Devono essere nominati tanti curatori speciali per quanti sono i figli minori solo in caso in cui si verifichi tra loro un reale conflitto di interessi

Cass. civ. Sez. I, 22 agosto 2018, n. 20940
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
T.O., rappresentato e difeso, giusta procura speciale stesa in calce al ricorso, dall’Avv.to Angelo Cugini, ed elettivamente domiciliato alla Via degli Scipioni n. 232 in Roma, presso lo studio del difensore, che ha pure indicato recapito PEC;
– ricorrente –
contro
Avv. C.V., nella qualità di curatore speciale dei minori G.S., e G.D., che ha indicato recapito PEC, ed eletto domicilio presso lo studio della società tra professionisti Vittorio e Giacomo Cangemi, alla via Nino Bixio n. 10 in Trapani;
– controricorrente –
– e nei confronti di:
T.T.H., madre dei minori;
– resistente non costituita –
avverso la sentenza n. 1994 del 21/10/2016, pronunciata dalla Corte d’Appello di Palermo e pubblicata il 31/10/2016;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Paolo Di Marzio;
raccolte le conclusioni rassegnate dal P.M. di udienza, Dott. Federico Sorrentino, che ha domandato il rigetto del ricorso;
ascoltata la discussione proposta dal difensore del ricorrente, Avv. Angelo Cugini.
la Corte osserva:
Svolgimento del processo
la cittadina vietnamita T.T.H. conveniva in giudizio il marito, G.G., innanzi al Tribunale di Trapani, proponendo, ai sensidell’art. 263 c.c., impugnazione per difetto di veridicità del riconoscimento di paternità operato dall’uomo in favore di due figli della donna. La madre affermava che il marito risultava affetto da impotentia generandi, come egli aveva riconosciuto innanzi ad un Pubblico Ufficiale, e pertanto non poteva essere il padre dei suoi figli. G.G. si costituiva ed aderiva alla prospettazione della moglie secondo cui egli non era il padre dei minori, nati negli anni 2000 e 2011, ma per ragioni diverse da quelle da lei invocate.
In realtà non erano suoi figli perché la moglie aveva avuto una pluralità di compagni. Si costituiva in giudizio anche il nominato curatore speciale dei minori.
Nel corso della trattazione della causa G.G. decedeva, ed il giudizio era riassunto dal suo erede testamentario, T.O..
Era anche disposta consulenza ematologica sui minori, che però non era espletata per omessa partecipazione dei minorenni alle operazioni peritali.
Il Tribunale di Trapani, ritenuta non raggiunta la prova del fondamento della domanda, rigettava l’impugnativa del riconoscimento dei figli.
T.O. contestava la decisione innanzi alla Corte d’Appello di Palermo criticando che la prova del difetto di veridicità del riconoscimento sarebbe stata in realtà fornita, in considerazione di una pluralità di elementi: il rifiuto dei minori di sottoporsi agli esami genetici, l’ammissione in giudizio di non essere il padre dei minori, effettuata da G.G. in persona; la dichiarazione a Pubblico Ufficiale, rilasciata dal preteso padre, secondo cui egli risultava affetto da impotentia generandi; l’omessa contestazione del difetto di paternità da parte dello stesso curatore speciale dei minori.
La Corte territoriale, con sintetica decisione, osservava che la paternità è uno status, e non può essere oggetto di confessione o non contestazione. Neppure poteva amplificarsi il rilievo delle dichiarazioni rilasciate da G.G. a Pubblico Ufficiale, perché il relativo verbale non investe la veridicità di simili dichiarazioni. La Corte di merito ha poi osservato che, dell’affermato rifiuto dei minori di sottoporsi alle prove ematologiche, non vi era prova in atti. In conseguenza, rigettava l’impugnazione della veridicità del riconoscimento.
Avverso la decisione assunta dalla Corte d’Appello di Palermo ha proposto impugnazione per cassazione T.G., affidandosi a due motivi di ricorso. Resiste con controricorso il curatore speciale dei minori. La madre di questi ultimi non si è costituita.
Motivi della decisione
1.1. – Il ricorrente, mediante il primo motivo d’impugnazione, proponendo la propria censura ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, contesta la violazione o falsa applicazionedell’art. 116 c.p.c., per avere la Corte d’Appello erroneamente valutato il materiale probatorio raccolto e sottovalutato il rilievo del rifiuto dei minori di sottoporsi alle prove ematologiche, mentre in materia di filiazione la Ctu “ha carattere percipiente e, dunque, ha funzione di mezzo di prova” (ric. p. 5) decisivo.
1.2. – Il ricorrente, con il secondo motivo di ricorso, proponendo la propria critica ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, contesta la violazione o falsa applicazionedell’art. 78 c.p.c.eart. 320 c.c., per avere la Corte d’Appello trascurato di rilevare che in un giudizio di cui siano parti più minori deve evitarsi “che vi sia un unico soggetto incaricato di occuparsi di situazioni potenzialmente confliggenti”, e pertanto censura la Corte territoriale per non aver nominato “tanti curatori speciali per quanti sono i soggetti minori” (ric. p. 7).
2.1. – Il ricorrente contesta, con il primo motivo di ricorso, che la Corte d’Appello ha mal valutato le prove raccolte in corso di causa. Il giudizio di impugnazione per difetto di veridicità, infatti, era stato introdotto dalla madre, che aveva pure conseguito la piena adesione (anche se invocando diversa causa) dello stesso preteso padre, il quale aveva operato, anni prima, il riconoscimento dei minori. Inoltre, la Corte palermitana aveva trascurato pure il rilievo della relazione genetica redatta dalla soc. Genoma Srl., la quale aveva attestato l’incompatibilità genetica tra il preteso padre ed i figli riconosciuti. In particolare, poi, la Corte territoriale aveva mancato di assegnare il giusto rilievo al comportamento significativo dei minori, i quali si erano rifiutati di sottoporsi ai test ematologici, necessari per accertare la loro compatibilità genetica con G.G., che li aveva riconosciuti come figli.
Il ricorrente prospetta, pur invocando il vizio di violazione di legge, l’erroneità del giudizio della Corte d’Appello nella valutazione del materiale probatorio acquisito in corso di causa. In realtà la Corte territoriale, nella sua pur laconica decisione, ha affrontato le problematiche sollevate in questa sede dal ricorrente, ed a tutte ha assicurato replica, proponendo argomenti che non sono stati fatti oggetto di specifica contestazione da parte del ricorrente.
La Corte territoriale ha osservato, in riferimento all’adesione di G.G. all’azione di impugnazione proposta dalla moglie, e della non opposizione alla pronuncia richiesta da parte del curatore dei minori, che la paternità “è uno status che attiene a diritti indisponibili e che, pertanto, non può essere oggetto di confessione o di non contestazione” (sent. C. d’A., p. 2). Neppure poteva amplificarsi, ha osservato la Corte palermitana, il rilievo delle dichiarazioni rilasciate da G.G. a Pubblico Ufficiale, perchè il relativo verbale, “ai sensidell’art. 2700 c.c., non investe la veridicità delle dichiarazioni medesime” (sent. C. d’A., ibidem). La Corte di merito ha concentrato quindi l’attenzione sull’affermato rifiuto dei minori di sottoporsi alle prove ematologiche, ed ha osservato che di un simile rifiuto non vi era prova in atti, non trovando attendibile smentita l’affermazione della sentenza di primo grado secondo cui i minori risultavano irreperibili. Tutti questi argomenti non vengono contrastati mediante contestazioni specifiche dal ricorrente, che domanda piuttosto un riesame nel merito del materiale probatorio raccolto nei gradi di merito, non consentito in sede di giudizio di legittimità.
Il motivo di ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile.
2.2. – Il ricorrente contesta con il secondo motivo di ricorso, invocando la violazione di legge, che la Corte d’Appello non ha provveduto a nominare curatori speciali diversi per i due figli minori, essendo configurabile un potenziale conflitto di interessi tra loro. Invero il ricorrente non esplica da quale disposizione dovrebbe desumersi che, qualora siano parti del giudizio più soggetti di età minore, sarebbe necessario nominare a ciascuno di essi un diverso curatore speciale; non dispongono in tal senso, invero, nél’art. 320 c.c., nél’art. 78 c.p.c., indicati dal ricorrente. L’argomento risulta, inoltre, mal proposto. Il ricorrente rileva che alla nomina di un curatore speciale distinto per ciascuno di due fratelli di età minore, coinvolti in un procedimento giudiziario, dovrebbe procedersi in presenza di un conflitto di interessi tra loro non necessariamente reale, ma anche solo potenziale. Questo orientamento, invero, risulta condiviso anche dalla giurisprudenza di legittimità. Deve però evidenziarsi che il ricorrente non ha indicato quali valutazioni inducano a ritenere che potesse, anche in via soltanto astratta ed ipotetica, verificarsi un conflitto di interesse tra i due fratelli nel caso di specie, in quanto non sussiste un conflitto di interessi in re ipsa, per il sol fatto che due soggetti di età minore siano parti di un giudizio, in posizioni processuali non contrapposte. A tanto deve aggiungersi chel’art. 78 c.p.c., prevede la nomina del curatore speciale “quando vi è un conflitto di interessi”, tra rappresentante e rappresentato di età minore (anche solo “potenziale”, cfr. Cass. sez. 1, sent., 2.2.2016, n. 1957) e non tra persone minorenni processualmente consorti.
Il motivo di ricorso deve, in conseguenza, essere respinto. Il ricorso deve essere pertanto rigettato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso proposto da T.O., che condanna al pagamento delle spese di lite in favore di C.V., nella qualità di curatore speciale dei minori, e le liquida in complessivi Euro 2.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie, nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 116 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Dispone, ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196,art.52, comma 5, che, in caso di riproduzione per la diffusione della presente decisione, le generalità e gli altri dati identificativi delle parti e dei soggetti menzionati siano omessi.

Anche il nonno “non biologico” ha legittimazione per far valere il proprio diritto ad una relazione affettiva stabile con il minore Il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., proposto avverso il provvedimento emesso in sede di reclamo, ai sensi dell’art. 739 c.p.c. e art. 336 c.c., deve ritenersi ammissibile.

Cass. civ. Sez. I, 25 luglio 2018, n. 19780
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22766/2017 proposto da:
B.C. e P.D., elettivamente domiciliati in Roma, Via Sistina n.42, presso lo studio dell’avvocato Giorgianni Francesco, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati Galizia Danovi Anna, Martuccelli Carlo, giusta procura speciale per Notaio dott. Pa.Ma. di Roma – Rep.n. (OMISSIS);
– ricorrenti –
contro
B.F., S.G., elettivamente domiciliati in Roma, Via Caio Mario n.27, presso lo studio dell’avvocatoSrubek Tomassy Chiara, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Carugno Cuccia Raffaella, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
contro
B.B., B.V., Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione;
– intimati –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositato il 28/06/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/06/2018 dal cons. VALITUTTI ANTONIO.
Svolgimento del processo
1. Con ricorso depositato il 3 novembre 2015, B.C. e P.D. chiedevano al Tribunale per i minorenni di Roma di riconoscere ai ricorrenti il diritto di mantenere rapporti significativi – interrotti o comunque resi assai difficoltosi dai genitori – con le nipoti minorenni B.B. e V., ai sensi dell’art. 317 bis c.c., con ogni conseguente statuizione di legge. Il Tribunale adito, con decreto del 5 aprile 2016, dichiarava il difetto di legittimazione in capo alla P. – in quanto seconda moglie del nonno e, quindi, non ascendente, a sua volta, delle minori – ed accoglieva la domanda proposta dal B..
2. Con decreto depositato il 28 giugno 2017, la Corte d’appello di Roma rigettava il reclamo incidentale della P. e del B., in punto legittimazione della prima al ricorso, ed accoglieva parzialmente il reclamo principale di B.F. e di S.G., genitori delle due bambine, riducendo il tempo di permanenza delle medesime presso il nonno. La Corte – pur dando atto della abituale frequentazione anche della P. da parte delle due bambine – reputava insuperabile la lettera dell’art. 317 bis c.c., che legittima all’azione solo gli “ascendenti”, ossia le persone legate alle minori da parentela in linea retta.
