È incostituzionale l’art. 92, co. 2 c.p.c. nella parte in cui non consente al giudice (in caso di soccombenza totale) di compensare le spese di lite in ipotesi ulteriori rispetto a quelle ivi previste

Corte cost., 19 aprile 2018, n. 77
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile, come modificato dall’art.13delD.L. 12 settembre 2014, n. 132(Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nellaL. 10 novembre 2014, n. 162, promossi dal Tribunale ordinario di Torino in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 30 gennaio 2016 e dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 28 febbraio 2017, iscritte rispettivamente al n. 132 del registro ordinanze 2016 e al n. 86 del registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2016 e n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visti gli atti di costituzione di Antonio Benedetto, della REAR società cooperativa a rl, di Elvira Rasulova, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL);
udito nella udienza pubblica del 7 marzo 2018 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;
uditi gli avvocati Alberto Piccinini e Amos Andreoni per Elvira Rasulova, Vincenzo Martino e Amos Andreoni per Antonio Benedetto, Giorgio Frus per la REAR società cooperativa a rl e l’avvocato dello Stato Vincenzo Rago per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1.- Il Tribunale ordinario di Torino ed il Tribunale ordinario di Reggio Emilia, entrambi in funzione di giudice del lavoro, con le ordinanze rispettivamente del 30 gennaio 2016 e del 28 febbraio 2017, iscritte al n. 132 del 2016 e al n. 86 del 2017 del registro ordinanze, hanno sollevato questioni di legittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile, nel testo modificato dall’art.13, comma 1, delD.L. 12 settembre 2014, n. 132(Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nellaL. 10 novembre 2014, n. 162; disposizione questa che prevede che il giudice, se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto a questioni dirimenti, può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero.
Le ordinanze fanno riferimento a plurimi parametri in parte coincidenti. Il Tribunale ordinario di Torino richiama gliartt. 3, primo comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione; il Tribunale ordinario di Reggio Emilia deduce gli artt. 3, primo e secondo comma, 24, 25, primo comma, 102, 104 e 111 Cost., nonché gli artt. 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e gli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva conL. 4 agosto 1955, n. 848, questi ultimi come parametri interposti per il tramitedell’art. 117, primo comma, Cost.
Entrambi i giudici rimettenti incentrano i dubbi di legittimità costituzionale della disposizione censurata sulla mancata previsione, in caso di soccombenza totale, del potere del giudice di compensare le spese di lite tra le parti anche in casi ulteriori rispetto a quelli ivi previsti. Il solo Tribunale di Reggio Emilia deduce altresì la mancata considerazione del lavoratore ricorrente come parte “debole” del rapporto controverso al fine della regolamentazione delle spese processuali.
2.- In particolare, il Tribunale ordinario di Torino è investito del ricorso proposto da un socio lavoratore di una società cooperativa, con mansioni di addetto al controllo ingressi e alla viabilità, avente ad oggetto, in via principale, la domanda di ricalcolo retributivo in base ad un contratto collettivo diverso da quello applicato dalla datrice di lavoro, con conseguente richiesta di condanna della società resistente al pagamento delle relative differenze retributive; in via subordinata, il ricorso ha ad oggetto la domanda di condanna della società resistente al pagamento delle integrazioni contrattuali delle indennità legali di infortunio e malattia computate con riferimento al contratto collettivo applicato dalla società.
A fondamento della domanda il socio lavoratore ricorrente ha dedotto che la società aveva fatto applicazione di un contratto collettivo sottoscritto da organizzazioni datoriali e sindacali non sufficientemente rappresentative ed ha quindi chiesto l’applicazione, ai fini della verifica della congruità retributiva, di altro diverso contratto collettivo, già utilizzato in vertenze similari.
La società si è costituita ed ha chiesto il rigetto delle domande indicando, sempre ai fini del giudizio di congruità della retribuzione, quale termine di raffronto, un contratto collettivo ulteriormente diverso da quello invocato dal ricorrente. Quanto alla domanda subordinata, la resistente ha osservato che l’esclusione dell’integrazione contrattuale delle indennità legali di malattia e di infortunio aveva fatto seguito ad una delibera assembleare del 20 giugno 2011, approvata per garantire la sopravvivenza della società messa in stato di crisi, in conformità all’art. 6, comma 1, lettere d) ed e), dellaL. 3 aprile 2001, n. 142(Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore).
Ciò premesso, il rimettente, dopo aver disposto consulenza contabile, ha rigettato entrambe le domande con sentenza qualificata “non definitiva” e, con separata ordinanza, ha disposto la prosecuzione del giudizio per la definizione del regolamento delle spese di lite; all’esito di discussione orale ha sollevato, d’ufficio, questione di legittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo novellato dall’art.13, comma 1, del citatoD.L. n. 132 del 2014, quale convertito in legge.
Ad avviso del rimettente si configurerebbe la violazionedell’art. 3, primo comma, Cost., sotto il profilo del principio di ragionevolezza, in quanto sussisterebbe una sproporzione tra il fine perseguito – quello di “disincentivare l’abuso del processo” – e lo strumento normativo utilizzato, consistito nella “limitazione estrema ed oltre ogni misura delle ipotesi di compensazione” delle spese di lite. Mentre il testo, come modificato dallaL. 18 giugno 2009, n. 69(Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), era già “del tutto sufficiente a scongiurare eventuali abusi, da parte del giudice, nell’uso dello strumento della compensazione contenendo essa già una regolamentazione del tutto rigorosa ed appropriata”.
Il medesimo parametro sarebbe poi violato – secondo il giudice rimettente – sotto il profilo del principio di eguaglianza, avuto riguardo alle situazioni contemplate dalla norma raffrontate, quali tertia comparationis, con quelle escluse, di pari gravità ed eccezionalità, individuate dalla giurisprudenza di legittimità.
Il tribunale rimettente deduce altresì la violazionedell’art. 24, primo comma, Cost., in quanto la riduzione delle ipotesi di compensazione soltanto a due (oltre a quella tradizionale della soccombenza reciproca) “tende … a scoraggiare in modo indebito l’esercizio dei diritti in sede giudiziaria, divenendo così uno strumento deflattivo (e punitivo) incongruo” nelle ipotesi in cui la condotta della parte, poi risultata soccombente, non integra casi di abuso del processo, ma sia improntata a correttezza, prudenza e buona fede.
Parimenti sarebbe violatol’art. 111, primo comma, Cost., sotto il profilo del principio del giusto processo, in quanto la disposizione censurata, consentendo la compensazione nei soli casi indicati, “limita il potere – dovere del giudice di rendere giustizia, anche in ordine al regolamento delle spese di lite, in modo appropriato al caso concreto”.
3.- Nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale promosso dal Tribunale ordinario di Torino si sono costituite le parti del giudizio a quo, che hanno depositato memorie.
Il lavoratore socio ha aderito alle censure mosse dall’ordinanza di rimessione, ribadendo ciò con successiva memoria e concludendo per la dichiarazione di illegittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.
La società resistente ha rilevato in via preliminare che la regolamentazione delle spese di lite non è suscettibile di autonomo distinto giudizio, richiamando a tal proposito l’ordinanza n. 314 del 2008 di questa Corte. Nel merito sottolinea come la disposizione censurata non costituisca uno “strumento punitivo incongruo”, essendo ragionevole porre, di regola, i costi del processo a carico di colui che lo ha attivato con esito negativo, e limitare la possibile compensazione delle spese di lite ad ipotesi tassativamente previste, stante il carattere eccezionale delle medesime.
È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o l’infondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale. In particolare la difesa dell’interveniente afferma la ragionevolezza della individuazione da parte del legislatore, nell’esercizio dell’ampia discrezionalità di cui egli gode in materia processuale, di ipotesi specifiche e tassative che giustifichino la compensazione delle spese di lite. Si tratterebbe di una scelta che non entra in collisione con i parametri costituzionali che il giudice rimettente assume essere violati e che integrerebbe il giusto mezzo per conseguire la finalità deflativa al fine di “disincentivare” l’abuso del processo.
È intervenuta ad adiuvandum la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), concludendo per l’ammissibilità dell’intervento e, nel merito, per la dichiarazione di illegittimità costituzionale della censurata disposizione.
4.- Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia è investito di una controversia avente ad oggetto l’impugnazione del licenziamento, azionata mediante ricorso proposto ai sensi dell’art.1, commi 48 e seguenti, dellaL. 28 giugno 2012, n. 92(Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita). Si tratta di una lavoratrice che ha impugnato il licenziamento intimatole in data 30 novembre 2015 dalla Italservizi srl (poi A.M. srl in liquidazione) con decorrenza dal 31 dicembre 2015.
In particolare la lavoratrice ha agito nei confronti di numerosi convenuti (B.I. spa, S.C.I. srl, A.M. srl e B. S.L. personalmente ed in proprio), affermando l’esistenza “di un unico centro di imputazione giuridica o gruppo d’imprese e la contemporanea utilizzazione della prestazione lavorativa da parte di tutti i convenuti”, sicché l’intervenuto licenziamento era da porre nel nulla nei confronti di ognuno dei soggetti chiamati in causa.
Si è costituita, tra le altre parti, la B.I. spa, che ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso essendo intervenuta il 25 gennaio 2016 la revoca del licenziamento da parte della A.M. srl (successivamente in liquidazione).
All’esito della prima fase del procedimento (a cognizione sommaria) il rimettente ha pronunciato un’ordinanza di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse ad agire della ricorrente per mancanza del licenziamento e, in merito alle spese di lite, ha condannato la lavoratrice al rimborso di quelle sostenute dalla attuale (almeno formalmente) datrice di lavoro A.M. srl in liquidazione, mentre le ha compensate con riferimento alle altre parti convenute.
Nei confronti del capo dell’ordinanza relativo alla liquidazione delle spese della fase sommaria, la sola B.I. spa ha proposto opposizione per la mancanza dei presupposti richiesti a tal finedall’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.e per l’assenza di motivazione in merito alla disposta compensazione per le altre parti, censurando infine la disparità di trattamento rispetto alla A.M. srl.
Nel giudizio di opposizione si è costituita la lavoratrice per contestare in fatto e in diritto l’opposizione e ha sollevato eccezione di illegittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., evidenziando come un’interpretazione rigida di tale disposizione determinerebbe un’illegittima riduzione della discrezionalità del giudice nella valutazione degli elementi idonei a giustificare la compensazione delle spese di lite.
Anche il Tribunale ordinario di Reggio Emilia chiede alla Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo modificato dall’art.13, comma 1, delD.L. n. 132 del 2014, convertito, con modificazioni, nellaL. n. 162 del 2014, nella parte in cui – nelle cause di lavoro o di previdenza, nelle quali l’attore in primo grado è quasi sempre il lavoratore – non prevede il potere del giudice di valutare “i gravi ed eccezionali motivi” per compensare le spese di lite.
Ad avviso del rimettente si configurerebbe la violazione degli artt. 3, primo e secondo comma, 24 e 111 Cost., in quanto la disposizione censurata “priva irragionevolmente il Giudice della essenziale funzione di giustizia, ovvero quella di adeguare la pronunzia alle peculiarità del modello processuale ed alle condizioni personali e circostanze concrete del caso di specie”; dà luogo alla manifesta violazione del principio di uguaglianza sostanziale “che esigerebbe un trattamento differenziato, ma di vantaggio, per il soggetto più debole e costretto ad agire giudizialmente” per vedere accertata l’illegittimità del provvedimento datoriale, trattandosi, di regola, di “controversie a “controprova””; “esercita di fatto una gravissima limitazione del diritto all’effettività dell’accesso alla giustizia in danno del lavoratore”, già gravato dagli oneri economici, non detraibili, del pagamento del contributo unificato, dell’anticipazione delle spese legali e dell’IVA; limita il diritto all’effettività dell’accesso alla giustizia “in termini di pesante “deterrenza” in modo proporzionalmente (e vieppiù irragionevolmente) maggiore per quanto minore sia la capacità economica del lavoratore”; colpisce, irragionevolmente, anche la parte incolpevole che non ha “abusato” del processo o che non ha invocato diritti, “che a priori, sapeva essere inesistenti”.
Inoltre, sempre ad avviso del rimettente, sarebbero violati gliartt. 25, primo comma, 102 e 104 Cost., in quanto l’intervenutoD.L. n. 132 del 2014costituirebbe un’ingerenza del potere legislativo su quello giudiziario comprimendo oltremodo la discrezionalità del giudice.
Il tribunale rimettente deduce poi la violazionedell’art. 117, primo comma, Cost.in relazione all’art. 47 CDFUE che esige l’effettività del diritto d’azione e di accesso alla giustizia e l’equità del processo, “quest’ultima irragionevolmente lesa da una sanzione che colpisce una parte che non ha “responsabilità” processuale (nelle cause “a controprova”)”; nonché in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU, in rapporto al “diritto all’equo processo” ed al diritto ad un “ricorso effettivo”, in quanto la modificadell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.in chiave specificamente deflativa, rappresenta un mezzo sproporzionato rispetto allo scopo perseguito.
