E’ configurabile, per accordo delle parti, un diritto di uso di un’area per fine di parcheggio

Cass. Civ., sez. II, sentenza 17 dicembre 2018 n. 32579
Fatti di causa
1. Nel 2006 K.J. citava in giudizio il fratello K.F. davanti al Tribunale di Bolzano chiedendo – per quanto rileva in questo giudizio di legittimità – di accertare che l’area gravata da una servitù di parcheggio (costituita con contratto datato 2 aprile 1987) in favore del fondo di proprietà del convenuto era in gran parte occupata dall’allargamento di una strada comunale e che il convenuto non aveva diritto di parcheggiare sulla restante area del fondo dell’attore e conseguentemente di inibire al convenuto di parcheggiare veicoli sulla predetta area, nonché di condannare il convenuto al risarcimento dei danni. Il convenuto costituendosi resisteva alle domande dell’attore – deduceva che l’allargamento della strada concerneva solo parte dell’area del parcheggio e non impediva di parcheggiare mezzi quali biciclette o motociclette – e faceva valere domande riconvenzionali, in particolare chiedendo di condannare l’attore a risarcire i danni causatigli da atti illeciti dal medesimo posti in essere.
Il Tribunale di Bolzano rigettava la domanda dell’attore (il convenuto aveva sempre utilizzato quale parcheggio un’area diversa da quella individuata dal contratto, o meglio dalla piantina ad esso allegata, istitutivo della servitù, che non era quindi stata interessata dall’allargamento della strada) e condannava, accogliendo la riconvenzionale del convenuto, l’attore a pagare 2.000 Euro a titolo di risarcimento del danno.
2. La sentenza è stata impugnata dall’attore. La Corte d’appello di Trento, sezione di Bolzano – con sentenza 19 aprile 2013, n. 72 – ha accolto il primo e il quarto motivo di appello e, in riforma della sentenza di primo grado, ha ritenuto che l’appellato utilizzava senza titolo l’area restante della particella di proprietà dell’appellante e ha così ordinato all’appellato di astenersi dall’utilizzo dell’area non gravata dalla servitù di parcheggio; ha inoltre ritenuto che le condotte illecite attribuite all’appellante erano state poste in essere dal figlio maggiorenne K.A. e ha pertanto annullato il capo della sentenza che condannava l’appellante al pagamento di 2.000 Euro, rigettando la domanda riconvenzionale di risarcimento del danno fatta valere dal convenuto.
3. K.F. ricorre per cassazione.
K.J. resiste con controricorso, con cui chiede di dichiarare inammissibile e comunque rigettare il ricorso.
Il ricorrente ha depositato memoria in prossimità dell’udienza.

Ragioni della decisione
I. Il ricorso è articolato in sei motivi.
1. I primi tre motivi sono tra loro strettamente connessi:
a) Il primo motivo denuncia nullità della sentenza per violazione degli artt. 132, 156, 112, 161 c.p.c.: il dispositivo e la parte motiva della sentenza non contengono un accertamento, ossia l’individuazione specifica del bene oggetto della controversia, così rendendo la relativa pronuncia priva di una qualsiasi efficacia.
b) Il secondo motivo contesta violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 191 e ss. c.p.c., 2729 e 2697 c.c.: sia in primo che in secondo grado non è stata assunta alcuna prova idonea a determinare la consistenza e/o l’esatta collocazione della servitù.
c) Il terzo motivo fa valere violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 191 c.p.c., 2721 e 2729 c.c.: prova idonea non può essere considerata il disegno della servitù contenuto nel progetto di divisione predisposto dal consulente tecnico d’ufficio, prova atipica da cui si può unicamente trarre una presunzione semplice.
I motivi sono infondati. La sentenza non è sentenza dal contenuto incerto. Il dispositivo della sentenza è chiaro: condanna il ricorrente a un non facere (obbligo di astenersi dall’utilizzo della parte dell’area di proprietà del fratello non gravata dal diritto di parcheggio). Quanto all’individuazione dell’area contrattualmente gravata dal diritto di parcheggio, essa – a differenza di quanto afferma il ricorrente – non era controversa e risultava dal contratto e dall’allegata piantina: “non venivano definiti attentamente soltanto estensione e dimensione del diritto al parcheggio; l’aggravio della p.f. 859/1 veniva delimitato anche territorialmente” (p. 13 della sentenza impugnata). Né vale al riguardo la censura del terzo motivo, in quanto il giudice d’appello fa riferimento a una piantina allegata al contratto istitutivo della servitù e non al disegno predisposto dal consulente tecnico d’ufficio e il punto non è contestato dal ricorrente.
2. Il quarto motivo contesta violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 342 c.p.c.: l’appellante aveva chiesto al giudice di appello di accertare l’impossibilità dell’esercizio della servitù e il giudice ha invece vietato di utilizzare l’area non gravata dalla servitù.
Il motivo è infondato. Da quanto risulta dalle conclusioni riportate dal medesimo ricorrente (p. 14 del ricorso), l’appellante aveva chiesto che, “conformemente alla domanda di primo grado, deve essere accertata l’impossibilità dell’esercizio della servitù e all’appellato deve venire vietato il parcheggio sulla p.f. 859/1”.
3. Il quinto motivo fa valere violazione e falsa applicazione degli artt. 1158 ss. c.c., 112, 346 e 342 c.p.c.: il giudice di primo grado, nel dichiarare che sin dall’inizio il ricorrente non aveva potuto utilizzare l’area del focus servitutis, ma aveva esercitato il diritto su un’altra area, avrebbe accertato in via incidentale l’avvenuta usucapione del diritto, usucapione proposta quale mera eccezione dal ricorrente in primo grado e poi riproposta nella comparsa di costituzione in appello e invece non valutata dalla Corte d’appello.
Il motivo non può essere accolto. La prospettiva seguita dal giudice di primo grado, di esercizio della servitù in luogo diverso da quello previsto dal contratto (prospettiva che non si è peraltro concretata, come invece afferma il ricorrente, in un accertamento dell’acquisto per usucapione del diritto, cfr. l’estratto della sentenza di primo grado riportato alle pp. 15-16 del ricorso), non è stata seguita dal giudice d’appello. Il giudice d’appello ha, al contrario, ritenuto che solo nel 2005, con i lavori di ampliamento della strada provinciale, il ricorrente non ha più potuto usare come parcheggio l’area stabilita, così che l’eccezione del ricorrente è stata rigettata.
4. Con il sesto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 c.c. e 40 c.p.: K.J. era a conoscenza del ripetersi dei comportamenti illeciti del figlio ai danni del ricorrente (parcheggio dell’autovettura in modo da impedire al ricorrente di parcheggiare, accumulo di mucchi di neve dietro le ruote dell’autovettura del ricorrente), ma nulla ha fatto per impedirli, così rendendosi omissivamente responsabile.
Il motivo è infondato. Il giudice d’appello ha infatti affermato, con accertamento in fatto incensurabile davanti a questa Corte di legittimità, che non è stato in alcun modo provato che K.J. abbia indotto il figlio ad agire in modo illecito e non può essere ravvisata una sua “responsabilità omissiva” nei confronti degli atti posti in essere dal figlio maggiorenne.
II. Il ricorso va quindi rigettato.
Le spese di lite sono liquidate in dispositivo e seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.p.r. n. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, in favore del controricorrente, che liquida in Euro 4.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.
Sussistono i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Ai fini della dichiarazione giudiziale di paternità naturale la CTU genetica è essa stessa fonte oggettiva di prova

Cass. civ. Sez. I, 13 dicembre 2018, n. 32308
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1746/2017 proposto da:
B.V. nella qualità di erede di B.F., elettivamente domiciliato in Roma, Via Cassiodoro n.1/a presso lo studio dell’avvocato Scarselli Giuliano che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
M.M., elettivamente domiciliata in Roma, Via delle Medaglie D’oro n. 36, presso lo studio dell’avvocato Buccoleri Barbara, rappresentata e difesa dall’avvocato Casini Laura, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1527/2016 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 26/09/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/10/2018 dal cons. CAIAZZO ROSARIO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
RILEVATO CHE:
B.F. ha proposto appello avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Arezzo il 25.1.11 che accolse la domanda d’accertamento della paternità avanzata nei suoi confronti da M.M., che sosteneva di essere nata il (OMISSIS) da una relazione avuta dal B. con sua madre, M.G..
Al riguardo, l’appellante lamentava anche che: il Tribunale avesse ritenuto provata la sua paternità solo sulla base delle dichiarazioni rese dalla madre della M. e delle ulteriori prove testimoniali assunte, prove peraltro ammesse in violazione di legge; il Tribunale avesse ritenuto rilevante il suo rifiuto di sottoporsi agli accertamenti ematici nell’ambito della ctu genetica disposta dal Tribunale.
Si è costituita l’appellata.
La Corte d’appello di Firenze ha rigettato l’appello, argomentando: che le prove orali, richieste tempestivamente e regolarmente ammesse dal giudice istruttore in primo grado, erano state correttamente utilizzate dal Tribunale; che era stato correttamente applicatol’art. 232 c.p.c., comma 1, – circa l’ingiustificata mancata comparizione dell’appellante ai fini dell’interrogatorio formale -, mentre dal rifiuto di sottoporsi agli accertamenti ematici erano stati tratti legittimi argomenti di prova.
Il B. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi illustrati da memoria.
Resiste la M. con controricorso.
RITENUTO CHE:
Va osservato che nel ricorso viene preliminarmente eccepita l’illegittimità costituzionaledell’art. 269 c.c., per contrasto conl’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’ingiustificata disparità del regime giuridico relativo alla maternità e alla paternità naturali. Infatti, il ricorrente ha addotto che, mentre la donna può scegliere di non essere madre abortendo il feto ai sensi dellaL. n. 194 del 1978, o esercitando, alla nascita del figlio, il proprio diritto di rimanere anonima ai sensi delD.P.R. n. 396 del 2000,art.30, l’uomo non ha diritto di scegliere di non essere padre, perché non ha la possibilità di rimanere anonimo e non può sottrarsi all’azione di cuiall’art. 269 c.c..
L’eccezione deve essere disattesa per manifesta infondatezza, in condivisione con quanto espresso sul punto dalle pronunce di questa Corte n. 12350 del 18/11/1992, n. 3793 del 15/03/2002 e n. 13880 del 1/06/2017. Invero, le situazioni della madre e del padre, che secondo il ricorrente sarebbero normativamente discriminate con asserita violazione del principio di eguaglianza exart. 3 Cost., non sono paragonabili, perché l’interesse della donna a interrompere la gravidanza ai sensi dellaL. n. 194 del 1978, o a rimanere anonima ai sensi delD.P.R. n. 396 del 2000, non può essere assimilato all’interesse di chi, negando la volontà diretta alla procreazione, pretenda di sottrarsi alla dichiarazione di paternità naturale. Non può pertanto lamentarsi alcuna disparità di trattamento, attesa la ragionevolezza della scelta legislativa di regolare in maniera differenziata situazioni tra loro diverse.
In particolare, circa il riferimento alla normativa sull’interruzione della gravidanza, addotta dal ricorrente quale tertium comparationis, è stato altresì affermato che, in relazioneall’art. 269 c.c., che attribuisce la paternità naturale in base al mero dato biologico, senza alcun riguardo alla volontà contraria alla procreazione del presunto padre, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimentoall’art. 3 Cost., in ragione della disparità di trattamento che ne risulterebbe in danno dell’uomo rispetto alla donna, alla quale laL. 22 maggio 1978, n. 194, attribuisce la responsabilità esclusiva di interrompere la gravidanza ove ne ricorrano le condizioni giustificative, e ciò in quanto le situazioni poste a confronto non sono comparabili, l’interesse della donna alla interruzione della gravidanza non potendo essere assimilato all’interesse di chi, rispetto alla avvenuta nascita del figlio fuori del matrimonio, pretenda di sottrarsi, negando la propria volontà diretta alla procreazione, alla responsabilità di genitore, in contrasto con la tutela che la Costituzione, all’art. 30, riconosce alla filiazione naturale.
Con il primo motivo del ricorso è stata dedotta la nullità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degliartt. 177 e 189 c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 4, per aver la Corte d’appello ammesso le prove testimoniali della parte attrice all’udienza di precisazione delle conclusioni, erroneamente revocando l’ordinanza che aveva fissato la precisazione delle conclusioni, non ostante l’intervenuta decadenza dell’attrice dalle prove testimoniali.
Con il secondo motivo è stata dedotta la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degliartt. 232, 183 e 188 c.p.c., in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 4, in quanto il giudice istruttore aveva ritenuto che la mancata comparizione del B., all’udienza fissata per l’interrogatorio formale, avesse comportato l’ammissione dei fatti di causa e che tale mezzo di prova non avrebbe dovuto essere ammesso.
Con il terzo motivo è stata denunziata la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degliartt. 118, 258 e 260 c.p.c., avendo la Corte d’appello disposto la prova genetica ed ematologica, erroneamente applicando le norme generali sulla ctu e non invece quelle che disciplinano l’ispezione corporale.
Il primo motivo è infondato alla luce del consolidato orientamento di questa Corte secondo cui nel regime processuale di cui allaL. 26 novembre 1990, n. 353, anche come modificato dalleL. 14 maggio 2005, n. 80, eL. 28 dicembre 2005, n. 263, il giudice, qualora a chiusura dell’udienza di trattazione, in difetto di deduzioni istruttorie, abbia rinviato ad altra udienza per la precisazione delle conclusioni, non può revocare in tale ultima udienza l’ordinanza dapprima pronunciata, ammettendo le prove soltanto in questa sede richieste, in quanto il potere di revoca e modifica delle ordinanze, previstodall’art. 177 c.p.c., non è esercitabile al fine di rendere inoperante la preclusione istruttoria già verificatasi, della quale neppure il giudice può disporre (Cass., n. 14110/13; n. 16571/02).
Pertanto, nel caso concreto, poiché parte attrice risultava dai verbali di causa avere già tempestivamente formulato le istanze istruttorie nei termini concessi dal giudice istruttore di primo grado, la Corte d’appello ha correttamente ritenuto legittima la revoca implicita del provvedimento di fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni, attraverso l’ordinanza che ha ammesso i mezzi di prova reiterati.
Il secondo motivo è infondato in quanto, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, il giudice d’appello ha espressamente rilevato che il Tribunale aveva considerato che la mancata comparizione di B.F., senza giustificato motivo, a rendere l’interrogatorio formale, costituisse elemento di prova liberamente valutabile e non confessione della relazione e del concepimento. La Corte territoriale ha poi legittimamente confermato quella valutazione, irreprensibilmente valorizzandola, al pari del primo giudice, nel contesto della serie di dati probatori concorrenti emersi a carico del B. (prove testimoniali; omessa presentazione all’interrogatorio formale; rifiuto di sottoporsi agli accertamenti ematici).
Il terzo motivo è parimenti infondato. Il ricorrente si duole che la Corte abbia disposto l’esame genetico non con ispezione corporale exart. 118 c.p.c., ma con c.t.u., senza l’osservanza delle garanzie che le norme processuali pongono a tutela della persona sottoposta ad ispezione.
Va osservato che nei giudizi promossi per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale l’esame genetico sul presunto padre si svolge mediante consulenza tecnica c.d. percipiente, ove il consulente nominato dal giudice non ha solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti, ma di accertare i fatti stessi. È necessario e sufficiente in tal caso che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche, perché la consulenza costituisca essa stessa fonte oggettiva di prova (Cass. n. 6155 del 13/03/2009, n. 4792 del 26/02/2013, n. del 2017). Nei giudizi in questione tale mezzo istruttorio rappresenta, dati i progressi della scienza biomedica, lo strumento più idoneo, avente margini di sicurezza elevatissimi, per l’acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione naturale, e con esso il giudice accerta l’esistenza o l’inesistenza di incompatibilità genetiche, ossia un fatto biologico di per sè suscettibile di rilevazione solo con l’ausilio di competenze tecniche particolari (Cass. n. 14462 del 29/05/2008). Al contrario, gliartt. 118, 258 e 260 c.p.c., di cui il ricorrente asserisce la violazione, attengono all’ispezione corporale e sono pertanto estranei all’accertamento tecnico in questione, non costituendo il prelievo ematico (al pari del prelievo di saliva dalla mucosa buccale) un’ispezione corporale, ma un mezzo necessario per l’espletamento della consulenza genetica ed ematologica (Cass. n. 8733 del 09/04/2009; n. 13880/17).
Di conseguenza è infondata la censura di violazione di legge per aver la sentenza impugnata fatto applicazionedell’art. 118 c.p.c., comma 2, in quanto la Corte territoriale, nell’accertare la paternità naturale del B., ha valorizzato il rifiuto di quest’ultimo di sottoporsi alla prova genetica. Invero, nel giudizio diretto ad ottenere la dichiarazione giudiziale della paternità (o maternità) naturale, in tema di prova, se la volontà di sottoporsi al prelievo ematico per eseguire gli accertamenti sul DNA non è coercibile, nulla tuttavia impedisce al giudice di valutare, in caso di rifiuto, sia pur in sé legittimo, ma privo di adeguata giustificazione, il comportamento della parte, ai sensidell’art. 116 c.p.c..A tal riguardo è stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione di cuiall’art. 269 c.c., comma 2, secondo la quale la prova della paternità o maternità naturale può essere data con ogni mezzo, alla luce di un preteso contrasto conl’art. 30 Cost., comma 4, secondo il quale “La legge detta i limiti per la ricerca della paternità” (Cass., n. 8059/97). E’ stato altresì affermato che nel giudizio di disconoscimento della paternità è valutabile, come elemento indiziario di convincimento, non solo il rifiuto della parte di sottoporsi alla disposta prova genetica ed ematologica (il quale è assimilabile al rifiuto di ottemperare all’ordine d’ispezione corporale di cuiall’art. 118 c.p.c., comma 2), ma anche la sistematica opposizione avverso l’istanza di detta prova, riconducibile nell’ambito del comportamento processuale di cuiall’art. 116 c.p.c., comma 2 (Cass., n. 3094/85; n. 6400/80).
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida nella somma di Euro 6200,00 di cui 200,00 per esborsi, oltre alla maggiorazione per il rimborso forfettario delle spese generali e accessori di legge.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati significativi, a norma delD.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196,art.52.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 9 ottobre 2018.
Depositato in Cancelleria il 13 dicembre 2018

Per le lesioni lievissime commesse in danno del discendente naturale, la competenza è del Tribunale