3. Per la cassazione di tale sentenza hanno, quindi, proposto ricorso B.C. e P.D. nei confronti di B.F. e di S.G., affidato a quattro motivi, illustrati con memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 1. I resistenti hanno replicato con controricorso. Gli intimati B.B., B.V. e Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione non hanno svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
1. In via pregiudiziale, la Corte è tenuta ad affrontare – con rilievo d’ufficio, non avendo nessuna delle parti sollevato la questione, sottratto altresì alla regola espressadall’art. 384 c.p.c., comma 3, (che impone al giudice di provocare il contraddittorio sulla questione rilevata d’ufficio), che si applica alle sole decisioni nel merito (Cass., 20/07/2011, n. 15964; Cass. Sez. U., 21/06/2007, n. 14385) – il dibattuto problema concernente l’ammissibilità del ricorso per cassazione proposto avverso il provvedimento emesso in sede di reclamo, exart. 739 c.p.c., nei confronti del decreto reso dal tribunale per i minorenni ai sensidell’art. 336 c.c., espressamente richiamato dalla novellata norma dell’art. 317 bis c.c..
1.1. Orbene, secondo il tradizionale orientamento di questa Corte, i provvedimenti modificativi, ablativi o restitutivi della potestà dei genitori, resi dal giudice minorile ai sensi degliartt. 330, 332, 333 e 336 c.c.(oggi richiamato, come dianzi detto, anche dall’art. 317 bis c.c.), configurano espressione di giurisdizione volontaria non contenziosa, in quanto non risolvono conflitti fra diritti posti su un piano paritario, ma sono preordinati all’esigenza prioritaria della tutela degli interessi dei figli e sono, altresì, soggetti alle regole generali del rito camerale, sia pure con le integrazioni e specificazioni previste dalle citate norme. Con la conseguenza che detti provvedimenti, sebbene adottati dalla corte d’appello in esito a reclamo, non sono idonei ad acquistare autorità di giudicato, nemmeno “rebus sic stantibus”, in quanto modificabili e revocabili non solo “ex nunc”, per nuovi elementi sopravvenuti, ma anche “ex tunc”, per un riesame (di merito o di legittimità) delle originarie risultanze. Di talché – secondo tale indirizzo – essi esulano dalla previsionedell’art. 111 Cost.e non sono, pertanto, impugnabili neppure con ricorso straordinario per cassazione (cfr. ex plurimis, Cass., 17/06/2009, n. 14091; Cass., 14/05/2010, n. 11756; Cass., 31/05/2012, n. 8778; Cass., 13/09/2012, n. 15341; Cass., i 22/09/2016, n. 18562).
Non era mancata in verità, anche in passato, qualche sporadica pronuncia di segno contrario, nella quale si era affermato che sono impugnabili con ricorso per cassazione, ai sensidell’art. 111 Cost., i provvedimenti emessi ai sensidell’art. 330 c.c.e quelli resi in via provvisoria ed urgente exart. 333 c.c., in quanto incidono comunque – sia pure non in una procedura contenziosa – su posizioni di diritto soggettivo in conflitto (Cass. Sez. U., 09/01/2001, n.1; Cass., 16/06/1983, n. 4128; Cass., 07/11/1985, n. 5408). Ma l’indirizzo successivo si è subito affrettato a smentire la tesi, tornando a rinchiudersi a riccio nella prescelta opzione di considerare non ricorribili i decreti in parola, poiché mancanti del requisito della definitività e della intangibilità, riconoscibile ai soli provvedimenti aventi attitudine al passaggio in cosa giudicata.
1.2. E tuttavia, tale indirizzo non ha incontrato il consenso della dottrina assolutamente prevalente, che più volte si è espressa in senso fortemente critico al riguardo, per diversi ordini di ragioni.
Non si è mancato, anzitutto, di osservare che l’opzione interpretativa prescelta dall’indirizzo maggioritario della Corte Suprema non terrebbe conto della tendenziale definitività, rebus sic stantibus, dei provvedimenti in parola, essendo tutt’altro che scontata la possibilità di modificarli o revocarli anche ex tunc, in forza della mera rivalutazione delle circostanze preesistenti alla pronuncia. La limitazione – sostenuta da tale dottrina – della modifica e della revoca di detti provvedimenti alle sole sopravvenienze – o, al più, anche alle circostanze preesistenti, ma soltanto se non dedotte in precedenza dalla parte interessata – con la conseguente incisione sui decreti camerali esclusivamente ex nunc, comporterebbe, pertanto, un’indiscutibile stabilità degli stessi, allo stato degli atti, aprendo la strada al ricorso exart. 111 Cost.
Si è rilevato, poi, che il predetto orientamento di legittimità sarebbe inspiegabilmente ed irragionevolmente distonico rispetto a quello adottato dalla stessa Corte nella materia dell’affidamento dei minori, nella quale la ricorribilità per cassazione dei provvedimenti emessi in sede di reclamo è pacifica, sebbene l’art. 337 quinquies c.c. eart. 710 c.p.c.lascino intravedere nel loro tenore letterale – ben più dei provvedimenti de potestate – una modificabilità e revocabilità “piene”.
Nell’ottica del bilanciamento degli interessi in gioco, si è, da ultimo, osservato che l’incisione dei provvedimenti in parola su diritti, anche costituzionalmente garantiti (artt. 2 e 30 Cost.), e su status, renderebbe senz’altro preferibile ed auspicabile una soluzione più garantistica, che riconosca la possibilità del ricorso per cassazione exart. 111 Cost..
1.3. L’impostazione tradizionale seguita dalla giurisprudenza di legittimità è stata, alla fine, sottoposta a revisione critica da questa Corte, che ha sostanzialmente recepito le summenzionate sollecitazioni provenienti dalla dottrina pressoché unanime.
Si è, per vero, affermato che – anche alla luce delle recenti modifiche apportateall’art. 38 disp. att. c.c.dallaL. n. 219 del 2012, che ha attribuito al giudice ordinario anche i procedimenti exartt. 330 e 333 c.c., “nell’ipotesi in cui sia in corso tra le stesse parti giudizio di separazione o divorzio”, con conseguente pacifica ammissibilità, in tal caso, del ricorso per cassazione – deve essere superato l’orientamento secondo il quale i provvedimenti “de potestate” che attengono alla compressione della titolarità della responsabilità genitoriale (ovvero i provvedimenti di decadenza o limitativi di cui, rispettivamente, agliartt. 330 e 333 c.c.), poiché vengono assunti nell’interesse del solo minore, a prescindere dalle richieste dei genitori, non sono idonei ad acquisire valenza di giudicato rebus sic stantibus. Con la conseguenza che il ricorso straordinario per cassazione exart. 111 Cost., avverso il decreto emesso in sede di reclamo dalla Corte d’appello, deve essere dichiarato inammissibile.
Essendo indubitabile che il decreto adottato dal tribunale per i minorenni, con il quale si dispone la decadenza o la limitazione della responsabilità genitoriale, incide su diritti di natura personalissima, di primario rango costituzionale, deve – per converso – ritenersi che tale provvedimento, emanato peraltro all’esito di un procedimento che si svolge con la presenza di parti processuali in conflitto tra loro, abbia attitudine al cd. giudicato rebus sic stantibus. Tale provvedimento non è, invero, né revocabile né modificabile, se non per la sopravvenienza di fatti nuovi, e non per la mera rivalutazione delle circostanze preesistenti già esaminate. Pertanto, dopo che la Corte d’appello lo abbia confermato, revocato o modificato in sede di reclamo exart. 739 c.p.c., il decreto camerale – secondo l’orientamento innovativo in esame – acquista una sua definitività, ed è senz’altro impugnabile con il ricorso per cassazione che va, di conseguenza, ritenuto pienamente ammissibile (cfr. Cass., 29/01/2016, n. 1743; Cass., 29/01/2016, n. 1746; Cass., 21/11/2016, n. 23633).
1.4. Tutto ciò premesso, ritiene la Corte che tale ultimo indirizzo – che assume uno specifico rilievo nella presente controversia, atteso il richiamo al procedimento camerale exart. 336 c.c., operato dall’art. 317 bis dello stesso codice – debba essere confermato in questa sede, per le ragioni che si passa ad esporre.
1.4.1. Per intanto, va precisato che non si ravvisa la necessità di (rimettere l’esame della questione alle Sezioni Unite, considerato che l’indirizzo summenzionato – al quale si intende aderire – rappresenta, men che un’opzione interpretativa in contrasto con quella sostenuta in precedenza, piuttosto una rivisitazione dell’indirizzo tradizionale necessitata da ragioni obiettive, connesse alla menzionata novella dell’art. 38 disp. att., introdotta dalla L. 10 dicembre 2002, n. 219, art. 3, comma 1, nonché alla mutata veste assunta dal minore nei procedimenti giurisdizionali che lo riguardano.
Ed invero, proprio con riferimento all’ipotesi – ricorrente nella specie – del procedimento finalizzato all’accertamento del diritto del minore a conservare rapporti significativi con gli ascendenti, questa Corte ha – ormai da tempo – affermato che il minore assume la qualità di parte e, in quanto tale, come affermato anche dall’art. 315 bis c.c., introdotto dallaL. 10 dicembre 2012, n. 219, ha diritto di essere ascoltato, purché abbia compiuto gli anni dodici, ovvero, sebbene di età inferiore, sia comunque capace di discernimento (Cass., 05/03/2014, n. 5097; Cass. Sez. U., 21/10/2009, n. 22238). Ebbene è di tutta evidenza che la mutata veste del minore, ormai “parte” del processo come le altre, nei giudizi che lo riguardano, vale a trasformare tali giudizi – ancorché non contenziosi – in procedimenti che comunque dirimono conflitti tra posizioni soggettive diverse. Ed il rilievo trova una chiara conferma nella previsione secondo cui il genitore investito dalla richiesta di decadenza o di compressione della potestà (nel caso dell’art. 317 bis, il nonno), ed il minore ultradodicenne (ed anche infradodicenne, se capace di discernimento), devono essere sentiti e devono essere assistiti da un difensore (art. 336 c.c., commi 2 e 4).
1.4.2. Ciò posto, al fine di evidenziare le ragioni che inducono ad aderire all’orientamento più innovativo, va anzitutto osservato che, anche a voler restare aderenti al tenore letterale delle disposizioni che disciplinano l’affidamento dei minori e di quelle in materia di incisione sulla responsabilità genitoriale (ed oggi anche sul cd. diritto di visita dei nonni), risulta evidente che il dato testuale non rivela una maggior stabilità nelle misure sull’affidamento dei minori, di quanto non faccia per i provvedimenti de potestate. Nei primi, anzi, le formule usatenell’art. 710 c.p.c.e nell’art. 337 quinquies c.c. – del tutto generiche ed aspecifiche, quanto alle ragioni legittimanti la richiesta di revisione – fanno pensare a una revocabilità “piena”, mentre un riferimento alla stabilità rebus sic stantibus affiora piuttostonell’art. 332 c.c.sul reintegro della responsabilità genitoriale, stante il riferimento testuale alla sopravvenuta cessazione delle ragioni per le quali la decadenza era stata pronunciata.
Eppure è pacifico – nella giurisprudenza di questa Corte – che il decreto pronunciato dalla corte d’appello in sede di reclamo avverso il provvedimento del tribunale in materia di modifica delle condizioni della separazione personale, concernenti – non soltanto le questioni patrimoniali – ma anche l’affidamento dei figli ed il rapporto con essi, ha carattere decisorio e definitivo ed è, pertanto, ricorribile in cassazione ai sensidell’art. 111 Cost.(cfr., ex plurimis, Cass., 26/03/2015, n. 6132; Cass., 10/05/2013, n. 11218; Cass., 06/11/2006, n. 23673; Cass., 28/08/2006, 18627).
