La ricostruzione della posizione reddituale di un coniuge operata dal giudice del merito non è sindacabile in Cassazione

Cass. civ. Sez. VI – 1, 18 dicembre 2018, n. 32673
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 29581-2016 proposto da:
M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIUSEPPE MAZZINI 140, presso lo studio dell’avvocato PIERLUIGI LUCATTONI, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONELLA FABI;
– ricorrente –
contro
G.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BUCCARIA 16, presso lo studio dell’avvocato LORIANA LONGO, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 6244/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 21/10/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 20/03/2018 dal Presidente Relatore Dott. PIETRO CAMPANILE.
Svolgimento del processo
che:
con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Roma, accogliendo il gravame, proposto, nel giudizio di separazione personale, da G.A. nei confronti di M.G., in riforma della decisione di primo grado ha elevato l’assegno di mantenimento in favore della moglie, in considerazione dell’alto tenore di vita tenuto durante la convivenza matrimoniale e dei redditi elevati del marito, notaio in Roma e in Genzano, da Euro 1.200 ad Euro 3.200,00, tenendo anche conto del mutuo di Euro 1.000,00 gravante sull’appellante;
rilevate, altresì, le accresciute esigenze del figlio P., nato nell’anno 2002, il contributo per il suo mantenimento è stato elevato da Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00;
per la cassazione di tale decisione il M. propone ricorso, affidato a tre motivi, cui l’intimata resiste con controricorso; le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
che:
il Collegio ha disposto, in conformità al decreto del Primo Presidente in data 14 settembre 2016, la redazione della motivazione in forma semplificata;
il primo motivo, con il quale si deduce la violazione degliartt. 156 e 2697 c.c., è inammissibile, in quanto, attraverso la denuncia di errores in iudicando, si propone in sostanza una diversa e più favorevole lettura delle emergenze probatorie, il cui vaglio è riservato al giudice del merito, che, secondo un orientamento consolidato, non essendo vincolato da una rigida gerarchia dei mezzi di prova, è pienamente libero di scegliere, fra i molteplici elementi sottoposti al suo vaglio, quelli che reputi più attendibili ed efficaci ai fini della formazione del proprio convincimento, scartando quelli giudicati meno concludenti e sicuri (Cass., 10 giugno 2013, n. 14540; Cass., 20 settembre 2011, n. 14462), fornendo al riguardo, adeguata motivazione, nella specie neppure censurata; del pari inammissibile è la seconda censura, con la quale, denunciando violazione degliartt. 2697 e 2727 c.c., eartt. 115 e 116 c.p.c., si contesta la ricostruzione della posizione reddituale del ricorrente, “notaio in (OMISSIS)”, così riproponendosi una critica alla valutazione di merito insindacabile in questa sede, senza per altro che sia possibile incidere, avuto riguardo ai limiti imposti dalla formulazione, applicabile nella specie,dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sulla motivazione resa al riguardo dalla corte distrettuale, e senza che sia attinta la fondamentale ragione della decisione, fondata sul notevole divario delle posizioni reddituali delle parti, evidenziata dai cospicui introiti del ricorrente (il quale nell’2015 aveva percepito compensi pari ad Euro 672.000,00) e dal reddito mensile della moglie, pari a circa Euro 1.200/1.300, di cui 1.000 destinati al pagamento di un mutuo); analoghe considerazioni vanno svolte in merito al terzo mezzo, inerente alla determinazione del contributo per il mantenimento del figlio, dovendosi rilevare come le generiche censure proposte non colgono neppure la ratio fondata sulla necessità di tener conto delle potenzialità reddituali dei genitori e sulle accresciute esigenze del giovane in relazione all’età, a tacere dell’infondatezza dei rilievi circa il tenore di vita familiare, derivante dall’inammissibilità dei primi due motivi;
le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese relative al presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis. Così deciso in Roma, il 20 marzo 2018.
Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2018

La Corte di cassazione precisa i limiti della valenza della denuncia di successione ai fini dell’accettazione di eredità.

Cass. 19 dicembre 2018 n° 32770
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –
Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –
Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –
Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –
Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 23252 – 2017 R.G. proposto da:
A.R. – c.f. (OMISSIS) – A.E. – c.f. (OMISSIS) – rappresentate e difese in virtù di procura speciale in calce
al ricorso dall’avvocato Laura Franci ed elettivamente domiciliate in Roma, alla via Filippo Corridoni, n.
19, presso lo studio dell’avvocato Francesco Pastorello.
– ricorrenti –
contro
S.G. – c.f. (OMISSIS) – rappresentata e difesa in virtù di procura speciale su foglio separato allegato in
calce al controricorso dall’avvocato Fabrizio Betti ed elettivamente domiciliata in Roma, alla via Germanico,
presso lo studio dell’avvocato Enrico Volpetti.
– Controricorrente –
avverso la sentenza della corte d’appello di Firenze n. 761/2017, udita la relazione della causa svolta nella
camera di consiglio del 13 settembre 2018 dal consigliere dott. Luigi Abete.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con atto ritualmente notificato A.R. ed A.E. citavano a comparire dinanzi al tribunale di Siena S.G..
Chiedevano che l’adito tribunale le dichiarasse eredi della loro defunta madre, S.A., e conseguentemente
condannasse la convenuta a restituir loro la somma di Euro 18.592,45, oltre interessi, dalla medesima
convenuta incassata quale presunta erede della de cuius; chiedevano altresì farsi luogo alla divisione
dell’immobile sito in (OMISSIS), di proprietà per pari quote della de cuius e di S.G..
Si costituiva S.G..
Instava per il rigetto dell’avversa domanda; in via riconvenzionale chiedeva accertarsi che le attrici avevano
rinunciato all’eredità materna con atto pubblico in data 23.6.1997 e che ella convenuta era l’unica erede
della sorella, S.A., in virtù di accettazione con beneficio d’inventario con atto dell’11.3.2002.
Con sentenza non definitiva n. 51/2011 l’adito tribunale dichiarava le attrici eredi di S.A., condannava la
convenuta alla restituzione della somma di Euro 18.592,45, oltre interessi, e disponeva con separata ordinanza
per l’ulteriore corso istruttorio.
Proponeva appello S.G..
Resistevano A.R. ed A.E..
Con sentenza n. 761/2017 la corte d’appello di Firenze accoglieva il gravame e compensava integralmente
le spese del doppio grado.
Esplicitava la corte che la dichiarazione di successione e la richiesta di voltura catastale dell’immobile ricompreso
pro quota nell’asse ereditario, cui le appellate avevano atteso nel corso dell’anno 1993, in quanto
atti da compiere in via obbligatoria, non valevano senz’altro ad integrare gli estremi dell’atto presupponente
necessariamente la volontà di accettare l’eredità ai sensi dell’art. 476 c.c..
Esplicitava che in ogni caso tale postulato si giustificava alla stregua della valutazione del comportamento
complessivo delle appellate; che invero R. ed A.E. si erano limitate alle uniche due surriferite incombenze
e per almeno dieci anni mai avevano posseduto o rivendicato beni ereditari e, per giunta, avevano rinunciato
espressamente, nel 1997 e nel 2002 – in tale seconda evenienza nell’interesse delle rispettive figlie –
all’eredità materna.
Esplicitava quindi che, alla luce della valutazione della condotta complessiva delle chiamate, la volontà di
rinunciare all’eredità risultava “”prevalente” rispetto all’efficacia ex art. 476 c.c. di denuncia di successione
e voltura catastale” (così sentenza d’appello, pag. 5).
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso A.R. ed A.E.; ne hanno chiesto sulla scorta di un unico motivo
la cassazione con ogni susseguente statuizione.
S.G. ha depositato controricorso; ha chiesto rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese.
Le ricorrenti hanno depositato memoria.
Con l’unico motivo le ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa
applicazione degli artt. 476 e 519 c.c..
Deducono che, alla stregua dell’elaborazione giurisprudenziale di questa Corte di legittimità, la voltura
catastale – a differenza della denunzia di successione, atto avente unicamente valenza fiscale – ha senza
dubbio valenza civilistica e dunque costituisce atto di accettazione tacita dell’eredità; che del resto,
all’epoca dei fatti per cui è controversia, ai fini della volturazione catastale “era necessaria autonoma richiesta
ai competenti uffici da parte del chiamato all’eredità” (così ricorso, pag. 8).
Deducono inoltre che, in dipendenza del compimento di un atto valido quale accettazione tacita dell’eredità,
“la successiva rinuncia doveva essere considerata assolutamente inefficace in virtù del principio semel
heres semper heres” (così ricorso, pagg. 9 – 10).
Il ricorso è infondato e va respinto.
Questa Corte spiega da tempo che l’indagine relativa alla esistenza o meno di un comportamento qualificabile
in termini di accettazione tacita, risolvendosi in un accertamento di fatto, va condotta dal giudice di
merito caso per caso (in considerazione delle peculiarità di ogni singola fattispecie, e tenendo conto di
molteplici fattori, tra cui quelli della natura e dell’importanza, oltrechè della finalità, degli atti di gestione),
e non è censurabile in sede di legittimità, purchè la relativa motivazione risulti immune da vizi logici
o da errori di diritto (cfr. Cass. 17.11.1999, n. 12753).
Evidentemente, su tale scorta, l’esperito motivo di ricorso si qualifica in rapporto alla previsione dall’art.
360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Invero occorre tener conto, da un lato, che le ricorrenti sostanzialmente censurano il giudizio “di fatto”
cui la corte di merito ha atteso (“l’accettazione tacita dell’eredità può (…) essere desunta dal comportamento
complessivo del chiamato all’eredità”: così ricorso, pag. 9; “il giudice di secondo grado (…) sostiene
erroneamente che nella valutazione della condotta complessiva delle chiamate debba tenersi conto
(…)”: così ricorso, pag. 9); dall’altro, che è propriamente la previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5,
che concerne l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia
(cfr. Cass. sez. un. 25.11.2008, n. 28054; cfr. Cass. 11.8.2004, n. 15499).
In questi termini l’asserito vizio veicolato dall’azionato mezzo è da vagliare in rapporto della novella formulazione
dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile alla fattispecie ratione temporis (la sentenza della
corte di Firenze è stata depositata il 5.4.2017), e nel segno della pronuncia n. 8053 del 7.4.2014 delle
sezioni unite di questa Corte.
Ebbene, in quest’ottica, si osserva quanto segue.
Per un verso, è da escludere recisamente che taluna delle figure di “anomalia motivazionale” destinate ad
acquisire significato alla stregua della pronuncia a sezioni unite testè menzionata (ovvero la “mancanza
assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, la “motivazione apparente”, il “contrasto irriducibile
tra affermazioni inconciliabili” e la “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa
qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione), possa scorgersi in relazione
alle motivazioni cui la corte toscana ha ancorato il suo dictum.
In particolare, con riferimento al paradigma della motivazione “apparente” – che ricorre allorquando il
giudice di merito non procede ad una approfondita disamina logico – giuridica, tale da lasciar trasparire il
percorso argomentativo seguito (cfr. Cass. 21.7.2006, n. 16672) – la corte distrettuale ha – siccome si è
premesso – compiutamente ed intellegibilmente esplicitato il proprio iter argomentativo (è opportuno ribadire
che la corte d’appello ha specificato che andava “valutata l’indubbia rilevanza presuntiva di denuncia
di successione e (soprattutto) voltura catastale, ma alla luce e nell’ambito del complessivo comportamento
delle chiamate sig.re A.”: così sentenza d’appello, pag. 5).
Per altro verso, la corte territoriale ha sicuramente disaminato il fatto storico dalle parti discusso, a carattere
decisivo, connotante la res litigiosa, ovvero ha provveduto al riscontro della valenza del complessivo
comportamento tenuto dalle “chiamate” R. ed A.E..
In ogni caso l’iter motivazionale che sorregge il dictum della corte di merito risulta assolutamente congruo
ed esaustivo ed in toto ineccepibile sula piano della correttezza giuridica.
A tal ultimo riguardo si rappresenta, da un canto, che l’elaborazione di questa Corte di legittimità ha puntualizzato
che la voltura catastale non integra incondizionatamente gli estremi di un’accettazione tacita
dell’eredità efficace ad ampio spettro soggettivo (cfr. Cass. (ord.) 6.4.2017, n. 8980, secondo cui l’accettazione
tacita di eredità – pur potendo avvenire attraverso “negotiorum gestio”, cui segua la successiva ratifica
del chiamato, o per mezzo del conferimento di una delega o dello svolgimento di attività procuratoria
– può tuttavia desumersi soltanto da un comportamento del successibile e non di altri, sicchè non ricorre
ove solo l’altro chiamato all’eredità, in assenza di elementi dai quali desumere il conferimento di una delega
o la successiva ratifica del suo operato, abbia fatto richiesta di voltura catastale di un immobile del “de
cuius”); dall’altro, che è indubitabile che la denuncia di successione ed il pagamento della relativa imposta
non importano accettazione tacita dell’eredità (cfr. Cass. 28.2.2007, n. 4783).
In dipendenza del rigetto del ricorso le ricorrenti vanno in solido condannate a rimborsare alla controricorrente
le spese del presente giudizio di legittimità.
La liquidazione segue come da dispositivo.
Si dà atto che il ricorso è datato 28.9.2017. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1
quater, si dà atto altresì della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai
sensi del D.P.R. cit., art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna in solido le ricorrenti, A.R. ed A.E., a rimborsare alla controricorrente,
S.G., le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 3.700,00, di cui
Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e cassa
come per legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi del cit. art. 13, comma 1 bis.
Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2018

L’usucapione del bene ereditario richiede la prova del possesso esclusivo.