Corte cost., 14 dicembre 2018, n. 236
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.4, comma 1, lettera a), delD.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274(Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo14dellaL. 24 novembre 1999, n. 468), come modificato dall’art. 2, comma 4-bis, delD.L. 14 agosto 2013, n. 93(Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con modificazioni, nellaL. 15 ottobre 2013, n. 119, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Teramo, nel procedimento penale a carico di M. M., conordinanza del 7 marzo 2017, iscritta al n. 91 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 7 novembre 2018 il Giudice relatore Giovanni Amoroso.
1.- Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Teramo, conordinanza del 7 marzo 2017, ha sollevato, in riferimento agliartt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art.4, comma 1, lettera a), delD.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274(Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo14dellaL. 24 novembre 1999, n. 468), come modificato dall’art. 2, comma 4-bis, delD.L. 14 agosto 2013, n. 93(Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con modificazioni, nellaL. 15 ottobre 2013, n. 119, nella parte in cui per il delitto previstodall’art. 582 del codice penale- limitatamente alle fattispecie di cui al secondo comma perseguibili a querela di parte ‒ non prevede l’esclusione della competenza del giudice di pace anche per i fatti aggravati ai sensi dell’art. 577, primo comma, numero 1), cod. pen., commessi contro il discendente non adottivo, quale il figlio naturale.
In particolare, il rimettente, quanto alla non manifesta infondatezza dei dubbi di costituzionalità, afferma che la disposizione censurata, non prevedendo l’esclusione della competenza per materia del giudice di pace anche in relazione al reato di lesioni perseguibile a querela, commesso in danno del figlio naturale, e contemplandola invece per lo stesso reato in danno del figlio adottivo, confliggerebbe conl’art. 3 Cost.per violazione del principio di eguaglianza e per irragionevolezza intrinseca.
Ad avviso del rimettente, si tratta di una disposizione che senza giustificazione alcuna stabilisce, per il medesimo reato, un diverso criterio di riparto della competenza per materia, tra giudice di pace e tribunale ordinario, incentrato sul riduttivo richiamo alle sole ipotesi di aggravamento della fattispecie delittuosa di cuiall’art. 582, secondo comma, cod. pen., previstedall’art. 577, secondo comma, cod. pen.Infatti, soltanto le condotte consumate dal genitore nei confronti del figlio adottivo, già di competenza del giudice di pace, sono divenute di competenza del tribunale ordinario e non anche quelle consumate in danno del figlio naturale, ipotesi disciplinata al primo comma, numero 1),dell’art. 577 cod. pen., pur trattandosi di fattispecie connotate da uno stesso disvalore sociale e ispirate ad una ratio punitiva del tutto sovrapponibile.
Inoltre, la disposizione censurata irragionevolmente comporterebbe che, se il reato di lesioni personali “lievi” (in realtà lievissime exart. 582, secondo comma, cod. pen.) è commesso in danno del figlio adottivo, risulta compreso tra le fattispecie di cuiall’art. 282-bis, comma 6, del codice di procedura penale, il quale consente l’applicazione “della misura dell’allontanamento dalla casa familiare”, anche al di fuori dei limiti di pena previstidall’art. 280 cod. proc. pen.; mentre, là dove la medesima condotta risulti posta in essere in danno di un discendente, qual è il figlio naturale, sussistendo la competenza del giudice di pace, deve escludersi l’applicabilità della citata misura cautelare personale, ai sensi dell’art.2, comma 1, lettera c), delD.Lgs. n. 274 del 2000.
Vi sarebbe, pertanto, un’evidente incoerenza intrinseca in considerazione della piena equiparazione della tutela giurisdizionale riservata al figlio adottivo rispetto al figlio naturale, vittime di condotte poste in essere in ambito familiare. Né, precisa il rimettente, sarebbe possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione, atteso il suo chiaro significato letterale.
Sussisterebbe, altresì, la violazionedell’art. 24 Cost., perché la disposizione censurata determina un pregiudizio per i diritti dell’indagato, costituito dalla oggettiva impossibilità per il giudice di adottare un provvedimento exart. 131-bis cod. pen.per la lieve entità del fatto, trovando applicazione l’art.4, comma 1, lettera a), delD.Lgs. n. 274 del 2000, nella parte in cui, per il reato di lesioni “lievi” in danno del figlio naturale, individua quale giudice competente per materia il giudice di pace, impossibilitato a definire il procedimento con un provvedimento di archiviazione ai sensi dell’art. 131-bis citato.
2.- In punto di rilevanza della questione, il GIP rimettente riferisce che all’udienza camerale ai sensidell’art. 409, comma 2, cod. proc. pen., il difensore dell’indagato chiedeva l’archiviazione del procedimento, in via principale, per l’infondatezza della notizia di reato e, in via subordinata, per l’operatività della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, di cuiall’art. 131-bis cod. pen.
Osserva il rimettente come tale epilogo decisorio risulti a lui precluso in quanto obbligato a rilevare la propria incompetenza per materia ai sensidell’art. 22 cod. proc. pen., essendo prevista per il reato in questione la competenza del giudice di pace, dal momento che la disposizione censurata esclude la competenza di quest’ultimo in ordine al delitto di cuiall’art. 582, secondo comma, cod. pen.per i soli fatti commessi contro uno dei soggetti elencatidall’art. 577, secondo comma, cod. pen.e non anche per i fatti commessi in danno del figlio naturale, che ricadono nell’ipotesi aggravata di cui al numero 1) del primo comma dello stesso art. 577.
3.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel presente giudizio di legittimità costituzionale chiedendo a questa Corte di dichiarare l’inammissibilità o l’infondatezza delle questioni.
In primo luogo, l’interveniente osserva che il rimettente lamenta l’irrazionalità della norma sulla competenza perché preclude la possibilità di applicare al caso sottoposto al suo esame la speciale causa di non punibilità di cuiall’art. 131-bis cod. pen., sicché la questione non può ritenersi direttamente rilevante ai fini della decisione del processo nel corso del quale è stata sollevata. Secondo l’Avvocatura generale difetterebbe la pregiudizialità rispetto al giudizio a quo, in quanto le questioni si riferirebbero all’applicazione di una norma che presuppone la competenza del giudice di pace.
Inoltre – osserva ancora l’Avvocatura – il rimettente non si sarebbe misurato con quella giurisprudenza di legittimità, seppur minoritaria, che ritiene applicabile l’istituto di cuiall’art. 131-bis cod. pen.anche nel procedimento davanti al giudice di pace.
Motivi della decisione
1.- Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Teramo, conordinanza del 7 marzo 2017, ha sollevato, in riferimento agliartt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art.4, comma 1, lettera a), delD.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274(Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo14dellaL. 24 novembre 1999, n. 468), come modificato dall’art. 2, comma 4-bis, delD.L. 14 agosto 2013, n. 93(Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con modificazioni, nellaL. 15 ottobre 2013, n. 119, nella parte in cui per il delitto previstodall’art. 582 del codice penale- limitatamente alle fattispecie di cui al secondo comma perseguibili a querela di parte (lesioni lievissime) ‒ non esclude la competenza del giudice di pace anche per i fatti aggravati ai sensi dell’art. 577, primo comma, numero 1), cod. pen., commessi contro il discendente e segnatamente, come nella specie, contro il figlio naturale (da ritenersi, sebbene non precisato dal rimettente, quello nato sia in costanza di matrimonio, sia al di fuori), così come per i fatti commessi contro il discendente adottivo.
Il rimettente lamenta l’irragionevole previsione, per il medesimo reato, di un diverso criterio di attribuzione della competenza per materia, tra giudice di pace e tribunale ordinario, secondo che la parte offesa del reato di lesioni volontarie lievissime sia, in particolare, il figlio naturale o il figlio adottivo, con violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.).
Sussisterebbe, altresì, la violazionedell’art. 24 Cost., perché la disposizione censurata determina un pregiudizio per l’indagato costituito dall’impossibilità per il giudice di adottare un provvedimento di archiviazione ai sensi degli artt. 411, comma 1-bis, del codice di procedura penale e 131-bis cod. pen. per difetto di punibilità in ragione della particolare tenuità del fatto.
2.- Preliminarmente, deve considerarsi chel’art. 577 cod. pen., richiamato, limitatamente al secondo comma, dalla disposizione censurata, è stato modificato dall’art.2dellaL. 11 gennaio 2018, n. 4(Modifiche al codice civile, al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in favore degli orfani per crimini domestici), che costituisce ius superveniens rispetto all’ordinanza di rimessione. In particolare, la disposizione sopravvenuta prevede cheall’art. 577 cod. pen.”sono apportate le seguenti modificazioni: a) al primo comma, numero 1), dopo le parole “il discendente” sono aggiunte le seguenti: “o contro il coniuge, anche legalmente separato, contro l’altra parte dell’unione civile o contro la persona legata al colpevole da relazione affettiva e con esso stabilmente convivente”; b) al secondo comma, dopo le parole: “il coniuge” sono inserite le seguenti: “divorziato, l’altra parte dell’unione civile, ove cessata””.
Risulta così ampliato l’elenco dei soggetti (persone offese) indicati dalla disposizione richiamata dalla norma censurata per includere per alcuni (art. 577, secondo comma) o, all’opposto, escludere per altri (art. 577, primo comma, numero 1) il reato di lesioni lievissime dalla competenza del giudice di pace, rimanendo tuttavia invariata la censurata regola di competenza quanto al reato di lesioni lievissime in danno rispettivamente del figlio naturale e del figlio adottivo.
Si tratta, quindi, di un innesto normativo che non modifica affatto i termini delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice rimettente.
Non vi è ragione, pertanto, di restituire gli atti a quest’ultimo per il riesame della rilevanza delle questioni stesse (da ultimo, sentenza n. 194 del 2018).
Non di meno, la previsione di ulteriori ipotesi di lesioni volontarie lievissime, quali quelle in danno del coniuge, anche legalmente separato, o dell’altra parte dell’unione civile in corso, attribuite alla competenza del giudice di pace, al pari delle lesioni lievissime in danno del figlio naturale, oggetto delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, sarà invece rilevante – come si dirà – al diverso fine della dichiarazione di illegittimità costituzionale in via consequenziale.
3.- In via ancora preliminare, non è fondata l’eccezione di inammissibilità formulata dall’Avvocatura generale dello Stato.
Il GIP rimettente, all’udienza fissata ai sensi degliartt. 409, comma 2, e 411 cod. proc. pen., è chiamato a pronunciarsi in ordine all’imputazione del reato di lesioni volontarie di un genitore in danno del figlio naturale con conseguente malattia di durata non superiore a venti giorni, reato previstodall’art. 582, secondo comma, cod. pen., aggravato exart. 585, primo comma, cod. pen., stante il concorso di una delle circostanze aggravanti previstedall’art. 577 cod. pen., e segnatamente quella prevista dal numero 1) del primo comma, per essere stato il fatto commesso in danno del discendente.
Verificata la condizione di procedibilità della querela tempestivamente proposta dalla parte offesa, il GIP si è preliminarmente interrogato in ordine alla sua competenza stante il dispostodell’art. 22 cod. proc. pen., secondo cui il GIP, se riconosce la propria incompetenza per qualsiasi causa, pronuncia ordinanza o sentenza, rispettivamente nel corso delle indagini preliminari o dopo la chiusura delle stesse, e dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero.
Osserva il rimettente che la competenza a pronunciarsi in ordine all’imputazione suddetta appartiene al giudice di pace in ragione della regola posta dalla disposizione censurata. Egli, quindi, in applicazione di tale regola, dovrebbe dichiarare la propria incompetenza e restituire gli atti al pubblico ministero.
Il dubbio non manifestamente infondato di legittimità costituzionale, espresso dal giudice rimettente, riguarda, dunque, una disposizione di cui egli dovrebbe fare applicazione e che censura proprio nella parte in cui non prevede, all’opposto, la competenza del tribunale ordinario; ciò assicura la rilevanza e, dunque, l’ammissibilità delle questioni di costituzionalità, con conseguente rigetto dell’eccezione proposta dall’Avvocatura generale.
Né ciò può essere revocato in dubbio – come sostiene l’Avvocatura ‒ in ragione di un’argomentazione di supporto svolta dal giudice rimettente, il quale ha aggiunto che, ove fosse competente, dichiarerebbe il difetto di punibilità dell’indagato per la particolare tenuità del fatto exart. 131-bis cod. pen.; disposizione questa che – secondo un recente orientamento della Corte di cassazione (sezioni unite penali, sentenza 22 giugno 2017-28 novembre 2017, n. 53683) – non sarebbe applicabile dal giudice di pace, ossia dal giudice chiamato a pronunciarsi secondo la censurata regola di competenza.
Tale rilievo non inficia la ritenuta rilevanza, e quindi l’ammissibilità, delle questioni di costituzionalità della regola di competenza: di quest’ultima il giudice rimettente deve innanzi tutto fare applicazione, mentre la successiva applicabilità, o no,dell’art. 131-bis cod. pen.costituisce un posterius, ininfluente a tal fine.
Le considerazioni svolte dal giudice rimettente in ordine alla controversa questione – recentemente risolta dalla citata giurisprudenza di legittimità ‒ del rapporto tra la causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto exart. 131-bis cod. pen., di cui conosce il tribunale ordinario, e quella di improcedibilità, anch’essa per la particolare tenuità del fatto, ex art.34delD.Lgs. n. 274 del 2000, di cui conosce il giudice di pace, costituiscono in realtà un mero obiter dictum, inidoneo ad attrarre anche la prima disposizione nell’oggetto del giudizio di costituzionalità, che concerne solo la censurata regola di competenza e la cui rilevanza è assicurata dall’evidente necessità per il giudice rimettente di fare applicazione di quest’ultima.
4.- Nel merito, la questione è fondata in riferimentoall’art. 3, primo comma, Cost., con conseguente assorbimento dell’ulteriore censura di violazionedell’art. 24 Cost.
5.- È necessario premettere il quadro normativo in cui si colloca la questione di costituzionalità, che è fatto di plurimi rinvii e richiami, formali e non già materiali, di disposizioni, sì da risultare, nel complesso, alquanto tortuoso.
5.1.- Il censurato art.4, comma 1, lettera a), delD.Lgs. n. 274 del 2000dispone, nella parte che qui rileva, che il giudice di pace è competente: “a) per i delitti consumati o tentati previsti dagli articoli 581, 582, limitatamente alle fattispecie di cui al secondo comma perseguibili a querela di parte, ad esclusione dei fatti commessi contro uno dei soggetti elencati dall’articolo 577, secondo comma, ovvero contro il convivente …”.
Inizialmente, tale disposizione – che recava il complessivo catalogo dei reati attribuiti alla competenza del giudice di pace in deroga alla competenza del tribunale ordinario – prevedeva il reato di lesioni volontarie cosiddette lievissime (art. 582, secondo comma, cod. pen), ossia quelle che comportano una malattia di durata non superiore a venti giorni, se perseguibili a querela, ossia in assenza delle aggravanti di cuiall’art. 583 cod. pen., che contempla l’ipotesi di lesioni gravi o gravissime, eall’art. 585 cod. pen., che, oltre a particolari modalità della condotta, richiama le circostanze aggravanti dell’omicidio volontario, sia ex art. 576 sia exart. 577 cod. pen.
Quindi, la competenza del giudice di pace, quanto al reato di lesioni volontarie, era ancorata a una duplice condizione: a) malattia di durata non superiore a venti giorni; b) perseguibilità a querela in assenza delle aggravanti suddette, ma con esclusione di quelle indicate nel numero 1) e nell’ultima parte dell’art. 577. Ossia se le lesioni volontarie erano commesse in danno dell’ascendente o del discendente (numero 1 del primo comma dell’art. 577), ovvero se il fatto era commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta (secondo comma dell’art. 577), la competenza era comunque del giudice di pace, pur trattandosi di lesioni aggravate, ma in ogni caso perseguibili a querela.
Pertanto, prima della modifica della regola di competenza contestata dal giudice rimettente, le lesioni lievissime in danno del figlio naturale e quelle in danno del figlio adottivo avevano lo stesso trattamento sostanziale (quanto alla ricorrenza della circostanza aggravante) e processuale (quanto alla competenza): se punite a querela, per essere la malattia non superiore a venti giorni, era competente sempre il giudice di pace.
Questo assetto è rimasto inalterato in occasione delle ripetute modifiche dell’art. 4 censurato e inalterato era inizialmente anche a seguito delD.L. n. 93 del 2013.
È stata solo la legge di conversione – come ora si viene meglio a dire ‒ a modificare tale regola di competenza. Infatti, le parole “ad esclusione dei fatti commessi contro uno dei soggetti elencati dall’articolo 577, secondo comma”, nei cui confronti si appuntano le censure del giudice rimettente, sono state inserite, nella disposizione del citatoD.Lgs. n. 274 del 2000, dallaL. n. 119 del 2013, di conversione delD.L. n. 93 del 2013.
5.2.- Tale decreto-legge reca un complessivo intervento normativo di repressione della violenza di genere, in sintonia peraltro con la pressoché coeva ratifica, ad opera dellaL. 27 giugno 2013, n. 77, della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011. È di tutta evidenza che il decreto-legge ha avuto come scopo principale quello di contrastare in modo più incisivo la violenza di genere, ossia le condotte violente poste in essere nell’ambito di contesti familiari o comunque affettivi, rafforzando la tutela delle vittime considerate più vulnerabili, quali le donne.
Tra le novità di maggior rilievo recate dalD.L. n. 93 del 2013vi è, per ciò che qui interessa, la modificadell’art. 282-bis cod. proc. pen., disposizione questa introdotta nel codice di rito dall’art.1dellaL. 4 aprile 2001, n. 154(Misure contro la violenza nelle relazioni familiari) con la previsione di una speciale misura cautelare personale: l’allontanamento dalla casa familiare. In particolare, il comma 6 dell’art. 282-bis elencava una serie di reati -artt. 570, 571, 600-bis, 600-ter, 600-quater, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies cod. pen.- prevedendo, tra l’altro, che la misura cautelare potesse essere adottata anche al di fuori dei limiti edittali di pena fissatidall’art. 280 cod. proc. pen.
IlD.L. n. 93 del 2013, all’art. 2, comma 1, lettera a), ha inserito nell’elenco del comma 6dell’art. 282-bis cod. proc. pen.anchel’art. 582 cod. pen., limitatamente alle ipotesi procedibili d’ufficio o comunque aggravate, con l’intento di rendere applicabile la misura dell’allontanamento dalla casa familiare anche a questi ulteriori casi di lesioni volontarie. E, simmetricamente, ha modificatol’art. 384-bis cod. proc. pen.quanto all’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare, reso anch’esso possibile in caso di lesioni volontarie.
Tale finalità di un più incisivo contrasto della violenza domestica consistente in lesioni volontarie, in particolare con la prevista estensione della suddetta misura cautelare, risultava però non pienamente conseguita in quanto per le lesioni volontarie lievissime perseguibili a querela (di cui al secondo comma dell’art. 582) era ancora prevista la competenza del giudice di pace, al quale era – ed è – interdetta l’adozione di misure cautelari personali (art.2, comma 1, lettera c, delD.Lgs. n. 274 del 2000).
Sia il parere del Consiglio superiore della magistratura del 10 ottobre 2013 sulD.L. n. 93 del 2013, che le audizioni in Parlamento in occasione della legge di conversione (Atto Camera, Commissioni riunite I e II, seduta del 10 settembre 2013) avevano segnalato il problema: il giudice di pace, in caso di lesioni lievissime, non avrebbe potuto adottare la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis).
Sicché, non sussistendo in capo al giudice di pace il potere di applicare misure restrittive della libertà personale, necessariamente il legislatore ha dovuto modificare il catalogo dei reati attribuiti alla competenza di quel giudice. Occorreva modificare la regola di competenza, se si voleva elevare il contrasto della violenza domestica anche nel caso di lesioni lievissime.
A ciò ha rimediato lalegge di conversione n. 119 del 2013modificando la regola di competenza (art. 4, comma 1, lettera a) sì da portare nella competenza del tribunale ordinario anche i reati di lesioni volontarie lievissime che prima erano esclusi. All’art. 2 del decreto-legge è stato aggiunto – come già detto ‒ il comma 4-bis che ha sottratto alla competenza del giudice di pace il reato di lesioni lievissime nel concorso della circostanza aggravante previstadall’art. 585 cod. pen.per essere i fatti commessi contro uno dei soggetti elencatidall’art. 577, secondo comma, cod. pen.
L’intervento normativo del 2013 era quindi diretto a elevare il livello di repressione della violenza domestica con la previsione di una serie di misure di contrasto e, in particolare, quanto alle lesioni lievissime di cuiall’art. 582, secondo comma, cod. pen., con il trasferimento della competenza al tribunale ordinario così escludendo la preclusione all’adozione di misure personali cautelari, quale l’allontanamento dalla casa familiare, nonché il complessivo regime di favore di cui al Titolo II delD.Lgs. n. 274 del 2000, quanto alle sanzioni applicabili dal giudice di pace.
Chiara è la ratio della nuova normativa, come emerge dai lavori parlamentari, nel corso dei quali si è posto in rilievo che non di rado le condotte di lesioni, anche lievissime, costituiscono comportamenti cosiddetti “spia”, con cui, cioè, si manifestano fatti di prevaricazione e violenza che, spesso, sfociano in condotte ben più gravi e connotate da abitualità: comportamenti in danno di “prossimi congiunti” (come prevede l’art. 282-bis, comma 6, citato) e quindi – si sarebbe portati a credere – in danno, in particolare, sia del figlio naturale che del figlio adottivo.
Invece, il legislatore del 2013, nel modificare il catalogo dei reati attribuiti alla competenza del giudice onorario, è intervenuto sull’art.4delD.Lgs. n. 274 del 2000, escludendo la competenza in relazione al reato di lesioni lievissime commesso “in danno dei soggetti elencatidall’art. 577, secondo comma” cod. pen., talché testualmente (e inspiegabilmente) è rimasto escluso il reato di lesioni commesso in danno dei soggetti di cui al numero 1) del primo comma dell’art. 577, tra cui appunto il figlio naturale.
5.3.- In sintesi, il regime differenziato, censurato dal giudice rimettente, è conseguenza del diverso utilizzo della tecnica del “richiamo”dell’art. 577 cod. pen.a opera rispettivamentedell’art. 582, secondo comma, cod. pen., e dell’art.4, comma 1, lettera a), delD.Lgs. n. 274 del 2000.
Per la prima disposizione (art. 582, secondo comma) il richiamo vale a identificare una fattispecie di lesioni aggravate, anche lievissime (e perseguibili comunque a querela), che sono tali se ricorrono i presupposti sia del numero 1) del primo comma, sia del secondo comma dell’art. 577: ovvero se i fatti di lesione sono commessi in danno di qualsivoglia soggetto previsto dall’art. 577 e quindi, in particolare, tanto in danno del figlio naturale che del figlio adottivo, dovendo intendersi per tale quello che abbia acquisito siffatto stato in virtù, in particolare, di adozione legittimante. Infatti, la giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 26 settembre 2017 – 1 marzo 2018, n. 9427), con riguardo al reato di omicidio volontario, che vede come rilevante la distinzione tra “discendente” e “figlio adottivo”, ha ritenuto che nella nozione di “discendente” di cui al numero 1) del primo commadell’art. 577 cod. pen.rilevi la filiazione biologica, sicché la nozione di “figlio adottivo” di cui al secondo comma dell’art. 577, pur essendo la disposizione rimasta nella formulazione originaria del 1930, è da intendersi riferita anche all’adozione quale regolamentata dalla disciplina successiva al codice civile del 1942 e quindi, in particolare, a quella legittimante, di cui allaL. 4 maggio 1983, n. 184(Diritto del minore ad una famiglia).
Per la seconda disposizione (art. 4, comma 1, lettera a), invece, il richiamo è differenziato: le lesioni lievissime in danno dei soggetti di cui al numero 1) dell’art. 577 sono rimaste nella competenza del giudice di pace, mentre quelle in danno dei soggetti di cui al secondo comma della stessa disposizione sono state trasferite alla competenza del tribunale ordinario per meglio contrastare questi episodi delittuosi.
Da ciò risulta la regola di competenza differenziata, in particolare, quanto alle lesioni lievissime in danno del figlio naturale ovvero del figlio adottivo.
6.- Fatta questa premessa ricostruttiva del quadro normativo di riferimento, nel merito la questione è fondata con riguardoall’art. 3, primo comma, Cost., sotto un duplice profilo.
Da una parte, è violato il principio di eguaglianza non essendo giustificato il diverso trattamento processuale riservato al reato di lesioni volontarie secondo che il fatto sia commesso rispettivamente in danno del figlio naturale o del figlio adottivo, stante lo stesso stato di figlio nell’uno e nell’altro caso e quindi il carattere discriminatorio della differenziazione.
D’altra parte, non si rinviene alcuna ragione, quale che sia, della mancata inclusione anche del reato di lesioni volontarie commesso in danno del figlio naturale tra quelli che, già di competenza del giudice di pace, sono stati trasferiti alla competenza del tribunale ordinario per innalzare il livello di contrasto a tali episodi di violenza domestica, con conseguente manifesta irragionevolezza della disciplina differenziata.
6.1.- Quanto al principio di eguaglianza, deve considerarsi che sotto il profilo civilistico piena è l’assimilazione di stato tra figlio naturale e figlio adottivo e, quanto al profilo penalistico sostanziale, lo stesso trattamento sanzionatorio ricorre per i fatti in danno del figlio naturale e del figlio adottivo, salvo che per l’omicidio di cui si dirà oltre.
Già l’art.27della citataL. n. 184 del 1983ha previsto che per effetto dell’adozione l’adottato acquista lo stato di figlio nato nel matrimonio degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome. Più recentemente, a seguito delD.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154(Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo2dellaL. 10 dicembre 2012, n. 219), la parificazione si è completata.
L’art. 74 del codice civile, novellato dall’art.1, comma 1, dellaL. 10 dicembre 2012, n. 219(Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), prevede che la parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo, salvo nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli artt. 291 e seguenti cod. civ.
In termini ancora più nettil’art. 315 cod. civ., novellato dall’art. 1, comma 7, della medesimaL. n. 219 del 2012, ha ridefinito la condizione della filiazione prevedendo in generale che tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico.
Come affermato da questa Corte nella sentenza n. 286 del 2016, con tale revisione della disciplina della filiazione, “il legislatore ha posto le basi per la completa equiparazione della disciplina dello status di figlio legittimo, figlio naturale e figlio adottato, riconoscendo l’unicità dello status di figlio”.
D’altra parte, nella materia penale parimenti si riscontra un’analoga equiparazione tra figlio naturale e figlio adottivo.
Innanzi tutto, già il reato di lesioni volontarie è, allo stesso modo e nella stessa misura, aggravato se il fatto è commesso sia in danno del figlio naturale sia in danno del figlio adottivo. Infatti,l’art. 585 cod. pen.stabilisce che la pena è aumentata fino a un terzo se concorre alcuna delle circostanze aggravanti previstedall’art. 577 cod. pen.; disposizione quest’ultima che prevede sia il fatto in danno del figlio naturale (al numero 1 del primo comma), sia il fatto in danno del figlio adottivo (secondo comma).
Analoga equiparazione ricorre con riferimento ad altri reati.
L’art. 602-ter cod. pen., quanto alle circostanze aggravanti dei reati di prostituzione minorile e di pornografia minorile, nonché dei reati di cui agliartt. 600, 601 e 602 cod. pen., prevede che opera nella stessa misura l’aggravante se il fatto è commesso da un ascendente o dal genitore adottivo.
Parimenti, in materia di violenza sessuale costituisce circostanza aggravante il fatto commesso dal genitore “anche adottivo” (artt. 609-ter e 609-quater cod. pen.); e così anche nel caso di reato di corruzione di minorenne (art. 609-quinquies cod. pen.).
Assume, quindi, carattere discriminatorio la diversa regola processuale di competenza, in esame, prevista per il figlio naturale rispetto a quella stabilita per il figlio adottivo talché è violato, in via generale, il principio di eguaglianza, avendo essi lo stesso stato giuridico, così come è indubitabile che sia per figli di genere diverso.
6.2.- Ma viene in rilievo anche il principio di ragionevolezza.
Vero è che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (ex multis, sentenze n. 65 del 2014 e n. 216 del 2013; ordinanze n. 48 del 2014 e n. 190 del 2013), nella disciplina del processo in generale, e segnatamente nel processo penale, ampia è la discrezionalità del legislatore, con il solo limite della non manifesta irragionevolezza delle scelte compiute.
Si è affermato, in particolare, che non è compito di questa “Corte procedere ad aggiustamenti delle norme processuali per mere esigenze di coerenza sistematica e simmetria, in ossequio ad un astratto principio di razionalità del sistema normativo”; senza che nel caso di specie siano però rilevabili “lesioni di principi o regole contenuti nella Costituzione o di diritti costituzionalmente tutelati” (sentenza n. 182 del 2007). Parimenti, questa Corte, in relazione alla disciplina della competenza per materia del giudice di pace, ha più volte affermato (soprattutto con riferimento alla competenza per connessione) che essa appartiene, nei limiti della ragionevolezza, alla discrezionalità del legislatore, e che il discrimine posto in relazione alla competenza del giudice superiore rinviene la propria ratio giustificatrice nelle peculiarità proprie del rito innanzi al giudice di pace, caratterizzato da tratti di semplificazione e snellezza che ne esaltano la funzione conciliativa, nonché nella natura delle fattispecie criminose di ridotta gravità, devolute alla competenza del giudice di pace (sentenza n. 64 del 2009; ordinanza n. 56 del 2010).
Non di meno può ricorrere la irragionevolezza, quale intrinseco difetto di coerenza, anche con riferimento a scelte delle regole di rito, come è in particolare la regola di competenza per i reati attributi alla cognizione del giudice di pace, in deroga a quella del tribunale ordinario.
Questa Corte, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di una disposizione che prevedeva la facoltà del querelante di opporsi alla definizione del procedimento con l’emissione di decreto penale di condanna, ha affermato che “la censurata facoltà si pone … in violazione del canone di ragionevolezza e del principio di ragionevole durata del processo, costituendo un bilanciamento degli interessi in gioco non giustificabile neppure alla luce dell’ampia discrezionalità che la giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto al legislatore nella conformazione degli istituti processuali” (sentenza n. 23 del 2015).
Lo scrutinio di non manifesta irragionevolezza, in questi ambiti, impone, infatti, alla Corte costituzionale di verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale. Tale giudizio deve svolgersi “attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti” (sentenza n. 1130 del 1988). Il rispetto del canone di ragionevolezza “richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi” (sentenza n. 1 del 2014).
6.3.- Sotto questo profilo, deve considerarsi che un trattamento differenziato tra figlio naturale e figlio adottivo è, eccezionalmente, previsto dalla disposizione richiamata da quella censurata con riferimento al reato di omicidio volontario.
Infatti, si ha chel’art. 577 cod. pen., richiamato, limitatamente al secondo comma, appunto dall’art.4, comma 1, lettera a), delD.Lgs. n. 274 del 2000, reca tale differenziazione al primo e secondo comma nel disciplinare le circostanze aggravanti dell’omicidio volontario.
Nel sistema rimane, discutibilmente, ancor oggi più grave l’omicidio del figlio naturale rispetto a quello del figlio adottivo (sentenza della Corte di cassazione n. 9427 del 2018 citata). Il diverso regime dell’aggravante si fonda sul presupposto della “consanguineità”, risultante – in via eccezionale, quale precipitato di concezioni antiche – dalla contrapposizione tra “discendente” e “figlio adottivo”.
A fronte di ciò, la disposizione censurata attribuisce, all’opposto, un minor disvalore alla condotta di lesioni lievissime in danno del figlio naturale rispetto alla stessa condotta in danno del figlio adottivo, così rivelando una marcata connotazione di irragionevolezza.
Non si rinviene, infatti, nei lavori parlamentari e nella complessiva lettura dellaL. n. 119 del 2013, unitamente al convertito decreto-legge, alcuna specifica ragione di tale trattamento differenziato, che anzi risulta antitetico (e quindi contraddittorio) rispetto alla evidenziata ratio, eccezionalmente sottesaall’art. 577 cod. pen., ossia il diverso regime delle aggravanti dell’omicidio volontario se commesso in danno del figlio naturale o del figlio adottivo.
In mancanza di alcuna opposta plausibile ratio, si ha che del tutto ingiustificatamente la disposizione censurata replica, anche con riferimento alle lesioni lievissime, la distinzione tra “discendente” e “figlio adottivo” quanto a una regola processuale, quale è quella in esame, attributiva della competenza. Conservando nella fattispecie la competenza del giudice di pace in luogo di prevedere quella del tribunale ordinario, la disposizione censurata non ha elevato il livello di contrasto nei confronti delle lesioni lievissime in danno del figlio naturale, così come ha invece fatto per quelle in danno del figlio adottivo.
Da ciò emerge la manifesta irragionevolezza della disposizione censurata che, invertendo l’apprezzamento di disvalore delle condotte, ancor oggi perdurante nel sistema, utilizza non di meno il richiamo proprio dell’art. 577, cui è sottesa una ratio opposta della differenziazione tra “discendente” e “figlio adottivo”.
Quindi, il trattamento differenziato riservato al figlio naturale rispetto a quello del figlio adottivo viola anche il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.).
7.- Una volta ritenuta da una parte la violazione del principio di eguaglianza e, dall’altra, la manifesta irragionevolezza della differenziazione della regola di competenza, la reductio ad legitimitatem è univocamente orientata dal verso complessivo dell’intervento del legislatore del 2013, che ha voluto reprimere più efficacemente la violenza domestica; sicché a violare il parametrodell’art. 3, primo comma, Cost.è la mancata inclusione del reato di lesioni volontarie lievissime in danno del figlio naturale nell’elenco dei reati, oggetto di un più energico contrasto, che il censurato art.4, comma 1, lettera a), delD.Lgs. n. 274 del 2000eccettua dalla competenza del giudice di pace, ossia nell’elenco dei reati, di minore allarme sociale, che – come eccezione alla regola della competenza del tribunale ordinario – radicano invece la competenza del giudice di pace.
La parificazione di disciplina non può realizzarsi altrimenti che “in alto”, ossia estendendo – secondo peraltro quello che è il petitum dell’ordinanza di rimessione ‒ la stessa regola di competenza alla fattispecie delle lesioni lievissime commesse dal genitore in danno del figlio naturale, e così rendendo inoperante – come nell’ipotesi di lesioni lievissime in danno del figlio adottivo ‒ la deroga alla competenza del tribunale ordinario, in linea con il più elevato livello di contrasto della violenza domestica, con la conseguente possibilità, in particolare, per il giudice di applicare, nell’uno e nell’altro caso, la misura cautelare personale dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis cod. proc. pen.), adottabile anche in via d’urgenza (art. 384-bis cod. proc. pen.).
8.- A questa parificazione “in alto” – ossia nella competenza del tribunale ordinario ‒ non è di ostacolo l’irrigidimento della disciplina sostanziale, conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata, nella misura in cui, ripristinata la parità quanto alla regola di competenza, si ha anche che non trovano applicazione le disposizioni speciali del Titolo II delD.Lgs. n. 274 del 2000quanto alle sanzioni applicabili dal giudice di pace, quale trattamento più favorevole in deroga a quello ordinario.
Per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale della regola sulla competenza, il regime sostanziale delle pene per i fatti di lesioni lievissime commesse dal genitore in danno del figlio naturale risulta essere quello ordinario, come tale più rigido di quello derogatorio in bonam partem, applicabile allorché operava la competenza del giudice di pace.
La giurisprudenza di questa Corte, ribadita anche recentemente (sentenza n. 143 del 2018), ammette, in particolari situazioni, interventi con possibili effetti in malam partem in materia penale (sentenze n. 32 e n. 5 del 2014, n. 28 del 2010, n. 394 del 2006), pur precisando che “resta impregiudicata ogni ulteriore considerazione … circa l’ampiezza e i limiti” di tali interventi.
Il principio della riserva di legge in materia penale “rimette al legislatore … la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare” (sentenza n. 5 del 2014), “ma non … preclude decisioni ablative di norme che sottraggono determinati gruppi di soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una norma comune o comunque più generale, accordando loro un trattamento più benevolo” (sentenza n. 394 del 2006). In tal caso – ha precisato la Corte in quest’ultima pronuncia ‒ “l’effetto in malam partem non discende dall’introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la quale si limita a rimuovere la disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali; esso rappresenta, invece, una conseguenza dell’automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di una incostituzionale disciplina derogatoria”.
A maggior ragione l’effetto in malam partem per l’imputato (o indagato) derivante dall’eliminazione di una previsione a carattere derogatorio di una disciplina generale, deve ritenersi ammissibile allorché si configuri come una mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma processuale.
Rimane però che, per i fatti commessi fino al giorno della pubblicazione della presente decisione sulla Gazzetta Ufficiale opera il principio ‒ direttamente fondatosull’art. 25, secondo comma, Cost.e che prevale sull’ordinaria efficacia ex tunc della decisione di questa Corte ai sensidell’art. 136 Cost.e dell’art.30, terzo comma, dellaL. 11 marzo 1953, n. 87(Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) ‒ della non retroattività della disciplina sostanziale che risulti essere peggiorativa per effetto di una pronuncia di illegittimità costituzionale, talché innanzi al tribunale ordinario competente anche per il reato di lesioni lievissime, di cuiall’art. 582, secondo comma, cod. pen., in danno del figlio naturale, l’imputato (o indagato) sarà soggetto all’applicazione della più favorevole disciplina delle sanzioni di cui al Titolo II delD.Lgs. n. 274 del 2000, non diversamente da quanto accade nell’ipotesi del tribunale ordinario che si trovi a giudicare di un reato di competenza del giudice di pace (art. 63 del medesimo decreto legislativo).
Vi è comunque anche, allo stato attuale della giurisprudenza di legittimità, un effetto in bonam partem – questo invece di immediata operatività, consistente, ove ricorra un fatto di lieve entità, nell’applicazione della causa di non punibilitàdell’art. 131-bis cod. pen., piuttosto che della causa di improcedibilità di cui all’art.34delD.Lgs. n. 274 del 2000.
9.- Va, quindi, dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata per violazionedell’art. 3, primo comma, Cost., assorbita l’ulteriore censura mossa dal giudice rimettente con riferimentoall’art. 24 Cost., nella parte in cui non prevede, nella fattispecie finora esaminata, la competenza del tribunale ordinario.
Più specificamente, l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera a), che – come già ricordato – include nella eccezione alla competenza del giudice di pace il delitto di lesioni volontarie di cuiall’art. 582, secondo comma, cod. pen., per fatti commessi in danno dei soggetti elencati nel secondo commadell’art. 577 cod. pen., comporta la necessaria estensione, nel richiamo operato dalla disposizione censurata, anche ai fatti in danno dei soggetti di cui al numero 1) dell’art. 577, nella formulazione vigente al momento dell’ordinanza di rimessione, ossia ai fatti in danno, in generale, degli ascendenti e dei discendenti, non potendo isolarsi la sola ipotesi del genitore naturale e del figlio naturale, atteso che le lesioni, ancorché lievissime, sono sempre aggravate (exart. 585 cod. pen.che richiamal’art. 577 cod. pen.), allo stesso modo e nella stessa misura, in ragione del rapporto di ascendenza e discendenza e non già soltanto di genitorialità e filiazione.
Pertanto, la disposizione censurata va dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui non esclude dai delitti, consumati o tentati, di competenza del giudice di pace anche quello di lesioni volontarie lievissime, previstodall’art. 582, secondo comma, cod. pen., per fatti commessi contro l’ascendente o il discendente di cui al numero 1) del primo commadell’art. 577 cod. pen.
10.- Infine, la Corte non può non tener conto del fatto che – essendo di natura formale e non già materiale il richiamo che la disposizione censurata faall’art. 577, secondo comma, cod. pen.‒ la fattispecie illegittimamente esclusa dal richiamo contenuto nella disposizione censurata si è ampliata recentemente con la previsione, ad opera dell’art.2, comma 1, lettera a), dellaL. n. 4 del 2018, di altre ipotesi incluse nel numero 1) del primo comma dell’art. 577: il coniuge, anche legalmente separato, l’altra parte dell’unione civile o la persona legata al colpevole da relazione affettiva e con esso stabilmente convivente. La stessa disposizione, alla lettera b), ha considerato distintamente il fatto commesso in danno del coniuge divorziato o dell’altra parte dell’unione civile, ove cessata.
L’intento del legislatore del 2018 è stato quello di contrastare ulteriormente fatti di violenza estrema sfociati in episodi di omicidio volontario, soprattutto di donne, e ha quindi esteso l’aggravante di cuiall’art. 577 cod. pen. anche alle ipotesi in cui la vittima sia stata legata all’omicida da un rapporto coniugale, di unione civile o affettivo, però differenziando l’ipotesi del numero 1) del primo comma di tale disposizione, che all’aggravante collega la pena dell’ergastolo, da quella del secondo comma, che, pur aggravando la pena rispetto a quella di cuiall’art. 575 cod. pen., la prevede nella reclusione da ventiquattro a trenta anni. Ossia il legislatore, nella sua discrezionalità, ha ritenuto più grave l’omicidio del coniuge, anche separato, rispetto a quello del coniuge divorziato; e analogamente più grave quello della parte di un’unione civile in corso rispetto a quello della parte di un’unione civile cessata.
Questa novellazione delle aggravanti del reato di omicidio ha avuto altresì l’effetto di incidere indirettamente, in ragione del meccanismo del rinvio formale contenuto nella disposizione censurata, anche sulla regola di competenza in esame, quanto al reato di lesioni lievissime exart. 582, secondo comma, cod. pen., negli stessi termini della (sopra esaminata) differenziazione tra lesioni volontarie lievissime in danno rispettivamente del figlio naturale e del figlio adottivo, così replicando la manifesta irragionevolezza della differenziazione stessa.
Infatti, da una parte si ha che, sotto l’aspetto sanzionatorio, le lesioni volontarie lievissime sono aggravate nella stessa misura (exart. 577 cod. pen., richiamato dall’art. 585 senza distinguere tra primo e secondo comma) se commesse in danno del coniuge o della parte di un’unione civile, a prescindere dall’eventuale cessazione degli effetti civili del matrimonio o dell’unione civile, sicché sono pienamente parificate le due situazioni: quelle del numero 1) del primo comma e quelle del secondo commadell’art. 577 cod. pen.Invece, sotto l’aspetto processuale opera, per il meccanismo del rinvio formale, la stessa differenziazione introdotta per l’omicidio volontario senza che sia identificabile alcuna ratio della stessa, che rimane oscura, e anzi risulta una palese contraddittorietà rispetto alla ratio – questa sì ben chiara ‒ che ispira la differenziazione quanto all’aggravamento del reato di omicidio volontario. Altrimenti detto, mentre l’omicidio del coniuge, anche separato, è considerato più grave dell’omicidio del coniuge divorziato, invece le lesioni volontarie lievissime in danno del primo vedono, all’opposto, un contrasto meno energico rispetto a quelle in danno del secondo, perché la competenza del giudice di pace esclude l’adozione di misure cautelari personali quali l’allontanamento dalla casa familiare a tutela del coniuge, anche separato, che subisca tale violenza domestica. Analoga considerazione vale per la parte di un’unione civile che subisca una violenza domestica in costanza dell’unione o dopo la cessazione della stessa.
Pertanto, la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata nella parte in cui non richiama anche i fatti di lesioni volontarie lievissime in danno dei soggetti indicati nel numero 1) dell’art. 577 non può essere limitata soltanto a quelli previsti da tale ultima disposizione nella formulazione vigente al momento dell’ordinanza di rimessione, ma si estende, in via consequenziale, ai sensi dell’art.27dellaL. n. 87 del 1953, anche a quelli successivamente inclusi, con la tecnica della novellazione della disposizione oggetto di rinvio formale, dall’art.2, comma 1, lettera a), dellaL. n. 4 del 2018.

