi di omesso versamento dell’assegno divorzile stabilito in favore dei figli minori, eventualmente in concorso con il delitto di cui all’art. 570, secondo comma, numero 2), cod. pen., quest’ultima disposizione presupponendo – secondo la giurisprudenza – uno stato di bisogno del beneficiario dell’assegno, non necessario invece a integrare l’ipotesi delittuosa di cui all’art.12-sexiesdellaL. n. 898 del 1970(in questo senso, tra le altre, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 14-23 ottobre 2014, n. 44086).
Il nuovo delitto fu, inoltre, considerato applicabile dalla giurisprudenza anche all’ipotesi di mancato versamento dell’assegno divorzile stabilito in favore dei figli maggiorenni non “inabili al lavoro” – come richiesto dall’art. 570, secondo comma, numero 2), cod. pen. – ma non ancora autosufficienti (tra le altre, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 13 giugno-6 agosto 2013, n. 34080).
7.3.- L’art.3dellaL. n. 54 del 2006stabilì quindi l’applicabilità dell’art.12-sexiesdellaL. n. 898 del 1970per il “caso di violazione degli obblighi di natura economica” discendenti dalla sentenza di separazione tra i coniugi, equiparando così integralmente sul piano penale il mancato versamento dell’assegno nei confronti del coniuge e dei figli, stabilito tanto in sede di separazione quanto di divorzio.
Il successivo art.4, comma 2, dellaL. n. 54 del 2006- tutt’oggi in vigore – prevede che le disposizioni della legge medesima si applichino “anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”. Tale ultimo inciso ha fatto sorgere il dubbio se il delitto previsto dall’art. 3 si applichi anche all’ipotesi di mancato versamento dell’assegno – o comunque di mancato adempimento delle prestazioni di natura economica – stabilite dal tribunale a carico del genitore in favore dei figli nati fuori dal matrimonio.
A fronte di un’isolata pronuncia della Corte di cassazione, secondo la quale tale ultimo inciso dell’art.4, comma 2, dellaL. n. 54 del 2006si riferirebbe esclusivamente alla disciplina civilistica dei rapporti tra genitori non coniugati e figli (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 7 dicembre 2016-19 gennaio 2017, n. 2666), varie sentenze successive del giudice di legittimità hanno invece ritenuto che l’inciso in parola si riferisca a tutte le disposizioni previste dalla legge citata, comprese quelle che attengono al diritto penale, e in particolare anche al delitto di cui all’art. 3 (ex multis: Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 22 febbraio-30 marzo 2018, n. 14731; sentenza 31 gennaio-16 marzo 2018, n. 12393; sentenza 6 aprile-19 maggio 2017, n. 25267). Tale esito ermeneutico è stato in particolare argomentato in chiave di interpretazione costituzionalmente conforme, posto che la soluzione opposta avrebbe determinato – in violazione dell’art. 30, primo e terzo comma, Cost. – una ingiustificabile disparità di trattamento tra figli legittimi e non, “accordando una più ampia e severa tutela penale ai soli figli di genitori coniugati rispetto a quelli nati fuori dal matrimonio” (così, in particolare, Cass., n. 25267 del 2017).
7.4.- Su questo ormai consolidato assetto interpretativo sono intervenute le disposizioni oggetto delle odierne censure.
L’art.1, comma 85, lettera q), dellaL. n. 103 del 2017aveva delegato il Governo all'”attuazione, sia pure tendenziale, del principio della riserva di codice nella materia penale, al fine di una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni e quindi dell’effettività della funzione rieducativa della pena, presupposto indispensabile perché l’intero ordinamento penitenziario sia pienamente conforme ai princìpi costituzionali, attraverso l’inserimento nel codice penale di tutte le fattispecie criminose previste da disposizioni di legge in vigore che abbiano a diretto oggetto di tutela beni di rilevanza costituzionale, in particolare i valori della persona umana, e tra questi il principio di uguaglianza, di non discriminazione e di divieto assoluto di ogni forma di sfruttamento a fini di profitto della persona medesima, e i beni della salute, individuale e collettiva, della sicurezza pubblica e dell’ordine pubblico, della salubrità e integrità ambientale, dell’integrità del territorio, della correttezza e trasparenza del sistema economico di mercato”.
In attuazione di tale criterio di delega, l’art.2, comma 1, lettera c), delD.Lgs. n. 21 del 2018ha previsto l’inserimento nel codice penale di un nuovo art. 570-bis, rubricato “Violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio”, che testualmente recita: “le pene previste dall’articolo 570 si applicano al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero viola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi o di affidamento condiviso dei figli”.
Correlativamente, l’art.7, comma 1, lettera b), delD.Lgs. n. 21 del 2018ha previsto l’abrogazione dell’art.12-sexiesdellaL. n. 898 del 1970, mentre la successiva lettera o) del medesimo art. 7, comma 1, ha abrogato l’art.3 dellaL. n. 54 del 2006.
Nell’intendimento del legislatore delegato, la nuova disposizione è volta – all’evidenza – semplicemente a trasferire all’interno del codice penale, in attuazione del principio della cosiddetta “riserva di codice”, le due figure criminose previgenti disciplinate dagli artt.12-sexiesdellaL. n. 898 del 1970e 3 dellaL. n. 54 del 2006, fuse nell’unica fattispecie di cui al nuovoart. 570-bis cod. pen., che si pone pertanto in rapporto di continuità normativa con quelle previgenti abrogate (Corte di cassazione, sezione feriale, sentenza 2-3 agosto 2018, n. 37766; ma anche sezione sesta penale, sentenza 24 ottobre-12 dicembre 2018, n. 55744 e sezione sesta penale, sentenza 17 ottobre-13 dicembre 2018, n. 56080).
7.5.- Il nuovoart. 570-bis cod. pen., peraltro, indica espressamente come soggetto attivo del reato il solo “coniuge”. Ciò ha indotto i giudici rimettenti a concludere che l’introduzione della nuova norma abbia determinato, in realtà, una parziale abolitio criminis con riferimento alla condotta del genitore nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio: condotta che la giurisprudenza dominante considerava abbracciata dalla fattispecie criminosa di cui all’art.3dellaL. n. 54 del 2006, grazie alla clausola di estensione di cui all’art. 4, comma 2, della medesima legge, ma che oggi non potrebbe più essere considerata compresa nella formulazione letterale del nuovoart. 570-bis cod. pen.
Di qui le questioni di legittimità costituzionale della nuova disposizione, nonché della disposizione delD.Lgs. n. 21 del 2018che l’ha introdotta e di quelle che hanno abrogato le precedenti incriminazioni, in relazione ai parametri poc’anzi menzionati.
8.- Le questioni relative all’art.7, comma 1, lettera b), delD.Lgs. n. 21 del 2018, sollevate dalla sola Corte d’appello di Trento, sono inammissibili per difetto di rilevanza nel giudizio a quo.
Tale disposizione ha infatti abrogato l’art.12-sexiesdellaL. n. 898 del 1970, che è semplicemente richiamato quoad poenam dall’art.3dellaL. n. 54 del 2006, l’unico che veniva in considerazione nel processo a quo, e che è stato abrogato dalla distinta disposizione – correttamente censurata dal giudice rimettente – di cui all’art.7, comma 1, lettera o), delD.Lgs. n. 21 del 2018.
9.- Sono invece ammissibili le censure rivolte, in riferimento agliartt. 76 e 25, secondo comma, Cost., sia al nuovoart. 570-bis cod. pen.; sia all’art.2, comma 1, lettera c), delD.Lgs. n. 21 del 2018, che ha introdotto il predetto art. 570-bis nel codice penale; sia – infine – all’art.7, comma 1, lettera o), delD.Lgs. n. 21 del 2018, che ha contestualmente abrogato l’art.3dellaL. n. 54 del 2006.
9.1- Non è, infatti, fondata l’eccezione – sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato in quattro giudizi incidentali – secondo cui i giudici a quibus non avrebbero sperimentato la possibilità di un’interpretazione secundum constitutionem delle disposizioni censurate.
I rimettenti chiariscono, in effetti, perché a loro avviso non sia possibile estendere la portata del nuovoart. 570-bis cod. pen.all’omesso adempimento degli obblighi di natura economica nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio, a una tale soluzione ostando – nella prospettiva delle ordinanze di rimessione – l’indicazione del solo “coniuge” come soggetto attivo del reato.
Secondo l’ormai costante orientamento di questa Corte, l’effettivo esperimento del tentativo di una interpretazione costituzionalmente orientata – ancorché risolto dal giudice a quo con esito negativo per l’ostacolo ravvisato nella lettera della disposizione denunciata – consente di superare il vaglio di ammissibilità della questione incidentale sollevata. La correttezza o meno dell’esegesi presupposta dal rimettente – e, più in particolare, la superabilità o non superabilità degli ostacoli addotti a un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione impugnata – attiene invece al merito, e cioè alla successiva verifica di fondatezza della questione stessa (sentenze n. 262 e n. 221 del 2015; più di recente, ex multis, sentenze n. 135 del 2018, n. 255 e n. 53 del 2017).
9.2.- Non è fondata neppure l’eccezione, formulata dall’Avvocatura generale dello Stato con riferimento alla questione sollevata dal Tribunale ordinario di Civitavecchia, secondo cui il rimettente avrebbe posto a base della questione l’interpretazione dell’abrogato art.3dellaL. n. 54 del 2006operata da una giurisprudenza non univoca, erroneamente considerata alla stregua di diritto vivente da parte dello stesso giudice a quo.
In realtà, come si è già avuto modo di rilevare (supra, punto 7.3.), una sola pronuncia della sesta sezione penale della Corte di cassazione aveva escluso che l’abrogato art.3dellaL. n. 54 del 2006si riferisse anche alle pronunce del giudice concernenti gli obblighi di natura patrimoniale nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio. Tutte le pronunce successive della medesima sezione erano invece giunte alla conclusione opposta, muovendo dalla clausola estensiva di cui all’art.4, comma 2, dellaL. n. 54 del 2006; conclusione, quest’ultima, che – pur in difetto di una decisione delle sezioni unite, evidentemente considerata non necessaria stante l’avvenuto superamento del contrasto all’interno della sesta sezione, competente tabellarmente per materia – ben poteva considerarsi espressiva del diritto vivente sul punto.
9.3.- Neppure è fondata l’ulteriore eccezione, parimenti svolta dall’Avvocatura generale dello Stato con riferimento alla questione sollevata dal Tribunale ordinario di Civitavecchia, relativa a una supposta aberratio ictus da parte del giudice a quo, che erroneamente non avrebbe esteso le proprie censure all’art.4, comma 2, dellaL. n. 54 del 2006, applicabile nel giudizio a quo.
Infatti, il rimettente non avrebbe avuto alcuna ragione di censurare tale disposizione, che – nel vigore dell’art.3dellaL. n. 54 del 2006- consentiva di estenderne la portata alla violazione degli obblighi di natura economica nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio: possibilità che il rimettente reputa ora preclusa dall’avvenuta abrogazione del menzionato art. 3.
9.4.- Pur in assenza di eccezioni sul punto da parte dell’Avvocatura generale dello Stato, deve essere infine esaminata ex officio l’ammissibilità di tutte le questioni prospettate sotto il diverso profilo dell’effetto estensivo della punibilità – e pertanto in malam partem – del loro eventuale accoglimento, in relazione al principio della riserva di legge in materia penale sancitodall’art. 25, secondo comma, Cost.
Come giustamente sottolineato da alcune delle ordinanze di rimessione, le questioni devono certamente ritenersi ammissibili nella parte in cui censurano la violazione del criterio direttivo di cui all’art.1, comma 85, lettera q), dellaL. n. 103 del 2017.
Questa Corte ha già escluso, nella sentenza n. 5 del 2014, che il principio della riserva di legge in materia penale possa precludere il sindacato di legittimità costituzionale in ordine alla dedotta violazionedell’art. 76 Cost.Infatti, è proprio il principio di legalità di cuiall’art. 25, secondo comma, Cost.a rimettere “al legislatore, nella figura appunto del soggetto-Parlamento, la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare”, di talché tale principio “è violato qualora quella scelta sia invece effettuata dal Governo in assenza o fuori dai limiti di una valida delega legislativa. … L’abrogazione della fattispecie criminosa mediante un decreto legislativo, adottato in carenza o in eccesso di delega, si porrebbe dunque in contrasto conl’art. 25, secondo comma, Cost., che demanda in via esclusiva al Parlamento, in quanto rappresentativo dell’intera collettività nazionale, la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, precludendo al Governo scelte di politica criminale autonome o contrastanti con quelle del legislatore delegante. Se si escludesse il sindacato costituzionale sugli atti legislativi adottati dal Governo anche nel caso di violazionedell’art. 76 Cost., si consentirebbe allo stesso di incidere, modificandole, sulle valutazioni del Parlamento relative al trattamento penale di alcuni fatti”.
Tali principi debbono essere riconfermati in relazione alle questioni di legittimità costituzionale ora all’esame, che censurano – espressamente o implicitamente – una disposizione abrogativa contenuta in un decreto legislativo, e la contestuale introduzione di una nuova disposizione incriminatrice, la cui area applicativa si assume non estendersi – in asserito contrasto con il criterio di delega – a tutte le ipotesi già coperte dalla previgente incriminazione; con conseguente illegittimo effetto modificativo, nella prospettazione dei rimettenti, delle scelte di penalizzazione compiute dal Parlamento.
10.- Nel merito, le questioni relativeall’art. 570-bis cod. pen.nonché agli artt. 2, comma 2, lettera c), e 7, comma 1, lettera o), delD.Lgs. n. 21 del 2018, sollevate in riferimento agliartt. 25, secondo comma, e 76 Cost.non sono tuttavia fondate, nei termini che seguono.
10.1.- Le questioni risulterebbero, invero, fondate ove si accogliesse la premessa interpretativa da cui muovono tutti i rimettenti, relativa all’allegata impossibilità di estendere l’incriminazione di cui al nuovoart. 570-bis cod. pen.all’ipotesi dell’inosservanza degli obblighi di natura economica nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio, in precedenza ricompresa – secondo il diritto vivente ormai consolidatosi (supra, punti 7.3. e 9.2.) – nell’abrogata incriminazione di cui all’art.3dellaL. n. 54 del 2006.
Il criterio di delega di cui all’art.1, comma 85, lettera q), dellaL. n. 103 del 2017che vincolava il legislatore delegato (supra, punto 7.4.) era infatti funzionale all’attuazione, sia pure parziale, del cosiddetto principio della “riserva di codice”, e cioè alla riconduzione nell’alveo del codice penale di incriminazioni in precedenza disperse in varie leggi speciali; principio a sua volta inteso a garantire “una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni e quindi dell’effettività della funzione rieducativa della pena, presupposto indispensabile perché l’intero ordinamento penitenziario sia pienamente conforme ai princìpi costituzionali” (si veda la relazione governativa allo schema di decreto legislativo recante “Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo1, comma 85, lettera q, dellaL. 23 giugno 2017, n. 103”). Nella medesima relazione governativa si precisava peraltro che – conformemente al chiaro intendimento del legislatore delegante, risultante dallo stesso criterio di delega in parola – il Governo aveva proceduto a una mera operazione di “riordino” della materia penale, “ferme restando le scelte incriminatrici già operate dal legislatore”, senza alcuna variazione – dunque – dell’area applicativa delle incriminazioni già esistenti nelle varie leggi speciali interessate dall’intervento di riordino, e il cui contenuto si era inteso semplicemente trasferire nelle corrispondenti nuove disposizioni del codice penale.
Il Governo non avrebbe d’altra parte potuto, senza violare le indicazioni vincolanti della legge delega, procedere a una modifica, in senso restrittivo o estensivo, dell’area applicativa delle disposizioni trasferite all’interno del codice penale; né avrebbe potuto, in particolare, determinare – in esito all’intrapreso riordino normativo – una parziale abolitio criminis con riferimento a una classe di fatti in precedenza qualificabili come reato, come quella lamentata da tutte le odierne ordinanze di rimessione.
10.2.- La recente giurisprudenza della Corte di cassazione, sopravvenuta alle ordinanze di rimessione, ha tuttavia ritenuto che tale supposta abolitio criminis non si sia, in realtà, verificata.
Una tale soluzione non solo sarebbe l’unica armonizzabile con il sistema normativo, univocamente orientato alla piena equiparazione tra la posizione dei figli legittimi e nati fuori dal matrimonio; ma troverebbe altresì conforto nell’art. 8 dello stessoD.Lgs. n. 21 del 2018, a tenore del quale “dalla data di entrata in vigore del presente decreto, i richiami alle disposizioni abrogate dall’articolo 7, ovunque presenti, si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni del codice penale come indicato dalla tabella A allegata al presente decreto”. Dal momento che tale Tabella stabilisce la correlazionedell’art. 570-bis cod. pen.ai delitti di omessa corresponsione dell’assegno divorzile (art.12-sexiesdellaL. n. 898 del 1970) e di omesso versamento del mantenimento dei figli in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio (art.3dellaL. n. 54 del 2006), il richiamo a quest’ultima disposizione implicitamente operato dall’art.4, comma 2, dellaL. n. 54 del 2006- da interpretarsi quale rinvio “dinamico” al contenuto dell’interaL. n. 54 del 2006- dovrebbe oggi intendersi come riferito, per l’appunto,all’art. 570-bis cod. pen., nel quale è stato integralmente trasfuso il contenuto del previgente art. 3.
10.3.- A giudizio di questa Corte, tale interpretazione – ormai stabilmente adottata dalla giurisprudenza di legittimità – trova fondamento nella legge, e in particolare nel combinato disposto di due norme (l’art.4, comma 2, dellaL. n. 54 del 2006e l’art.8delD.Lgs. n. 21 del 2018) che a loro volta si integrano con la disposizione incriminatrice di cuiall’art. 570-bis cod. pen., determinando l’estensione del relativo ambito applicativo.
Essa consente dunque di superare, senza alcuna indebita estensione analogica della norma incriminatrice, i dubbi di costituzionalità prospettati, incentrati sulla supposta depenalizzazione delle condotte di violazione degli obblighi di natura economica nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio.
11.- Non può, peraltro, questa Corte esimersi dal rimarcare come la necessità, per il destinatario del precetto di cuiall’art. 570-bis cod. pen., di ricostruirne il contenuto alla luce del combinato disposto di due ulteriori disposizioni situate al di fuori del codice penale – attraverso un’operazione ermeneutica ineccepibile, ma certo non di solare evidenza, come dimostrano le ben sette ordinanze di rimessione che avevano ritenuto impossibile pervenire de lege lata al risultato cui è infine giunta la Corte di cassazione – risulti in definitiva distonica rispetto allo scopo, dichiarato dal legislatore delegante, di garantire ai consociati “una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni” attraverso la sia pur parziale attuazione del principio di “riserva di codice”.
Tale considerazione dovrebbe auspicabilmente indurre il legislatore a intervenire direttamente sul testodell’art. 570-bis cod. pen., per esplicitarne l’applicabilità – già oggi riconosciuta dal diritto vivente – anche alla condotta omissiva del genitore che non adempia i propri obblighi economici nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio, in omaggio all’obiettivo – rilevante exart. 25, secondo comma, Cost.- di una più immediata riconoscibilità del precetto penale da parte dei suoi destinatari.
12.- L’interpretazione fornita dalla Corte di cassazione, di cui si è appena dato conto, comporta il superamento delle ulteriori ragioni di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate, prospettate dai rimettenti in riferimento agliartt. 3 e 30 Cost.e incentrate sulla disparità di trattamento tra figli legittimi e nati fuori dal matrimonio determinata dal nuovoart. 570-bis cod. pen.