Corte di Cassazione 16 gennaio 2019 n. 966
Fatti di causa
1. Nel giudizio introdotto nel 2001 da Na.Si. nei confronti dei germani S. e M., avente ad oggetto lo
scioglimento di comunione ereditaria con rendiconto, la Corte d’appello di Venezia, con sentenza non
definitiva depositata il 31 gennaio 2014, ha accolto l’appello proposto da Na.Si. avverso la sentenza del
Tribunale di Vicenza n. 308 del 2009, e, per l’effetto, ha rigettato la domanda riconvenzionale di
usucapione proposta da N.S. , disponendo la prosecuzione del giudizio.
2. Avverso la sentenza non definitiva N.S. ha proposto ricorso per cassazione (n. 8580 del 2014) affidato
a due motivi, ai quali ha resistito Na.Si. con controricorso, mentre N.M. non ha svolto difese.
3. La Corte d’appello di Venezia, con la sentenza definitiva depositata il 12 marzo 2015 e notificata in pari
data, previo rigetto dell’istanza di sospensione formulata dall’appellato, ha proceduto allo scioglimento
della comunione ereditaria e al rendiconto.
4. Avverso la sentenza definitiva N.S. ha proposto ricorso per cassazione (n. 11701 del 2015), sulla base
di tre motivi ai quali ha resistito Na.Si. , con controricorso, mentre N.M. non ha svolto difese.
Su istanza del ricorrente, i ricorsi sono stati fissati per la decisione all’odierna Camera di consiglio.
Ragioni della decisione
1. Preliminarmente è disposta la riunione dei ricorsi (n. 8580 del 2014 e n. 11701 del 2015), ai sensi
dell’art. 335 c.p.c., applicabile anche in ipotesi di impugnazioni contro provvedimenti diversi qualora
sussista, come nella specie, unitarietà sostanziale e processuale delle controversie (ex plurimis, Cass.
Sez. U 23/01/2013, n. 1521).
2. Il ricorso n. 8580 del 2014, proposto avverso la sentenza non definitiva, è infondato.
3. Con il primo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 714, 1102, 1141 e 1164 c.c.
e si contesta che la Corte d’appello avrebbe rigettato la domanda di usucapione dei beni ereditari per
carenza di atto di interversione del possesso, laddove l’art. 714 c.c., applicabile alla fattispecie concreta,
non richiede alcun atto di interversione, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità (sono
richiamate numerose pronunce, a partire da Cass. 18/12/2013, n. 28346).
3.1. Il motivo è infondato.
Diversamente da quanto assume il ricorrente, la Corte d’appello non ha fondato la decisione sul rilievo
che non vi fosse prova di atti di interversione del possesso – che non sono richiesti ai fini dell’usucapione
di beni ereditari -, bensì sul rilievo che non fosse provato il possesso ad excludendum, vale a dire una
situazione nella quale il rapporto materiale del coerede con i beni ereditari sia tale da escludere gli altri
coeredi dalla possibilità di analogo rapporto.
La decisione in diritto è conforme alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo la quale il
coerede che dopo la morte del de cuius sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della
divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal
fine, egli, che già possiede animo proprio ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso
in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene con modalità incompatibili con la
possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non
più uti condominus. A tale riguardo non è univocamente significativo che egli abbia utilizzato ed
amministrato il bene ereditario e che i coeredi si siano astenuti da analoghe attività, sussistendo la
presunzione iuris tantum che abbia agito nella qualità e operato anche nell’interesse anche degli altri
coeredi (ex plurimis, Cass. 04/05/2018, n. 10734; Cass. 25/03/2009, n. 7221).
4. Con il secondo motivo è denunciata falsa applicazione dell’art. 714 c.c., lamentando la Corte d’appello
non avrebbe valutato se il possesso esercitato dal ricorrente sui beni ereditari per il periodo complessivo
di 35 anni presentasse il carattere di esclusività. Il ricorrente contesta che il possesso integrale dei beni
gli sarebbe stato consentito per mera tolleranza; evidenzia che dall’istruttoria era emerso che la madre
affermava di abitare nella casa del figlio, e che la germana Si. non era più rientrata nella casa di famiglia
dopo essersi sposata nel 1967, né aveva partecipato alla conduzione dell’azienda agricola o fatto suoi i
frutti. Vi era dunque un’implicita ammissione da parte della coerede di non aver potuto fare uso dei beni
ereditari senza il permesso del fratello, ed inoltre era dimostrato che tutti i lavori di manutenzione e/o
1
ristrutturazione dell’abitazione era stati effettuati da o per conto di N.S. .
4.1. Il motivo è inammissibile.
La valutazione delle risultanze probatorie effettuata dal giudice di merito non è sindacabile in sede di
giudizio di legittimità se non nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo riformulato dal D.L. n.
83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, e cioè denunciando l’omesso esame di
un fatto decisivo, laddove il ricorrente, mentre non denuncia omissioni di valenza decisiva in cui sarebbe
incorsa la Corte d’appello, sollecita il riesame degli elementi probatori già vagliati dalla Corte d’appello e
ritenuti inidonei a dimostrare il possesso esclusivo dei beni ereditari.
La Corte territoriale ha evidenziato che nel lungo periodo intercorso tra l’apertura della successione
paterna (1964) e la morte della madre dei germani N. (…), N.S. aveva continuato a vivere nella casa di
famiglia con la madre – che titolare di usufrutto sui beni ereditari, oltre che del diritto di abitazione – e
aveva esercitato il possesso dei beni ereditari, ma non risultava che il suo rapporto con detti beni
precludesse alle germane coeredi di possedere anch’esse. Rilievo analogo valeva per il periodo successivo
alla morte della madre, allorché N.S. aveva esercitato il possesso integrale dei beni ereditari, non essendo
provato che tale possesso escludesse le germane coeredi.
5. Il ricorso n. 11701 del 2015, proposto avverso la sentenza definitiva, è inammissibile.
5.1. Con il primo motivo è denunciato, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, difetto assoluto di
motivazione o motivazione apparente del diniego di sospensione del giudizio. Si assume dal ricorrente che
la Corte d’appello non avrebbe chiarito le ragioni in base alle quali aveva ritenuto insussistente il rapporto
di pregiudizialità tra il giudizio pendente in cassazione, avente ad oggetto la domanda di usucapione dei
beni ereditari, ed il giudizio di scioglimento della comunione ereditaria.
6. Con il secondo motivo è denunciata violazione o falsa applicazione dell’art. 295 c.p.c., assumendosi dal
ricorrente che la Corte d’appello era incorsa in errore nel ritenere che non sussisteva il potenziale conflitto
tra giudicati.
7. Con il terzo motivo è denunciata violazione o falsa applicazione dell’art. 279 c.p.c., comma 4 e si
lamenta la mancata applicazione della sospensione facoltativa, sussistendone le condizioni.
8. I motivi, che hanno ad oggetto esclusivamente il diniego di sospensione del giudizio di prosecuzione,
sono inammissibili per carenza di interesse ed è pertanto inammissibile l’intero ricorso.
La pronuncia odierna sul ricorso proposto avverso la sentenza non definitiva, che ha definito la causa in
assunto pregiudicante, ha fatto venir meno l’ipotetico rapporto di pregiudizialità tra le cause e con esso
l’interesse all’impugnazione del diniego di sospensione, che non è più attuale.
9. Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi n. 8580 del 2014 e n. 11701 del 2015, rigetta il primo ricorso, dichiara
inammissibile il secondo ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della resistente delle
spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre
spese generali e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti
per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Impugnabilità dei provvedimenti emessi nell’ambito dell’amministrazione di sostegno.