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.4, comma 1, lettera a), delD.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274(Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo14dellaL. 24 novembre 1999, n. 468), come modificato dall’art. 2, comma 4-bis, delD.L. 14 agosto 2013, n. 93(Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con modificazioni, nellaL. 15 ottobre 2013, n. 119, nella parte in cui non esclude dai delitti, consumati o tentati, di competenza del giudice di pace anche quello di lesioni volontarie, previstodall’art. 582, secondo comma, del codice penale, per fatti commessi contro l’ascendente o il discendente di cui al numero 1) del primo commadell’art. 577 cod. pen.;
2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art.27dellaL. 11 marzo 1953, n. 87(Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art.4, comma 1, lettera a), delD.Lgs. n. 274 del 2000, nella parte in cui non esclude dai delitti, consumati o tentati, di competenza del giudice di pace anche quello di lesioni volontarie, previstodall’art. 582, secondo comma, cod. pen., per fatti commessi contro gli altri soggetti elencati al numero 1) del primo commadell’art. 577 cod. pen., come modificato dall’art.2dellaL. 11 gennaio 2018, n. 4(Modifiche al codice civile, al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in favore degli orfani per crimini domestici).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 novembre 2018.
Depositata in Cancelleria il 14 dicembre 2018.

Non solo in caso di divorzio ma anche di separazione, il coniuge che forma un nuovo nucleo familiare, perde il mantenimento

Cass. civ. Sez. I, 19 dicembre 2018, n. 32871
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 11170/2015 proposto da:
M.R., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Romito Domenico, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
C.A., elettivamente domiciliato in Roma, Via Rodi n.32, presso lo studio dell’avvocato Monacelli Mario (Studio avv. Chiocci Umberto), che lo rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 26/2015 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 14/01/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/12/2018 dal cons. GENOVESE FRANCESCO ANTONIO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per il rigetto;
udito, per il contro ricorrente, l’Avvocato Cristina Ciufoli, con delega avv. Monacelli, che si riporta per il rigetto.
Svolgimento del processo
1. – Con sentenza n. 26 del 2015 la Corte d’appello di Perugia, nel decidere sull’appello proposto dal signor C.A. contro la moglie M.R., nel corso del giudizio di separazione personale dei due coniugi, per quello che ancora rileva ed interessa, ha revocato l’assegno di mantenimento corrisposto dal primo in favore della seconda in considerazione del fatto che risultava provata (anche per mezzo di un certificato del Comune di Gubbio, estratto dal registro delle coppie di fatto, tenuto da quel Comune “ad uso assegni familiari”) l’instaurazione di una famiglia di fatto da parte dell’appellata e dunque applicabile al caso la giurisprudenza di legittimità in tema di assegno divorzile.
2. – Per la cassazione della sentenza la M. ha proposto ricorso con un articolato motivo.
2.1. – L’intimato ha resistito con controricorso e memoria illustrativa.

