Le spese straordinarie che rispondono all’interesse dei figli esulano dal previo consenso dell’altro genitore

Cass. civ. Sez. VI – 1, 17 gennaio 2018, n. 1070
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12150/2017 proposto da:
T.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE LIEGI, 48/A, presso lo studio dell’avvocato NICOLA MARCHITTO, rappresentato e difeso dall’avvocato STEFANO GROLLA;
– ricorrente –
contro
C.S.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 2483/2016 del TRIBUNALE di VICENZA, depositata il 18/11/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 21/11/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO VALITUTTI.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
T.F. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Vicenza n 2483/2016, depositata il 18 novembre 2016, con la quale è stato accolto l’appello proposto da C.S. avverso la sentenza n. 79/2015 del Giudice di pace di Vicenza, finalizzato ad ottenere dal padre dei suoi figli minori, J. e A., la metà delle spese straordinarie sostenute, in esecuzione di quanto disposto dal Tribunale per i Minorenni di Venezia con decreto dell’11 gennaio 2013;
l’intimata non ha svolto attività difensiva;
Considerato che:
con l’unico motivo di ricorso – denunciando la violazione degli att. 147 e ss., in materia di mantenimento dei figli minori – T.F. si duole del fatto il giudice di appello abbia ritenuto che le spese per la retta della scuola materna privata frequentata dalla figlia A., per l’anno 2012-2013, le spese per i ticket relativi alla visita pediatrica, alle inalazioni termali ed agli esami audiometrici per i due figli, nonché per le cure odontoiatriche a favore della figlia A. costituissero spese straordinarie, da porre a carico – pro quota – del genitore non affidatario, T.F.;
Rilevato che:
il ricorrente non contesta che la retta della scuola privata frequentata dalla figlia costituisca una spesa straordinaria (p. 5 del ricorso), ma deduce di non avere prestato – per l’anno in discussione – il proprio consenso all’iscrizione della minore in detta scuola, in considerazione delle numerose assenze effettuate dalla medesima, sicché la frequentazione della stessa si era venuta a tradurre in una sorta di collocazione provvisoria della bambina quando la madre era occupata, piuttosto che in uno strumento utile per la sua crescita e formazione; quanto alle spese per i ticket sanitari e per le cure odontoiatriche, il T. ne contesta l’ascrivibilità alle spese straordinarie, per la loro natura di esborsi rutinari, di modesto importo e prevedibili, in ordine ai quali, peraltro, nessuna consultazione con il padre sarebbe stata effettuata dalla C.;
Considerato che:
per quanto concerne le spese per la frequentazione della scolastiche certamente ascrivibili a quelle straordinarie, come affermato nella specie anche dal Tribunale per i Minorenni nel decreto dell’11 gennaio 2013, e come è incontroverso tra le parti – questa Corte ha affermato che non è configurabile a carico del coniuge affidatario un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l’altro in ordine alla determinazione delle spese straordinarie, trattandosi di decisione “di maggiore interesse” per il figlio e sussistendo, pertanto, a carico del coniuge non affidatario, un obbligo di rimborso qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso. Ne consegue che, nel caso di mancata concertazione preventiva e di rifiuto di provvedere al rimborso della quota di spettanza da parte del coniuge che non le ha effettuate, il giudice – ai fini della corretta applicazione dei criteri previsti dagli artt. 147 e 316 bis c.c. – è tenuto a verificare la rispondenza delle spese all’interesse del minore mediante la valutazione della commisurazione dell’entità della spesa rispetto all’utilità e della sostenibilità della spesa stessa rapportata alle condizioni economiche dei genitori (Cass. 30/07/2015, n. 16175; Cass. 26/09/2011, n. 19607);
nel caso di specie, risulta dagli atti che il T. aveva dato il consenso all’iscrizione della figlia A. alla scuola materna privata, per l’anno precedente, in tal modo valutando la convenienza e la conformità dell’iscrizione all’interesse della minore, ma poi lo ha revocato, per l’anno scolastico 2012-2013, in base alla sola considerazione che la medesima era stata molto spesso assente nel corso del precedente anno;
è da ritenersi, pertanto, condivisibile l’assunto del giudice di appello, secondo cui il consenso del padre, una volta concesso, non poteva più essere revocato, senza alcuna specifica e rilevante ragione di convenienza e di adeguatezza all’interesse della minore;
Ritenuto che:
quanto ai ticket sanitari ed alle spese odontoiatriche, sulla cui natura di spese ordinarie e non straordinarie si incentra il ricorso del T., debbano intendersi per spese “straordinarie” quelle che, per la loro rilevanza, la loro imprevedibilità e la loro imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita dei figli, talché la loro inclusione in via forfettaria nell’ammontare dell’assegno, posto a carico di uno dei genitori, può rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità sancito dall’art. 316 c.c. e con quello dell’adeguatezza del mantenimento, nonché recare grave nocumento alla prole, che potrebbe essere privata, non consentendolo le possibilità economiche del solo genitore beneficiario dell’assegno “cumulativo”, di cure necessarie o di altri indispensabili apporti (Cass. 08/06/2012, n. 9372);
nel caso di specie, la decisione di appello non si sia conformata a tali principi, avendo il Tribunale ritenuto straordinarie tali spese senza in alcun modo soffermarsi a considerare – in conformità al disposto delle norme succitate – se si trattava, per la loro natura di spese non imprevedibili ed eccezionali e per il loro modesto importo, di esborsi ordinari, come tali ricompresi nell’assegno di mantenimento.
Ritenuto che:
in accoglimento del ricorso, nei limiti di cui in motivazione, l’impugnata sentenza debba essere, pertanto, cassata con rinvio al Tribunale di Vicenza in diversa composizione, che dovrà procedere all’esame del merito della controversia, facendo applicazione dei principi di diritto suesposti.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata; rinvia al Tribunale di Vicenza diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Motivazione semplificata.

Finché permane il vincolo di destinazione sul bene, questo non è suscettibile di pignoramento e, di conseguenza, non è sequestrabile (neanche in ambito penale)

Cass. pen. Sez. V, 17 gennaio 2018, n. 1935
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
contro:
S.D.A.H., nato il (OMISSIS), nel procedimento a carico di quest’ultimo;
avverso l’ordinanza del 27/01/2017del TRIB. LIBERTA’ di FIRENZE;
sentita la relazione svolta dal Consigliere ANGELO CAPUTO.
Svolgimento del processo
1. Conordinanza del 27/01/2017, il Tribunale del riesame di Firenze ha rigettato la richiesta di riesame proposta nell’interesse di S.D.A.H. avverso l’ordinanza del 15/12/2016 – 04/01/2017 con la quale la Corte di appello di Firenze aveva disposto, nell’ambito del processo nel quale S. è stata condannata in primo grado per reati di bancarotta fraudolenta, il sequestro conservativo in favore della parte civile curatela del Fallimento (OMISSIS) s.r.l. di un immobile ubicato in (OMISSIS).
Il Tribunale del riesame di Firenze ha rilevato che il sequestro conservativo ottenuto dalla curatela “non è, allo stato, opponibile al beneficiario dell’atto di destinazione ex art. 2645 ter c.c., poiché la effettuazione dell’atto di destinazione a suo favore del bene con relativa trascrizione è avvenuta anteriormente alla concessione del sequestro stesso”, sicché l’interesse del beneficiario persona disabile è “pienamente tutelato dalla priorità della trascrizione temporale dell’atto a suo favore”; pur non potendo la curatela in base al sequestro conservativo agire esecutivamente sul bene che resta di proprietà dell’imputata, “ostandovi la costituzione del beneficio prioritariamente trascritta e finché dura il medesimo”, la curatela stessa ha un legittimo interesse a mantenere il sequestro conservativo ottenuto, in quanto “nell’eventualità che il beneficio del disabile possa venir meno per qualsiasi causa ed in qualunque momento, essendo per sua natura comunque temporaneo, è interesse della curatela poter mantenere, mediante la trascrizione del provvedimento di sequestro, una prenotazione cronologica a garanzia del credito ad essa riconosciuto”, con sentenza, nei confronti dell’imputata, nonché “un vincolo cautelare reale laddove la ricorrente una volta tornata nella pienezza della disponibilità del bene decidesse di alienarlo”. Pertanto, osserva ancora il Tribunale del riesame di Firenze, “il sequestro conservativo da un lato non nuoce agli interessi del beneficiario e dall’altro continua a garantire l’interesse della curatela diretto a impedire comunque possibili ulteriori atti dispositivi da parte della proprietaria”.
2. Avverso l’indicata ordinanza ha proposto ricorso per cassazione S.D.A.H., attraverso il difensore avv. G. Gambogi, articolando tre motivi di seguito enunciati nei limiti di cuiall’art. 173 disp. att. c.p.c., comma 1.
2.1. Il primo motivo denuncia inosservanza o erronea applicazionedell’art. 316 c.p.p., edell’art. 671 c.p.c., in quanto il sequestro può essere disposto solo nei limiti in cui la legge consente il pignoramento, nonché vizi di motivazione. L’ordinanza impugnata ha ammesso il sequestro su un bene oggetto di vincolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c., evidenziando l’impossibilità per la curatela, per tutta la durata del vincolo, di agire in via esecutiva sul bene, ma tali deduzioni sono contraddittorie in quanto il sequestro conservativo è propedeutico all’esecuzione perché strumentale all’espropriazione, tanto da non poter essere disposto quando l’esecuzione non sia ammissibile, come confermatodall’art. 671 c.p.c., e dallo stessoart. 316 c.p.p., che consente il sequestro nei limiti in cui la legge consente il pignoramento dei beni mobili o immobili dell’imputato. Erroneamente l’ordinanza impugnata trascura il legame imprescindibile tra sequestro conservativo e pignoramento, che è il primo atto della procedura esecutiva; finché permane il vincolo di destinazione sul bene, questo non è suscettibile di pignoramento e, di conseguenza, non è sequestrabile.
2.2. Il secondo motivo denuncia inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 2645 ter c.c., per il mancato rispetto del principio di opponibilità a terzi del vincolo di destinazione apposto sul bene per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità. La ratio dell’art. 2645 ter c.c., è limitare la responsabilità patrimoniale exart. 2740 c.c., a fronte del perseguimento di interessi meritevoli di tutela riferita a persona “con disabilità”, condizione, questa, che legittima la costituzione del vincolo di destinazione, rendendo intangibile il bene vincolato. La condizione di gravissima disabilità del figlio della ricorrente (con “invalidità non inferiore all’80%”) è circostanza documentata e non contestata, laddove il vincolo è stato costituito il 04/10/2016 dopo la tredicesima operazione subita dal figlio e l’accertamento dell’irreversibilità della sua condizione. Il soggetto che costituisce il vincolo in favore del disabile non può essere perseguito dai creditori per debiti estranei alla tutela del beneficiario. Né la decisione impugnata può essere legittimata dalla considerazione che l’interesse del beneficiario persona disabile è tutelato dalla priorità temporale della trascrizione dell’atto di destinazione in suo favore e che non vi è lesione dell’interesse del beneficiario da parte del sequestro conservativo: il problema, infatti, non è la priorità della trascrizione, ma l’impossibilità per la curatela (non portatrice di un credito contratto per gli scopi del vincolo) di ottenere la concessione di un sequestro su un bene tutelato ex art. 2645 ter c.c., bene che, se, come nel caso di specie, il vincolo è ritenuto meritevole di tutela, non può costituire oggetto di sequestro; inoltre, il sequestro può pregiudicare, anche in modo irreparabile, gli interessi tutelati dall’ordinamento con la specifica previsione di cui all’art. 2645 ter c.c., qualora fosse necessario utilizzare il bene o alienarlo proprio per conseguire il denaro necessario alle cure e al mantenimento del beneficiario del vincolo, in ossequio agli scopi del vincolo.
2.3. Il terzo motivo denuncia inosservanza o erronea applicazionedell’art. 320 c.p.p., eart. 686 c.p.c., in quanto la concessione del sequestro conservativo deve essere necessariamente propedeutica ad un accertamento giudiziale nelle more del quale il creditore potrebbe perdere la garanzia del proprio credito. L’ordinanza impugnata ritiene che il sequestro conservativo in esame sia posto non già a garanzia dell’esito del giudizio instaurato a seguito di azione revocatoria dell’atto di disposizione del vincolo promossa dal creditore, bensì a tutela delle obbligazioni civili derivanti dal reato nell’ambito del procedimento penale sulla base dei presupposti di cuiall’art. 316 c.p.p., sicché il sequestro è concesso a garanzia della provvisionale di Euro 50 mila immediatamente esecutiva riconosciuta dalla sentenza di primo grado quale risarcimento del danno in favore della parte civile, da liquidarsi, nel suo complesso, in separata sede. Anche sul punto l’ordinanza è viziata in quanto la ratio del sequestro conservativo, sia in campo penalistico che in quello civilistico, è quella di assicurare al creditore sprovvisto di titolo esecutivo – e quindi non in grado di procedere all’espropriazione – la possibilità di espropriare in futuro quei beni del debitore potenzialmente sottraibili, nelle more del giudizio, alla garanzia del proprio creditore, tanto che all’esito del giudizio il sequestro conservativo decade o si converte in pignoramento: erroneamente, pertanto, il Tribunale del riesame ha confermato il sequestro conservativo nonostante l’esecutività della provvisionale in favore della curatela, posto che, come si desumedall’art. 320 c.p.p., edall’art. 686 c.p.c., la conversione del sequestro conservativo in pignoramento opera ipso iure nel momento in cui il sequestrante ottiene sentenza di condanna esecutiva, iniziando in quello stesso istante il processo esecutivo di cui il sequestro stesso, una volta convertitosi in pignoramento, costituisce il primo atto. In virtù della provvisoria esecuzione della provvisionale, il sequestro conservativo disposto dalla Corte di appello non ha ragion d’essere e il Tribunale del riesame avrebbe dovuto disporne la cancellazione.
3. Con requisitoria scritta del 25/08/2017, il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione dott. F. Baldi ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Motivi della decisione
1. Il ricorso deve essere accolto, nei termini di seguito indicati.
2. In premessa, mette conto ribadire che, come ha chiarito la giurisprudenza di questa Corte, in tema di riesame delle misure cautelari reali, nella nozione di “violazione di legge” per cui soltanto può essere proposto ricorso per cassazione a normadell’art. 325 c.p.p., comma 1, rientrano la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma non l’illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui all’art. 606, lett. e), stesso codice (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004 – dep. 13/02/2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226710). Il ricorso, peraltro, articola, almeno nella parte di gran lunga più significativa delle censure proposte, errores in procedendo rientranti nella cognizione del giudice di legittimità in questa sede.
Invero, rileva la Corte che il nucleo essenziale delle doglianze proposte dal ricorso può essere individuato in due tesi intorno alle quali l’impugnazione articola – principalmente nei primi due motivi – la critica al provvedimento del Tribunale del riesame di Firenze: da un lato, l’affermazione del “legame imprescindibile che lega il sequestro conservativo al pignoramento”; dall’altro, il rilievo che l’immobile oggetto di sequestro, in quanto sottoposto a vincolo di destinazione a norma dell’art. 2645 ter c.c., “non è suscettibile di pignoramento e conseguentemente non è sequestrabile”. È sullo scrutinio di queste due tesi, del tutto centrali nell’economia delle argomentazioni della ricorrente, che l’esame del ricorso deve concentrarsi.