Cass. 12 dicembre n° 32071
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –
Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso per conflitto di competenza iscritto al n. 11997/2018 R.G., sollevato dalla Corte d’appello di
Brescia con ordinanza in data 10 aprile 2018, nel procedimento vertente tra:
B.C.;
e F.F.M., da una parte;
e Avv. B.J., B.F. e D.T.R., dall’altra;
ed iscritto al n. 367/2017 V.G. di quell’Ufficio.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13 novembre 2018 dal Consigliere Guido Mercolino;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Immacolata
ZENO, che ha chiesto la dichiarazione d’inammissibilità del regolamento.
Svolgimento del processo
1. Condecreto del 21 settembre 2017, il Tribunale di Brescia ha dichiarato la propria incompetenza in ordine
al reclamo proposto da B.C. e F.F.M. avverso il decreto emesso il 22 giugno 2017, con cui il Giudice
tutelare aveva disposto l’apertura dell’amministrazione di sostegno in favore della B., nominando amministratore
l’avv. J.B..
2. A seguito della riassunzione del giudizio, la Corte d’appello di Brescia, dichiarata competente dal predetto
decreto, con ordinanza del 10 aprile 2018, ha sollevato conflitto negativo di competenza.
Premesso che l’oggetto del reclamo era costituito esclusivamente dalla individuazione della persona chiamata
a svolgere le funzioni di amministratore, avendo le reclamanti insistito per la nomina della F., in
conformità di una preferenza manifestata dalla stessa beneficiaria, ed in subordine per la nomina di un terzo
estraneo al nucleo familiare ma diverso dall’avv. B., la Corte ha escluso che il provvedimento impugnato
avesse natura decisoria, come ritenuto dal Tribunale; ha rilevato infatti che, come riconosciuto dalle
stesse reclamanti, l’indicazione fornita dalla B. non era volta a garantire l’esercizio di diritti fondamentali
della persona, ma solo ad individuare la persona più adatta al disbrigo delle pratiche relative alla gestione
del patrimonio ed all’ordinaria cura della persona, essendo stato affermato che la F. era la persona più vicina
alla beneficiaria, della quale si occupava già quotidianamente; ha aggiunto che l’indipendenza
dell’indicazione dal timore di una lesione dell’autodeterminazione della beneficiaria trovava conferma nella
domanda subordinata di nomina di un soggetto estraneo al nucleo familiare, concludendo pertanto per
il carattere meramente gestiona-le del provvedimento impugnato, con la conseguente reclamabilità dello
stesso dinanzi al Tribunale di Brescia in composizione collegiale.
3. Le parti non hanno svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
1. Preliminarmente, va disattesa l’eccezione d’inammissibilità del conflitto di competenza, sollevata dal
Pubblico Ministero in relazione alla natura del provvedimento impugnato con il reclamo, il cui contenuto,
meramente attuativo ed ordinatorio rispetto alla pronuncia di apertura dell’amministrazione di sostegno,
escluderebbe la sussistenza dei caratteri di decisorietà e definitività necessari ai fini del regolamento, tanto
ad istanza di parte quanto d’ufficio.
A differenza del regolamento ad istanza di parte, quello d’ufficio è infatti strutturato non già come un
mezzo d’impugnazione, ma come uno strumento volto a sollecitare l’individuazione del giudice naturale,
precostituito per legge, al quale compete la trattazione dell’affare, in via interinale o provvisoria ma comunque
esclusiva, e per la cui proponibilità non si richiede dunque che l’atto che vi abbia dato luogo sia
impugnabile con il ricorso per cassazione ai sensidell’art. 111 Cost.o con il regolamento ad istanza di parte
(cfr. Cass., Sez. 6, 11/04/2013, n. 8875; Cass., Sez. 1, 22/09/2005, n. 18639); esso è pertanto compatibile
anche con il procedimento di cuiall’art. 720-bis c.p.c., indipendentemente dall’inammissibilità del ricorso
per cassazione avverso il provvedimento con cui, in caso di apertura della amministrazione di sostegno,
si procede alla designazione, alla sostituzione o alla revoca della nomina della persona chiamata ad
esercitare le funzioni di amministratore (cfr. Cass., Sez. 1, 28/09/2017, n. 22693; 16/02/2016, n. 2895). Il
regolamento d’ufficio non può considerarsi precluso neppure dalla circostanza che il conflitto di competenza
non sia insorto in prima istanza, ma in sede di gravame, dal momento che la proposizione dell’impugnazione
dinanzi ad un giudice diverso, per territorio o grado, da quello indicato dalla legge non ne comporta
l’inammissibilità, risultando comunque idonea all’instaurazione di un valido rapporto processuale,
suscettibile di proseguire dinanzi al giudice effettivamente competente attraverso il meccanismo della
translatio judicii (cfr. Cass., Sez. Un., 14/09/2016, n. 18121; Cass., Sez. 6, 3/04/2018, n. 8155; Cass., Sez.
3, 16/10/2017, n. 24274); qualora pertanto, come nella specie, il giudice adito in sede d’impugnazione abbia
dichiarato la propria incompetenza, rimettendo le parti dinanzi al giudice da lui ritenuto competente,
la mancata impugnazione di tale decisione ad opera delle parti non impedisce a quest’ultimo, in caso di
dissenso, di richiedere a questa Corte regolatrice una pronuncia sulla competenza, attraverso lo strumento
previstodall’art. 45 c.p.c..
2. Tanto premesso, ai fini dell’individuazione del giudice competente in ordine al reclamo occorre richiamare
il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, che, in tema di amministrazione di
sostegno, distingue tra i provvedimenti di apertura e chiusura della procedura, assimilabili per loro natura
alle sentenze emesse nei procedimenti d’interdizione ed inabilitazione, e quelli riguardanti le modalità di
attuazione della tutela e la concreta gestione del patrimonio del beneficiario (cfr. Cass., Sez. 1, 28/09/
2017, n. 22693; 16/02/2016, n. 2985; Cass., Sez. 6, 9/03/2015, n. 4701; 23/06/2011, n. 13747), circoscrivendo
ai primi, aventi carattere decisorio ed idonei ad acquistare efficacia di giudicato, sia pure rebus sic
stantibus, l’applicabilitàdell’art. 720-bis c.p.c., che ne prevede l’impugnabilità dinanzi alla corte d’appello,
e riconoscendo agli altri, sempre modificabili e revocabili in base ad una rinnovata valutazione degli elementi
acquisiti, una portata meramente ordinatoria ed amministrativa, che ne consente l’inquadramento
negli artt. 374 e ss. c.c., richiamatidall’art. 411 c.c., con la conseguente proponibilità del reclamo dinanzi
al tribunale in composizione collegiale, ai sensidell’art. 739 c.p.c.(cfr. Cass., Sez. 1, 13/01/2017, n. 784;
Cass., Sez. 6, 29/10/2012, n. 18634).
Alla seconda categoria di provvedimenti vanno ricondotti anche quelli di designazione, revoca e sostituzione
dell’amministratore, in quanto non incidenti sullo status o su diritti fondamentali del beneficiario
della tutela, ma volti esclusivamente ad individuare il soggetto cui è demandata in concreto la cura della
sua persona e dei suoi interessi; nessun rilievo può assumere, in proposito, l’eventualità che tale individuazione
abbia luogo contestualmente all’apertura della procedura e con il medesimo provvedimento, dovendosi
in tal caso distinguere, nell’ambito di quest’ultimo, le determinazioni adottate dal giudice tutelare
in ordine rispettivamente alle ragioni che giustificano il riconoscimento della tutela e alla scelta delle modalità
di attuazione della stessa, assoggettate a differenti regimi con riguardo sia alla individuazione del
giudice competente per il reclamo che alla proponibilità del ricorso per cassazione avverso la decisione di
quest’ultimo.
Ciò posto, si osserva che, come correttamente rilevato dalla Corte distrettuale, le doglianze proposte con
il reclamo non hanno ad oggetto l’apertura dell’amministrazione di sostegno, la cui necessità è stata riconosciuta
dalle stesse reclamanti, ma l’individuazione della persona incaricata di coadiuvare la beneficiaria
nella cura della propria persona e nella gestione dei propri interessi, avendo le reclamanti contestato la
scelta di un soggetto estraneo al nucleo familiare, in quanto effettuata dal Giudice tutelare senza tener
conto della preferenza espressa dalla beneficiaria in favore della persona che già in precedenza si era resa
disponibile ad assisterla quotidianamente. Non può dunque condividersi l’affermazione del Tribunale di
Brescia, secondo cui il reclamo avrebbe dovuto essere proposto dinanzi alla Corte d’appello, competente
ai sensidell’art. 720-bis c.p.c., in virtù del carattere decisorio del provvedimento impugnato, che, in quanto
avente ad oggetto la designazione dell’amministratore di sostegno, doveva considerarsi incidente sul diritto
dell’incapace di esprimere la sua volontà in ordine alla persona che in sua vece avrebbe potuto compiere
gli atti contemplati nel decreto. La circostanza che, nella scelta della persona da nominare, il giudice
tutelare sia tenuto in linea di principio ad attenersi alle indicazioni fornite dal beneficiario, potendosene
discostare esclusivamente in presenza di gravi motivi, non consente di ritenere che l’inosservanza di tale
direttiva comporti una modificazione della natura del provvedimento di nomina, la cui contrarietà alle
predette indicazioni non si traduce in un’ulteriore limitazione della capacità dell’interessato, ma solo in
una diversa valutazione dell’interesse di quest’ultimo, rimessa alla discrezionalità del giudice tutelare, con
il solo limite costituito dall’onere di motivare adeguatamente la scelta compiuta.
3. La competenza a decidere sul reclamo proposto avverso il provvedimento di designazione dell’amministratore
di sostegno va pertanto riconosciuta al Tribunale di Brescia, in composizione collegiale, dinanzi
al quale le parti vanno rimesse per la prosecuzione del procedimento.
La proposizione d’ufficio del regolamento di competenza esclude la necessità di provvedere al regolamento
delle spese processuali.
P.Q.M.
dichiara la competenza del Tribunale di Brescia, in composizione collegiale, dinanzi al quale il processo
dovrà essere riassunto nel termine di legge.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione
scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia
omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella ordinanza.
Così deciso in Roma, il 13 novembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2018

Il reato di maltrattamenti in famiglia non presuppone la coabitazione ma la condivisione di un progetto di vita basato sulla reciproca assistenza morale e materiale

Cass. pen. Sez. III, 7 gennaio 2019, n. 345
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
A.A., nato in (OMISSIS);
avverso la sentenza in data 18.1.2018 della Corte di Appello di Venezia;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Donatella Galterio;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Pietro Gaeta, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
1.Con sentenza in data 18.1.2018 della Corte di Appello di Venezia ha integralmente confermato la pronuncia resa dal Tribunale di Vicenza all’esito del primo grado di giudizio in ordine alla penale responsabilità di A.A. per i reati di cui agliartt. 572, 609-bis e 582 e 585 c.p.eart. 576 c.p., n. 5 per i ripetuti maltrattamenti posti in essere nei confronti di R.F. con la quale intratteneva una relazione sentimentale da cui era nata una figlia, per averla costretta a subire un rapporto sessuale puntandole un coltello alla gola e percuotendola con pugni e schiaffi e per averle procurato in tale occasione lesioni personali giudicate guaribili in 30 giorni, reati per i quali era stato condannato alla pena di quattro anni e tre mesi di reclusione.
2. Avverso il suddetto provvedimento l’imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione, articolando tre motivi di seguito riprodotti nei limiti di cuiall’art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Con il primo motivo contesta, in relazione al vizio di violazione di legge e al vizio motivazionale, la configurabilità del reato di maltrattamenti in assenza tanto di una convivenza stabile con la donna alla quale era legato solo da un rapporto sentimentale, ma avendo sempre abitato ognuno per proprio conto anche dopo la nascita nel 2015 della bambina che sporadicamente andava a trovare trattenendosi solo in tali circostanze nella di lei abitazione, quanto dell’abitualità della condotta essendosi la p.o. limitata a rendere dichiarazioni vaghe e generiche su minacce, violenze ed offese non collocate temporalmente, né contestualizzate, prive peraltro di riscontri testimoniali, senza che neppure ne venisse valutata l’attendibilità alla luce della sua condizione di tossicodipendente. Contesta altresì la sussistenza del delitto di violenza sessuale in ragione sia dell’anomala dinamica riferita dalla stessa vittima che aveva dichiarato che solo dopo la consumazione del rapporto, da lei stessa assecondato, era stata minacciata dall’imputato con un coltello, sia dell’assenza di riscontri oggettivi non essendo stato prodotto neppure un certificato medico, sia della condotta ambivalente tenuta da costei che aveva prima sporto denuncia nei suoi confronti, poi l’aveva ritirata e poi gli aveva inviato una lettera affettuosa rimpiangendo il passato trascorso insieme.
2.2. Con il secondo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge riferitoall’art. 609-bis c.p., u.c. e al vizio motivazionale, che essendosi il fatto consumato in costanza di una relazione affettiva, che non essendosi la p.o. opposta in maniera drastica al rapporto sessuale avendo lei stessa ammesso di aver prestato il suo consenso dopo l’opposizione iniziale, che l’azione si era svolta in camera da letto e quindi in un luogo intimo e che le lesioni risultavano successive all’amplesso, sussistevano tutti i presupposti, in considerazione della valutazione globale della vicenda, per l’applicabilità dell’attenuante di minore gravità.
2.3. Con il terzo motivo lamenta l’insussistenza della condizione di procedibilità per il reato di lesioni personali, le quali non erano state poste in essere in occasione della violenza sessuale con la finalità di ottenere un rapporto sessuale, bensì successivamente ad esso quando la donna era già uscita dalla camera da letto, con conseguente inconfigurabilità di un collegamento tra le due condotte.