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art.7, comma 1, lettera b), delD.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, recante “Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo1, comma 85, lettera q), dellaL. 23 giugno 2017, n. 103”, sollevate dalla Corte d’appello di Trento, in riferimento agliartt. 25 e 76 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionaledell’art. 570-bis del codice penale, degli artt. 2, comma 1, lettera c), e 7, comma 1, lettera o), delD.Lgs. n. 21 del 2018, sollevate dal Tribunale ordinario di Nocera Inferiore, dalla Corte di appello di Milano, dalla Corte di appello di Trento e dal Tribunale ordinario di Civitavecchia, in riferimento agliartt. 3, 25, secondo comma, 30 e 76 Cost., con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 giugno 2019.
Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2019.

Indagini sui redditi e sui patrimoni dei coniugi per il riconoscimento dell’assegno di divorzio

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 14790-2017 proposto da:
R.F., elettivamente domiciliato in ROMA, *, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ENRICO Z.;
– ricorrente –
contro
E.I.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 7184/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 29/11/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 05/02/2019 dal Consigliere Relatore Dott. LOREDANA NAZZICONE.

Svolgimento del processo
– che la parte ricorrente ha proposto ricorso, fondato su di un motivo, avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma del 29.11.2016, la quale, per quanto ancora rileva, ha respinto l’impugnazione avverso la decisione del Tribunale di Viterbo del 3.4.2014, che, in relazione alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, ha disposto l’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento per le due figlie minori pari ad Euro 800,00 mensili, oltre alla metà delle spese straordinarie;
– che non svolge difese la parte intimata;
– che è stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c..

Motivi della decisione
– che il motivo censura la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, per non avere la corte territoriale disposto indagini tributarie, pur dopo aver ritenuto non credibili le dichiarazioni dei redditi del ricorrente; mentre da esse sarebbero emersi il sostegno economico della propria famiglia ed i debiti bancari;
– che il motivo è manifestamente infondato;
– che, invero, costituisce principio costante quello secondo cui, in tema di divorzio, il giudice del merito, ove ritenga aliunde raggiunta la prova dell’insussistenza (o della sussistenza) dei presupposti che condizionano il riconoscimento dell’assegno di divorzio, può direttamente provvedere alla relativa istanza, anche senza aver prima disposto accertamenti d’ufficio attraverso la polizia tributaria: ed invero, l’esercizio del potere officioso di disporre, per il detto tramite, indagini sui redditi e sui patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo tenore di vita rientra nella sua discrezionalità, non trattandosi di un adempimento imposto dall’istanza di parte, purchè esso sia correlabile anche per implicito ad una valutazione di superfluità dell’iniziativa e di sufficienza dei dati istruttori acquisiti (Cass. 6 giugno 2013, n. 14336);
– che, nel caso di specie, il giudice del merito, sulla base degli altri elementi in atti ed esponendo una argomentazione di ordine deduttivo – in nessun modo attaccata dal motivo – ha ritenuto dimostrato un reddito idoneo a sostenere l’assegno nella misura concordata dagli stessi coniugi nel 2009, a modifica delle condizioni di separazione, per le sole figlie: onde il motivo, nella parte in cui censura la misura dell’assegno in relazione alle effettive disponibilità del ricorrente, è inammissibile, dato che ripropone in pieno il giudizio di fatto, del tutto estraneo al giudizio di legittimità;
– che, invero, la valutazione delle prove compete esclusivamente al giudice del merito, al quale compete – quale potere discrezionale come tale insindacabile – di individuare le fonti del proprio convincimento, apprezzare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione; mentre tale operazione, che suppone un accesso diretto agli atti e una loro delibazione, non è consentita davanti alla suprema Corte (e multis, Cass. 7 febbraio 2018, n. 2899; Cass. 27 luglio 2017, n. 18665; Cass. 4 febbraio 2004, n. 2090);
– che, trattandosi di procedimento esente dal contributo unificato, non trova applicazione il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
In caso di diffusione del presente provvedimento, dispone omettersi le generalità e gli altri dati identificativi delle parti, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 28 marzo 2019

In tema di provvedimenti riguardanti i figli, il giudice può prendere atto degli accordi intervenuti tra i genitori solo se gli stessi risultano non contrari al loro interesse. L’accordo intervenuto tra i genitori può, quindi, essere trasfuso nel provvedimento giudiziale previa verifica della sua rispondenza all’interesse del minore

Cass. civ. Sez. VI – 1, 6 settembre 2019, n. 22411
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7397-2018 proposto da:
O.V.I., elettivamente domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ROSA MICHELA RIZZI;
(Ammessa P.S.S. delibera 11/2/19 ord. Avv. Trento) – ricorrente –
contro
G.R., elettivamente domiciliato in ROMA, CIRCONVALLAZIONE CLODIA 15, presso lo studio dell’avvocato MARCO CARDINALI, rappresentato e difeso dall’avvocato PAOLO CHIARIELLO;
– controricorrente –
avverso il decreto n. R.G. 80/2017 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositato il 28/11/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 21/05/2019 dal Consigliere Relatore Dott. LAURA TRICOMI.
Svolgimento del processo
CHE:
Il ricorso per cassazione è stato proposto da O.V.I. con due mezzi avverso il decreto della Corte di appello di Trento in epigrafe indicato. ROCCO GAUDIO ha replicato con controricorso.
Sono stati ritenuti sussistenti i presupposti per la trattazione camerale ex art. 380 bis c.p.c.