3. La prima delle due tesi sulle quali fa leva il ricorso è senz’altro corretta. Le Sezioni unite di questa Corte hanno di recente ribadito la configurazione del sequestro conservativo delineata dal nuovo codice di rito penale: “il vigente sequestro conservativo penale è un istituto ridisegnato anche sulla falsariga del sequestro conservativo civile, previstodall’art. 2905 c.c., e regolato, nella procedura,dall’art. 671 c.p.c., del quale ricalca il limite alla autorizzabilità da parte del giudice rispetto a beni impignorabili, e la eseguibilità con forme (secondo le norme stabilite per il pignoramento presso il debitore o presso terzi o mediante trascrizione), che ne rendono evidente la natura di pignoramento anticipato” (così, in una fattispecie in tema di beni conferiti in fondo patrimoniale, Sez. U, n. 38670 del 21/07/2016, Culasso, in motivazione). È in questa prospettiva, del resto, che il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità circoscrive l’operatività del sequestro conservativo presso il datore di lavoro di somme di denaro relative a crediti retributivi ad un importo non superiore al quinto delle stesse, richiamando in proposito i medesimi limiti postidall’art. 545 c.p.c., all’esecuzione del pignoramento (Sez. 6, n. 16168 del 04/02/2011, P.C., De Biase, Rv. 249329; Sez. 5, n. 31733 del 26/05/2015, Valeria, Rv. 264768).
Ribadito, dunque, l’insegnamento delle Sezioni unite secondo cui, in tema di impugnazione delle misure cautelari reali, le questioni attinenti al regime di pignorabilità dei beni sottoposti a sequestro conservativo sono deducibili con la richiesta di riesame e devono essere decise dal tribunale del riesame, al quale è demandato un controllo “pieno”, che deve tendere alla verifica di legittimità della misura ablativa in tutti i suoi profili (Sez. U, n. 38670 del 21/07/2016, Culasso, Rv. 267592), rileva la Corte che, sotto questo profilo, colgono nel segno le censure della ricorrente in ordine alla ricostruzione del giudice del riesame della portata della misura cautelare reale in termini di “prenotazione cronologica” a garanzia del credito vantato dalla curatela, pur essendo alla stessa preclusa la possibilità di agire in via esecutiva sul bene di proprietà dell’imputata a causa del vincolo ex art. 2645 ter c.c., sullo stesso già trascritto: ricostruzione, questa, che, da una parte, svilisce la natura del sequestro conservativo di “pignoramento anticipato”, per riprendere la definizione offerta da Sez. U. Culasso, e, dall’altra, elude la questione della pignorabilità dell’immobile oggetto della misura di cuiall’art. 316 c.p.p..Assorbite le ulteriori censure (e, in particolare, quelle articolate con il terzo motivo), l’ordinanza impugnata, pertanto, deve essere annullata per nuova valutazione ancorata al detto principio di diritto.
4. Non può essere condivisa, invece, la seconda delle tesi sulle quali fa leva il ricorso.
4.1. Introdotto dalD.L. 30 dicembre 2005, n. 273,art.39 novies, convertito, con modificazioni, conL. 23 febbraio 2006, n. 51, l’art. 2645 ter c.c., ha delineato un “atto con effetto tipico reale, perché inerente alla qualità del bene che ne è oggetto, sia pure con contenuto atipico purché corrispondente ad interessi meritevoli di tutela” (Cass., Sez. 6 civ., n. 3735 del 24/02/2015). Nei suoi tratti fondamentali, l’istituto ricollega all’atto di destinazione trascritto un regime di opponibilità ai terzi del vincolo apposto per determinate finalità (tra le quali, la tutela dell’interesse di persona portatrice di disabilità, come nel caso di specie), la legittimazione di qualsiasi soggetto interessato ad agire per la realizzazione dell’interesse alla cui tutela il vincolo è finalizzato, la limitazione di responsabilità del bene “destinato” a garanzia patrimoniale solo dei debiti contratti per tale finalità: in questo senso, la dottrina ha fatto riferimento ad una parziale inespropriabilità del bene “destinato”.
L’estraneità degli interessi della curatela che ha chiesto e ottenuto il sequestro conservativo in esame alla sfera dei debiti contratti per il conseguimento della finalità per la quale l’immobile è stato vincolato non è contestata dai giudici cautelari.
5.2. L’erroneità della tesi della ricorrente secondo cui, in termini assoluti, l’immobile sottoposto a vincolo di destinazione a norma dell’art. 2645 ter c.c., “non è suscettibile di pignoramento e conseguentemente non è sequestrabile” si apprezza, tuttavia, con riguardo alla disciplina dettatadall’art. 192 c.p., Sez. U. Culasso (intervenuta, come si visto, in una fattispecie relativa a beni conferiti in un fondo patrimoniale) ha richiamato “le ipotesi di inefficacia automatica degli atti a titolo gratuito compiuti dall’imputato-debitore dopo il reato” previste appuntodall’art. 192 c.p.: tali ipotesi di c.d. revocatoria penale, hanno precisato le Sezioni unite, sono configurate per “operare come altrettante cause di inefficacia relativa dell’atto dispositivo del bene”, atto di per sé valido e tuttavia, “non opponibile dal colpevole, ossia dal soggetto già condannato”; cause di inefficacia, queste, che “ben possono spiegare i loro immediati effetti anche relativamente alla cautela penale, nella sede della emissione e della impugnazione del sequestro conservativo, prima che si converta in pignoramento”. Nella prospettiva delineata dalle Sezioni unite, un precedente arresto di questa Corte (Sez. 2, n. 2386 del 19/12/2008 – dep. 20/01/2009, Liuzzi, Rv. 243033), evidenziato come il richiamo contenutonell’art. 192 cod. pen.ai crediti indicatinell’art. 189 c.p., debba essere oggi riferito ai crediti indicatinell’art. 316 c.p.p., ha rimarcato, per un verso, che in forza dell’art. 192 cit. “tutti gli atti a titolo gratuito posti in essere dall’imputato a partire dal tempus commissi delicti non sono opponibili al creditore danneggiato dal reato” e, per altro verso, che la finalità del sequestro conservativo exart. 316 c.p.p., “consiste nell’immobilizzare il patrimonio del soggetto obbligato e attuare, così, la piena e concreta tutela del danneggiato dal reato per il soddisfacimento del suo credito risarcitorio, in attesa dell’esito dell’azione revocatoria”. Né in senso contrario può argomentarsi sulla base della giurisprudenza di legittimità – richiamata genericamente dalla ricorrente – che ha ritenuto insuscettibili di formare oggetto di sequestro conservativo i beni assoggettati al regime del fondo patrimoniale per un debito che il creditore sapeva essere stato contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia (Sez. 5, n. 598 del 01/10/2003, Orlando, Rv. 227445): nel caso esaminato in quell’occasione dalla Corte, infatti, l’illegittimità del sequestro conservativo chiesto dalla curatela fallimentare fu motivato attraverso il riferimento allaL. Fall.,art.46, che espressamente esclude dal novero dei beni compresi nel fallimento quelli costituiti in fondo patrimoniale (salvo quanto dispostodall’art. 170 c.c.).
4.3. D’altra parte, le indicazioni rinvenibili nella giurisprudenza di legittimità richiamata – e, prima di tutto, in Sez. U. Culasso – sono in linea con quelle offerte dalle Sezioni civili di questa Corte. Nel quadro di un’approfondita ricognizione della portata della disciplina dettatadall’art. 192 c.p., Sez. 3 civ., n. 23158 del 31/10/2014 ha individuato il fondamento di tale disciplina nell'”esigenza di attribuire specifica tutela ai crediti derivanti da reato”, sicché la peculiare inefficacia comminata dalla norma in esame si inscrive nel nucleo minimo di istituti che tendono a proteggere la vittima del reato: infatti, rispetto agli “atti a titolo gratuito successivi alla commissione del reato, definiti tout court inefficaci dal codice penale”, “nessuna ragione di tutela si può rinvenire in favore dei beneficiari di quegli stessi atti nella comparazione con le prioritarie esigenze del creditore per il risarcimento del danno cagionato dal reato stesso: a fronte di un incremento del proprio patrimonio privo, per definizione, di corrispettivo, qual è quello del beneficiario di quell’atto, deve trovare considerazione assolutamente preferenziale invece l’esigenza di ristorare il patrimonio del danneggiato dal reato, vulnerato da una condotta illecita e punita con la più grave delle sanzioni pubblicistiche e quindi affetta dalla considerazione del massimo disvalore possibile per l’intero ordinamento”. Quanto alla portata della disciplina dettatadall’art. 192 c.p., esplicita è la sua proiezione anche sul piano della tutela cautelare: “l’inefficacia penale può rilevare (…) come giustificazione di misure cautelari finalizzate a preservare la garanzia consistente nel patrimonio del colpevole, prima ancora della sua condanna ed alla sola condizione della sua sottoposizione a procedimento penale: è, oggi, il caso del sequestro conservativo previstodall’art. 316 c.p.p., una volta chiesto (…) dal danneggiato che si sia costituito parte civile; tuttavia, l’inefficacia potrà giungere a legittimare l’esecuzione sui beni sequestrati solo una volta che il sequestro, in virtù dei principi generali processualcivilistici richiamatidall’art. 320 c.p.p., si sia convertito – ma pur sempre con efficacia ex tunc e anticipando quindi al tempo della sua attuazione gli effetti della successiva azione esecutiva – in pignoramento in dipendenza del riconoscimento dei credito con sentenza di merito”.
4.4. Pertanto, alla luce delle convergenti linee interpretative tracciate dalla giurisprudenza di legittimità in sede penale e in sede civile, deve ribadirsi il principio di diritto in forza del quale non sono opponibili al creditore danneggiato dal reato gli atti a titolo gratuito posti in essere dall’imputato successivamente al tempus commissi delicti. Sotto questo profilo, fermi i principi di diritto enunciati, l’accertamento della sussistenza nel caso di specie dei presupposti applicativi della disciplina dettatadall’art. 192 c.p.- avuto riguardo, in particolare, alla gratuità dell’atto di destinazione (e in considerazione delle indicazioni problematiche espresse, sul punto, dal provvedimento applicativo della Corte di appello di Firenze) – deve essere rimesso al giudice del rinvio.
6. Per le ragioni indicate, l’ordinanza impugnata deve essere annullata, con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Firenze.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Firenze.

Rendere noto a terzi il contenuto di una corrispondenza bancaria contenuta in busta chiusa indirizzata esclusivamente all’altro coniuge è reato

Cass. pen. Sez. II, 12 gennaio 2018, n. 952
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
dalla parte civile B.M., nato il (OMISSIS);
nel procedimento a carico di:
P.L., nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 10/12/2015 della CORTE APPELLO di ANCONA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere STEFANO FILIPPINI;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. BALDI Fulvio, che ha concluso per l’annullamento con rinvio;
Udito il difensore del ricorrente avvocato D’AGOSTINI ROMINA che insiste per l’accoglimento del ricorso della per B. e deposita le conclusioni e la nota spese.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza in data 10.12.2015 la Corte di appello di Ancona confermava la sentenza del Tribunale di Macerata datata 24.2.2014 che, nei confronti dell’imputata P.L., aveva dichiarato il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione rispetto alla accusa di essersi appropriata indebitamente di corrispondenza chiusa (una lettera contenente comunicazioni bancarie) e indirizzata, nel 2005, al solo coniuge separato B.M. (capo A), mentre aveva assolto la medesima, ai sensidell’art. 530 c.p.p., comma 2, perchè il fatto non costituisce reato, in relazione alle ulteriori accuse (capo B) di sottrazione e rivelazione indebita della stessa corrispondenza mediante produzione documentale, avvenuta nel 2009 ad opera della P. nell’ambito di un giudizio civile.
1.1. La Corte territoriale respingeva l’appello proposto dalla parte civile B.M., essenzialmente incentrato sul capo B, a proposito del quale si eccepiva l’assenza di quella “giusta causa” che sola poteva scriminare la rivelazione del contenuto della corrispondenza utilizzata a fini processuali in data 15.10.2009 nell’ambito di una controversia civile tra la P. ed il B.; l’appellante aveva anche contestato che si potesse ipotizzare la buona fede in capo all’imputata (e dunque dubitarsi circa la presenza del necessario elemento soggettivo del reato), trattandosi di corrispondenza relativa a rapporto bancario intestato esclusivamente al B.. Non si formulavano invece specifiche doglianze a proposito degli argomenti relativi alla dichiarazione di prescrizione del reato sub A, fondata dal primo giudice sul rilievo che il reato si era consumato nel 2005, epoca alla quale risaliva la corrispondenza bancaria di causa. La Corte territoriale, confermando la decisione del primo grado, respingeva l’appello sul rilievo che, in base alla istruttoria documentale e testimoniale, poteva ravvisarsi la carenza dell’elemento soggettivo in capo all’imputata, avendo la stessa verosimilmente agito in buona fede allorché ebbe ad aprire la corrispondenza indirizzata all’ex coniuge nella convinzione (peraltro plausibile, ad avviso della Corte d’appello) che si trattasse di questioni bancarie relative ad investimenti che (anche) suoi. E, quanto alla condotta di divulgazione della corrispondenza (art. 616 c.p., comma 2), integrata tramite la produzione in giudizio, il giudice di secondo grado ha parimenti escluso la sussistenza di prova adeguata del dolo, potendo ravvisarsi la buona fede in capo alla P. che vantava pretese sulla provvista economica con la quale sono stati effettuati gli investimenti bancari di cui alla comunicazione bancaria in questione.
2. Contro la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per Cassazione, tramite difensore munito di procura speciale, la parte civile B.M., articolando due motivi.
2.1. Con il primo censura la sentenza per violazione di legge e vizio della motivazione, in considerazione della ravvisata presenza della “giusta causa” che, ai sensidell’art. 616 c.p., comma 2, scrimina la rivelazione della corrispondenza. Il ricorrente ribadisce in questa sede che, come affermato da giurisprudenza di legittimità (Sez. 5, n. 585/2014), la “giusta causa” capace di rendere legittima la produzione in giudizio del contenuto della corrispondenza di cui la P. si era appropriata avrebbe potuto ravvisarsi solo in caso di dimostrazione della “stringente necessità” di quella produzione, di inevitabilità della stessa, aspetto nella specie non ricorrente poiché i medesimi risultati difensivi potevano essere ugualmente ottenuti dalla P. con la richiesta, nella sede civile, dell’ordine di esibizione exart. 210 c.p.c..Inoltre, quanto alla ritenuta carenza dell’elemento soggettivo in capo all’imputata, il ricorrente lamenta che tale affermazione si fonda sulla errata ricostruzione fattuale della vicenda, avendo la Corte territoriale omesso di rilevare che il denaro personale che la P. vorrebbe porre all’origine degli investimenti cui si riferiva la corrispondenza di causa, in realtà era già stato dalla stessa recuperato tramite prelevamenti già effettuati (altra provvista giacente presso la (OMISSIS)).
2.2. Con il secondo motivo lamenta violazione di legge e vizio della motivazione in relazione alla declaratoria di prescrizione del capo A, affermando che la data di consumazione della appropriazione indebita dovrebbe individuarsi nel momento in cui il documento è stato prodotto in sede civile (dunque nel 2009), non già nel 2005, epoca nella quale la Banca mittente ebbe a spedire la corrispondenza indirizzata al B. presso l’indirizzo della ex casa coniugale, quando era oramai occupata solo dalla ex moglie. Infatti, la data di consumazione deve individuarsi nel momento in cui l’agente compie un atto di disposizione uti dominus sul bene, ravvisabile nella fattispecie non quando l’imputata ha ricevuto la corrispondenza, bensì solamente allorchè l’ha prodotta in giudizio.
3. Con memoria pervenuta in data 7.11.2017 il difensore dell’imputata ha chiesto dichiararsi inammissibile o comunque infondato il ricorso.
Motivi della decisione
Il ricorso appare fondato nei limiti sotto indicati.
1. Quanto al secondo motivo, relativo alla dichiarazione di prescrizione del capo A, intervenuta già in primo grado, va rilevata l’inammissibilità. Invero, dalla disamina dell’atto di appello e dal riepilogo dei motivi di gravame riportato nella sentenza impugnata, non risultano dedotti argomenti né in merito alla ricostruzione del fatto, operata in primo grado, circa la data di appropriazione della corrispondenza (collocata dal primo giudice nel 2005) nè in merito ai criteri giuridici che presidiano la individuazione della data di consumazione del reato di appropriazione indebita; la doglianza dunque non risulta conforme a quanto prescritto a pena di inammissibilitàdall’art. 606 c.p.p., comma 3.