Ebbene, tale difformità di indirizzo – giustificata sulla base del rilievo che i provvedimenti de potestate non avrebbero l’attitudine ad assumere valenza di giudicato rebus sic stantibus, poiché non attinenti all’esercizio della potestà genitoriale come quelli in materia di affidamento, ma soltanto alla compressione della titolarità di tale responsabilità, e che la loro assunzione avverrebbe nell’esclusivo interesse del minore – non può più essere mantenuta.
1.4.3. Come ben ha rilevato la citata decisione di questa Corte n. 23633/2016, invero, sotto il primo profilo non si tiene conto del fatto che il più contiene il meno, “sicché l’esercizio della responsabilità ben può essere regolato attraverso la sua (parziale o totale) compressione”. Sotto il secondo profilo, non si considera che anche nei giudizi di separazione, di divorzio, o promossi ai sensidell’art. 316 c.c., “i provvedimenti concernenti l’affidamento dei minori sono assunti nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole”; e nondimeno, in siffatti giudizi, la ricorribilità per cassazione – come detto – non viene in alcun modo posta in discussione.
Ma vi è di più. La modificadell’art. 38 disp. att. c.c., introdotta dallaL. n. 219 del 2012, ha attribuito al giudice ordinario anche i procedimenti exartt. 330 e 333 c.c., “nell’ipotesi in cui sia in corso tra le stesse parti giudizio di separazione o divorzio”, con conseguente pacifica ammissibilità, in tal caso, del ricorso per cassazione. Ne discende che sarebbe oltremodo contraddittorio ed illogico – con evidenti ricadute sul piano costituzionale (artt. 3 e 24 Cost.) – continuare ad attribuire ai soli provvedimenti emessi dal giudice ordinario in materia di affidamento dei figli minori l’attitudine al cd. giudicato rebus sic stantibus, con conseguente ammissibilità del ricorso per cassazione, negando siffatta attitudine ai provvedimenti de potestate, emessi dallo stesso giudice, sebbene sia gli uni che gli altri siano soggetti a modifica o revoca solo in presenza di mutamenti delle circostanze.
Ed è di palese evidenza che tale differenziazione di regime giuridico dei provvedimenti in parola non potrebbe in alcun modo essere giustificata, in caso di provvedimenti ablatori o limitativi della potestà genitoriale (artt. 330 e 333 c.c.), o di provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 317 bis c.c., neppure per il fatto che si tratti di provvedimenti ordinariamente – al di fuori del caso suindicato – resi dal tribunale per i minorenni e non dal giudice ordinario, non potendo la giustificazione di una disparità di trattamento di tal fatta – che incide sul regime delle tutele in materia connotata da una particolare delicatezza – trovare un fondamento giuridico nella speciale competenza del suddetto organo giurisdizionale.
1.4.4. Ad ogni buon conto, la rilevanza degli interessi in gioco non consente la riduzione del problema all’analisi del solo dato letterale, ossia della portata e del tenore testuale delle norme in comparazione. Il nodo più importante da sciogliere risiede, infatti, nel bilanciamento degli interessi in una materia nella quale – come rilevato dalle decisioni nn. 1743, 1746 e 23633/2016 di questa Corte – si riscontra una significativa incidenza su diritti di natura personalissima, di primario rango costituzionale. Di fronte a misure come la decadenza dalla responsabilità genitoriale o la compressione del cd. diritto di visita dei nonni, la revocabilità e modificabilità “a tutto campo”, che garantisca massima flessibilità ai provvedimenti, rischia di tradursi – per vero – in una continua ed altalenante revisione dei provvedimenti stessi ad opera dello stesso giudice, in una materia nella quale l’esigenza di certezza e stabilità delle decisioni si pone, invece, in modo particolarmente intenso, nell’interesse prioritario dei minori. Mentre un regime di revocabilità limitata – cui faccia seguito la possibilità di ottenere una pronuncia risolutiva della Coste Suprema, ai sensidell’art. 111 Cost.- è decisamente più rispondente all’esigenza di certezza nei rapporti familiari.
1.4.5. Sotto tale ultimo profilo, non convince affatto l’affermazione – più volte operata dall’indirizzo tradizionale secondo cui i provvedimenti emessi ai sensi degli artt. 330 e ss. e 317 bis c.c. non sarebbero idonei ad acquistare l’autorità del giudicato, neppure rebus sic stantibus, in quanto modificabili e revocabili non solo “ex nunc”, per nuovi elementi sopravvenuti, ma anche “ex tunc”, per un riesame (di merito o di legittimità) delle originarie risultanze, con la conseguenza che essi esulano dalla previsione dell’art.111 Cost..
È bensì vero, infatti, che la disposizione dell’art. 742 cod. proc civ. – secondo cui i decreti emessi in camera di consiglio possono essere modificati o revocati in ogni tempo (con salvezza dei diritti acquistati dai terzi di buona fede, per effetto di convenzioni anteriori alla modifica o alla revoca) – nel consentire al giudice l’esercizio dello ius poenitendi, è evidentemente finalizzata ad escludere l’applicabilità ai procedimenti camerali del divieto del bis in idem, escludendo, in tal modo, che tali provvedimenti possano rivestire l’idoneità al giudicato formale e sostanziale (art. 324 c.p.c.,art. 2909 c.c.).E tuttavia, va osservato che la previsionedell’art. 111 Cost., comma 7 è stata da sempre interpretata fin dalla remota pronuncia di questa Corte del 30/07/1953, n. 2593 – nel senso che la ricorribilità per cassazione, al di là della forma del provvedimento, è ancorata alla natura decisoria del medesimo, ossia alla sua idoneità a definire una controversia su diritti soggettivi e status, ed alla definitività del provvedimento stesso, da intendersi non soltanto come attitudine al giudicato formale e sostanziale, ma anche come indisponibilità, nei suoi confronti, di rimedi (impugnatori ed oppositori) diversi dal ricorso straordinario per cassazione.
A tal riguardo, deve – pertanto – condividersi l’indirizzo interpretativo sostenuto da una consistente parte della dottrina, secondo la quale – proprio al fine di non sottrarre tale delicati provvedimenti ad un più immediato controllo garantistico della Corte Suprema, quale unico rimedio percorribile in materia – la possibilità della modifica e della revoca exart. 742 c.p.c.è limitata alla valutazione dei soli vizi di merito o di legittimità sopravvenuti, con esclusione di una nuova valutazione di circostanze o fatti preesistenti. In altri termini, una volta decorsi i termini per il reclamo (art. 739 c.p.c.), o una volta che questo sia stato disatteso, il provvedimento camerale acquista una sua definitività (art. 741 c.p.c.), che può essere inficiata, sia per quanto concerne i vizi di merito – atteso che la cognizione del giudice del reclamo, nella materia della giurisdizione volontaria, finalizzata alla tutela anche di interessi pubblicistici e superindividuali, si estende anche alla opportunità o convenienza del provvedimento impugnato – sia per quanto concerne i vizi di legittimità, solo in presenza di specifiche sopravvenienze di fatto o di diritto.
In mancanza – come nel caso di specie – la acquisita stabilità del provvedimento (cd. giudicato rebus sic stantibus) può essere posta in discussione esclusivamente con il rimedio costituito dal ricorso straordinario per cassazione, ai sensidell’art. 111 Cost., comma 7.
1.6. Per tutte le ragioni esposte, dunque, il ricorso per cassazione exart. 111 Cost., proposto nel caso di specie avverso il provvedimento emesso in sede di reclamo, ai sensidell’art. 739 c.p.c.eart. 336 c.c., deve ritenersi ammissibile.
2. Passando, quindi, all’esame del merito, va rilevato che, con il secondo e quarto motivo di ricorso – che rivestono un carattere preliminare rispetto agli altri – B.C. e P.D. denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 317 bis, 333, 336 e 337 ter c.c.,artt. 2, 3, 24, 30 e 117 Cost., artt. 7 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e 24 della Carta di Nizza, nonchè l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.
2.1. I ricorrenti si dolgono del fatto che la Corte d’appello abbia ritenuto non legittimata P.D., seconda moglie di B.C., nonno paterno delle minori B.B. e V., a richiedere in giudizio – ai sensi dell’art. 317 bis c.c. – che venga salvaguardato il suo diritto a mantenere un rapporto significativo con le nipoti. Il giudice del reclamo – avverso il provvedimento di prime cure, che aveva dichiarato il difetto di legittimazione attiva della P., ed accolto il ricorso del B. – avrebbe, invero, erroneamente ritenuto che l’odierna ricorrente, non essendo una parente biologica delle minori, fosse sfornita della legittimazione ad attivare il procedimento ai sensi degli artt. 317 bis e 336 c.c., atteso che la prima delle suindicate disposizioni prevede che solo “gli ascendenti” – ossia i familiari in linea retta ascendente – hanno il “diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni”.
La Corte territoriale – ad avviso degli istanti – non avrebbe, peraltro, tenuto conto del fatto che la centralità dell’interesse dei minori, sancita anche a livello Europeo, comporterebbe l’esigenza di valorizzare e proteggere il nucleo familiare, anche di fatto, sul quale i medesimi hanno fondato le loro relazioni affettive, nella specie costituito dal nonno e dalla di lui seconda moglie, come del resto evidenziato – in più punti della decisione – dalla stessa Corte d’appello nell’impugnato provvedimento. Il giudice di seconde cure avrebbe del tutto omesso di considerare, invero, il fatto – decisivo per la controversia – costituito dal rapporto affettivo e di frequentazione esistente tra le minori e la P., in forza del quale quest’ultima si è trovata a svolgere “un ruolo del tutto sovrapponibile a quello di una premurosa nonna biologica e come tale è stata ed è percepita dalle bambine” (p. 31 del ricorso).
2.2. Le censure sono fondate.
2.2.1. Va anzitutto rilevato che l’interesse al ricorso contrariamente all’assunto dei resistenti – deve ritenersi sussistente in capo ad entrambi i ricorrenti (anche al B. che ha visto accolta la sua domanda), essendo portatori entrambi – a prescindere dalla soccombenza – di un interesse a preservare le condizioni per l’armonica e serena crescita delle nipoti, derivanti dal mantenimento della frequentazione con il nucleo familiare, sia pure di fatto, con il quale le medesime erano abituate a rapportarsi.
2.2.2. Tanto premesso, va osservato che la Corte d’appello – nel pronunciarsi sul cd. diritto di visita dei nonni, previsto dall’art. 317 bis c.c. – ha fatto leva esclusivamente sulla lettera della norma, che recita: “Gli ascendenti hanno diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni”. E siccome la P. – seconda moglie del B. – non è la nonna biologica delle due gemelline, B. e V., ne ha tratto la conseguenza che la medesima, in quanto non legata alle stesse da un rapporto di parentela, non sarebbe titolare, sul piano sostanziale, del diritto previsto dall’art. 317 bis c.c., e – di conseguenza – non sarebbe legittimata, sul piano processuale, ad azionarlo in giudizio.
Tale assunto non può essere condiviso, dovendo la norma succitata essere interpretata sistematicamente, alla luce delle disposizioni costituzionali (artt. 2 e 30 Cost.), Europee (art. 24 della Carta di Nizza) ed internazionali (art. 8 della CEDU), che formano il nuovo quadro normativo di riferimento multilivello (art. 117 Cost.), dal quale non si può prescindere nell’interpretazione della legge ordinaria nazionale.
2.2.3. In tale prospettiva, va osservato che, secondo la Corte EDU, l’articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare) tende sostanzialmente a premunire l’individuo dalle ingerenze arbitrarie delle pubbliche autorità e può anche generare obblighi positivi inerenti a un “rispetto” effettivo della vita familiare. Il confine tra gli obblighi positivi e negativi derivanti per lo Stato da questa disposizione non si presta ad una definizione ben precisa; i principi applicabili sono comunque comparabili. In entrambi i casi, si deve avere riguardo, invero, al giusto equilibrio da garantire tra gli interessi concomitanti dell’individuo e della società nel suo insieme, tenendo conto in ogni caso che l’interesse superiore del minore deve costituire la considerazione determinante e, a seconda della propria natura e gravità, può prevalere su quello dei genitori o degli altri familiari (Corte EDU, 09/02/2017, Solarino c. Italia).