Motivi della decisione

CHE:
1. La controversia ha riguardo alla regolamentazione del diritto di visita paterno del minore J.G. (n. il 26/7/2012), nato da genitori non coniugati, e la statuizione sulle spese di lite adottata in sede di reclamo.
2. Con il primo motivo si denuncia la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, nonché la errata valutazione delle risultanze processuali e dei fatti posti a fondamento della pronuncia.
La ricorrente sostiene che la Corte di appello, sull’erroneo presupposto che la disciplina del diritto di visita paterno e della ripartizione dei periodi feriali era stata frutto di un accordo raggiunto dalle parti in primo grado e recepito dal Tribunale, non si sarebbe pronunciata sulle domande svolte con il reclamo, omettendo anche ogni motivazione; infine insiste per una regolamentazione del diritto di visita paterno meno frammentato.
Il motivo è inammissibile e va respinto.
Osserva la Corte che l’art. 337 ter c.p.c., nel disciplinare l’adozione dei provvedimenti riguardo ai figli, stabilisce che spetta al giudice, al fine di realizzare “il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.”, adottare “i provvedimenti relativi alla prole” che vanno stabiliti “con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa”, tanto che il giudice può prendere atto degli accordi intervenuti tra i genitori solo se gli stessi risultano “non contrari all’interesse dei figli”.
In proposito questa Corte ha chiarito che “In tema di separazione personale tra coniugi e di divorzio – ed anche con riferimento ai figli di genitori non coniugati – il criterio fondamentale cui devono ispirarsi i relativi provvedimenti è rappresentato dall’esclusivo interesse morale e materiale dei figli (previsto in passatodall’art. 155 c.c.e ora dall’art. 337 ter c.c.) con la conseguenza che il giudice non è vincolato alle richieste avanzate ed agli accordi intercorsi tra le parti e può quindi pronunciarsi anche “ultra petitum”.” (Cass. n. 25055 del 23/10/2017; Cass. n. 11412 del 22/05/2014).
Invero, e ciò va sottolineato, anche un formale accordo intervenuto tra i genitori, pur sintomatico della positiva collaborazione tra gli stessi, non potrebbe essere trasfuso nel provvedimento giudiziale relativo alla prole se non previa verifica della sua rispondenza all’interesse del figlio.
Ne consegue che la circostanza dedotta dalla ricorrente, e cioè l’essere o meno la regolamentazione adottata dal Tribunale e confermata dalla Corte di appello frutto del formale accordo dei genitori (circostanza negata dalla O. ed affermata dal G.) è priva di decisività e non appare né pertinente, né dirimente, atteso che la regolamentazione in questione – quand’anche qualificabile come mera proposta di parte – è stata trasfusa nel provvedimento giudiziale adottato nell’esercizio dei poteri di esclusiva competenza del primo giudice perché ha superato il vaglio di rispondenza all’interesse del minore, e questo provvedimento è stato oggetto della valutazione dalla Corte di appello orientata esclusivamente all’interesse del minore, sia pure con un argomentare un po’ farraginoso, di guisa che alcuna violazione si ravvisa.
Di contro, va osservato che la ricorrente non si sofferma affatto sull’interesse del minore, se non per sostenere apoditticamente l’esigenza di una “regolamentazione meno frammentaria” del diritto di visita non meglio illustrata, e non trascrive nemmeno la regolamentazione vigente, necessaria per rendere comprensibile la doglianza, e ciò in violazione dell’onere di specificità dei motivi di ricorso.
3. Con il secondo motivo si denuncia la violazione degliartt. 91 e 92 c.p.c., nonché di norme costituzionali e comunitarie, in merito alla condanna alle spese, pur in presenza di una reciproca soccombenza che, a dire della ricorrente, avrebbe dovuto far propendere per una compensazione almeno parziale.
Il motivo è infondato.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare “In tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse e il suddetto criterio non può essere frazionato secondo l’esito delle varie fasi del giudizio ma va riferito unitariamente all’esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi soccombente abbia conseguito un esito a lei favorevole. Con riferimento al regolamento delle spese il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi.” (Cass. n. 406 del 11/01/2008).
A ciò va aggiunto che “La valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensidell’art. 92 c.p.c., comma 2, rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente.” (Cass. n. 30592 del 20/12/2017).
Alla luce di detti principi il motivo va disatteso, considerata la esclusiva soccombenza della parte reclamante principale, avendo il G. proposto reclamo incidentale subordinato (v. fol. 2 del decreto imp.) assorbito dal rigetto del reclamo principale.
4. In conclusione il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196,art.52.
Non sussistono i presupposti di cui alD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater, trattandosi di materia esente.

P.Q.M.

– Rigetta il ricorso;
– Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.600,00=, oltre Euro 100,00 per esborsi, spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed accessori di legge;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196,art.52;
– Dà atto, ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater, della NON sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 21 maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2019

In caso di contrasto dei genitori sulla educazione religiosa del figlio, la possibilità per il giudice di adottare provvedimenti di adesione a un credo religioso e non all’altro dipende dall’accertamento in concreto delle conseguenze pregiudizievoli per il figlio, accertamento da compiersi sull’osservazione e sull’ascolto del minore