1.1. Pertanto, come già correttamente rilevato dal giudice di appello, la parte civile, che non abbia contestato con i motivi di appello la prescrizione del reato dichiarata con la sentenza di primo grado (del 24.2.2014) relativamente al capo A, non è legittimata a impugnare l’omessa pronuncia sulle relative statuizioni civili. E comunque, anche ove la parte civile avesse contestato la già intervenuta prescrizione, difetterebbe comunque l’interesse ad impugnare, trattandosi di deliberazione che, ai sensidell’art. 652 c.p.p., non pregiudica l’esercizio dell’azione civile nella sede propria (Sez. 4, n. 3789 del 19/01/2016, Rv. 265741).
2. Quanto al primo motivo, invece, occorre in primo luogo distinguere tra le due differenti condotte che parimenti possono integrare il reato di cuiall’art. 616 c.p..
2.1. Invero, come parimenti rilevato in appello, la condotta sanzionata dal primo comma della norma in questione (e cioè il prendere cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa, a lui non diretta, ovvero sottrarla o distrarla), deve considerarsi, al pari dell’appropriazione indebita, già prescritta anteriormente alla sentenza di primo grado per le stesse ragioni ravvisate dai giudici del merito a proposito del capo A dell’imputazione, trattandosi di azioni risalenti al 2005.
2.2. A proposito invece della condotta di cui al comma 2, della norma in parola, e cioè il rivelare, senza giusta causa, in tutto o in parte, il contenuto della corrispondenza, il motivo di ricorso, ad avviso del Collegio, merita accoglimento.
Invero, i giudici di appello hanno posto a base della decisione impugnata una ritenuta carenza di prova circa la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, posto che, sulla base della ricostruzione del fatto recepita in sentenza (si vedano infatti le affermazioni relative all’oggetto della corrispondenza in questione contenute nelle pagg. 9 e 10 della sentenza impugnata), hanno considerato che l’imputata potesse versare nella ragionevole convinzione che la documentazione bancaria in questione riguardasse prodotti finanziari acquistati in tutto o in parte con suo denaro, seppure formalmente intestati al coniuge. Da ciò i giudici dell’appello, conformemente al primo grado, hanno tratto la convinzione che non potesse sussistere dimostrazione adeguata della consapevolezza, in capo all’imputata, di violare e divulgare corrispondenza destinata esclusivamente ad altri soggetti.
2.3. Tuttavia, tale argomentazione appare del tutto carente ed apodittica, poiché trasferisce alla condotta di rivelazione della corrispondenza gli stessi argomenti utilizzati a proposito della condotta di cuiall’art. 616 c.p., comma 1, senza avvedersi che, come contestato con l’atto di appello, trattasi di condotte completamente diverse.
Ed infatti, se al momento della apertura della corrispondenza indirizzata all’ex coniuge può anche ritenersi ipotizzabile un qualche legittimo dubbio dell’imputata sull’effettivo contenuto della lettera e dunque in merito alla possibile inerenza degli investimenti ivi descritti rispetto a denaro in tutto o in parte proprio (in ciò fondandosi l’incertezza sulla presenza del dolo di reato), non altrettanto può automaticamente dirsi per la condotta di divulgazione di un contenuto oramai conosciuto come relativo a conti intestati esclusivamente al marito. In sostanza, al momento della divulgazione della corrispondenza di causa, nessun legittimo dubbio poteva più sussistere in relazione al fatto che si stesse rendendo noto a terzi il contenuto di una corrispondenza bancaria contenuta in busta chiusa e indirizzata esclusivamente al B., così integrandosi con evidenza la fattispecie ascritta.
È ben vero che in sede dibattimentale la difesa dell’imputata ha insistito sulla tesi della appartenenza alla P. (in tutto o in parte) dei fondi che hanno costituito la provvista degli investimenti decritti nella corrispondenza in questione (tesi giudicata non implausibile dalla Corte territoriale), ma è anche vero che la prova adeguata di tale circostanza non è stata certo raggiunta, essendosi solo ravvisato, dai giudici del merito, un legittimo dubbio al riguardo.
Tuttavia, a ben vedere, tale dubbio non coglie l’aspetto della condotta materiale integrativa del reato (rivelazione di corrispondenza chiusa indirizzata ad altri), bensì esclusivamente l’esistenza di un diritto su diverso bene (il denaro impiegato per l’acquisto di strumenti finanziari) che solo indirettamente viene in questione.
Il dubbio dunque non riguarda un elemento costitutivo della fattispecie addebitata, ma aspetti esterni alla stessa, e dunque non rileva rispetto alla divulgazione.
2.4. Né può ritenersi sussistere, ad avviso del Collegio, la speciale causa di non punibilità contenuta nella previsione normativa in esame (la “giusta causa” della rivelazione). Infatti, secondo il condiviso orientamento di legittimità (cfr. Sez. 5, n. 35383 del 29/03/2011, Rv. 250925, relativa a fattispecie analoga alla presente, nonché Sez. 5, n. 585 del 2014, non massimata) il reato di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza (art. 616 c.p.) può essere integrato anche dalla condotta di colui che sottragga la corrispondenza bancaria inviata al coniuge per produrla nel giudizio civile di separazione; e ciò in quanto si è ritenuto che in tal caso non sussista la “giusta causa” di cuiall’art. 616 c.p., comma 2, la quale presupporrebbe che la produzione in giudizio della documentazione bancaria costituisca l’unico mezzo a disposizione per contestare le richieste del coniuge-controparte, evenienza che non ricorre allorché possa essere utilizzato lo strumento di cuiall’art. 210 c.p.c..Ciò si è affermato, come si legge nella motivazione della richiamata sentenza, in primo luogo sulla base di alcune considerazioni evidenziate dalla dottrina giuridica (secondo la quale è sicuramente aperta la questione riguardante la legittimità della produzione processuale di documenti ottenuti illecitamente, tramite la lesione di un diritto fondamentale) e, secondariamente, sull’affermazione secondo cui la giusta causa presuppone che la produzione in giudizio della documentazione bancaria sia “l’unico mezzo a disposizione per contestare le richieste del coniuge controparte”.
Nel caso oggetto di esame, l’imputata non ha dedotto elementi di sorta in tal senso, e dunque ben può affermarsi che avrebbe dovuto esplicare la propria difesa a norma dell’art. 210 c.p.c..
2.5. Di conseguenza, la motivazione della sentenza impugnata risulta manifestamente illogica sul punto e deve essere annullata.
3. Naturalmente, attesa l’intervenuta definitività delle statuizioni penali, gli argomenti sopra indicati hanno valore ai soli fini civili.
3.1. Ai sensi dell’art. 622 c.p.p., trattandosi di annullamento di disposizioni che riguardano la sola azione civile, occorre rinviare al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche in relazione alla liquidazione delle spese della parte civile per la fase di giudizio dinanzi a questa Corte.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata ai soli effetti civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

CONTO CORRENTE BANCARIO COINTESTATO

Di Gianfranco Dosi

I. La disciplina prevista nel codice civile per i conti correnti cointestati
II. Il rapporto tra i correntisti e la banca
III. I rapporti interni tra correntisti: come può essere vinta la presunzione di comproprietà del conto?
IV. La presunzione di comproprietà può essere vinta in sede esecutiva?
V. Può un correntista sostenere che la cointestazione costituisce una donazione indiretta?
VI. La cointestazione autorizza i correntisti a disporre delle somme oltre la quota di pro¬pria pertinenza?
VII. In che modo il regime patrimoniale influenza la disciplina dei conti correnti bancari cointestati tra coniugi?
VIII. Le rimesse nel conto corrente comune tra conviventi more uxorio configurano adem¬pimento di obbligazioni naturali?
IX. Conti correnti cointestati e successione
I La disciplina prevista nel codice civile per i conti correnti cointestati
La cointestazione di un conto corrente bancario può rispondere a esigenze diverse. Può essere semplicemente – come avviene in genere tra i coniugi o tra persone che semplicemente convivono unite da vincoli affettivi – la modalità con cui per ragioni di comodità reciproca due persone che vivono insieme gestiscono il loro ménage, cioè le entrate, le uscite e i risparmi comuni. Oppure il modo con cui una persona anziana o malata consente ad un figlio o a un parente, o alla badante, l’accesso al conto per facilitare operazioni di riscossione o di pagamento; in tal caso la cointesta¬zione non è altro che un mandato all’incasso o al pagamento. In altri casi, ancora, la cointestazione potrebbe costituire per qualcuno il mezzo per consentire ad un altro, per esempio ad un figlio o ad un partner privo di redditi propri, di poter accedere facilmente ad un fondo per le spese correnti ovvero, lo strumento per costituire attraverso rimesse periodiche, un proprio autonomo patrimo¬nio; saremmo in presenza in questo caso, in sostanza, di una vera e propria donazione indiretta.
Il conto corrente cointestato è di regola nella prassi bancaria a firma disgiunta, consentendo ai cointestatari di effettuare liberamente tutte le operazioni che desiderano senza necessità dell’ap-provazione degli altri. In quello a firma congiunta –meno diffuso – i cointestatari, invece, devono sempre acconsentire a tutte le operazioni; perciò è la forma più indicata per l’amministrazione di patrimoni appartenenti a più persone. Naturalmente il contratto tra la banca e il cliente deve espressamente indicare la forma prescelta. La giurisprudenza segue in questo un orientamento formale ritenendo che la firma congiunta sia la regola mentre la firma disgiunta è l’eccezione che deve essere espressamente prevista nel contratto, come peraltro avviene quasi sempre (Cass. civ. Sez. I, 1 ottobre 2012, n. 16671; Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2004, n. 13663; Cass. civ. Sez. I, 5 luglio 2000, n. 8961). Il principio della previsione per iscritto della firma disgiunta è anche ribadito nella legge bancaria (D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385).
La cointestazione attribuisce una contitolarità sugli importi depositati a differenza della semplice delega a terzi ad operare su un conto personale, anch’essa diffusa nella prassi. In tal caso il de¬legato non ha evidentemente alcuna contitolarità degli importi depositati e il rapporto di delega è rilevante ai soli fini, nel rapporto tra la banca e il delegante, di attribuire al delegato il potere di operare sul conto.
La disciplina codicistica della cointestazione bancaria è contenuta in poche norme. Da un lato nella parte del codice civile riservata alle operazioni bancarie in conto corrente, specificamente nell’art. 1854 del codice civile dove si prevede che “gli intestatari sono considerati creditori o debitori in solido dei saldi del conto”. Si tratta della norma che regola i rapporti tra correntisti e banca. La disposizione, collocata appunto nel contesto della disciplina delle operazioni bancarie in conto corrente, vuole riferirsi al potere della banca per esempio di pretendere da entrambi i correntisti
contitolari il saldo del debito; la banca può agire, cioè, in via giudiziale, per il rientro da uno sco¬perto, contro entrambi i coniugi, anche se il debito è dovuto ad operazioni effettuate solo da uno dei due correntisti. Ugualmente ciascuno dei correntisti può pretendere nei confronti della banca di riscuotere dal conto cointestato.
L’altra parta in cui il codice civile si occupa dei conti cointestati è quello delle obbligazioni solidali. L’art. 1298 prevede a tale proposito che “nei rapporti interni l’obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori o tra i diversi creditori, salvo che sia stata contratta nell’interesse esclusivo di alcuno di essi. Le parti di ciascuno si presumono uguali, se non risulta diversamente”. È questa la norma che regolamenta l’obbligazione interna tra i correntisti. E, come si vede, alla regola della solidarietà tra cointestatari la legge apporta due deroghe: la prima nel caso in cui il conto sia stato aperto nel solo interesse di uno dei correntisti (asseritamente per esempio nel caso, sopra esem¬plificato, in cui il conto sia cointestato tra una persona anziana e un parente al fine di consentire la riscossione della pensione); l’altra nel caso in cui risulti che il conto bancario è alimentato solo da uno dei cointestatari (per esempio soltanto da uno dei coniugi).
Ma siamo certi che la cointestazione tra una persona anziana e il figlio o una badante possa essere considerato un conto contratto nell’interesse di uno soltanto? Inlinea teorica sembrano escluder¬lo Cass. civ. Sez. I, 21 gennaio 2004, n. 886e Cass. civ. Sez. III, 8 settembre 2006, n. 19305 secondo le quali il conto corrente bancario cointestato, con facoltà di disposizione disgiunta di ciascuno dei contitolari, non potrebbe costituire credito “contratto nell’interesse esclusivo” di alcuno dei contitolari del credito stesso, ai sensi del primo comma dell’art. 1298 c.c., perché ciò contrasterebbe con la funzione del contratto di conto corrente bancario, il quale è finalizzato all’e¬spletamento del servizio di cassa in favore – dunque nell’interesse – di tutti i contitolari, i quali, infatti, possono liberamente disporre del saldo attivo.
Deve essere chiaro in ogni caso che le due eccezioni alla solidarietà (espressamente previste nell’art. 1298 c.c.) valgono solo nei rapporti tra correntisti e non nei rapporti verso la banca. Quindi la banca potrà richiedere il rientro da uno scoperto a qualunque correntista. Per evitare questa conseguenza sarebbe necessario adottare la forma del contratto di conto corrente personale con attribuzione della delega ad un terzo e non quella della cointestazione. Nei rapporti interni tra correntisti, invece, la possibilità del regresso resta esclusa soltanto nelle due eccezioni indicate.
A partire da queste poche regole la giurisprudenza ha avuto modo di fare moltissime precisazioni.
II Il rapporto tra i correntisti e la banca
Come si è sopra detto l’art. 1854 del codice civile (“gli intestatari sono considerati creditori o de¬bitori in solido dei saldi del conto”), collocato nella parte del codice dedicata alle operazioni ban¬carie in conto corrente, non disciplina l’obbligazione solidale tra i correntisti, ma regola i rapporti tra correntisti e banca e si riferisce al potere di ciascuno dei correntisi di pretendere dalla banca la riscossione dei depositi (credito in solido) e il potere della banca di pretendere da ciascuno dei correntisti il saldo del debito (debito in solido) secondo il principio cardine delle obbligazioni solidali in cui ciascun debitore può essere costretto all’adempimento per la totalità (art. 1292 c.c.).
La differenza tra l’art. 1298 c.c. (che regola i rapporti interni tra correntisti) e l’art. 1854 c.c. (che regola i rapporti dei correntisti con la banca) è pacifica in giurisprudenza ed è espressamente richiamata in molte decisioni (Cass. civ. Sez. II, 2 dicembre 2013, n. 26991; Cass. civ. Sez. I, 18 agosto 1993, n. 8758; Cass. civ. Sez. I, 9 luglio 1989, n. 3241;Trib. Monza Sez. I, 1 aprile 2015;Trib. Taranto Sez. I, 3 giugno 2014; Trib. Bari Sez. I, 24 marzo 2014;Trib. Salerno Sez. II, 25 ottobre 2011; App. Roma Sez. II, 15 settembre 2011;Trib. Genova, sez. IV, 21 novembre 2006; Trib. Genova Sez. IV, 22 marzo 2006; Trib. Gallarate, 5 dicembre 2005; Trib. Roma Sez. X, 15 giugno 2004; Trib. Salerno, 29 gennaio 2001; Trib. Verona, 28 ottobre 1994; Trib. Verona, 8 aprile 1994) dove si precisa che nel conto corrente bancario cointestato a più persone, i rapporti interni tra i correntisti non sono regolati dall’art. 1854 c.c, che riguarda i rapporti tra i medesimi e la banca, ma dall’art. 1298, 2° comma, c.c., in base al quale le parti di ciascuno dei debitori e creditori solidali si presumono uguali se non risulta diversamente.
Il principio è coerente con quello di carattere generale il base al quale l’obbligazione solidale, pur avendo ad oggetto una medesima prestazione, non dà luogo a litisconsorzio necessario.