Con specifico riferimento alla posizione dei nonni, la Corte Europea ha, poi, affermato che l’art. 8 CEDU ha essenzialmente lo scopo di premunire l’individuo contro le ingerenze arbitrarie dei pubblici poteri. Esso non si limita, peraltro, ad imporre allo Stato di astenersi da tali ingerenze, giacché a tale impegno negativo possono aggiungersi obblighi positivi inerenti a un rispetto effettivo della vita privata o familiare. Questi possono implicare l’adozione di misure volte al rispetto della vita familiare nelle relazioni degli individui tra loro, tra cui la predisposizione di un “arsenale giuridico” adeguato e sufficiente per garantire i diritti legittimi degli interessati, nonché il rispetto delle decisioni giudiziarie o delle misure specifiche appropriate. Questo “arsenale” deve permettere allo Stato di adottare misure idonee a riunire il genitore e il figlio, anche in caso di conflitto che oppone i due genitori, e lo stesso vale quando si tratta, come nel caso di specie, delle relazioni tra il minore e i nonni, dovendo lo Stato attivarsi per favorire la comprensione e la cooperazione di tutte le persone interessate, tenendo conto – in particolare – degli interessi superiori del minore e dei diritti conferiti allo stesso dall’articolo 8 della Convenzione” (Corte EDU, 20/01/2015, Manuello e Nevi c. Italia; Corte EDU, 07/12/2017, Beccarini e Ridolfi c. Italia).
Da ultimo, la Corte di Giustizia di Lussemburgo ha affermato che la nozione di “diritto di visita”, contenuta all’art. 1, paragrafo 2, lett. a), nonché all’art. 2, punti 7 e 10, delRegolamento CE n. 2201/2003del Consiglio del 27 novembre 2003 (relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale), deve essere interpretata nel senso che essa comprende anche il diritto di visita dei nonni nei confronti dei loro nipoti minorenni. Sulla scorta del documento di lavoro della Commissione relativo al riconoscimento reciproco delle decisioni in materia di responsabilità genitoriale (COM 2001 166 definitivo), in data 27 marzo 2001, la Corte ha, per vero, osservato che il progetto del Consiglio d’Europa di convenzione sulle relazioni personali riguardanti i minori, riconosce il diritto per questi ultimi di intrattenere relazioni personali non soltanto con i loro genitori, ma anche con altre persone aventi legami familiari con loro, come i nonni. In definitiva, il legislatore dell’Unione ha scelto l’opzione secondo cui nessuna disposizione deve restringere il numero di persone possibili titolari della responsabilità genitoriale o di un diritto di visita, sempre che sia importante che il minore intrattenga relazioni personali con tali persone, dovendo comunque privilegiarsi “l’interesse superiore del minore” medesimo (Corte Giustizia, 31/05/2018, Valcheva c. Babanarakis).
2.2.4. Se, dunque, la giurisprudenza Europea succitata ha evidenziato la necessità di ampliare il più possibile i contatti del minore con persone appartenenti al suo nucleo familiare allargato, nella misura in cui tali relazioni si traducono in un beneficio per l’equilibrio psico-fisico del medesimo, è la nozione stessa di nucleo familiare ad essere stata rivisitata ed ampliata dalla giurisprudenza della Corte EDU e della Corte di Giustizio della U.E. Si è, invero, affermato – al riguardo – che la questione dell’esistenza o dell’assenza di una vita familiare è essenzialmente una “questione di fatto”, che dipende dalla sussistenza di legami personali stretti tra i soggetti che appartengono ad un certo nucleo familiare (Corte EDU, 13/06/1979, Marckx c. Belgio). Il concetto di “famiglia” di cui all’articolo 8 della Convenzione riguarda, infatti, le relazioni basate sul matrimonio ed anche altri legami familiari “de facto”, in cui le parti convivono al di fuori del matrimonio, o in cui altri fattori dimostrano che la relazione è sufficientemente stabile (Corte EDU, 24/01/2017 Grande Camera, Paradiso e Campanelli c. Italia; Corte EDU, 27/10/1994, Kroon e altri c. Paesi Bassi; Corte EDU, 18/12/1986, Johnston e altri c. Irlanda).
Nello stesso senso si è pronunciata, da ultimo, la Corte di Giustizia, con riferimento al caso di un cittadino dell’Unione che aveva esercitato la sua libertà di circolazione, recandosi e soggiornando in modo effettivo, conformemente alle condizioni di cui all’art.7, paragrafo 1, delladirettiva 2004/38/CEdel Parlamento Europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, in uno Stato membro diverso da quello di cui aveva la cittadinanza, e in tale occasione aveva “sviluppato o consolidato una vita familiare” con un cittadino di uno Stato terzo dello stesso sesso, al quale si era, poi, unito con un matrimonio legalmente contratto nello Stato membro ospitante.
La Corte ha affermato – in proposito – che, a norma l’art. 21, paragrafo 1, TFUE le autorità competenti dello Stato membro di cui il cittadino dell’Unione aveva la cittadinanza non potevano rifiutarsi di concedere un diritto di soggiorno sul territorio di detto Stato membro al suddetto cittadino di uno Stato terzo (dapprima compagno, poi, coniuge del primo), per il fatto che l’ordinamento di tale Stato membro non prevede il matrimonio tra persone dello stesso sesso, dovendo lo Stato destinatario della richiesta riconoscere comunque la stabile relazione affettiva venuta a crearsi tra il suo cittadino e l’altro soggetto, e non ostacolare il diritto di quest’ultimo di esercitare il diritto, sancito dall’art. 21, paragrafo 1, TFUE, di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri (Corte Giustizia, 05/06/2018, Coman e Hamilton).
2.2.5. L’accezione più ampia, attribuita dalla giurisprudenza Europea al concetto di “famiglia”, si ripercuote – com’è ovvio, stante la preminenza dell’interesse dei minori, sancita a livello internazionale – soprattutto sul rapporto dei genitori con i figli, in relazione al quale la Corte EDU non opera, tuttavia, alcuna distinzione tra legami di sangue e rapporti “sociali”, purché connotati da una stabile relazione affettiva tra l’adulto ed il minore.
Nonostante l’assenza di un legame biologico e di un legame di filiazione giuridicamente riconosciuto dallo Stato convenuto, la Corte Europea ha, invero, ritenuto che possa esistere un vita familiare tra genitori affidatari che si siano presi cura di un minore per un certo periodo di tempo ed il minore in questione, sulla base degli stretti legami personali tra loro, del ruolo rivestito dagli adulti nei confronti del figlio e del tempo trascorso insieme (Corte EDU, 27/04/2010, Moretti e Benedetti c. Italia; Corte EDU, 17/01/2012, Kopf e Liberda c. Austria; Corte EDU, 24/01/2017, cit.).
2.2.6. Nella medesima prospettiva – di allargamento del concetto di famiglia nell’accezione di cui all’art. 8 CEDU e di tutela preminente dell’interesse dei minori, in conformità all’art. 24 della Carta di Nizza, secondo cui tutti gli atti relativi ai minori debbono privilegiare l’interesse preminente dei medesimi – si è, peraltro, sostanzialmente posta anche la giurisprudenza di questa Corte.
Si è, invero affermato che, in tema di adozione in casi particolari, laL. n. 183 del 1984,art. 44, comma 1, lett. d), integra una clausola di chiusura del sistema, intesa a consentire l’adozione tutte le volte in cui è necessario salvaguardare la continuità affettiva ed educativa della relazione tra adottante ed adottando, come elemento caratterizzante il concreto interesse del minore a vedere riconosciuti i legami sviluppatisi con altri soggetti (non familiari) che se ne prendono cura; con l’unica previsione della “condicio legis” della “constatata impossibilità di affidamento preadottivo” (Cass., 22/06/2016, n. 12962; nello stesso senso, Cass., 20/06/2017, n. 15202, in cui si fa riferimento “all’esistenza di un nucleo familiare di fatto che vede la minore accudita in modo esemplare dalla madre biologica e dall’adottante (compagna della madre) alla quale la minore riconosce ruolo genitoriale”).
2.2.7. Tutto ciò premesso in via di principio, va rilevato che, nel caso di specie, la stessa Corte d’appello ha più volte operato – come esattamente dedotto dai ricorrenti – riferimenti del tutto significativi al fatto che le minori avessero una frequentazione abituale con entrambi i nonni. Il decreto menziona, invero, il fatto che le bambine trascorrevano del tempo “dai nonni”, nella cui abitazione vi è perfino una stanza destinata alle nipoti, piena di giochi, e che nella casa degli stessi vi sono diverse “foto raffiguranti i nonni con le nipoti” (p. 5). La Corte ha fatto, inoltre, riferimento anche alla disponibilità dei genitori – sia pure con le modalità da essi imposte, ossia esclusivamente in loro presenza – “a far vedere le bambine ai nonni” (p. 6), atteggiamento certamente significativo di un riconoscimento dell’esistenza di un interesse affettivo reciproco tra la coppia di anziani e le due bambine.
Il giudice di seconde cure ha affermato, infine, che “non sono state dedotte né sono emerse ragioni specifiche indicative della necessità che il B. e la moglie non abbiano contatti con le minori, se non la conflittualità esistente tra padre e figlio” (p. 6), ed ha stabilito che il nonno possa incontrare le nipoti e “tenerle con sé, nel suo nucleo familiare (…)” (p. 7), ma non ne ha tratto la logica conseguenza che fosse necessario preservare tale nucleo familiare consentendo anche alla P. – ancorché non sia una “nonna biologica” delle bambine – di agire in giudizio per ottenere il riconoscimento del suo diritto a mantenere rapporti significativi con le nipoti. E’, di conseguenza, necessario che la delicata vicenda oggetto del presente procedimento venga approfonditamente riesaminata dalla Corte territoriale, alla luce dei principi di diritto, nazionale ed Europeo, in precedenza esposti.
2.3. Per tali ragioni, pertanto, le doglianze in esame devono essere accolte.
3. Restano assorbiti il primo (omessa pronuncia sull’attivazione, anche ufficiosa, da parte del giudice di secondo grado, del procedimento exart. 333 c.p.c.) ed il terzo motivo di ricorso (nullità dell’impugnato decreto sotto i profili sopra esposti), formulato, a detta degli stessi istanti, per mera completezza.
4. L’accoglimento del secondo e quarto motivo di ricorso comporta la cassazione dell’impugnata sentenza con rinvio alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che dovrà procedere a nuovo esame della controversia, facendo applicazione dei seguenti principi di diritto: “i provvedimenti che incidono sul diritto degli ascendenti ad instaurare ed a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, ai sensi dell’art. 317 bis c.c., nel testo novellato dalD.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154,art.42, al pari di quelli ablativi della responsabilità genitoriale emessi dal giudice minorile ai sensi degliartt. 330 e 336 c.c., hanno attitudine al giudicato “rebus sic stantibus”, in quanto non revocabili o modificabili salva la sopravvenienza di fatti nuovi, sicchè il decreto della corte di appello che, in sede di reclamo, conferma, revoca o modifica i predetti provvedimenti, è impugnabile con ricorso per cassazione exart. 111 Cost., comma 7″; “alla luce dei principi desumibili dall’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, dall’art. 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dagliartt. 2 e 30 Cost., il diritto degli ascendenti, azionabile anche in giudizio, di instaurare e mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, previsto dall’art. 317 bis c.c., cui corrisponde lo speculare diritto del minore di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti, ai sensi dell’art. 315 bis c.c., non va riconosciuto ai soli soggetti legati al minore da un rapporto di parentela in linea retta ascendente, ma anche ad ogni altra persona che affianchi il nonno biologico del minore, sia esso il coniuge o il convivente di fatto, e che si sia dimostrato idoneo ad instaurare con il minore medesimo una relazione affettiva stabile, dalla quale quest’ultimo possa trarre un beneficio sul piano della sua formazione e del suo equilibrio psicofisico”.