Altresì sarebbero violati gli artt. 14 CEDU e 21 CDFUE, in relazione al principio di non discriminazione, derivante dal divieto per il giudice di tener conto della condizione personale del lavoratore, “così pregiudicandone il diritto di azione proprio in ragione della limitata capacità economica, anche a prescindere da ragioni di “colpevolezza processuale””.
Il rimettente poi osserva che nel processo del lavoro sono frequenti le controversie cosiddette “a controprova”, nel senso che il lavoratore deve introdurle non disponendo di tutti i dati che incidono sulla legittimità, o meno, del provvedimento datoriale che egli ha già subito e di cui chiede al giudice il controllo di legittimità, da operare appunto all’esito dell’assolvimento della prova da parte del datore di lavoro convenuto in giudizio.
Con specifico riferimento alle controversie di lavoro, il rimettente deduce inoltre che il lavoratore, per introdurre la causa in primo grado, deve, di regola, sostenere l’onere del contributo unificato, l’anticipazione delle spese legali e spesso di quelle per conteggi, oltre all’IVA sulla prestazione dei professionisti; e tutti questi oneri, come pure quello eventuale delle spese di soccombenza, non sono detraibili. Al contrario, il datore, di regola, potrà recuperare l’IVA sulle prestazioni del difensore e detrarrà dal reddito la relativa parcella, come le spese di eventuale soccombenza.
In riferimento al principio di non discriminazione sancito nella CEDU, il rimettente osserva come la discriminazione vietata dall’art. 14 della Convenzione consista nel trattare in modo differente, salvo una giustificazione obiettiva e ragionevole, le persone che si trovano in situazioni simili o analoghe e che una distinzione è discriminatoria se non persegua uno scopo legittimo o se non sussiste un rapporto di ragionevole proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo che si è prefissata.
Quanto alla rilevanza della sollevata questione di legittimità costituzionale, il giudice a quo pone in rilievo che la lavoratrice, originaria ricorrente nel procedimento per l’impugnazione del licenziamento, è convenuta in opposizione, dalla società cui non è stato ritenuto riconducibile il licenziamento, per essere condannata alla rifusione delle spese processuali sia della prima fase (sommaria), sia di quella attuale di opposizione; il rimettente afferma che la vicenda riveste una peculiarità oggettiva tale da rendere difficile una ricostruzione in fatto degli avvenimenti, per i numerosi passaggi subiti dal lavoratore da una società all’altra nonché per la necessità di procedere alla ricostruzione delle trasformazioni e cessioni societarie avvenute, in forza delle quali le plurime aziende coinvolte, tra loro collegate di fatto o in diritto, hanno cambiato nome, assetto e composizione societaria, ceduto rami d’azienda ed effettuato altre intricate modifiche interne.
5.- Nel giudizio incidentale si è costituita la lavoratrice, depositando anche memoria, ed ha concluso per la fondatezza della questione.
È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o l’infondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale. La difesa dell’interveniente svolge sostanzialmente le medesime argomentazioni già prospettate nell’altro giudizio incidentale, deducendo, in particolare, che nell’ambito di controversie in materia di lavoro, dove una delle parti in causa potrebbe risultare economicamente svantaggiata rispetto all’altra, l’indicazione tassativa delle ipotesi in cui è possibile procedere alla compensazione delle spese di lite non determina un effetto preclusivo del ricorso alla tutela giurisdizionale.

Motivi della decisione
1.- Con ordinanza del 30 gennaio 2016, iscritta al n. 132 del registro ordinanze 2016, il Tribunale ordinario di Torino, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agliartt. 3, primo comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile, nel testo modificato dall’art.13, comma 1, delD.L. 12 settembre 2014, n. 132(Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nellaL. 10 novembre 2014, n. 162, nella parte in cui non consente, in caso di soccombenza totale, la compensazione delle spese di lite anche in altre ipotesi di gravi ed eccezionali ragioni, analoghe a quelle indicate in modo tassativo dalla disposizione stessa, ossia l'”assoluta novità della questione trattata” e il “mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti”.
La questione è stata sollevata nel corso di un giudizio civile promosso da un socio lavoratore di una società cooperativa, per ottenere la condanna di quest’ultima al pagamento di differenze di compenso per l’attività svolta calcolate sulla base delle tariffe del contratto collettivo ritenute applicabili ai sensi dell’art.3, comma 1, dellaL. 3 aprile 2001, n. 142(Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore), e dell’art.7, comma 4, delD.L. 31 dicembre 2007, n. 248(Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria), convertito, con modificazioni, nellaL. 28 febbraio 2008, n. 31. In via subordinata lo stesso ricorrente aveva chiesto il riconoscimento di un’integrazione contrattuale delle indennità previste in caso di infortunio e di malattia.
Il tribunale, pronunciandosi nell’instaurato contraddittorio delle parti, ha rigettato, con sentenza qualificata “non definitiva”, sia la domanda principale che quella subordinata, ed ha disposto la prosecuzione del giudizio per la definizione della questione residua, concernente il regolamento delle spese di lite. In tale sede, ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., con riferimento ai parametri suddetti ritenendo che la limitazione a due sole ipotesi tassative della possibilità per il giudice di compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale sia contraria al principio di ragionevolezza e di eguaglianza, nonché a quello del giusto processo e comporti un’eccessiva remora a far valere i propri diritti in giudizio.
Secondo il tribunale rimettente, nella specie, l’esito della lite, sfavorevole al lavoratore, è dipeso da elementi di fatto nuovi, non previsti né prevedibili: da una parte una contrattazione collettiva utilizzata parametricamente dal consulente tecnico d’ufficio per calcolare le rivendicate differenze retributive, la quale era diversa sia da quella applicata dalla società, sia da quella allegata dal lavoratore a sostegno della sua pretesa; d’altra parte una non conosciuta delibera della società che aveva (legittimamente) sospeso l’erogazione del trattamento integrativo di malattia e di infortunio, parimenti rivendicato dal lavoratore.
2.- Con ordinanza del 28 febbraio 2017, iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2017, il Tribunale ordinario di Reggio Emilia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato analoghe questioni di legittimità costituzionale della medesima disposizione, per contrasto con gli artt. 3, primo e secondo comma; 24; 25, primo comma; 102; 104 e 111 Cost.; nonché degli artt. 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e degli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva conL. 4 agosto 1955, n. 848, questi ultimi come parametri interposti per il tramitedell’art. 117, primo comma, Cost.
La questione è stata sollevata nel corso di una controversia di lavoro avente ad oggetto l’impugnativa di un licenziamento, promossa con il rito di cui all’art.1, comma 48, dellaL. 28 giugno 2012, n. 92(Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), da una lavoratrice nei confronti non solo della società che aveva intimato il licenziamento, ma anche di altre società, sull’asserito presupposto di un unico centro di imputazione giuridica del rapporto di lavoro, stante la contemporanea utilizzazione della prestazione lavorativa da parte di tutte le società convenute. La fase sommaria si concludeva con un’ordinanza di inammissibilità del ricorso per essere stato il licenziamento revocato. Quanto alle spese di lite il tribunale condannava la lavoratrice al pagamento delle spese nei confronti della società che aveva formalmente intimato – e poi revocato – il licenziamento; invece le compensava tra la lavoratrice e le altre società convenute in giudizio. Avverso questa ordinanza proponeva opposizione una sola di queste ultime società, dolendosi della compensazione delle spese di lite e chiedendo la condanna della lavoratrice, originaria ricorrente, al pagamento delle stesse. Quest’ultima ha resistito all’opposizione eccependo, tra l’altro, l’illegittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.; eccezione che il giudice dell’opposizione ha accolto promuovendo l’incidente di legittimità costituzionale con riferimento ai parametri sopra indicati e muovendo censure analoghe a quelle del Tribunale di Torino, nonché lamentando che non venga in rilievo la posizione del lavoratore quale parte “debole” del rapporto controverso.
Secondo il tribunale rimettente l’utilizzazione delle prestazioni lavorative da parte non solo della società datrice di lavoro, ma anche di altre società, aveva creato l’apparenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro con conseguente grave incertezza in ordine a chi fosse il reale datore; sicché non ingiustificata appariva l’evocazione in giudizio delle varie società interessate.
3.- Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal Tribunale ordinario di Torino e dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, sono in larga parte sovrapponibili e quindi si rende opportuna la loro trattazione congiunta mediante riunione dei giudizi.
4.- Va preliminarmente considerato che nel giudizio di legittimità costituzionale originato dall’ordinanza di rimessione del giudice del lavoro di Torino è intervenuta ad adiuvandum la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), aderendo alle argomentazioni contenute nell’ordinanza di rimessione e chiedendo l’accoglimento della prospettata questione di legittimità costituzionale.
L’Avvocatura generale dello Stato e la difesa della società costituita hanno eccepito l’inammissibilità di tale intervento.
L’intervento è inammissibile.
La costante giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, le ordinanze allegate alle sentenze n. 16 del 2017, n. 237 e n. 82 del 2013, n. 272 del 2012, n. 349 del 2007, n. 279 del 2006 e n. 291 del 2001) è nel senso che la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale).
A tale disciplina è possibile derogare – senza venire in contrasto con il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità – soltanto a favore di soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura. Pertanto, l’incidenza sulla posizione soggettiva dell’interveniente deve derivare non già, come per tutte le altre situazioni sostanziali disciplinate dalla disposizione denunciata, dalla pronuncia della Corte sulla legittimità costituzionale della legge stessa, ma dall’immediato effetto che la pronuncia della Corte produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo.
Nella specie – essendo la CGIL titolare non di un interesse direttamente riconducibile all’oggetto del giudizio principale, bensì di un mero indiretto, e più generale, interesse connesso agli scopi statutari della tutela degli interessi economici e professionali degli iscritti – il suo intervento in questo giudizio deve essere dichiarato inammissibile.
5.- Ancora in via preliminare l’Avvocatura generale dello Stato ha sollevato eccezione di inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per mancata interpretazione adeguatrice della disposizione censurata.
L’eccezione non è fondata.
Entrambi i giudici rimettenti hanno, con motivazione plausibile, escluso la possibilità di interpretazione adeguatrice della disposizione censurata osservando che il recente ripetuto intervento del legislatore sulla disposizione censurata, di cui si dirà oltre, mostra chiaramente che si è inteso restringere sempre più la discrezionalità del giudice della controversia fino a definire le sole ipotesi che facoltizzano il giudice, in caso di soccombenza totale, a compensare, in tutto o in parte, le spese di lite; ipotesi che quindi sono tassative: la soccombenza reciproca ovvero l’assoluta novità della questione trattata o il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. Non è possibile pertanto estendere in via interpretativa tale facoltà del giudice ad altre ipotesi che parimenti consentano la compensazione delle spese di lite.
Tanto è sufficiente per ritenere l’ammissibilità della questione, anche in ragione della più recente giurisprudenza di questa Corte che ha affermato che, se è vero che le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime “perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne)”, ciò però non significa che “ove sia improbabile o difficile prospettarne un’interpretazione costituzionalmente orientata, la questione non debba essere scrutinata nel merito” (sentenza n. 42 del 2017; nello stesso senso, sentenza n. 83 del 2017).
6.- L’Avvocatura generale dello Stato ha inoltre eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per insufficiente descrizione della fattispecie.
L’eccezione non è fondata.
Entrambi i giudici rimettenti hanno descritto in dettaglio la fattispecie al loro esame nei termini sopra riportati ed hanno chiaramente evidenziato la necessità di applicare nei giudizi a quibus la disposizione censurata in ordine alla quale hanno motivatamente argomentato i loro dubbi di legittimità costituzionale.
Le sollevate questioni di legittimità costituzionale sono quindi ammissibili, sotto l’indicato profilo, e sussiste altresì la loro rilevanza.
7.- C’è poi un ulteriore, più delicato, profilo di ammissibilità concernente le questioni oggetto dell’ordinanza di rimessione del Tribunale ordinario di Torino, che – come già rilevato – ha deciso con sentenza, qualificata “non definitiva”, tutto il merito della causa ed ha riservato solo la decisione sulle spese di lite, in riferimento alla quale, con distinta ordinanza, ha posto la questione di legittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.
Deve rilevarsi al riguardo che questa Corte nell’ordinanza n. 395 del 2004ha affermato che la regolamentazione delle spese, in quanto accessoria alla decisione di merito, non è suscettibile di un autonomo giudizio.
La citata ordinanza ha riguardato una situazione analoga: quella di un giudice rimettente (di primo grado) che, nel censurare il medesimoart. 92, secondo comma, cod. proc. civ., aveva parimenti deciso, con sentenza, il merito della causa disponendo con ordinanza la sospensione del processo limitatamente alla pronuncia accessoria sulle spese legali, perché, ritenendo di dover fare uso della facoltà di compensarle, ai sensi della citata disposizione nel testo originario, dubitava della legittimità costituzionale di tale norma, “così come interpretata dalla giurisprudenza pressoché univoca e costante della Suprema Corte”, secondo cui non vi era alcun obbligo di motivare il capo della sentenza col quale fosse disposta la compensazione delle spese “per giusti motivi”, trattandosi di statuizione discrezionale, assistita da una presunzione di conformità a diritto.