Quindi la banca può pretendere da ciascun coniuge l’adempimento per intero dell’obbligazione (per esempio, appunto, il rientro da uno scoperto o da un fido revocato) mentre “il debitore che ha pagato l’intero debito può ripetere dai condebitori solidali la parte di ciascuno di essi” (art. 1299 c.c.).
III I rapporti interni tra correntisti: come può essere vinta la presunzione di comproprietà sul conto?
È principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui la cointestazione di un conto corrente, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto (art. 1298 c.c., comma 2, c.c.), cioè, in sostanza, la comproprietà delle somme depositate e quindi l’uguaglianza delle quote di ciascuno.
Tale presunzione dà luogo all’inversione dell’onere probatorio, e può essere superata con qualsi¬asi prova (es. bonifici, fatturazioni, accredito dello stipendio o della pensione) ovvero attraverso presunzioni semplici – purché gravi, precise e concordanti –da parte di chi deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa (Cass. civ. Sez. II, 16 gennaio 2014, n. 809; Cass. civ. Sez. III, 24 febbraio 2010, n. 4496; Cass. civ. Sez. II, 19 feb¬braio 2009, n. 4066; Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 2008, n. 28839; Cass. civ. Sez. III, 8 settembre 2006, n. 19305; Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2004, n. 13663; Cass. civ. Sez. I, 22 ottobre 1994, n. 8718; Cass. civ. 26 ottobre 1981, n. 5584; Cass. civ. 28 gennaio 1972, n. 202; Cass. civ. 10 gennaio 1966, n. 188).
Anche la giurisprudenza di merito ha più volte ribadito i medesimi principi (Trib. Palermo Sez. II, 10 maggio 2013; App. L’Aquila, 14 gennaio 2013; App. Roma Sez. III, 22 novembre 2011; Trib. Campobasso, 2 maggio 2011; Trib. Chieti, 16 marzo 2009; Trib. Chieti, 22 ottobre 2008; Trib. Salerno Sez. I, 16 settembre 2008; Trib. Bari Sez. II, 25 giugno 2008; App. Roma Sez. III, 27 febbraio 2007; Trib. Genova Sez. III, 11 novembre 2006; Trib. Genova, 22 settembre 2006; App. Reggio Calabria, 15 dicembre 2005; Trib. Roma, 9 novembre 1999).
La presunzione è stata affermata anche in caso di deposito di titoli al portatore, nella specie di buoni ordinari del Tesoro (Cass. civ. Sez. I, 29 aprile 1999, n. 4327).
Ove il saldo attivo risulti, quindi, discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno solo dei correntisti, si deve escludere che l’altro, nel rapporto interno, possa avanzare diritti sul saldo medesimo (così espressamente Cass. civ. Sez. II, 19 febbraio 2009, n. 4066 in un caso di cointestazione tra zio e nipote).
Sempre a proposito della presunzione di comproprietà delle somme depositate è stata conferma¬to la decisione di merito che ha ritenuto provata l’esclusiva appartenenza al marito delle somme depositate su un conto corrente cointestato al medesimo e alla moglie sulla base della precedente intestazione al marito di un conto con depositi di importo superiore, della brevissima durata del matrimonio, dell’impossibilità di risparmi familiari apprezzabili (Cass. civ. Sez. I, 1 febbraio 2000, n. 1087).
Come sopra detto la comproprietà dei depositi in conto corrente cointestato è esclusa espressa¬mente (art. 1298 c.c.) sia nel caso in cui il conto sia stato aperto nel solo interesse di uno dei correntisti (conto cointestato, per esempio, come detto, tra una persona anziana e un parente al fine di consentire la riscossione della pensione) sia nel caso in cui risulti che il conto bancario è alimentato solo da uno dei cointestatari (per esempio soltanto da uno dei coniugi).
Salvo che in questi due casi (che naturalmente devono essere oggetto di prova da chi deduca l’inesi¬stenza della comproprietà), il vincolo di contitolarità e di solidarietà comporta che il coniuge – chia¬mato dalla banca a rifondere il debito per intero (esempio uno scoperto di 30.000 euro prelevato da uno dei coniugi) – potrà richiedere all’altro la metà di quanto ha saldato alla banca secondo la regola fissata nell’art. 1299 c.c. dove si precisa che “il debitore che ha pagato l’intero debito, può ripetere dai condebitori solidali la parte di ciascuno di essi” (Trib. Padova Sez. II, 15 settembre 2017). Per questo motivo per aprire un conto cointestato occorre fidarsi dell’altro correntista.
Proprio venire incontro a questi rischi la giurisprudenza ha chiarito che la regola di cui all’art. 1298 c.c. sulla presunzione di comroprietà può non valere in circostanze per così dire patologiche – forse più frequenti di quanto non si creda – allorché, per esempio, una somma di denaro presa a prestito da entrambi i coniugi per una determinata finalità condivisa (e immessa nel conto cointestato), sia poi autonomamente dirottata da uno dei coniugi verso una finalità personale. Il principio è stato affermato in una vicenda in cui due coniugi avevano contratto insieme un mutuo ipotecario per far fronte alle spese di ristrutturazione della casa coniugale, ma successivamente tale somma era stata utilizzata esclusivamente dal marito per motivi professionali. In tal caso i giudici hanno ritenuto che la moglie (che aveva dovuto rifondere la banca per l’intero) fosse legittimata al re¬gresso per l’intero importo indebitamente sostenuto nell’interesse esclusivo dell’uomo (e non solo per la metà). Infatti “anche se l’obbligazione di restituire in solido l’importo mutuato dai coniugi risulta assunta nell’interesse di entrambi e non soltanto di uno dei coniugi, ciò non è sufficiente per invocare la ripartizione del debito ex artt. 1298 e 1299 c.c. («Il debitore in solido che ha pagato l’intero debito può ripetere dai condebitori soltanto la parte di ciascuno di essi»), atteso che tale regola non opera quando l’obbligazione solidale viene meno per vizio funzionale della causa che ha portato all’accordo” (Cass. civ. Sez. I, 1 dicembre 2010, n. 24389), intendendosi per “vizio funzionale” lo sviamento, da parte di uno dei coniugi, dalla finalità condivisa che aveva originato l’immissione del denaro nel conto comune.
IV La presunzione di comproprietà può essere vinta in sede esecutiva?
La presunzione di comproprietà ha anche riflessi nella procedura esecutiva nel senso che quando il pignoramento cade sul credito di restituzione di somme depositateper esempio su un libretto ban¬cario intestato a più persone e il creditore abbia assoggettato a pignoramento l’intero anziché la quota di pertinenza del debitore – per esempio uno dei coniugi – l’altro cointestatario del deposito è legittimato a dedurre, sotto forma d’opposizione di terzo, che il credito appartiene per una quota anche a lui (Cass. civ. Sez. III, 9 ottobre 1998, n. 10028).
Ugualmente si è precisato in tema di sequestro conservativo in relazione al quale si è affermato (Cass. pen. Sez. II, 30 ottobre 1997, n. 5967)che,poiché la cointestazione del conto corrente bancario opera nei confronti dei terzi facendo presumere la contitolarità e comproprietà dell’og¬getto del contratto e poiché la solidarietà attiva e passiva prevista dall’art. 1854 cod. civ. è limitata ai soli rapporti fra correntisti ed istituto di credito, il creditore di uno dei cointestatari non può pretendere di aggredire presso la banca l’intero importo della prestazione dovuta a tutti i cointe¬statari solidali, ma può colpire solo la quota spettante al suo debitore con la conseguenza che deve ritenersi illegittima l’apposizione del vincolo cautelare, finalizzato a garantire l’adempimento delle obbligazioni civili nascenti dal reato, sull’intero ammontare dei depositi bancari cointestati.
Il medesimo principio è stato affermato in sede amministrativa dove si è precisato che la cointesta¬zione di un conto corrente fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto di talché la prova contraria è a carico della parte che deduce una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa; in mancanza di che, il sequestro deve essere convalidato (C. Conti Sez. riunite, 30 luglio 1988, n. 590).
V Può un correntista sostenere che la cointestazione costituisce una donazione indiretta?
Come si è detto, il secondo comma dell’art. 1298 c.c. stabilisce per il conto cointestato la presun¬zione di uguaglianza delle quote di comproprietà tra i correntisti. Pertanto al prelievo ingiustificato da parte di uno dei cointestatari di una quota maggiore di quella spettantegli per presunzione può legittimamente seguire da parte dell’altro la richiesta di reintegrazione del deposito o di restitu¬zione della metà del saldo attivo. Sempre che il conto non sia stato aperto nel solo interesse di un correntista o non sia alimentato soltanto da uno dei correntisti(art. 1298 c.c.).
La presunzione di contitolarità potrebbe anche essere vinta – come alcune vicende giudiziarie di¬mostrano – dando la prova (non semplice) che la cointestazione integra, nei confronti di un corren¬tista, una donazione indiretta. Anche in tale eventualità la pretesa restitutoria dell’altro correntista potrebbe essere paralizzata. La domanda che ci si pone è quindi la seguente: può un correntista, per esempio uno dei coniugi, provare che l’apertura di un conto corrente cointestato e quindi il deposito della provvista iniziale, ovvero le rimesse successive nel conto, sono state effettuate con spirito di liberalità nei confronti dell’altro (magari privo di redditi) e costituiscono quindi donazioni indirette?
Secondo Cass. civ. Sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983 la possibilità che costituisca dona¬zione indiretta l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito – qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari – può sussistere solo quando sia verificata l’esistenza dell’”animus donandi”, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità.
In una vicenda in cui la Corte di appello di Venezia aveva ritenuto che il marito avesse inteso re¬alizzare in favore della moglie – con l’apertura di un conto cointestato a sé e alla moglie stessa – una donazione indiretta del cinquanta per cento delle somme via via versate sul conto stesso, la Cassazione ha non solo richiamato la nullità della donazione di beni futuri sancita dall’art. 771 c.c. (con riferimento alle rimesse successive all’apertura del conto, ove inquadrate nell’ambito della do¬nazione), ma ha ritenuto che l’animus donandi non poteva essere riconosciuto sulla sola base della cointestazione; viceversa la Corte di merito avrebbe dovuto motivare specificamente sullo spirito di liberalità che assisteva ogni versamento (Cass. civ. Sez. II, 16 gennaio 2014, n. 809).
Analogamentesi era espressa Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2000, n. 12552 relativamente alla cointestazione di un contratto di deposito in custodia e amministrazione di titoli al portatore, affermando che da tale cointestazione non discende la comproprietà dei titoli acquistati con denaro appartenente ad uno solo dei cointestatari, tranne che le circostanze del caso concreto rivelino in maniera univoca la volontà delle parti di realizzare una donazione indiretta.
Il problema è stato affrontato anche nella giurisprudenza di merito. Per esempio Trib. Palermo, sez. I, 9 luglio 2001 secondo cui la cointestazione di un cospicuo patrimonio mobiliare del marito in favore della moglie dimostra indiscutibilmente l’intento liberale di attribuire, non fittiziamente o artificiosamente, ma piuttosto in via stabile e definitiva, almeno la metà degli importi investiti in fondi alla comunione legale dei coniugi. Da parte sua Trib. Mondovì, 15 febbraio 2010 ha affer¬mato, sul presupposto che la cointestazione attribuisce un reciproco diritto di rendicontazione, che la cointestazione di un conto corrente bancario non costituisce donazione indiretta, se non venga provata l’esistenza della funzione donativa attraverso una dismissione dei diritti del correntista sorretta da un intento liberale. Nella vicenda specifica non era stato dimostrata, secondo il tribu¬nale, la rinuncia alle pretese di rendicontazione e di restituzione delle somme prelevate.
In precedenza Cass. civ. Sez. I, 1 ottobre 1999, n. 10850 aveva chiarito che la sola cointe¬stazione del contratto di custodia e amministrazione di titoli a coniugi in regime di separazione dei beni non è sufficiente a dimostrare la volontà del coniuge, con il denaro del quale i titoli sono stati acquistati, di disporre della metà dei beni a titolo di liberalità.
Quindi la possibilità che si possa parlare di donazione indiretta, in caso di cointestazione di un conto corrente bancario, non è di per sé esclusa. Occorre però dare la prova che la provvista di denaro sia stata sorretta da un intento di liberalità.
VI La cointestazione autorizza i correntisti a disporre delle somme oltre la quota di pro¬pria pertinenza?
La giurisprudenza ritiene che sia configurabile il reato di appropriazione indebita a carico del coin¬testatario di un conto corrente bancario il quale, pur se facoltizzato a compiere operazioni separa¬tamente, disponga in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito degli altri cointestatari, della somma in deposito in misura eccedente la quota parte da considerarsi di sua pertinenza, in base al criterio stabilito dagli artt. 1298 e 1854 c.c, secondo cui le parti di ciascun concredito¬re solidale si presumono, fino a prova contraria, uguali (Cass. pen. Sez. V, 12 giugno 2007, n. 27035; Cass. pen. Sez. II, 4 aprile 2006, n. 17239; Trib. Ariano Irpino, 26 febbraio 2008).
Il principio è stato anche affermato con riferimento alla cointestazione di una cassetta di sicurezza da Cass. civ. Sez. II, 30 maggio 2013, n. 13614. La sentenza ha affermato che la cointesta¬zione delle cassette di sicurezza autorizza il cointestatario alla relativa apertura e prelievo, ma non attribuisce al cointestatario, che sia a conoscenza dell’appartenenza dei beni contenuti ad altri, il potere di disporre come proprietario dei beni ivi contenuti. Analogamente, la cointestazione dei conti bancari autorizza il cointestatario ad eseguire tutte le operazioni consentite dalla cointesta¬zione, ma non conferisce al medesimo, consapevole dell’appartenenza ad altri delle somme affluite su tali conti e dei relativi saldi, il potere di disporne come proprie.
VII In che modo il regime patrimoniale influenza la disciplina dei conti correnti bancari cointestati tra coniugi?
La disciplina del conto corrente cointestato fa perno sulla presunzione semplice di contitolarità dell’oggetto del contratto (in sostanza di comproprietà delle somme depositate) e di uguaglianza delle quote nei rapporti interni tra correntisti (art. 1298 c.c.), nonché sulla solidarietà nei rapporti verso la banca (art. 1854 c.c.).
Su questa disciplina interferisce il regime patrimoniale coniugale della comunione legale e della separazione dei beni.
a) Separazione dei beni
L’art. 1298 c.c. secondo cui il risparmio comune esistente nel conto cointestato si considera per metà di ciascuno se non risulta diversamente, corrisponde al contenuto del principio riportato nell’art. 219 c.c. per i coniugi in separazione dei beni secondo cui un coniuge può provare con ogni mezzo la proprietà esclusiva di beni (denaro in questo caso) ma “i beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi”.
Pertanto in separazione dei beni la regola (contenuta nell’art. 219 e nell’art. 1298) è sostanzialmente la medesima.
In separazione dei beni, pertanto, ciascun coniuge conserva la titolarità esclusiva dei beni acqui¬stati nel corso del matrimonio e ognuno dei coniugi – giusta quanto prevede l’art. 219 c.c. – può sempre dimostrare che il denaro depositato in un conto cointestato gli appartiene in via esclusiva (il denaro è assimilato ai “beni” di cui parla l’art. 219 del codice civile: Cass. civ. Sez. II, 15 febbraio 2010, n. 3479; Cass. civ. Sez. I, 29 aprile 1999, n. 4327); ove la prova della pro¬prietà esclusiva non sia fornita, i depositi bancari sono da considerare di proprietà per pari quota di entrambi i coniugi. Si tratta della conseguenza, nel regime di separazione dei beni, del regime primario di carattere solidaristico in grado di permeare anche il regine secondario di separazio¬ne dei beni. Come si è detto l’art. 1298 del codice civile (Rapporti interni tra debitori o creditori solidali) prevede al secondo comma che “le parti di ciascuno si presumono uguali, se non risulta diversamente” che è esattamente lo stesso effetto indicato nell’art. 219 sopra richiamato.