Cass. civ. Sez. I, 30 agosto 2019, n. 21916
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
L.E., elettivamente domiciliata in Roma, via Giulio Aristide Sartorio 60, presso lo studio dell’avv. Marco Camarda, che la rappresenta e difende nel presente giudizio, giusta procura speciale in calce al ricorso, unitamente all’avv. Valerio Borghesiani e dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo agli indirizzi p.e.c. marcocamarda(at)ordineavvocatiroma.org e valerio.borghesiani(at)ordineavvocatibo.pec;
– ricorrente –
nei confronti di:
M.V.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 3332/2016 della Corte di appello di Milano, emessa il 29 giugno 2016 e depositata il 25 agosto 2016, n. 2107/2015 R.G.;
sentita la relazione in camera di consiglio del relatore cons. Dott. Giacinto Bisogni;
letta la requisitoria del P.G., in data 11 luglio 2018, con la quale il sostituto procuratore generale, cons. Dott. SORRENTINO Federico ha chiesto l’accoglimento per quanto di ragione del ricorso.
Svolgimento del processo
Che:
1. Con sentenza n. 2028/2014 il Tribunale di Como ha pronunciato la separazione personale dei coniugi L.E. e M.V., affidato il figlio minore G. (nato il (OMISSIS)) congiuntamente ai due genitori, con le precisazioni di cui in motivazione circa la sua educazione religiosa, ha fissato la sua residenza presso la madre e disciplinato il diritto di visita del padre cui ha imposto un assegno mensile di 600 Euro a titolo di contributo al mantenimento del figlio, oltre al 50% delle spese di istruzione, cura ed educazione. Ha compensato interamente le spese processuali.
2. Ha rilevato il Tribunale che il sig. M. ha espresso decisamente il proprio dissenso a che il bambino (che è stato battezzato nella Chiesa Cattolica) riceva dalla madre l’istruzione religiosa propria della dottrina geovista e partecipi con lei alle relative cerimonie presso la Sala del Regno frequentata dalla L. preferendo che egli esperisca fino alla Cresima il percorso di educazione religiosa e introduzione ai sacramenti della Chiesa Cattolica, sì da poter conoscere i fondamenti di detta fede e poter effettuare, da adulto, una scelta consapevole. Ha ritenuto quindi il Tribunale che stante il contrasto fra i genitori spetta al giudicante la decisione ex art. 337 ter c.c. e ha pertanto affermato che, “pur astenendosi da ogni intento di discriminazione per ragioni religiose deve ritenersi che la scelta paterna sia maggiormente rispondente all’interesse del piccolo, consentendogli più agevolmente la integrazione nel tessuto sociale e culturale del contesto di appartenenza, il quale, benché notoriamente secolarizzato, resta pur sempre di matrice cattolica (basti pensare al patrimonio artistico italiano ispirato alla dimensione religiosa cattolica, alla aggregazione giovanile suscitata a livello parrocchiale con iniziative per bambini e adolescenti legate al catechismo, oratorio, grest, ecc.); pur con il dovuto rispetto per le credenze della L. non può sottacersi la natura settaria della comunità religiosa cui ella aderisce, chiusa in sé stessa e ostile al confronto con qualsivoglia altro interlocutore, essendo legata a una interpretazione formalistica e parziaria di taluni testi vetero-testamentari, che non ha ispirato (almeno in Italia) alcun prodotto letterario o artistico avente dignità culturale.
Ovviamente il padre, coerentemente con la sua dichiarata intenzione anche con sacrificio personale dovrà accompagnare il bambino nel percorso di educazione religiosa da lui prescelto, favorendone l’inserimento nella comunità parrocchiale di appartenenza e la frequenza alla pratica religiosa via via richiestagli anche in giornate e orari diversi dal protocollo di visita, se necessario; mentre correlativamente la madre dovrà responsabilmente astenersi, onde non destabilizzare il bambino, dall’impartirgli ulteriori insegnamenti della dottrina geovista e dal condurlo alle relative cerimonie”.
3. Ha proposto appello la sig.ra L.E. censurando unicamente le prescrizioni in ordine all’educazione religiosa del figlio di cui ha chiesto la sospensione e la revoca. Ha affermato l’appellante che l’ordine impartitole contrasta con i principi della Costituzione italiana e con quello della laicità dello Stato e, in mancanza di individuazione dell’effettivo, concreto e grave pregiudizio che dall’insegnamento della dottrina da lei professata deriverebbe al minore, anche con le norme del diritto comunitario e internazionale. Secondo l’appellante la sentenza è del tutto carente con riguardo alla motivazione del provvedimento inibitorio, non individuando alcun pregiudizio che il minore subirebbe per effetto degli insegnamenti religiosi materni; essa inoltre si pone in contrasto con il principio di bi-genitorialità e con il diritto della madre di trasmettere i propri valori così da consentire al figlio, una volta raggiunta la necessaria maturità, di effettuare una scelta consapevole in merito al credo religioso. Infine la sentenza è nulla in quanto affetta dal vizio di ultrapetizione perché basata sulla necessità di dirimere un conflitto fra i genitori, in realtà insussistente.
4. Il sig. M.V. si è costituito contestando la fondatezza dell’appello e ne ha chiesto il rigetto. Ha rilevato che il conflitto era insorto dopo la cessazione della convivenza fra i genitori e in seguito alla adesione della L. alla confessione dei testimoni di Geova. M.G. aveva ricevuto esclusivamente una educazione religiosa cattolica ed era stato di comune accordo battezzato secondo il rito cattolico. Ha giustificato la propria opposizione alla trasmissione degli insegnamenti della dottrina geovista e alla frequentazione delle cerimonie religiose presso la Sala del Tempio ribadendo il proprio convincimento in ordine all’inopportunità di esporre il bambino a insegnamenti contrastanti e confusivi.
5. La Corte di appello di Milano, con sentenza n. 3332/2016 ha respinto l’impugnazione della sig.ra L. e ha compensato interamente le spese processuali anche per il giudizio di appello. La Corte di appello ha escluso la dedotta nullità per vizio di ultrapetizione essendo emerso chiaramente un conflitto genitoriale nel corso del giudizio. Ha ritenuto accertato che G. sia stato battezzato secondo il rito cattolico e che la scelta comune dei genitori, sino all’adesione, successiva alla fine della convivenza, della L. alla dottrina geovista, sia stata quella di inserire il figlio nella comunità della Chiesa Cattolica. Ha ritenuto la Corte territoriale che sia rispondente all’interesse del minore mantenere tale iniziale libera e comune scelta dei genitori consentendo a G. di completare la formazione religiosa cattolica sino al sacramento della Cresima (e cioè sino ai 12-13 anni), senza ricevere altri insegnamenti contrastanti con quelli della religione cattolica e senza frequentare contemporaneamente le adunanze della Sala del Regno.
6. Ricorre per cassazione L.E. affidandosi a tre motivi di impugnazione illustrati da memoria difensiva.
7. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione del preminente interesse del minore ad una relazione significativa con entrambi i genitori e a ricevere la loro eredità culturale e religiosa, in assenza di danni per il minore e dei presupposti legali per proibire alla mamma di G. di coinvolgerlo nelle sue attività religiose di Testimone di Geova.
8. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione della libertà religiosa, del principio di non discriminazione e di laicità; violazione degliartt. 3, 7, 8, 9, 10, 19 e 101 Cost., degli artt. 8, 9, 14 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 3.
9. Con il terzo motivo di ricorso si deduce, in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e cioè che la sig.ra L. è sempre stata Cristiana Testimone di Geova sin da prima il matrimonio e ha trasmesso i suoi valori religiosi al figlio sin dalla nascita.
10. Non svolge difese M.V..
11. Con requisitoria scritta, depositata in data 11 luglio 2018, il Pubblico Ministero ha chiesto l’accoglimento per quanto di ragione del ricorso sulla base delle seguenti motivazioni che qui si riportano: “in materia di famiglia fondata sul matrimonio, vige il principio costituzionale secondo cui “il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare” (exart. 29 Cost., comma 2). Prima ancora, è tra gli stessi diritti inviolabili dell’uomo che si annovera il diritto di libertà religiosa, garantito dalla Costituzione sia come singolo sia nelle formazioni sociali (art. 2 Cost.), in ciò includendosi la famiglia, quale primo nucleo di naturale aggregazione sociale dell’uomo (ad es. C. Cost. n. 138/2010). Tale diritto involabile trova anche una sua duplice declinazione da un lato nell’affermazione del principio di eguaglianza, là dove espressamente garantito (dall’art. 3 Cost.) anche sotto il profilo religioso, stante la pari dignità davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8 Cost., comma 1), dall’altro nella specifica affermazione della libertà religiosa (“tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto”, cfr.art. 19 Cost.).Tale diritto di libertà del singolo cui corrisponde un diritto-dovere di ciascun genitore di istruire ed educare i figli (art. 30 Cost., comma 1) può incontrare un limite proprio nel pari diritto dell’altro genitore che abbia un credo religioso diverso, e, quindi, in un possibile contrasto tra i genitori stessi sul punto, limite che, là dove sfoci in un insanabile stallo, appare superabile alla luce delle specifiche disposizioni di legge, adottate sulla base della previsione costituzionale secondo cui si prevede che “nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti” (cfr.art. 30 Cost., comma 2) e, comunque, in modo da assicurare adeguata protezione dell’interesse del minore (cfr.art. 31 Cost., comma 2). Ed è in forza di tali generali disposizioni costituzionali che è previstadall’art. 316 c.c.e, in caso di separazione, dall’art. 337 ter c.c., la soluzione, affidata al giudice, del contrasto insorto tra i genitori su questioni di particolare importanza (qual è quella appunto relativa all’educazione religiosa del figlio minore), soluzione che, per legge, va adottata “con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale” dei figli ad una crescita sana ed equilibrata (cfr.art. 337-ter c.c.), “sicché il perseguimento di tale obiettivo può comportare anche l’adozione di provvedimenti” limitativi di pratiche o incontri propri di una determinata confessione religiosa, come tali “contenitivi o restrittivi di diritti individuali di libertà dei genitori, ove la loro esteriorizzazione determini conseguenze pregiudizievoli per il figlio che vi presenzi, compromettendone la salute psico-fisica o lo sviluppo” (Cass. n. 12954/2018). Detti principi di eguaglianza e di libertà di religione sono garantiti anche, come invocato dalla ricorrente, dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (artt. 14, 8 e 9), principi di libertà che, secondo la stessa CEDU, possono essere limitati dalla legge da misure “necessarie, in una società democratica, per la sicurezza pubblica, la protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica o la protezione dei diritti e delle liberà altrui” (si veda la sentenza della Corte EDU, del 12 febbraio 2013, Vojnity v. Hungary, secondo cui, in materia di contrasto tra genitori sull’educazione religiosa da impartire a figli minori, si è ritenuto non accettabile un “differente trattamento, senza un’obiettiva e ragionevole giustificazione” ovvero basato “sulla sola differenza di religione”). Orbene, la Corte di appello di Milano (pure superando la motivazione del giudice di primo grado, che era fondata anche su un’inaccettabile valutazione di disvalore della religione dei Testimoni di Geova, è incorsa ugualmente in una falsa applicazione dei richiamati principi di eguaglianza e di libertà religiosa, dando rilievo preminente alla originaria scelta di entrambi i genitori di battezzare il proprio figlio. Invero la libertà di religione, quale diritto inviolabile dell’uomo, implica anche la piena libertà di mutare le proprie credenze, senza che pregresse determinazioni o convinzioni possano costituire un pregiudizio o un limite all’esercizio di tale libertà. Ciò è del resto esplicitato dall’art. 9, primo paragrafo, della CEDU allorché si stabilisce che “ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; questo diritto importa la libertà di cambiare religione o pensiero (…)”. La valutazione dunque della Corte di appello di ancorare la propria decisione ad una scelta pregressa (anche) della madre (quella cioè di acconsentire al battesimo), senza considerare l’attualità delle determinazioni religiose della stessa, non sembra rispettosa dei richiamati principi di libertà. Inoltre la Corte di appello è incorsa in una seconda falsa applicazione di legge (segnatamente dell’art. 315 bis c.c., comma 3, ed anche dell’art. 336-bis e del combinato disposto di cui agli 337-ter e 337-octies c.c.) allorquando ha ritenuto, nella valutazione dell’interesse del minore, di adottare il provvedimento inibitorio di cui trattasi (e cioè di inibire alla madre di “impartire al figlio (prendendo ella stessa l’iniziativa) insegnamenti contrastanti con quelli della religione cattolica) sulla base di mere affermazioni, non riscontrate da adeguati elementi: la Corte di appello motiva infatti la decisione “al fine di non creare confusione nel minore, proponendogli contemporaneamente insegnamenti differenti, con il rischio di disorientarlo, e al contempo di non “appesantirlo” eccessivamente sotto il profilo della formazione religiosa, con la contemporanea frequenza sia del catechismo, sia delle riunioni dei Testimoni di Geova”. Anche in disparte il fatto che la asserita “confusione” o il “rischio di disorientamento” o di “appesantimento” non individuano, in sé, una scelta di campo tra le due professioni religiose, se non in forza di un “pregiudizio” nei confronti della religione geovista rispetto a quella cattolica, la ricorrente fondatamente sottolinea con il primo motivo che “non vi è nessuna prova che le pratiche religiose della L. siano pregiudizievoli” e con il secondo motivo che “i giudici di merito non hanno ritenuto necessario nè disporre l’audizione del minore né richiedere l’ausilio di una consulenza tecnica d’ufficio che era stata addirittura richiesta dal M.”. In effetti, il procedimento in questione è stato instaurato in primo grado in data 5/10/2011 e quindi anteriormente al 1/1/2013 data di entrata in vigore della legge. n. 219 del 2012, abrogativadell’art. 155-sexies c.c..Dalla predetta nuova disciplina normativa l’ascolto del minore è previstodall’art. 315-bis c.c., comma 3, e, dopo l’entrata in vigore (7 febbraio 2014) delD.Lgs. n. 154 del 2013, anche dall’art. 336-bis e dagli 337-ter e 337-octies c.c.. Peraltro l’obbligatorietà dell’audizione del minore anche nel regime giuridico previgente era stata sancita dal fermo orientamento della Corte (tra le più recenti Cass. 11687 del 2013, ribadito da Cass. n. 6129/2015). In particolare è stato affermato (cfr. Cass. 19202 del 2014, richiamata da cit. Cass. n. 6129/2015) che l’audizione è “una caratteristica strutturale del procedimento, diretta ad accertare le circostanze rilevanti al fine di determinare quale sia l’interesse del minore ed a raccoglierne opinioni e bisogni in merito alla vicenda in cui è coinvolto”. L’iniziale qualificazione giuridica dell’ascolto come un elemento necessario dell’istruzione probatoria nei procedimenti riguardanti i minori è stata ritenuta del tutto riduttiva al fine di comprendere la natura e la funzione dell’adempimento. L’ascolto costituisce una modalità, tra le più rilevanti, di riconoscimento del diritto fondamentale del minore ad essere informato ed esprimere la propria opinione e le proprie opzioni nei procedimenti che lo riguardano, costituendo tale peculiare forma di partecipazione del minore alle decisioni che lo investono uno degli strumenti di maggiore incisività al fine del conseguimento dell’interesse del medesimo, tanto che anche nella vigenza dell’art. 155 sexies c.c., l’audizione doveva essere disposta in caso di minore dodicenne ovvero anche se di età inferiore ove ritenuto capace di discernimento (Cass. S.U. 22238 del 2009; 5547 del 2013, 11687 del 2013). L’importanza dell’obbligo di ascolto del minore infradodicenne capace di discernimento – direttamente da parte del giudice ovvero, su mandato di questi, di un consulente o del personale dei servizi sociali -, è tale che, secondo Cass. n. 19327 del 2015 (proprio in tema di separazione personale), esso “costituisce adempimento previsto a pena di nullità ove si assumano provvedimenti che lo riguardino, salvo che il giudice non ritenga, con specifica e circostanziata motivazione, l’esame manifestamente superfluo o in contrasto con l’interesse del minore” (cfr. da ultimo anche Cass. n. 12957/2018). Orbene, al tempo del giudizio di appello conclusosi nel 2016 il minore aveva già compiuto sette anni, ma la Corte di appello (a ciò obbligata, Cass. n. 15365/2015) non ha proceduto ad alcuna audizione, nè direttamente, nè attraverso esperti, non dando alcuna contezza di tale mancanza. In effetti, nei più recenti precedenti della Corte di cassazione, che hanno affrontato analoghe questioni di contrasto nell’educazione religiosa di figli minori tra genitori di differente credo religioso (cattolico e geovista), i giudici di merito avevano sempre proceduto a c.t.u. sul minore (anche di anni 4/5, Cass. n. 9546/2012, nonché Cass. n. 12954/2018) ovvero acquisendo una relazione da parte dei servizi sociali del Comune (Cass. n. 24683/2013). In carenza di tali elementi il ricorso appare fondato anche sotto i menzionati profili.

Motivi della decisione
Che:
12. I tre motivi di ricorso devono essere esaminati congiuntamente per la loro evidente connessione.
13. La Corte ritiene la requisitoria del Procuratore Generale pienamente condivisibile e coerente alla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ., sezione I, n. 12594 del 24 maggio 2018, n. 9546 del 12 giugno 2012, n. 24683 del 4 novembre 2013) secondo, cui in tema di affidamento dei figli, il criterio fondamentale cui deve attenersi il giudice nel fissare le relative modalità, in caso di conflitto genitoriale, è quello del superiore interesse del minore, stante il suo diritto preminente ad una crescita sana ed equilibrata, sicché il perseguimento di tale obiettivo può comportare anche l’adozione di provvedimenti, relativi all’educazione religiosa, contenitivi o restrittivi dei diritti individuali di libertà dei genitori, ove la loro esplicazione determinerebbe conseguenze pregiudizievoli per il figlio, compromettendone la salute psico-fisica o lo sviluppo.
14. Tuttavia la possibilità di adottare simili provvedimenti restrittivi, in presenza di una situazione di conflitto fra i due genitori che intendano entrambi trasmettere la propria educazione religiosa e non siano in grado di rendere compatibile il diverso apporto educativo derivante dall’adesione a un diverso credo religioso, non può essere disposta dal giudice sulla base di una astratta valutazione delle religioni cui aderiscono i genitori e che esprima un giudizio di valore precluso all’autorità giudiziaria dal rilievo costituzionale e convenzionale Europeo del principio di libertà religiosa. Né tale possibilità può basarsi sulla considerazione della adesione successiva di uno dei due genitori a una religione diversa rispetto a quella che precedentemente era seguita e praticata da entrambi e che, originariamente, è stata trasmessa al figlio o ai figli come religione comune della famiglia perché tale criterio astratto lederebbe il mantenimento di un rapporto equilibrato e paritario con entrambi i genitori rimanendo insensibile alle scelte di vita in divenire dei genitori. Ne deriva che la possibilità da parte del giudice di adottare provvedimenti contenitivi o restrittivi dei diritti individuali di libertà dei genitori in tema di libertà religiosa e di esercizio del ruolo educativo è strettamente connessa e può dipendere esclusivamente dall’accertamento in concreto di conseguenze pregiudizievoli per il figlio che ne compromettano la salute psico-fisica e lo sviluppo e tale accertamento non può che basarsi sull’osservazione e sull’ascolto del minore in quanto solo attraverso di esse tale accertamento può essere compiuto.
15. Il ricorso va pertanto accolto affinché la Corte di appello rivaluti la controversia alla luce dei principi di diritto sopra enunciati.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Milano che, in diversa composizione, deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione. Dispone omettersi qualsiasi riferimento alle generalità e agli altri elementi identificativi delle parti nella pubblicazione della presente sentenza.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 settembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 30 agosto 2019

Il rifiuto di sottoporsi al test del DNA è autosufficiente ai fini del giudizio di fatto.