Questa Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, affermando che “il “diritto vivente” in questione … si risolve in una regola – insindacabilità della compensazione delle spese non motivata – della quale è diretto destinatario il giudice dell’impugnazione, e solo indirettamente il giudice munito del potere (discrezionale) di disporre la compensazione delle spese del giudizio da lui definito”. Sicché il canone dell’insindacabilità della motivazione della compensazione delle spese di lite, all’epoca ritenuta dalla giurisprudenza di legittimità, costituiva regola di giudizio per il giudice dell’impugnazione, legittimato in ipotesi a sollevare la relativa questione di legittimità costituzionale, ma non già per un giudice di primo grado, quale era il giudice rimettente. Da ciò, l’inammissibilità manifesta della questione di legittimità costituzionale.
La Corte però ha poi aggiunto – seppur senza che ciò costituisse, o concorresse a costituire, la ratio decidendi della pronuncia di inammissibilità – che il giudice rimettente comunque “aveva consumato il suo potere decisorio”. In ragione di ciò si potrebbe ora sostenere che anche il Tribunale ordinario di Torino abbia esaurito il suo potere decisorio dopo essersi pronunciato su tutto il merito della causa, di talché la questione di legittimità costituzione sarebbe, sotto tale profilo, inammissibile.
8.- In realtà, la questione è ammissibile anche sotto questo profilo.
Nel processo civile una sentenza non definitiva è possibile allorché il giudice di primo grado – qual è il rimettente Tribunale ordinario di Torino – limiti la sua decisione alla questione di giurisdizione, o a questioni pregiudiziali o preliminari di merito, o anche solo ad alcune questioni di merito impartendo distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa (art. 279, secondo comma, cod. proc. civ.).Il giudice infatti può limitare la decisione ad alcune domande, se riconosce che per esse soltanto non sia necessaria un’ulteriore istruzione e sempre che la loro “sollecita definizione” sia di “interesse apprezzabile” per la parte che ne abbia fatto istanza (art. 277, secondo comma, cod. proc. civ.).
Ma se il giudice decide totalmente il merito della causa, accogliendo o rigettando tutte le domande, emette una sentenza definitiva, alla quale si accompagna la pronuncia sulle spese di lite, che – come già rilevato da questa Corte (nell’ordinanza n. 314 del 2008, richiamata dalla difesa della società costituita) – ha “natura accessoria” rispetto alla decisione sul merito. Non di meno però la decisione sulle spese di lite ha una sua distinta autonomia nella misura in cui è possibile l’impugnativa di questo solo capo della sentenza definitiva sicché, in tale evenienza, il giudizio di impugnazione è destinato ad avere ad oggetto la sola regolamentazione delle spese di lite.
Questo legame di accessorietà della pronuncia sulle spese alla sentenza che decida tutte le questioni di merito non è quindi indissolubile e, in particolare, è recessivo allorché il giudice – come il Tribunale ordinario di Torino – abbia un dubbio non manifestamente infondato in ordine soltanto alla disposizione che governa le spese di lite e di cui egli debba fare applicazione.
Il principio della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), coniugato con il favor per l’incidente di legittimità costituzionale il quale preclude che alcun giudice possa fare applicazione di una disposizione di legge della cui legittimità costituzionale dubiti – suggerisce che non sia ritardata la decisione del merito della causa rispondendo ciò all'”interesse apprezzabile” delle parti alla “sollecita definizione” di quanto possa essere deciso senza fare applicazione della disposizione indubbiata (ex art. 277, secondo comma, citato). Del resto, come argomento a fortiori, può richiamarsi la giurisprudenza di questa Corte che ha ritenuto, al fine dell’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, che il potere decisorio del giudice rimettente non venga meno neppure quando egli abbia, al contempo, adottato la misura cautelare richiesta da una parte e, con separato provvedimento, abbia sospeso il giudizio cautelare investendo questa Corte con incidente di legittimità costituzionale proprio sulla disposizione di cui abbia fatto applicazione provvisoria e temporanea (ex plurimis, sentenze n. 83 del 2013, n. 236 del 2010, n. 351 e n. 161 del 2008; ordinanza n. 25 del 2006).
Si ha quindi che, nella specie, non erroneamente il Tribunale ordinario di Torino non ha sacrificato l’interesse delle parti alla sollecita decisione del merito – segnatamente, di tutto il merito – della causa ed ha legittimamente limitato la sospensione del giudizio, obbligatoria ex art.23, secondo comma, dellaL. 11 marzo 1953, n. 87(Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), a quanto strettamente necessario per la decisione della questione di legittimità costituzionale.
La pur imprecisa qualificazione, ad opera dello stesso tribunale, della sentenza che ha deciso tutto il merito della causa, come pronuncia “non definitiva” anziché “definitiva” exart. 279 cod. proc. civ., rileva al fine non già dell’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, ma del regime dell’impugnazione di tale pronuncia quanto alla possibilità, o no, della riserva facoltativa d’appello exart. 340 cod. proc. civ.
9.- Nel merito la questione, sollevata congiuntamente dal Tribunale ordinario di Torino e dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, è fondata.
10.- La regolamentazione delle spese processuali nel giudizio civile risponde alla regola generale victus victori fissatadall’art. 91, primo comma, cod. proc. civ.nella parte in cui – ripetendo l’analoga prescrizionedell’art. 370, primo comma, del codice di procedura civiledel 1865 – prevede che “il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa”. Quindi la soccombenza si accompagna, di norma, alla condanna al pagamento delle spese di lite. L’alea del processo grava sulla parte soccombente perché è quella che ha dato causa alla lite non riconoscendo, o contrastando, il diritto della parte vittoriosa ovvero azionando una pretesa rivelatasi insussistente. È giusto, secondo un principio di responsabilità, che chi è risultato essere nel torto si faccia carico, di norma, anche delle spese di lite, delle quali invece debba essere ristorata la parte vittoriosa. Questa Corte ha in proposito affermato che “il costo del processo deve essere sopportato da chi ha reso necessaria l’attività del giudice ed ha occasionato le spese del suo svolgimento” (sentenza n. 135 del 1987).
La regolamentazione delle spese di lite è processualmente accessoria alla pronuncia del giudice che la definisce in quanto tale ed è anche funzionalmente servente rispetto alla realizzazione della tutela giurisdizionale come diritto costituzionalmente garantito (art. 24 Cost.).Il “normale complemento” dell’accoglimento della domanda – ha affermato questa Corte (sentenza n. 303 del 1986) – è costituito proprio dalla liquidazione delle spese e delle competenze in favore della parte vittoriosa.
Ma non è una regola assoluta proprio in ragione del carattere accessorio della pronuncia sulle spese di lite, come emerge dalla giurisprudenza di questa Corte che ha esaminato un’ipotesi di contenzioso – il processo tributario prima della riforma del 1992 – in cui non era affatto prevista la regolamentazione delle spese di lite sì che la parte soccombente non ne sopportava l’onere e la parte vittoriosa non ne era ristorata. Ha infatti affermato questa Corte (sentenza n. 196 del 1982) che “l’istituto della condanna del soccombente nel pagamento delle spese ha bensì carattere generale, ma non è assoluto e inderogabile”: come è consentito al giudice di compensare tra le parti le spese di lite ricorrendo le condizioni di cui al secondo commadell’art. 92 cod. proc. civ.(disposizione attualmente censurata), così rientra nella discrezionalità del legislatore modulare l’applicazione della regola generale secondo cui alla soccombenza nella causa si accompagna la condanna al pagamento delle spese di lite. Analogamente, con riferimento al giudizio di opposizione a sanzioni amministrative, questa Corte (ordinanza n. 117 del 1999) ha ribadito che “l’istituto della condanna del soccombente al pagamento delle spese di giudizio, pur avendo carattere generale, non ha portata assoluta ed inderogabile, potendosene profilare la derogabilità sia su iniziativa del giudice del singolo processo, quando ricorrano giusti motivi exart. 92, secondo comma, cod. proc. civ., sia per previsione di legge – con riguardo al tipo di procedimento – in presenza di elementi che giustifichino la diversificazione dalla regola generale”. Parimenti è stata ritenuta non illegittima una regola di settore che, all’opposto, escludeva in ogni caso la compensazione delle spese di lite in ipotesi di accoglimento della domanda di risarcimento del danno esercitata nel processo penale dalla parte offesa costituitasi parte civile nel regime precedente la riforma del codice di procedura penale del 1987 (sentenza n. 222 del 1985).
Ampia quindi è la discrezionalità di cui gode il legislatore nel dettare norme processuali (ex plurimis, sentenze n. 270 del 2012, n. 446 del 2007 e n. 158 del 2003) e segnatamente nel regolamentare le spese di lite. Sicché è ben possibile – ha affermato questa Corte (sentenza n. 157 del 2014) – “una deroga all’istituto della condanna del soccombente alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa, in presenza di elementi che la giustifichino (sentenze n. 270 del 2012 e n. 196 del 1982), non essendo, quindi, indefettibilmente coessenziale alla tutela giurisdizionale la ripetizione di dette spese (sentenza n. 117 del 1999)”.
11.- Muovendo da questa affermata possibile derogabilità della regola che prescrive la condanna del soccombente alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa, vanno ora esaminate le censure mosse alla disposizione indubbiata dai giudici rimettenti, che sono centrate proprio sulle possibili deroghe a tale regola. Le quali, da epoca risalente e per lungo tempo, sono state affidate ad una clausola generale che chiamava in gioco la discrezionalità del giudice al momento della decisione della causa. Disponeva infatti il secondo commadell’art. 370 cod. proc. civ.del 1865: “Quando concorrono motivi giusti, le spese possono dichiararsi compensate in tutto o in parte”. Il secondo commadell’art. 92 cod. proc. civ.del 1940 ha ripetuto la stessa norma derogatoria: “Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”. Nella relazione al Guardasigilli per la redazione del nuovo codice di procedura civile si espresse l’opzione di dare continuità all’analoga disposizione del codice di rito del 1865 e, con riferimento alla facoltà demandata al giudice di compensare le spese di lite, oltre al caso di soccombenza parziale, anche quando ricorressero “motivi giusti” – che, con mera inversione testuale sarebbero diventati “giusti motivi” – si evidenziò che “tale regola … risponde ad un evidente criterio di giustizia”, ritenendo non “attendibili” alcune osservazioni in senso critico rivolte da una parte della dottrina contro questa clausola generale, la quale affidava tale criterio derogatorio, nel momento della decisione della lite, al prudente apprezzamento del giudice, che era quello che meglio conosceva le peculiarità della causa.
La norma espressa dal secondo commadell’art. 92 cod. proc. civ., attualmente oggetto delle censure di illegittimità costituzionale, è rimasta per lungo tempo invariata anche in occasioni di profonde riforme del codice di rito, quale quella del 1950 apportata con laL. 14 luglio 1950, n. 581(Ratifica delD.Lgs. 5 maggio 1948, n. 483, contenente modificazioni e aggiunte al Codice di procedura civile) e quella del 1990 introdotta con laL. 26 novembre 1990, n. 353(Provvedimenti urgenti per il processo civile); ma non è rimasta immune da critiche di parte della dottrina. Ed in effetti, già nella vigenzadell’art. 370 cod. proc. civ.del 1865, un’autorevole dottrina del tempo aveva denunciato l’abuso nella pratica della compensazione per i motivi più vari.
Il punctum dolens era la motivazione dei “giusti motivi” che facoltizzavano il giudice a compensare, totalmente o parzialmente, le spese di lite anche in caso di soccombenza totale. Il principio di diritto, che era stato alla fine fissato in una tralaticia massima di giurisprudenza, affermava che la valutazione dei “giusti motivi” per la compensazione, totale o parziale, delle spese processuali rientrava nei poteri discrezionali del giudice di merito e non richiedeva specifica motivazione, restando perciò incensurabile in sede di legittimità, salvo che risultasse violata la regola secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa (argumenta, ex plurimis, da Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 15 luglio 2005, n. 14989).
Sempre più però si poneva in discussione questo orientamento giurisprudenziale fino al radicarsi di un vero e proprio contrasto, poi composto dalle sezioni unite della Corte di cassazione, che operarono una significativa correzione di rotta affermando che la decisione di compensazione, totale o parziale, delle spese di lite per “giusti motivi” dovesse comunque dare conto della relativa statuizione mediante argomenti specificamente riferiti a questa ovvero attraverso rilievi che, sebbene riguardanti la definizione del merito, si risolvano in considerazioni giuridiche o di fatto idonee a giustificare tale compensazione delle spese (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 30 luglio 2008, n. 20598).
12.- Intanto il legislatore era intervenuto ed aveva modificato, dopo quasi centocinquant’anni, la norma in questione confermando sì la clausola generale dei “giusti motivi”, quale presupposto della compensazione delle spese di lite, ma richiedendo che questi fossero “esplicitamente indicati nella motivazione” (art.2, comma 1, dellaL. 28 dicembre 2005, n. 263, recante “Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con ilD.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dallaL. 14 maggio 2005, n. 80, nonché ulteriori modifiche al codice di procedura civile e alle relative disposizioni di attuazione, al regolamento di cui alR.D. 17 agosto 1907, n. 642, al codice civile, allaL. 21 gennaio 1994, n. 53, e disposizioni in tema di diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato”).