Emblematica, sotto quest’ultimo profilo, una decisione (Cass. civ. Sez. I, 29 aprile 1999, n. 4327) che, in materia di presunzione di comproprietà di un conto corrente cointestato tra due co¬niugi in separazione dei beni, richiamava sia l’art. 219 sia l’art. 1298 c.c., rispettivamente – come detto – riguardanti la possibilità del coniuge in regime di separazione dei beni di provare con ogni mezzo, nei confronti dell’altro, la proprietà esclusiva di un bene, e la possibilità del concreditore solidale di superare, nei rapporti interni, la presunzione di pari concorso nel diritto di credito.
b) Comunione dei beni
Va premesso che il problema non concerne la comunione immediata in quanto il denaro acquisito da ciascuno nel proprio lavoro non entra certo in comunione mentre se utilizzato nell’acquisto di un bene determina l’acquisizione alla comunione (immediata) di quel bene, indipendentemente dal fatto che il denaro sia prelevato daun conto bancario personale o da un conto bancario cointestato.
Il problema riguarda invece la comunione de residuo.
Infatti “i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi “si considerano in comunione (de residuo) se allo scioglimento della comunione non sono stati consumati.
E poiché i “proventi di attività separata” possono essere accantonati in un conto personale ma anche in un conto cointestato, ne deriva che se sono accantonati in un conto cointestato (an¬corché alimentato solo dal coniuge percipiente) determinano il diritto di ciascuno dei coniugi al residuo in pari quota (art.194 c.c.) senza che possa essere in alcun modo eccepito che si tratta di proventi personali.
Pertanto in regime di comunione dei beni l’art. 1298 c.c. sebbene costituisca una norma applicabile a tutti i conti cointestati subisce il condizionamento derivante dall’ingresso dei proventi medesimi in comunione de residuo.
Per i coniugi in comunione quindi l’art. 1298 si applica soltanto nel corso del rapporto e della vita coniugale ma non al momento dello scioglimento della comunione in cui i proventi entrano nella comunione de residuo.
Per l’ipotesi (da alcuni sostenuta) in cui i depositi in conto corrente bancario cointestato venis¬sero considerati oggetto della comunione legale – per la presunzione di cui all’art. 195 c.c. (nella divisione dei beni in comunione si presume che i “beni mobili”, categoria cui appartiene anche il denaro, sono comuni), sarà sempre possibile per un coniuge rivendicare la natura personale di un bene ex art. 179 c.c., collegandolo, per esempio, alla vendita di un bene personale (art. 179 lett. f, c.c.) il cui ricavato sia stato fatto confluire nel conto (Cass. civ. Sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1197).
VIII Le rimesse nel conto corrente comune tra conviventi more uxorio configurano adempi¬mento di obbligazioni naturali?
Non solo i coniugi, naturalmente, ma anche i conviventi more uxorio potrebbero essere cointesta¬tari di un conto corrente bancario.
In tal caso non operando al di fuori della famiglia matrimoniale (salvo l’adozione della comunione con un contratto di convivenza) regimi patrimoniali che possano influenzare la disciplina del conto corrente, troveranno applicazione le norme in tema di cointestazione del rapporto con la banca e tutte le regole che sono state sopra esaminate. I conviventi che non hanno scelto con il contratto di convivenza il regime di comunione legale si trovano in una condizione di autonomia patrimonia¬le per molti versi simile (ma non uguale: non operando l’art. 219 c.c.) alla separazione dei beni. Pertanto per essi troverà applicazione l’art. 1298 c.c.
Vi è tuttavia un aspetto importante da considerare.
Si è sopra esaminato il problema se con l’apertura di un conto o di un deposito cointestato possa ritenersi che il marito abbia voluto effettuare una donazione alla moglie. Le sentenze sopra ricor¬date (Cass. civ. Sez. II, 16 gennaio 2014, n. 809; Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2000, n. 12552) riconoscono che l’animus donandi non può essere riscontrato sulla sola base della cointestazione; viceversa il giudice dovrebbe motivare specificamente sullo spirito di liberalità che assiste ogni operazione.
Ebbene la stessa soluzione può certamente valere anche nel caso di cointestazione di un conto o di un deposito tra conviventi more uxorio per i quali tuttavia sorge un’altra questione interpreta¬tiva: se cioè le rimesse di uno dei due conviventi a favore dell’altro possano essere considerate adempimento di obbligazioni naturali. Cass. civ. Sez. I, 22 gennaio 2014, n. 1277 ha affer¬mato che le unioni di fatto, quali formazioni sociali che presentano significative analogie con la famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale e che assumono rilievo ai sensi dell’art. 2 Costituzione sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell’altro, che si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale, con la conseguenza che i versamenti di denaro sul conto corrente del convivente, configurano l’adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ., a condizione che siano rispettati i principi di propor¬zionalità e di adeguatezza.
IX Conti correnti cointestati e successione
Alla morte del cointestatario di un conto corrente bancario gli eredi attesteranno alla banca la propria legittimazione mediante l’esibizione di un atto notorio e di un certificato di morte del coin¬testatario estinto. Cade in successione la quota di danaro appartenente al cointestatario defunto da calcolare in rapporto all’intera giacenza del conto bancario e al complessivo numero dei coin¬testatari. Accettata l’eredità acquisteranno pro parte la titolarità della predetta quota subentrando nell’originario rapporto bancario del correntista estinto.
Alla morte di uno dei cointestatari del conto i suoi eredi o il contitolare superstite possono esigere dalla banca la propria quota sempre che il conto prevedesse la firma disgiunta, altrimenti non potranno vantare alcun diritto.
Per quanto concerne le liquidazioni spettanti a ciascun coerede, la giurisprudenza ha affermato che ognuno di essi avrà diritto alla propria quota indipendentemente dal consenso o dalla contestuale presenza di altri soggetti in quanto l’esistenza di una pluralità di eredi determina il sorgere di au¬tonomi rapporti obbligatori con l’istituto di credito coinvolto (Cass. civ. Sez. Unite, 28 novembre 2007, n. 24657 ha precisato che i crediti del de cuius non si dividono automaticamente tra i coe¬redi in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria; ciascuno dei partecipanti ad essa può agire singolarmente per far valere l’intero credito ereditario comune o anche la sola parte di credito proporzionale alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri coeredi.
Non sempre però la titolarità delle somme depositate si divide in parti uguali in quanto – come si è detto – la presunzione di titolarità in parti uguali determina infatti soltanto un’inversione dell’o¬nere probatorio a carico di chi intenda dimostrare una situazione difforme da quella derivante dalla cointestazione del conto corrente,con la conseguenza che l’intera provvista del conto potrebbe appartenere esclusivamente ad uno solo dei cointestatari. Uno dei cointestatari o gli eredi del con¬titolare defunto potrebbero, quindi, agire in giudizio per rivendicare le somme sul conto corrente cointestato dimostrando che il saldo attivo del rapporto bancario sarebbe costituito esclusivamente da versamenti di somme non riferibili agli altri contitolari o addirittura derivanti da alienazioni di beni personali di un singolo contitolare.

Giurisprudenza
Trib. Padova Sez. II, 15 settembre 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di cofideiussione, in ipotesi di regresso chi ha pagato per l’intero potrà pretendere dal coobbligato la rifusione della parte corrispondente alla quota di debito di quest’ultimo nei rapporti interni tra coobbligati e che, salvo prova contraria, si presume paritaria ex art. 1298 c.c.
Trib. Monza Sez. I, 1 aprile 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel conto corrente bancario cointestato a più persone, i rapporti interni tra correntisti, sono regolati non dall’art. 1854 c.c., riguardante i rapporti con la banca, bensì dal comma 2° dell’art. 1298 c.c., in virtù del quale debito e credito solidale si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente. Ne discende che, ove il saldo attivo risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno solo dei correntisti, si deve escludere che l’altro possa, nel rapporto interno, avanzare diritti sul saldo medesimo. Ed il medesimo principio trova applicazione in caso di deposito bancario di titoli in amministrazione cointestato.
Trib. Taranto Sez. I, 3 giugno 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di contratti bancari, in base all’art. 1854 c.c. ogni cointestatario al quale sia attribuita la facoltà di operare separatamente, è obbligato nei confronti della banca per l’intero, solidarietà passiva, e può, allo stesso modo, pretendere il pagamento dell’intero, solidarietà attiva. Il vincolo di solidarietà dei cointestatari del conto, nei rapporti interni, è regolato dall’art. 1298, comma 2° c.c., in base al quale “le parti di ciascuno si presumono eguali, se non risulta diversamente”. Ciò significa non solo che, in mancanza di prova contraria, le parti si pre¬sumono uguali e che il concreditore, nei rapporti interni, non può disporre oltre il 50% delle somme risultanti da rapporti bancari solidali, senza il consenso espresso o tacito degli altri cointestatari, ma anche che, ove risulti provato che il saldo attivo di un rapporto bancario cointestato discenda dal versamento di somme di pertinenza di uno soltanto dei cointestatari, si deve escludere che l’altro cointestatario, nei rapporti interni, possa avanzare diritti sul saldo medesimo.
Trib. Bari Sez. I, 24 marzo 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La presunzione di comune spettanza delle somme presenti su un conto corrente cointestato è valevole unica¬mente nei confronti della banca a mente dell’art. 1854 del codice civile. Viceversa, per quanto attiene ai rapporti tra i correntisti, la presunzione del credito solidale in parti uguali vige soltanto ove non risulti diversamente ex art. 1298 del codice civile sicché, nel caso in cui risulti dimostrato che il prelevante non abbia effettuato dei ver¬samenti sul predetto conto corrente, questi non potrà avanzare diritti sul saldo del medesimo.
Cass. civ. Sez. I, 22 gennaio 2014, n. 1277 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le unioni di fatto, quali formazioni sociali che presentano significative analogie con la famiglia formatasi nell’am¬bito di un legame matrimoniale e assumono rilievo ai sensi dell’art. 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell’altro, che si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale. Ne consegue che le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente “more uxorio” effet¬tuate nel corso del rapporto (nella specie, versamenti di denaro sul conto corrente del convivente) configurano l’adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza, senza che assumano rilievo le eventuali rinunce operate dal convivente – quale quella di trasferirsi all’estero recedendo dal rapporto di lavoro – ancorché suggerite o richieste dall’altro convi¬vente, che abbiano determinato una situazione di precarietà sul piano economico, dal momento che tali dazioni non hanno valenza indennitaria, ma sono espressione della solidarietà tra due persone unite da un legame stabile e duraturo.
Cass. civ. Sez. II, 16 gennaio 2014, n. 809 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cointestazione di un conto corrente, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto (art. 1854 c.c.) sia nei confronti dei terzi, che nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto (art. 1298 c.c., comma 2), ma tale presunzione da luogo soltanto all’inversione dell’o¬nere probatorio, e può essere superata attraverso presunzioni semplici – purché gravi, precise e concordanti – dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa.
L’animus donandi non può essere riconosciuto sulla sola base della cointestazione di un conto corrente. Il giudice deve motivare sullo spirito di liberalità che assiste ogni versamento.
Cass. civ. Sez. II, 2 dicembre 2013, n. 26991 (Famiglia e Diritto, 2014, 3, 283)
Nel conto corrente (bancario e di deposito titoli) intestato a due (o più) persone, i rapporti interni tra correntisti sono regolati non dall’art. 1854 cod. civ., riguardante i rapporti con la banca, bensì dal secondo comma dell’art. 1298 cod. civ., in base al quale, in mancanza di prova contraria, le parti di ciascuno si presumono uguali, sicché ciascun cointestatario, anche se avente facoltà di compiere operazioni disgiuntamente, nei rapporti interni non può disporre in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito dell’altro, della somma depositata in misura eccedente la quota parte di sua spettanza, e ciò in relazione sia al saldo finale del conto, sia all’intero svolgi¬mento del rapporto.
Nel caso di conto bancario intestato a più persone, l’art. 1854 c.c. disciplina solo i rapporti tra i correntisti e la banca; il vincolo di solidarietà dei cointestatari del conto, nei rapporti interni, è, invece, regolato dall’art. 1298, comma 2, c.c. Pertanto, ove risulti provato che il saldo attivo di un rapporto bancario cointestato discenda dal versamento di somme di pertinenza di uno soltanto dei cointestatari, si deve escludere che l’altro cointestatario, nei rapporti interni, possa avanzare diritti sul saldo medesimo.
Cass. civ. Sez. II, 30 maggio 2013, n. 13614 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cointestazione delle cassette di sicurezza autorizza il cointestatario alla relativa apertura e prelievo, ma non attribuisce al cointestatario, che sia a conoscenza dell’appartenenza dei beni contenuti ad altri, il potere di di¬sporre come proprietario dei beni ivi contenuti. Analogamente, la cointestazione dei conti bancari autorizza il cointestatario ad eseguire tutte le operazioni consentite dalla cointestazione, ma non conferisce al medesimo, consapevole dell’appartenenza ad altri delle somme affluite su tali conti e dei relativi saldi, il potere di disporne come proprie.
Trib. Palermo Sez. II, 10 maggio 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cointestazione di un conto corrente, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi conto sia nei confronti dei terzi, che nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell’oggetto del con¬tratto. Siffatta presunzione da, tuttavia, luogo ad un’inversione dell’onere probatorio, potendo essere superata mediante presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, dalla parte che deduca una situazione giuri¬dica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa.
App. L’Aquila, 14 gennaio 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In riferimento al conto corrente intestato a più persone, l’art. 1854 c.c. sancisce una presunzione legale iuris tantum, poiché da luogo solo ad un’inversione dell’onere della prova e può essere superata mediante presunzioni semplici a carico della parte che deduca l’esistenza di una diversa situazione giuridica.
Cass. civ. Sez. I, 1 ottobre 2012, n. 16671 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di cointestazione del deposito bancario di titoli (nella specie, appartenenti a coniugi), ove non vi sia, o non sia provata, una clausola contrattuale che dia facoltà al singolo di operare separatamente sul conto, è chi invoca gli effetti dell’atto individuale di disposizione ad avere l’onere di dimostrare che esso è riferibile anche agli altri intestatari o che, comunque, costoro lo hanno approvato, trattandosi altrimenti di un atto di per sé privo della possibilità di produrre effetti; infatti, il disposto dell’art. 1854 cod. civ. riguardante il conto corrente, ma analogicamente applicabile anche ai conti di deposito titoli, considera i relativi contitolari creditori o debitori solidali dei saldi, se è prevista la facoltà per i medesimi di compiere operazioni anche separatamente, facoltà che non può essere però presunta per il sol fatto che il conto risulti intestato a più persone, anche perché il titolo per fondare una solidarietà attiva deve essere inequivocamente convenzionale e quindi, in mancanza, le singole operazioni individuali non risultano efficaci se non attuate con il consenso, che non può essere presunto, di tutti i cointestatari; inoltre, l’esigenza formale che caratterizza i contratti bancari, ai sensi dell’art. 117 del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, preclude il rinvenimento della menzionata clausola dal mero comportamento, proces¬suale o extraprocessuale, delle parti.
App. Roma Sez. III, 22 novembre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel conto corrente bancario cointestato a più persone, con facoltà di compiere operazioni anche separatamente, i rapporti interni fra i correntisti sono regolati dall’art. 1298, co. 2, c.c., in base al quale il debito od il credito solidale si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente; pertanto, ove il saldo attivo del conto coin¬testato a due coniugi risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno soltanto di essi.
Trib. Salerno Sez. II, 25 ottobre 2011(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel conto corrente bancario cointestato a più persone, con facoltà di compiere operazioni anche separatamente, i rapporti interni tra i correntisti sono regolati non dall’art. 1854 c.c., che riguarda i rapporti tra i medesimi e la banca, ma dall’art. 1298, comma 2, c.c., in base al quale il debito od il credito solidale si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente. Pertanto, ove il saldo attivo del conto cointestato a due coniugi risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno soltanto di essi, si deve escludere che l’altro coniuge, nel rapporto interno, possa avanzare diritti sul saldo medesimo.