Tribunale di Santa Maria Capua a Vetere, 15 maggio 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Prima Sezione Civile, riunito in Camera di Consiglio, nelle
persone dei seguenti Magistrati:
1) Dott. Raffaele Sdino Presidente
2) Dott.ssa Giovanna Caso Giudice
3) Dott.ssa Luigia Franzese Giudice rel.
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al N° 1692/2015 del Ruolo Generale degli Affari contenziosi, riservata in decisione all’udienza del 28 settembre 2018, con concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c.
TRA
P. B., nella qualità di genitore esercente la potestà genitoriale sulla minore B. M. P., rappresentata e difesa dall’avv.to M. Consiglia Tamburrino, come da procura a margine dell’atto di citazione, tutti elettivamente domiciliati in Caserta, via Commaia n. 10
– ATTORE
E
C. G., elettivamente domiciliato in Napoli, via Cassiodoro n. 19/a, presso lo studio dell’avv.to Alfredo Romaniello e dell’avv.to Mariorosario Romaniello, dai quali è rappresentato e difeso in virtù di procura posta in calce alla comparsa di risposta
– CONVENUTO
E
Avv.to ROSANNA SANTORO, nella qualità di curatore speciale della minore P. B. M., elettivamente domiciliata in Santa M. C.V., via Avezzana n. 58
CONVENUTO
E
PUBBLICO MINISTERO presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere;
– INTERVENTORE EX LEGE
OGGETTO: dichiarazione giudiziale di paternità
CONCLUSIONI: Per le parti come riportato nel verbale di udienza del 28 settembre 2018; Per il P.M.
può accogliersi il ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con atto di citazione, notificato in data 9 agosto 2015, P. B., nella qualità di genitore esercente la potestà genitoriale sulla minore B. M. P., ha esposto: – di aver intrattenuto una relazione sentimentale con il convenuto a far data dall’anno 2001 sino al mese di dicembre 2005; – che la frequentazione tra i due non era caratterizzata dalla quotidianità degli incontri, anche in considerazione della circostanza che il convenuto era già sposato all’epoca dei fatti; – che negli ultimi anni della loro relazione, l’istante accompagnava il C. nei suoi viaggi di lavoro; – che, nel mese di aprile 2005, l’istante accompagnò il convenuto a Bologna in occasione di un congresso medico; – che, nel mese di dicembre 2005 nei giorni 18, 19 e 20, l’istante raggiunse il convenuto in Germania; -che, in tale ultimo viaggio, è stata concepita B. M., nata il 22 agosto 2006; – che, agli inizi di gennaio 2006, il convenuto pose fine alla relazione con l’istante, senza fornire spiegazioni; – che l’istante, dopo aver esperito con esito positivo il test di gravidanza, ha cercato invano di mettersi in contatto con il convenuto, anche recandosi presso la struttura sanitaria over presta la propria attività di neurochirurgo; – che, nel mese di settembre 2006,
l’istante è riuscita ad informare il convenuto della nascita della bambina; – che ci sono stati diversi incontri tra il convenuto e la minore; – che l’ultimo incontro è avvenuto nel mese di aprile 2011 nell’abitazione del convenuto; – che il convenuto non ha mai provveduto al mantenimento della minore, provvedendo ad acquistare soltanto dei vestini e alcuni libri.
Tanto premesso, l’istante ha chiesto emettersi sentenza dichiarativa di paternità ex art. 269 c.c., nonché i provvedimenti necessari ex art. 277 c.c., con condanna del convenuto al versamento in favore dell’istante di un importo a titolo di contributo per il mantenimento della figlia sin dalla nascita della stessa, con vittoria delle spese di lite, con attribuzione.
Con comparsa di risposta, depositata in data 8 giugno 2015, si è costituito C. G., che ha contestato la domanda attorea, esponendo: – che tra le parti vi è stata solo una tenera amicizia, mai sfociata in rapporti sessuali; – che, solo nell’ambito di tale rapporto di amicizia, il convenuto ha conosciuto la minore B. M.;
– che sussiste il difetto di legittimazione attiva con riguardo alla domanda di rimborso delle presunte spese sostenute dall’istante per il mantenimento della minore, avendo l’attrice agito non in proprio ma soltanto come rappresentante legale della minore.
Tanto premesso, il convenuto ha chiesto il rigetto della domanda attorea, con vittoria delle spese di lite, con attribuzione.
Con ordinanza del 24.11.2015, veniva nominato, nell’interesse della minore, un curatore speciale, che si è costituito con comparsa di risposta, depositata in data 29 gennaio 2016.
Ciò posto, l’istante, nella qualità di genitore esercente la potestà genitoriale sulla minore B. M., ha richiesto l’accertamento della paternità naturale del convenuto.
La prova della paternità naturale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 269 c.c., può essere data con ogni mezzo.
La giurisprudenza ha evidenziato che, in tema di accertamento giudiziale della paternità (o maternità) naturale, le indagini genetiche, grazie ai progressi della scienza biomedica, consentono di dimostrare l’esistenza o la non esistenza del rapporto di filiazione (cfr., ex multis, Cass. n. 10007 del 2008).
Le stesse hanno, pertanto, un valore decisivo, con margini di sicurezza elevatissimi, alla luce degli approdi scientifici ormai condivisi (cfr., ex multis, Cass. n. 28647 del 2013).
Le indagini ematologiche e genetiche possono fornire decisivi elementi di valutazione non solo per escludere, ma anche per affermare il rapporto biologico di paternità (cfr., ex multis, Cass. n. 15568 del 2011), e talvolta costituiscono l’unico possibile elemento di prova a disposizione della parte in considerazione della difficoltà di fornire prova dell’esistenza di relazioni intime e riservate (cfr., Trib.
Roma, sentenza del 07.03.2014).
La giurisprudenza sia di merito che di legittimità, con motivazione condivisile, ha chiarito che il rifiuto
della parte di sottoporsi ad esame genetico può, da solo, assurgere a fondamento della decisione del
giudice, anche in assenza di prova dei rapporti sessuali tra la madre e la persona di cui si assume la
paternità (cfr., ex multis, Cass. n. 14458 del 2018; Cass. n. 13880 del 2017; Cass. n. 6025 del 2015;
Tribunale Milano 31.01.2018).
Invero, se si considera l’elevato grado di certezza che si può conseguire attraverso l’acquisizione
dell’esame genetico, appare evidente come al comportamento ingiustificato della parte che non
consenta di raggiungere quel risultato debba attribuirsi un elevato grado di significatività, tale da
renderlo, come sostenuto da autorevole dottrina, “autosufficiente ai fini del giudizio di fatto” (cfr., in
motivazione, Cass. n. 18626 del 2017).
Applicando al caso di specie tali principi che il Tribunale condivide ed intende far propri, deve ritenersi
che la domanda sia fondata.
Nonostante, con ordinanza del 05.12.2016, sia stata disposta CTU al fine di accertare l’esistenza ovvero
l’inesistenza della paternità biologica del C., tale accertamento tecnico non è stato espletato a causa
della condotta ingiustificata del convenuto.
Invero, il C., che ha manifestato la propria opposizione allo svolgimento degli esami genetici già nelle
memorie ex art. 183 c.p.c., non si è presentato né al primo incontro, fissato dal CTU in data 21 giugno
2017, adducendo improrogabili impegni di lavoro, non meglio specificati, né al secondo incontro,
fissato, su richiesta dello stesso convenuto, dopo il periodo estivo, per il 10 ottobre 2017, allegando la
necessità di dover assistere il coniuge sottoposto ad intervento chirurgico, sebbene quest’ultimo sia stato ricoverato il
giorno 9 ottobre 2017.
Tale condotta manifesta una chiara volontà del convenuto di non sottoporsi all’esame del DNA,
soprattutto se si considera che dal certificato medico prodotto non si evince né il tipo di intervento cui
doveva sottoporsi il coniuge del C., né i giorni di degenza ospedaliera, né le ragioni di una necessaria
assistenza.
Né in ogni caso il C. si è reso disponibile successivamente per l’espletamento degli esami per cui è
causa.
Dagli atti di causa, è emerso, quindi, un rifiuto del convenuto di sottoporsi all’esame del DNA, che non
può che ritenersi ingiustificato.
Né a fondamento di tale rifiuto possono richiamarsi ragioni di tutela della privacy, tenuto conto sia del
fatto che l’uso dei dati nell’ambito del giudizio non può che essere rivolto a fini di giustizia, sia del fatto
che il sanitario chiamato dal giudice a compiere l’accertamento è tenuto tanto al segreto professionale
che al rispetto della L. 31 dicembre 1996, n. 675 (Cass. n. 14458 del 2018).
Né può farsi riferimento al carattere invasivo dell’esame da svolgere, attesa la natura del tutto innocua
dello stesso (cfr. Cass. n. 20235 del 2012).
In definitiva, la prova della fondatezza della domanda non può che trarsi dal comportamento
processuale del convenuto, rilevante ai sensi e per gli effetti dell’art. 116 c.p.c. (cfr. Cass. n. 12971 del
2012).
Invero, il C. non solo si è sottratto in modo ingiustificato all’esame genetico, ma, a fronte delle
specifiche allegazioni formulate da parte attrice in merito alla relazione sentimentale intrattenuta con il
convenuto all’epoca del concepimento, ha formulato una contestazione assolutamente generica,
limitandosi ad escludere la sussistenza di rapporti di tipo sessuale tra le parti.
Ciò posto, sulla base degli atti di causa ed allegazioni delle parti, il Collegio ritiene raggiunta la prova
che P. B. M., nata ad Aversa il ___.2006, sia figlia di C. G..
Per quanto concerne le modalità di affido della minore e il diritto di visita del padre, occorre osservare quanto segue.
Il contegno tenuto dal convenuto, il quale ha rifiutato di sottoporsi senza giustificato motivo all’esame
genetico, formulando nel contempo una contestazione assolutamente generica della pretesa attorea,
senza tentare di instaurare con la minore alcuna relazione affettiva, è sicuro indice di disinteresse e
indifferenza rispetto al proprio ruolo genitoriale.
Va, pertanto, disposto che la minore sia affidata in via esclusiva alla madre, presso la quale è collocata
stabilmente.
Il padre, se vorrà, potrà esercitare il diritto di visita nei confronti della minore esclusivamente presso i
Servizi Sociali territorialmente competenti, previa adeguata preparazione –da parte di questi ultimi- sia
del C. che della piccola B. M..
Quanto alle statuizioni di carattere economico, deve rilevarsi che va fissato un assegno di mantenimento
a carico del convenuto.
Dagli atti di causa, è emerso che il convenuto svolge l’attività di neurochirurgo, con incarico di dirigente
medico, presso l’azienda ospedaliera Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta, con reddito lordo annuo di
più di € 80.000,00.
Tali circostanze, allegate da parte attrice, non sono state specificamente contestate dalla controparte e
pertanto possono ritenersi provate, ai sensi e per gli effetti dell’art. 115 c.p.c.
Ciò posto, si ritiene, pertanto equo, alla luce dei tempi di permanenza del minore presso i genitori, delle
esigenze dello stesso e della capacità reddituale del convenuto, prevedere a carico del C., con
decorrenza dalla domanda giudiziale, la corresponsione di un assegno mensile di € 600,00 da versare
all’istante entro il giorno 5 di ogni mese, a mezzo bonifico bancario o vaglia postale.
Tale somma sarà soggetta a rivalutazione Istat annuale.
Il convenuto dovrà, altresì, contribuire al 50% delle spese straordinarie per la minore (sanitarie non
coperte dal SSN, scolastiche, ludiche e sportive), necessarie o previamente concordate e debitamente
documentate.
Per quanto concerne i provvedimenti di cui all’art. 262 c.c., il Tribunale, su richiesta di parte attrice,
ritiene conforme all’interesse del minore che quest’ultimo assuma il cognome paterno in aggiunta a
quello materno con posticipazione a quest’ultimo.
Ciò in quanto, la minore, che ha quasi 13 anni e si trova, quindi, nella fase adolescenziale, ha acquisito
una certa identità tale da sconsigliare la scelta del patronimico (cfr., ex multis, Cass. n. 12640 del 2015).
Parte attrice, sin dall’atto introduttivo, ha agito nel presente giudizio, anche al fine di ottenere la
corresponsione del contributo di mantenimento spettante sin dalla nascita alla figlia B. M. e non goduto
da quest’ultima in quanto non versato dal C..
Tale domanda deve reputarsi ammissibile atteso che l’obbligazione di mantenimento del figlio
riconosciuto da entrambi i genitori, per effetto della sentenza dichiarativa della filiazione naturale,
collegandosi allo “status” genitoriale, sorge con decorrenza dalla nascita del figlio (cfr., ex multis, Cass.
n. 25735 del 2016).
In merito, va disattesa l’eccezione di difetto di legittimazione attiva sollevata da parte convenuta,
avendo l’istante agito non in proprio ma quale rappresentante legale della minore.
Ciò posto, tenuto conto dell’età della minore al momento dell’introduzione del presente giudizio (quasi
9 nove anni), delle esigenze della stessa, presuntivamente individuate, nonché della capacità reddituale
del C., il quale, già all’epoca della nascita della piccola B. M., svolgeva l’attività di neurochirurgo, si
ritiene equo fissare un contributo mensile di € 300,00 per il mantenimento della minore con decorrenza
dalla nascita della stessa sino alla domanda giudiziale (09.08.2015).
Pertanto, il C. va condannato alla corresponsione in favore dell’istante, nella qualità di genitore
esercente la potestà genitoriale sulla minore B. M., dell’importo di € 32.400,00, quale contributo al
mantenimento della figlia, non versato dalla nascita della stessa sino alla domanda giudiziale.
Nei rapporti tra il curatore speciale e le altre parti, in considerazione della funzione di tutela dell’interesse del minore, svolta dall’avv.to Santoro, sussistono i presupposti di cui
all’art. 92 c.p.c. nella formulazione applicabile ratione temporis per dichiarare integralmente
compensate le spese di lite.
Nei rapporti tra parte attrice e parte convenuta, C. G., le spese di lite seguono la soccombenza e si
liquidano come in dispositivo in base al d.m. 10 marzo 2014 n. 55, entrato in vigore il 3 aprile 2014, il
quale trova applicazione per le liquidazioni successive alla sua entrata in vigore (cfr. art. 28 del d.m.
citato), così come modificato dal d.m. 8 marzo 2018 n. 37, entrato in vigore in data 27.04.2018, tenuto
conto del valore della controversia, della natura delle questioni trattate e dell’attività svolta, con
attribuzione.
Le spese di CTU, già liquidate con decreto del 30.01.2018, vanno poste definitivamente a carico del
convenuto, C. G., con il conseguente diritto di parte attrice di ripetere le somme già versate a titolo di
acconto o che saranno versate al CTU in forza del suddetto decreto di liquidazione.
Va rigettata la domanda formulata da parte attrice ex art. 96 c.p.c., non ricorrendone i presupposti.
P.Q.M.
Il Tribunale, nella controversia civile iscritta al N° 1692/2015, definitivamente pronunciando, così
provvede:
• dichiara che P. B. M., nata ad Aversa il ___.2006, è figlia di C. G., nato a Napoli il ___.1958;
• dispone che P. B. M. assuma altresì il cognome paterno in aggiunta a quello materno con
posticipazione a quest’ultimo;
• ordina all’Ufficiale dello Stato civile del Comune competente di annotare sull’atto di nascita la
presente sentenza al passaggio in giudicato;
• affida la minore B. M. in via esclusiva alla madre, P. B., presso la quale è collocata;
• dispone che il C. potrà esercitare il diritto di visita nei confronti della minore esclusivamente
presso i Servizi Sociali territorialmente competenti, previa adeguata preparazione –da parte di questi ultimi- sia del padre che soprattutto della
piccola B. M.;
• dispone che il convenuto contribuisca al mantenimento della minore versando alla madre, P. B.,
con decorrenza dalla domanda, la somma mensile di € 600,00, entro il 5 di ogni mese, a mezzo
bonifico bancario o vaglia postale, rivalutabile annualmente secondo gli indici Istat;
• dispone che il convenuto contribuisca al 50% delle spese straordinarie per la minore (sanitarie
non coperte da SSN, scolastiche, sportive e ludiche), necessarie o previamente concordate e
debitamente documentate;
• condanna C. G. alla corresponsione in favore dell’istante, nella qualità di genitore esercente la
potestà genitoriale sulla minore B. M., dell’importo di € 32.400,00, quale contributo al
mantenimento della figlia minore, non versato dalla nascita sino alla domanda giudiziale;
• compensa le spese di lite tra il curatore speciale e le altre parti;
• condanna il convenuto, C. G., al pagamento in favore di parte attrice, delle spese di lite, che si
liquidano in € 4.002,00, di cui € 30,00 per spese, e 3.972,00 per compensi professionali, oltre
rimborso spese forfettarie nella misura del 15% del compenso totale, ex art. 2, comma 2, D.M.
55/2014, oltre IVA e CPA come per legge se documentate, con attribuzione al procuratore
costituito, dichiaratosi anticipatario;
• pone le spese di CTU definitivamente a carico del convenuto
• rigetta la domanda ex art. 96 c.p.c. formulata da parte attrice.
Così deciso in Santa M. Capua Vetere nella Camera di Consiglio del 19 marzo 2019.
Il Giudice estensore
Dott.ssa Luigia Franzese
Il Presidente
Dott. Raffaele Sdino