5. Il giudice di rinvio provvederà, altresì, alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il secondo e quarto motivo di ricorso; dichiara assorbiti il primo e terzo motivo di ricorso; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Per individuazione dell’erede legittimario si fa riferimento alla legge del momento dell’apertura della successione e non a quella del momento della nascita del presunto erede.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Svolgimento del processo
Con atto di citazione ritualmente notificato M.V.P. ed M.E., premesso che in data
1.4.2009 era deceduta a (*) la signora M.M.F. di cui affermavano essere eredi
legittimari, in quanto figli del premorto M.R.F., figlio della de cuius cui erano
subentrati per rappresentazione ex art. 467 c.c., e dato atto che la de cuius aveva
istituito con testamento olografo redatto in data 14.10.2005 e pubblicato in data
4.5.2009 presso il Registro Immobiliare di Sassari – sezione distaccata di Tempio
Pausania, quale unica erede universale la signora D.F., convenivano in giudizio
quest’ultima al fine di sentir accertare la loro qualità di eredi legittimari, dichiarare
la violazione della quota di legittima ad essi spettante e conseguentemente
pronunciare la riduzione della disposizione testamentaria in favore della signora
D.F. in quanto lesiva della legittima.
Si costituiva in giudizio la convenuta, chiedendo il rigetto delle domande per
carenza di legittimazione passiva, non avendo gli attori dimostrato la loro qualità di
eredi legittimari.
Il Tribunale di Cagliari, con la sentenza n. 2147/2012 rigettava le domande degli
attori e li condannava alle spese di lite.
Avverso suddetta sentenza proponevano appello i signori M.V.P. ed M.E..
La Corte d’Appello di Cagliari con la sentenza n. 29/2014, in riforma della
pronuncia di primo grado, accoglieva la domanda e riconosceva agli attori la qualità
di legittimari, rimettendo le parti dinanzi il Tribunale di Cagliari per la
determinazione della quota di legittima lesa.
Avverso detta sentenza, propone ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi,
D.F..
Resiste con controricorso M.V.P..
M.E. non ha svolto nel corso del presente giudizio attività difensiva.
In prossimità dell’odierna udienza D.F. ha depositano memoria illustrativa ex art.
378 c.p.c..
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione della L.
n. 218 del 1995, art. 33, nonchè dell’art. 334 Code Napoleon, quale norma
richiamata nel nostro ordinamento in forza delle disposizioni di diritto
internazionale privato, per non aver la Corte d’Appello applicato, ai fini della
determinazione dello status di figlio di M.R.F., la legge nazionale di quest’ultimo
vigente nel 1935, vale a dire al momento della nascita, facendo riferimento alla
disciplina entrata in vigore successivamente.
Viene altresì denunciata, in via subordinata, la falsa applicazione degli art. 311.25,
311.14 Code civil, dell’art. 254 c.c., nonchè la contraddittorietà della motivazione,
per avere la Corte territoriale omesso di applicare, giusto rinvio delle disposizioni
del Code civil citate in epigrafe (artt. 311.25 e 311.14), la legge della nazionalità
materna.
Il motivo di ricorso è infondato.
La materia del contendere s’incentra sull’accertamento dello status di figlio naturale
della de cuius, M.M.F., di M.R.F., nato a (*) e di nazionalità francese, padre di * e
M.V.P., i quali, sul presupposto della loro qualità di eredi legittimari della de cuius
ex art. 467 c.c., quali discendenti di M.R.F., hanno proposto azione di riduzione del
testamento che ha istituito quale erede universale la signora D.F..
La Corte territoriale, ai fini dell’attribuzione della qualità di figlio naturale, ha
correttamente fatto riferimento, in forza dell’art. 33 l. 218/1995, alla legge nazionale
del figlio e dunque alla legge francese.
Secondo la prospettazione della ricorrente, peraltro, in forza del rinvio dell’art. 33,
su citato, il giudice di appello avrebbe dovuto applicare la legislazione francese
vigente alla data di nascita del rappresentato del cui status si controverte (1935),
vale a dire l’art. 334 Code Napoleon. Tale disposizione non ricollegava alla
indicazione del nome della madre nella dichiarazione di nascita a cura della persona
che aveva assistito al parto, l’acquisto dello status filiationis, essendo necessario un
successivo atto di riconoscimento; riconoscimento che nel caso di specie non era
mai intervenuto.
Tale assunto non può essere condiviso.
Conviene premettere che ai fini dell’accertamento della qualità di legittimari
occorre fare riferimento alla data di apertura della successione, vale a dire, nel caso
di specie, l’1.4.2009.
E’ a tale data dunque che bisogna riferirsi per verificare se vi fossero uno o più
soggetti tra quelli ai quali, ai sensi dell’art. art. 536 c.c., comma 1, la legge riserva
una quota di eredità, ferma la disposizione dell’art. 536 c.c., comma 3, secondo cui,
in favore di discendenti dei figli legittimi o naturali, i quali vengono alla successione
in luogo di questi, spettano gli stessi diritti riservati a questi ultimi.
Ora, alla data del 1.4.2009 era già vigente nell’ordinamento francese il principio
secondo cui il rapporto di filiazione è costituito per effetto della indicazione del
nome della madre nell’atto di nascita, senza necessità di un ulteriore atto di
riconoscimento formale.
Con l’Ordonnance n. 2005/759 del 4 luglio 2005. entrata in vigore il 1.7.2006, è
stata infatti introdotta la Riforma della filiazione, in forza della quale, ai sensi
dell’art. 311 c.c., comma 25, il rapporto di filiazione è stabilito, nei confronti della
madre, per effetto dell’indicazione di questa nell’atto di nascita del bambino, salvo il
diritto della madre a non essere nominata.
L’art. 20 delle disposizioni finali e transitorie dell’Ordonnance ha altresì stabilito
che detta disciplina sia applicabile ai figli nati sia prima che dopo la sua entrata in
vigore, salvi i casi definiti con sentenza passata in giudicato.
Sulla base di tale espressa previsione di efficacia retroattiva della Riforma, ispirata
con tutta evidenza al favor filiationis, deve ritenersi che la disciplina applicabile al
caso di specie sia appunto quella da ultimo introdotta nell’ordinamento francese,
rendendo dunque validamente costituito lo status filiationis di M.R.F., in forza
dell’indicazione del nome della madre nel suo atto di nascita, ancorchè alla data
della nascita fosse in vigore altra disciplina.
Appare al riguardo irrilevante il fatto che il figlio sia premorto alla madre e sia
deceduto prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni.
In assenza di un contrario accertamento, con sentenza passata in giudicato, sul suo
status filiationis, e ferma restando la legittimazione dei suoi eredi a proporre la
relativa azione di status, il rapporto di filiazione non può che essere regolato dalla
disciplina vigente al momento in cui tale presupposto è stato fatto valere ex art. 536
c.c., comma 2, a titolo di rappresentazione, dai suoi discendenti, cui la legge riserva
gli stessi diritti dei figli legittimi o naturali del de cuius.
Deve del resto ritenersi discriminatoria e non conforme a ragionevolezza una
differente disciplina transitoria, che, in contrasto con il principio del favor
filiationis, avesse limitato l’efficacia delle nuove disposizioni di maggior tutela, ai
soli figli nati dopo l’entrata in vigore della Riforma. Non appare inoltre pertinente il
richiamo all’art. 311-11 Code civil, che si applica al solo caso di conflitto di leggi,
mentre nel caso di specie la fattispecie è disciplinata dalla specifica disposizione
della legge francese che regola lo status di figlio.
In ogni caso, pur ritenendo applicabile al caso di specie la legislazione italiana, si
osserva che, secondo la nostra legislazione, già in base al codice civile del 1865,
come nel codice del 1942 e nella legislazione attuale, ai sensi dell’art. 181 – il
riconoscimento del figlio naturale si fa nell’atto di nascita (o in atto autentico
successivo o posteriore), con la conseguenza che la dichiarazione della madre
nell’atto di nascita implica riconoscimento della filiazione naturale, senza necessità
di un ulteriore atto formale di riconoscimento.
Con il secondo mezzo si denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 396
del 2000, art. 30, comma 1, dell’art. 254 c.c., e dell’art. 311.25 Code Civil in
relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. per avere la Corte territoriale erroneamente
ritenuto che l’indicazione del nominativo materno nell’atto di nascita assurgesse a
riconoscimento automatico della filiazione.
Il motivo di ricorso è inammissibile per difetto di decisività e comunque infondato.
La censura è priva di decisività in relazione alla dedotta violazione del D.P.R. n. 396
del 2000, art. 30, comma 1, e dell’art. 254 c.c., posto che, per quanto già
evidenziato, ai fini della determinazione dello status del figlio occorre fare
riferimento alla legislazione francese.
In ogni caso, come già rilevato, alla medesima conclusione, in ordine alla sufficienza
della indicazione del nome della madre nell’atto di nascita ai fini del
riconoscimento, si giunge anche ritenendo applicabile la legislazione italiana, sia
quella attuale, che quella vigente al momento della nascita di M.R.F..
Quanto alla dedotta violazione dell’art. 311.25 Code Civil. la Corte territoriale ha
ritenuto che in forza del chiaro disposto di tale norma fosse sufficiente l’indicazione
del nome della madre nell’atto di nascita del neonato al fine di costituire il rapporto
di filiazione, senza necessità di un successivo atto di riconoscimento.
Tale statuizione, come già rilevato con riferimento al motivo precedente, è conforme
a diritto.
Il meccanismo previsto dalla attuale legislazione francese è quello che ricollega lo
status di figlio alla indicazione della madre nell’atto di nascita, e tale disciplina, per
espressa volontà legislativa, ha efficacia retroattiva, con ciò privilegiandosi, per i
figli già nati al momento di entrata in vigore della Riforma, il favor filiationis
rispetto alla piena tutela del diritto all’anonimato della madre, ricollegandosi, anche
per il passato, all’indicazione del nome materno nell’atto di stato civile una implicita
rinuncia all’anonimato.
Con il terzo mezzo si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del
1995, art. 46, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per non aver la Corte territoriale
ritenuto che, secondo la legge italiana applicabile ai sensi della L. n. 218 del 1995,
art. 46, in tema di successione mortis causa, non sussistevano i presupposti per il
riconoscimento della qualità di eredi legittimi dei controricorrenti.
Il motivo è inammissibile, in quanto non coglie la rullo della pronuncia. Ed invero,
regolato il riconoscimento della qualità di figlio naturale del rappresentato secondo
la legge francese. ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 33. la successione della de
cuius è stata interamente disciplinata dalla legge italiana, i cui istituti sono stati
invocati dagli attori mediante l’esercizio dell’azione di riduzione.
Il quarto mezzo denuncia la violazione e contrarietà della sentenza a disposizioni
inderogabili di ordine pubblico ai sensi dell’art. 16 l. 218/1995.
La ricorrente deduce che la Corte territoriale avrebbe dovuto in ogni caso
disapplicare l’art. 311.25 Code civil trattandosi di norma in contrasto con l’ordine
pubblico nazionale, in quanto fa discendere l’automatica insorgenza del rapporto di
filiazione per il solo fatto che l’indicazione del nome della madre sia contenuto nella
dichiarazione di nascita, ma senza riconoscimento del figlio.
Il motivo è infondato.
Ed invero, come già evidenziato, non solo l’art. 311.25 Code civil e la disciplina
francese in materia di status filialionis non è in contrasto con l’ordine pubblico, da
intendersi come complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento
interno in un determinato periodo storico o fondati su esigenze di garanzia, comuni
ai diversi ordinamenti, di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo (Cass. 19405 del
22.8.2013), ma è anzi pienamente compatibile con il nostro ordinamento.
Infatti, anche nel nostro ordinamento, sin dal codice civile del 1865 lo status di
figlio si prova con l’atto di nascita iscritto nei registri dello stato civile e senza
necessità di un riconoscimento successivo, mentre l’art. 30 comma 1 Dpr 396/2000
tutela l’eventuale volontà della madre di non essere nominata, facoltà che è del resto
prevista anche dalla legislazione francese.