App. Roma, Sez. II, 15 settembre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel conto corrente intestato a più persone, i rapporti interni tra i correntisti, anche aventi facoltà di compiere operazioni disgiuntamente, sono regolati non dall’art. 1854 c.c, riguardante i rapporti con la banca, bensì dal secondo comma dell’art. 1298 c.c, in virtù dal quale debito e credito solidali si dividono in quote uguali solo se non risulta diversamente. Ne consegue che ove il saldo attivo risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno solo dei correntisti, si deve escludere che l’altro possa, nel rapporto interno, avanzare pretese, sul saldo medesimo. Per vincere la presunzione di cui all’art. 1298, co. 2, c.c., non è sufficiente la prova di avere avuto la proprietà e la disponibilità esclusiva del denaro poi versato sul conto valendo la cointestazione a rendere solidale il credito anche se il denaro sia immesso sul conto da uno dei cointestatari, essendo invece dirimente la prova della pertinenza esclusiva, in base al titolo di acquisto del denaro versato in capo ai uno dei cointestatari.
Trib. Campobasso, 2 maggio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cointestazione di un conto, libretto o titoli, nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto ( art. 1298, comma 2, c.c.), ma tale presunzione da luogo soltanto all’inversione dell’onere probatorio, e può essere superata attraverso presunzioni semplici – purché gravi, precise e concordanti – dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa
Cass. civ. Sez. I, 1 dicembre 2010, n. 24389 (Giur. It., 2011, 10, 2039, nota di FESSIA)
Nell’ipotesi in cui i coniugi contraggano insieme un mutuo ipotecario per far fronte alle spese di ristrutturazione della casa coniugale, ma successivamente tale somma venga utilizzata esclusivamente dal marito per motivi pro¬fessionali, la moglie è legittimata al regresso per l’intero importo indebitamente sostenuto nell’interesse esclusi¬vo dell’uomo. Infatti, anche se l’obbligazione di restituire in solido l’importo mutuato dai coniugi risulta assunto nell’interesse di entrambi e non soltanto di uno dei coniugi; ciò non è sufficiente per invocare la ripartizione del debito ex artt. 1298 e 1299 c.c. (“Il debitore in solido che ha pagato l’intero debito può ripetere dai condebitori soltanto la parte di ciascuno di essi”), atteso che tale regola non opera quando l’obbligazione solidale viene meno per vizio funzionale della causa che ha portato all’accordo.
Cass. civ. Sez. III, 24 febbraio 2010, n. 4496 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di deposito bancario di titoli in amministrazione cointestato ai coniugi, i rapporti interni tra i depositanti sono regolati dall’art. 1298, secondo comma, cod. civ., sicché le parti di ciascuno si presumono uguali, se non risulta diversamente. Per vincere la predetta presunzione, non è sufficiente la prova di aver avuto la proprietà e la disponibilità esclusiva del denaro utilizzato per l’acquisto dei titoli, valendo la cointestazione a rendere solidale il credito anche se il denaro sia immesso sul conto da uno dei cointestatari o da un terzo a favore di uno solo o di entrambi i coniugi, ed essendo, invece, dirimente la prova della pertinenza esclusiva, in base al titolo di acquisto, del denaro versato in capo a uno dei contestatari.
Cass. civ. Sez. II, 15 febbraio 2010, n. 3479 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In applicazione dell’art. 219 c.c. i beni mobili – ivi comprese le somme di denaro – di cui ciascun coniuge non può dimostrare la proprietà esclusiva devono essere, in sede di separazione, divisi pro quota. Qualora, quindi, nonostante il raggiungimento della prova circa la partecipazione di entrambi al soddisfacimento delle esigenze familiari e, nello specifico, alla creazione di riserve finanziarie, il coniuge non sia in grado di dimostrare con esattezza l’entità del proprio contributo, il giudice, sulla scorta del mancato superamento di detta presunzione semplice di comproprietà, non potrà che provvedere nel senso di una divisione pro quota delle somme di denaro oggetto di controversia.
Trib. Mondovì, 15 febbraio 2010 (Famiglia e Diritto, 2010, 7, 709, nota di CORDIANO)
La cointestazione di un conto corrente bancario, relativa a somme già depositate e originariamente appartenenti ad uno dei cointestatari, non costituisce donazione indiretta, se non venga provata l’esistenza della funzione do¬nativa, nella specie integrata da un atto di rinuncia alle pretese di rendicontazione e di restituzione delle somme prelevate, che indichi una dismissione dei diritti sorretta da un intento liberale.
Trib. Chieti, 16 marzo 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ art. 1298 c.c. disponendo che l’obbligazione si divide tra i diversi debitori o creditori e che le parti di ciascuno si presumono uguali se non risulti diversamente, fa riferimento a presunzioni semplici, con possibilità di prova contraria, con ogni mezzo per dimostrare che l’obbligazione stessa sia stata contratta nell’interesse esclusivo di uno di essi.
Cass. civ. Sez. II, 19 febbraio 2009, n. 4066 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel conto corrente bancario intestato a più persone, i rapporti interni tra correntisti, anche aventi facoltà di com¬piere operazioni disgiuntamente, sono regolati non dall’art. 1854 cod. civ. riguardante i rapporti con la banca, bensì dal secondo comma dell’art. 1298 cod. civ. in virtù del quale debito e credito solidale si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente; ne consegue che, ove il saldo attivo risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno solo dei correntisti, si deve escludere che l’altro possa, nel rapporto interno, avan¬zare diritti sul saldo medesimo.
Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 2008, n. 28839 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cointestazione di un conto corrente, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto (art. 1854 c.c.) sia nei confronti dei terzi, che nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto (art. 1298, secondo comma, c.c.), ma tale presunzione dà luogo soltanto all’inversione dell’onere probatorio, e può essere superata attraverso presunzioni semplici – purché gravi, precise e concor¬danti – dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa.
Cass. civ. Sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La possibilità che costituisca donazione indiretta l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito – qualora la predetta somma, all’atto della coin¬testazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari – può sussistere solo quando sia verificata l’esistenza dell’”animus donandi”, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità.
Trib. Chieti, 22 ottobre 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cointestazione di un conto corrente, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi di conto ( art. 1854 c.c.) sia nei confronti dei terzi, sia nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto, salva la prova contraria a carico della parte che deduca una situazione giuridica diver¬sa da quella risultante dalla cointestazione stessa, quale il versamento sul conto di somme appartenenti ad uno dei cointestatari in via prevalente o esclusiva.
Trib. Salerno Sez. I, 16 settembre 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Una presunzione legale “juris tantum” (quale quella di cui all’articolo 1298, secondo comma, c.c.), poiché dà luogo soltanto all’inversione dell’onere probatorio, può essere superata attraverso presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti.
Trib. Bari Sez. II, 25 giugno 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In merito al rapporto di deposito bancario con libretto cointestato, si presume che il credito solidale si divide in quote uguali con facoltà degli intestatari di operare separatamente o disgiuntamente, salvo, ai sensi dell’ art. 1298, comma 2, c.c., prova contraria posta a carico della parte che deduce una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione. Trattandosi di presunzione semplice, detta prova può essere fornita con ogni mezzo.
Trib. Ariano Irpino, 26 febbraio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ configurabile il reato di appropriazione indebita a carico del cointestatario di un conto corrente bancario il quale, pur se facultizzato a compire operazioni separatamente, disponga in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito degli altri cointestatari, della somma in deposito in misura eccedente la quota parte da consi¬derarsi di sua pertinenza, in base al criterio stabilito dagli artt. 1298 e 1854 c.c. secondo cui le parti di ciascun concreditore solidale si presumono, fino a prova contraria, uguali.
Cass. civ. Sez. Unite, 28 novembre 2007, n. 24657 (Giur. It., 2008, 8-9, 1916 nota di BERTOTTO)
I crediti del de cuius non si dividono automaticamente tra i coeredi in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria; ciascuno dei partecipanti ad essa può agire singolarmente per far valere l’intero credito ereditario comune o anche la sola parte di credito proporzionale alla quota ereditaria, senza ne¬cessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri coeredi. La partecipazione al giudizio di costoro può essere richiesta dal convenuto debitore in relazione ad un concreto interesse all’accertamento nei confronti di tutti della sussistenza o meno del credito.
Cass. pen. Sez. V, 12 giugno 2007, n. 27035 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di furto si differenzia da quello di appropriazione indebita per il potere di disponibilità del bene da parte dell’agente. Ne consegue che il mancato rispetto dei limiti in ordine alla utilizzabilità del bene integra il reato di appropriazione indebita, mentre, in caso contrario, è configurabile il furto. Ne deriva che è configurabile il reato di appropriazione indebita a carico del cointestatario di un conto corrente bancario il quale, pur se facoltizzato a compiere operazioni separatamente, disponga in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito degli altri cointestatari, della somma in deposito in misura eccedente la quota parte da considerarsi di sua pertinenza, in base al criterio stabilito dagli artt. 1298 e 1854 c.c, secondo cui le parti di ciascun concreditore solidale si pre¬sumono, fino a prova contraria, uguali.
App. Roma Sez. III, 27 febbraio 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 1298 c.c., disponendo che l’obbligazione si divide tra i diversi debitori o creditori, salvo che sia stata con¬tratta nell’interesse esclusivo di alcuni, e che le parti di ciascuno si presumono eguali se non risulta diversamente, fa riferimento a presunzioni semplici, con possibilità di prova contraria, che può essere fornita con ogni mezzo.
Trib. Genova Sez. IV, 21 novembre 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 1854 c.c. l’intestazione a più persone di un conto corrente bancario ha l’effetto di porre ciascuno di essi, nei confronti della banca, nella posizione di creditore o debitore in solido del saldo del conto corrente, laddove la cointestazione, essendo solitamente finalizzata ad una più comoda gestione del conto, non incide sulla titolarità dei fondi depositati. Pertanto, ciascun intestatario ha la facoltà di far valere il proprio esclusivo diritto sui beni dimostrandone la provenienza e vincendo con ciò la presunzione iuris tantum di cui all’art. 1298, comma 2, c.c.
Trib. Genova Sez. III, 11 novembre 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In regime di separazione dei beni i rapporti tra coniugi sono regolati dall’art. 1298, secondo comma, c.c., se¬condo il quale le quote di ciascuno si presumono eguali, se non risulta diversamente (Cass. 4327/1999 e Cass. 8718/1994).
Trib. Genova, 22 settembre 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
A norma dell’art. 1854 cod. civ. l’intestazione a più persone di un conto corrente bancario, con facoltà per le medesime di compiere operazioni anche separatamente, ha l’effetto di porre ciascun intestatario, nei confronti della banca, nella posizione di creditore o debitore in solido del saldo del conto. La cointestazione non incide in¬vece sulla titolarità dei fondi depositati, né sui rapporti interni tra i contestatari. L’art. 1298, comma 2, cod. civ., il quale dispone che le parti di ciascuno si presumono uguali se non risulta diversamente, si limita a porre una presunzione iuris tantum di comproprietà del denaro. Ne consegue che l’estensione ad un terzo della titolarità di un conto corrente da parte del proprietario delle somme depositate non equivale ad una donazione quando tale operazione – destinata tipicamente a spiegare i suoi effetti nell’ambito dei rapporti con la banca – non costituisca un mezzo per ottenere indirettamente gli effetti di un diverso negozio, caratterizzato dallo scopo di liberalità.
Cass. civ. Sez. III, 8 settembre 2006, n. 19305 (Obbl. e Contr., 2007, 4, 369, nota di GENNARI)
La cointestazione di un conto corrente, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi di conto (art. 1854 cod. civ.) sia nei confronti dei terzi, sia nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto, salva la prova contraria a carico della parte che deduca una situazione giuridica diver¬sa da quella risultante dalla cointestazione stessa.
Il saldo di conto corrente bancario cointestato, con facoltà di disposizione disgiunta di ciascuno dei contitolari, non può costituire credito “ contratto nell’interesse esclusivo” di alcuno dei contitolari del credito stesso, ai sen¬si del primo comma dell’art. 1298 cod. civ., perché ciò contrasterebbe con la funzione del contratto “de quo”, finalizzato all’espletamento del servizio di cassa in favore (e dunque nell’interesse) di tutti i contitolari, i quali possono liberamente disporre del saldo attivo.
Cass. pen. Sez. II, 4 aprile 2006, n. 17239 (Riv. Pen., 2007, 6, 662)
È configurabile il reato di appropriazione indebita a carico del cointestatario di un conto corrente bancario il quale, pur se facoltizzato a compiere operazioni separatamente, disponga in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito degli altri cointestari, della somma in deposito in misura eccedente la quota parte da consi¬derarsi di sua pertinenza, in base al criterio stabilito dagli artt. 1298 e 1854 cod. civ., secondo cui le parti di ciascun concreditore solidale si presumono, fino a prova contraria, uguali. (Annulla con rinvio, Gip Trib. Roma, 25 Luglio 2005).
Trib. Genova Sez. IV, 22 marzo 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel conto corrente bancario cointestato a coniugi, con facoltà di compiere operazioni anche separatamente, i rapporti interni fra i correntisti sono regolati non dall’art. 1854 c.c., che riguarda i rapporti fra i medesimi e la banca, ma dall’art. 1298, comma 2, c.c., in base al quale il debito od il credito solidale si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente. Pertanto, ove il saldo attivo del conto cointestato a due coniugi risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno soltanto di essi, si deve escludere che l’altro coniuge, nel rapporto interno, possa avanzare diritti sul saldo medesimo.
Cass. civ. Sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1197 (Fam. Pers. Succ., 2006, 8-9, 695, nota di CASTELLI)
In tema di comunione legale tra coniugi, il denaro ottenuto a titolo di prezzo per l’alienazione di un bene perso¬nale rimane nella esclusiva disponibilità del coniuge alienante anche quando esso venga dal medesimo accanto¬nato sotto forma di deposito bancario sul proprio conto corrente (Nella specie, la Cassazione ha precisato che il coniuge può utilizzare le somme accantonate sul proprio conto corrente, provenienti dall’alienazione di un bene personale, ai fini della surrogazione reale di cui all’art. 179 c.c., 1° comma, lett. f).
App. Reggio Calabria, 15 dicembre 2005 (Giur. It., 2006, 6, 1201, nota di IOZZO)
Nel conto corrente bancario cointestato a più persone, con facoltà di compiere operazioni anche separatamen¬te, la presunzione di eguaglianza delle parti di ciascuno, fissata dall’art. 1298 c.c. può essere vinta non con la dimostrazione di avere avuto la proprietà e la disponibilità del denaro immesso nel conto, ma con la diversa dimostrazione che il titolo di acquisizione di quel denaro rendeva destinatario dello stesso in via esclusiva il solo cointestatario che poi lo ha versato sul conto.
Trib. Gallarate, 5 dicembre 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di conto corrente cointestato a più persone con facoltà di compiere operazioni anche separatamente, i rapporti interni fra i correntisti sono regolati non dall’art. 1854 c.c. – che riguarda i rapporti fra i medesimi e la banca – ma dall’art. 1298, comma 2, c.c., in base al quale il debito o il credito solidale va suddiviso tra i corren¬tisti in parti uguali solo se non risulti diversamente.
Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2004, n. 13663 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cointestazione del conto corrente fa pertanto presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto ed il con¬senso di tutti gli intestatari alla movimentazione del conto, sicché una volta provata dalla banca l’esistenza di conti cointestati e onere della parte che deduce una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla coin¬testazione offrire la prova contraria della non riferibilità a se dei prelievi effettuati.