Il rifiuto di sottoporsi al percorso di cura determina l’affido ad un solo genitore.

TRIBUNALE DI ALESSANDRIA
SEZIONE CIVILE
Il Tribunale di Alessandria, Sezione Civile, riunito in camera di consiglio nelle persone dei
magistrati:
Dott. Caterina Santinello Presidente
Dott. Giuseppe Bersani Giudice
Dott. Marco Bonci Giudice Relatore
ha pronunciato il seguente
DECRETO
nel procedimento recante il numero V.G. 2284/2018, per la modifica delle condizioni di divorzio,
promosso da:
S. P. (C.F. ), nata a Genova, il __.__.1976, con l’Avv. Marcella Fasciolo
– ricorrente –
contro
A. R. (C.F. ), nato a Ovada, il __.__.1975, con l’Avv. M. M.
– resistente –
Sciogliendo la riserva di cui all’udienza dell’11.9.2019,
OSSERVA
1. Con ricorso ex art. 9, L. 898/1970, la Sig.ra S.P. ha rappresentato, tra l’altro, che: (i)
in data 28.4.2007 ha celebrato matrimonio col Sig. A. R.; (ii) in data 14.3.2008,
dalla loro unione, è nato il figlio P. ; (iii) con decreto in data 24.5.2017, il
Tribunale di Alessandria ha omologato le condizioni di separazione consensuale tra i coniugi;
(iv) con sentenza in data 4.6.2018, il Tribunale di Alessandria ha dichiarato la cessazione
degli effetti civili del matrimonio tra i coniugi, prevedendo, tra l’altro, che il figlio P.
fosse affidato a entrambi i genitori, con collocazione presso la madre e che il padre fosse
tenuto a corrispondere mensilmente alla madre la somma di Euro 250,00, oltre al 50% delle
spese straordinarie, a titolo di contributo al mantenimento del figlio; (v) successivamente, il
padre si è immotivatamente opposto alla partecipazione del figlio a tutte le attività esterne
organizzate dalla scuola, ha costretto il figlio a redigere inventari degli alimenti presenti nella
dispensa della casa materna e, a partire dal mese di giugno 2018, ha cessato di corrispondere
la somma mensile dovuta a titolo di contributo al mantenimento del figlio e (vi) in data
24.8.2018, il padre, alla presenza del figlio, ha procurato alla madre lesioni guaribili in 10
giorni, fatto per il quale la madre ha sporto querela. Alla luce di quanto precede, la madre ha
domandato la modifica delle condizioni di divorzio, prevedendo l’affidamento di P., in via
esclusiva, alla madre, la disciplina di un regime di visita padre/figlio in luogo neutro e la
conferma dell’obbligo del padre di corrispondere mensilmente alla madre a titolo di
contributo al mantenimento del figlio la somma di Euro 250,00, oltre al 50% delle spese
straordinarie.
2. Con memoria difensiva in data 5.12.2018, il Sig. A. R. ha rappresentato, tra l’altro,
che: (i) si è opposto alla partecipazione del figlio alle attività esterne organizzate dalla scuola,
ma solo perché il figlio non aveva mostrato interesse a parteciparvi e, inoltre, perché
“onerose” e potenzialmente pericolose; (ii) ha richiesto al figlio di redigere inventari degli
alimenti presenti nella dispensa della casa materna, ma solo per “educare il figlio al valore del
denaro”; (iii) ha cessato di corrispondere la somma mensile dovuta a titolo di contributo al
mantenimento del figlio, ma solo perché desidera provvedere direttamente al mantenimento
del figlio e (iv) in data 24.8.2018, vi è stata una lite tra i genitori alla presenza del figlio, ma
nell’ambito della quale il padre non ha causato lesioni alla madre. Alla luce di quanto precede,
il padre ha domandato, in via principale, la modifica delle condizioni di divorzio, prevedendo
l’affidamento di P., in via esclusiva, al padre, con conseguente facoltà di mantenimento
diretto del figlio e, in via subordinata, l’affidamento condiviso di P., con collocazione
presso il padre.
3. All’esito dell’udienza, innanzi al Collegio, del 12.12.2018, con decreto in pari data, è stata
provvisoriamente sospesa ogni frequentazione padre/figlio ed è stata disposta CTU su
eventuali disturbi psichiatrici in capo ai genitori e sulla loro capacità genitoriale.
4. Con perizia in data 4.7.2019, il CTU, Dott.ssa Giovanna De Giorgi, la quale ha anche
ascoltato il minore P., ha riportato, tra l’altro, che: (i) “il Sig. R. A. presenta un
quadro psicopatologico riconducibile […] ad un disturbo delirante […] sono presenti anche
tratti di un modesto disturbo ossessivo compulsivo”; (ii) “la Sig.ra P. S. non mostra
alcun importante quadro psicopatologico”; (iii) P. “si lamenta del fatto che non può fare
mai quello che fanno i suoi coetanei […] perché il padre non gli concede il permesso […]
deve fare lui, bambino, la lista della spesa delle cose che mancano in casa perché il padre
non si fida di sua mamma”. Il CTU ha, poi, concluso suggerendo l’affidamento di P., in
via condivisa, con regime di visita padre/figlio “al momento, per cautela, con cadenza
quindicinale ed, inizialmente, in luogo neutro; successivamente, in base alle certificazioni
periodiche redatte dal Centro di Salute Mentale […] che prenderà in carico [il padre],
potrebbero anche avvenire in luogo non più neutro”.
5. All’udienza dell’11.9.2019, il Sig. A. R., invitato dal Collegio a manifestare la
propria eventuale disponibilità a seguire il percorso delineato dal CTU al fine di riprendere
gradualmente la frequentazione col proprio figlio P., ha dichiarato: “io non ho nessuna
patologia, quindi, non sono disponibile a seguire il percorso delineato dal CTU”.
6. All’esito dell’udienza dell’11.9.2019, il Collegio si è riservato e qui decide nei termini che
seguono.
7. Preliminarmente deve essere rigettata l’istanza della difesa del Sig. A. R. volta a
consegnare direttamente al Collegio le osservazioni alla perizia, che la CTU ha dichiarato di
non aver ricevuto nei termini concessi. Il termine per la trasmissione delle osservazioni al
CTU è, infatti, previsto al fine di consentire al CTU di valutarle prima di provvedere al
deposito della perizia finale e di poterne dare conto nell’ambito della stessa perizia finale,
prendendo specifica posizione. In sostanza, il termine è previsto affinché il consulente del
Giudice possa fornire al Giudice, che è privo delle competenze tecnico/scientifiche di cui è,
invece, dotato il consulente, una sintesi, comprensibile anche a un soggetto non esperto in
materia, dei dati tecnici acquisiti dal CTU e dai consulenti di parte. Si comprende, dunque,
come la parte non possa pretendere di sottoporre direttamente le proprie osservazioni al
Giudice, il quale nomina il CTU proprio perché è privo delle competenze tecnico/scientifiche
necessarie all’elaborazione dei dati tecnici, di volta in volta, rilevanti.
8. Quanto all’affidamento del figlio, come è noto, perché possa derogarsi alla regola
dell’affidamento condiviso, è necessario “che risulti, nei confronti di uno dei genitori, una
sua condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa o comunque tale appunto da
rendere quell’affidamento in concreto pregiudizievole per il minore (come, nel caso, ad
esempio, di una sua anomala condizione di vita, di insanabile contrasto con il figlio, di
obiettiva lontananza)” (così, tra le altre, Cass. 19.6.2008, n. 16593). Nel caso di specie, le
patologie psichiatriche riscontrate in capo al padre, che lo hanno condotto a tenere, anche nei
confronti del figlio P., i gravi comportamenti già descritti (non negati neppure dal padre,
che si è limitato essenzialmente a fornirne insufficienti giustificazioni), costituiscono motivo
di pregiudizio per il figlio P.. Inoltre, se è vero che il CTU ha suggerito di affidare il figlio
P. congiuntamente a entrambi i genitori, è anche vero che lo stesso CTU ha delineato un
percorso per la cura delle patologie evidenziate in capo al padre, finalizzato anche al
potenziamento delle capacità genitoriali paterne, nel corso del quale il padre avrebbe potuto
incontrare il figlio solo una volta ogni 15 giorni in luogo neutro, fino alla guarigione e
all’auspicato ampliamento della frequentazione. Il padre, tuttavia, all’udienza dell’11.9.2019,
ha opposto un netto rifiuto a seguire il percorso di cura delineato dal CTU, con la
conseguenza che il Collegio è tenuto a decidere in ordine all’affidamento del figlio P.,
senza poter tenere conto dei miglioramenti che il padre avrebbe potuto conseguire grazie al
percorso di cura delineato dal CTU. Orbene, allo stato, il Collegio ritiene che l’affidamento
condiviso del figlio P. sarebbe pregiudizievole per il minore, dal momento che, come
evidenziato anche dal CTU, le patologie psichiatriche del padre, in assenza di cura, sono tali
da pregiudicare il minore, sicché deve essere accolta la domanda della madre, volta
all’ottenimento dell’affidamento esclusivo, fermo restando, ovviamente, che il padre potrà, in
ogni momento, decidere di avviare un percorso di cura delle proprie patologie, al termine del
quale potrà essere eventualmente valutata la modifica del regime di affidamento del figlio
P.. Non solo. È anche pacifico che il padre non contribuisca più al mantenimento del
minore dal mese di giugno del 2018, con ciò manifestando di disinteressarsi alla sussistenza
del minore.
9. Quanto al regime di frequentazione padre/figlio, stante il rifiuto del padre di seguire il
percorso di cura delineato dal CTU, non si ritiene di poter disporre neppure la frequentazione
minima (ogni 15 giorni e in luogo neutro) suggerita dal CTU sul presupposto
dell’accettazione delle cure da parte del padre. Gli incontri in luogo neutro, infatti, non
costituiscono una modalità ordinaria di incontro genitori/figli, ma uno strumento, di
applicazione straordinaria, necessariamente finalizzato al potenziamento delle capacità
genitoriali e al successivo ampliamento del regime di visita; una prospettiva che, nel caso di
specie, al momento, è assente, stante il rifiuto del padre a seguire un percorso di cura delle
proprie patologie psichiatriche.
10. Quanto ai profili economici, rilevato, da un lato, che il padre ha domandato la revoca tout
court dell’obbligo di versare mensilmente alla madre la somma di Euro 250,00, oltre al 50%
delle spese straordinarie, solo in conseguenza dell’auspicata collocazione del figlio P.
presso di sé e, dall’altro lato, che la collocazione del figlio P. rimane – anche in base al
presente decreto – presso la madre, la domanda del padre deve essere rigettata, confermando,
invece, sul punto, come richiesto dalla madre, la statuizione della sentenza di divorzio, non
essendo, peraltro, neppure state allegate eventuali modificazioni dei redditi dei genitori e/o
delle esigenze del figlio intervenute dopo la pronuncia della sentenza di divorzio.
11. Le spese di lite, liquidate in Euro 2.225,00, oltre accessori di legge, in base al D.M. 55/2014,
procedimenti di volontaria giurisdizione, valore indeterminabile (basso), devono essere poste
a carico del Sig. A. R., in applicazione del principio della soccombenza. Parimenti,
devono essere poste interamente a carico del Sig. A. R. le spese di CTU, liquidate
come da separato decreto.
P.Q.M.
– affida il figlio minore P. R., nato a Genova, il 14.3.2008, in via c.d. “superesclusiva”
ex art. 337-quater, comma 3, c.c., alla madre, Sig.ra S. P., nata a Genova, il
24.11.1976, con collocazione prevalente presso quest’ultima,
– dispone che, allo stato, il padre, Sig. A. R., nato a Ovada, il _.1975, non possa
incontrare e tenere con sé il figlio minore P. R., nato a Genova, il __.2008,
– ferme, per il resto, le condizioni di cui alla sentenza del Tribunale di Alessandria in data
4.6.2018,
– condanna il Sig. A. R., nato a Ovada, il ___.1975 a corrispondere alla Sig.ra
S. P., nata a Genova, il ___.1976 la somma di Euro 2.225,00, oltre accessori di
legge, a titolo di spese di lite, oltre alle spese di CTU, liquidate come da separato decreto.
Manda alla Cancelleria per le comunicazioni.
Così deciso in Alessandria, il 25 settembre 2019
Il Giudice Relatore Il Presidente
(Dott. Marco Bonci) (Dott.ssa Caterina Santinello)