Motivi della decisione
1.Il primo motivo, che si compendia di una pluralità di doglianze afferenti a tutti e tre i reati ascritti al prevenuto, deve ritenersi fondato nei limiti di seguito indicati.
1.1.Per quanto concerne il delitto di cui all’art. 609 bis c.p. le censure proposte appaiono, indipendentemente dalla qualificazione giuridica loro conferita dal ricorrente, volte a contestare l’apparato motivazionale della sentenza impugnata. Esse tuttavia, lungi dal denunciare un errore logico del percorso argomentativo seguito dalla Corte di merito, si risolvono nella pedissequa riproposizione delle medesime doglianze articolate con i motivi di appello senza confrontarsi con le ragioni puntualmente esposte dalla sentenza impugnata per le quali sono state disattese. Secondo il consolidato e condivisibile orientamento di questa Corte la mancanza di specificità del motivo nel ricorso per cassazione, infatti, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, la quale non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato, cade nel vizio di mancanza di specificità, conducente, a normadell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all’inammissibilità perché diretta a sollecitare una rivalutazione del merito, preclusa in sede di legittimità. (Sez. 4, n.256 del 18.9.1997 – 13.1.1998, Rv. 210157; Sez. 5, n.1193 del 27.1.2005 25.3.2005, Rv. 231708; Sez. 6, n. 34521 del 27 giugno – 8 agosto 2013, Rv. 256133).
Ciò premesso, mentre la ricostruzione dell’accaduto patrocinata dalla difesa in ordine alle connotazioni violente e minacciose della condotta dell’agente è platealmente smentita dalla dinamica ricostruita dalla Corte veneziana, secondo la quale le percosse inflitte alla donna, legata per i polsi e con la minaccia di un coltello nel soggiorno della di lei abitazione risultano essere state precedute da analoghe condotte minacciose, anch’esse poste in essere con un coltello, sia pure più piccolo, e di sopraffazione fisica con cui l’imputato in camera da letto ha costretto la vittima piangente a spogliarsi e a subire un rapporto sessuale, i contraddittori comportamenti tenuti dalla p.o. nel post factum per avere costei dapprima denunciato il compagno, poi ritirato la denuncia ed infine inviatogli una lettera nel tentativo di fargli comprendere le aberranti connotazioni della sua condotta non solo sul piano strettamente fisico, ma altresì su quello affettivo in quanto disvelatrice di un malcelato desiderio di possesso e di dominio incondizionato, sono stati, invece, puntualmente esaminati dai giudici di appello che evidenzia come l’ambivalenza dei sentimenti provati dalla donna, comunque infatuata dall’imputato e consapevole dei legami derivanti dalla nascita della bambina, abbia determinato il susseguirsi di un turbinio di emozioni, per un verso protese a cercar giustizia nell’obiettivo di affrancarsi da un rapporto umiliante e violento, e dall’altro chine sul passato, nel tentativo di recuperare un rapporto con quello che era il suo compagno e comunque il padre di sua figlia e nel contestuale timore delle sue reazioni stanti le pressioni in tal senso ricevute dall’imputato. Il vaglio di attendibilità della vittima, condotto con attenta ed approfondita analisi dai giudici di merito, non risulta scalfito dall’ambiguità dei sentimenti provati da costei, riconducibili a quella che risponde ad una dipendenza affettiva quanto mai comune nei rapporti sentimentali, che invece viene ricondotta, nel caso di specie, alla genuinità delle sue dichiarazioni, avvalorata, quanto all’assenza di intenti ritorsivi, dal rifiuto del risarcimento in denaro offertole dall’uomo e dalla scelta processuale di non costituirsi parte civile. Del resto è stato già affermato da questa Corte che in tema di valutazione della prova testimoniale, l’ambivalenza dei sentimenti provati dalla persona offesa nei confronti dell’imputato non rende di per sé inattendibile la narrazione delle violenze e delle afflizioni subite, imponendo solo una maggiore prudenza nell’analisi delle dichiarazioni in seno al contesto degli elementi conoscitivi a disposizione del giudice (Sez. 6, n. 31309 del 13/05/2015 – dep. 17/07/2015, S, Rv. 264334).
1.2. Con riferimento al reato di maltrattamenti la questione posta all’attenzione di questa Corte impone di valutare se il requisito della stabile coabitazione funga o meno da presupposto necessario alla configurabilità della fattispecie criminosa in presenza di una relazione sentimentale, seppur duratura, tra due persone non legate da vincolo matrimoniale.
Se è vero che la coabitazione è l’elemento di norma rivelatore, secondo l’id quod plerumque accidit, il rapporto di solidarietà e protezione che lega due o più persone che formano un consorzio familiare, è altrettanto pacifico che non può essere la condivisione della stessa abitazione il parametro che consente di individuare la convivenza more uxorio al cui ambito è stata estesa la tutela già apprestata dal legislatore penale alla famiglia fondata sul matrimonio (emblematico in tal senso è il mutamento della rubrica del reato di cuiall’art. 572 c.p.da “maltrattamenti in famiglia” in “maltrattamenti contro familiari e conviventi” apportato dalla novella n.172 del 2012 conseguente alla ratifica della Convenzione di Lanzarote del 2007), risiedendo per contro il nucleo caratterizzante il rapporto familiare di fatto nella natura e nell’intensità del vincolo, che – secondo il costante e condiviso indirizzo di legittimità – ben può essere desunto, anche in assenza di una stabile convivenza fisica, dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca assistenza morale e materiale (Sez. 6, n. 22915 del 7/5/2013, 1, Rv, 255628; Sez. 6, n. 50333 del 12/06/2013 – dep. 13/12/2013, L., Rv. 258644; Sez. 6, n. 25498 del 20/04/2017 – dep. 22/05/2017, S, Rv. 270673).
Malgrado possa ritenersi rispondente ad un indirizzo consolidato che la mancanza di convivenza, laddove vengano in considerazione condotte di maltrattamento astrattamente sussumibili nel paradigma normativodell’art. 572 cod. pen.adottate all’interno di un contesto familiare, diventi un dato recessivo al fine di escludere la configurabilità della fattispecie criminosa, va tuttavia rilevato che la predetta affermazione si fonda, stando all’esame degli arresti citati, sulla mancanza di attualità della convivenza presupponendosi che la stessa sia cessata o per il mutato status conseguente al vincolo matrimoniale, ritenendosi che nel caso diseparazione(consensuale o giudiziale) dei coniugi, nonostante la cessazione della convivenza, persistano gli obblighi giuridici, sia pure attenuati, di assistenza materiale e morale nascenti dal matrimonio, o derivante dalla volontaria cessazione della convivenza more uxorio in presenza di prole.
Certamente può condividersi il principio secondo cui, nonostante la mancanza di un dovere di reciproca solidarietà ed assistenza tra gli ex conviventi, l’esistenza di prole all’interno della famiglia di fatto determini, attesa anche l’equiparazione della filiazione naturale a quella legittima suggellata in campo civilistico dalla riformaL. 10 dicembre 2012, n. 219, la permanenza in capo a costoro del complesso degli obblighi di mantenimento, educazione, istruzione ed in generale di assistenza morale verso i figli per il cui adempimento la coppia genitoriale, seppur non più convivente, è chiamata a relazionarsi e a cooperare, discendendo proprio da tale rapporto la permanenza del dovere di reciproco rispetto (in tal senso cfr. Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014 – dep. 31/07/2014, C., Rv. 262078 secondo cui è configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l’agente, quando quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione).
Ma se il dato comune che ha portato ad estendere la tutela penale anche ai coniugi separati o ai genitori di prole nata fuori dal matrimonio è comunque costituito dalla preesistenza di un rapporto nascente dal matrimonio o da una convivenza more uxorio, la peculiarità della fattispecie in esame è insita, invece, nella mancanza ab origine di un rapporto di stabile convivenza. La stessa Corte distrettuale da atto, nel delineare i rapporti tra l’imputato e la vittima, del fatto che ognuno dei due, malgrado la relazione sentimentale tra loro intercorrente da lunga data, vivesse per proprio conto definendo la frequentazione della casa della p.o. da parte dell’uomo, sia pure “costante”, ma “saltuaria”. Nella frettolosa risposta resa in tali termini alle censure svolte dalla difesa con i motivi di appello, completata con il richiamo al precedente di questa Corte n. 25498/2017, sopra citata, che invece riguarda il diverso caso di una cessata convivenza more uxorio tra due genitori di un figlio naturale, si annida il vulnus della sentenza impugnata. Non soltanto nessuna indagine risulta essere stata compiuta in relazione ai rapporti del padre con la bambina nata nel 2015 (ovverosia appena quattro mesi prima del perfezionamento dei reati di violenza sessuale e lesioni di cui al presente procedimento) al fine di verificare se la sua nascita fosse una conseguenza non voluta della relazione piuttosto che l’effetto di un progetto responsabile mirato a generare, allevare ed educare la prole, finalità su cui la condizione di tossicodipendenza dei genitori così come l’essere la minore oggetto di attenzione da parte dei Servizi Sociali solleva il dubbio, ma neppure nessuna disamina viene ivi effettuata in ordine alla natura della relazione intercorrente tra l’imputato e la vittima, volta cioè a verificare se si trattasse di un’unione, ancorché non accompagnata dalla convivenza, comunque caratterizzata dall’affidamento e solidarietà reciproci, o al contrario configurasse un rapporto che, seppur consuetudinario in ragione della durata nel tempo – unico elemento che risulta essere stato accertato -, fosse improntato a precarietà ed estemporaneità. L’ossimoro utilizzato dalla Corte territoriale che definisce la frequentazione dei due “saltuaria ma costante” non spiega, stante l’intrinseca contraddittorietà tra i due epiteti, se la frequentazione implicasse una ripetitività metodica ed un’assidua cadenza tale da lasciar presumere che l’uno dei due partner contasse sull’assistenza morale e materiale dell’altro malgrado la distanza, o si trattasse invece di incontri saltuari ed intermittenti finalizzati alla condivisione del solo tempo trascorso insieme. Né a tale laconica motivazione sul punto supplisce la pronuncia di primo grado, da cui si evince soltanto che trattavasi di un rapporto affettivo tra due soggetti dediti entrambi al consumo di sostanze stupefacenti, iniziato 2011, la cui convivenza non era continua vivendo l’ A. a Trento e soggiornando nella casa della compagna per periodi variabili, “da qualche giorno a qualche settimana”, senza neppure indicare con quale ripetitività, lasciando perciò aperti gli interrogativi oggetto della doglianza svolta con l’atto di appello.
La conclusione raggiunta dai giudici veneziani non resiste alle censure articolate dal ricorrente, ignorando con motivazione apodittica i rilievi formulati su tale capo dalla difesa. Non è infatti sufficiente la protratta durata del rapporto, né la nascita di una figlia ad imprimere ad una relazione sentimentale fra soggetti non conviventi la connotazione di unione improntata alle caratteristiche proprie di un legame familiare che costituisce in ultima analisi il presupposto applicativo del reato di cuiall’art. 572 c.p.in assenza di convivenza.
La sentenza impugnata deve conseguentemente essere annullata su tale punto.
2. Il secondo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza.
Mentre l’eccepito consenso della vittima per aver costei assecondato il rapporto sessuale, consenso che peraltro ove sussistente avrebbe escluso alla radice la configurabilità del delitto ex art. 609 bis cod. pen., non risulta supportato, neanche secondo la ricostruzione della difesa, da alcuna evidenza istruttoria, la sentenza impugnata sottolinea, a fondamento del diniego dell’attenuante di minore gravità, la violenza efferata con cui l’imputato, brandendo un coltello e sormontando la donna con la sua forza fisica, l’ha costretta a subire il rapporto sessuale unitamente al grado di coartazione della vittima e all’intensità del dolo che ha caratterizzato la condotta nella sua interezza in cui, noncurante del pianto della compagna, ha perseverato nella manifestazione della sua brama di possesso continuando anche dopo l’amplesso a prenderla a calci, dopo averla legata per i polsi.
Siffatta motivazione, improntata a lineare coerenza ed aderente al compendio istruttorio, si allinea pienamente, con conseguente esclusione dell’eccepito vizio di violazione di legge, all’univoca interpretazione giurisprudenziale secondo la quale, ai fini della configurabilità della circostanza per i casi di minore gravità, previstadall’art. 609-bis c.p., comma 3, deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, commisurata ai parametri di cuiall’art. 133 c.p., comma 1 tale da potere ritenere che la libertà sessuale della persona offesa sia stata compressa in maniera non grave, e che il danno arrecato alla stessa anche in termini psichici sia stato significativamente contenuto (Sez. 3, n.23913 del 14/05/2014, Rv. 259196; Sez. 3, n.39445 del 01/07/2014 Rv. 260501; Sez. 3, n.33479 del 5/07/2006, Rv. 234788).
3. Quanto alla procedibilità d’ufficio del reato di lesioni personali nonostante l’avvenuta remissione della querela, le censure articolate dal ricorrente si appuntano esclusivamente sul giudizio valutativo, venendo da costui fornita una diversa lettura dei fatti inammissibile in questa sede, senza che vengano, neppure con riferimento a tale profilo, evidenziate illogicità argomentative che inficino la ricostruzione effettuata dalla Corte di Appello: la sentenza impugnata illustra compiutamente come le condotte violente, ingiuriose, minacciose e lesive dell’incolumità fisica della donna, rispetto alle quali il delitto ex art. 609 bis c.p. ha costituito solo l’epigono dell’incontenibile manifestazione collerica dell’imputato, si sono succedute senza soluzione di continuità, così evidenziando la contestualità sul piano cronologico tra i due reati.
4. Si impone, in conclusione l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente alla configurabilità del reato di cui al capo a) dell’imputazione con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Venezia che dovrà, attenendosi all’interpretazionedell’art. 572 c.p.sopra specificata, riesaminare il fatto per accertare se la relazione intercorsa tra l’imputato e la p.o., per il carattere di precarietà o stabilità e per le finalità che inducevano i due a frequentarsi, fosse tale da realizzare una famiglia di fatto, dichiarandosi inammissibile il ricorso nel resto

P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cuiall’art. 527 c.p.e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di Venezia. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, il 27 novembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 7 gennaio 2019