In ambedue gli ordinamenti, dunque, se la madre non si avvale di detta facoltà, il
rapporto di filiazione è automaticamente riconosciuto.
Tali principi risultano altresì pienamente conformi con quelli di ordine pubblico
internazionale statuiti dagli artt. 8 e 14 della Convenzione Europea per la
Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, dotata di forza
preminente e trova espressione nelle stesse disposizioni della L. n. 218 del 1995, che
all’art. 35, stabilisce che le condizioni per il riconoscimento del figlio naturale sono
regolate dalla legge nazionale del figlio al momento della nascita o, se più
favorevole, dalla legge nazionale del soggetto che fa il riconoscimento nel momento
in cui questo avviene.
Appaiono, piuttosto. in contrasto con l’ordine pubblico quelle leggi straniere che
pongano limiti o non ammettano l’accertamento della filiazione al di fuori del
matrimonio, come in relazione a quegli ordinamenti che conoscono unicamente
l’istituto della filiazione legittima, affermandosi in tal caso che, ai sensi della L. n.
218 del 1995, art. 16, comma 2, l’accertamento della filiazione naturale dovrebbe
avvenire secondo la legge italiana (Cass., 28.12.2006, n. 27592).
Il ricorso va dunque respinto e le spese, regolate secondo soccombenza, si liquidano
come da dispositivo.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti
per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13,
comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente alla refusione delle spese del presente giudizio, che liquida
in complessivi 5.800,00 Euro, di cui 200,00 Euro per esborsi, oltre a rimborso
forfettario spese generali in misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza
dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso
art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 5 luglio 2018.

La procedura di conferimento degli incarichi di specialista ambulatoriale interno in convenzione non ha natura concorsuale

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso 28479-2017 per regolamento di giurisdizione proposto
d’ufficio dal:
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE DELLA CALABRIA –
SEZIONE STACCATA DI REGGIO CALABRIA, con ordinanza n.
963/2017 depositata 11/12/2017 nella causa tra:
PARISI LORENZO;
– ricorrente non costituitosi in questa fase –
contro
AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE DI REGGIO CALABRIA,
– resistenti non costituitisi in questa fase –
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
17/07/2018 dal Consigliere ADRIANA DORONZO;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Rita
Sanlorenzo, la quale chiede che, all’esito del regolamento d’ufficio di
giurisdizione sollevato dal Tribunale Amministrativo Regionale della
Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, si affermi la
giurisdizione del Giudice amministrativo, con tutte le conseguenze di
legge.
Rilevato che:
Lorenzo Parisi, medico specialista in malattie dell’apparato
cardiovascolare, ha chiesto al Tribunale di Reggio Calabria, in
funzione di giudice del lavoro, che sia annullata la determinazione n.
313 del 4/6/2013 con cui il direttore generale dell’Azienda Provinciale
Sanitaria della stessa sede ha approvato la graduatoria definitiva
degli specialisti ambulatoriali interni, attribuendogli un punteggio
inferiore a quello spettantegli;
nella pendenza del giudizio ordinario, con deliberazione del direttore
generale (n. 709 del 26/11/2013), l’Azienda ha conferito al dottor
ai sensi dell’art. 23, comma 10,
dell’Accordo Collettivo Nazionale di settore, l’incarico a tempo
determinato, per un anno rinnovabile, di medico specialista
ambulatoriale interno convenzionato nella branca di cardiologia, in
applicazione della graduatoria definitiva impugnata;
il Parisi ha proposto ricorso d’urgenza in corso di causa ex art. 669
quater cod.proc.civ.;
con sentenza del 17/4/2014 il Tribunale di Reggio Calabria ha
dichiarato il difetto di giurisdizione dei giudice ordinario e ha rimesso
le parti davanti al giudice amministrativo;
riassunto il giudizio dinanzi al Tribunale amministrativo regionale
della Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, il Parísi ha
denunciato la violazione e falsa applicazione:
– dell’art. 21 dell’Accordo Collettivo Nazionale per la disciplina dei
rapporti con i medici specialisti ambulatoriali interni e altre
professionalità sanitarie, ai sensi dell’art. 48 L. n. 833/1978 e 8
D.Lgs. n. 502/1992 e successive modificazioni;
– dell’ali. A, parte seconda, del detto Accordo, per quanto riguarda i
titoli e criteri di valutazione per la formazione delle graduatorie;
– dell’art. 23, comma 10, dell’Accordo Collettivo Nazionale citato;
deduce, in sintesi, il ricorrente che in violazione delle norme indicate
gli è stato attribuito un punteggio inferiore a quello a lui spettante; al
contrario, un’esatta applicazione delle norme avrebbe condotto
all’assegnazione di un punteggio superiore che lo avrebbe collocato
nella graduatoria di cardiologia per l’anno 2013 in una posizione tale
da prevalere sull’altro concorrente;
con ordinanza pubblicata in data 1/12/2017, n. 963, il Tar ha
sollevato conflitto negativo di giurisdizione dinanzi alle Sezioni unite
di questa Corte, ai sensi dell’art. 11, comma 3, cod. proc. anim i
ritenendo la controversia devoluta al giudice ordinario, in forza
dell’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001, sul presupposto che la procedura
descritta dall’Accordo Collettivo Nazionale del 23 marzo 2005, come
modificato dall’Accordo Collettivo del 29 luglio 2009, non costituisce
una procedura concorsuale ma rientra nell’ambito dell’autonomia
negoziale, nell’esercizio della quale l’amministrazione non si presenta
quale autorità esercitante poteri o prerogative disciplinate dalla
legge;
richiama la pronuncia del Consiglio di Stato n. 2778 del 2017,
secondo cui la posizione del privato rispetto a tale procedimento, con
riguardo ai suoi presupposti, contenuti e scansioni procedinnentali, se
ricalca lo schema dell’interesse legittimo (a fronte del quale le norme
che regolano Vagere del soggetto attivo si pongono come norme di
azione e non di relazione), non è tale da configurare la giurisdizione
del giudice amministrativo, trattandosi di interesse legittimo
«privato»;
fissata l’adunanza in camera di consiglio, acquisite le conclusioni
scritte del Procuratore generale, nessuna delle parti private ha svolto
attività difensiva.
Considerato che:
1. il conflitto negativo deve essere risolto con la dichiarazione della
giurisdizione del giudice ordinario;
2.- come da queste Sezioni unite più volte precisato, l’art. 63, comma
4, d.lgs. n. 165 del 2001, si interpreta, alla stregua dei principi
enucleati dalla giurisprudenza costituzionale in relazione all’att. 97
Cost., nel senso che per «procedure concorsuali di assunzione»,
ascritte al diritto pubblico con la conseguente attribuzione delle
relative controversie alla giurisdizione del giudice amministrativo, si
intendono quelle preordinate alla costituzione ex novo dei rapporti di
lavoro;
2.1. tale regola costituisce il riflesso del dato sostanziale per il quale
la pretesa alla stipulazione di un contratto di lavoro pubblico si colloca
nell’area dei diritti soggettivi e delle obbligazioni che
l’amministrazione assume con la capacità e i poteri del privato datore
di lavoro (art. 4, D.Lgs. cit.), mentre la contestazione inerente ad un
procedimento concorsuale di assunzione ha ad oggetto l’esercizio del
potere pubblico attribuito all’amministrazione di individuare il
soggetto ammesso alla stipula del contratto (Cass. sez. Un.,
13/12/2017, n. 29915; Cass. Sez. Un., 29/5/2012, n. 8522);
2.2. i limiti e la portata della riserva alla giurisdizione amministrativa,
che ha valore di eccezione rispetto alla regola del primo comma della
medesima disposizione, che predica in generale la giurisdizione del
giudice ordinario nelle controversie aventi ad oggetto il lavoro
pubblico privatizzato, impongono che il termine “assunzione” sia
inteso estensivamente, rimanendovi comprese anche le procedure di
cui sono destinatari soggetti già dipendenti di pubbliche
amministrazioni ogni qual volta esse siano dirette a realizzare un
effetto di novazione del precedente rapporto di lavoro con
l’attribuzione di un inquadramento superiore e qualitativamente
diverso dal precedente (cfr., in particolare, Cass. Sez. Un.,
20/4/2006, n. 9164; Cass. Sez. Un., 7/11/2005, n. 21470);
23. per converso, il termine “concorsuale” deve essere interpretato
in senso restrittivo, nel senso che la procedura concorsuale si
identifica esclusivamente in quella caratterizzata dall’emanazione di
un bando, dalla valutazione comparativa dei candidati e dalla
compilazione finale di una graduatoria di merito, la cui approvazione,
individuando i “vincitori”, rappresenta l’atto terminale del
procedimento preordinato alla selezione dei soggetti idonei (Cass.
Sez. Un., 26/1/2011, n. 1778; Cass. Sez. Un., 25/11/2011, n.
24904);
2.4. si è cosi affermato che sono concorsuali sia le procedure
connotate dall’espletamento di prove, ma comunque libere nella
modalità, purché la procedura concreti una selezione tra diversi
aspiranti (Cass. S.u., 8/5/2007, n. 10374; del 2007), sia i concorsi
per soli titoli (cfr. Cass. Sez. Un., 15/01/2010, 529; Cass. S.U. 24
maggio 2013 n. 12904);
non danno invece luogo a procedure concorsuali le assunzioni in esito
a procedimenti di diverso tipo: assunzioni dirette, procedure di mera
verifica di idoneità dei soggetti da assumere, in quanto titolari di
riserva o iscritti in apposita lista, giacché il possesso dei requisiti e
l’idoneità si valutano in termini assoluti, senza dar luogo ad una
graduatoria di merito;
2.5. secondo l’indicato criterio, non è procedura concorsuale
l’inserimento in apposita graduatoria di tutti coloro che siano in
possesso di determinati requisiti normativamente predeterminati,
preordinata al conferimento di posti lavoro che si renderanno
disponibili (vedi con riferimento alle graduatorie permanenti della
scuola, Cass. Sez.Un., 23/07/2014, n. 16756; Cass. sez. Un.,
28/07/2009, n. 17466; Cass. Sez. Un., 14/1/2009, n. 561; Cass. Sez.
Un., 13/2/2008, n. 3401 e altre conformi; per la giurisprudenza
amministrativa, Cons. St., n. 11/2011), anche se a tali fini debbano
essere effettuate verifiche sulla sussistenza di requisiti soggettivi (che
– ove in concreto presenti – danno diritto in via prioritaria
all’assunzione), non configurandosi, in tali ipotesi, una comparazione
tra “aspiranti” all’assunzione basata su una valutazione incentrata
sulla discrezionalità non solo tecnica ma anche amministrativa, volta
a risolvere, con la nomina dei “vincitori”, la relativa competizione (fra
le tante: Cass. Sez. Un., del 14/1/2009, n. 561; Cass. Sez. Un.,
28/5/2007, n. 12348; Cass. Sez. Un., 6/6/2005, n. 11722; e, nello
stesso senso, Cass. 7/3/2012, n. 3549);
3. ora l’Accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con
gli specialisti ambulatoriali interni, veterinari ed altre professionalità
sanitarie (biologi, chimici, psicologi) ambulatoriali ai sensi dell’art. 8
del d.lgs. n. 502 del 1992 e successive modificazioni e integrazioni,
prevede per il conferimento degli incarichi di specialista ambulatoriale
interno in regime di convenzione con le aziende del servizio sanitario
nazionale, i seguenti passaggi (art. 21 nel testo dell’accordo vigente
pro tempore):
la presentazione da parte degli specialisti aspiranti all’incarico, in
qualità di sostituto o incaricato, di apposita domanda entro e non
oltre il 31 gennaio di ciascun anno, contenente le dichiarazioni, rese
ai sensi della L. n. 445/2000, atte a provare il possesso dei titoli
necessari per il conseguimento dell’incarico ed elencati nella domanda
stessa;
la formazione di una graduatoria provinciale per titoli, con validità
annuale, secondo i criteri di cui all’allegato 1, cui provvede il Comitato
consultivo zonale di cui all’art. 24;
la pubblicazione della graduatoria, a cura del direttore generale
dell’azienda ove ha sede il Comitato di cui all’art.24, nell’albo
aziendale per la durata di 15 giorni;
la possibilità per gli interessati di presentare istanza motivata di
riesame della loro posizione in graduatoria, entro 30 giorni dalla
pubblicazione, al Comitato zonale;
l’approvazione della graduatoria definitiva da parte del Direttore
Generale dell’Azienda e il suo invio alla Regione che ne cura la
pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione entro il 31
dicembre di ciascun anno;
l’art. 23 dell’accordo prevede le modalità di attribuzione degli incarichi
e i criteri di priorità;
l’allegato 1 parte seconda dell’accordo prevede i punteggi da
attribuire per i titoli necessari per il conferimento degli incarichi ed i
criteri di valutazione per la formazione delle graduatorie di cui all’art.