Il criterio esclusivo della residenza abituale del minore ai fini della individuazione del giudice competente non è derogabile, salva esplicita accettazione della diversa giurisdizione da parte di entrambi i coniugi

Cass. civ. Sez. Unite, 2 ottobre 2019, n. 24608
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12932-2018 proposto da:
V.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CAIO MARIO 13, presso lo studio dell’avvocato SAVERIO COSI, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
N.K., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BANCO DI SANTO SPIRITO 48, presso lo studio dell’avvocato AUGUSTO D’OTTAVI, rappresentata e difesa dall’avvocato LAURA BARBIERI;
– controricorrente –
per regolamento di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 4878/2016 del TRIBUNALE di ANCONA. Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/02/2019 dal Consigliere Dott. GIACINTO BISOGNI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Dott. ZENO Immacolata, il quale chiede il rigetto del ricorso e la declaratoria del difetto di giurisdizione del giudice italiano.
Svolgimento del processo
CHE:
1. Le parti forniscono una versione almeno parzialmente difforme dei fatti rilevanti per il giudizio. Espone la controricorrente, sig.ra N.K., che, in data 1 dicembre 2013, ha contratto matrimonio in Italia, con il sig. V.E.. Il 5 dicembre 2015 i coniugi si sono recati in Grecia avendo deciso che N.K. avrebbe terminato la difficile gravidanza in corso e avrebbe partorito in Atene dove avrebbe potuto essere assistita dai suoi genitori. Il (OMISSIS) è nata V.N.V. che ha acquisito alla nascita la doppia cittadinanza, italiana e greca, essendo stata la sua nascita dichiarata presso l’Ufficiale dello Stato Civile nel Comune di (OMISSIS), dove i coniugi avevano fissato la residenza al momento del matrimonio, e in Grecia nel Comune di (OMISSIS). Nei mesi da (OMISSIS) il sig. V.E. si era recato tre volte ad Atene a trovare la moglie e la bambina. Ma dopo poco tempo sarebbero insorti insanabili contrasti fra i coniugi perchè, secondo quanto riferisce la sig.ra N., il marito avrebbe voluto programmare una nuova gravidanza questa volta non medicalmente assistita (nonostante il sig. V. fosse all’epoca sieropositivo). Al rifiuto della N., V.E. avrebbe minacciato non solo una azione giudiziale per sottrazione di minore in caso di non immediato rientro in Italia e una condotta ostativa a qualsiasi espatrio della N..
2. Il 20 luglio 2016 il V. ha depositato presso il Tribunale di Ancona ricorso per separazione esponendo una diversa versione dei fatti consistente in sostanza nel rifiuto unilaterale e immotivato della N. di rientrare in Italia dopo il parto e chiedendo la dichiarazione di addebito della separazione nonché l’affidamento in via esclusiva della figlia con l’adozione degli opportuni provvedimenti per il suo rientro in Italia e il divieto di espatrio senza l’autorizzazione del padre.
3. Con comparsa depositata il 31 ottobre 2016 si è costituita in giudizio la sig.ra N. e, in base alla versione dei fatti sopra riportata nel punto 1, ha chiesto a sua volta la dichiarazione di addebito della separazione a carico del marito e l’affido in via esclusiva della figlia.
4. Il 7 novembre 2016 il Presidente del Tribunale di Ancona ha autorizzato i coniugi a vivere separatamente e dichiarato non luogo a provvedere sulle domande relative alla minore che è nata e ha sempre risieduto in altro Stato dell’Unione Europea.
5. Con ricorso del 28 novembre 2016 V.E. ha proposto reclamo avverso la dichiarazione di non luogo a provvedere e avverso i successivi provvedimenti confermativi e ha rilevato che tale dichiarazione era viziata per il fatto che la N. non aveva eccepito alcun difetto di giurisdizione per ciò che concerne i richiesti provvedimenti relativi alla figlia. Ha ritenuto in ogni caso che doveva contrariamente affermarsi la giurisdizione del giudice italiano in quanto la bambina è cittadina italiana e residente anagraficamente in Italia dalla nascita.
6. Si è costituita la N. che ha contestato la sussistenza della giurisdizione del giudice italiano affermando che l’unico criterio per la determinazione della giurisdizione è quello della residenza abituale del minore.
7. La Corte di appello di Ancona con provvedimento dell’11 gennaio 2017 ha rigettato il reclamo aderendo alla prospettazione della N. sulla base del disposto dell’art. 8 del Reg.to UE n. 2201/2003 (cd. Bruxelles 2 bis).
8. Con provvedimento del 20/23 gennaio 2017 il Presidente del Tribunale di Ancona richiamando la giurisprudenza della CGUE (sentenza Mercredi 22.12.2010 comma 497/10 p.p. 54-56) e successivamente, per implicito, il giudice istruttore (con ordinanza istruttoria del 23 marzo 2018) hanno ribadito la correttezza del diniego a provvedere sulle domande relative alla minore.
9. Il Tribunale di Atene, adito dal sig. V. per ottenere il rientro in Italia della figlia, all’esito della pronuncia 8.6.2017 della C.G.U.E., sulla questione dell’interpretazione dell’art. 11 p. 1 del regolamento Brxl II bis, con sentenza del 14 dicembre 2017, ha accertato che non ricorre né l’ipotesi del trasferimento illecito né quella dell’illecito trattenimento del minore ai sensi dell’art. 11 del regolamento.
10. V.E. ha proposto, quindi, regolamento di giurisdizione exart. 41 c.p.c., comma 1 ovvero ricorso exart. 360 c.p.c., comma 2, nn. 1 – 3 e ricorso exart. 111 Cost., comma 6 per la declaratoria della giurisdizione del giudice italiano in relazione al giudizio di separazione personale dei coniugi ovvero per la cassazione dell’ordinanza 23.3.2018 e di tutti gli atti ad essa direttamente o indirettamente ricollegabili ed in particolare il provvedimento del Presidente del Tribunale di Ancona, sez. I, del 7.11.16 che dichiara non luogo a provvedere sulle istanze relative alla minore, l’ordinanza dello stesso Presidente in data 20.1.17, e il decreto di rigetto del reclamo avverso la dichiarazione di non luogo a provvedere emesso dalla Corte di appello di Ancona in data 11 gennaio 2017. Il ricorrente ritiene che il giudice non poteva sollevare d’ufficio eccezione di difetto di giurisdizione ed emanare una pronuncia, a contenuto interinale, di non luogo a provvedere a fronte della chiara accettazione della giurisdizione italiana da parte della N. e della inesistenza di un procedimento in corso in Grecia che riguardasse la responsabilità genitoriale. Ritiene inoltre che il criterio della residenza abituale deve concorrere con gli altri previsti a livello Europeo e interno e nella specie deve soggiacere al criterio della residenza abituale dell’attore ex art. 3 del regolamento.
11. Si oppone con controricorso N.K. ed eccepisce l’inammissibilità del ricorso, perché proposto in violazionedell’art. 41 c.p.c.che preclude la proposizione del ricorso per regolamento successivamente alla pronuncia di qualsiasi provvedimento, come è avvenuto nella specie in cui sul difetto di giurisdizione si è pronunciato sia il giudice di primo grado che la Corte di appello in sede di reclamo, e inoltre perché il ricorso è stato proposto avverso provvedimenti diversi emanati in procedimenti diversi con censure fra loro contraddittorie e intese a riesaminare il merito della questione attinente alla determinazione della residenza abituale del minore. Infine per la conformità della decisione adottata dalla Corte di appello, e ribadita implicitamente dal giudice istruttore nel 2018, alla giurisprudenza di legittimità (SU 13912/2017 e 17676/2016) e della Corte di Giustizia.
12. Il P.G. chiede il rigetto del ricorso e la declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice italiano ritenendo non concretizzata alcuna accettazione della giurisdizione italiana da parte della N. fini dell’accertamento della residenza abituale, anche se la stessa si è difesa davanti al Tribunale di Ancona opponendosi alla domanda di affidamento in via esclusiva della minore proposta dal padre e chiedendo a sua volta l’affidamento esclusivo. Ritiene che al fine di affermare una accettazione della giurisdizione italiana si sarebbe dovuta acquisire una esplicita dichiarazione in tal senso. Ciò in relazione al carattere esclusivo e vincolante del criterio di attribuzione della competenza al giudice della residenza abituale del minore. 13. La sig.ra N. deposita memoria difensiva.