Motivi della decisione

1. – Con l’unico motivo di ricorso la ricorrente, ha denunciato: “Violazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 3”.
1.1. – Ha in breve sostenuto la ricorrente che la Corte territoriale avrebbe errato ad escludere l’assegno di mantenimento in ragione della prova di una sua convivenza more uxorio (che non presenterebbe caratteri di stabilità ma avrebbe natura precaria) senza aver accertato e valutato se, dalla nuova convivenza, la ricorrente ritraesse benefici economici idonei a giustificare la diminuzione dell’assegno o, addirittura, la sua revoca.
1.2. – Ha chiesto, perciò, la riconferma del principio di diritto secondo cui: il diritto all’assegno di mantenimento non può essere automaticamente negato per il fatto che il suo titolare abbia intrapreso una convivenza more uxorio, influendo tale convivenza solo sulla misura dell’assegno ove si dia la prova, da parte dell’onerato, che essa influisca in melius sulle condizioni economiche dell’avente diritto.
1.3. – La ricorrente ha concluso con la richiesta di annullamento della sentenza impugnata, con rinvio al giudice di merito.
2. – Com’è noto, la legge sul divorzio prevede che il diritto all’assegno venga meno se l’ex coniuge beneficiario contragga nuove nozze (art. 5, comma 100, L. div.) ma nulla prevede, invece, per l’ipotesi che l’ex coniuge “debole”, in luogo del matrimonio, instauri una convivenza more uxorio, sicché si pone il problema di stabilire se, ed in che modo, una tale convivenza instaurata dal coniuge beneficiario incida sul diritto all’assegno di divorzio.
2.1. – Superando precedenti assetti dell’elaborazione giurisprudenziale in riferimento all’assegno divorzile, questa Corte ha, pochi anni addietro, affermato il principio di diritto secondo cui:
L’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensidell’art. 2 Cost., come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo (Sez. 1, Sentenza n. 6855 del 2015; successivamente confermato da Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 2466 del 2016).
2.2. – In sostanza, aderendo ai voti di una larga dottrina, la Corte nel richiamato precedente – ha ritenuto che la causa estintiva prevista dalla legge (art. 5, comma 100, L. div.) andasse “letta” estensivamente ricomprendendo in essa non solo il caso delle nuove nozze (con la conseguente formazione di una famiglia fondata sul matrimonio) ma anche quello della formazione di una famiglia di fatto, per quanto nata da una relazione non formalizzata, ma pur sempre tutelata sul piano costituzionale (art. 2 Cost.).
2.3. – La parte più caratterizzante della decisione richiamata è costituita dall’affermazione del principio dell’autoresponsabilità ossia dal rilievo della scelta esistenziale, libera e consapevole, che comporta l’esclusione di ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
3. – Facendo seguito a tale nuova ermeneusi, la stessa Corte si è posta il problema (qui del tutto identico) della sopravvivenza dell’assegno di mantenimento, fissato a carico del più forte (sul piano redditual-patrimoniale) dei coniugi, non solo in caso di divorzio ma a seguito della separazione coniugale, quando non vi sia stata ancora la completa recisione del legame coniugale, potendo questo astrattamente, anche se sempre più raramente, secondo l’id quod prelumque accidit – risorgere in base alla scelta ripristinatoria dei separati.
3.1. – Ebbene, anche in un tal caso la Corte ha risposto positivamente all’istanza di esclusione dell’obbligo attraverso l’enunciazione del seguente principio:
In tema di separazione personale dei coniugi, la convivenza stabile e continuativa, intrapresa con altra persona, è suscettibile di comportare la cessazione o l’interruzione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento che grava sull’altro, dovendosi presumere che le disponibilità economiche di ciascuno dei conviventi “more uxorio” siano messe in comune nell’interesse del nuovo nucleo familiare; resta salva, peraltro, la facoltà del coniuge richiedente l’assegno di provare che la convivenza di fatto non influisce “in melius” sulle proprie condizioni economiche e che i propri redditi rimangono inadeguati. (Sez. 1 -, Sentenza n. 16982 del 2018).
4. – Reputa la Corte di dover ribadire la recente conclusione interpretativa, ossia quella che, anche in tema di separazione personale dei coniugi, la convivenza stabile e continuativa, intrapresa con altra persona, è suscettibile di comportare la cessazione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento che grava sull’altro.
4.1. – Alla riaffermazione di tale principio, tuttavia, vanno poste le seguenti ulteriori precisazioni.
5. – Il fondamento della cessazione dell’obbligo di contribuzione deve esser individuato, per quel che riguarda il divorzio ma anche la separazione personale, nel principio di autoresponsabilità, ossia nel compimento di una scelta consapevole e chiara, orgogliosamente manifestata con il compimento di fatti inequivoci, per aver dato luogo ad una unione personale stabile e continuativa, che si è sovrapposta con effetti di ordine diverso, al matrimonio, sciolto o meno che sia.
5.1. – Ovviamente, in caso di instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, si è rescissa ogni connessione “con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale”, poiché la nuova comunità familiare (per quanto non basata sul vincolo coniugale) ha fatto venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto ne resta definitivamente escluso.
5.2. – Ma anche in caso di separazione legale dei coniugi, e di formazione di un nuovo aggregato familiare di fatto ad opera del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento, indipendentemente dalla “risoluzione del rapporto coniugale” (per quanto – come si è già detto – il suo esito si renda assai probabile) si opera una rottura tra il preesistente “tenore e modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale” ed il nuovo assetto fattuale avente rilievo costituzionale, in quanto espressamente cercato e voluto dal coniuge beneficiario della solidarietà (in questo caso, ancora) coniugale.
5.3. – La ricerca, la scelta e il concreto perseguimento di un diverso assetto di vita familiare, da parte del coniuge che pur abbia conseguito il riconoscimento del diritto all’assegno di mantenimento, fa scaturire un riflesso incisivo dello stesso diritto alla contribuzione periodica, facendola venir meno.
5.4. – Né si alleghi la possibilità che i coniugi non divorziati possano (astrattamente) tornare a ricomporre la propria vita a seguito di un (improbabile) ripensamento, poiché anche in un tal caso l’assegno non rivivrebbe, ma tornerebbe a operare il precedente assetto di vita caratterizzato dalla ripresa della convivenza, giammai tornerebbe a vivere il contributo che era stato a suo tempo (e prima della operata opzione verso una nuova dimensione di aggregativa di fatto) assegnato dal giudice.
6. – In conclusione il ricorso va respinto, dovendosi applicare il seguente principio di diritto:
Anche in caso di separazione legale dei coniugi, e di formazione di un nuovo aggregato familiare di fatto ad opera del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento, indipendentemente dalla “risoluzione del rapporto coniugale” (assai più che probabile) si opera una rottura tra il preesistente tenore e modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale ed il nuovo assetto fattuale avente rilievo costituzionale, in quanto espressamente cercato e voluto dal coniuge beneficiario della solidarietà (in questo caso, ancora) coniugale, con il conseguente riflesso incisivo dello stesso diritto alla contribuzione periodica, facendola venire definitivamente meno.
7. – Le spese seguono la soccombenza e si regolano come in dispositivo.

P.Q.M.

Respinge il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di questo grado che liquida in complessivi Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto non della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile della Corte di Cassazione, il 3 dicembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2018

In caso di morte del coniuge per fatto illecito, il marito superstite fedifrago non può giovarsi della presunzione di danno parentale, ma deve provare di avere subito effettivamente un pregiudizio dalla perdita della moglie

Cass. civ. Sez. III, 11 dicembre 2018, n. 31950
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 27815-2016 proposto da:
R.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIULIO CESARE, 21, presso lo studio dell’avvocato LORENZO SCIUBBA, rappresentato e difeso dall’avvocato CAMILLO FEDERICO giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente – contro
G.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ARBIA 70 C/0 FAM. LOCCI-SARLI, presso lo studio dell’avvocato ENZO GIUSEPPE MARIA SARLI, che lo rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
e contro
F.A., + ALTRI OMESSI;
– intimati – nonché da:
F.A., + ALTRI OMESSI, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA XX SETTEMBRE 1, presso lo studio dell’avvocato GIANLUIGI MATTEO PUGLIESE, RAPPRESENTATI E DIFESI DALL’AVVOCATO GIUSEPPE NICOLA SOLIMANDO giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
GENERALI ITALIA SPA, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LUCREZIO CARO 62, presso lo studio dell’avvocato VALENTINO FEDELI, che lo rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;
G.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ARBIA 70 C/0 FAM. LOCCI-SARLI, presso lo studio dell’avvocato ENZO GIUSEPPE MARIA SARLI, che lo rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 150/2016 della CORTE D’APPELLO di POTENZA, depositata il 27/04/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/07/2018 dal Consigliere Dott. MARIO CIGNA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. TRONCONE Fulvio, che ha concluso per l’inammissibilità o rigetto del ricorso R., rigetto del ricorso incidentale F.- M.;
udito l’Avvocato LORENZO SCIUBBA per delega non scritta;
udito l’Avvocato GIUSEPPE NICOLA SOLIMANDO;
udito l’Avvocato CLAUDIO LUCISANO per delega;
Svolgimento del processo
Con sentenza 27-4-2016 la Corte d’Appello di Potenza, in parziale riforma della sentenza di primo grado del tribunale di Matera, decidendo in ordine ad un sinistro stradale avvenuto in data (OMISSIS) tra l’autovettura Volskwagen Polo condotta da M.L., deceduta in seguito allo stesso, ed il mezzo agricolo non assicurato condotto da G.S., ha ritenuto sussistente un concorso di colpa in pari misura del G. e della M. e, per l’effetto, ha condannato la Generali SpA, procuratrice di INA Assitalia, impresa designata per il Fondo di garanzia per le Vittime della Strada, al risarcimento del danno subito dal padre, dai figli e dai fratelli della vittima; ha, invece, rigettato l’appello proposto da R.S., marito della vittima, confermando quindi la statuizione del Tribunale di respingimento della sua domanda di risarcimento del danno non patrimoniale “iure proprio” subito in conseguenza del decesso del coniuge.
In particolare la Corte, per quanto ancora rileva, ha evidenziato, in ordine alla pari responsabilità, che il G. ebbe a circolare su strada pubblica, in condizioni di scarsa visibilità, con rimorchio non munito di dispositivi di illuminazione, mentre la M. ebbe a percorrere, pur se a velocità inferiore a quella massima consentita, la strada rettilinea, senza prestare adeguata attenzione alla presenza di un ostacolo ancora visibile per le sue significative dimensioni e senza indossare le cinture di sicurezza.
La Corte, inoltre, in ordine al rigetto della domanda risarcitoria del coniuge, ha evidenziato che la presunzione di sussistenza (tra coniugi non separati) di un progetto di vita in comune e di un vincolo affettivo era stata, nella specie, superata da elementi di segno contrario, atteso che il R. aveva avuto una relazione extraconiugale, dalla quale era nato un figlio tre mesi prima della morte della M.; l’attore, quindi, su cui incombeva la relativa prova, non aveva dimostrato, in presenza di una circostanza che -secondo comune esperienza – costituisce sintomo del deterioramento e della cessazione di un rapporto coniugale, la perdurante sussistenza tra i coniugi (benché non legalmente separati) di un vincolo affettivo.
Avverso detta sentenza R.S. propone ricorso per Cassazione, sulla base di un motivo, illustrato anche da successiva memoria.
A., P. e F.C. (figli della vittima), F.D. e M.M.R. (fratelli della vittima), tutti in proprio e quali eredi di L. e M.P. (padre della vittima, deceduto il (OMISSIS)), nonchè M.S., M.P. (nato l'(OMISSIS)) e M.B.G. (quali eredi di M.P. e M.V. (altro fratello della vittima, deceduto il (OMISSIS)) propongono successivo ricorso incidentale, affidato a due motivi.
Generali Italia SpA (già INA Assitalia SpA) resiste con controricorso, illustrato anch’esso da successiva memoria.
G.S. resiste con controricorso.

Motivi della decisione

Il ricorso presentato da A., P. e F.C. (figli della vittima), F.D. e M.M.R. (fratelli della vittima), tutti in proprio e quali eredi di L. e M.P. (padre della vittima, deceduto il (OMISSIS)), nonché M.S., M.P. (nato l'(OMISSIS)) e M.B.G. (quali eredi di M.P. e M.V. (altro fratello della vittima, deceduto il (OMISSIS)) va esaminato per primo per ragioni di ordine logico.
Con il primo motivo i ricorrenti, denunziando – exart. 360 c.p.c., n. 5 – violazione e falsa applicazione degliartt. 1227 e 2056 c.c.eart. 116 c.p.c., si dolgono che la Corte territoriale abbia omesso di considerare il fatto decisivo costituito dall’ora del tramonto del sole alla data del (OMISSIS) (ore 20.07, come accertato dal CTU); fatto decisivo in quanto l’incidente, avvenuto intorno alle 20.45, si sarebbe verificato in assenza di qualsiasi residua visibilità, e quindi in condizioni tali da rendere impossibile alla M. la percezione del rimorchio che la precedeva, privo dei dispositivi di illuminazione.
Il motivo è inammissibile.
Contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, il detto fatto (e cioè l’orario del tramonto del sole e la condizione di visibilità) è stato espressamente preso in considerazione dalla Corte territoriale, che, nel corretto esercizio del suo potere di valutazione delle prove, ha considerato che nel capoluogo di Regione in data (OMISSIS) il sole tramonta alle ore 8.24 (con altri 20-25 minuti prima del buio totale) ed ha ritenuto maggiormente attendibile l’indicazione di orario e la percezione delle condizioni di visibilità riferite dai testi E. e P., i quali, sopraggiunti subito dopo l’incidente, ebbero a riferire che erano le 20.45 e che vi era ancora visibilità.
Con il secondo motivo i ricorrenti, denunziando – exart. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazionedell’art. 1227 c.c., comma 2,artt. 2056 e 2727 c.c.eart. 116 c.p.c., si dolgono che la Corte, con un inammissibile ragionamento presuntivo, abbia accertato il mancato uso delle cinture di sicurezza da parte della M. ed abbia ritenuto che siffatto mancato uso abbia contribuito al verificarsi dell’evento morte; da fatti noti, pacifici e non contestati dalle parti (lesioni al torace riportate dalla M. e danni alla parte bassa dello sterzo dell’autovettura da quest’ultima condotta) la Corte era arrivato al fatto ignoto (mancato uso della cintura di sicurezza) ed aveva poi ritenuto, con una inammissibile correlazione in senso induttivo tra due presunzioni semplici, che detto mancato uso della cintura avesse contribuito al verificarsi dell’evento morte (altro fatto ignoto).
Il motivo è inammissibile.
Come ripetutamente affermato da questa S.C. spetta, infatti, al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso a presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, come tale, sfugge al sindacato di legittimità.
Né può ritenersi che la Corte territoriale sia incorsa nel divieto di doppia presunzione (correlazione di una presunzione semplice con altra presunzione semplice), essendosi invece solo limitata a far discendere dai due su menzionati fatti noti (lesioni al torace e danni alla parte bassa dello sterzo) il fatto ignoto del mancato uso delle cinture, valutando poi consequenzialmente tale mancato uso delle cinture in nesso causale con l’evento morte.
Con l’unico motivo di ricorso il R., denunziando – exart. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degliartt. 2059, 2729, 2697 e 143 c.c.eart. 116 c.p.c., si duole che la Corte territoriale, sulla sola base di una relazione extraconiugale e della conseguente nascita di un figlio naturale, abbia ritenuto insussistente il legame affettivo tra i coniugi al momento dell’incidente, ed abbia quindi rigettato, per mancanza di prova, la richiesta di risarcimento per il subito pregiudizio morale da perdita del rapporto parentale; siffatti elementi (relazione extraconiugale e nascita di un figlio naturale) non sono elementi univoci rispetto all’insussistenza delle sofferenze morali subite in conseguenza della morte del coniuge; la relazione sentimentale extraconiugale non può costituire grave e preciso elemento utile a ritenere cancellato totalmente il legame affettivo esistente con il coniuge deceduto e negare qualsiasi forma di ristoro del pregiudizio morale; inopinatamente la Corte ha equiparato il deterioramento alla cessazione del rapporto affettivo.
Il motivo è infondato.
Correttamente la Corte territoriale ha rilevato che, in termini generali, il fatto illecito costituito dalla uccisione di uno stretto congiunto appartenente al ristretto nucleo familiare (genitore, coniuge, fratello) dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nella sofferenza morale che solitamente si accompagna alla morte dì una persona cara e nella perdita del rapporto, parentale e conseguente lesione del diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che ordinariamente caratterizza la vita familiare.
Si tratta, pertanto, di un danno presunto, dovendosi ordinariamente ritenere sussistente tra detti stretti congiunti un intenso vincolo affettivo ed un progetto di vita in comune; nella normalità dei casi, pertanto, in virtù di detta presunzione, il soggetto danneggiato non ha l’onere di provare di avere effettivamente subito il dedotto danno non patrimoniale.
Siffatta presunzione semplice può tuttavia, come tale, essere superata da elementi di segno contrario, quali la separazione legale o (come nel caso di specie) l’esistenza di una relazione extraconiugale con conseguente nascita di un figlio tre mesi prima della morte del coniuge (relazione extraconiugale che costituisce evidente inadempimento all’obbligo di fedeltà tra coniugi di cuiall’art. 143 c.c.).
Detti elementi non comportano, di per sé, l’insussistenza del danno non patrimoniale in capo al coniuge superstite, ma impongono a quest’ultimo, in base agli ordinari criteri di ripartizione dell’onere della prova di cuiall’art. 2697 c.c.(essendo stata, come detto, superata la presunzione), di provare di avere effettivamente subito, per la persistenza del vincolo affettivo, il domandato danno non patrimoniale.
Nella specie la Corte territoriale, con valutazione in fatto (come tale non sindacabile in sede di legittimità), ha ritenuto che il R. non avesse fornito detta prova e, correttamente, ha rigettato la domanda risarcitoria.
In conclusione, pertanto, vanno rigettati entrambi i ricorsi (quello principale e quello successivo incidentale).
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater, poiché i ricorsi sono stati presentati successivamente al 30-1-2013 e sono stati rigettati, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principali e di quelli incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale; condanna il ricorrente principale ed i ricorrenti incidentali al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore di Generali Italia SpA e di G.S., che si liquidano per ciascuno in Euro 3.200,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge; dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti principale e di quelli incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale.
Così deciso in Roma, il 6 luglio 2018.

Il coniuge affidatario è titolare di un diritto iure proprio alla richiesta di mantenimento del figlio maggiorenne (non economicamente autosufficiente) anche in caso di eventuale sua rinuncia al mantenimento stesso

Cass. civ. Sez. I, 14 dicembre 2018, n. 32529
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 25351/2015 proposto da:
C.C., domiciliato in Roma, P.zza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’Avvocato Paesano Gaetana, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
F.A., C.F., Ca.Ca., Pm Procuratore Capo della Repubblica presso il Tribunale di Lagonegro;
Pg Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Potenza;
Pg Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione;
– intimati –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di POTENZA, depositata il 24/07/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/11/2018 dal cons. TRICOMI LAURA.
Svolgimento del processo
CHE:
La Corte di appello di Potenza, con il decreto in epigrafe impugnato, per quanto interessa, aveva confermato la decisione del Tribunale di Lagonegro, in controversia concernente la richiesta di modifica delle condizioni economiche relative al mantenimento della figlia C., maggiorenne ma non economicamente autosufficiente, e della assegnazione della casa familiare conseguenti al divorzio, proposta da C.C. nei confronti di F.A., Ca.Ca. e C.F..
C.C. propone ricorso straordinario per cassazione exart. 111 Cost.con sei mezzi, ciascuno articolato in una pluralità di profili.
Gli intimati non hanno svolto difese.
Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensidell’art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis 1 c.p.c..