La prescrizione dell’espressa indicazione dei “giusti motivi” nella motivazione della decisione del giudice sulle spese di lite non apparve però ancora sufficiente a contrastare una tendenza, esistente nella prassi, al frequente ricorso da parte del giudice alla facoltà di compensare le spese di lite anche in caso di soccombenza totale. Il legislatore è quindi intervenuto una seconda volta proprio sulla clausola generale accentuandone, in chiave limitativa, il carattere derogatorio rispetto alla regola generale che vuole che alla soccombenza totale segua anche la condanna al pagamento delle spese di lite. L’art.45, comma 11, dellaL. 18 giugno 2009, n. 69(Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), ha così riformulato il secondo comma dell’art. 92: “Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”.
I “giusti motivi” sono diventati le “gravi ed eccezionali ragioni”: ciò significava che il perimetro della clausola generale si era ridotto, ritenendo il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità – che si è già rilevato essere ampia, secondo la giurisprudenza di questa Corte – che una più estesa applicazione della regola di porre a carico del soccombente totale le spese di lite rafforzasse il principio di responsabilità di chi promuoveva una lite, o resisteva in giudizio, con conseguente effetto deflativo sul contenzioso civile.
13.- Al fondo di questo contesto riformatore è la consapevolezza, sempre più avvertita, che, a fronte di una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera.
Da ciò l’adozione, in epoca recente, di istituti processuali diretti, in chiave preventiva, a favorire la composizione della lite in altro modo, quali le misure di ADR (Alternative Dispute Resolution), cui sono riconducibili le procedure di mediazione, la negoziazione assistita, il trasferimento della lite alla sede arbitrale. Nella stessa linea è la previsione in generale, nel codice di rito (art. 185-bis cod. proc. civ.), di un momento processuale che vede la formulazione della proposta di conciliazione ad opera del giudice, introdotta in generale dall’art.77, comma 1, lettera a), delD.L. 21 giugno 2013, n. 69(Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, nellaL. 9 agosto 2013, n. 98, generalizzando quanto era già stato stabilito, qualche anno prima, per le controversie di lavoro attraverso la modificadell’art. 420, primo comma, cod. proc. civ., introdotta dall’art.31, comma 4, dellaL. 4 novembre 2010, n. 183(Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro).
Per altro verso, quando non di meno la lite arriva all’esito finale della decisione giudiziaria, appare giustificato che l’alea del processo debba allora gravare sulla parte totalmente soccombente secondo una più stretta regola generale, limitando alla ricorrenza di “gravi e eccezionali ragioni” la facoltà per il giudice di compensare le spese di lite.
Questo raggiunto equilibrio è stato però alterato da un’ulteriore, più recente, modifica del censurato secondo commadell’art. 92 cod. proc. civ.
14.- Da ultimo infatti, sull’abbrivio riformatore cominciato nel 2005, il legislatore, nel 2014, è andato ancora oltre ed ha ristretto ulteriormente il perimetro della deroga alla regola che vuole che le spese di lite gravino sulla parte totalmente soccombente: non più la clausola generale delle “gravi ed eccezionali ragioni”, ma due ipotesi nominate (oltre quella della soccombenza reciproca che non è mai mutata), ossia l’assoluta novità della questione trattata ed il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti.
Così ha disposto, da ultimo, l’art.13, comma 1, delD.L. n. 132 del 2014, convertito, con modificazioni, nellaL. n. 162 del 2014(norma che, per espressa previsione dell’art. 13, comma 2, del decreto-legge citato, si applica ai procedimenti introdotti a decorrere dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della relativa legge di conversione, avvenuta l’11 novembre 2014). Si legge nella Relazione al disegno di legge di conversione in legge deldecreto-legge n. 132 del 2014: “Nonostante le modifiche restrittive introdotte negli ultimi anni, nella pratica applicativa si continua a fare larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, con conseguente incentivo alla lite, posto che la soccombenza perde un suo naturale e rilevante costo, con pari danno per la parte che risulti aver avuto ragione”.
Questo più recente sviluppo normativo, che ha portato alla formulazione della disposizione censurata, mostra chiaramente che il legislatore ha voluto far riferimento a due ipotesi tassative, oltre quella della soccombenza reciproca, rimasta invariata nel tempo, come correttamente ritengono entrambi i giudici rimettenti.
15.- Però la rigidità di queste due sole ipotesi tassative, violando il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, ha lasciato fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa.
La prevista ipotesi del mutamento della giurisprudenza su una questione dirimente è connotata dal fatto che, in sostanza, risulta modificato, in corso di causa, il quadro di riferimento della controversia. Questa evenienza sopravvenuta – che concerne prevalentemente la giurisprudenza di legittimità, ma che, in mancanza, può anche riguardare la giurisprudenza di merito – non è di certo nella disponibilità delle parti, le quali si trovano a doversi confrontare con un nuovo principio di diritto, sì che, nei casi di non prevedibile overruling, l’affidamento di chi abbia regolato la propria condotta processuale tenendo conto dell’orientamento poi disatteso e superato, è nondimeno tutelato a determinate condizioni, precisate in una nota pronuncia delle sezioni unite civili della Corte di cassazione (sentenza 11 luglio 2011, n. 15144).
Il fondamento sotteso a siffatta ipotesi – che, ove anche non prevista espressamente, avrebbe potuto ricavarsi per sussunzione dalla clausola generale delle “gravi ed eccezionali ragioni” – sta appunto nel sopravvenuto mutamento del quadro di riferimento della causa che altera i termini della lite senza che ciò sia ascrivibile alla condotta processuale delle parti. Ma tale ratio può rinvenirsi anche in altre analoghe fattispecie di sopravvenuto mutamento dei termini della controversia senza che nulla possa addebitarsi alle parti: tra le più evidenti, una norma di interpretazione autentica o più in generale uno ius superveniens, soprattutto se nella forma di norma con efficacia retroattiva; o una pronuncia di questa Corte, in particolare se di illegittimità costituzionale; o una decisione di una Corte europea; o una nuova regolamentazione nel diritto dell’Unione europea; o altre analoghe sopravvenienze. Le quali tutte, ove concernenti una “questione dirimente” al fine della decisione della controversia, sono connotate da pari “gravità” ed “eccezionalità”, ma non sono iscrivibili in un rigido catalogo di ipotesi nominate: necessariamente debbono essere rimesse alla prudente valutazione del giudice della controversia.
Ciò può predicarsi anche per l’altra ipotesi prevista dalla disposizione censurata – l’assoluta novità della questione – che è riconducibile, più in generale, ad una situazione di oggettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza. In simmetria è possibile ipotizzare altre analoghe situazioni di assoluta incertezza, in diritto o in fatto, della lite, parimenti riconducibili a “gravi ed eccezionali ragioni”.
Del resto la stessa ipotesi della soccombenza reciproca, che, concorrendo con quelle espressamente nominate dalla disposizione censurata, parimenti facoltizza il giudice della controversia a compensare le spese di lite, rappresenta un criterio nient’affatto rigido, ma implica una qualche discrezionalità del giudice che è chiamato ad apprezzare la misura in cui ciascuna parte è al contempo vittoriosa e soccombente, tanto più che la giurisprudenza di legittimità si va orientando nel ritenere integrata l’ipotesi di soccombenza reciproca anche in caso di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 22 febbraio 2016, n. 3438).
Si ha quindi che contrasta con il principio di ragionevolezza e con quello di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.) aver il legislatore del 2014 tenuto fuori dalle fattispecie nominate, che facoltizzano il giudice a compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale, le analoghe ipotesi di sopravvenienze relative a questioni dirimenti e a quelle di assoluta incertezza, che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità di quelle tipiche espressamente previste dalla disposizione censurata. La rigidità di tale tassatività ridonda anche in violazione del canone del giusto processo (art. 111, primo comma, Cost.) e del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, primo comma, Cost.) perché la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti.
16.- Per la riconduzione a legittimità della disposizione censurata può anche considerarsi che più recentemente lo stesso legislatore, in linea di continuità con l’azione riformatrice degli ultimi anni, è ritornato alla tecnica normativa della clausola generale delle “gravi ed eccezionali ragioni”. Infatti, dopo l’introduzione della disposizione attualmente censurata, il legislatore ha novellato alcune norme del processo tributario. In particolare l’art. 9, comma 1, lettera f), numero 2), delD.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156(Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione degli articoli6e10, comma 1, lettere a e b,dellaL. 11 marzo 2014, n. 23), ha sostituito gli originari commi 2 e 2-bis dell’art.15delD.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546(Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega governativa nell’art.30dellaL. 30 dicembre 1991, n. 413) ed ha, tra l’altro, previsto che le spese del giudizio possono essere compensate in tutto o in parte, oltre che in caso di soccombenza reciproca, anche “qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni” che devono essere espressamente motivate.
Ciò orienta la pronuncia di illegittimità costituzionale che si va a rendere nel senso che parimenti le ipotesi illegittimamente non considerate dalla disposizione censurata possono identificarsi in quelle che siano riconducibili a tale clausola generale e che siano analoghe a quelle tipizzate nominativamente nella norma, nel senso che devono essere di pari, o maggiore, gravità ed eccezionalità. Le quali ultime quindi – l'”assoluta novità della questione trattata” ed il “mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti” – hanno carattere paradigmatico e svolgono una funzione parametrica ed esplicativa della clausola generale.
Va quindi dichiarata l’illegittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni.
L’obbligo di motivazione della decisione di compensare le spese di lite, vuoi nelle due ipotesi nominate, vuoi ove ricorrano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, discende dalla generale prescrizionedell’art. 111, sesto comma, Cost., che vuole che tutti i provvedimenti giurisdizionali siano motivati.
17.- L’accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale in riferimento agliartt. 3, primo comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, Cost.- indicati da entrambe le ordinanze di rimessione – comporta l’assorbimento della questione in riferimento agli ulteriori plurimi parametri indicati nella sola ordinanza del Tribunale ordinario di Reggio Emilia (artt. 25, primo comma; 102 e 104 Cost.; nonché, per il tramitedell’art. 117, primo comma, Cost., l’art. 47 CDFUE e gli artt. 6 e 13 CEDU) perché tutti orientati ad ottenere la medesima dichiarazione di illegittimità costituzionale.
Residua però il particolare profilo di censura che fa riferimento alla posizione del lavoratore come parte “debole” del rapporto controverso; censura che costituisce autonoma e distinta questione, ridimensionata ma non del tutto assorbita dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata.
Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia evidenzia la posizione di maggior debolezza del lavoratore nel contenzioso di lavoro e chiede che la disposizione censurata sia ricondotta a legittimità introducendo un’ulteriore ragione di compensazione delle spese di lite che tenga conto della natura del rapporto giuridico dedotto in causa – ossia del rapporto di lavoro subordinato – e della condizione soggettiva della parte attrice quando è il lavoratore che agisce nei confronti del datore di lavoro.
La questione è posta con riferimento al principio di eguaglianza sostanziale di cuiall’art. 3, secondo comma, Cost., che esigerebbe – secondo il giudice rimettente – un trattamento differenziato, ma di vantaggio, per il lavoratore in quanto soggetto più “debole”, costretto ad agire giudizialmente, mentre il censuratoart. 92, secondo comma, cod. proc. civ.avrebbe in concreto l’effetto opposto.
Sarebbero altresì violati, per il tramitedell’art. 117, primo comma, Cost., anche gli artt. 14 CEDU e 21 CDFUE, in punto di discriminazione fondata, rispettivamente, “sulla ricchezza” o su “ogni altra condizione” (art. 14 CEDU) o sul “patrimonio” (art. 21 CDFUE).
18.- La questione non è fondata.
Rileva in proposito da una parte il generale canone della par condicio processuale previsto dal secondo commadell’art. 111 Cost.secondo cui “ogni processo si svolge … tra le parti, in condizioni di parità”. Per altro verso la situazione di disparità in cui, in concreto, venga a trovarsi la parte “debole” – ossia quella per la quale possa essere maggiormente gravoso il costo del processo, anche in termini di rischio di condanna al pagamento delle spese processuali, sì da costituire un’indiretta remora ad agire o resistere in giudizio – trova un possibile riequilibrio, secondo il disposto del terzo commadell’art. 24 Cost., in “appositi istituti” diretti ad assicurare “ai non abbienti … i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”.
Nel binario segnato da questi due concorrenti principi costituzionali si colloca la disposizione censurata che, non considerando la situazione soggettiva, nel rapporto controverso, della parte totalmente soccombente, è ispirata al principio generale della par condicio processuale. Anche le due richiamate ipotesi che facoltizzano il giudice a compensare, in tutto o in parte, le spese di lite – le quali, a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale, sono non più tassative, ma parametriche di altre analoghe ipotesi di “gravi e eccezionali ragioni” – rinviano comunque a condizioni prevalentemente oggettive e non già a situazioni strettamente soggettive della parte soccombente, quale l’essere essa la parte “debole” del rapporto controverso.