Anche l’alloggio demaniale può essere assegnato come casa familiare

T.A.R. Lazio Roma Sez. I bis, 7 gennaio 2019, n. 148
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Bis)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6530 del 2015, proposto da
A.G., in proprio e nella qualità di esercente la potestà genitoriale nei confronti della figlia minore E.G. nata a G. il (…), rappresentato e difeso dagli avv.ti Pasquale Varone, Laura Di Fazio e Luciano Lione, con domicilio eletto presso lo studio Pasquale Varone in Roma, Lungotevere della Vittoria n. 9;
contro
Ministero della Difesa, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato presso cui è legalmente domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
e con l’intervento di
ad adiuvandum:
A.M.D., rappresentata e difesa dall’avv. Nicola Ciconte, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Cola di Rienzo n. 212;
per l’annullamento
del provvedimento prot. (…) del 26.3.2015, emesso dal Comando Militare della Capitale, notificato in data 15.4.2015 e 20.4.2015 avente ad oggetto “Dichiarazione di decadenza dalla concessione dell’alloggio di servizio ERM 1778 sito in R., via Dei B. n. 116” con cui l’Amministrazione convenuta comunicava al Ten Col. A.G. che “ai sensi delle norme regolamentari per gli alloggi di servizio per le Forze Armate, è dichiarato decaduto dalla concessione dell’alloggio di servizio AST ERM 1778, sito in R. via Dei B. n. 116, con decorrenza 24 settembre 2013, a mente dell’art.330 lett. d), delD.P.R. n. 90 del 2010, per il seguente motivo: mancata occupazione stabile dell’alloggio da parte del concessionario;
di tutti gli atti presupposti, consequenziali e comunque connessi ed in particolare dell’atto n. E24476 0012592 del 26.3.2015, notificato al ricorrente per conoscenza il 15.4.2015 e il 20.4.2015, con cui l’Amministrazione convenuta comunicava alla moglie del ricorrente, sig.ra A.M.D., (in risposta alla richiesta dalla stessa avanzata in data 19.9.2014, di accesso ai benefici previsti dall’art. 4 comma 2 del Decreto del Ministro della Difesa del 7.5.2014) che non rientrava nei requisiti previsti dall’art. 4 comma 2 del Decreto del Ministro della Difesa del 7.5.2014, nello specifico, poiché l’applicazione dei benefici previsti dal predetto decreto (legittimazione alla conservazione della conduzione degli alloggi di servizio in deroga ai limiti previsti dalD.P.R. n. 90 del 2010) presuppone la condizione di “coniugi… che, alla data di entrata in vigore del presente decreto, siano divorziati, ovvero legalmente separati … Tale situazione costituente requisito di legittimazione per la richiesta avanzata si concreta con l’omologazione del tribunale nei casi di separazione consensuale, ovvero con sentenza passata in giudicato, nel caso di separazione giudiziale… considerato che il procedimento di separazione personale che la riguarda risulta tuttora pendente, si comunica che l’istanza in oggetto non può trovare favorevole accoglimento”;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 19 novembre 2018 la dott.ssa Antonella Mangia e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Svolgimento del processo