Motivi della decisione

CHE:
1.1. Con il primo motivo si denuncia: a) la violazione o falsa applicazionedell’art. 24 Cost., degliartt. 100, 103, 105, 331 e 336 cod. proc. civ.; b) la violazione o falsa applicazione degli artt. 337 sexies e 337 septies cod. civ. e degliartt. 100, 103 e 105 cod. proc. civ.per avere la Corte di appello dichiarato l’inammissibilità del reclamo proposto nei confronti del figlio C.F., sulla considerazione che quest’ultimo, pur evocato in giudizio, era estraneo alla lite in quanto economicamente autosufficiente, residente in Lussemburgo e non destinatario di domande giudiziali.
Il ricorrente ha ricordato, a sostegno della prospettazione, che il figlio in primo grado si era costituito dando prova di avere interesse alla decisione, di guisa che – a suo parere – sarebbe stato più corretto procedere con una estromissione, e che la invocata riforma avrebbe esteso i suoi effetti a tutti i provvedimenti, coinvolgendo anche gli interessi del figlio.
Ha aggiunto, quindi, che tra le domande proposte vi era anche quella di revoca dell’assegnazione della casa familiare alla ex moglie, già assegnata alla stessa anche nell’interesse di Francesco e che ciò rendeva necessaria la partecipazione del figlio anche al fine di favorire una risoluzione in concreto del conflitto.
1.2. Il motivo è inammissibile.
La doglianza, proposta come violazione o falsa applicazione di legge, in realtà prospetta un error in procedendo, atteso che “La “legitimatio ad causam”, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto, secondo la prospettazione della parte, mentre l’effettiva titolarità del rapporto controverso, attenendo al merito, rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio dei soggetti in lite. Ne consegue che il difetto di “legitimatio ad causam”, riguardando la regolarità del contraddittorio, costituisce un “error in procedendo” ed è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo” (Cass. n. 7776 del 27/03/2017).
Nello specifico, la censura va disattesa.
Invero la statuizione, formulata in accoglimento di una specifica eccezione del figlio F., come si evince dal ricorso (fol.4), chiarisce in maniera lineare l’estraneità del figlio sia alla domanda di revoca dell’assegno di mantenimento – non essendone il destinatario in quanto economicamente autosufficiente – sia alla domanda di revoca dell’assegnazione della casa familiare – risiedendo stabilmente in Lussemburgo -; tali circostanze non sono state smentite dal ricorrente che, pur prospettando il possibile coinvolgimento di interessi del figlio, in contrasto con la linea difensiva adottata da quest’ultimo e condivisa dalla Corte di appello, non ne ha esplicitato né il contenuto, né l’attualità.
2.1. Con il secondo motivo, afferente al rigetto della richiesta di revoca dell’assegno di mantenimento riconosciuto alla figlia C., maggiorenne, si denuncia: a) la violazione o falsa applicazionedell’art. 148 cod. civ.e dell’art. 9, comma 1, legge divorzio; b) l’omesso esame di un fatto decisivo; c) la nullità del procedimento o della sentenza per violazionedell’art. 112 cod. proc. civ..
Secondo il ricorrente la Corte di appello avrebbe errato per non avere valutato la documentazione dalla quale emergeva che la figlia sin dal 2011 aveva svolto alcune attività lavorative part-time e vissuto per un periodo in Lussemburgo.
2.2. Il motivo è infondato.
In ordine alla domanda concernente la revisione del contributo al mantenimento dei figli, sia minorenni che maggiorenni non economicamente autosufficienti, propostaL. n. 898 del 1970, ex art. 9 il giudice non può procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei presupposti o dell’entità dell’assegno, sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti valutate al momento della pronuncia del divorzio, ma, nel pieno rispetto delle valutazioni espresse al momento dell’attribuzione dell’emolumento, deve limitarsi a verificare se, ed in quale misura, le circostanze sopravvenute abbiano alterato l’equilibrio così raggiunto e ad adeguare l’importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale (Cass. n. 214 del 11/01/2016, n. 14143 del 20/06/2014), ciò in quanto i “giustificati motivi”, la cui sopravvenienza consente di rivedere le determinazioni adottate in sede di divorzio dei coniugi, sono ravvisabili nei fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale la sentenza era stata emessa o gli accordi erano stati stipulati, con la conseguenza che esulano da tale oggetto i fatti preesistenti, ancorché non presi in considerazione in quella sede per qualsiasi motivo (cfr. in proposito Cass. n. 28436 del 28/11/2017, pronunciata in relazione revisione degli oneri conseguenti a separazione giudiziale).
La Corte di appello si è attenuta a questi principi ed ha correttamente considerato, nel presente giudizio di revisione introdotto dal ricorrente dinanzi al Tribunale di Lagonegro nell’aprile 2014 -, i fatti sopravvenuti e non già in fatti anteriori alla sentenza di divorzio (2013) e, quindi, astrattamente già valutabili e/o valutati in quella sede, come le circostanze relative ad attività lavorative part-time che la figlia avrebbe svolto nel 2011 e nel 2012 e ad esperienze professionali compiute in Lussemburgo tra il 2009 ed il 2013.
3.1. Con il terzo motivo, sempre afferente al rigetto della richiesta di revoca dell’assegno di mantenimento riconosciuto alla figlia C., con specifico riferimento alla mancata presentazione di quest’ultima all’interrogatorio formale, si denuncia: a) la violazione e falsa applicazionedell’art. 148 cod. civ., art. 9 legge div.,art. 2697 cod. civ.,art. 232 c.p.c., commi 1 e 2; b) la violazione o falsa applicazione degliartt. 112, 115 e 116 cod. proc. civ.; c) la nullità del procedimento o della sentenza per violazione degliartt. 112, 115 e 116 cod. proc. civ..
In particolare il ricorrente si duole che il Tribunale abbia ritenuto giustificata l’assenza di Ca., non comparsa a rendere interrogatorio formale ammesso e che il motivo di appello proposto in merito sia stata obliterato dalla Corte di appello che avrebbe omesso di pronunciarsi sul punto.
3.2. Il terzo motivo è inammissibile.
In disparte dalla evidente carenza di autosufficienza del motivo che non illustra le ragioni della doglianza che sarebbe stata pretermessa, va ricordato in premessa che “La differenza fra l’omessa pronuncia di cuiall’art. 112 c.p.c.e l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia di cuiall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile “ratione temporis”, si coglie nel senso che, mentre nella prima l’omesso esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa (e, quindi, nel caso del motivo d’appello, uno dei fatti costitutivi della “domanda” di appello), nella seconda ipotesi l’attività di esame del giudice, che si assume omessa, non concerne direttamente la domanda o l’eccezione, ma una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione su uno dei fatti costitutivi della domanda o su un’eccezione e, quindi, su uno dei fatti principali della controversia” (Cass. n. 1539 del 22/01/2018).
Nel caso di specie non ricorre alcuna omessa pronuncia poiché la domanda di revisione dell’assegno di mantenimento è stata esaminata e respinta, implicitamente disattendendo anche il motivo relativo alla rilevanza o meno del mancato espletamento dell’interrogatorio formale (Cfr. Cass. n. 20718 del 13/08/2018, n. 29191 del 06/12/2017), che atteneva alla valutazione del compendio probatorio.
4.1. Con il quarto motivo, sempre afferente al rigetto della richiesta di revoca dell’assegno di mantenimento riconosciuto alla figlia Ca., con specifico riferimento alla dichiarazione di rinuncia formulata da questa, si denuncia: a) la violazione o falsa applicazionedell’art. 148 cod. civ., art. 9 legge div.,art. 2697 cod. civ., art. 337 septies cod. civ.; b) la nullità del procedimento o della sentenza per violazione degliartt. 90, 100 e 112 cod. proc. civ..
Il ricorrente, dopo aver ricordato che la figlia per il tramite del difensore in primo grado aveva depositato una dichiarazione di rinuncia al mantenimento, ritenuta ininfluente dal Tribunale perché afferente a diritti indisponibili, lamenta che la Corte di appello, sullo specifico motivo di appello, si sia pronunciata procedendo ad un’interpretazione della volontà della figlia volta a valorizzare la presunzione di un’esigenza di tutela, comunque emersa dalla sua dichiarazione, invece di pronunciarsi sulla questione dell’indisponibilità o meno del diritto al mantenimento della figlia maggiorenne – a suo parere – soggetto al principio della domanda.
Inoltre sottolinea che la dichiarazione di rinuncia, unitamente alla mancata presentazione all’interrogatorio formale, avrebbe potuto condurre a diversa valutazione e che nessuna efficacia avrebbe dovuto attribuirsi alle difese articolate della madre, venendo meno la sua legittimazione concorrente in presenza di una diversa volontà manifestata dalla figlia.
4.2. Il motivo è infondato.
Richiamato quanto già in precedenza affermato (v. sub 3.2.) in merito alla questione dell’interrogatorio formale, è opportuno considerare – in relazione alla dichiarazione integrante la “c.d. rinuncia”, trasmessa dalla figlia tramite il legale ed alla questione della legittimazione della madre – che “L’obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, sia tuttavia ancora dipendente dai genitori. Ne consegue che, in tale ipotesi, il coniuge separato o divorziato, già affidatario è legittimato, “iure proprio” (ed in via concorrente con la diversa legittimazione del figlio, che trova fondamento nella titolarità, in capo a quest’ultimo, del diritto al mantenimento), ad ottenere dall’altro coniuge un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne. Pertanto, non potendosi ravvisare nel caso in esame una ipotesi di solidarietà attiva (che, a differenza di quella passiva, non si presume), in assenza di un titolo, come di una disposizione normativa che lo consentano, la eventuale rinuncia del figlio al mantenimento, anche a prescindere dalla sua invalidità, dovuta alla indisponibilità del relativo diritto, che può essere disconosciuto solo in sede di procedura exart. 710 cod. proc. civ., non potrebbe in nessun caso spiegare effetto sulla posizione giuridico – soggettiva del genitore affidatario quale autonomo destinatario dell’assegno” (Cass. n. 1353 del 18/02/1999; cfr. in termini, Cass. n. 11648 dell’11/7/2012, non massimata).
La Corte di appello ha fatto applicazione di detto principio in quanto si è limitata a valutare il contenuto della dichiarazione escludendo che emergessero circostanze di fatto significative di una effettiva raggiunta autosufficienza della figlia, senza attribuirle il valore di rinuncia e la decisione è immune da vizi.
5.1. Con il quinto motivo, afferente al rigetto della richiesta di revoca dell’assegnazione della casa familiare, si denuncia: a) la nullità della sentenza e del procedimento per violazionedell’art. 112 cod. proc. civ.; b) la violazione e falsa applicazione degli artt. 6 e 9 della legge div. e dell’art. 337 sexies cod. civ.; c) l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.
Il ricorrente, dopo avere ricordato di avere svolto specifico motivo di appello in merito alla disattesa domanda di revoca dell’assegnazione della casa coniugale, lamenta che la Corte di appello non abbia pronunciato sulla domanda e, conseguentemente, non abbia nemmeno tenuto conto dei fatti addotti a sostegno della stessa idonei, a suo parere, a giustificare la revoca.
5.2. Il motivo è infondato.
La Corte di appello si è pronunciata: ha, infatti, respinto il reclamo sulla considerazione della accertata residenza della figlia a (OMISSIS), dato fattuale che non appare smentito ne inficiato dalle circostanze addotte dal ricorrente circa la sua disponibilità a rendere accessibile l’abitazione alla figlia, indipendentemente da un formale provvedimento, le condizioni di degrado dell’immobile e la circostanza – in tesi del ricorrente – che per un periodo la figlia abbia lavorato fuori dal paese di residenza.
6.1. Con il sesto motivo si denuncia la nullità della sentenza o del procedimento per violazionedell’art. 112 cod. proc. civ.con riferimento all’omessa pronuncia in merito al reclamo afferente il contenuto dei provvedimenti adottati in primo e secondo grado nei diversi procedimenti che hanno caratterizzato il divorzio, nei quali – a parere del ricorrente – le medesime circostanze di fatto (l’età, la sperimentazione di attività lavorative, la capacità e voglia di lavorare) avevano condotto a conclusioni opposte, essendo stato escluso l’obbligo di mantenimento per il figlio Francesco e mantenuto per la figlia Ca..
6.2. Il motivo è inammissibile.
Il ricorrente, mancando all’onere di autosufficienza sullo stesso gravante, propone un raffronto tra sentenze e provvedimenti, anche emessi in procedimenti differenti senza nemmeno trascrivere le motivazioni a corredo delle conclusive statuizioni – a suo parere – confliggenti e che sarebbero state necessari per poter apprezzare la doglianza e coglierne la pertinenza con l’oggetto del presente giudizio.
7. In conclusione il ricorso va rigettato.
Non si provvede sulle spese del giudizio di legittimità, stante il mancato svolgimento di attività difensiva da parte degli intimati.
Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui alD.P.R. del 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196,art.52.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
Dà atto, ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, il 15 novembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2018

La bigenitorialità non si traduce nel diritto alla frequentazione paritetica del minore

Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2018, n. 31902
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22538/2017 proposto da:
G.I., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Pucillo Fausto, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
B.M., elettivamente domiciliata in Roma, Viale Parioli n.101/E, presso lo studio dell’avvocato Marano Massimiliano, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso il decreto n. 2040/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 24/07/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/10/2018 dal cons. TRICOMI LAURA.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
RITENUTO CHE:
G.I. propone ricorso per cassazione con quattro mezzi nei confronti di B.M. avverso il decreto della Corte di appello di Roma reso in controversia vertente ai sensi degli artt. 316 e 337 bis c.c., e riferita all’esercizio della genitorialità, al regime di frequentazione e alla ripartizione delle spese per il mantenimento della minore M.S. (n. (OMISSIS)).
La Corte di appello, avendo accertato l’esistenza di una grave conflittualità tra i genitori, alimentata da una competitività esasperata, in riforma della decisione di primo grado, aveva disposto l’affido della minore al servizio sociale competente per l’assunzione delle “decisioni più importanti afferenti la salute, la scuola, l’attività sportiva” della minore, sentiti i genitori, riservando a questi ultimi l’assunzione delle decisioni afferenti alla vita quotidiana, fermo il collocamento prevalente presso la madre; aveva quindi regolato il regime degli incontri; aveva determinato il contributo paterno al mantenimento della minore in Euro 800,00 mensili con decorrenza dalla proposizione della domanda.
B.M. replica con controricorso. Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensidell’art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380 bis 1 c.p.c..

CONSIDERATO CHE:
1. Il ricorso proposto in questa sede è ammissibile, così confermando il condiviso orientamento favorevole all’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione dei provvedimenti cd. de potestate, in ragione della attitudine degli stessi al giudicato rebus sic stantibus (da ultimo, Cass. nn. 4099/2018; 23633/2016).
2.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazionedell’art. 316 c.c., comma 3, in combinato disposto con gliartt. 2, 3, 30 e 31 Cost., con l’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, e con la Convenzione di New York 20 novembre 1989 (ratificata e resa esecutiva in Italia conL. 27 maggio 1991, n. 176); si denuncia altresì la violazione degli artt. 315 bis e 316 c.c., per sproporzione ed indeterminatezza del provvedimento di affido della minore ai servizi sociali e per non avere individuato il genitore più idoneo a curare l’interesse della figlia. La censura è proposta anche sotto il profilo dell’omesso esame di un fatto decisivo.
2.2. Il motivo è inammissibile sotto molteplici profili, oltre che infondato.
2.3. Innanzi tutto va rilevato che sostanzialmente le violazioni di legge proposte si risolvono in una sollecitazione, inammissibile, al riesame del merito da parte del giudice di legittimità e che la formulazione della doglianza motivazionale non è conforme all’attuale previsionedell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Nello specifico: a) il profilo di doglianza relativo alle lamentate carenze istruttorie della relazione dei servizi sociali, utilizzata dalla Corte di appello per fondare la decisione impugnata, risulta connotata da evidente novità (lo stesso ricorrente assume di avere acquisito il fascicolo dei Servizi sociali il 21/9/2017, dopo l’emissione del provvedimento impugnato) e si risolve in una tardiva critica al compendio probatorio utilizzato in giudizio; b) il profilo di doglianza relativo al “sub procedimento con udienza svolta il 14.7.2016” – così individuato in ricorso – che si sarebbe svolto in assenza di contraddittorio, per non essergli stato notificato l’atto introduttivo, in disparte dalla assoluta genericità della prospettazioni, risulta inammissibile poiché lo stesso ricorrente riconosce di non essersi opposto nel corso del procedimento; c) il profilo di doglianza relativo all’apprezzamento della sussistenza di ampio contenzioso giudiziario tra le parti, la cui incidenza sarebbe stata sopravvalutata, a parere del ricorrente, perché relativa al periodo antecedente l’udienza presidenziale di separazione, risulta essere una sollecitazione al riesame delle più ampie valutazioni compiute al giudice di merito in ordine al comportamento tenuto tra le parti nella gestione della comune genitorialità, travalicato in molteplici occasioni in contenziosi giudiziari; d) ugualmente si pone come sollecitazione ad una rivalutazione dei fatti, la segnalazione di una attitudine della B. all’inasprimento dei rapporti con gli ex coniugi, desumibile – a parere del ricorrente – da una relazione dei servizio sociale della ASL RM, afferente ai rapporti tra la B. ed il precedente coniuge, in relazione all’esercizio della genitorialità nei confronti dei figli D.P.U. e F., nati da questo rapporto e fratelli uterini di M.S..
2.4. Quanto al fatto di cui sarebbe stato omesso l’esame, e cioè l’esistenza di una procedura avviata dalla Procura minorile che si sarebbe conclusa con la richiesta della sospensione della responsabilità genitoriale nei confronti dei genitori dei due germani D., in disparte dalla poca chiarezza che connota l’esposizione sommaria del fatto, va osservato che la decisione impugnata smentisce l’assunto, poiché la Corte di appello ha preso in considerazione la complessa situazione familiare allargata e l’affido dei due fratelli uterini ai servizi sociali disposto dal Tribunale per i minorenni in ragione delle loro problematiche comportamentali, dettando al servizio sociale un compito di monitoraggio circa l’adeguatezza dell’ambiente domestico della madre.
2.5. Non è invece attinta da un motivo di doglianza la statuizione concernente la conferma della scelta materna dell’asilo pubblico cui iscrivere la bambina, anche se la circostanza è utilizzata ancora una volta per illustrare la conflittualità tra la coppia.
2.6. Infine il ricorrente, si duole del provvedimento con il quale è stato disposto l’affido della minore M.S. ai servizi sociali: in particolare ne lamenta la sproporzione – perché avrebbe carattere definitivo e non temporaneo – e la mancanza di adeguato supporto motivazionale poiché, a suo dire, nessuna indagine sarebbe stata compiuta sulle capacità genitoriali e circa la sussistenza di condotte pregiudizievoli, anche se non tali da dar luogo ad una pronuncia di decadenza exart. 330 c.c..
Sotto questo profilo, che attiene strettamente alla violazione di legge, il motivo è infondato.
Il ricorrente sviluppa la sua doglianza sull’errato presupposto che il provvedimento in questione sia definitivo, perché non privo della previsione di un termine di scadenza: tale assunto non può essere condiviso.
Il provvedimento in esame è da ricondurre nell’ambito dei “provvedimenti convenienti” per l’interesse del minore, ai sensidell’art. 333 c.c., che l’autorità giudiziaria assume, al fine di superare la condotta pregiudizievole di uno o entrambi i genitori tale da non dar luogo ad una pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale; esso ha natura di atto di giurisdizione non contenziosa ed è privo di carattere definitivo, in quanto revocabile e reclamabile, sia per il disposto speciale di cui al comma 2 della disposizione menzionata che stabilisce “Tali provvedimenti sono revocabili in qualsiasi momento”, sia secondo le regole generali degliartt. 739 e 742 cod. proc. civ.(Cass. n. 18149 del 10/07/2018, n. 22568 del 04/11/2015, n. 11756 del 14/05/2010), di guisa che, nel caso specifico, la previsione di un termine risultava non necessaria in quanto il provvedimento poteva essere riesaminato in qualsiasi momento.
2.7. Ciò posto, la doglianza non risulta fondata nemmeno sul piano motivazionale, atteso che la Corte di appello ha illustrato le ragioni della scelta compiuta nell’interesse della minore, in ragione di una conflittualità accesa ed insanabile, fonte di una paralisi decisionale, ravvisabile anche in scelte importanti quali quelle relative alla salute ed al percorso scolastico della piccola, scelte che, tuttavia, richiedono una tempestiva – anche se ponderata – decisione e che sono state intralciate dalla viva conflittualità dei genitori.
3.1. Con il secondo motivo si denuncia la violazionedell’art. 316 c.c., per manifesta contraddittorietà della decisione e violazione del principio di parità tra i genitori, criticando la statuizione della Corte di appello che, modificando la regolamentazione del diritto di vista paterno, aveva ridotto il pernotto infrasettimanale presso il padre.
3.2. Il motivo è inammissibile perché, pur prospettando una violazione di legge, sollecita inammissibilmente una rivalutazione delle emergenze istruttorie con esito favorevole al ricorrente.
3.3. Peraltro va ricordato che il principio di bigenitorialità si traduce nel diritto di ciascun genitore ad essere presente in maniera significativa nella vita del figlio nel reciproco interesse, ma ciò non comporta l’applicazione di una proporzione matematica in termini di parità dei tempi di frequentazione del minore in quanto l’esercizio del diritto deve essere armonizzato in concreto con le complessive esigenze di vita del figlio e dell’altro genitore, giacché ” In tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione.” (Cass. n. 18817 del 23/09/2015).
4.1. Con il terzo motivo si denuncia la violazionedell’art. 316 c.p.c., con riferimento alla statuizione la quale il contributo paterno al mantenimento della minore è stato aumentato.
Il ricorrente, dopo avere esposto le ragioni per le quali il suo reddito sarebbe calato nel corso del 2016, in parte ascrivendo la riduzione del suo volume di affari alla scelta di dedicarsi maggiormente alla figlia, lamenta che la Corte di appello non abbia tenuto in debita considerazione tali circostanze, così come delle limitate esigenze della minore in tenera età.
4.2. Il motivo è inammissibile perché sollecita la rivalutazione del merito, inammissibile in sede di legittimità.
Quanto alla documentazione che, secondo il ricorrente, la Corte di appello non avrebbe preso in esame, va osservato, da un lato, che manca l’indicazione specifica dei documenti, necessaria per valutarne la rilevanza e la decisività, nonché la puntuale indicazione di quando sarebbe stata prodotta nelle fasi di merito e, dall’altro, che non sono indicati specifici fatti di cui sarebbe stato omesso l’esame, tali non potendosi configurare i documenti.
5.1. Con il quarto motivo si denuncia la violazionedell’art. 316 c.c., laddove la Corte di appello ha statuito che la decorrenza dell’assegno di mantenimento, come rideterminato, risalisse alla data di proposizione della domanda.
5.2. Il motivo è inammissibile perché non coglie la ratio decidendi. Contrariamente a quanto assume il ricorrente la modifica dell’assegno non è stata determinata dal maggior impegno domestico materno conseguente al diverso regime di visita della minore (operativo, secondo la sua prospettazione, dal 14/9/2017), ma in maniera più ampia e complessiva della rivalutazione dei redditi delle parti, dei tempi di permanenza presso ciascun genitore e degli impegni domestici, risultando marginale e privo di autonomo apprezzamento la limitata riduzione dei tempi di pernotto presso il padre.
6. In conclusione il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.
Poiché dagli atti il processo risulta esente dal contributo unificatoD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ex art. 10, comma 3, non sussistono i presupposti per l’applicazione dell’art. 13, comma 1 bis, del cit. D.P.R..
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196,art.52.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso;
Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed accessori di legge;
Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2018.

L’art. 570 bis c.p. si applica anche alla violazione degli obblighi di natura economica riguardanti i figli nati fuori del matrimonio

Cass. pen. Sez. VI, 12 dicembre 2018, n. 55744
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
G.M., n. a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 12/1/2018 della Corte di appello di Milano;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Emilia Anna Giordano;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. DALL’OLIO Marco, che ha concluso chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso;
udito il difensore del ricorrente, avvocato Raffaele Bacchetta, che ha concluso riportandosi al ricorso e chiedendone l’accoglimento.
Svolgimento del processo
1. La Corte di appello di Milano ha confermato la condanna di G.M. alla pena di Euro seicento di multa per il delitto di cui allaL. n. 54 del 2006,art.3, così diversamente qualificato il fatto contestato di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, per avere fatto mancare i mezzi di sussistenza alla figlia minore, omettendo di versare l’assegno di mantenimento fissato in Euro 1.500,00 mensili, con condotta dal mese di novembre 2010 in permanenza. La Corte distrettuale ha escluso che ricorresse la denunciata violazione del principio di cuiall’art. 521 c.p.p., per effetto della mutata qualificazione giuridica del fatto, ed ha richiamato, per ritenere insussistente un impedimento idoneo a scriminare la condotta, una precedente sentenza della Corte di appello di Milano, divenuta irrevocabile il 13 gennaio 2017 con la quale, in riforma della sentenza di assoluzione pronunciata in primo grado, per periodo immediatamente precedente a quello oggetto di contestazione, era stata affermata la responsabilità dell’imputato solo agli effetti civili.
2.Il ricorrente, con motivi di seguito sintetizzati ai sensidell’art. 173 disp. att. c.p.p., denuncia vizio di applicazione della legge penale e vizio di motivazione della sentenza impugnata che non ha esaminato le censure difensive proposte con i motivi di gravame.
In particolare, deduce che, in presenza di sentenza di assoluzione intervenuta in primo grado in relazione al reato di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, non essendo stato provato lo stato di bisogno della minore e della condotta omissiva che abbia determinato il venire meno dei mezzi di sussistenza, a prescindere dall’ammontare del contributo al mantenimento stabilito, il giudice di appello, per giungere a condanna avrebbe dovuto adottare una motivazione rafforzata, viceversa carente. La Corte distrettuale ha, invero, erroneamente richiamato la sentenza irrevocabile del 13 gennaio 2017, incorrendo altresì in vizio di travisamento della prova, dal momento che anche detta sentenza aveva assolto l’imputato dal reato di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, perché il fatto non sussiste e la riforma era limitata alle sole statuizioni civili, con applicazione di norme, anche di natura processuale e probatoria, relative esclusivamente all’inadempimento della prestazione civilistica.
Rileva, inoltre che, laL. n. 54 del 2006,art.3, non è applicabile alla concreta fattispecie poiché il ricorrente non era mai stato coniugato con la madre della minore, beneficiaria dell’assegno di mantenimento, conclusione avvalorata dai principi stabiliti da una sentenza di questa Corte (la sentenza n. 2666 del 7 dicembre 2016) che ha ritenuto non applicabile la tutela della disciplina penalistica di cui all’art. 3, legge cit. alle assegnazioni patrimoniali che concernono figli di genitori non coniugati, garantite attraverso il ricorso alle azioni civili ovvero alla disciplina di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, ma, come anticipato, nel caso, ritenuta insussistente. Erroneamente, infine, la sentenza impugnata, richiamata quella irrevocabile nei confronti del medesimo imputato, aveva ritenuto non accertata l’impossibilità di adempiere alla prestazione.