21 dell’accordo;
4. da quanto precede emerge che si è in presenza di una fattispecie
negoziale complessa, nell’ambito di una procedura demandata
all’autonomia delle parti, che esula dagli schemi tipici del pubblico
concorso per l’assunzione di pubblici dipendenti: non è infatti prevista
la nomina di una commissione giudicatrice, non è adottata una
procedura selettiva comparativa, non vi è un giudizio di idoneità
finale dei candidati;
la graduatoria è formata in base a titoli accademici, di studio o di
servizio prestabiliti e con punteggio predeterminato dallo stesso
accordo (allegato 1), senza che possano ravvisarsi poteri autoritativi
o margini di discrezionalità valutativa o tecnica in capo alla pubblica
amministrazione, chiamata a una mera verifica dei possesso o meno
delle capacità professionali richieste sulla scorta della
documentazione prodotta dagli aspiranti al turno (in tal senso la
giurisprudenza amministrativa: T.A.R. Campania, Napoli, 6.2.2009, n.
632; T.A.R. Puglia, sez. Lecce, 11/9/2014, n. 2332).
5. non s’ignora che, con riguardo al conferimento degli incarichi ai
medici della medicina generale in regime di convenzione, la
giurisprudenza di questa Corte ha definito gli ambiti giurisdizionali
sulla base della distinzione tra la fase precedente alla formazione
della graduatoria, in cui suole ripetersi che l’amministrazione esercita
un potere discrezionale e la posizione del privato assurge a interesse
legittimo tutelabile dinanzi al giudice amministrativo, e quella
successiva in cui, incontestata la graduatoria, il privato fa valere il
diritto alla stipulazione del contratto sulla base dell’ordine progressivo
di questa: in particolare, si è sostenuto che la discrezionalità
dell’amministrazione “culmina nella formazione della graduatoria”,
atto che segna il limite ultimo di quel potere (Cass. Sez. Un.,
25/5/1998, n. 5202, che richiama Cass. 10324/1996; v. pure Cass.
sez. Un., 30/03/2011, n. 7187; Cass. Sez. Un., 02/04/2007, n.
8087; Cass. 18/02/2004, n. 3231; nonché Cass. Sez. Un., 7/9/2015,
n. 17691, e Cass. Sez. Un., 15/9/2010, n. 19550, citate dal
procuratore generale);
6. si tratta tuttavia di pronunce in cui si pone in luce l’esistenza di un
potere discrezionale in capo all’amministrazione nella valutazione dei
titoli, ovvero nella scelta delle zone carenti che l’amministrazione
intende coprire, laddove, nella fattispecie in esame, per un verso le
ore vacanti sono assegnate in base ad un elenco stilato secondo i
criteri di priorità previsti dall’art. 23 dell’Accordo del 23/3/2005,
integrato da quello del 29/7/2009, per altro verso, la selezione dei
candidati ai quali assegnare i turni vacanti avviene sulla base di
parametri stabiliti dalla contrattazione collettiva, specifici e vincolanti
per l’amministrazione, con la conseguenza che al giudice non aspetta
altro che verificare la conformità della condotta dell’amministrazione
ai parametri stabiliti nella graduatoria meramente tecnica;
in altri termini, i comportamenti della PA vanno ricondotti nell’alveo
privatistico, quale espressione del potere negoziale
dell’Amministrazione nella veste di datrice di lavoro, come tali da
valutare alla stregua dei principi civilistici in ordine all’inadempimento
delle obbligazioni (art. 1218 cod. civ.), anche secondo i parametri
della correttezza e della buona fede (cfr. di recente: Cass. Sez.
Un.,19/1/2018, n. 1417, che richiama Cass, Sez, Un., 16/11/2017, n.
27197);
le modalità di selezione previste dall’articolo 21 dell’accordo collettivo
nazionale di settore non ineriscono dunque a procedure concorsuali
(art. 63 del D.Igs. n. 165 del 2001), per l’assenza di un bando, di una
procedura di valutazione e, soprattutto, di un atto di approvazione
finale che individui i vincitori – trattandosi piuttosto dell’inserimento
di coloro che sono in possesso di determinati requisiti in una
graduatoria preordinata al conferimento di posti che si rendano
disponibili – né involgono altre categorie di attività autoritativa (art. 2,
comma 1, dello stesso decreto legislativo: v. con riguardo alle
graduatorie permanenti nel settore scolastico, Cass. Sez. Un.,
22/12/2015, n. 25773);
deve pertanto essere dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario,
con il conseguente annullamento della sentenza resa dal Tribunale di
Reggio Calabria, innanzi al quale le parti vanno rimesse;
nessun provvedimento sulle spese deve essere adottato, in mancanza
di attività difensiva svolta dalle parti.
P.Q.M.
La Corte dichiara la giurisdizione del giudice ordinario; cassa la
pronuncia declinatoria del tribunale di Reggio Calabria, dinanzi al
quale rimette le parti.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 17 luglio 2018

La casa familiare rimane al genitore assegnatario sino a quando rappresenta per i figli, seppur maggiorenni, elemento di stabilità ed equilibrio.

Cassazione civile, sez. I, 12/10/2018, (ud. 07/06/2018, dep.12/10/2018), n. 25604
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Lecce, con Decreto n. 1801 del 2016, – pronunciato in sede di reclamo
avverso provvedimento del Tribunale di Brindisi con il quale, a modifica, ex art. 710 c.p.c., delle
condizioni di separazione personale dei coniugi D.P. – S. definite mediante accordo omologato
del 2010, era stato disposto l’affidamento congiunto del figlio minore D. ad entrambi i genitori,
con collocamento prevalente presso il padre, cui era assegnata coniugale, il mantenimento
della figlia maggiorenne, ma non autosufficiente, da parte del padre, con un assegno di Euro
200,00 mensili, nonchè il versamento, da parte del medesimo, di un contributo di Euro 400,00
mensili alla S. per la locazione di altra abitazione, – ha, in parziale riforma, disposto che
l’assegnazione della casa coniugale restasse alla moglie e fissati, per la decorrenza
dell’obbligo di mantenimento della figlia da parte del padre, “il primo rateo successivo” alla
decisione assunta dalla Corte e le modalità di frequentazione della madre con il figlio minore,
previo affidamento dello stesso ai Servizi Sociali, al fine di assicurare un percorso di sostegno
psicologico del minore.
In particolare, la Corte distrettuale, accogliendo il reclamo principale della S. ha rilevato che,
anche se la situazione del figlio minore, specificamente di suo “rifiuto” della madre, risalente
al “(OMISSIS)”, non poteva ritenersi un “fatto nuovo”, idoneo a giustificare la modifica delle
condizioni di separazione, tuttavia essa rappresentava un dato effettivo, diverso da quello
esistente al momento della separazione, che giustificava la collocazione del minore in
prevalenza presso il padre, genitore co-affidatario; la Corte quindi ha ritenuto necessario
mantenere l’assegnazione della casa coniugale alla S. giacchè quest’ultima vi coabitava con
la figlia, maggiorenne, ma non autosufficiente (revocando, di conseguenza, anche la
previsione dell’obbligo del coniuge di contribuire economicamente al reperimento di altro
alloggio da parte della moglie), mentre il figlio minore, da circa sei anni, si era trasferito dalla
nonna (la quale, pur abitava, nello stesso stabile), cosicchè detta casa coniugale poteva
definirsi “stabile abitazione” per la figlia e non per il figlio minore. La Corte ha dato atto che,
in difetto di censure, restava fermo l’obbligo di mantenimento della moglie, con assegno
mensile di Euro 100,00.
Avverso la suddetta pronuncia il D.P. propone ricorso per cassazione, affidato a quattro
motivi, nei confronti della S. (che resiste con controricorso). Il ricorrente ha depositato
memoria.
• Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente, nella memoria depositata, il ricorrente deduce che sarebbe intervenuto,
nel marzo 2018, nel procedimento di divorzio, avviato dinanzi al Tribunale di Brindisi, un
accordo tra i coniugi, con il quale vengono disciplinate le condizioni economiche e di
affidamento dei figli, e chiede dichiararsi la cessazione della materia del contendere.
Non ricorrono i presupposti per l’accoglimento dell’istanza (sulla quale peraltro nulla dice la
controricorrente), in quanto si tratta di un mero accordo in itinere e la causa in questione è
stata rinviata ad altra udienza di luglio (essendo l’accordo condizionato all’effettivo rilascio
della casa coniugale da parte della S. entro il (OMISSIS)).
2. Il ricorrente lamenta: 1) con il primo motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, art. 155
c.c., nonchè “omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione”, ex art. 360 c.p.c., n. 5, in
relazione al capo della decisione con il quale si è statuito sull’assegnazione della casa
coniugale, dando rilievo prioritario all’interesse della figlia maggiorenne, la quale peraltro,
essendo studentessa universitaria, vive spesso “fuori sede”, rispetto a quello del figlio minore,
costretto, per le relazioni conflittuali dei genitori, ad andare a vivere dalla nonna; 2) con il
secondo motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, art. 115 c.p.c. e art. 2729 c.c., nonchè
“omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione”, ex art. 360 c.p.c., n. 5, in ordine alla
determinazione dell’assegno di mantenimento a favore della moglie e della figlia
maggiorenne, non essendo stato valutato il reddito del marito, in rapporto alla situazione
economica della moglie, alla sua capacità reddituale, al contributo offerto da ciascuno dei
coniugi alla conduzione familiare ed alla durata della convivenza; 3) con il terzo motivo, la
violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, art. 13 Cost., nonchè “omessa, insufficiente, contraddittoria
motivazione”, ex art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione al capo della decisione con il quale si è
ordinato a D.P. di avviare con urgenza il percorso di sostegno psicologico del figlio minore e
la ripresa dei rapporti con la madre, avendo la Corte, contraddittoriamente, disposto
l’affidamento del minore ai Servizi Sociali, onerando tuttavia il genitore collocatario di tutti gli
adempimenti spettanti ai servizi territoriali; 4) con il quarto motivo, la violazione, ex art. 360
c.p.c., n. 3, art. 330 c.p.c., nonchè l'”omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione”, ex art.
360 c.p.c., n. 5, in ordine alla non rilevata inammissibilità del reclamo proposto in via principale
dalla S. per sua notifica solo ad uno dei co-difensori, in primo grado del D.P..
3. Sono anzitutto inammissibili i vizi motivazionali dedotti nei motivi (da scrutinare in base al
testo di tale disposizione risultante delle modifiche recate dal D.L. n. 83 del 2012, poichè la
sentenza impugnata risulta depositata in data successiva all’11 settembre 2012), in quanto
nel mezzo di ricorso non si indicano fatti storici (della cui deduzione nel giudizio di merito
venga dato conto nel rispetto del canone dell’autosufficienza del ricorso per cassazione) il cui
esame, omesso nella sentenza gravata, avrebbe portato ad una diversa ricostruzione dei fatti
di causa, ma si lamentano profili di insufficienza motivazionale, non più denunciabili in questa
sede.