Con l’atto introduttivo del presente giudizio, notificato in data 14 maggio 2015 e depositato il successivo 26 maggio 2015, il ricorrente – tenente colonnello dell’Esercito, concessionario dell’alloggio di servizio ERM 1778 in R., via Dei B. n. 116, separando dalla moglie sig.ra A.M.D. e, per questo, autorizzato a “vivere separatamente” da quest’ultima già con provvedimento del Tribunale di Roma del 24 settembre 2013, con assegnazione alla consorte della casa familiare – impugna, in proprio e in qualità di esercente la potestà genitoriale nei confronti della figlia minore, i provvedimenti con cui, in data 26 marzo 2015, il Comando Militare della Capitale lo ha dichiarato decaduto dalla concessione del su indicato alloggio di servizio e, ancora, ha respinto l’istanza avanzata dalla sig.ra D. per accedere ai benefici previsti dall’art. 4, comma 2, del decreto del Ministro della Difesa 7 maggio 2014, in ragione della carenza dei requisiti prescritti.
In particolare, il ricorrente espone quanto segue:
– nell’imminenza della prima udienza di comparizione dinanzi al Tribunale di Roma (23.9.2013), comunicava all’Amministrazione ed all’Ente gestore responsabile dell’alloggio (il Comando Militare della Capitale) di avere intrapreso un procedimento per la separazione giudiziale dalla moglie;
– in riscontro a tale comunicazione, l’Amministrazione interessata inviava una nota, tra gli altri, al Tribunale Civile di Roma per rappresentare la rientranza dell’alloggio di servizio nel patrimonio demaniale dello Stato, sottoposto – in quanto tale – al regime di cuiall’art. 823 c.c.;
– nonostante tale nota, conprovvedimento del 24 settembre 2013il Tribunale Civile di Roma “autorizzava i coniugi a vivere separatamente e assegnava alla moglie sig.ra A.M. Dell’Abbate l’alloggio demaniale adibito a casa familiare … sul presupposto del collocamento nell’immobile (alloggio di servizio) della minore E.G. (di diciassette anni) e della figlia maggiorenne non economicamente indipendente, Alessandra G. (studentessa universitaria disoccupata) unitamente alla madre”, attribuendo espressamente prevalenza alla funzione di “luogo di aggregazione della famiglia” dell’alloggio;
– seppure a conoscenza di quanto disposto in tale provvedimento e, ancora, nonostante l’inoltro da parte della sig.ra D. di un’istanza per “vedersi riconoscere” il mantenimento della conduzione dell’alloggio demaniale ex art. 4, comma 2, del decreto del Ministro della Difesa del 7 maggio 2014, in data 3 novembre 2014 l’Amministrazione avviava il procedimento di decadenza della concessione;
– il successivo 26 marzo 2015 l’Amministrazione adottava i provvedimenti impugnati, ossia il provvedimento di decadenza con “decorrenza 24 settembre 2013 (data del provvedimento presidenziale che ha assegnato l’alloggio in questione alla moglie)” e il provvedimento di rigetto dell’istanza di concessione dei benefici di cui alD.M. del 7 maggio 2014, presentata dalla sig.ra D..
Avverso tali provvedimenti il ricorrente insorge deducendo i seguenti motivi di diritto:
1. VIOLAZIONE DI NORME DI DIRITTO CON RIFERIMENTO ALL’ART.330DELD.P.R. N. 90 DEL 2010, AGLIARTT. 29 E 30 DELLA COSTITUZIONE, ALL’ART. 4 COMMA 2 DEL DECRETO DEL MINISTRO DELLA DIFESA DEL 7.5.2014,ALL’ART. 708 DEL C.P.C., in ragione della carenza di inadempimenti al predetto ascrivibili, della persistenza della destinazione dell’alloggio ad abitazione del nucleo familiare secondo il provvedimento immediatamente esecutivo emesso dal Tribunale di Roma, tanto più in ragione del rilievo che la separazione tra i coniugi non produce lo scioglimento del matrimonio e, in particolare, non determina il venire meno della coabitazione e dell’affectio coniugalis, e, dunque, dell’inequivoca sussistenza di esigenze di tutela della famiglia, la cui importanza ha, tra l’altro, trovato espresso riconoscimento anche nelle prescrizioni del su richiamato D.M., con premura di aggiungere, ancora, che, quando quest’ultimo “si riferisce alla nozione di separazione legale fra i coniugi, non può aver escluso dai casi concreti rientranti nella norma, la specifica situazione” in cui il giudice ordinario abbia autorizzato i coniugi a vivere separati e che la circostanza che l’Amministrazione abbia lasciato trascorrere oltre un anno prima di avviare il procedimento volto alla decadenza esprime “una volontà abdicativa ed acquiescente in ordine al recupero dell’immobile”.
2. ECCESSO DI POTERE SOTTO IL PROFILO DELLA CARENZA DI ISTRUTTORIA, posto che l’Amministrazione ha pretermesso il fine pubblico all’interesse della prole minorenne e non economicamente autosufficiente a conservare la propria sede abitativa e, dunque, ha operato sulla base di un’istruttoria inadeguata e insufficiente.
3. ECCESSO DI POTERE PER IRRAGIONEVOLEZZA, ERRONEI PRESUPPOSTI DI FATTO – CONTRASTO PALESE CON ALTRE MANIFESTAZIONI DI ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA PROMANANTI DA PARTE DELLA STESSA AUTORITA’.
4. ECCESSO DI POTERE PER MOTIVAZIONE CARENTE INCONGRUA – DISPARITA’ DI TRATTAMENTO.
5. ECCESSO DI POTERE SOTTO IL PROFILO DEL TRAVISAMENTO ED ERRONEA VALUTAZIONE DEI FATTI, tenuto conto che l’Amministrazione ha totalmente disatteso ilDM del 7 maggio 2014, atteso che il predetto “risulta legalmente separato a far data dal 24.9.2013, in forza dell’Ordinanza n. R.G. 20709/13 emessa dal Tribunale di Roma, già prodotta il 30.9.2013”, come, del resto, confermato dai molteplici effetti di quest’ultima.
Con atto depositato in data 10 giugno 2015 si è costituito il Ministero della Difesa, il quale – nel prosieguo e, precipuamente, in data 20 giugno 2015 – ha prodotto una memoria, connotata – in sintesi – dal seguente contenuto: – premesso che, per mero errore materiale, l’alloggio in discussione è stato indicato come “AST”, mentre si tratta di un alloggio “ASI”, l’impugnazione da parte del ricorrente del provvedimento di rigetto dell’istanza ex art. 4 delD.M. 7 maggio 2014va dichiarata inammissibile per difetto di “legittimazione ad agire”; – per quanto attiene, invece, all’impugnazione del provvedimento di decadenza della concessione, l’art. 303 (leggasi: 313) delD.P.R. n. 90 del 2010è chiaro e inequivoco nello stabilire la stretta dipendenza della concessione di alloggi ASI dalla necessità di consentire la costante presenza del dipendente in prossimità della sede di servizio e, dunque, rende evidente “l’imprescindibilità della utilizzazione dello stesso quale abitazione” di quest’ultimo, oltre che del suo nucleo familiare, come, peraltro, confermato dalle deroghe particolari riportate nel successivo art. 320; – tenuto conto delle previsioni vigenti in materia, l’allontanamento del ricorrente dall’alloggio non poteva che condurre alla decadenza della relativa concessione, trattandosi di un “allontanamento volontario”, peraltro riconosciuto in un provvedimento giudiziale, affatto riconducibile alle deroghe di cui sopra; – trattando nel merito le censure afferenti il provvedimento di rigetto dell’istanza della sig.ra D., non può che prendersi atto dell’insussistenza, alla data di entrata in vigore del richiamato D.M., dei presupposti ivi previsti e, in particolare, della mancata emissione, a tale data, di una sentenza di separazione personale dei coniugi o dell’omologazione di quella consensuale.
In data 10 giugno 2015 la sig.ra A.M.D. ha depositato un atto di intervento ad adiuvandum, teso a porre in evidenza che “ad oggi, la famiglia del Ten. Col. G. risulta ancora… composta, oltre che dal medesimo, dalla moglie, odierna istante, e dai figli” e, quindi, la “fattispecie invocata dall’Amministrazione e di cui all’art. 330, comma 1, lett. f non può dirsi integrata”.
Con ordinanza n. 2653 del 25 giugno 2015 la Sezione ha respinto l’istanza cautelare.
Tale ordinanza è stata riformata dal Consiglio di Stato con l’ordinanza n. 4030 del 9 settembre 2015.
In data 20 novembre 2018 il ricorrente ha depositato documenti, tra cui la sentenza di separazione n. 3128 del 16 febbraio 2016, nella quale è dato, tra l’altro, leggere che “il Tribunale…. assegna la casa coniugale, situata in R., via Dei B. 116, a A.M.D., quale genitore convivente con le figlie maggiorenni non autonome economicamente”, nonché la sentenza parziale n. 22280 del 10/27 novembre 2017 di cessazione degli effetti civili del matrimonio, riportante, tra l’altro, la conferma dell’assegnazione della casa familiare alla ex moglie del predetto.
Il successivo 31 ottobre 2018 il ricorrente ha, poi, depositato una memoria con cui ha replicato all’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Amministrazione, adducendo di avere agito anche in veste di genitore esercente la responsabilità genitoriale, nonché insistito sulla violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4 delD.M. 7 maggio 2014per ingiusta o, meglio, erronea pretermissione della considerazione del fine pubblico preminente “rappresentato dall’interesse della prole minorenne e/o economicamente insufficiente a conservare la propria sede abitativa familiare” e sulla disparità di trattamento, tenuto, tra l’altro, conto dell’antecedenza dell’avvio del procedimento di separazione e, quindi, dell’emissione del provvedimento del Tribunale del 24.9.2013 (già riportante l’assegnazione della casa familiare alla moglie) alla data di entrata in vigore del su indicato decreto.
All’udienza pubblica del 19 novembre 2018 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Motivi della decisione
1.In ragione di quanto riportato nella narrativa in fatto che precede, il Collegio ravvisa la necessità di rilevare – in via preliminare – che:
– l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Amministrazione resistente in relazione all’impugnazione da parte del ricorrente del provvedimento di rigetto dell’istanza presentata dalla sig.ra D. per l’accesso ai benefici di cui alD.M. 7 maggio 2014non è meritevole di positivo riscontro, atteso che – come, tra l’altro, posto in evidenza dal predetto – quest’ultimo ha agito non solo “in proprio” ma anche “in qualità di esercente della potestà genitoriale nei confronti della figlia minore E.G.” e, in termini più generali, in qualità di padre di ragazze non economicamente dipendenti, ossia in veste di soggetto titolare – in quanto tale – di un chiaro interesse alla permanenza di quest’ultime all’interno della casa familiare;
– per quanto attiene all’intervento ad adiuvandum della sig.ra M.D.A., lo stesso è da considerare inammissibile nella parte in cui investe – seppure formalmente, tenuto conto di quanto in esso riportato – il provvedimento di rigetto dell’istanza dalla predetta presentata ex art. 4 delD.M. 7 maggio 2014, essendo evidente l’assoluta configurabilità della sig.ra D. come cointeressato in ragione della piena legittimazione della stessa a proporre ex se l’impugnazione in via principale (cfr., ex multis, TAR Lazio, Roma, Sez. I, 18 marzo 2009, n. 2789).
In sintesi:
– il ricorso è ammissibile;
– l’atto di intervento ad adiuvandum è inammissibile nella parte in cui investe il provvedimento di rigetto dell’stanza presentata dalla sig.ra Dell’Abata per la concessione dei benefici di cui all’art. 4 delD.M. 7 maggio 2014.
2. Nel merito, il ricorso è fondato e, pertanto, va accolto.
2.1. Ai fini del decidere, appare opportuno ricordare che:
– la controversia prospettata riguarda la legittimità di un provvedimento di decadenza della concessione di un alloggio ASI, adottato nei confronti di un concessionario che – avendo già avviato un procedimento di separazione giudiziale dal coniuge – risulta essere stato autorizzato dal Tribunale Civile, con provvedimento risalente al 2013, a vivere separatamente dalla moglie, con contestuale assegnazione della casa familiare (da identificare – appunto – con l’alloggio ASI) a quest’ultima in virtù di quanto riportato nel medesimo provvedimento, nonché la legittimità del provvedimento di diniego opposto alla moglie di accedere ai benefici di cui all’art. 4, comma 2, delD.M. 7 maggio 2015, pur in presenza del provvedimento giudiziale di cui sopra;
– in altri termini, la controversia de qua inerisce l’ambito di operatività dell’artt.330delD.P.R. 15 marzo 2010, n. 90, rubricato “decadenza dalla concessione”, in relazione a quanto poi previsto dalD.M. 7 maggio 2014, poi parzialmente innovato dalD.M. 24 luglio 2015;
– come noto, ilD.P.R. n. 90 del 15 marzo 2010regolamenta, infatti, anche la concessione degli alloggi di servizio ai militari, contemplando – tra questi – gli “alloggi ASI”, ossia gli alloggi connessi con l’incarico e, dunque, concessi al personale a cui “siano affidati incarichi che richiedano la costante presenza del titolare nella sede di servizio per il soddisfacimento delle esigenze di funzionalità e sicurezza del servizio medesimo” (cfr. art. 313, comma 1, lett. c), soggetti – in quanto tali – ad una particolare disciplina, ricomprendente anche l’ipotesi della “decadenza” dalla concessione, mentre ilD.M. 7 maggio 2014riporta previsioni dirette – in particolare – a tutelare interessi diversi, ritenuti meritevoli – in ogni caso – di considerazione e tutela, mediante la sostanziale introduzione di “deroghe” al regime ordinario che regolamenta l’utilizzo di tali alloggi a favore di determinate categorie di soggetti, definite anche “fasce protette”, individuate nei portatori di handicap, nei coniugi superstiti del personale dipendente deceduto in servizio o per causa di servizio (art. 2), nei coniugi superstiti “non legalmente separati né divorziati, nonché nei coniugi del personale militare e civile della Difesa titolare di concessione di alloggi di servizio” (art. 4, comma 2), in ragione dell’implicito riconoscimento della preminenza di tali interessi sull’interesse pubblico posto a presidio dello stesso rilascio della concessione.
In definitiva, si tratta di previsioni che – pur tendenti al soddisfacimento di esigenze differenti – non possono che essere lette e interpretate in maniera coerente e combinata le une rispetto alle altre.
2.2. Per meglio definire la problematica, appare opportuno aggiungere che:
– secondo l’orientamento pressoché consolidato della giurisprudenza del giudice ordinario, “l’alloggio assegnato in concessione …. è qualificabile come “casa familiare”, in quanto viene ceduto, ancorché in correlazione con le prestazioni lavorative, al fine di soddisfare le esigenze abitative” non solo del dipendente ma anche dei componenti della sua famiglia, sicché – in caso di separazione e/odivorzio- tale “alloggio può ben essere attribuito al coniuge diverso dal concessionario, se affidatario della prole, ai sensi dellaL. 1 dicembre 1970, n. 898”, seppure con l’ulteriore, non indifferente, precisazione che quest’ultimo – per effetto dell’assegnazione della casa familiare – subentra sì nel godimento del bene, con conseguentemente obbligo di pagare il corrispettivo per l’utilizzo dell’alloggio al concedente, ma “non nel rapporto concessorio, ormai cessato” (Cass. Civ., Sez. I, 8 marzo 2018, n. 5575),
– della questione ha avuto, peraltro, modo di occuparsi anche la Corte dei Conti, la quale – con la deliberazione n. 10 del 2015 della Sezione Centrale di Controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato – ha espressamente qualificato i soggetti contemplati all’art. 4 delD.M. del 7 maggio 2014come “occupanti sine titulo protetti” in quanto “occupanti dell’immobile che possono mantenerne la conduzione pur avendo perso il titolo”, ossia soggetti nei cui confronti non è possibile procedere al c.d. “recupero coattivo” (ricordando, tra l’altro, che il su indicato D.M. ha ampliato la “fascia degli utenti”, includendovi, tra gli altri, i separati o divorziati).
3. In base a quanto in precedenza riportato ma anche in ragione della situazione venutasi a determinare tra il ricorrente e la moglie, il Collegio è, pertanto, indotto a ritenere che la controversia prospettata finisca – in verità – primariamente con l’investire la legittimità non tanto del provvedimento di decadenza, non privo, in ogni caso, di una valenza c.d. “presupposta”, quanto del provvedimento di diniego di concessione dei benefici di cui alD.M. 7 maggio 2014.
Preso – in altri termini – atto che il ricorrente non vive più nell’alloggio di servizio, peraltro assegnato alla moglie in esito ai provvedimenti del giudice civile, risulta, infatti, evidente che il bene della vita, sotteso all’impugnazione dal predetto proposta, si identifica con il mantenimento della conduzione dell’alloggio in capo alla moglie, in quanto affidataria della prole.
In ragione di quanto in precedenza ripotato, risulta inequivoco come – ai fini del decidere – assuma carattere dirimente l’individuazione dell’ambito di operatività dell’art. 4, comma 2, delD.M. 7 maggio 2015.
Tale previsione ammette che, tra gli altri, i “coniugi di personale militare e civile della Difesa titolare di concessione di alloggi di servizio, che alla data di entrata in vigore del presente decreto, siano divorziati ovvero legalmente separati” possano mantenere “la conduzione” di alloggi di servizio, assumendo così – in linea con quanto in precedenza rilevato – la veste di soggetti “sine titulo” protetti.
Sulla base, dunque, delle peculiarità della vicenda in esame, adeguatamente valutate anche in ragione di quanto riportato nell’ordinanza del Consiglio di Stato n. 4030 del 9 settembre 2015, il Collegio non ravvisa validi motivi per discostarsi dall’orientamento della giurisprudenza secondo il quale non è possibile trascurare la data di avvio del procedimento giudiziale di separazione (cfr., tra gli altri, C.d.S., Sez. II, parere n. 1393 del 12 maggio 2017) e ciò tanto più nei casi in cui lo stesso procedimento abbia, poi, realmente condotto – come nell’ipotesi in trattazione – all’effettiva separazione dei coniugi.
Seppure risulti innegabile che il mero allontanamento dalla casa coniugale del coniuge concessionario non può rivestire giuridica rilevanza e che il procedimento di separazione deve sfociare in un provvedimento formale del giudice, non può essere sottaciuto o, comunque, ignorato che:
– il ricorrente ha attivato un procedimento di separazione “giudiziale”;
– l’avvio di tale procedimento risale ad un’epoca ampiamente antecedente all’entrata in vigore delD.M. 7 maggio 2014e, segnatamente, già a prima del 23 settembre 2013, data dell’udienza poi sfociata nell’emissione da parte del Tribunale civile delprovvedimento del 24 settembre 2013di autorizzazione dei coniugi a “vivere separati”, con contestuale assegnazione “alla moglie” della casa familiare;
– lo stesso procedimento ha, poi, effettivamente condotto in data 5 febbraio 2016 alla sentenza n. 3128 di separazione giudiziale dei coniugi, oltre che alla successiva sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Constatato così che le su indicate circostanze impongono di ricondurre la volontà dei coniugi di separarsi già almeno alla data del 23 settembre 2013 e, dunque, accertato che la successiva emissione della sentenza di separazione giudiziale in data 5 febbraio 2016 è, in effetti, attribuibile esclusivamente ai tempi della giustizia, immeritevoli di incidere sulle aspettative e sull’esercizio delle facoltà spettanti agli interessati, il Collegio ravvisa validi elementi per affermare che, nel caso in trattazione, risulta ragionevolmente presumibile che, in base alla volontà dei coniugi, la formalizzazione della separazione avrebbe avuto data anteriore e “utile” rispetto ai tempi delD.M. 7 maggio 2014e, pertanto, ribadisce – in linea con l’orientamento giurisprudenziale già richiamato – che la presa in considerazione di una data successiva non può che rivelarsi quanto meno contraddittoria, “tenuto conto della ricordata volontà, sottesa all’adozione del decreto del 2014, di ampliare le categorie di soggetti da tutelare alla luce dell’importanza sociale dell’impatto della disciplina sulle famiglie dei militari, evidenziata anche nei pareri delle Commissioni parlamentari resi sul testo” (cfr., tra gli altri, C.d.S., Sez. II, parere n. 1393 del 2017, già cit.), oltre che in spregio della parità di trattamento, intesa in senso sostanziale e non meramente formale.
4. Tanto è sufficiente per l’accoglimento del ricorso – con assorbimento delle ulteriori censure formulate – e, dunque, per l’annullamento dei provvedimenti impugnati, fatto – comunque – salvo il potere di vigilanza dell’Amministrazione resistente sulla persistenza della destinazione dell’immobile a casa familiare, a tutela della figlie, “economicamente non indipendenti”, come rilevato, tra l’altro, nella sentenza parziale del Tribunale ordinario di Roma n. 2280 del 2017, e, quindi, il potere della stessa Amministrazione di chiedere e ottenere il rilascio dell’immobile ove tale destinazione risulti non più sussistente, per il riespandersi dell’interesse pubblico alla corretta gestione degli immobili demaniali rispetto alle contrapposte esigenze di tutela della famiglia (cfr., tra l’altro, ord. Cass. Civ. n. 5575 del 2018, già cit.).
Tenuto conto delle peculiarità della vicenda in esame, sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio tra le parti.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis), definitivamente pronunciando sul ricorso n. 6530/2015, come in epigrafe proposto:
– dichiara inammissibile l’intervento ad adiuvandum nella parte in cui riguarda il provvedimento di diniego dei benefici di cui all’art. 4, comma 2,D.M. 7 maggio 2014;
– accoglie il ricorso e, per l’effetto, annulla i provvedimenti impugnati;
– compensa le spese di giudizio tra le parti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 novembre 2018 con l’intervento dei Magistrati:
Concetta Anastasi, Presidente
Antonella Mangia, Consigliere, Estensore
Rosa Perna, Consigliere

Non c’è reato se il mantenimento non versato dal genitore è nei confronti di figlio maggiorenne e abile al lavoro.