Finanche laL. 11 agosto 1973, n. 533(Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie) – la quale pur conteneva disposizioni ispirate al favor per questo contenzioso al fine di agevolare la tutela giurisdizionale del lavoratore, quali quelle che prevedevano l’esenzione da ogni spesa o tassa (art. 10) ed il patrocinio a spese dello Stato per le parti non abbienti (art. 11) – non aveva derogato al dispostodell’art. 92 cod. proc. civ., quanto alla condanna della parte totalmente soccombente al pagamento delle spese di lite. In ogni caso per il lavoratore operava la regola generale della condanna della parte totalmente soccombente al pagamento delle spese di lite, salva la facoltà per il giudice di compensarle sulla base della già richiamata clausola generale, all’epoca vigente, dei “giusti motivi”. Ed opera tuttora la stessa regola, salva la facoltà per il giudice di compensarle ove ricorrano, secondo la disciplina attualmente vigente, le due ipotesi nominativamente previste dal secondo commadell’art. 92 cod. proc. civ., oltre – a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata – anche altre analoghe “gravi ed eccezionali ragioni”.
Solo per le controversie in materia previdenziale proposte nei confronti degli istituti di previdenza ed assistenza l’art.9dellaL. n. 533 del 1973aveva sostituito l’art. 152 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile, disponendo che il lavoratore soccombente nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali non era assoggettato al pagamento di spese, competenze ed onorari a favore degli istituti di assistenza e previdenza, a meno che la pretesa non fosse manifestamente infondata e temeraria; disposizione questa, peraltro anticipata, in una portata più limitata, dal dettato dell’art.57dellaL. 30 aprile 1969, n. 153(Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale) e successivamente estesa anche alle controversie di natura assistenziale dalla sentenza n. 85 del 1979.
Ma il collegamento dell’esonero con la condizione di “non abbiente” è stato dapprima prefigurato, come possibile, da questa Corte (sentenza n. 135 del 1987) e poi posto a fondamento della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art.4, comma 2, delD.L. 19 settembre 1992, n. 384(Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, inL. 14 novembre 1992, n. 438, per aver, tale disposizione, operato un’indiscriminata abrogazione dell’esonero stesso, trascurando qualunque distinzione tra abbienti e non abbienti (sentenza n. 134 del 1994); esonero poi ripristinato dall’art.42, comma 11, delD.L. 30 settembre 2003, n. 269(Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nellaL. 24 novembre 2003, n. 326, in favore della parte soccombente che risulti “non abbiente”, essendo l’esonero condizionato all’integrazione di un requisito reddituale significativo della debolezza economica del ricorrente (ordinanza n. 71 del 1998).
Quindi da una parte la condizione soggettiva di “lavoratore” non ha mai comportato alcun esonero dall’obbligo di rifusione delle spese processuali in caso di soccombenza totale nelle controversie promosse nei confronti del datore di lavoro; d’altra parte nelle controversie di previdenza ed assistenza sociale, promosse nei confronti degli enti che erogano prestazioni di tale natura, la condizione di assicurato o beneficiario della prestazione deve concorrere con un requisito reddituale perché, in via eccezionale, possa comportare siffatto esonero.
La ragione di tale eccezione in favore della parte soccombente “non abbiente”, e quindi “debole”, risiede nella diretta riferibilità della prestazione previdenziale o assistenziale, oggetto del contenzioso, alla speciale tutela prevista dal secondo commadell’art. 38 Cost., che mira a rimuovere, o ad alleviare, la situazione di bisogno e di difficoltà dell’assicurato o dell’assistito.
Invece la qualità di “lavoratore” della parte che agisce (o resiste), nel giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, non costituisce, di per sé sola, ragione sufficiente – pur nell’ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale (art. 3, secondo comma, Cost.) – per derogare al generale canone di par condicio processuale quanto all’obbligo di rifusione delle spese processuali a carico della parte interamente soccombente. Di ciò non si è dubitato in riferimentoall’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.nel testo vigente fino al 2009; ma lo stesso può affermarsi nell’attuale formulazione della medesima disposizione, quale risultante dalla presente dichiarazione di illegittimità costituzionale. Dalla quale comunque consegue che la circostanza – segnalata dal giudice rimettente – che il lavoratore, per la tutela di suoi diritti, debba talora promuovere un giudizio senza poter conoscere elementi di fatto, rilevanti e decisivi, che sono nella disponibilità del solo datore di lavoro (cosiddetto contenzioso a controprova), costituisce elemento valutabile dal giudice della controversia al fine di riscontrare, o no, una situazione di assoluta incertezza in ordine a questioni di fatto in ipotesi riconducibili alle “gravi ed eccezionali ragioni” che consentono al giudice la compensazione delle spese di lite.
19.- Né la ritenuta non fondatezza della questione di legittimità costituzionale è revocata in dubbio dai citati parametri sovranazionali interposti, che vietano trattamenti discriminatori basati sul censo.
La considerazione che sovente il contenzioso di lavoro possa presentarsi in termini sostanzialmente diseguali, nel senso che il lavoratore ricorrente, che agisca nei confronti del datore di lavoro, sia parte “debole” del rapporto controverso, giustifica norme di favore su un piano diverso da quello della regolamentazione delle spese di lite, una volta che quest’ultima è resa meno rigida a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale del secondo commadell’art. 92 cod. proc. civ.con l’innesto della clausola generale delle “gravi ed eccezionali ragioni”. Si sono già ricordate le disposizioni di favore contenute negli artt.10e11dellaL. n. 533 del 1973(peraltro successivamente abrogati); ad esse può aggiungersi anche l’art.13, comma 3, delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)”, il quale prevede che il contributo unificato per le spese di giustizia è ridotto alla metà per le controversie individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego.
Più in generale può dirsi che è rimesso alla discrezionalità del legislatore ampliare questo favor praestatoris, ad esempio rimodulando, in termini di minor rigore o finanche di esonero, il previsto raddoppio di tale contributo in caso di rigetto integrale, o di inammissibilità, o di improcedibilità dell’impugnazione (art. 13, comma 1-quater, delD.P.R. n. 115 del 2002).
20.- In conclusione risulta non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, mirante ad innestare nella disposizione censurata, come deroga alla regola secondo cui la parte soccombente è condannata alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa – oltre alle ipotesi nominativamente previste dalla disposizione stessa, come integrate dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale nei termini di cui sopra al punto 16. – un’ulteriore deroga centrata sulla natura della lite, perché controversia di lavoro, ed a favore solo del lavoratore che agisca in giudizio nei confronti del datore di lavoro.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibile l’intervento della Confederazione generale italiana del lavoro;
2) dichiara l’illegittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile, nel testo modificato dall’art.13, comma 1, delD.L. 12 settembre 2014, n. 132(Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nellaL. 10 novembre 2014, n. 162, nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionaledell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo modificato dall’art.13, comma 1, delD.L. n. 132 del 2014, convertito, con modificazioni, nellaL. n. 162 del 2014, sollevate, in riferimento agliartt. 3, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva conL. 4 agosto 1955, n. 848, e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

La nomina di curatore speciale per il figlio minore è necessaria soltanto quando il genitore si trovi in posizione di contrasto effettivo e non quando dall’atto ne possa conseguire un vantaggio per entrambi

Cass. 5 aprile 2018, n. 8438
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7159/2017 proposto da:
F.A., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato DARIO SEMINARA;
– ricorrente –
contro
ISLAND REFINANCING SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in
ROMA, VIA ARCHIMEDE 44, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO TARTAGLIA, rappresentata e difesa dagli avvocati VINCENZO FAZZINO, MARIALETIZIA FAZZINO:
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
F.R., T.F., T.A., F.C.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1763/2016 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 23/11/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 16/01/2018 dal Consigliere
Dott. DANILO SESTINI.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
pronunciando sulla domanda proposta dal Banco di Sicilia s.p.a., il Tribunale di Siracusa dichiarò l’inefficacia, ex art. 2901 cod. civ., dell’atto con cui i coniugi F.R. e T.F. avevano donato alle figlie F.A. e C. un terreno sito in (OMISSIS);
la Corte di Appello di Catania ha rigettato l’appello con cui F.A. aveva dedotto la nullità del giudizio di primo
grado per vizio di costituzione del rapporto processuale (conseguente al fatto che, essendo ella ancora
minorenne, l’atto di citazione era stato indirizzato – quali legali rappresentanti – ai suoi genitori che, tuttavia, si trovavano in conflitto di interessi con la figlia);
la F. ha proposto ricorso per cassazione, affidandosi a due motivi;
ha resistito, a mezzo della procuratrice speciale Cerved Credit Management s.p.a., la Island Refinancing s.r.l. (già succeduta nella posizione processuale del Banco di Sicilia), la quale ha proposto ricorso incidentale e ricorso incidentale condizionato;
i ricorsi sono stati rimessi all’adunanza camerale, ex art. 380 bis c.p.c., con proposta di manifesta infondatezza del ricorso principale e di inammissibilità di quello incidentale;
entrambe le parti hanno depositato memoria.
Considerato che:
il primo motivo del ricorso principale denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 320 c.c., u.c., artt. 78 e 102 c.p.c., artt. 24 e 111 Cost., e censura la Corte per non aver considerato la sussistenza di un conflitto di interessi fra la ricorrente e i genitori;
il motivo è infondato, alla luce del principio espresso da Cass. n. 1721/2016 (secondo cui la verifica del conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale va operata in concreto e non in astratto ed “ex ante”, ponendosi una diversa soluzione in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo”), al quale il Collegio intende dare continuità e che, pur enunciato in riferimento all’ipotesi in cui il legale rappresentante si sia costituito in giudizio anche in nome e per conto del rappresentato, risulta ovviamente applicabile anche all’ipotesi in cui il legale rappresentante si sia limitato a ricevere la notifica (e non abbia ritenuto di costituirsi in nome e per conto del rappresentato);
è pur vero che Cass. n. 1294/1975 ebbe a ritenere sussistente il conflitto di interessi in un’ipotesi in cui il
curatore del fallimento dei genitori aveva proposto azione revocatoria nei confronti dei figli minori, in relazione ad una donazione fatta a questi ultimi dai falliti, e che analogo principio venne espresso da Cass. n. 1586/1990 (anch’essa relativa ad un’ipotesi di azione revocatoria promossa dal curatore del fallimento dei genitori), individuando la ragione del conflitto di interessi fra genitore fallito e minore nel “vantaggio che deriverebbe al primo dall’accoglimento della domanda, con un incremento dell’attivo fallimentare”;
tale indirizzo – espresso in relazione alla peculiare ipotesi del fallimento del genitore – è stato tuttavia superato da successivi arresti di legittimità, che hanno evidenziato che “il conflitto d’interessi tra padre e figlio minore che legittima la nomina di un curatore speciale sussiste soltanto quando i due soggetti si trovino o possano in seguito trovarsi in posizione di contrasto, nel senso che l’interesse proprio del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, mal si concili con quello del rappresentato”, cosicché “il conflitto in questione non si configura quando, pur avendo tali soggetti un interesse proprio e distinto al compimento dell’atto, questo corrisponda al vantaggio comune di entrambi, per cui i due interessi, secondo l’apprezzamento del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato, siano tra loro concorrenti e compatibili” (Cass. n. 5591/1981; conforme Cass. n. 599/1982).
tale principio è stato ribadito e sviluppato dalla citata Cass. n. 1721/2016 che, affermando la necessità di un
accertamento in concreto sulla sussistenza del conflitto, ha superato i precedenti che avevano ritenuto rilevante una incompatibilità di interessi “anche solo potenziale, a prescindere dalla sua effettività”, postulando la necessità di una verifica “in astratto ed “ex ante” secondo l’oggettiva consistenza della materia del contendere dedotta in giudizio, anziché in concreto e “a posteriori” alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa” (Cass. n. 13507/2002; conforme a Cass. n. 10822/2001);
in linea con tali principi, la sentenza impugnata ha rilevato come nello specifico e alla luce dell’atteggiamento processuale concretamente assunto dai genitori, non fossero ravvisabili situazioni di conflitto, a fronte di un interesse del tutto convergente fra i medesimi genitori e la figlia; peraltro, non può sottacersi che un conflitto non si sarebbe profilato sussistente neppure secondo una valutazione ex ante, giacché, a fronte dell’azione revocatoria proposta dall’istituto bancario, l’interesse dei genitori e quello della figlia risultavano coincidenti nel fine di sottrarre l’atto di donazione alla revocatoria;
né può ritenersi che la mera possibilità che la nomina di un curatore speciale consentisse alla minore di svolgere difese o eccezioni ulteriori rispetto a quelle sviluppate dai genitori valga a concretizzare, di per sé, una situazione di conflitto di interessi;
il secondo motivo (che deduce, “in subordine”, l’omesso esame circa un fatto decisivo) è inammissibile poiché non evidenzia fatti (principali o secondari) decisivi di cui sia stato omesso l’esame, ma si limita a reiterare considerazioni funzionali all’affermazione della ricorrenza del conflitto di interessi negato dalla Corte;
il “ricorso incidentale” dell’Island Refinancing è inammissibile in quanto formulato in modo estremamente
generico e proposto come reiterazione di un motivo di appello incidentale condizionato che, come tale, non è stato esaminato dalla Corte a seguito del rigetto dell’appello principale e non può “rivivere” per il solo fatto che la sentenza sia stata impugnata per cassazione;
il “ricorso incidentale condizionato” – enunciato in modo assolutamente generico – risulta assorbito;
la reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese di lite;
in relazione ad ambedue i ricorsi, proposti successivamente al 30.1.2013, sussistono le condizioni per
l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile quello incidentale, compensando le spese di lite.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il
versamento, da parte della ricorrente principale e di quella incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per i rispettivi ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 5 aprile 2018

La corresponsione dell’assegno divorzile una tantum necessita della verifica giudiziale dei presupposti di legge

Cass. civ. Sez. I, 28 febbraio 2018, n. 4764
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23795/2014 proposto da:
B.D.M., elettivamente domiciliata in Roma, Via Arno n.88, presso lo studio dell’avvocato Ungari Trasatti Camillo, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
Ba.Lu., elettivamente domiciliato in Roma, Via Fornovo n. 3, presso lo studio dell’avvocato Proietti Stefano, rappresentato e difeso dall’avvocato Casale Michele Idolo, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 530/2014 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 18/04/2014;udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/01/2018 dal cons. TRICOMI LAURA;
lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, che ha chiesto alla Corte di Cassazione, riunita in camera di consiglio, disporsi un rinvio a nuovo ruolo.