Trib. Roma Sez. X, 15 giugno 2004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di conto corrente bancario cointestato a più persone con facoltà di compiere operazioni anche sepa¬ratamente, i rapporti fra i medesimi e la banca sono disciplinati dall’art. 1854 c.c.; mentre nei rapporti interni vale la presunzione di uguaglianza tra debitori e creditori solidali di cui all’art. 1298, comma 2. Tale presunzione opera anche in relazione al conto c.d. provvisorio destinato all’acquisto di titoli, nonché nel caso in cui il denaro destinato all’acquisto dei titoli sia versato da uno solo degli intestatari, salva la prova che il titolo di acquisizione di quel denaro renda destinatario in via esclusiva il solo cointestatario che poi lo ha versato.
Cass. civ. Sez. I, 21 gennaio 2004, n. 886 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il saldo di conto corrente bancario cointestato, con facoltà di disposizione disgiunta di ciascuno dei contitolari, non può costituire credito “contratto nell’interesse esclusivo” di alcuno dei contitolari del credito stesso, ai sensi del primo comma dell’art. 1298 c.c., perché ciò contrasterebbe con la funzione del contratto di conto corrente bancario, il quale è finalizzato all’espletamento del servizio di cassa in favore – dunque nell’interesse – di tutti i contitolari, i quali, infatti, possono liberamente disporre del saldo attivo. (Nell’affermare il principio di diritto di cui in massima, la S.C. ha conseguentemente negato la rilevanza in giudizio della dedotta prova della cau¬sale del versamento alla base del saldo attivo del conto – causale ritenuta dal ricorrente tale da dimostrare l’esclusiva spettanza a lui del versamento stesso – perché la censura proposta con il ricorso consisteva nella violazione del primo comma dell’art. 1298 c.c., agli effetti del quale rilevava il credito del saldo – costituente il credito solidale in discussione – e non il diverso credito, verso terzi, la cui avvenuta riscossione aveva dato luogo alla provvista).
Trib. Palermo, sez. I, 9 luglio 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cointestazione di un cospicuo patrimonio mobiliare del marito in favore della moglie dimostra indiscutibilmen¬te l’intento liberale di attribuire, non fittiziamente o artificiosamente, ma piuttosto in via stabile e definitiva, al¬meno la metà degli importi investiti in fondi alla comunione legale dei coniugi; e pertanto le domande restitutorie avanzate dagli attori vanno disattese in quanto si dimostrano contrarie a diritto oltre che alla morale corrente (nella specie il marito pretendeva, dopo che il matrimonio stava definitivamente naufragando, la restituzione di quanto in precedenza era stato messo a totale disposizione della moglie).
Trib. Salerno, 29 gennaio 2001 (Giur. di Merito, 2002, 409)
Nel conto corrente bancario cointestato a più persone, con facoltà di compiere operazioni disgiuntamente, i rap¬porti interni tra i correntisti sono regolati non dall’art. 1854 c.c. – che riguarda i rapporti tra loro e la banca – ma dall’art. 1298 comma 2 stesso codice, in base al quale il debito o il credito solidale si dividono in quote uguali salvo che risulti diversamente o sia data la prova del contrario ad opera della parte che deduca una situazione diversa da quella risultante dalla cointestazione.
Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2000, n. 12552 (Giur. It., 2001, 757, nota di DIMARTINO)
Dalla cointestazione di un contratto di deposito in custodia e amministrazione di titoli al portatore non discende la comproprietà dei titoli acquistati con denaro appartenente ad uno solo dei cointestatari, tranne che le circostanze del caso concreto rivelino in maniera univoca la volontà delle parti di realizzare una donazione.
Cass. civ. Sez. I, 5 luglio 2000, n. 8961 (Contratti, 2000, 11, 1039)
La dizione dell’art. 1854 c.c. in tema di conto corrente bancario cointestato a più persone, nel prevedere anche la facoltà, per i singoli titolari, di operare anche separatamente sul conto, implica che tale eventualità sia subordi¬nata alla condizione che tale facoltà sia espressamente menzionata nel contratto attraverso il rispetto di rigorosi requisiti formali, e non rende ammissibile che essa facoltà venga desunta, in via interpretativa, dall’analisi del tenore complessivo della convenzione.
Cass. civ. Sez. I, 1 febbraio 2000, n. 1087 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Una presunzione legale “iuris tantum” (quale quella di cui all’art. 1298, comma 2, c.c.), poichè dà luogo soltanto all’inversione dell’onere probatorio, può essere superata attraverso presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti. (Nella specie la S.C. ha confermato la decisione di merito che ha ritenuto provata l’esclusiva appar¬tenenza al marito delle somme depositate su un conto corrente cointestato al medesimo e alla moglie sulla base dei seguenti fatti secondari: precedente intestazione al marito di un conto con depositi di importo superiore, brevissima durata del matrimonio, impossibilità di risparmi familiari apprezzabili).
Trib. Roma, 9 novembre 1999 (Giur. It., 2000, 787)
La cointestazione del conto corrente bancario fa presumere, fino a prova contraria, che le somme depositate siano di spettanza comune.
Cass. civ. Sez. I, 1 ottobre 1999, n. 10850 (Foro It., 2000, I, 2919)
La sola cointestazione del contratto di custodia e amministrazione di titoli a coniugi in regime di separazione dei beni non è sufficiente a dimostrare la volontà del coniuge, con il denaro del quale i titoli sono stati acquistati, di disporre della metà dei beni a titolo di liberalità.
Cass. civ. Sez. I, 29 aprile 1999, n. 4327 (Foro It., 2000, I, 2920)
In caso di deposito presso un istituto di credito di titoli al portatore (nella specie: buoni ordinari del Tesoro), cointestato a coniugi in regime di separazione dei beni, i rapporti interni tra i depositanti sono regolati dall’art. 1298, comma 2, c.c. onde il credito si divide in quote uguali solo se non risulti diversamente. Correttamente, pertanto, qualora rimanga accertato che le somme utilizzate per l’acquisto di tali titoli provengono da un conto corrente di corrispondenza intestato ad un solo coniuge, il giudice del merito ritiene quest’ultimo proprietario esclusivo dei titoli.
Nel caso in cui dei titoli al portatore (bot) siano depositati su un “deposito titoli” cointestato a due coniugi in regime di separazione di beni, i rapporti interni fra i depositanti sono regolati dall’art. 1298, comma 2 c.c., onde il credito corrispondente si divide in quote eguali fra i coniugi solo ove non risulti diversamente.
Cass. civ. Sez. III, 9 ottobre 1998, n. 10028 (Giust. Civ., 1999, I, 2417 nota di COREA)
In tema di pignoramento di crediti presso terzi, quando il pignoramento cade sul credito alla restituzione di somma depositata su di un libretto bancario intestato a più persone e il creditore abbia assoggettato a pigno¬ramento l’intero, anziché la quota di pertinenza del debitore, gli altri cointestatari del deposito sono legittimati a dedurre, sotto forma d’opposizione di terzo, che il credito appartiene per una quota anche a loro. Peraltro, se l’opposizione di terzo non è stata proposta, l’intestatario non avvisato a norma dell’art. 180 disp. att. c.p.c. può ancora agire contro il creditore procedente e assegnatario del credito per ottenere la restituzione di quanto abbia incassato.
Cass. pen. Sez. II, 30 ottobre 1997, n. 5967 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di sequestro conservativo, poiché la cointestazione del conto corrente bancario opera nei confronti dei terzi, facendo presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto, e poiché la solidarietà attiva e passiva prevista dall’art. 1854 cod. civ. è limitata ai soli rapporti fra correntisti ed istituto, di talché il creditore di uno degli intestatari non può pretendere di aggredire presso la banca l’intero importo della prestazione dovuta a tutti i cointestatari solidali, ma può colpire solo la quota spettante al suo debitore (la quale, in assenza di diverse indicazioni, si presume uguale a quella egli altri ai sensi dell’art. 1101 cod. civ.), deve ritenersi illegittima l’ap¬posizione del vincolo cautelare, finalizzato a garantire l’adempimento delle obbligazioni civili nascenti dal reato, sull’intero ammontare dei depositi bancari cointestati.
Trib. Verona, 28 ottobre 1994 (Giur. It., 2001, 757, nota di DIMARTINO)
In ipotesi di conto corrente bancario cointestato a più persone, ciascuna con facoltà di compiere operazioni anche separatamente, i rapporti interni tra correntisti non sono regolati dall’art. 1854 c.c. che riguarda i rapporti tra i medesimi e la banca, ma dall’art. 1298 comma 2 c.c. in base al quale il debito e il credito solidale si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente.
Cass. civ. Sez. I, 22 ottobre 1994, n. 8718 (Giust. Civ., 1995, I, 972)
L’apertura di un conto corrente intestato a più persone rende gli intestatari creditori o debitori in solido dei saldi del conto, con presunzione di eguaglianza delle parti di ciascuno secondo quanto previsto ex art. 1298 comma 2 c.c. Tale principio opera anche in presenza di un conto c.d. provvisorio, caratterizzato dalla immissione nello stesso di denaro cui viene conferita la specifica destinazione dell’acquisto di titoli.
In un conto corrente bancario cointestato la presunzione di uguaglianza delle parti del conto spettanti a ciascuno dei cointestatari non può essere vinta con la dimostrazione di aver avuto la proprietà e la disponibilità del denaro immesso nel conto – che tale circostanza viene superata dalla cointestazione che rende solidale il credito o il debito – ma con la diversa dimostrazione che il titolo di acquisizione di quel denaro rendeva destinatario dello stesso in via esclusiva il solo cointestatario che poi lo ha versato sul conto (non è sufficiente l’affermazione “de¬nari provenienti da risparmi personali e familiari”).
Trib. Verona, 8 aprile 1994 (Famiglia e Diritto, 1995, 3, 255, nota di RIEDWEG)
Nel conto corrente cointestato a più persone, con facoltà di compiere operazioni anche separatamente, i rapporti interni tra i correntisti sono regolati non dall’art. 1854 c.c. che riguarda i rapporti tra i medesimi e la banca, ma dall’art. 1298, comma 2, c.c., in base al quale il debito o il credito solidale si dividono in quote eguali solo se ne risulti diversamente. Ove il saldo attivo del conto corrente cointestato a due coniugi in regime di separazione dei beni risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno soltanto di essi, deve escludersi che l’altro coniuge possa avanzare diritti sul saldo medesimo.
Cass. civ. Sez. I, 18 agosto 1993, n. 8758 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel conto corrente bancario cointestato a più persone, i rapporti interni tra i correntisti sono regolati non dall’art. 1854 c.c. che riguarda i rapporti tra i medesimi e la banca, ma dall’art. 1298, 2° comma, c.c., in base al quale le parti di ciascuno dei debitori e creditori solidali si presumono uguali se non risulta diversamente, con la con¬seguenza che nel giudizio instaurato nei confronti di uno soltanto dei contitolari del conto, da parte di chi vanti una pretesa sulle somme depositate, non è necessaria la integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri, poiché la sentenza resa in detto giudizio non è opponibile a questi ultimi.
Cass. civ. Sez. I, 9 luglio 1989, n. 3241 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel conto corrente bancario cointestato a più persone, con facoltà di compiere operazioni anche separatamente, i rapporti interni fra i correntisti sono regolati non dall’art. 1854 c. c. che riguarda i rapporti fra i medesimi e la banca, ma dall’art. 1298, 2° comma, c. c., in base al quale il debito od il credito solidale si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente; pertanto, ove il saldo attivo del conto cointestato a due coniugi risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno soltanto di essi (nella specie, trattandosi dell’indennità di buonuscita riscossa con il collocamento a riposo), si deve escludere che l’altro coniuge, nel rapporto interno, possa avanzare diritti sul saldo medesimo.
C. Conti Sez. riunite, 30 luglio 1988, n. 590 (Foro Amm.,1989, 825)
La cointestazione di un conto corrente bancario comporta che i singoli cointestatari abbiano la disponibilità dell’intero e rispondano in solido tra loro (art. 1854 c. c.) mentre i rapporti interni di proprietà del bene sono soggetto alla disciplina dei beni indivisibili; e, pertanto, la cointestazione di un conto corrente fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto di talché la prova contraria è a carico della parte che deduce una situa¬zione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa; in mancanza di che, il sequestro deve essere convalidato.
Cass. civ., 26 ottobre 1981, n. 5584 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cointestazione di un conto corrente, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori e debitori solidali dei saldi del conto (art. 1854 c. c.) sia nei confronti dei terzi sia nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto, salva la prova contraria a carico della parte che deduce una situazione giuridica diver¬sa da quella risultante dalla cointestazione stessa.
Cass. civ., 28 gennaio 1972, n. 202 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 1298 c.c., disponendo che l’obbligazione si divide tra i diversi debitori o creditori, salvo che sia stata con¬tratta nello interesse esclusivo di alcuni, e che le parti di ciascuno si presumono eguali se non risulta diversa¬mente, fa riferimento a presunzioni semplici, con possibilità di prova contraria, con ogni mezzo, per dimostrare che l’obbligazione stessa sia stata contratta nell’interesse esclusivo di uno di essi.
Cass. civ., 10 gennaio 1966, n. 188 (Foro It., 1966, 1, 1792)
Poiché per l’art. 1298 c.c l’obbligazione solidale, se non risulta diversamente, si divide nei rapporti interni fra condebitori in parti eguali, il coobbligato che abbia pagato l’intero, e titolare, salvo prova contraria a carico dell’altro condebitore, del diritto di ripetere da quest’ultimo la metà di quanto pagato al comune creditore.

Non è applicabile alla psicoterapia infantile la causa di non punibilità introdotta dalla c.d. legge Gelli-Bianco

Cass. pen. Sez. IV, 11 gennaio 2018, n. 822
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
C.F., nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 04/03/2016 della CORTE APPELLO di VENEZIA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. MARIAROSARIA BRUNO;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. ROMANO GIULIO che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
Udito il difensore l’avvocato PALUMBO FRANCESCO del foro di VERONA in difesa di C.F., che chiede l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 4/3/2016, la Corte di appello di Venezia, in riforma della sentenza emessa in data 16/2/2006 dal Tribunale di Verona, dichiarava non doversi procedere nei confronti di C.F., per essere, il reato di lesioni colpose a lei ascritto, estinto per intervenuta prescrizione. Confermava nel resto l’appellata sentenza, quanto alla condanna al risarcimento dei danni causati alla parte civile, L.R., da liquidarsi in separata sede. Condannava altresì l’imputata al pagamento delle spese processuali sostenute dalla parte civile nel grado d’appello.
A carico della imputata, psicoterapeuta, era stata elevata imputazione di lesioni colpose gravissime in danno del minore L.J., rappresentate da forme di disturbo mentale con alterazioni a livello funzionale e comportamentale.
Si individuavano, nel suo operato, profili di colpa, riconducibili ad imprudenza, negligenza e imperizia, per non avere adottato, nello svolgimento della sua attività professionale di psicoterapeuta del bambino, una metodologia adeguata e corretta, né sotto il profilo tecnico-psicologico, né sotto quello deontologico-professionale.
In particolare, si addebitava alla imputata: di avere assecondato ed avallato le finalità perseguite dalla madre del minore, S.B., di allontanamento della figura paterna dalla vita del bambino; di avere praticato una terapia errata; di non avere tenuto conto della patologia sofferta dalla S., committente dell’incarico, nella quale era riconoscibile, all’evidenza, una sindrome di alienazione parentale.
Nei confronti della C. era stata inizialmente elevata anche imputazione per il reato di cuiall’art. 622 c.p.in ordine al quale era stata poi pronunciata, durante l’iter processuale della vicenda, declaratoria di improcedibilità per tardività della querela.
2. L’imputata ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore, deducendo quattro separati motivi.
Con il primo motivo, deduce la inosservanza delle norme processuali prescritte a pena di nullità. Si afferma che il capo di imputazione non è enunciato in forma chiara e precisa. Secondo la prospettazione difensiva, mancherebbe l’indicazione della malattia che la ricorrente avrebbe cagionato nel minore. Difetterebbe l’individuazione della lesione ed il carattere irreversibile o insanabile della stessa. La enunciazione contenuta nella imputazione, che si riferisce a “forme di disturbo mentale con alterazioni a livello funzionale e comportamentale” non costituirebbe diagnosi di una malattia e, pertanto, non consentirebbe di individuare il fatto storico rispetto al quale la imputata è chiamata ad esercitare il diritto di difesa.