Corte di Cassazione sez. VI Penale
sentenza 12 dicembre 2018 – 11 gennaio 2019, n. 1342
Presidente Petruzzellis – Relatore Bassi
Ritenuto in fatto
1. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte d’appello di Ancona ha confermato la sentenza del 23
settembre 2014, con cui il Tribunale di Ascoli Piceno ha condannato alla pena di legge Ma. Li. per
il reato di cui all’art. 570, comma secondo n. 2, cod. pen., per avere omesso di versare le somme
stabilite dal giudice in favore della figlia.
2. Con atto a firma del difensore di fiducia, Ma. Li. ricorre avverso il provvedimento e ne chiede
l’annullamento per i motivi di seguito sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo, la difesa eccepisce la violazione di legge penale ed il vizio di motivazione
per avere la Corte d’appello erroneamente omesso di riqualificare il fatto ai sensi dell’art. 388 cod.
pen.;
2.2. Con il secondo e terzo motivo, il ricorrente deduce la violazione di legge penale ed il vizio di
motivazione, per avere i giudici di merito errato nell’applicare il disposto dell’art. 570 cod. pen. A
sostegno delle doglianze si evidenzia, per un verso, che l’imputato non ha mai tenuto alcun
comportamento contrario all’ordine ed alla morale della famiglia, né si è mai sottratto agli obblighi
di assistenza relativi alla responsabilità genitoriale; per altro verso, che la Corte d’appello ha
ritenuto integrato il reato sebbene la figlia maggiorenne abbia abbandonato il domicilio domestico,
per libera scelta, a seguito del decesso della madre. La difesa sottolinea inoltre come
l’inadempimento abbia riguardato tre sole mensilità, rispetto alle quali avrebbe dovuto essere
applicata la causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen.; come, all’epoca del fatto, la
persona offesa fosse maggiorenne ed avesse raggiunto una condizione di autosufficienza
economica, sicché faceva difetto lo stato di bisogno; come l’imputato si trovasse in condizione di
non poter adempiere agli obblighi ignorando il luogo di dimora della figlia – persona offesa.
2.3. Con il quarto motivo, l’impugnante rileva la violazione di legge penale ed il vizio di
motivazione in relazione all’art. 124 cod. pen., per avere la Corte d’appello erroneamente omesso di
dichiarare l’improcedibilità del reato per tardività della querela.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato in relazione al secondo ed assorbente motivo, con il quale il ricorrente si
duole della ritenuta integrazione del reato contestato sul presupposto che la figlia beneficiaria
dell’assegno di mantenimento fosse ormai maggiorenne all’epoca dei fatti.
2. Giova rilevare come, secondo il chiaro enunciato normativo, l’art. 570, comma secondo n. 2, cod.
pen. punisca – con le pene stabilite dal primo comma applicate congiuntamente – colui il quale “fa
mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore ovvero inabili al lavoro (…)”.
2.1. Ne discende che non integra il reato in parola la mancata corresponsione dei mezzi di
sussistenza a figli maggiorenni non inabili a lavoro, anche se studenti: l’onere di prestare i mezzi di
sussistenza, penalmente sanzionato, ha infatti un contenuto soggettivamente e oggettivamente più
ristretto di quello delle obbligazioni previste dalla legge civile, potendo sussistere la fattispecie
delittuosa di cui all’art. 388 cod. pen. qualora ricorrano i requisiti previsti da tale norma
(segnatamente il compimento di atti fraudolenti diretti ad eludere gli obblighi di cui trattasi) (Sez. 6,
n. 895 del 25/11/1993 – dep. 1994, Cavallaro, Rv. 196946).
2.2. D’altra parte, come questa Corte ha avuto modo di chiarire, l’inabilità al lavoro rilevante ai sensi
del citato art. 570, comma secondo, impone al genitore l’obbligo di corrispondere i mezzi di
sussistenza anche al figlio maggiorenne va intesa, in base alla definizione contenuta negli artt. 2 e
12 della I. n. 118 del 1971, come totale e permanente inabilità lavorativa. (Fattispecie in cui la Corte
ha ritenuto insussistente il reato, in quanto al figlio maggiorenne, a cui l’imputato aveva fatto
mancare i mezzi di sussistenza, era stata riconosciuta una riduzione permanente della capacità
lavorativa inferiore al 75%). (Sez. 6, n. 23581 del 13/02/2013, L. P, Rv. 256258).
2.3. Sulla scorta di quanto sopra, risulta di tutta evidenza l’insussistenza dei presupposti
dell’incriminazione in oggetto.
Come si evince dalla sentenza, alla data dell’inizio del delitto permanente (17 ottobre 2009, giusta
contestazione), la figlia era ormai maggiorenne (essendo nata il 4 dicembre 1985); d’altra parte,
dalla ricostruzione in fatto tratteggiata in motivazione, risulta chiaro che la ragazza non era inabile
al lavoro, tanto che svolgeva un lavoro con contratto part-time (v. pagina 4 della sentenza).
3. La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata senza rinvio, perchè il fatto non sussiste.
P.Q.M.
annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste

In sede di valutazione del valore economico della casa familiare nel giudizio di divisione, l’assegnazione non incide sul valore del bene se l’immobile è attribuito al coniuge assegnatario.

Cass. civ. Sez. II, 20 dicembre 2018, n. 33069
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 16073/2014 proposto da:
N.E., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA MAZZINI 27, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO MAINETTI, senza ministero di difensore ai sensidell’art. 86 c.p.c.;
– ricorrente –
e contro
M.T., INTESA SANPAOLO SPA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 854/2013 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 24/04/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/11/2018 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
L’avvocato N.E. ha proposto ricorso articolato in tre motivi avverso la sentenza n. 854/2013 della Corte d’Appello di Torino, depositata il 24 aprile 2013.
Gli intimati Intesa Sam Paolo s.p.a. e M.T. non hanno svolto attività difensive.
Il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..
La Corte d’Appello di Torino ha respinto il gravame proposto da N.E. contro la pronuncia resa in primo grado dal Tribunale di Torino il 30 maggio 2008, affermando che nel giudizio di scioglimento della comunione legale tra coniugi, ai fini della determinazione del valore di mercato dell’immobile costituente casa familiare, si debba tener sempre conto del vincolo derivante dall’assegnazione del bene ad uno dei genitori nell’interesse dei figli, ancorché l’appartamento sia attribuito per intero in sede di divisione al medesimo coniuge assegnatario. Ciò ha portato a stimare l’immobile non nell’importo di Euro 270.000,00, ma per il minor valore di Euro 159.000,00, in ragione dell’incidenza del vincolo dell’assegnazione, con conseguente determinazione del conguaglio dovuto da M.T. in Euro 79.500,00.
Col primo motivo di ricorso l’avvocato N.E. denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo exart. 360 c.p.c., n. 5, quanto alla determinazione del valore di mercato degli immobili, valore che, come allegato in apposito motivo dell’atto li di appello, oscillava, piuttosto, tra Euro 285.000,00 ed Euro 290.00,00, secondo dati di stima della immobiliare Gabetti, agenzia di (OMISSIS), non contestati né dal CTU né da controparte.
Il secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge per la riduzione di valore applicata dalla Corte d’Appello in ragione del diritto di assegnazione della casa familiare.
Il terzo motivo di ricorso censura la violazione delle norme di diritto circa la quantificazione dell’abbattimento del valore degli immobili.
Il primo motivo di ricorso è fondato.
L’appello formulato da N.E. contro la pronuncia di primo grado individuava, tra le questioni e i punti contestati della sentenza impugnata, e quindi nell’ambito della materia che era stata devoluta al giudice di appello, la critica in ordine alla determinazione del valore di mercato dell’immobile in comunione. Su tale specifica censura dell’appellante non c’è stata pronuncia da parte dei giudici di secondo grado. Spetta al giudice del merito indicare la scelta del criterio tecnico da utilizzare in ciascuna fattispecie per determinare il valore venale delle varie quote e dei singoli beni che formano oggetto della divisione, a normadell’art. 726 c.c., (norma applicabile anche nel caso di scioglimento delle comunioni ordinarie exart. 1116 c.c.), con riguardo alla natura, ubicazione, consistenza e possibile utilizzazione di ciascun bene, tenuto conto anche delle condizioni di mercato, salvo poi il controllo di fatto in sede di legittimità nei limiti di cuiall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
È altresì fondato il secondo motivo di ricorso.
Come da questa Corte affermato, con orientamento cui il Collegio intende dare continuità, l’assegnazione del godimento della casa familiare, ex art. 155 quater c.c., ovvero in forza della legge sul divorzio, non può essere considerata in occasione della divisione dell’immobile in comproprietà tra i coniugi al fine di determinare il valore di mercato del bene qualora (come avvenuto nella specie) l’immobile venga attribuito al coniuge titolare del diritto al godimento stesso, atteso che tale diritto è attribuito nell’esclusivo interesse dei figli e non del coniuge affidatario e, diversamente, si realizzerebbe una indebita locupletazione a suo favore, potendo egli, dopo la divisione, alienare il bene a terzi senza alcun vincolo e per il prezzo integrale (così Cass. Sez. 2, 09/09/2016, n. 17843, pronuncia che in motivazione prendeva anche atto del contrasto di precedenti giurisprudenziali esistenti sul punto, fra cui, più di recente, Cass. Sez. 2, 22/04/2016, n. 8202, spiegando analiticamente le ragioni che supportano l’interpretazione prescelta).
Nello stimare i beni per la formazione delle quote ai fini della divisione, non può non considerarsi, invero, che, in ipotesi di assegnazione in proprietà esclusiva della casa familiare, di cui i coniugi erano comproprietari, al coniuge affidatario dei figli, si riunisce nella stessa persona il diritto di abitare nella casa familiare – che perciò si estingue automaticamente – e il diritto dominicale sull’intero immobile, che rimane privo di vincoli. In sede di valutazione economica del bene “casa familiare” nel giudizio di scioglimento della comunione, il diritto di abitazione conseguente al provvedimento di assegnazione non deve, pertanto, influire in alcun modo sulla determinazione del conguaglio dovuto all’altro coniuge (in tal senso già Cass. Sez. 1, 17/09/2001, n. 11630).
L’accoglimento del secondo motivo di ricorso priva di immediata rilevanza decisoria il terzo motivo, che perciò rimane assorbito.
Conseguono l’accoglimento dei primi due motivi di ricorso, l’assorbimento del terzo motivo e la cassazione della sentenza impugnata in ragione delle censure accolte, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Torino, che procederà a nuovo esame della causa uniformandosi ai principi enunciati e tenendo conto dei rilievi svolti, provvedendo anche alla liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi due motivi di ricorso, dichiara assorbito il terzo motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Torino, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 7 novembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2018

In caso di mancata concertazione le spese straordinarie sono dovute se corrispondono all’interesse del minore e se sono economicamente sostenibili