Svolgimento del processo
CHE:
La Corte di appello di Genova, con la sentenza in epigrafe indicata, ha confermato la decisione di primo grado, in controversia concernente le statuizioni economiche in giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario tra B.D.M. e B.L..
Secondo la Corte di appello, correttamente il primo giudice aveva interpretato la pretesa sostanziale fatta valere in giudizio da B.D., come domanda del beneficio di cui allaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.5, comma 6, avendo tenuto conto della natura della causa e delle vicende dedotte, sulla base dell’art.2 delle condizioni della separazione consensuale omologata, ove era previsto che il Ba. si impegnava a provvedere al pagamento di un canone di affitto sino a Lire 800.000= mensili per un immobile per la moglie, fino al momento in cui non avesse provveduto ad acquistare un altro immobile per un valore massimo di Lire 100.000.000=, del quale sarebbe dovuto diventare nudo proprietario attribuendo l’usufrutto alla B.. Osservava che, diversamente opinando, la domanda avrebbe dovuto essere coltivata in un procedimento di esecuzione forzata del titolo giudiziale ottenuto all’esito della separazione.
Ancora, per la Corte di appello, il Tribunale correttamente aveva quantificato il beneficio richiesto dalla B. come una capitalizzazione “una tantum”L. n. 898 del 1970, ex art. 5, comma 8, sulla somma di Euro.51.645,69=, corrispondente al valore dell’immobile sul quale avrebbe dovuto essere costituito l’usufrutto come concordato tra i coniugi nel verbale di separazione omologato e dagli stessi ritenuto adeguato alle possibilità economiche del marito ed alle esigenze della moglie, e non su una somma maggiore, poiché le stesse parti avevano stabilito che il prezzo dell’immobile da acquistare a spese del Ba. fosse di Lire 100.000.000=, di guisa che il riferimento a tale somma non poteva mutare per il solo fatto che il valore degli immobili era mutato nel tempo ed era divenuto impossibile l’acquisto di un immobile della tipologia desiderata. Da ultimo ha riconosciuto la congruità del calcolo dell’usufrutto, effettuato con riferimento alla età della B. sulla somma concordata di Lire 100.000.000=, adeguandola all’inflazione, ed ha escluso la spettanza di altre somme.
La B. propone ricorso per cassazione con tre mezzi, corredato da memoria exart. 378 c.p.c., al quale replica Ba.Lu. con controricorso.
Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensidell’art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380 bis c.p.c., comma 1.
Il pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte con cui ha chiesto il rinvio a nuovo ruolo del procedimento.

Motivi della decisione
CHE:
1.1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degliartt. 99 e 112 c.p.c., in relazione agliartt. 167 e 189 c.p.c.ed allaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.5, commi 6 e 8, (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e sostiene che erroneamente la Corte di appello, così come il Tribunale, ha interpretato la domanda come domanda di corresponsione dell’assegno divorzile in un’unica soluzione, poiché nessun accordo tra le parti era intervenuto in tal senso, atteso che in sede di separazione consensuale omologata i coniugi avevano solo convenuto che il Ba. si impegnava ad acquistare a proprio nome un immobile, del valore massimo di Lire 100.000.000=, e ad attribuirne l’usufrutto alla B., e, nelle more dell’acquisto, Ba. si era impegnato a versare alla moglie Lire 800.000= mensili a titolo di canone di locazione di altro appartamento.
Deduce, in particolare di non avere “azionato alcuna pretesa sostanziale che possa essere, neppure implicitamente, interpretabile, come richiesta del beneficio di cui allaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, men che meno capitalizzato una tantum ai sensi del comma 8 della medesima disposizione, nell’assenza di qualsiasi accordo sul punto.” (fol. 12 del ricorso), lamentando sostanzialmente una non corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Precisa quindi di essersi opposta alla capitalizzazione dell’usufrutto, richiesta inutilmente dal Ba. come modifica delle pattuizioni di separazione e riproposta nel giudizio di divorzio dallo stesso promosso, ma di avere sempre insistito per l’adempimento dell’obbligazione contratta dal Ba. in sede di separazione consensuale chiedendo però la costituzione dell’usufrutto con riferimento ad un immobile di maggior valore, di circa Euro 120.000,00=, sulla considerazione che il valore degli immobili era triplicato nelle more.
1.2. Il primo motivo è fondato e va accolto.
1.3. Giova preliminarmente rammentare che laL. n. 898 del 1970,art.5, commi 6 e 8, che disciplina i rapporti patrimoniali conseguenti al divorzio, recita:
“6. Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive. (…) 8. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal Tribunale. In tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico.”.
1.4. Orbene, costituisce approdo indiscusso la differente natura giuridica che connota l’assegno divorzile periodico (comma 6), rispetto all’assegno divorzile corrisposto in un’unica soluzione (comma 8).
Anche la Corte Costituzionale (Ord. n. 113 del 2007, confermativa dell’Ord. n.383 del 2001) ha avuto modo di puntualizzare che “le due suddette forme di adempimento, pur avendo entrambe la funzione di regolare i rapporti patrimoniali derivanti dallo scioglimento o dalla cessazione del vincolo matrimoniale, hanno connotazioni giuridiche e di fatto diverse, tali da legittimare il legislatore a prevedere, nella sua discrezionalità, diversi regimi fiscali; che, infatti, mentre l’assegno periodico è determinato dal giudice in base ai parametri indicati dallaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6con possibilità di revisione (in aumento o in diminuzione), ai sensi dell’art. 9, comma 1 stessa legge, invece l’assegno versato una tantum non corrisponde necessariamente alla capitalizzazione dell’assegno periodico, ma è liberamente concordato dalle parti – sia pure con soggezione al controllo di equità da parte del giudice -, al fine di fissare un definitivo e complessivo assetto degli interessi personali, familiari e patrimoniali dei coniugi, tale da precludere ogni successiva domanda di contenuto economico (citato art. 5, comma 8)” sottolineando così che l’assegno in un’unica soluzione, da un lato, è frutto del libero accordo tra le parti, e dall’altro è soggetto al controllo di equità del giudice; quindi, dopo avere ricordato che le differenze tra le due tipologie di assegno “hanno indotto parte cospicua della dottrina e della giurisprudenza ad attribuire all’accordo per il pagamento una tantum una peculiare natura “transattiva” o “novativa”, oltre che “aleatoria”” ha concluso affermando la non irragionevolezza di un trattamento fiscale differenziato riservato alle due fattispecie.
1.5. Di recente è stato quindi chiarito da questa Corte, con specifico riferimento all’assegno divorzile corrisposto una tantum, che “laL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.5, comma 8, a norma del quale, su accordo delle parti, la corresponsione dell’assegno divorzile può avvenire in un’unica soluzione senza che si possa, in tal caso, proporre alcuna successiva domanda a contenuto economico, non è applicabile al di fuori del giudizio di divorzio, in quanto l’accordo sulla corresponsione una tantum richiede sempre una verifica di natura giudiziale. Di tali accordi non può, pertanto, tenersi conto non solo quando limitino o escludano il diritto del coniuge economicamente più debole, ma anche quando soddisfino dette esigenze, poiché una preventiva pattuizione potrebbe determinare il consenso alla dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio.” (Cass. civ. Sez. 1, 30/01/2017, n. 2224), così sottolineando che l’accordo in questione non può collocarsi al di fuori del giudizio di divorzio, in quanto una preventiva pattuizione, anche in sede di separazione, potrebbe condizionare il consenso alla dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di guisa che la stessa risulta invalida per illiceità della causa, perché stipulata in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale di cuiall’art. 160 c.c..
1.6. Orbene, sulla scorta di tali principi, nella misura in cui ridondano sul caso in esame, si deve escludere che, in via interpretativa, la domanda di corresponsione dell’assegno divorzile una tantum possa essere ritenuta implicita sulla scorta di quanto concordato in sede di separazione consensuale, laddove – come nel caso di specie – attese le posizioni di aperta contrapposizione delle parti nel giudizio divorzile, non sia stata puntualmente verificata proprio in detta sede la sussistenza dei presupposti di legge in merito all’accordo secondo quanto previsto dallaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 8.
Invero, la decisione impugnata, ove sembra attribuire alla previsione contenuta negli accordi di separazione consensuale omologati il valore di preventiva pattuizione anche sul quantum della obbligazione divorzile, non risulta conforme al principio della Cassazione ricordato.
2.1. Con il secondo motivo si denuncia l’omesso esame della asserita “oggettiva impossibilità di Ba.Lu. di acquistare un immobile del valore massimo di Euro 51.645,69 da concedere in usufrutto vitalizio a B.D., come previsto nelle condizioni della separazione”, addotta dal Ba. per ottenere la autorizzazione a corrispondere alla B. il valore legale dell’usufrutto, fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
2.2. Con il terzo motivo si denuncia, in via subordinata, la violazione e falsa applicazione degliartt. 99 e 112 c.p.c., in relazione agliartt. 167 e 189 c.p.c.ed allaL. n. 898 del 1970,art.5, commi 6 e 8, (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), con riferimento alla quantificazione dell’assegno divorzile una tantum, e si sostiene che la Corte di appello ha ritenuto congruo quanto stabilito dal Tribunale, omettendo ogni valutazione in merito ai criteri stabiliti dall’art. 5, comma 6 Legge cit. e senza considerare fatti notori, come la situazione sfavorevole conseguente al passaggio da Lira ad Euro, il conseguente aumento del valore degli immobili e la svalutazione monetaria.
2.3. L’esame dei motivi secondo e terzo è assorbito dall’accoglimento del primo.
3. In conclusione, il ricorso va accolto sul primo motivo, assorbiti gli altri; la sentenza impugnata va cassata e rinviata alla Corte di appello di Genova in diversa composizione per il riesame alla luce dei principi espressi e per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.

P.Q.M.
– Accoglie il ricorso sul primo motivo, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Genova in diversa composizione per il riesame, alla luce dei principi espressi e per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.

L’adozione mite tutela il minore quando non è possibile l’affidamento preadottivo.

Cass. 16 aprile 2018 n. 9373
Fatti di causa
gli odierni ricorrenti sono i genitori di S.G. , nato il (omissis), e sono stati dichiarati decaduti dalla potestà
genitoriale con decisione del Tribunale per i minorenni di Palermo, dep. il 3.6.2013.
Con successivo decreto del 26.6.2013, lo stesso Tribunale aveva affidato il minore agli odierni
controricorrenti per un anno.
Con sentenza n. 59, dep. l’11.3.2015, il Tribunale per i Minorenni di Palermo ha disposto l’adozione in casi
particolari del minore, ai sensi dell’art. 44, lett. d), della legge n. 184 del 1983, in favore degli odierni
controricorrenti. I genitori, con separati ricorsi poi riuniti, hanno impugnato la decisione, domandando la
revoca della pronuncia di decadenza dalla potestà e l’affidamento a loro del bambino. In subordine, hanno
chiesto disporsi la revoca del provvedimento di adozione e la ripresa dei servizi di osservazione e degli
incontri del minore con loro, suoi genitori biologici, al fine di valutare la possibilità del reinserimento nella
famiglia di origine. A sostegno delle sue domande, il padre ha chiesto tenersi anche conto del suo
proscioglimento da ogni accusa “di aver avuto attenzioni sessuali nei confronti del figlio”.
La Corte territoriale ha innanzitutto rilevato di non poter esaminare la domanda di reintegra nella potestà
proposta dai genitori, non essendo stata avanzata in primo grado, perché la possibilità di revoca o
modifica dei provvedimenti relativi alla potestà è indubbiamente prevista dall’ordinamento, ma non è
consentito eludere la regola del doppio grado di giudizio di merito in materia.