4. Il quarto motivo, implicante error in procedendo, di rilievo pregiudiziale, è infondato.
Il reclamo, in sede di modifica delle condizioni di separazione, risulta notificato, nel domicilio
eletto dal D.P. ad uno dei due co-difensori nominati (l’Avv.to Rizzo) e non anche all’altro
difensore (avv.to Sartorio), il quale peraltro, secondo quanto rilevato dalla Corte d’appello,
avrebbe materialmente ricevuto l’atto diretto all’Avv.to Rizzo, quale “collega” di studio, come
indicato nella cartolina di ricevimento. Il D.P. si era costituito nel giudizio ritualmente,
proponendo anche gravame incidentale.
Ora questa Corte a Sezioni Unite (Cass. 14916/2016) ha affermato che “il luogo in cui la
notificazione del ricorso per cassazione viene eseguita non attiene agli elementi costitutivi
essenziali dell’atto, sicchè i vizi relativi alla sua individuazione, anche quando esso si riveli
privo di alcun collegamento col destinatario, ricadono sempre nell’ambito della nullità
dell’atto, come tale sanabile, con efficacia “ex tunc”, o per raggiungimento dello scopo, a
seguito della costituzione della parte intimata (anche se compiuta al solo fine di eccepire la
nullità), o in conseguenza della rinnovazione della notificazione, effettuata spontaneamente
dalla parte stessa oppure su ordine del Giudice ex art. 291 c.p.c.”. La vicenda che aveva
occasionato la rimessione della questione alle Sezioni Unite riguardava, per l’appunto,
un’ipotesi in cui la notificazione del ricorso per cassazione era stata compiuta nel domicilio
eletto per il primo grado di giudizio, allorquando era stato eletto in appello un nuovo domicilio
e presso un diverso difensore, laddove, nella fattispecie, pacificamente, non vi è stata revoca
del precedente difensore ma nomina di altro difensore in aggiunta ed il D.P. si era costituito
in giudizio, con sanatoria ex tunc della nullità (Cass. 8525/2017).
5. La prima censura è infondata.
Non vi è stata violazione dell’art. 155 quater c.c., avendo la Corte d’appello accertato, in fatto,
che la figlia P. maggiorenne ma non ancora autosufficiente economicamente, in quanto
studentessa universitaria presso l’Università di Lecce, aveva mantenuto un collegamento
stabile con l’abitazione, nella quale conviveva con la madre, a differenza del figlio minore D.
il quale, sin dal (OMISSIS), si era volontariamente allontanato da detta casa, andando a
vivere con la nonna (e con il padre).
Come il previdente art. 155 c.c., comma 4 (e, per il divorzio, la L. n. 898 del 1970, art. 6), l’art.
155 quater (introdotto dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54) e l’art. 337 sexies c.c. (introdotto dal D.Lgs.
n. 154 del 2013, in vigore dal 7 febbraio 2014), nella parte in cui prevedeva (l’art. 155 quater)
e prevede (l’attuale art. 337 sexies) che “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo
prioritariamente conto dell’interesse dei figli”, hanno una ratio di protezione nei confronti di
questi ultimi, tutelandone l’interesse a permanere nell’ambiente domestico in cui sono
cresciuti, per mantenere le consuetudini di vita e le relazioni sociali che in esso si radicano
(Cass. 6979/2007, 16398/2007, 14553/2011, 21334/2013).
L’assegnazione della casa coniugale non rappresenta, infatti, una componente delle
obbligazioni patrimoniali conseguenti alla separazione o al divorzio o un modo per realizzare
il mantenimento del coniuge più debole e, nel nuovo regime, introdotto già con la 1.54/2006,
è espressamente condizionata soltanto all’interesse dei figli, essendo scomparso il “criterio
preferenziale” costituito dall’affidamento della prole, a fronte del superamento, in linea di
principio, dell’affidamento monogenitoriale in favore della scelta, di regola, dell’affido
condiviso (C. Cost. 308/2008).
Questa Corte (Cass. 23591/2010) ha infatti ribadito che “la scelta cui il giudice è chiamato non
può prescindere dall’affidamento dei figli minori o dalla convivenza con i figli maggiorenni non
ancora autosufficienti che funge da presupposto inderogabile dell’assegnazione” e che
“suddetta scelta, inoltre, neppure può essere condizionata dalla ponderazione tra gli interessi
di natura solo economica dei coniugi o tanto meno degli stessi figli, in cui non entrino in gioco
le esigenze della permanenza di questi ultimi nel quotidiano loro habitat domestico”;
l’assegnazione della casa familiare in conclusione è “uno strumento di protezione della prole
e non può conseguire altre e diverse finalità” (conf. Cass., da ultimo, l’art. 6 15367/2015).
6. Il secondo motivo, con il quale il D.P. malgrado quanto indicato nella “rubrica”, si duole, in
effetti, del solo provvedimento di fissazione di un contributo, a suo carico, per il mantenimento
del coniuge, di Euro 100,00 mensili, fissato dalla Corte d’appello senza valutazione comparata
delle condizioni economiche dei coniugi, nulla essendo neppure allegato in ordine al venir
meno delle condizioni per il mantenimento della figlia maggiorenne, è inammissibile.
Invero, la Corte d’appello ha affermato che l’accordo di separazione del giugno 2010, per ciò
che atteneva all’assegno di mantenimento in favore della S. non era stato modificato dal
Tribunale, senza che fossero sollevate specifiche censure da parte del reclamato-reclamante
incidentale, ed il ricorrente neppure censura detta statuizione.
7. Anche il terzo motivo è inammissibile.
Invero, il ricorrente si limita, del tutto genericamente, a lamentare che gli sia stato imposto
un ordine, corredato da sanzioni in caso di violazione, di accompagnare il minore sedicenne
presso i servizi sociali affidatari, cosi determinandosi una “inaccettabile coercizione fisica nei
confronti del minore”.
Orbene, non si pone il problema di una “illegittimità” della terapia espletata sul minore,
quanto piuttosto, se del caso, può essere posto in discussione che la terapia seguita sia quella
preferibile per il bambino. La valutazione, evidentemente, attiene al merito del giudizio e
risulta insindacabile, se adeguatamente motivata, in sede di legittimità.
Peraltro, nella specie, la Corte d’appello si è limitata a rammentare la sanzionabilità, ex art.
709 ter c.p.c., dell’eventuale comportamento inadempiente tenuto dal genitore incaricato di
accompagnare il figlio minore agli incontri presso i Servizi Sociali o presso la madre e l’art.
709 ter c.p.c., contempla la possibilità di irrogare una sanzione pecuniaria solo in caso di “gravi
inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto
svolgimento nelle modalità dell’affidamento”.
8. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Le spese, liquidate come in
dispositivo, seguono la soccombenza.
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente, al rimborso delle spese processuali del
presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 4.000,00, e titolo di compensi,
oltre Euro 200,00 per esborsi, nonchè rimborso forfetario spese generali nella misura del 15%
ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei
presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri
dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.
Così deciso in Roma, il 7 giugno 2018.
Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 20

Il ‘nuovo corso’ sulla spettanza dell’assegno divorzile è applicabile solo in sede di sentenza

La Corte d’Appello di L’Aquila
ha emesso il presente
DECRETO
D impugna –ai sensi dell’art. 4, comma 2, l.
54\2006, che rende applicabile anche ai giudizi di divorzio il
reclamo di cui all’art. 708, quarto comma, c.p.c.- il
provvedimento reso dal Presidente del Tribunale di Chieti
che, investito della domanda di divorzio avanzata da suo
marito, , ha adottato i provvedimenti urgenti,
elidendo –per quanto in questa sede interessa- la previsione
di assegno in suo favore (che era stata invece stabilita con la
separazione), e disciplinando i tempi d’incontro del padre coi
due figli minorenni, nati dall’unione, e che vivono con lei.
Quanto a tale ultimo punto deduce che i coniugi hanno
concordemente stabilito diversi ritmi d’incontro, che sarebbe
inopportuno modificare.
In relazione all’assegno rappresenta invece che la sentenza di
separazione (del 7\6\2017) aveva stabilito che il –
oltre ad un assegno, di € 500, in favore di ciascuno dei figli)-
versasse anche a lei un assegno di € 600.
Aggiunge che il reddito netto del coniuge era di circa 30.000
euro all’epoca della separazione, mentre oggi ammonta a
circa 45.000 euro (somma che è già depurata non solo delle
imposte, ma anche del canone di locazione che quello deve
o))* +,),-. +.- /, /o0,1*o2. 3.//, 0,4, 2.//, 56,/. 4* 7
trasferito dopo la separazione).
Deduce che la decisione si fonda sul rilievo che ella svolge la
professione di avvocato, ed è perciò in grado di raggiungere la
piena indipendenza economica; e sul sospetto che percepisca
redditi non dichiarati.
Il provvedimento, quindi, sembra fare proprio il nuovo
indirizzo giurisprudenziale (inaugurato da Cass.
11504\2017), secondo il quale l’assegno divorzile non è
dovuto tutte le volte in cui l’altro coniuge abbia conseguito –o
sia in condizione di conseguire- l’autosufficienza economica.
Contesta di percepire redditi non dichiarati, avendo nei fatti
abbandonato la professione al fine di dedicarsi alla cura di
figli e della casa, così supportando la carriera del marito, che
in un primo tempo svolgeva la sua stessa professione, ma poi
aveva vinto un concorso
Rappresenta di vivere nella casa coniugale, che è di proprietà
di suoi genitori, e di avere ripreso la professione solo dopo il
naufragio del rapporto coniugale, per cui oggi svolge soltanto
una sporadica attività di collaborazione in favore di colleghi.
Il , viceversa, è proprietario di 3 immobili (un quarto
è stato alienato nel 2013), e titolare di un cospicuo
patrimonio mobiliare.
Il P.G. ed il hanno chiesto il rigetto del reclamo,
anche se il secondo ha aderito alla richiesta della moglie, di
mantenere l’attuale regime deglii incontri padre – figli, come
concordato da essi coniugi.
Per il resto rappresenta (seppure in via subordinata) che il
provvedimento presidenziale, nell’elidere l’assegno in favore
della moglie, ha aumentato (dal 50 al 70%) il suo contributo
alle spese straordinarie dei figli: per cui all’eventuale
ripristino dell’assegno dovrebbe seguire anche la riduzione
dell’anzidetta percentuale.
Il reclamo e la domanda subordinata del resistente vanno
condivise: a tale fine occorre considerare che nella fase
presidenziale il Giudice non è chiamato a formulare
un’anticipazione del giudizio relativo alla sussistenza dei
requisiti per il riconoscimento dell’assegno di divorzio (che ha
a`bcd ecfgheeigbdj f kilgfmhf a` phbapflbi qd rgbabhgsj f
quindi alla pronuncia di scioglimento degli effetti del
matrimonio), ma solo a verificare se nelle more si siano
verificati fatti nuovi, che consiglino di modificare le previsioni
che erano state assunte in sede di separazione dei coniugi.
Di conseguenza, il nuovo indirizzo giurisprudenziale (peraltro
corretto dalle Sezioni Unite, per quanto detto) potrà trovare
applicazione con la sentenza che dichiara il divorzio, ma non
prima.
Ciò premesso, deve ora considerarsi che i redditi delle parti,
per quanto detto, non hanno subito modifiche apprezzabili; e
che, anzi, sono aumentati quelli del .
Di conseguenza non vi è motivo di modificare le condizioni
della separazione, che vanno ripristinate “in parte qua” in
relazione all’assegno ed alle spese straordinarie.
Si tratta, peraltro, di una decisione assunta allo stato degli
atti, e sulla scorta di un giudizio sommario, per cui è
modificabile in ogni tempo, in modo da tenere conto delle
prove che saranno eventualmente raccolte nel corso
dell’istruttoria.
Le spese del grado seguono la soccombenza.
P.Q.M.
in accoglimento del reclamo, autorizza i coniugi a continuare
a tenere gli incontri padre – figli secondo le modalità
concordate;
ripristina l’assegno in favore della , stabilito con la
separazione, ed onera il a contribuire alle spese
straordinarie necessarie per i figli in ragione dl 50%;
condanna il al pagamento delle spese del grado,
liquidate in complessivi € 4.000, oltre accessori di legge e
spese forfettarie nella misura del 15%.
Si comunichi.