Cass. civ. Sez. VI – 1, 6 settembre 2018, n. 21726
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 13349-2016 proposto da:
B.L., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati DANIELE SPIRITO MICHELETTA TITA’, RODOLFO UMMARINO;
– ricorrente –
contro
M.I.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO 172, presso lo studio dell’avvocato SERGIO NATALE EDOARDO GALLEANO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FIORENZA BETTI;
– controricorrente –
avverso il decreto R.G. 747/15 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositato il 07/04/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 22/02/2018 dal Consigliere Dott. PIETRO CAMPANILE.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
il sig. B.L. propone ricorso, affidato a due motivi, per la cassazione del decreto indicato in epigrafe, con il quale la Corte di appello di Ancona, in parziale accoglimento del gravame proposto dalla ex moglie M.P. avverso il provvedimento emesso dal Tribunale di Fermo, previo rigetto del reclamo proposto dal B. relativo al rigetto della propria domanda di riduzione del proprio contributo per il mantenimento della prole, ha disposto un aumento di Euro 200 mensili dell’assegno per il mantenimento della figlia B.P., ed ha confermato la condanna del B. al pagamento, a titolo di rimborso, della somma di Euro 3.112,99, oltre ad Euro 131,75, pari al 50 per cento delle spese mediche documentate;
la parte intimata resiste con controricorso;
Considerato che:
il Collegio ha disposto, in conformità al decreto del Primo Presidente in data 14 settembre 2016, la redazione della motivazione in forma semplificata;
il primo motivo, con il quale si deduce la violazione degliartt. 100 e 474 cod. proc. civ., in quanto la M. non aveva interesse a proporre la domanda concernente il pagamento delle spese mediche non rimborsate, in quanto, in relazione a tale aspetto, esisteva già titolo esecutivo costituito dalla sentenza del Tribunale di Vercelli, fra l’altro, poneva a carico del padre “le spese mediche non corrisposte dal SSN che si rendessero necessarie per i figli, da concordare previamente con la madre, salvo urgenze”, è infondato;
va rilevato, infatti, che la necessità, prevista nella richiamata sentenza del Tribunale di Vercelli, di un accordo fra i genitori circa le spese mediche non riferibili al servizio di assistenza sanitaria implica l’assenza, in detta previsione, dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità del credito, e, quindi, la necessità di un intervento giudiziale che, a prescindere dall’accordo non raggiunto, verifichi la sussistenza o meno dell’obbligazione;
invero, nel caso di mancata concertazione preventiva e di rifiuto di provvedere al rimborso della quota di spettanza da parte del coniuge che non le ha effettuate, il giudice è tenuto a verificare la rispondenza delle spese all’interesse del minore mediante la valutazione della commisurazione dell’entità della spesa rispetto all’utilità e della sostenibilità della spesa stessa rapportata alle condizioni economiche dei genitori (Cass. n. 16175 del 30 luglio 2015; Cass., 23 febbraio 2017, n. 4753);
nella seconda censura vengono, in maniera confusa, affastellate alcune questioni di natura procedurale, che non appaiono condivisibili;
l’elevazione, peraltro di lieve entità, del contributo per il mantenimento della figlia dedita agli studi superiori, con decorrenza dal mese di ottobre del 2015, è stato disposto dalla Corte di appello, tenuto conto della sopravvenienza di nuove circostanze, e, in particolare, in considerazione “dell’incremento di spesa costituito dagli studi universitari intrapresi dalla figlia N. presso l’Università di (OMISSIS), per tasse scolastiche, libri, spese di viaggio”;
trattasi di motivazione del tutto congrua, laddove si consideri che nella specie risulta applicabile “ratione temporis”,l’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5, che, nell’attuale formulazione, secondo l’interpretazione resa dalle Sezioni unite di questa Corte, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo;
è del tutto evidente, poi, che la statuizione in esame è caudataria di uno sviluppo delle circostanze poste a fondamento dell’originaria domanda, dal quale il giudice del reclamo non poteva prescindere, indipendentemente dall’assenza di un appello incidentale della controparte, la quale logicamente non poteva dolersi dell’omessa pronuncia in merito a deduzioni che, essendo inerenti a fatti verificatisi nel corso del giudizio, non potevano che essere dedotte successivamente (cfr. anche Cass., 21 aprile 1994, n. 3808, in materia di disposizioni, in materia di mantenimento della prole, nel giudizio di rinvio, a seguito di circostanza sopravvenute);
il regolamento delle spese segue la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 2.100, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge. i sensi del D.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 22 febbraio 2018.
Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2018

Il provvedimento del Giudice tutelare di designazione dell’amministratore di sostegno si impugna dinanzi al Tribunale in composizione collegiale e non dinanzi alla Corte di Appello

Cass. civ. Sez. VI – 1, 12 dicembre 2018, n. 32071
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso per conflitto di competenza iscritto al n. 11997/2018 R.G., sollevato dalla Corte d’appello di Brescia con ordinanza in data 10 aprile 2018, nel procedimento vertente tra:
B.C.;
e F.F.M., da una parte;
e Avv. B.J., B.F. e D.T.R., dall’altra;
ed iscritto al n. 367/2017 V.G. di quell’Ufficio.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13 novembre 2018 dal Consigliere Guido Mercolino;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Immacolata ZENO, che ha chiesto la dichiarazione d’inammissibilità del regolamento.
Svolgimento del processo
1. Condecreto del 21 settembre 2017, il Tribunale di Brescia ha dichiarato la propria incompetenza in ordine al reclamo proposto da B.C. e F.F.M. avverso il decreto emesso il 22 giugno 2017, con cui il Giudice tutelare aveva disposto l’apertura dell’amministrazione di sostegno in favore della B., nominando amministratore l’avv. J.B..
2. A seguito della riassunzione del giudizio, la Corte d’appello di Brescia, dichiarata competente dal predetto decreto, con ordinanza del 10 aprile 2018, ha sollevato conflitto negativo di competenza.
Premesso che l’oggetto del reclamo era costituito esclusivamente dalla individuazione della persona chiamata a svolgere le funzioni di amministratore, avendo le reclamanti insistito per la nomina della F., in conformità di una preferenza manifestata dalla stessa beneficiaria, ed in subordine per la nomina di un terzo estraneo al nucleo familiare ma diverso dall’avv. B., la Corte ha escluso che il provvedimento impugnato avesse natura decisoria, come ritenuto dal Tribunale; ha rilevato infatti che, come riconosciuto dalle stesse reclamanti, l’indicazione fornita dalla B. non era volta a garantire l’esercizio di diritti fondamentali della persona, ma solo ad individuare la persona più adatta al disbrigo delle pratiche relative alla gestione del patrimonio ed all’ordinaria cura della persona, essendo stato affermato che la F. era la persona più vicina alla beneficiaria, della quale si occupava già quotidianamente; ha aggiunto che l’indipendenza dell’indicazione dal timore di una lesione dell’autodeterminazione della beneficiaria trovava conferma nella domanda subordinata di nomina di un soggetto estraneo al nucleo familiare, concludendo pertanto per il carattere meramente gestiona-le del provvedimento impugnato, con la conseguente reclamabilità dello stesso dinanzi al Tribunale di Brescia in composizione collegiale.
3. Le parti non hanno svolto attività difensiva.

Motivi della decisione
1. Preliminarmente, va disattesa l’eccezione d’inammissibilità del conflitto di competenza, sollevata dal Pubblico Ministero in relazione alla natura del provvedimento impugnato con il reclamo, il cui contenuto, meramente attuativo ed ordinatorio rispetto alla pronuncia di apertura dell’amministrazione di sostegno, escluderebbe la sussistenza dei caratteri di decisorietà e definitività necessari ai fini del regolamento, tanto ad istanza di parte quanto d’ufficio.
A differenza del regolamento ad istanza di parte, quello d’ufficio è infatti strutturato non già come un mezzo d’impugnazione, ma come uno strumento volto a sollecitare l’individuazione del giudice naturale, precostituito per legge, al quale compete la trattazione dell’affare, in via interinale o provvisoria ma comunque esclusiva, e per la cui proponibilità non si richiede dunque che l’atto che vi abbia dato luogo sia impugnabile con il ricorso per cassazione ai sensidell’art. 111 Cost.o con il regolamento ad istanza di parte (cfr. Cass., Sez. 6, 11/04/2013, n. 8875; Cass., Sez. 1, 22/09/2005, n. 18639); esso è pertanto compatibile anche con il procedimento di cuiall’art. 720-bis c.p.c., indipendentemente dall’inammissibilità del ricorso per cassazione avverso il provvedimento con cui, in caso di apertura della amministrazione di sostegno, si procede alla designazione, alla sostituzione o alla revoca della nomina della persona chiamata ad esercitare le funzioni di amministratore (cfr. Cass., Sez. 1, 28/09/2017, n. 22693; 16/02/2016, n. 2895). Il regolamento d’ufficio non può considerarsi precluso neppure dalla circostanza che il conflitto di competenza non sia insorto in prima istanza, ma in sede di gravame, dal momento che la proposizione dell’impugnazione dinanzi ad un giudice diverso, per territorio o grado, da quello indicato dalla legge non ne comporta l’inammissibilità, risultando comunque idonea all’instaurazione di un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice effettivamente competente attraverso il meccanismo della translatio judicii (cfr. Cass., Sez. Un., 14/09/2016, n. 18121; Cass., Sez. 6, 3/04/2018, n. 8155; Cass., Sez. 3, 16/10/2017, n. 24274); qualora pertanto, come nella specie, il giudice adito in sede d’impugnazione abbia dichiarato la propria incompetenza, rimettendo le parti dinanzi al giudice da lui ritenuto competente, la mancata impugnazione di tale decisione ad opera delle parti non impedisce a quest’ultimo, in caso di dissenso, di richiedere a questa Corte regolatrice una pronuncia sulla competenza, attraverso lo strumento previstodall’art. 45 c.p.c..
2. Tanto premesso, ai fini dell’individuazione del giudice competente in ordine al reclamo occorre richiamare il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, che, in tema di amministrazione di sostegno, distingue tra i provvedimenti di apertura e chiusura della procedura, assimilabili per loro natura alle sentenze emesse nei procedimenti d’interdizione ed inabilitazione, e quelli riguardanti le modalità di attuazione della tutela e la concreta gestione del patrimonio del beneficiario (cfr. Cass., Sez. 1, 28/09/ 2017, n. 22693; 16/02/2016, n. 2985; Cass., Sez. 6, 9/03/2015, n. 4701; 23/06/2011, n. 13747), circoscrivendo ai primi, aventi carattere decisorio ed idonei ad acquistare efficacia di giudicato, sia pure rebus sic stantibus, l’applicabilitàdell’art. 720-bis c.p.c., che ne prevede l’impugnabilità dinanzi alla corte d’appello, e riconoscendo agli altri, sempre modificabili e revocabili in base ad una rinnovata valutazione degli elementi acquisiti, una portata meramente ordinatoria ed amministrativa, che ne consente l’inquadramento negli artt. 374 e ss. c.c., richiamatidall’art. 411 c.c., con la conseguente proponibilità del reclamo dinanzi al tribunale in composizione collegiale, ai sensidell’art. 739 c.p.c.(cfr. Cass., Sez. 1, 13/01/2017, n. 784; Cass., Sez. 6, 29/10/2012, n. 18634).
Alla seconda categoria di provvedimenti vanno ricondotti anche quelli di designazione, revoca e sostituzione dell’amministratore, in quanto non incidenti sullo status o su diritti fondamentali del beneficiario della tutela, ma volti esclusivamente ad individuare il soggetto cui è demandata in concreto la cura della sua persona e dei suoi interessi; nessun rilievo può assumere, in proposito, l’eventualità che tale individuazione abbia luogo contestualmente all’apertura della procedura e con il medesimo provvedimento, dovendosi in tal caso distinguere, nell’ambito di quest’ultimo, le determinazioni adottate dal giudice tutelare in ordine rispettivamente alle ragioni che giustificano il riconoscimento della tutela e alla scelta delle modalità di attuazione della stessa, assoggettate a differenti regimi con riguardo sia alla individuazione del giudice competente per il reclamo che alla proponibilità del ricorso per cassazione avverso la decisione di quest’ultimo.
Ciò posto, si osserva che, come correttamente rilevato dalla Corte distrettuale, le doglianze proposte con il reclamo non hanno ad oggetto l’apertura dell’amministrazione di sostegno, la cui necessità è stata riconosciuta dalle stesse reclamanti, ma l’individuazione della persona incaricata di coadiuvare la beneficiaria nella cura della propria persona e nella gestione dei propri interessi, avendo le reclamanti contestato la scelta di un soggetto estraneo al nucleo familiare, in quanto effettuata dal Giudice tutelare senza tener conto della preferenza espressa dalla beneficiaria in favore della persona che già in precedenza si era resa disponibile ad assisterla quotidianamente. Non può dunque condividersi l’affermazione del Tribunale di Brescia, secondo cui il reclamo avrebbe dovuto essere proposto dinanzi alla Corte d’appello, competente ai sensidell’art. 720-bis c.p.c., in virtù del carattere decisorio del provvedimento impugnato, che, in quanto avente ad oggetto la designazione dell’amministratore di sostegno, doveva considerarsi incidente sul diritto dell’incapace di esprimere la sua volontà in ordine alla persona che in sua vece avrebbe potuto compiere gli atti contemplati nel decreto. La circostanza che, nella scelta della persona da nominare, il giudice tutelare sia tenuto in linea di principio ad attenersi alle indicazioni fornite dal beneficiario, potendosene discostare esclusivamente in presenza di gravi motivi, non consente di ritenere che l’inosservanza di tale direttiva comporti una modificazione della natura del provvedimento di nomina, la cui contrarietà alle predette indicazioni non si traduce in un’ulteriore limitazione della capacità dell’interessato, ma solo in una diversa valutazione dell’interesse di quest’ultimo, rimessa alla discrezionalità del giudice tutelare, con il solo limite costituito dall’onere di motivare adeguatamente la scelta compiuta.
3. La competenza a decidere sul reclamo proposto avverso il provvedimento di designazione dell’amministratore di sostegno va pertanto riconosciuta al Tribunale di Brescia, in composizione collegiale, dinanzi al quale le parti vanno rimesse per la prosecuzione del procedimento.
La proposizione d’ufficio del regolamento di competenza esclude la necessità di provvedere al regolamento delle spese processuali.
P.Q.M.
dichiara la competenza del Tribunale di Brescia, in composizione collegiale, dinanzi al quale il processo dovrà essere riassunto nel termine di legge.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella ordinanza.
Così deciso in Roma, il 13 novembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2018