La Corte siciliana ha quindi specificato che il Tribunale ha già accertato, con pronuncia passata in
giudicato, che non ricorre l’abbandono del minore, e pertanto non è possibile attivare la procedura di
adozione c.d. legittimante. Si verte, pertanto, in una ipotesi di impossibilità giuridica di procedere a tale
forma di adozione. Il provvedimento impugnato ha, pertanto, condiviso l’impostazione proposta dal
Tribunale, secondo cui l’adozione c.d. mite di cui all’art. 44, lett. d., l. adozioni, ha quale presupposto
l’attitudine a soddisfare il preminente interesse del minore, secondo il disposto di cui all’art. 57 della
legge n. 184 del 1983. Ritenuto che i requisiti previsti dalla legge risultassero soddisfatti, la Corte
territoriale ha confermato la decisione di primo grado.
La pronuncia della Corte d’Appello di Palermo è stata impugnata per cassazione dai genitori biologici, che
si affidano a due motivi di ricorso. Resistono con controricorso i genitori dichiarati adottivi, ai sensi
dell’art. 44, lett. d), della legge n. 184 del 1983.
La causa, chiamata in data 13.3.2017 innanzi alla sesta sezione civile della Suprema Corte, riscontrata
l’apparente sussistenza di contrasti di giurisprudenza in ordine a taluni profili della materia trattata,
veniva rimessa alla pubblica udienza.
Ragioni della decisione
1.1 – Con il primo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., i
genitori biologici contestano la violazione o falsa applicazione dell’art. 44, lett. d), della legge n. 184 del
1983, perché l’impossibilità di affidamento preadottivo, presupposto della decisione adottata, non
consiste in una impossibilità giuridica, come sostenuto dalla Corte territoriale, bensì nella impossibilità di
fatto di procedere all’adozione, nozione che attiene solo all’ipotesi di mancato reperimento (o rifiuto) di
aspiranti all’adozione legittimante, e non a quella di contrasto con l’interesse del minore. Ad opinare
diversamente si trasformerebbero gli affidi familiari in adozioni miti senza la preventiva verifica della
ricorrenza delle condizioni di adottabilità.
1.2 – Con il secondo motivo di ricorso, proposto ancora ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod.
proc. civ., i genitori biologici censurano la violazione o falsa applicazione degli artt. 44, lett. d), nonché
57, della legge n. 184 del 1983, perché l’adozione in casi particolari è da considerare una extrema ratio,
da utilizzarsi solo quando la famiglia di origine non è in grado di assicurare al minore tutte le cure di cui
necessita (ric., p. 3), avendo il minore il diritto costituzionalmente riconosciuto di crescere ed essere
allevato nella sua famiglia naturale. Lamentano i ricorrenti che il procedimento concluso con la decisione
impugnata ha di fatto impedito agli odierni ricorrenti di ricostituire un positivo rapporto con il bambino, e
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pure la funzione svolta dai servizi sociali appare biasimevole, perché agli stessi non compete solo
registrare le carenze genitoriali, ma anche assicurare un supporto alla genitorialità.
2.1. – Con il primo motivo di impugnazione i ricorrenti contestano la nozione di impossibilità di procedere
all’adozione proposta dalla Corte d’Appello, la quale ha ritenuto che essa debba consistere nella
impossibilità giuridica di procedervi, e non nella impossibilità di fatto.
In proposito la Suprema Corte, con pronuncia recente e condivisibile, cui si intende pertanto assicurare
continuità, ha affermato che “in tema di adozione in casi particolari, l’art. 44, comma 1, lett. d), della l. n.
183 del 1994, integra una clausola di chiusura del sistema, intesa a consentire l’adozione tutte le volte in
cui è necessario salvaguardare la continuità affettiva ed educativa della relazione tra adottante ed
adottando, come elemento caratterizzante del concreto interesse del minore a vedere riconosciuti i legami
sviluppatisi con altri soggetti che se ne prendono cura, con l’unica previsione della “condicio legis” della
“constatata impossibilità di affidamento preadottivo”, che va intesa, in coerenza con lo stato
dell’evoluzione del sistema della tutela dei minori e dei rapporti di filiazione biologica ed adottiva, come
impossibilità “di diritto” di procedere all’affidamento preadottivo e non di impossibilità “di fatto”, derivante
da una situazione di abbandono (o di semi abbandono) del minore in senso tecnico-giuridico”, Cass. sez.
I, sent. 22.6.2016, n. 12962. Il riscontro che, in un passato neppure lontano, lo stesso Giudice di
legittimità aveva espresso diversi orientamenti, come correttamente segnalato dai ricorrenti, induce a
ritenere che il motivo di ricorso debba essere rigettato e non dichiarato inammissibile, e si terrà conto
della circostanza anche in materia di governo delle spese di lite.
Il motivo di ricorso dev’essere pertanto respinto.
2.2. – Con il secondo motivo di ricorso gli impugnanti criticano la Corte d’Appello, innanzitutto, per non
aver valorizzato il principio secondo cui l’adozione deve sempre essere considerata una extrema ratio.
Inoltre, la Corte di merito avrebbe omesso di rilevare che il loro diritto di difesa è stato ingiustamente
compresso nel corso del procedimento e, ancora, la stessa Corte d’Appello non ha tenuto conto di avere
pur essa escluso la ricorrenza di uno stato di abbandono del minore.
Invero i ricorrenti non provvedono ad indicare nel dettaglio quale sia il fondamento della loro
affermazione secondo cui il procedimento concluso con la decisione impugnata avrebbe, di fatto, impedito
loro di ricostituire un positivo rapporto con il bambino. Sostengono pure che la funzione svolta dai servizi
sociali appare biasimevole, perché agli stessi non compete solo registrare le carenze genitoriali, ma anche
assicurare un supporto alla genitorialità; tuttavia, i ricorrenti non hanno cura di indicare neppure quali
utili azioni di supporto alla genitorialità siano state omesse. Non è questa la sede, comunque, per
riesaminare le attitudini genitoriali dei ricorrenti, che sono stati dichiarati decaduti dalla responsabilità
genitoriale, con decisione che doveva essere contestata in altra sede ed è anche passata in giudicato.
Questo giudizio ha ad oggetto la legittimità del provvedimento con il quale è stata dichiarata, in favore
dei controricorrenti, l’adozione ai sensi dell’art. 44, lett. d), della legge n. 184 del 1983 del minore. Tale
forma di adozione, talvolta qualificata come “mite”, non rappresenta una extrema ratio, come avviene
invece nell’ipotesi dell’adozione c.d. legittimante. L’adozione in questione non presuppone lo stato di
abbandono del minore, e non comporta la recisione dei rapporti del minore con la famiglia di origine.
Risponde piuttosto all’esigenza di assicurare il rispetto del preminente interesse del minore, ai sensi del
disposto di cui all’art. 57 della legge n. 184 del 1983.
La Corte d’Appello non ha mancato di analizzare questo profilo, ed ha espresso una valutazione non
suscettibile di revisione in sede di giudizio di legittimità, in quanto congruamente illustrata e motivata. La
Corte siciliana ha osservato che il minore “ha istaurato una relazione molto intensa con la coppia di
coniugi che… lo ha preso in affidamento da oltre due anni, consentendogli di elaborare il grave disagio
psicologico vissuto in ambito familiare e di riappropriarsi di una dimensione di vita adatta alla sua età”
(sent. C.d’A., p. 4 s.). Positive informazioni sono state fornite anche dai servizi sociali, i quali hanno
sottolineato il buon inserimento del minore nella famiglia, di cui fa parte anche un’altra figlia, “e che il
bambino rivendica con forza la sua appartenenza a questa nuova famiglia, fra l’altro anche in ambito
scolastico, chiedendo con insistenza di assumere il cognome degli affida tari sia nel corso della sua
audizione in Tribunale, sia indirettamente agli stessi affida tari e agli operatori del servizio sociale” (sent.
C.d’A., p. 5).
I genitori biologici del bambino, peraltro, neppure indicano quali siano i propri familiari che pure,
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affermano, avrebbero potuto prendersi cura del bambino. Gli unici elementi di novità allegati dai genitori,
evidenzia la Corte territoriale, sono: l’avere il padre conseguito il risarcimento per ingiusta detenzione, e
l’avere la madre formato una nuova famiglia. Questi elementi non sono stati ritenuti sufficienti, dalla
Corte di merito, per poter esprimere un giudizio prognostico favorevole in ordine al rientro del minore
nella famiglia di origine. I tempi per una verifica della possibilità di rientro del bambino nella famiglia di
origine sono apparsi, alla Corte territoriale, comunque incompatibili con le esigenze di stabilità del
bambino. In conseguenza, soddisfa le esigenze del minore l’adozione in casi particolari, che assicura al
minore la possibilità di vivere nell’ambito di una famiglia che gli assicura cure adeguate, e nell’ambito
della quale lui, ormai adolescente e capace di giudizio, vuole crescere.
I genitori non contestano specificamente le valutazioni proposte dalla Corte di merito, e propongono
piuttosto censure nella forma della violazione di legge, che appaiono però riferibili alla diversa ipotesi
dell’adozione c.d. legittimante, ed appaiono pertanto infondate in questa sede.
Anche il secondo motivo di ricorso deve quindi essere respinto.
Il ricorso deve essere pertanto rigettato. Le peculiarità della fattispecie trattata, ed i contrasti di
giurisprudenza riscontrati in passato in materia, inducono a ritenere equo disporre la totale
compensazione tra le parti delle spese di lite.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso proposto da S.D. e N.G. .
Dichiara compensate tra le parti le spese di lite.
Dispone, ai sensi dell’art. 52, comma 5, del D.Lgs. 30.6.2003, n. 196, che, in caso di riproduzione per la
diffusione della presente decisione, le generalità e gli altri dati identificativi delle parti e dei soggetti
menzionati siano omessi.

L’art. 484 c.c. che disciplina l’accettazione con beneficio di inventario delinea una fattispecie a formazione progressiva, per la cui realizzazione i due adempimenti sono indispensabili

Cass. 26 marzo 2018, n. 7477
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 8898-2016 proposto da:
BANCA POPOLARE SONDRIO S.C.P.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 11, presso
lo studio dell’avvocato ANTONIO PACIFICO, rappresentata e difesa dall’avvocato MARCO BONOMO;
– ricorrente –
contro
P.E.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VARRONE 9, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO
VANNICELLI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato VERONICA BERTANI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 388/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 03/02/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/01/2018 dal Consigliere Dott. ANTONIO
SCARPA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Del Core Sergio, il quale ha concluso per
l’accoglimento del primo e del secondo motivo del ricorso, assorbito il terzo;
uditi gli Avvocati Pacifico, per delega dell’Avvocato Bonomo, e Bertani.
Svolgimento del processo
La società cooperativa per azioni Banca Popolare di Sondrio, sulla base del decreto ingiuntivo n. 569/09 del 9 novembre 2009, pronunciato dal Tribunale di Sondrio, intimò precetto ad P.E.M., quale avente causa, per
effetto di successione legittima, del marito V.A..
L’intimata P.E.M. propose opposizione, deducendo di non essere debitrice della somma ingiuntale, atteso che aveva accettato l’eredità del marito con beneficio di inventario e che i beni erano stati rilasciati ai creditori.
Non avendo la Banca provveduto ad intraprendere l’esecuzione minacciata ed essendo perciò cessata l’efficacia del precetto, il Tribunale di Sondrio, quale giudice dell’opposizione, con sentenza n. 338/2014 del 17 settembre 2014, dichiarò cessata la materia del contendere e condannò la creditrice al rimborso delle spese di lite ed al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 388/2016 del 3 febbraio 2016, rigettò il gravame della Banca Popolare di Sondrio, rilevando che P.E.M. aveva accettato l’eredità del marito V.A., morto il (OMISSIS), con beneficio di inventario mediante dichiarazione dell’11 settembre 2009, e che le operazioni di redazione di inventario (anche a seguito di proroga concessa dal Tribunale) erano terminate in data 5 marzo 2010, con successiva designazione del curatore incaricato di procedere alla liquidazione dell’eredità rilasciata ai creditori ed ai legatari.
In data 9 novembre 2009 era stato però emesso, su domanda della Banca Popolare di Sondrio, un decreto
ingiuntivo nei confronti di P.E.M., nella qualità di erede del defunto coniuge. L’importo di tale decreto, a seguito del rilascio dei beni, venne poi inserito nello stato di graduazione redatto dal curatore e portato ad esecuzione, una volta divenuto definitivo, con il pagamento in favore dei vari creditori, essendosi quindi pervenuti alla chiusura dell’eredità beneficiata con provvedimento del Presidente del Tribunale di Sondrio del 27 gennaio 2012.