Motivi della decisione

1.Il ricorso deve essere rigettato.
2.Occorre sgomberare il campo da un equivoco al quale induce la formulazione dei motivi di ricorso, smentito dall’analisi delle statuizioni di merito e dalla chiara articolazione della sentenza impugnata. L’imputato era stato rinviato a giudizio per rispondere del reato di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, per avere fatto mancare i mezzi di sussistenza alla figlia minore omettendo di versare l’assegno stabilito posto a suo carico dal Tribunale di Monza con sentenza n. 2270 del 2005. Il giudice di primo grado aveva qualificato la condotta come delitto di cui allaL. n. 54 del 2006,art.3, pronuncia che non implica affatto, secondo la erronea ricostruzione difensiva, l’assoluzione dal reato di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2; assoluzione che può ravvisarsi solo in presenza di una espressa pronuncia del giudice che, per aspetti connessi alla ricostruzione dinamica della fattispecie, ravvisi la insussistenza di condotte penalmente illecite, ma non in presenza della mera esclusione di un connotato della fattispecie concreta (l’avere fatto mancare i mezzi di sussistenza), qualora elementi qualificanti della stessa (condotta, nesso causale, elemento psicologico del reato), siano idonei ad integrare la fattispecie penale, come ritenuta.
La previsione di cuiall’art. 521 c.p.p., della quale il ricorrente lamenta la violazione, ha ad oggetto, come noto, la correlazione tra accusa e sentenza e regola il cd. ius variandi, cioè la “riqualificazione giuridica” del fatto, che si realizza attribuendo l’esatto nomen juris ad un episodio che rimane invariato nei suoi tratti caratterizzanti. La qualificazione giuridica del fatto, secondo risalente tradizione giurisprudenziale, è potere tipico del giudice, che può esercitarlo in ogni fase, purché, secondo la disciplina di cuiall’art. 521 c.p.p., il reato non ecceda la competenza del giudice che procede, il reato non sia attribuito al tribunale in composizione collegiale anziché monocratica, oppure non riguardi un reato per il quale è prescritta l’udienza preliminare ed essa non si è tenuta, fermo il divieto di reformatio in peius. In relazione alla portatadell’art. 521 c.p.p., si sono registrati gli interventi esegetici di questa Corte che, a fronte di una previsione normativa rimasta formalmente invariata, ha posto la necessità di una sua interpretazione nel senso di assicurare all’imputato la garanzia del contraddittorio nella eventualità della diversa qualificazione giuridica del fatto, attuando la regola di sistema espressa dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Drassich c/Italia edall’art. 111 Cost., comma 2, che investe non soltanto la formazione della prova, ma anche ogni questione che attiene la valutazione giuridica del fatto commesso (Sez. 6, n. 45807 del 12/11/2008, Drassich, Rv. 241754), pena, diversamente, la nullità a regime intermedio della sentenza (Sez. 1, n. 18590 del 29/04/2011 – dep. 11/05/2011, Corsi, Rv. 250275; Sez. 5, n. 6487 del 28/10/2011 – dep. 17/02/2012, Finocchiaro, Rv. 251730).
Tornando al caso in esame, ritiene il Collegio che, correttamente la Corte di appello ha escluso la violazione del disposto di cuiall’art. 521 c.p.p., in forza della diversa qualificazione giuridica delle condotte ascritte all’imputato con la sentenza di primo grado in presenza di un fatto rimasto sostanzialmente invariato nei suoi tratti caratterizzanti; qualificazione giuridica rispetto alla quale l’imputato ha potuto, in sede di impugnazione, difendersi adeguatamente. La soluzione dei giudici distrettuali è in linea con la giurisprudenza di questa Corte richiamata nella sentenza impugnata – riferita al rapporto tra la fattispecie strutturalmente prossima a quella in esame quale quella dellaL. n. 898 del 1970,art.12 sexies, e il reato di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, sull’assunto che, pur presentando le due ipotesi criminose presupposti ed elementi strutturali diversi, la condotta presa in considerazione dall’art. 12 sexies, rientra nel più ampio paradigma di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, essendo nella prima ipotesi sufficiente accertare il fatto della volontaria sottrazione all’obbligo di corresponsione dell’assegno determinato dal tribunale e non occorrendo, quindi (come riconosciuto dalla Corte costituzionale con sentenza n. 472 del 1989), che dall’inadempimento consegua anche il far mancare i mezzi di sussistenza, elemento invece necessario ai fini della integrazione della seconda figura criminosa (Sez. 6, n. 7824 del 02/05/2000, Tuccitto, Rv. 220572).
Dalle precisazioni fin qui svolte discende la manifesta infondatezza dei motivi di ricorso articolati con riferimento non solo alla violazionedell’art. 521 c.p.p., ma anche alla necessità della motivazione rafforzata che il giudice avrebbe dovuto adottare in sede di condanna ed al richiamo al principio dell’assorbimento del reato di cui allaL. n. 898 del 1970,art.12 sexies, e, quindi dellaL. n. 54 del 2006,art.3, in forza di quanto precisato da questa Corte.
Ed invero il declamato principio di assorbimento vale, al fine di evitare il bis in idem sostanziale, nella disamina dei rapporti fra le fattispecie che determinano un concorso apparente di reati, in quanto, in situazioni nelle quali il genitore abbia fatto mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori non assolvendo agli obblighi posti a suo carico da provvedimenti dell’autorità giudiziaria, il delitto di aver fatto mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori implica anche l’omissione del versamento dell’assegno di mantenimento stabilito dal giudice civile (cfr. Sez. 6, n. 10772 del 20/02/2018, Rv. 272763-01; Sez. 6, n. 57273 del 10/11/2017, R., Rv. 271674-01; Sez. 6, n. 55064 del 13/09/2017, F. Rv. 271669-01;).
Ne consegue che il principio di assorbimento rileva solo nel caso in cui il genitore separato fa mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori, omettendo di versare l’assegno di mantenimento, poiché, in tale ipotesi, egli commette un unico reato, quello previstodall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, nel quale è assorbita la violazione meno grave, mentre fuori del principio di assorbimento si pone l’ipotesi in cui si sia in presenza esclusivamente delle fattispecie di cui allaL. n. 898 del 1970,art.12 sexies, ovveroL. n. 54 del 2006,art.3, votate altrimenti, secondo la soluzione fatta propria nel ricorso, ad una sostanziale inapplicabilità. Né, in ragione della specifica fattispecie in esame, rilevano affermazioni ulteriori di questa Corte, in merito ai rapporti traart. 570 c.p., comma 2, n. 2, eL. n. 898 del 1970,art.12 sexies, in casi nei quali era oggetto di inadempimento il pagamento dell’assegno di divorzio, e, quindi, relativi ad ipotesi non sovrapponibili al caso in esame.
3.Ulteriore difficoltà, nella comprensione della vicenda in esame, discende dal rinvio ad una (o più) sentenze che hanno riguardato l’odierno ricorrente. Anche a tal riguardo il ricorrente richiama una precedente sentenza che ha assolto l’imputato dal reato di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, per fatto anteriormente commesso, sentenza che i giudici di appello evidenziano essere stata riformata con decisione del 22 giugno 2017 diversa da altra pronuncia del 13 gennaio 2017, oggetto di diffuso richiamo nella sentenza impugnata per smentire la ricorrenza di condizioni personali dell’imputato ostative all’adempimento impostogli dal giudice civile a favore della figlia minore. Ebbene, ritiene il Collegio che le deduzioni del ricorrente sono manifestamente infondate, in fatto, stante l’autonomia delle decisioni, e in diritto non ricorrendo alcun travisamento della prova nella lettura delle richiamate decisioni da parte del giudice di appello.
4. Infondata è anche la deduzione difensiva secondo la quale i giudici di merito non hanno preso in considerazione la circostanza che il ricorrente non era mai stato sposato con la madre della minore, beneficiaria del trattamento economico stabilito dal giudice civile in quanto i genitori semplicemente convivevano e, pertanto, la insussistenza del reato di cui allaL. n. 54 del 2006,art.3, perché applicabile solo all’ipotesi di omesso versamento dell’assegno in favore di figli nati da genitori coniugati e, quindi, in relazione ad epiloghi del rapporto coniugale per separazione, divorzio o nullità del matrimonio.
La tesi sostenuta dall’imputato è stata affermata in una isolata decisione di questa Corte (Sez. 6, n. 2666 del 07/12/2016, B, Rv. 268968) ma è stata, tuttavia, superata da un più recente orientamento alla stregua del quale si è ritenuto che, in tema di reati contro la famiglia, è configurabile il reato di cui allaL. 8 febbraio 2006, n. 54,art.3, anche in caso di omesso versamento, da parte di un genitore, dell’assegno periodico disposto dall’autorità giudiziaria in favore dei figli nati fuori dal matrimonio (Sez. 6, n. 14731 del 22/02/2018, S, Rv. 272805; Sez. 6, n. 12393 del 31/01/2018, P, Rv. 272518; Sez.6, n.25267 del 06/04/2017, S. Rv. 270030). Ciò alla luce della interpretazione sistematica della disciplina sul tema delle unioni civili e della responsabilità genitoriale nei confronti dei figli, introdotta dallaL. 20 maggio 2016, n. 76, e dalD.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, che ha inserito l’art. 337 bis c.c., e, quindi, di una rilettura dellaL. n. 54 del 2006,art.4, comma 2, in base al quale le disposizioni introdotte da tale legge si applicano anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati. Riferimento che deve essere ricondotto a tutte le disposizioni previste dalla legge citata, comprese quelle che attengono al diritto penale sostanziale, in quanto una diversa soluzione determinerebbe una incostituzionale diversità di trattamento, accordando una più ampia e severa tutela penale ai soli figli di genitori coniugati rispetto a quelli nati fuori dal matrimonio.
5.Occorre, cionondimeno, interrogarsi sulla tenuta di tale approdo a seguito della modifica normativadell’art. 570 c.p., intervenuta conD.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 63 del 22 marzo 2018 e in vigore dal 6 aprile 2018, con il quale si è data attuazione ad una delle deleghe contenute nellaL. 23 giugno 2017, n. 103(c.d. “legge Orlando”), e in particolare a quella – prevista dall’art. 1, comma 85, lett. q) della suddetta legge – relativa all’introduzione del principio della “riserva di codice” nel nostro ordinamento penale. In particolare il richiamato decreto ha innestato nel codice sostanziale una previsione, l’art. 570 bis c.p., rubricata “violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio” che, nel prosieguo sanziona, con le pene previstedall’art. 570 c.p., la condotta del “coniuge” che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero viola gli obblighi di natura economia in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli.
La norma ripropone, non in modo letterale, le previgenti disposizioni penali contenute allaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.12 sexies, ed allaL. 8 febbraio 2006, n. 54,art.3, norme che, conseguentemente, sono state espressamente abrogate dalD.Lgs. n. 21 del 2018,art.7, lett. b)e o).
La questione che si pone è se, sul piano della successione di leggi penali nel tempo, il nuovo art. 570 bis c.p., si sia effettivamente limitato ad un diverso collocamento ordinamentale di norme incriminatrici il cui contenuto non è stato oggetto di modifica, ovvero se vi siano profili di non perfetta sovrapponibilità tra l’attuale art. 570 bis c.p., ed i previgentiL. n. 898 del 1970,art.12 sexies, edL. n. 54 del 2006,art.3, e, posto che vi siano, come tali modifiche incidano in relazione ai fatti compiuti prima della entrata in vigore della nuova disposizione. Se, sul piano semantico, la nuova previsione dell’art. 570 bis c.p., si pone in termini decisamente innovativi per l’ampio riferimento alla sanzione penale derivante dall’inadempimento di “ogni tipologia di assegno dovuto”, per altro aspetto – e per quel che qui rileva – si rivela dirompente rispetto alla fattispecie in esame per il riferimento, quale soggetto attivo del reato, al coniuge, riferimento che ripropone la problematica del coordinamento della disciplina penalistica con il contenuto dellaL. n. 54 del 2006,art.4, che, a seguito della interpretazione fornitane da questa Corte, aveva esteso l’intera disciplina recata dalla legge anche ai procedimenti relativi ai figli dei genitori non coniugati.
6. La lettura incentrata sul tenore letterale della norma, per l’inequivoco riferimento al coniuge, ha già indotto la giurisprudenza di merito, ove non ricorrano le condizioni per applicare la previsione di omessa prestazione dei mezzi di sussistenza al figlio minore ovvero inabile al lavoro di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, a fare ricorso, per la violazione consistente nell’omessa corresponsione di assegno in favore di figli recate dalle decisioni giudiziarie in favore di figli nati fuori dal matrimonio, alla fattispecie di cuiall’art. 570 c.p., comma 1. Al riguardo viene evidenziato che, da un lato, il soggetto attivo del reato di cuiall’art. 570 c.p., è il genitore senza ulteriori specificazioni, giacché la norma è posta a tutela della famiglia in senso ampio e non solo di quella fondata sul vincolo del matrimonio, e, dall’altro, che la violazione degli obblighi di assistenza materiale nei confronti del figlio ben si può realizzare attraverso la mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento fissato dal Tribunale civile.
7. La interpretazione fondata sul dato letterale della disposizione di cui all’art. 570 bis c.p., che sottostà all’ opzione interpretativa illustrata, non costituisce, peraltro, l’unica opzione ermeneutica praticabile.
È necessario, in vero, concentrare l’attenzione, piuttosto che sul dato semantico, sulla natura e portata della delega conferita con laL. n. 103 del 2017, e, cioè, una delega di natura meramente compilativa che autorizzava la traslazione delle figure criminose già esistenti nel corpus del codice, senza contemplare alcuna modifica sostanziale delle stesse. E, che l’intenzione del legislatore delegato fosse esclusivamente quella di riordinare la materia, è desumibile anche dalla relazione ministeriale allo schema di decreto legislativo, in cui si afferma che il nuovo art. 570 bis c.p., “assorbe le previsioni di cui allaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.12 sexies, e di cui allaL. 8 febbraio 2006, n. 54,art.3, aggiungendo che la modifica, da un lato, non incide sul regime di procedibilità di ufficio, la cui corrispondenza a Costituzione è stata comunque ripetutamente affermata dalla Corte costituzionale (da ultimo con sentenza n. 220 del 2015), dall’altro, contempla le ipotesi (già previste mediante rinvio agli artt. 5 e 6 della stessa legge) di scioglimento, cessazione degli effetti civili, nullità del matrimonio oltre che quella dell’assegno dovuto ai figli nelle medesime evenienze”.
Secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia, qualora la delega abbia ad oggetto, come nella specie, il riordino ed il riassetto di norme preesistenti, queste finalità giustificano un adeguamento della disciplina al nuovo quadro normativo complessivo, conseguito dal sovrapporsi, nel tempo, di disposizioni emanate in vista di situazioni ed assetti diversi, ma non anche l’adozione di soluzioni innovative rispetto al sistema legislativo previgente che richiede la emanazione di principi e criteri direttivi idonei a circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato (Corte Cost., sentenza n. 170 del 2007 e n. 239 del 2003).
In tale quadro di riferimento si deve, dunque, collocare la formale abrogazione dellaL. n. 1dicembre 1970, n. 898, art. 12 sexies, e dellaL. 8 febbraio 2006, n. 54,art.3, non potendo ritenersi verificata, in conseguenza del meccanismo dell’abrogazione, anche un’abolizione delle corrispondenti figure di reato, transitate nel nuovo corpus normativo. Soprattutto, perché la riscrittura delle norme, peraltro non testuale, non ha formalmente investito laL. n. 54 del 2006,art.4, comma 2, secondo il quale “le disposizioni della legge si applicano… nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”. Ebbene, secondo l’interpretazione datane da questa Corte con la richiamata sentenza n. 25267 del 2017, la tutela penale recata dallaL. n. 54 del 2006,art.3, e della disciplina recata dallaL. n. 898 del 1970,art.12 sexies, in forza della disposizione di cui allaL. n. 54 del 2006,art.4, comma 2, che svolgeva la funzione di norma di chiusura del sistema, riguardava anche i figli di genitori non coniugati avuto riguardo all’espresso riferimento (procedimenti relativi ai figli dei genitori non coniugati), obblighi di natura economica ridisciplinati dallaL. n. 54 del 2006,art.1, quindi dagli artt. 155 e 155 sexies c.c..
Da qui, nella lettura dellaL. n. 54 del 2006,artt.3e4, enunciata con le sentenze richiamate al punto 4. del Considerato in diritto, si è ritenuto che l’interpretazione sistematica dovesse deporre nel senso della totale equiparazione anche della disciplina penalistica posta a presidio dell’esatto adempimento delle obbligazioni statuite a carico dei genitori in favore dei figli anche all’esito della cessazione della convivenza e non solo nel caso di vicende patologiche del rapporto matrimoniale a monte. In ragione della mancata abrogazione dellaL. n. 54 del 2006,art.4, comma 2, e dell’espresso riferimento contenuto ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati la disciplina penale relativa al mancato rispetto di una pronuncia giudiziale o di uno specifico accordo che impongono al genitore naturale l’obbligo di corrispondere una determinata somma di denaro per il mantenimento del figlio va, dunque, contestualizzata con riferimento alla cornice dettata nel codice civile che, nella rubrica dell’attuale Capo II del titolo IX recita “esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio” e, all’art. 337 bis c.c., disciplinando l’ambito di applicazione stabilisce che, “in caso di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio e nei procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio, si applicano le disposizioni del presente capo”.
La esegesi letterale dell’art. 570 bis c.p., tra la posizione dei figli nati da genitori conviventi, rispetto alla prole nata in costanza di matrimonio, si pone in netta antitesi con la piena equiparazione realizzata nell’ambito del diritto civile (art. 337 bis c.c. e ss.). Sistema in cui gli obblighi dei genitori, nascendo dal rapporto di filiazione, non subiscono alcuna modifica a seconda che sia o meno intervenuto il matrimonio, in conformità, del resto, alla previsionedell’art. 30 Cost., comma 3.
In tale contesto, normativo attuale e di successione di disposizioni, si deve affermare che l’unica interpretazione sistematicamente coerente e costituzionalmente compatibile e orientata, è quella dell’applicazione dell’art. 570 bis c.p. – che si limita a spostare la previsione della sanziona penale all’interno del codice penale – anche alla violazione degli obblighi di natura economica che riguardano i figli nati fuori del matrimonio.
Tale lettura discende: dalla perdurante vigenza, in quanto norma non abrogata, dellaL. n. 54 del 2006,art.4, comma 2; dal riferimento ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati contenuto nella disposizione; dalla disciplina positiva di detti procedimenti recati dall’art. 337 bis c.c. e ss., che, unitariamente e integralmente si applica, anche ai figli nati fuori dal matrimonio.
Si deve prendere atto che, successivamente al superamento del principio della indissolubilità del matrimonio, si sono succeduti molteplici mutamenti legislativi e giurisprudenziali tra loro eterogenei – questi ultimi spesso ispirati dalla giurisprudenza della Cedu -, che hanno profondamente inciso sulla valenza dell’istituto matrimoniale e sul fondamento e sulla fisionomia della famiglia.
Si pensi, in primo luogo, alla riforma attuata dallaL. 10 dicembre 2012, n. 219, e dalD.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, che ha reso unica la condizione dei figli, disponendo il loro inserimento nelle reti di parentela dei genitori a prescindere dalla sussistenza tra loro del matrimonio (artt. 74 e 258 c.c.), nonché ha generalizzato la regola secondo cui l’esercizio della responsabilità genitoriale spetta ad entrambi i genitori, indipendentemente dal fatto che tra loro sussistano legami di diritto o di fatto. I rapporti di filiazione sono stati dunque funzionalizzati al perseguimento dell’interesse dei figli, tanto che è stato abbandonato il modello della potestà, sostituito con quello della responsabilità, il quale ben si attaglia allo schema che privilegia l’interesse del minore, che è pur sempre individuale e non suscettibile di sacrificio in nome di un superiore interesse della famiglia.
Sempre con riferimento alla perdita di rilevanza del matrimonio, occorre considerare gli interventi legislativi in materia di negoziazione assistita (D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modifiche dallaL. 10 novembre 2014, n. 162) e di “divorzio breve” (L. 6 maggio 2015, n. 55, Disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché di comunione tra i coniugi), i quali hanno rimosso e/o attenuato il controllo giudiziale sulla crisi del matrimonio e reso più celere il conseguimento del divorzio. In particolare, per quanto riguarda i figli, laL. 10 dicembre 2012, n. 219, ha abolito le partizioni che contrassegnavano il rapporto di filiazione a seconda che i genitori fossero, o meno, uniti in matrimonio. Il che, nel suo complesso, rappresenta un rovesciamento della prospettiva costituzionale caratterizzata com’è(ra), da un lato, dalla connotazione della famiglia quale istituzione necessariamente fondata sul matrimonio e, dall’altro, dalla differenziazione della filiazione nel e fuori del matrimonio, che era ontologicamente differenziata da quest’ultima.
Una ulteriore torsione della interpretazione letterale dell’art. 570 bis c.p., consegue dal rilievo che le disposizioni recate dallaL. n. 8febbraio 2006, n. 54, art. 4, relative alle disposizioni a favore dei figli in caso di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, per effetto della inammissibile selezione delle fattispecie incriminatrici operata dal legislatore delegato, sono transitate, contrariamente alla parte del disposto normativo richiamato, relativo ai figli dei genitori non coniugati, nella previsione dell’art. 570 bis c.p..
E, tale lettura, rende irrilevante la questione di illegittimità costituzionale, per violazionedell’art. 3 Cost., sul presupposto che, del tenore letterale della fattispecie di cui all’art. 570 bis c.p., si determina “una irragionevole ed ingiustificata diversità di trattamento nell’ambito dei rapporti tra genitori e figli nati in costanza o al di fuori del matrimonio” (Tribunale Nocera Inferiore, Sezione penale, ordinanza del 26/4/2018). E, sotto altro profilo, quella di legittimità costituzionale, relativamente alD. Lgs. 1 marzo 2018, n. 21,art.2, comma 1, lett. c), e art. 7, comma 1, lett. b) e o), nella parte in cui si ritiene abrogata la previsione incriminatrice della violazione degli obblighi di assistenza familiare da parte del genitore non coniugato, per contrasto con gliartt. 25 e 76 della Costituzione (Corte appello Trento, Sezione Penale,ordinanza 21/9/2018).
8. Ritiene, conclusivamente, il Collegio che, alla stregua della lettura sistematica della disposizione di cui all’art. 570 bis c.p., non può attribuirsi alla fattispecie incriminatrice un ambito applicativo più ristretto rispetto a quello riferibile allaL. n. 56 del 2006,artt. 3 e 4, quali interpretati dall’ormai consolidato orientamento di questa Corte regolatrice (vedi le decisioni richiamate al precedente pgf. 4. del Considerato in diritto) con la conseguenza che non si applica alla fattispecie in concreto all’esame della Cortel’art. 2 c.p., comma 2, ricorrendo tutti i presupposti fattuali del reato di omesso adempimento degli obblighi di mantenimento in favore della figlia minore, nata da un rapporto di convivenza, obblighi posti a carico dell’imputato dalla sentenza civile del Tribunale di Monza. Le sentenze di merito hanno individuato la fonte dell’obbligo a carico dell’imputato, hanno illustrato il protratto inadempimento ed hanno escluso che fossero ravvisabili assoluti impedimenti all’esecuzione dell’obbligazione civilistica con argomenti fondati sulle condizioni patrimoniali dell’imputato e sulla mancata modifica delle obbligazioni civilistiche – che mai il ricorrente si era peritato di chiedere – e sulla base di elementi fattuali (la giovane età e l’abilità al lavoro; lo svolgimento di attività lavorativa) del tutto genericamente contrastati con l’odierno ricorso.
9. Consegue al rigetto del ricorso la condanna al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2018.
Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2018