Motivi della decisione

CHE:
14. Il ricorso deve essere respinto. In primo luogo va ribadito che quando nel giudizio di divorzio introdotto innanzi al giudice italiano siano avanzate domande inerenti la responsabilità genitoriale ed il mantenimento di figli minori non residenti abitualmente in Italia, ma in altro stato membro dell’Unione Europea, la giurisdizione su tali domande spetta, rispettivamente ai sensi degli artt. 8, par. 1, del Regolamento CE n. 2201 del 2003 e 3 del Regolamento CE n. 4 del 2009, all’A.G. dello Stato di residenza abituale dei minori al momento della loro proposizione, dovendosi salvaguardare l’interesse superiore e preminente dei medesimi a che i provvedimenti che li riguardano siano adottati dal giudice più vicino al luogo di residenza effettiva degli stessi, nonché realizzare la tendenziale concentrazione di tutte le azioni che li riguardano, attesa la natura accessoria della domanda relativa al mantenimento rispetto a quella sulla responsabilità genitoriale (Cass. civ. S.U. n. 30657 del 27 novembre 2018).
15. Inoltre, in base alla chiara disposizione dell’art. 12 del regolamento Eurounitario, ai fini della possibilità di escludere l’applicazione del criterio cogente della residenza abituale del minore è necessaria una esplicita accettazione della giurisdizione anche sulla materia della responsabilità genitoriale da parte di entrambi i coniugi, accettazione che deve essere esplicitamente e inequivocamente intervenuta alla data in cui il giudice è stato adito con la domanda di separazione o al momento della formazione del contraddittorio, dovendo altrimenti ritenersi non derogabile il criterio esclusivo della residenza abituale del minore. La proposizione di difese e di domande riconvenzionali non integra tale piena e inequivoca accettazione della giurisdizione ma esprime solo la legittima esplicazione del diritto di difesa. Peraltro sia pure con questi requisiti che escludono qualsiasi rilevanza implicita al comportamento processuale delle parti la possibilità di derogare al criterio della residenza abituale del minore non è interamente nella loro disponibilità. Lo stesso art. 12 richiede infatti anche una valutazione sulla conformità all’interesse del minore che è affidata al giudice. È pertanto da escludere che la proposizione di domanda riconvenzionale da parte della N. diretta a ottenere l’affidamento del minore precluda la possibilità del rilievo d’ufficio del difetto di giurisdizione. Per quanto riguarda la doverosità del decidere da parte del giudice preventivamente adito per il giudizio di separazione vi è da rilevare che il giudice italiano adito dal sig. V. ha chiaramente espresso una valutazione negativa sulla giurisdizione cui legittimamente non ha inteso conferire il carattere della decisione suscettibile di passare in giudicato. Ciò rende per un verso ammissibile la proposizione del regolamento di giurisdizione exart. 41 c.p.c.ma per altro verso fa ritenere inesistente il preteso non liquet imputato dal ricorrente ai giudici anconetani.
16. Sotto il diverso profilo della richiesta di provvedere sul rientro della minore il ricorrente omette di considerare completamente la disciplina della Convenzione dell’Ala del 1980 recepita dal regolamento Eurounitario che prevede che la domanda di rientro del minore possa essere richiesta al giudice del luogo in cui si trova il minore nel caso di illecito trasferimento o trattenimento, ipotesi che all’evidenza non ricorrono nella specie sulla base della stessa prospettazione fattuale di parte ricorrente e che il Tribunale di Atene, competente a decidere sulla istanza di rientro, ha escluso.
17. Quanto infine alla valutazione della ricorrenza o meno della residenza abituale della minore in Italia questa come si è appena detto è stata esclusa da entrambe le giurisdizioni adite dal ricorrente. Esclusione che questa Corte non può che condividere sul rilievo del dato incontestabile della nascita e della permanenza della bambina in Grecia sulla base di una decisione comune dei coniugi, mentre la dedotta ma contestata previsione di un tempestivo rientro in Italia dopo la nascita è venuta comunque meno per l’insorgere di un conflitto insanabile fra i coniugi e assume pertanto il contenuto di una circostanza irrilevante o comunque subvalente, ai fini dell’accertamento della residenza abituale, a fronte della considerazione della formazione in Grecia dell’ambiente affettivo fondamentale in cui vive la bambina e che costituisce sicuramente, per la sua tenera età, il centro del suo attuale universo relazionale.
18. Il ricorso va pertanto respinto con compensazione delle spese in relazione alla peculiarità fattuale della vicenda che è alla base della controversia.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio.
Dispone omettersi l’indicazione del nominativo e di qualsiasi altro elemento identificativo delle parti nel caso di pubblicazione della presente ordinanza.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2019

Il contribuente che intende opporsi all’avviso di iscrizione ipotecaria (effettuata dall’esattore) su un bene costituito in fondo patrimoniale deve provare l’estraneità del debito ai bisogni della famiglia e la conoscenza di detta estraneità in capo al creditore che abbia iscritto l’ipoteca

Cass. civ. Sez. VI – 5, 23 luglio 2019, n. 19758
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 27461-2017 proposto da:
M.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CAVOUR 305, presso lo studio dell’avvocato MARCO YEUILLAZ, rappresentato e difeso dall’avvocato MASSIMILIANO PANI;
– ricorrente –
contro
ADER – AGENZIA DELLE ENTRATE-RISCOSSIONE (OMISSIS), in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1201/7/2017 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di TORINO, depositata il 31/07/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 04/04/2019 dal Consigliere Relatore Dott. ROSARIA MARIA CASTORINI.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La Corte:
costituito il contraddittorio camerale ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., come integralmente sostituito dalD.L. n. 168 del 2016,art.1- bis, comma 1, lett. e), convertito, con modificazioni, dallaL. n. 197 del 2016, osserva quanto segue;
Con sentenza n. 1201/7/2017 depositata il 31.7.2017 la C.T.R. del Piemonte accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate nei confronti di M.F. avverso la decisione di primo grado che aveva accolto il ricorso del contribuente avente ad oggetto avviso di iscrizione ipotecaria su un bene costituito in fondo patrimoniale. La CTR affermava che il contribuente non aveva dimostrato l’estraneità dei debiti alle necessità della famiglia.
Avverso la suddetta sentenza il contribuente propone ricorso per cassazione, affidando il suo mezzo a un motivo.
L’Agenzia delle Entrate – Riscossione – resiste con controricorso. Va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso in quanto redatto con la tecnica dei cosiddetti ricorsi “assemblati” o “farciti”.
La tecnica espositiva adottata nel ricorso in esame appare idonea ad integrare il requisitodell’art. 366 c.p.c., n. 3, poiché non difetta la sintesi funzionale alla comprensione e valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata in cui si sostanzia il principio di autosufficienza del ricorso e contiene tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata (Da ultimo Cass. 8245/2018).
1. Con il motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione delD.P.R. n. 602 del 1973,art.77, e degliartt. 167 e 170 c.c., in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.; lamenta in particolare che il debito fiscale era estraneo ai bisogni della famiglia.
Il ricorso non è fondato.
2. Va ribadito il principio affermato da questa Corte, e correttamente applicato dal giudice di merito, per il quale l’onere della prova dei presupposti di applicabilitàdell’art. 170 c.c., ed in particolare, per quanto rileva in questa sede, che il debito per cui si procede sia stato contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia e che il creditore sia a conoscenza di tale estraneità, grava sulla parte che intende avvalersi del regime di impignorabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale (Cass. 19/02/2013, n. 4011; Cass. 30/05/2007, n. 12730; Cass. 31/05/2006, n. 12998). Questa Corte, con la sentenza del 5/03/2013, n. 5385, proprio in relazione ad una iscrizione ipotecaria effettuata dall’esattore sui beni di un fondo patrimoniale, ha affermato chel’art. 170 c.c., nel disciplinare le condizioni di ammissibilità dell’esecuzione sui beni costituiti nel fondo patrimoniale, detta una regola applicabile anche all’iscrizione di ipoteca non volontaria, ivi compresa quella di cui al D.P.R. 3 marzo 1973, n. 602, art. 77 – di cui all’evidenza si discute nella controversia all’esame con la conseguenza che l’esattore può iscrivere ipoteca su beni appartenenti al coniuge o al terzo, conferiti nel fondo, qualora il debito facente capo a costoro sia stato contratto per uno scopo non estraneo ai bisogni familiari, e quando, ancorché sia stato contratto per uno scopo estraneo a tali bisogni, il titolare del credito, per il quale l’esattore procede alla riscossione, non conosceva l’estraneità ai bisogni della famiglia; viceversa, l’esattore non può iscrivere l’ipoteca su detti beni e l’eventuale iscrizione è illegittima se il creditore conosceva tale estraneità. Con la sentenza appena citata questa Corte ha anche ribadito che il coniuge (o il terzo) titolare del bene facente parte del fondo patrimoniale che si faccia attore contestando la legittimità dell’iscrizione ipotecaria perché avvenuta al di fuori delle condizioni legittimanti previstedall’art. 170 c.c.assume l’onere di allegare e dimostrare i fatti costitutivi dell’illegittimità dell’iscrizione, evidenziando che tra tali fatti vi è, innanzi tutto, l’essere stato il debito del coniuge (o del terzo) in relazione al quale si è proceduto all’iscrizione, contratto per uno scopo estraneo ai bisogni della famiglia, e che siffatto attore deve, inoltre, allegare e dimostrare che tale estraneità era conosciuta dal creditore che abbia iscritto l’ipoteca.
3.Tanto premesso, occorre rilevare che l’iscrizione ipotecaria di cui alD.P.R. n. 602 del 1973,art.77, è ammissibile anche sui beni facenti parte di un fondo patrimoniale alle condizioni indicatedall’art. 170 c.c., circostanze che non possono ritenersi dimostrate, né escluse, per il solo fatto dell’insorgenza del debito nell’esercizio dell’impresa” (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 23876 del 23/11/2015, Rv. 637586- 01).
In tema di fondo patrimoniale, il criterio identificativo dei debiti per i quali può avere luogo l’esecuzione sui beni del fondo va ricercato non già nella natura dell’obbligazione ma nella relazione tra il fatto generatore di essa e i bisogni della famiglia, sicché anche un debito di natura tributaria sorto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale può ritenersi contratto per soddisfare tale finalità, fermo restando che essa non può dirsi sussistente per il solo fatto che il debito derivi dall’attività professionale o d’impresa del coniuge, dovendosi accertare che l’obbligazione sia sorta per il soddisfacimento dei bisogni familiari (nel cui ambito vanno incluse le esigenze volte al pieno mantenimento ed all’univoco sviluppo della famiglia) ovvero per il potenziamento della di lui capacità lavorativa, e non per esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da interessi meramente speculativi” (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 3738 del 24/02/2015, Rv. 634646 – 01).
La sentenza impugnata è coerente con i principi di diritto espressi in tali arresti giurisprudenziali.
La CTR piemontese infatti, ha ritenuto che il contribuente non avesse nemmeno allegato la prova dell’estraneità del debito ai bisogni della famiglia, né della conoscenza di detta estraneità in capo al creditore.
Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.
Le spese seguono la soccombenza.
La Corte dà atto che, ai sensi dellaL. 24 dicembre 2012, n. 228,artt.1, comma 17(legge di stabilità 2013,D.P.R. n. 115 del 2002, comma 1-quater, T.U. spese di giustizia), sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore contributo unificato di cui all’art. 13 T.U., comma 1-bis.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso.
Condanna M.F. al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 5.600,00 oltre alle spese prenotate a debito. La Corte dà atto che, ai sensi dellaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17(legge di stabilità 2013,D.P.R. n. 115 del 2002, comma 1-quater, T.U. spese di giustizia), sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore contributo unificato.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2019