Sostenne la Corte d’Appello che la P. non avesse perciò mai acquisito la qualità di erede pura e semplice e
quindi non dovesse rispondere dell’intero ammontare del decreto ingiuntivo. Sebbene alla data dell’emissione del decreto ingiuntivo P.E.M. avesse già dichiarato di accettare l’eredità del marito V.A., fino ancora alla scadenza del termine per proporre la relativa opposizione ex art. 641 c.p.c. non era stata ultimata la redazione dell’inventario, formalità costituente un elemento della fattispecie a formazione progressiva di accettazione con beneficio di inventario. Da ciò i giudici dell’appello conclusero che la limitazione di responsabilità scaturente dal beneficio in questione ben poteva essere fatta valere in sede di opposizione a precetto, sicché la valutazione di soccombenza virtuale in danno della creditrice opposta compiuta dal Tribunale, ai fini della regolamentazione delle spese di lite, doveva reputarsi corretta. Del pari condivisibile risultava per la Corte di Milano la valutazione del primo giudice in merito alla sussistenza della responsabilità ex art. 96 c.p.c. della Banca, la quale non solo aveva intrapreso la procedura monitoria quando era stata resa edotta della volontà degli ingiunti di accettare con beneficio di inventario (missiva del 24 ottobre 2009), ma aveva altresì intimato il precetto una volta che aveva riscontrato il mancato soddisfacimento del proprio credito nell’ambito della liquidazione compiuta dal curatore.
La Banca Popolare di Sondrio s.c.p.a. ha formulato ricorso avverso tale sentenza sulla base di tre motivi.
P.E.M. ha resistito con controricorso.
Su proposta del relatore, che aveva ritenuto il giudizio definibile nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in
riferimento all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), era stata dapprima fissata l’adunanza della camera di consiglio.
Il Collegio, con ordinanza del 27 marzo 2017, ritenne tuttavia che non ricorressero le ipotesi di cui all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), e rimise la causa alla pubblica udienza.
Le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Il Collegio reputa pregiudizialmente che non sussistono ragioni di economia processuale per disporre la
riunione dei ricorsi R.G. n. 8898/2016 e R.G. n. 2355/2017, entrambi discussi all’udienza del 30 gennaio 2018, stante la parziale difformità delle vicende e delle progressioni procedimentali inerenti alla due diverse controversie.
Il primo motivo del ricorso della Banca Popolare di Sondrio lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 459, 470, 484 e 487 c.c., nonché dei “principi generali in tema di acquisto della qualità di erede con beneficio di inventario”.
Il secondo motivo di ricorso deduce la violazione dell’art. 2909 c.c. “in tema dei limiti dei fatti opponibili al
giudicato”.
Evidenziano le prime due censure, che per la loro connessione possono essere esaminate congiuntamente,
come il decreto ingiuntivo n. 569/2009 fosse stato emesso allorquando P.E.M. aveva già dichiarato di accettare con beneficio di inventario e come il medesimo provvedimento monitorio, una volta notificato, fosse divenuto definitivo, per la scadenza del termine previsto per l’opposizione, prima che fossero state completate le operazioni di inventario. La ricorrente sostiene così che la P. aveva ormai definitivamente acquistato la qualità di erede ed era perciò subentrata nei debiti del de cuius, senza che su questo potesse incidere la mancata redazione o il non tempestivo completamento dell’inventario. Di tal che, la limitazione di responsabilità, che sarebbe derivata dal perfezionamento della fattispecie a formazione progressiva costituita dall’accettazione con beneficio di inventario, avrebbe dovuto essere fatta valere già in sede di opposizione a decreto ingiuntivo. Il giudicato altrimenti formatosi a seguito della mancata opposizione al provvedimento monitorio precludeva, ad avviso della ricorrente, che la detta limitazione di responsabilità potesse essere fatta valere in sede di opposizione a precetto.
1.1. I primi due motivi, che vanno peraltro soggetti ad un rilievo di carattere pregiudiziale, sono in ogni caso
da respingere.
Il Tribunale di Sondrio, nella sentenza poi confermata dalla Corte d’Appello di Milano, ha dichiarato cessata la materia del contendere tra le parti, in conseguenza della maturata inefficacia del precetto per l’inutile decorso del termine di inizio dell’esecuzione. Tale pronunzia ha pertanto affermato che fosse venuto meno il dovere del giudice di pronunziare sul merito della domanda, essendo svanito l’interesse delle parti alla decisione, con conseguente sentenza finale di rito. Di tale sentenza le parti potevano allora dolersi nel merito in sede di impugnazione solo contestando l’esistenza del presupposto per emetterla, risultando invece precluso per difetto di interesse ogni altro motivo di censura, atteso che è comunque onere della parte, che contesti, appunto, la decisione per questioni di merito, impugnare preliminarmente la declaratoria di cessazione della materia del contendere (Cass. Sez. U, 09/07/1997, n. 6226, Cass. Sez. 3, 01/06/2004, n. 10478; Cass. Sez. 1, 28/05/2012, n. 8448; Cass. Sez. 6 – L, 13/07/2016, n. 14341).
Essendo comunque sottratta all’ambito del devoluto in sede di legittimità, sulla base dei motivi di ricorso, la
statuizione di cessazione della materia del contendere, la quale è coperta da giudicato interno formatosi ai
sensi dell’art. 329 c.p.c., comma 2, va ulteriormente evidenziato come spetti al giudice del merito, nel caso in cui dichiari cessata la materia del contendere, di deliberare il fondamento della domanda per decidere sulle spese secondo il principio della soccombenza virtuale, con apprezzamento di fatto la cui motivazione non postula certo di dar conto di tutte le risultanze probatorie, e che è sindacabile in cassazione sol quando, a sua giustificazione, siano enunciati motivi formalmente illogici o giuridicamente erronei, cosa che non si evince nel caso di specie (Cass. Sez. 1, 27/09/2002, n. 14023; Cass. Sez. 3, 14/07/2003, n. 10998).
Il primo ed il secondo motivo di ricorso, ove intesi come volti unicamente a contestare la soccombenza della Banca Popolare di Sondrio ai soli fini della regolamentazione delle spese, si rivelano comunque infondati.
Deve essere ribadito l’orientamento di questa Corte (a far tempo da Cass. Sez. 2, 15/07/2003, n. 11030; poi
Cass. Sez. 2, 09/08/2005, n. 16739; Cass. Sez. L, 06/08/2015, n. 16514) secondo cui, disponendo che
“l’accettazione col beneficio d’inventario si fa mediante dichiarazione… ” e che questa “deve essere preceduta o seguita dall’inventario”, l’art. 484 c.c. chiaramente delinea una fattispecie a formazione progressiva, per la cui realizzazione i due adempimenti sono entrambi indispensabili, come suoi elementi costitutivi. Dunque la dichiarazione di accettazione, ha ex se una propria immediata efficacia, comportando il definitivo acquisto della qualità di erede da parte del chiamato e quindi il suo subentro in universum ius defuncti, compresi i debiti del de cuius, senza però incidere sulla limitazione della relativa responsabilità intra vires hereditatis, la quale è condizionata (anche) alla preesistenza o alla tempestiva sopravvenienza dell’inventario, mancando il quale l’accettante “è considerato erede puro e semplice” (artt. 485, 487 e 488 c.c.), come se non avesse conseguito il beneficio ab initio. D’altra parte, l’intempestivo compimento dell’inventario, se non nella eccezionale previsione dell’art. 489 c.c. (che però concerne unicamente la speciale disciplina stabilita per gli incapaci) non è inserito dall’ordinamento tra le ipotesi di decadenza dal beneficio (artt. 493, 494 e 505 c.c., tutte riferite ad altre condotte dell’erede attinenti alla fase della liquidazione e quindi necessariamente successive alla redazione dell’inventario), e ciò conferma che tale formalità ha natura di elemento costitutivo della fattispecie.
Va allora considerata la parallela costante interpretazione giurisprudenziale, ad avviso della quale
l’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, determinando la limitazione della responsabilità dell’erede per i debiti del “de cuius” entro il valore dei beni a lui pervenuti, va eccepita nel giudizio di cognizione promosso dal creditore del defunto che faccia valere per intero la sua pretesa, in modo da contenere quantitativamente l’estensione e gli effetti dell’invocata pronuncia giudiziale; ne consegue che, ove non sia stata proposta la relativa eccezione nel processo di cognizione (nè tale fatto sia stato rilevato d’ufficio dal giudice: Cass. Sez. U, 07/05/2013, n. 10531), la qualità di erede con beneficio d’inventario e la correlata limitazione della responsabilità non sono deducibili per la prima volta in sede esecutiva, coprendo il giudicato tanto il dedotto quanto il deducibile (Cass. Sez. 3, 16/04/2013, n. 9158; Cass. Sez. L, 15/04/1992, n. 4633; Cass. Sez. 3, 25/11/1988, n. 6345).
Vale tuttavia il più generale principio in forza del quale il titolo esecutivo giudiziale (nella specie, decreto
ingiuntivo dichiarato esecutivo perché non opposto) copre i soli fatti estintivi, modificativi o impeditivi del
credito intervenuti anteriormente alla formazione del titolo, non potendo essere rimesso in discussione dinanzi al giudice dell’esecuzione ed a quello dell’opposizione per fatti anteriori alla sua definitività. Ciò significa che, qualora a base di una qualunque azione esecutiva sia posto un titolo esecutivo giudiziale, il giudice dell’esecuzione non può effettuare alcun controllo intrinseco sul titolo, diretto cioè ad invalidarne l’efficacia in base ad eccezioni o difese che andavano dedotte nel giudizio nel cui corso è stato pronunziato il titolo medesimo, potendo solo controllare la persistente validità di quest’ultimo ed attribuire rilevanza ai fatti posteriori alla sua formazione (Cass. Sez. L, 14/02/2013, n. 3667; Cass. Sez. L, 21/04/2004, n. 7637).
Ne consegue che allorché al momento della formazione del titolo esecutivo giudiziale nei confronti dell’erede per un debito del cuius (nella specie, al momento della conseguita esecutorietà del decreto ingiuntivo 9 novembre 2009 per mancata opposizione nel termine) non fossero ancora decorsi i termini per il compimento dell’inventario da parte del chiamato all’eredità, il quale abbia dichiarato di accettare col beneficio, la limitazione della responsabilità della responsabilità dell’erede per i debiti entro il valore dei beni a lui pervenuti, ex art. 490 c.c., in quanto effetto del beneficio medesimo subordinato per legge alla preesistenza o alla tempestiva sopravvenienza dell’inventario stesso, può essere utilmente eccepita dinanzi al giudice dell’esecuzione ed a quello dell’opposizione, trattandosi di fatto successivo alla definitività del titolo. 2. Il terzo motivo di ricorso deduce, da ultimo, la violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c., per avere i giudici di merito ravvisato la temerarietà dell’azione promossa dalla Banca Popolare di Sondrio. Tale censura è fondata. La sentenza impugnata ha evidenziato come la Banca avesse agito con grave imprudenza, intimando precetto e quindi minacciando l’esecuzione sulla base di un titolo formatosi prima della chiusura delle operazioni di inventario, dopo aver visto le proprie ragioni negate nello stato di graduazione ed allorquando alla creditrice era ben nota la correlata limitazione di responsabilità della quale la signora P. poteva beneficiarsi.
Nell’accertare la responsabilità processuale aggravata della parte precettante, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., per
aver intimato il pagamento di somme che sapeva essere non dovute, il giudice dell’opposizione deve comunque valutare, alla stregua della mala fede o dell’ordinaria diligenza, la condotta tenuta dal creditore nel giudizio di esecuzione (arg. da Cass. Sez. 3, 16/04/2013, n. 9152).
Nel caso in esame, allora, l’evidente complessità delle questioni giuridiche che erano ricomprese nell’oggetto del giudizio di opposizione a precetto appare tale da escludere che l’esercizio dell’azione fosse stato del tutto imprudente. D’altro canto, dall’esposizione dei fatti della causa in esame emerge come la Banca non avesse poi provveduto ad intraprendere l’esecuzione minacciata, con conseguente perdita di efficacia del precetto, sicché doveva negarsi la ravvisabilità della coscienza dell’infondatezza della pretesa e delle tesi sostenute, ovvero del difetto della normale diligenza funzionale all’acquisizione di detta consapevolezza.
3. Conseguono l’accoglimento del terzo motivo di ricorso, il rigetto del primo e del secondo motivo di ricorso, nonché la cassazione della sentenza impugnata nei limiti della censura accolta. Non essendo al riguardo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, accogliendo l’appello proposto dalla Banca Popolare di Sondrio avverso la sentenza del Tribunale di Sondrio n. 338/2014 del 17 settembre 2014 nei limiti del rigetto della domanda di P.E.M. di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c., ferma ogni altra statuizione della sentenza della Corte d’Appello di Milano n. 388/2016 del 3 febbraio 2016, anche quanto alla regolamentazione delle spese processuali, vista la prevalente soccombenza della Banca.
In ragione della prevalente soccombenza della Banca Popolare di Sondrio, alla luce del devoluto, le spese del giudizio di cassazione vanno comunque poste a carico della ricorrente principale nell’importo liquidato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta il primo ed il secondo motivo di ricorso, cassa la sentenza
impugnata in ragione della censura accolta, e, decidendo nel merito, accoglie l’appello proposto dalla Banca
Popolare di Sondrio avverso la sentenza del Tribunale di Sondrio n. 338/2014 del 17 settembre 2014 nei limiti del rigetto della domanda di P.E.M. di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c.; condanna la ricorrente a
rimborsare alla controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 10.2000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione,
il 30 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 26 marzo 2018