Il pagamento della retta per l’inserimento del minore all’interno di strutture residenziali rimane a carico dei genitori ancorché decaduti dall’esercizio della responsabilità genitoriale

T.A.R. Veneto Venezia Sez. III, 28 novembre 2018, n. 1091
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto
(Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
ex art. 60 cod. proc. amm.;
sul ricorso numero di registro generale 1003 del 2018, proposto da
-OMISSIS-, rappresentati e difesi dagli avvocati Rosanna Cescon, Cristina Zanatta, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Nadia Anzanello in Venezia-Mestre, via D. Manin n. 43;
contro
Comune di Villorba, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Alberto Munari, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Venezia, P.Le Roma 464;
nei confronti
Azienda U.M. non costituito in giudizio;
per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia
– del provvedimento prot. n. (…) del 18 giugno 2018, avente ad oggetto “inserimento in Comunità Educativa di -OMISSIS-e -OMISSIS-. Compartecipazione alla spesa per il pagamento della retta.”, con cui l’Assessore ai servizi sociali del Comune di Villorba comunicava ai signori -OMISSIS- che l’Amministrazione comunale avrebbe assunto l’onere di pagamento della retta per il collocamento delle figlie minori presso una struttura educativa, prevedendo una compartecipazione alla spesa da parte dei genitori;
-della Deliberazione della Giunta Comunale di Villorba n. 109 del 25 giugno 2018, recante “atto di indirizzo per la definizione della compartecipazione dei genitori al pagamento delle rette dei minori inseriti in strutture residenziali”;
– del provvedimento prot. n. (…) del 4 luglio 2018, con cui, facendo seguito alla nota dell’Assessore prot. n. 22725 del 18 giugno 2018 e alla D.G.C. n. 109 del 25 giugno 2018, il Comune di Villorba ha determinato e comunicato l’ammontare della compartecipazione asseritamente dovuta dai signori -OMISSIS-;
– di ogni altro atto ad essi presupposto, conseguente o, comunque, connesso.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di Villorba;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2018 la dott.ssa Mara Spatuzzi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Sentite le stesse parti ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con il presente ricorso, ritualmente proposto, i signori -OMISSIS- impugnano gli atti, meglio indicati in epigrafe, con cui il Comune di Villorba ha imposto loro l’onere della compartecipazione alle spese sostenute dal Comune per le rette relative all’inserimento delle due figlie minori presso la comunità educativa “S.O.S. Villaggio dei Bambini”; inserimento avvenuto in esecuzione dei decreti del Tribunale per i Minorenni di Venezia, emessi nell’ambito del proc. n. 765/17 RR, promosso dal pubblico ministero, exart. 330 cod. civ., nell’interesse delle minori e nei confronti dei genitori, con richiesta di collocamento etero-familiare delle figlie.
I ricorrenti lamentano l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per i seguenti motivi di ricorso:
I) difetto assoluto di attribuzione; incompetenza; eccesso di potere per difetto di istruttoria; eccesso di potere per carenza di motivazione; in quanto non vi sarebbe alcuna norma nazionale né regionale che consenta al Comune di Villorba di regolamentare la materia di cui si tratta, ovverosia i criteri di ripartizione della spesa sostenuta dagli Enti locali e dalle Aziende Sanitarie per il ricovero di minori in strutture residenziali, per cui l’impugnata delibera della giunta n. 109/2018 sarebbe nulla per difetto assoluto di attribuzione del Comune in materia;
II) incompetenza sotto un diverso profilo; eccesso di potere per contraddittorietà; difetto di istruttoria; illogicità manifesta; in quanto, nel caso in cui si ritenga che il Comune sia titolare del potere di determinare le quote di compartecipazione alla spesa per il ricovero di minori, tale regolamentazione sarebbe dovuta avvenire con delibera del consiglio comunale e non della giunta;
III) violazione dell’art.6, comma 4,L. 8 novembre 2000, n. 328; violazione dell’art. 13 bis, L.R. Veneto 3 febbraio 1996, n. 5; violazione dell’art.23, lett. c),D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616; violazionedell’art. 97 Cost.; eccesso di potere per contraddittorietà; eccesso di potere per illogicità e irragionevolezza manifeste; eccesso di potere per carenza di motivazione e difetto di istruttoria; eccesso di potere per violazione del regolamento approvato dalla Conferenza dei Sindaci dell’Azienda U. n. 9 in data 20 febbraio 2009 e confermato il 20 maggio 2010; eccesso di potere per violazione della normativa regionale in tema di Livelli Essenziali di Assistenza; in quanto il Comune avrebbe imposto ai genitori di contribuire ad una spesa che, per contro, rientrerebbe tra i Livelli Essenziali di Assistenza a carico sociale per il 100% e la cui ripartizione sarebbe stata già definita dalla Conferenza dei Sindaci come interamente a carico dei Comuni, adottando inoltre un provvedimento in assenza di contraddittorio con gli interessati;
IV) violazionedell’art. 97 Cost.; violazione dell’art.6, comma 4,L. 8 novembre 2000, n. 328; violazione dell’art. 13 bis, L.R. Veneto 3 febbraio 1996, n. 5; violazione dell’art.23, lett. c),D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616; eccesso di potere per contraddittorietà; eccesso di potere per illogicità e irragionevolezza manifeste; eccesso di potere per perplessità; in quanto con i provvedimenti impugnati, da un lato, il Comune ha imposto ai coniugi ricorrenti di provvedere al pagamento di una quota della spesa per le rette di ricovero delle figlie e, dall’altro lato, ha chiesto agli stessi di sottoscrivere un atto di impegno in tal senso e ciò sarebbe “palesemente contraddittorio, non necessitando ciò che è dovuto per legge di alcun impegno scritto da parte del soggetto asseritamente obbligato”;
V) violazionedell’art. 97 Cost.; violazione dell’art.6, comma 4,L. 8 novembre 2000, n. 328; violazione dell’art. 13 bis, L.R. Veneto 3 febbraio 1996, n. 5; violazione dell’art.23, lett. c),D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616; eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione; eccesso di potere per sviamento di potere; in quanto con il provvedimento prot. n. 22725 del 18 giugno 2018, il Comune avrebbe imposto ai coniugi il pagamento di parte della retta di ricovero delle figlie minori prima che la giunta comunale avesse adottato la relativa delibera, il che lascerebbe ipotizzare come l’Amministrazione comunale, in realtà, intendesse agire e regolamentare la materia in parola con specifico riguardo al caso della famiglia -OMISSIS-.
Si è costituito il Comune di Villorba contrastando le avverse pretese e chiedendo la reiezione del ricorso.
All’udienza del 24 ottobre 2018 il Collegio si è riservato la pronuncia di sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 del c.p.a., e la causa è stata trattenuta in decisione.
Innanzitutto il Collegio deve pronunciarsi in relazione al primo motivo di ricorso con cui si contesta in radice il potere del Comune di regolamentare i criteri di ripartizione della spesa sostenuta per l’inserimento di minori in strutture residenziali, per cui l’impugnata delibera della giunta n. 109/2018 sarebbe nulla per difetto assoluto di attribuzione del Comune in materia.
La censura non è fondata in quanto, come chiarito dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia (Cfr. sentenza n. 22678/2010 e sentenza n. 22909/2010) l’obbligo di mantenimento dei figli minori, e quindi il pagamento della relativa retta nel caso di inserimento degli stessi in strutture residenziali, continua a gravare sui genitori, anche quando i figli siano affidati in comunità, su disposizione del Tribunale dei Minorenni ai sensi degli articoli25e26delr.d.l. n. 1404, del 1934, essendo tale obbligo collegato esclusivamente al perdurare dello status genitoriale e non alla permanenza dei figli presso il nucleo familiare dei genitori o alle vicende della potestà genitoriale di questi ultimi.
La Cassazione ha, infatti, evidenziato che l’art. 25, u.c., delr.D.L. n. 1404 del 1934stabilisce che: “le spese di affidamento o di ricovero, da anticiparsi dall’erario, sono a carico dei genitori”, e che non si può desumere una modifica a tale obbligo di mantenimento “dal compito di assistenza che grava sui comuni”: ed in particolar modo dalD.P.R. n. 616 del 1977,artt.23e25che hanno trasferito alle Regioni la materia”, né dalla disciplina successivamente intervenuta in materia, anzi la Cassazione evidenzia che “è d’altra parte significativo che laL. n. 184,art. 1, comma 2 ha previsto interventi di sostegno e di aiuto solo a favore delle famiglie indigenti…”.
Per cui, secondo i principi enucleati dalla citata giurisprudenza della Cassazione e da cui il Collegio non rinviene motivi per discostarsi, l’asserito difetto assoluto di attribuzione del Comune in materia non sussiste in quanto:
– le spese per l’affidamento dei minori al servizio sociale minorile, su disposizione della competente autorità giudiziaria, gravano sui genitori ex lege (per effetto delle norme del codice civile sulla responsabilità genitoriale, in generale, e per effetto dell’art.25r.D.L. 20 luglio 1934, n. 1404);
– l'”erario” (cfr. art.25, comma 3,r.D.L. n. 1404 del 1934) – oggi impersonificato dai Comuni per il tramite delle ULSS cui hanno delegato tali funzioni – è tenuto solo ad anticipare quella spesa, con conseguente diritto di chiederne il rimborso ai genitori;
– le norme citate dai ricorrenti concorrono a formare la disciplina in base alla quale individuare chi siano, oggi, i soggetti pubblici tenuti ad anticipare le spese di affidamento dei minori e con quali modalità, ma il rimborso di quell’anticipazione resta un obbligo a carico dei genitori eccetto che non ci siano situazioni di indigenza;
– con gli atti impugnati il Comune non ha inteso regolamentare i criteri del riparto della spesa tra gli Enti locali, ma ha solo determinato, nel caso concreto, la misura del rimborso dovuto dai genitori delle minori -OMISSIS- -OMISSIS-, per il loro affidamento in comunità disposto dal Tribunale per i Minorenni di Venezia per allontanarle, nel loro interesse, dalla residenza familiare, e ha richiesto il pagamento del rimborso in relazione alla parte della retta posta in capo al Comune sulla base dalla normativa statale e regionale vigente.
In definitiva, quindi, il primo motivo di ricorso, relativo all’asserito difetto assoluto di attribuzione del Comune, non è fondato e deve essere respinto.
E’ fondato, invece, ad avviso del Collegio, il secondo motivo di ricorso con cui i ricorrenti lamentano che la regolamentazione della compartecipazione in questione sarebbe dovuta avvenire sulla base di una delibera del consiglio comunale e non della giunta.
Se è vero, infatti, come controdedotto dal Comune, che l’assunzione dell’obbligo di anticipare le spese per le rette dei minori, inseriti in strutture residenziali su disposizione dei Tribunali per i Minorenni, rientra tra le prestazioni oggetto dei servizi sociali di competenza dei Comuni e che il regolamento approvato dal Consiglio del Comune di Villorba con la deliberazione n. 59 del 2017, disciplina “… l’erogazione dei servizi sociali, che il Comune eroga nell’ambito delle funzioni e dei compiti di assistenza sociale, attribuiti dalla normativa statale …”, deve però rilevarsi come l’art.21, comma 3, del regolamento, nel disciplinare l’accesso di minori presso “comunità, case famiglie, istituti e quant’altro”, dispone solo che “la valutazione sarà effettuata dall’U.V.M.D. e da quanto previsto dalla delega conferita all’U.L.S.S.” e non si rinviene nel regolamento in questione una norma che fissi i criteri per la quantificazione della quota di compartecipazione da parte dei genitori per il servizio di affidamento dei minori al servizio sociale, né dalla lettura del regolamento si può, come vorrebbe il Comune, desumere l’attribuzione di una delega generale in materia alla giunta.
Il regolamento, infatti, non contiene una norma di carattere generale che individui i criteri di compartecipazione ai servizi sociali e deleghi la giunta ad individuare le diverse soglie di accesso, come sostiene la difesa del Comune, ma anzi prevede in norme specifiche i criteri sulla base dei quali stabilire la compartecipazione (art.33 e ss. con riferimento al ricovero in strutture residenziali di anziani e inabili) e dispone di volta in volta nei singoli articoli riferiti a determinate prestazioni sociali la delega alla giunta (articoli 33 e ss. con riferimento al ricovero in strutture residenziali di anziani e inabili; art. 46, per il servizio di assistenza domiciliare; art. 47 per la fornitura di pasti caldi a domicilio; art. 52, per il servizio di trasporto sociale; art. 54, per il servizio di telesoccorso); né si può ritenere legittimo estendere, in via analogica, le norme dettate per la compartecipazione agli specifici servizi di cui sopra alla compartecipazione dei genitori alle spese per l’inserimento dei figli minori in comunità, considerata la diversità di presupposti che sorreggono i diversi interventi in questione e di beneficiari.
Il Collegio, pertanto, ritiene che illegittimamente la giunta abbia adottato la Delib. n. 109 del 2018 con cui ha fissato gli indirizzi e i criteri per la definizione della compartecipazione dei genitori al pagamento delle rette dei minori inseriti in strutture residenziali, in assenza di una apposita disciplina e delega in materia in sede di regolamento consiliare.
Il riscontrato vizio di incompetenza consente (Cfr. C.d.S. Ad. Plen. n.5 del 2015) di assorbire gli ulteriori motivi di ricorso.
Per quanto sopra esposto, pertanto, il ricorso deve essere accolto con riferimento al vizio di incompetenza della giunta dedotto con il secondo motivo di ricorso, con conseguente annullamento della delibera della giunta e dei provvedimenti impugnati e salve le ulteriori determinazioni dell’amministrazione comunale.
Le spese possono essere compensate in considerazione dell’esito complessivo della lite e della particolarità della situazione controversa.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti e termini di cui in motivazione, e per l’effetto annulla i provvedimenti impugnati.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art.52, commi 1,2 e 5D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, manda alla Segreteria di procedere, in caso di riproduzione in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, all’oscuramento delle generalità del minore, dei soggetti esercenti la potestà genitoriale o la tutela e di ogni altro dato idoneo ad identificare il medesimo interessato riportato sulla sentenza o provvedimento.
Così deciso in Venezia nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2018 con l’intervento dei magistrati:
Claudio Rovis, Presidente
Michele Pizzi, Referendario
Mara Spatuzzi, Referendario, Estensore

Il congedo straordinario per assistere il familiare disabile spetta anche al figlio non convivente

Corte cost., 7 dicembre 2018, n. 232
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.42, comma 5, delD.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151(Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo15dellaL. 8 marzo 2000, n. 53), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione terza, nel procedimento tra D. M. e il Ministero della giustizia, conordinanza del 12 febbraio 2018, iscritta al n. 48 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 7 novembre 2018 il Giudice relatore Silvana Sciarra.
1.- Conordinanza del 12 febbraio 2018, iscritta al n. 48 del registro ordinanze 2018, il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione terza, ha sollevato, in riferimento agliartt. 2, 3, 4, 29, 32 e 35 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art.42, comma 5, delD.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151(Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo15dellaL. 8 marzo 2000, n. 53), “nella parte in cui richiede, ai fini dell’ottenimento del congedo, la preesistente convivenza dei figli con il soggetto da assistere”.
1.1.- Il rimettente espone di dover decidere sul ricorso di un agente penitenziario, che ha chiesto di beneficiare del congedo straordinario retribuito per l’assistenza al padre malato.
Il Ministero della giustizia, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dopo avere riscontrato che il lavoratore e il genitore da assistere non convivono, ha rigettato l’istanza. Il ricorrente ha impugnato tale diniego con ricorso cautelare, accolto dal rimettente con ordinanza 13 luglio 2016, n. 901, poi riformata dal Consiglio di Stato, sezione quarta, con ordinanza 21 ottobre 2016, n. 4750, che ha richiamato a fondamento della decisione la “contestata sussistenza del requisito della convivenza con la persona disabile”.
Il ricorrente ha instaurato il giudizio di merito per ottenere l’annullamento del provvedimento di rigetto e ha dedotto, in primo luogo, violazione di legge, eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto di istruttoria, motivazione errata e ingiustizia manifesta. A parere del ricorrente, l’amministrazione non avrebbe esaminato lo stato di famiglia, che dimostra come la residenza anagrafica del ricorrente coincida con quella del genitore e come nessun altro fratello benefici del congedo richiesto.
L’amministrazione, inoltre, avrebbe violato l’art.10-bisdellaL. 7 agosto 1990, n. 241(Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), poiché non avrebbe preventivamente comunicato il preavviso di rigetto.
Il giudice a quo evidenzia, preliminarmente, che tale ultimo motivo di ricorso deve essere disatteso, perché l’amministrazione ha fondato il rigetto sulla mancanza di una preesistente convivenza e, a fronte di tale motivazione, il ricorrente non potrebbe addurre elementi idonei a mutare il provvedimento adottato.
Quanto al primo motivo di ricorso, il rimettente reputa non fondati i rilievi del ricorrente, che conducono a identificare la convivenza nella mera residenza anagrafica. L’art.42, comma 5, delD.Lgs. n. 151 del 2001subordina al requisito della pregressa convivenza la concessione del congedo straordinario retribuito, che non può essere esteso oltre le ipotesi tassativamente previste dalla legge. È su tale requisito che si incentrano i dubbi di legittimità costituzionale.
1.2.- In punto di rilevanza, il giudice a quo argomenta che la domanda dovrebbe essere respinta, poiché difetta il requisito della pregressa convivenza e la disposizione censurata non si presta a una diversa interpretazione, che superi il dato testuale e consenta di identificare convivenza e residenza anagrafica, in linea con il punto di vista del ricorrente.
1.3.- Ad avviso del rimettente, l’art.42, comma 5, delD.Lgs. n. 151 del 2001, “nella parte in cui richiede, ai fini dell’ottenimento del congedo ivi previsto, la preesistente convivenza del figlio richiedente il beneficio con il genitore da assistere, e non consente invece che la convivenza costituisca una condizione richiesta durante la fruizione del congedo”, contrasterebbe con molteplici parametri della Carta fondamentale.
Il rimettente, dopo avere passato in rassegna la giurisprudenza costituzionale, che ha individuato la ratio del congedo straordinario nell’esigenza di garantire la continuità delle cure e dell’assistenza al disabile nell’àmbito familiare (si menzionano le sentenze n. 233 del 2005, n. 158 del 2007, n. 19 del 2009 e n. 203 del 2013), osserva che la scelta di concedere il congedo straordinario al figlio, solo quando sia già convivente con il genitore da assistere, si pone in contrasto con gliartt. 2, 3, 4, 29, 32 e 35 Cost.
In particolare, tale limitazione sarebbe lesiva del “combinato disposto di cui agliartt. 2, 29 e 32 Cost.”, che presuppone “una legittimazione della famiglia nel suo insieme – come insieme di rapporti affettivi – a divenire strumento di assistenza del disabile”, in virtù del dovere di solidarietà che grava su ogni componente della comunità familiare e del “corrispondente diritto del singolo di provvedere all’assistenza materiale e morale degli altri membri, ed in particolare di quelli più deboli e non autosufficienti, secondo le proprie infungibili capacità”.
L’attribuzione del congedo straordinario ai soli familiari già conviventi rispecchierebbe “una visione statica e presuntiva dell’organizzazione familiare, che può rivelarsi incompatibile con la necessità di prendersi cura, dall’oggi al domani, di una persona divenuta gravemente disabile, nonché non coerente con il moderno dispiegarsi dell’esistenza umana”. Le necessità che conducono i figli ad allontanarsi dal nucleo familiare di origine non possono “costituire ostacolo alla concreta attuazione dell’inderogabile principio solidaristico di cuiall’art. 2 Cost.”, giacché è proprio l’assenza di convivenza a imporre al figlio “di richiedere il congedo straordinario, non avendo altro modo di prestare assistenza continuativa al genitore disabile che si trovi nella situazione di non avere nessun altro famigliare in grado di fornire adeguato sostegno”.
Il rimettente soggiunge che il principio di solidarietà ben potrebbe essere attuato imponendo l’obbligo di convivenza durante la fruizione del congedo.
L’assetto restrittivo delineato dal legislatore si porrebbe in conflitto anche conl’art. 3 Cost., poiché determinerebbe “un’evidente disparità di trattamento … tra coloro che liberamente possono scegliere il luogo in cui risiedere (e dunque convivere con il genitore) e quanti, invece, per ragioni indipendenti dalla loro volontà, non possono compiere tale scelta, come avviene nel caso di specie”.
Il rimettente, a tale riguardo, denuncia anche la violazione degliartt. 4 e 35 Cost.L’individuazione dei beneficiari in base al requisito della convivenza sarebbe all’origine di una discriminazione arbitraria, legata alla tipologia del lavoro svolto.
La disposizione censurata, inoltre, nel subordinare la concessione del congedo straordinario al requisito della convivenza, si porrebbe “in contrasto con il combinato disposto di cui agliartt. 2 e 3 Cost.”.La normativa in esame richiederebbe “un requisito ulteriore rispetto a quanto previsto dalla disciplina di altri istituti aventi la medesima finalità assistenziale”, come i permessi disciplinati dall’art.33, comma 3, dellaL. 5 febbraio 1992, n. 104(Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), che prescindono dal presupposto della convivenza.
Sarebbe irragionevole una disciplina difforme “di istituti preordinati alla tutela dei medesimi valori costituzionali, attuati attraverso il medesimo strumento solidaristico della famiglia” e tale irragionevolezza sarebbe palese nel caso di specie, che vede il ricorrente, pur beneficiario dei permessi di cui all’art.33, comma 3, dellaL. n. 104 del 1992, escluso dal congedo straordinario in ragione della mancanza di una convivenza preesistente.
2.- È intervenuto in giudizio, con atto depositato il 10 aprile 2018, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare inammissibile o comunque non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal TAR Lombardia.
La difesa dell’interveniente, in linea preliminare, lamenta che il giudice a quo non abbia descritto la patologia del genitore del ricorrente e non abbia chiarito se l’infermità rientri tra quelle gravi, le sole che danno titolo al beneficio, in base all’art.4, commi 2 e 4, dellaL. 8 marzo 2000, n. 53(Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città). Tale lacuna nella descrizione della fattispecie concreta si tradurrebbe nella manifesta inammissibilità della questione per omessa motivazione sulla rilevanza.
Nel merito, la questione sarebbe manifestamente infondata.
La giurisprudenza costituzionale richiamata dal rimettente avrebbe progressivamente esteso i beneficiari del congedo straordinario, sempre sul presupposto di una preesistente convivenza con il disabile, funzionale ad assicurare un’assistenza continuativa al congiunto disabile e a “verificare nella sua effettività la funzione di supplenza affidata alla famiglia”.
La scelta di subordinare a tale requisito il godimento di un beneficio, che implica pur sempre “una deroga alla disciplina generale del rapporto di lavoro”, varrebbe a contemperare le esigenze della tutela del disabile all’interno della famiglia con la necessità di salvaguardare la regolarità del rapporto di lavoro e di servizio.
Quanto ai permessi retribuiti, che raggiungono l’ammontare massimo di tre giorni mensili, non sarebbero comparabili con il congedo straordinario retribuito fino a due anni, che non mira a garantire “forme di assistenza temporanee”, ma “un’assistenza stabile da parte dei componenti del nucleo familiare”.