In ciò, sarebbe ravvisabile violazionedell’art. 429 c.p.p., comma 1, lett. c) e dell’art. 3, comma 3, lett. a) CEDU. La motivazione con cui la Corte territoriale ha respinto tale eccezione, sarebbe in netto contrasto con il dettato normativo, tanto nazionale, quanto comunitario.
Con il secondo motivo, lamenta la contraddittorietà della motivazione, che si porrebbe in contrasto con gli atti del processo, nella parte in cui attribuisce alla imputata, come condotta causale efficiente dell’evento, quella di avere interrotto bruscamente la terapia con il minore. La difesa, sul punto, rappresenta che la sentenza sarebbe andata contro le evidenze probatorie, avendo ritenuto di ascrivere alla ricorrente l’interruzione improvvisa delle terapie. Tale aspetto contrasterebbe con le emergenze processuali, dalle quali risulta che la interruzione dipese dall’intervento dei Servizi sociali di (OMISSIS) che sottrassero il minore alla madre, collocandolo in un apposito centro, in data (OMISSIS). Da allora, fu impossibile per la ricorrente vedere ed avere contatti con il minore.
Terzo motivo: violazionedell’art. 590 c.p., comma 2, in relazioneall’art. 583 c.p., comma 2, per assenza dell’evento prescritto dalla legge e assenza di una malattia certamente e probabilmente insanabile. Secondo la prospettazione difensiva, la sentenza di appello avrebbe recepito acriticamente le conclusioni cui era pervenuto il perito nominato dal Tribunale, dott. P., il quale giunge, nella perizia, alla erronea conclusione che l’aggravamento delle condizioni di salute di L.J. erano da ascriversi alla condotta della ricorrente, la quale non aveva adeguatamente preparato il paziente alla conclusione della terapia.
Non era stata, tuttavia, presa in considerazione, altra causa alternativa di aggravamento dello stato di salute del minore, individuabile nel brusco affidamento del bambino ai servizi sociali, nella interruzione della terapia con la dott.ssa C., nel cambiamento radicale di vita instauratosi con tale affidamento.
Ulteriore profilo di censura, era da ravvisarsi nella mancanza di elementi dai quali potersi desumere che la malattia insorta nel minore fosse gravissima, in quanto nessun perito o testimone fa riferimento alla irreversibilità di tali lesioni. La stessa Corte di appello, in un passaggio della decisione, apparirebbe dubbiosa in ordine a tale possibilità.
Con il quarto motivo, la difesa deduce un ulteriore vizio di contraddittorietà della motivazione, nella parte in cui ritiene che l’imputata non abbia rispettato, per colpa grave, i parametri dell’agente modello. Le tesi sostenute da diversi altri professionisti, in base alle quali la C. avrebbe dovuto seguire un diverso approccio metodologico, resterebbero confinate nell’ambito delle opinioni. Ciò in quanto, in tale campo, non esistono linee guida. In proposito, la difesa allega la risposta fornita dal Presidente del Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi che, interpellato circa la esistenza di linee guida in materia, ha affermato che non esistono linee guida emanate dall’Ordine, riferite a specifici settori, come quello della psicoterapia infantile. Pur volendo ammettere che la ricorrente abbia applicato una terapia rivelatasi, ex post errata, è sostenibile, afferma la difesa, che la stessa abbia agito in buona fede, pienamente convinta che il minore avesse subito abusi sessuali ad opera del padre: dovrebbe, pertanto, trovare applicazionel’art. 47 c.p., comma 1, per essere incorsa, la ricorrente, in un errore scusabile.
In ragione delle esposte argomentazioni, la difesa chiede alla Corte di ritenere la nullità del capo di imputazione per genericità dello stesso e, in accoglimento dei motivi di ricorso, di annullare la sentenza impugnata con ogni conseguenza di legge.
Nel corso della discussione svoltasi finanzi a questa Corte, la difesa ha invocato l’applicazione, al caso in esame, dellaL. 8 marzo 2017, n. 24.
Motivi della decisione
1. Ritiene la Corte che il ricorso proposto dalla difesa della imputata sia fondato nei termini che saranno di seguito precisati.
2. La Corte di appello, nel dichiarare non doversi procedere nei confronti dell’imputata, per estinzione del reato a lei ascritto per intervenuta prescrizione, ha confermato la sentenza del Tribunale in punto di statuizioni civili.
A fondamento della sua decisione, ha rilevato che: in sede di appello, nel caso di presenza della parte civile, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice, ai sensidell’art. 578 c.p.p., è tenuto a valutare il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili; al riguardo, la sentenza di primo grado risultava congruamente motivata ed immune da vizi logici e giuridici, in ordine alla ricostruzione della vicenda ed alla ascrivibilità alla imputata delle lesioni contestate.
Quanto alla ricostruzione in fatto, ripercorrendo dettagliatamente la complessa vicenda oggetto del giudizio, la Corte territoriale ha analizzato le testimonianze dei numerosi specialisti che si sono occupati a vario titolo del caso in esame (assistenti sociali e periti nominati in diversi giudizi), evidenziando come tutti costoro, erano addivenuti alla medesima conclusione di ritenere che la imputata avesse, nel suo operato, violato le regole deontologiche ed intrapreso scelte terapeutiche errate, dando per scontato che il minore avesse subito un abuso sessuale ad opera del padre, sebbene altre ipotesi, poste a fondamento del malessere del bambino, emergessero chiaramente dal contesto nel quale lo stesso era vissuto.
Ha poi valutato il contenuto della perizia elaborata dal dott. P.A., a cui ha riconosciuto, come aveva già fatto il giudice di primo grado, validità scientifica, per completezza e accuratezza dell’analisi effettuata sull’evoluzione dello stato di salute psichica di L.J..
Condividendo la conclusione cui era giunto il perito nominato dal Tribunale e, alla luce di tutte le altre prove raccolte, ha individuato, nella condotta serbata dalla imputata, i profili di responsabilità della colpa elevati nella contestazione, ritenendo provato che: la psicoterapeuta era incorsa in errori metodologici gravi, consistiti nel praticare sul minore una terapia inadeguata e dannosa; aveva agito sul piccolo paziente alimentando il conflitto con il padre; non si era attivata per curare la tendenza marcata del bambino a confondere il piano della realtà con quello della immaginazione e ad abbandonarsi a fantasie distruttive.
Sulla base di tutte le prove raccolte, ha ritenuto che l’agire della ricorrente sulla psiche del bambino, nel momento delicato della crescita e della formazione della personalità, avesse provocato una ingravescenza delle sue già compromesse condizioni di salute mentale.
Condividendo le conclusioni cui era giunto il perito dott. P., la Corte territoriale si è così espressa: “All’esito della terapia cui è stato sottoposto dall’imputata, quando è stato visitato dal dott. G. in data 6.8.2002, L.J. presentava dei sintomi decisamente più gravi. La situazione di disarmonia evolutiva si era tradotta in un disturbo paranoide della personalità e in un disturbo emozionale iperansioso (Si veda verbale d’udienza del 16/12/2005 pag. 13). Il minore veniva definito borderline, in grado di distinguere solo parzialmente il mondo interno da quello esterno; affetto da un disturbo emozionale iperansioso e da un disturbo da incubi notturni. La perizia è giunta alla conclusione che l’aggravamento dei sintomi così come descritti, ovvero il consolidarsi in una franca patologia psichiatrica, fosse da attribuire proprio ad un’errata impostazione terapeutica da parte di C.F.. Sotto tale profilo, dunque, per rispondere ad una delle principali censure sollevate nell’atto di appello, si deve certamente concludere che il minore abbia subito delle lesioni, nel senso che, sebbene certamente già oggetto di un disturbo psichiatrico – nel momento in cui è stato affidato alle cure dell’imputata – all’esito delle cure da parte di costei, il minore è risultato affetto da una patologia psichiatrica dai sintomi ben più severi di quelli riscontrati all’avvio della terapia”. (pag. 12 della sentenza impugnata).
In ordine alla entità delle lesioni procurate dalla C., il giudice d’appello ha affermato: “Ricondotto questo principio generale al caso di specie, si deve dire – come del resto aveva fatto in maniera esauriente la sentenza appellata – che la condotta terapeutica adottata dalla dottoressa C. è stata condizione necessaria delle lesioni subite da L.J., tali dovendosi considerare, a tutti gli effetti, i disturbi deliranti paranoidi da cui il minore risultava affetto, senza che il processo abbia consentito di individuare l’interferenza di decorsi alternativi”.
3. L’esame del contenuto del ricorso proposto dalla difesa dell’imputata, alla luce dell’esito del giudizio di appello, impone talune precisazioni di carattere preliminare.
È d’uopo rilevare che, in caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, trovando applicazionel’art. 129 c.p.p., comma 2, anche in sede di legittimità, la Corte di cassazione può rilevare l’evidenza della prova dell’innocenza del ricorrente. Tuttavia, a questo fine, la esistenza di una delle cause più favorevoli, enunciatenell’art. 129 c.p.p., comma 2, può essere desunta unicamente dal testo del provvedimento impugnato (così, ex multis Sez. 6, Sentenza n. 48461 del 28/11/2013; Sez. 1, n. 35627 del 18/04/2012, Rv. 253458; Sez. 6, n. 27944 del 12/06/2008, Rv. 240955; Sez. 1, n. 10216 del 05/02/2003, Rv. 223575; Sez. 4, n. 9944 del 27/04/2000, Rv. 217255). Si è quindi affermato che la valutazione da esperirsi da parte del giudice, nella ipotesi contemplatadall’art. 129 c.p.p., comma 2, è più vicina al concetto di “constatazione”, che di “apprezzamento”, essendo incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, dep. 15/09/2009, Tettamanti, Rv. 244274).
Ebbene, escluso che nella vicenda in esame possa trovare applicazionel’art. 129 c.p.p., comma 2, stante la mancanza di evidenza della prova della innocenza della imputata, tenuto conto delle due conformi decisioni adottate nei gradi precedenti, è preciso dovere di questa Corte, in presenza di una condanna al risarcimento dei danni pronunciata dai giudici di merito, secondo il dispostodell’art. 578 c.p.p., esaminare il fondamento dell’azione civile e verificare l’esistenza di tutti gli elementi della fattispecie penale, al fine di confermare o meno la condanna al risarcimento.
Alla luce di tale premessa, occorre rilevare come la Corte territoriale ed il giudice di primo grado, nella disamina dei fatti, non abbiano offerto una compiuta risposta in ordine alla precisa diagnosi della malattia sofferta dal minore ed alla sua durata. Pure avendo ricostruito in modo dettagliato lo sviluppo della vicenda ed individuato i diversi errori nei quali era incorsa la imputata durante la terapia praticata, non hanno precisato: il grado di incidenza di tali errori sulla già conclamata patologia sofferta dal piccolo paziente; la precisa diagnosi della malattia insorta nel minore in seguito all’intervento della psicoterapeuta; la prevedibile durata della malattia stessa, in relazione alla contestazione elevata a carico della ricorrente, a cui è stato addebitato di avere causato nel minore una lesione gravissima.
Secondo il costante orientamento della Corte (ex multis: Sez. 5, n. 8351 del 25/10/2012 Ud. Rv. 255214; Sez. 5, n. 43763 del 29/09/2010, Rv. 248778), in tema di lesioni personali, costituisce “malattia” qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata, destinata a perdurare fino a quando sia in atto il suddetto processo di alterazione. Essa può riguardare sia la sfera fisica della persona, sia quella psichica. Il concetto di lesione coinvolgente la sfera psichica della persona, ha trovato luogo nella giurisprudenza di legittimità con riferimentoall’art. 582 c.p., dove è espressamente richiamato il concetto di malattia “nella mente”. Si afferma, secondo la definizione tradizionalmente fornita dalla giurisprudenza della Corte di legittimità che la malattia nella mente è quella che comporta non soltanto offuscamento o disordine, ma anche indebolimento, eccitamento, depressione o inerzia dell’attività psichica, con effetto permanente o temporaneo (così Sez. 1, n. 8483 del 04/12/1974, Rv. 130726).
La nozione di lesione gravissima si ricavadall’art. 583 c.p., dove, in termini definitori, detta lesione è collegata alla insorgenza di una malattia certamente o probabilmente insanabile.
Pertanto, la malattia da ritenersi insanabile è quella che ha attitudine a non essere reversibile ed a permanere per tutta la vita con una possibilità di guarigione molto remota o nulla.
Dalla motivazione della sentenza impugnata non si evince con chiarezza la definizione della patologia da cui è risultato affetto il minore in seguito alla terapia praticata dalla C.. Invero, la Corte territoriale, nei passaggi sopra richiamati, non definisce la patologia psichica o psichiatrica insorta nel minore e, quanto alla sua durata, si esprime in termini dubitativi, affermando come il comportamento della imputata abbia “compromesso, forse irrimediabilmente, la possibilità di regresso e, in ultima istanza, di guarigione” della persona offesa.
Pure dovendosi ritenere dimostrata l’esistenza di evidenti errori nella terapia praticata dalla ricorrente, risultano fondate le censure difensive nella parte in cui si riferiscono alla incertezza con cui risultano trattati in sentenza gli aspetti riguardanti la diagnosi precisa della malattia insorta nella persona offesa e la sua durata.
4. Il richiamo alla Legge Gelli-Bianco operato dalla difesa in sede di conclusione, all’odierna udienza, risulta improprio nel caso in esame.
LaL. 8 marzo 2017, n. 24,art.6, introducendol’art. 590-sexies c.p., ha previsto la non punibilità dei fatti di cui agliartt. 589 e 590 c.p., commessi nell’esercizio della professione sanitaria, qualora l’evento si verifichi a causa di imperizia, purché siano rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida definite e pubblicate ai sensi della legge o, in mancanza di queste, le buone pratiche assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle linee guida risultino adeguate alla specificità del caso concreto.
Ciò posto, occorre rilevare, in primo luogo, come la pronuncia di estinzione del reato per intervenuta prescrizione rappresenti un esito più favorevole rispetto alla causa di non punibilità prevista dalla legge richiamata, la quale, infatti, implica una rinuncia alla potestà punitiva ma non esclude il reato.
Inoltre, nel caso in esame, come ha evidenziato lo stesso difensore attraverso l’attestazione allegata, proveniente dal Presidente dell’Ordine degli psicologi, non esistono linee guida emanate dall’Ordine riferite alla materia specifica della psicoterapia infantile. Per cui si verte in un ambito che è fuori dall’applicazione della norma.
A ciò deve aggiungersi, infine, che la contestazione non risulta incentrata unicamente sulla ricorrenza del profilo colposo della imperizia, unico profilo investito dalla operatività della norma in argomento.
5. Ritenuta ed affermata la infondatezza del ricorso agli effetti penali, la sentenza impugnata deve essere annullata, ai fini civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d’appello: ed invero, nel caso in cui il giudice di appello abbia dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato, senza motivare adeguatamente in ordine alla responsabilità dell’imputato ai fini delle statuizioni civili, l’accoglimento sul versante civilistico del ricorso per cassazione, proposto dall’imputato, impone l’annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, a normadell’art. 622 c.p.p., (Sez. U, n. 40109 del 18/07/2013, Sciortino, Rv. 256087; Sez. 1, n. 42039 del 14/01/2014, Sinnigliani, Rv. 260508; Sez. 6, n. 5888 del 21/01/2014, Bresciani, Rv. 258999; Sez. 6, n. 44685 del 23/09/2015, N., Rv. 265561). È demandato al giudice civile il compimento delle indagini e degli approfondimenti sopra indicati, riguardanti la precisa patologia da cui è risultato affetto il minore dopo l’intervento terapeutico effettuato da C.F. e la durata di tale malattia.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili e rinvia per nuovo esame al giudice civile competente per valore in grado di appello.