Motivi della decisione

1.- Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione terza, dubita della legittimità costituzionale dell’art.42, comma 5, delD.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151(Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo15dellaL. 8 marzo 2000, n. 53), con specifico riguardo alla disciplina del congedo straordinario retribuito concesso al figlio per l’assistenza al padre gravemente disabile.
1.1.- Il rimettente assume che la disposizione censurata attribuisca al figlio tale congedo, a condizione che già conviva con il padre al momento della presentazione della domanda.
A favore dell’interpretazione prescelta dal rimettente e accreditata dal Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, sezione seconda, parere n. 2584, reso il 1 agosto 2014, in relazione a un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto da un agente di polizia penitenziaria), militano il dettato letterale e l’argomento teleologico.
Quanto alla lettera della legge, il riferimento al “figlio convivente” evoca una convivenza già instaurata al momento della formulazione della richiesta. Il dato testuale è poi corroborato dalla finalità dell’istituto del congedo straordinario, che si prefigge di tutelare la continuità dell’assistenza e in quest’ottica presuppone la prossimità del beneficiario al familiare disabile.
Il rimettente censura, in riferimento a molteplici parametri costituzionali, la scelta di subordinare la concessione del congedo straordinario al presupposto della “preesistente convivenza del figlio richiedente il beneficio con il genitore da assistere”.
Sarebbe violato, anzitutto, “il combinato disposto di cui agliartt. 2, 29 e 32 Cost.”, che affida a ogni componente della famiglia il compito di assistere il disabile. Al “dovere di solidarietà, che vincola comunitariamente ogni congiunto” fa riscontro il “corrispondente diritto del singolo di provvedere all’assistenza materiale e morale degli altri membri, ed in particolare di quelli più deboli e non autosufficienti, secondo le proprie infungibili capacità”.
La scelta di porre la preesistente convivenza come “prerequisito” indispensabile per il godimento del beneficio rispecchierebbe, per un verso, una concezione restrittiva dell’assistenza familiare, limitata al solo nucleo convivente, e, per altro verso, “una visione statica e presuntiva dell’organizzazione familiare, che può rivelarsi incompatibile con la necessità di prendersi cura, dall’oggi al domani, di una persona divenuta gravemente disabile”.
Il figlio che non convive con il genitore non avrebbe altra scelta che richiedere un congedo straordinario, “non avendo altro modo di prestare assistenza continuativa al genitore disabile che si trovi nella situazione di non avere nessun altro famigliare in grado di fornire adeguato sostegno”.
Le necessità che, secondo “il moderno dispiegarsi dell’esistenza umana”, conducono i figli ad allontanarsi dalla famiglia d’origine non potrebbero in nessun caso ostacolare la “concreta attuazione dell’inderogabile principio solidaristico di cuiall’art. 2 Cost.”, attuazione che ben potrebbe essere garantita mediante l’imposizione di un obbligo di convivenza “durante la fruizione del congedo”.
La scelta legislativa di subordinare il beneficio del congedo straordinario a una convivenza “che deve sussistere al momento della presentazione della domanda” è censurata anche per il contrasto conl’art. 3 Cost.Il rimettente ravvisa un’ingiustificata disparità di trattamento “tra coloro che liberamente possono scegliere il luogo in cui risiedere (e dunque convivere con il genitore) e quanti, invece, per ragioni indipendenti dalla loro volontà, non possono compiere tale scelta”.
Una disciplina così congegnata sarebbe lesiva, in pari tempo, degliartt. 4 e 35 Cost., poiché discriminerebbe “i soggetti legittimati ad ottenere il beneficio in questione in ragione del tipo di lavoro svolto”.
Il principio di eguaglianza sarebbe leso anche sotto un distinto profilo, che riguarda l’ingiustificata disparità di trattamento tra il congedo straordinario e i permessi previsti dall’art.33, comma 3, dellaL. 5 febbraio 1992, n. 104(Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate).
Pur trattandosi di istituti “preordinati alla tutela dei medesimi valori costituzionali, attuati attraverso il medesimo strumento solidaristico della famiglia”, il legislatore, senza una ragionevole giustificazione, differenzierebbe i requisiti per godere dei rispettivi benefici, in violazione del “combinato disposto di cui agliartt. 2 e 3 Cost.”.Per accedere ai permessi non sarebbe più necessaria la convivenza, per contro richiesta con riguardo al congedo straordinario retribuito. L’irragionevolezza emergerebbe in maniera nitida nel caso di specie, che vede il ricorrente, pur ammesso a fruire dei permessi, escluso dalla possibilità di beneficiare del congedo straordinario.
1.2.- La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata nel corso di un giudizio instaurato da un agente penitenziario, che ha rivendicato il diritto a un periodo di congedo straordinario retribuito per l’assistenza al padre in condizioni di disabilità grave e ha dedotto l’illegittimità del provvedimento dell’amministrazione, che ha rigettato l’istanza per la mancanza di una preesistente convivenza.
2.- L’Avvocatura generale dello Stato, per l’intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri, ha eccepito la manifesta inammissibilità della questione in ragione dell’omessa motivazione sulla rilevanza. Il rimettente non avrebbe offerto alcun ragguaglio sulle patologie del padre del ricorrente nel giudizio principale e tale profilo sarebbe determinante ai fini dell’accoglimento della domanda, poiché soltanto una disabilità grave potrebbe giustificare la concessione del congedo straordinario. La lacuna segnalata dall’Avvocatura generale dello Stato, pertanto, non potrebbe che riverberarsi sulla stessa adeguatezza della motivazione in ordine al profilo preliminare della rilevanza.
L’eccezione non è fondata.
Il giudice a quo argomenta che il ricorrente già gode dei permessi previsti dall’art.33, comma 3, dellaL. n. 104 del 1992, che presuppongono pur sempre, al pari del congedo straordinario, l’assistenza a una persona “con handicap in situazione di gravità”.
Alla luce di tale dato di fatto, ovvero della fruizione dei permessi, che il rimettente ha posto in risalto e che l’amministrazione non ha contestato in alcun modo, non si può ritenere lacunosa la motivazione sul presupposto della disabilità grave del genitore bisognoso di assistenza.
Come si evince dalla puntuale ricostruzione degli antecedenti della controversia, le contestazioni vertono sul solo requisito della pregressa convivenza e non investono gli altri presupposti per la concessione del beneficio, peraltro vagliati nella fase cautelare di primo grado con esito favorevole al ricorrente.
Alla stregua delle allegazioni acquisite nel giudizio principale, richiamate dal rimettente, la motivazione sulla rilevanza è sufficiente e supera lo scrutinio di ammissibilità demandato a questa Corte.
3.- La questione è fondata, nei termini e per i motivi di séguito esposti.
4.- Per l’assistenza a persona disabile il legislatore prevede, oltre alle provvidenze dei permessi e del trasferimento, disciplinate dall’art.33dellaL. n. 104 del 1992, l’istituto del congedo straordinario, circoscritto a ipotesi tassative e contraddistinto da presupposti rigorosi.
Il congedo spetta solo per l’assistenza a persona in condizioni di disabilità grave, debitamente accertata, che si ravvisa solo in presenza di una minorazione, “singola o plurima”, che “abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione” (art.3, comma 3, dellaL. n. 104 del 1992).
Il legislatore predetermina i limiti temporali del congedo, che “non può superare la durata complessiva di due anni per ciascuna persona portatrice di handicap e nell’arco della vita lavorativa” (art. 42, comma 5-bis, delD.Lgs. n. 151 del 2001), e definisce la misura del trattamento economico spettante al lavoratore.
Il congedo straordinario è retribuito con “un’indennità corrispondente all’ultima retribuzione, con riferimento alle voci fisse e continuative del trattamento” e si configura come un periodo di sospensione del rapporto di lavoro, coperto da contribuzione figurativa. L’indennità e la contribuzione non possono superare “un importo complessivo massimo di Euro 43.579,06 annui per il congedo di durata annuale”, importo che è “rivalutato annualmente, a decorrere dall’anno 2011, sulla base della variazione dell’indice Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati” (art. 42, comma 5-ter, primo e secondo periodo, delD.Lgs. n. 151 del 2001).
La concessione di tale beneficio si accompagna a ulteriori limitazioni, che sanciscono l’irrilevanza del relativo periodo “ai fini della maturazione delle ferie, della tredicesima mensilità e del trattamento di fine rapporto” (art. 42, comma 5-quinquies, primo periodo, delD.Lgs. n. 151 del 2001).
Sul versante soggettivo, il legislatore stabilisce che il congedo straordinario, al pari dei permessi di cui all’art.33, comma 3, dellaL. n. 104 del 1992, non possa essere riconosciuto a più di un lavoratore per l’assistenza alla stessa persona (art. 42, comma 5-bis, terzo periodo, delD.Lgs. n. 151 del 2001) e delinea una precisa gerarchia dei beneficiari (art. 42, comma 5).
Il congedo spetta, in primo luogo, al coniuge convivente, che è legittimato a goderne “entro sessanta giorni della richiesta”. In caso di mancanza, di decesso o di patologie invalidanti del coniuge convivente, subentrano “il padre o la madre anche adottivi”. La mancanza, il decesso o le patologie invalidanti dei genitori conferiscono a uno dei figli conviventi il diritto di richiedere il congedo straordinario, che è poi riconosciuto in favore di uno dei fratelli o delle sorelle conviventi quando anche i figli conviventi manchino, siano deceduti o soffrano di patologie invalidanti.
Con la sentenza n. 203 del 2013, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.42, comma 5, delD.Lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui non annoverava tra i beneficiari del congedo straordinario anche i parenti o gli affini entro il terzo grado conviventi, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti degli altri soggetti individuati dalla disposizione censurata.
5.- Dapprima riconosciuto ai soli genitori e, in caso di loro scomparsa, ai fratelli o alle sorelle conviventi con la persona in condizioni di disabilità grave in atto da almeno cinque anni e che abbiano titolo a fruire dei permessi retribuiti di cui all’art.33dellaL. n. 104 del 1992(art.80, comma 2, dellaL. 23 dicembre 2000, n. 388, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001”), il congedo straordinario ha visto progressivamente estendersi l’àmbito di applicazione, per impulso del legislatore e della giurisprudenza di questa Corte.
Con l’introduzione dell’art.3, comma 106, dellaL. 24 dicembre 2003, n. 350, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2004)”, il legislatore ha svincolato il beneficio dal presupposto della permanenza da almeno cinque anni della situazione di disabilità grave.
Questa Corte, nel sindacare la legittimità costituzionale dell’art.42, comma 5, delD.Lgs. n. 151 del 2001, ha gradualmente ampliato la platea dei beneficiari e vi ha incluso dapprima i fratelli o le sorelle conviventi con il disabile, anche nell’ipotesi in cui i genitori siano impossibilitati a provvedere all’assistenza del figlio perché a loro volta inabili (sentenza n. 233 del 2005), e successivamente, in via prioritaria rispetto agli altri congiunti, il coniuge convivente (sentenza n. 158 del 2007) e, nell’ipotesi di assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura del disabile, il figlio convivente (sentenza n. 19 del 2009).
Con ilD.Lgs. 18 luglio 2011, n. 119(Attuazione dell’articolo23dellaL. 4 novembre 2010, n. 183, recante delega al Governo per il riordino della normativa in materia di congedi, aspettative e permessi), il legislatore ha recepito le indicazioni offerte dalle pronunce citate e ha innovato i tratti distintivi dell’istituto, originariamente “concepito come strumento di tutela rafforzata della maternità in caso di figli portatori di handicap grave” (sentenza n. 203 del 2013, punto 3.4. del Considerato in diritto). Anche in conseguenza dell’estensione del novero dei beneficiari, il congedo straordinario ha finito così con l’assumere una portata via via più ampia, in armonia con l’esigenza di salvaguardare “la cura del disabile nell’àmbito della famiglia e della comunità di vita cui appartiene” e così di “tutelarne nel modo più efficace la salute, di preservarne la continuità delle relazioni e di promuoverne una piena integrazione” (sentenza n. 158 del 2018, punto 7.2. del Considerato in diritto).
Il congedo straordinario, riconducibile agli “interventi economici integrativi di sostegno alle famiglie” (sentenze n. 158 del 2007, punto 2.3. del Considerato in diritto, e n. 233 del 2005, punto 2.3. del Considerato in diritto), ne avvalora e ne incentiva il ruolo primario nell’assistenza al disabile e valorizza quelle “espressioni di solidarietà esistenti nel tessuto sociale e, in particolare, in ambito familiare, conformemente alla lettera e allo spirito della Costituzione, a partire dai principi di solidarietà e di sussidiarietà di cui agliartt. 2 e 118, quarto comma, Cost.” (sentenza n. 203 del 2013, punto 3.4. del Considerato in diritto).
Il diritto del disabile di “ricevere assistenza nell’àmbito della sua comunità di vita” (sentenza n. 213 del 2016, punto 3.4. del Considerato in diritto), inscindibilmente connesso con il diritto alla salute e a una integrazione effettiva, rappresenta il fulcro delle tutele apprestate dal legislatore e finalizzate a rimuovere gli ostacoli suscettibili di impedire il pieno sviluppo della persona umana.
Nella disciplina di sostegno alle famiglie che si prendono cura del disabile convergono non soltanto i valori della solidarietà familiare, ma anche “un complesso di valori che attingono ai fondamentali motivi ispiratori del disegno costituzionale” e impongono l’interrelazione e l’integrazione “tra i precetti in cui quei valori trovano espressione e tutela” (sentenza n. 215 del 1987, punto 6. del Considerato in diritto).
Sono coerenti con il descritto disegno costituzionale anche la Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con laL. 9 febbraio 1999, n. 30, che garantisce al disabile “l’effettivo esercizio del diritto all’autonomia, all’integrazione sociale ed alla partecipazione alla vita della comunità” (art. 15), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, che tutela “il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità” (art. 26) e la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e ratificata conL. 3 marzo 2009, n. 18, che, nel preambolo (punto x), prescrive di assicurare alle famiglie, “nucleo naturale e fondamentale della società”, la protezione e l’assistenza indispensabili per “contribuire al pieno ed uguale godimento dei diritti delle persone con disabilità”.
Nell’apprestare le misure necessarie a rendere effettivo il godimento di tali diritti e a contemperare tutti gli interessi costituzionali rilevanti, la discrezionalità del legislatore incontra dunque un limite invalicabile nel “rispetto di un nucleo indefettibile di garanzie per gli interessati” (sentenza n. 251 del 2008, punto 16. del Considerato in diritto).
6.- È alla luce di questi principi, enunciati dalla giurisprudenza costante di questa Corte, che occorre scrutinare la legittimità costituzionale della disposizione censurata.
6.1.- Nell’estendere il congedo straordinario oltre l’originaria cerchia dei genitori, il legislatore ha attribuito rilievo esclusivo alla preesistente convivenza con il disabile, al fine di salvaguardare quella continuità di relazioni affettive e di assistenza che trae origine da una convivenza già in atto. La convivenza non si esaurisce in un dato meramente formale e anagrafico, ma esprime, nella quotidiana condivisione dei bisogni e del percorso di vita, una relazione di affetto e di cura.
Tale presupposto, ispirato a una finalità di preminente tutela del disabile, rischia nondimeno, per una sorta di eterogenesi dei fini, di pregiudicarlo, quando manchino i familiari conviventi indicati in via prioritaria dalla legge e vi sia solo un figlio, all’origine non convivente, pronto a impegnarsi per prestare la necessaria assistenza.
In questa specifica circostanza, l’ancoraggio esclusivo al criterio della convivenza finisce con il vanificare la finalità del congedo straordinario. Quest’ultimo mira a colmare le lacune di tutela e a far fronte “alle emergenti situazioni di bisogno e alla crescente richiesta di cura che origina, tra l’altro, dai cambiamenti demografici in atto”, in particolare, a “quelle situazioni di disabilità che si possono verificare in dipendenza di eventi successivi alla nascita o in esito a malattie di natura progressiva o, ancora, a causa del naturale decorso del tempo” (sentenza n. 203 del 2013, punto 3.4. del Considerato in diritto).
Un criterio selettivo così congegnato compromette il diritto del disabile di ricevere la cura necessaria dentro la famiglia, proprio quando si venga a creare una tale lacuna di tutela e il disabile possa confidare – come extrema ratio – soltanto sull’assistenza assicurata da un figlio ancora non convivente al momento della richiesta di congedo.
Tali situazioni sono ugualmente meritevoli di adeguata protezione, poiché riflettono i mutamenti intervenuti nei rapporti personali e le trasformazioni che investono la famiglia, non sempre tenuta insieme da un rapporto di prossimità quotidiana, ma non per questo meno solida nel suo impianto solidaristico. Può dunque accadere che la convivenza si ristabilisca in occasione di eventi che richiedono la vicinanza – in questo caso fra padre e figlio – quale presupposto per elargire la cura al disabile. Il ricomporsi del nucleo familiare si caratterizza in questi casi per un ancor più accentuato vincolo affettivo.
Il requisito della convivenza ex ante, inteso come criterio prioritario per l’identificazione dei beneficiari del congedo, si rivela idoneo a garantire, in linea tendenziale, il miglior interesse del disabile. Tale presupposto, tuttavia, non può assurgere a criterio indefettibile ed esclusivo, così da precludere al figlio, che intende convivere ex post, di adempiere in via sussidiaria e residuale i doveri di cura e di assistenza, anche quando nessun altro familiare convivente, pur di grado più lontano, possa farsene carico.
Tale preclusione, in contrasto con gliartt. 2, 3, 29 e 32 Cost., sacrifica in maniera irragionevole e sproporzionata l’effettività dell’assistenza e dell’integrazione del disabile nell’àmbito della famiglia, tutelata dal legislatore mediante una disciplina ispirata a presupposti rigorosi e contraddistinta da obblighi stringenti.
6.2.- Il figlio che abbia conseguito il congedo straordinario ha difatti l’obbligo di instaurare una convivenza che garantisca al genitore disabile un’assistenza permanente e continuativa.
7.- Si deve dichiarare, pertanto, l’illegittimità costituzionale dell’art.42, comma 5, delD.Lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui non annovera tra i beneficiari del congedo straordinario ivi previsto, e alle condizioni stabilite dalla legge, il figlio che, al momento della presentazione della richiesta, ancora non conviva con il genitore in situazione di disabilità grave, ma che tale convivenza successivamente instauri, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge convivente, del padre e della madre, anche adottivi, dei figli conviventi, dei fratelli e delle sorelle conviventi, dei parenti o affini entro il terzo grado conviventi, legittimati a richiedere il beneficio in via prioritaria secondo l’ordine determinato dalla legge.
Restano assorbite le ulteriori censure prospettate dal rimettente in riferimentoall’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’arbitraria discriminazione dei lavoratori, censurata anche per violazione degliartt. 4 e 35 Cost., e dell’ingiustificata disparità di trattamento tra chi reclami il beneficio dei permessi riconosciuti dall’art.33, comma 3, dellaL. n. 104 del 1992e chi richieda il congedo straordinario.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.42, comma 5, delD.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151(Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo15dellaL. 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non include nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo ivi previsto, e alle condizioni stabilite dalla legge, il figlio che, al momento della presentazione della richiesta del congedo, ancora non conviva con il genitore in situazione di disabilità grave, ma che tale convivenza successivamente instauri, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge convivente, del padre e della madre, anche adottivi, dei figli conviventi, dei fratelli e delle sorelle conviventi, dei parenti o affini entro il terzo grado conviventi, legittimati a richiedere il beneficio in via prioritaria secondo l’ordine determinato dalla legge.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 novembre 2018.
Depositata in Cancelleria il 7 dicembre 2018.