Il beneficiario di amministrazione di sostegno può anche accettare l’eredità puramente e semplicemente.

Tribunale di Vercelli, decreto 3 marzo 2017.

RGV … /2016
nella procedura di Apertura amministrazione di sostegno (artt. 404 e segg., c.c.) nell’interesse di XXXXX;
letta l’istanza 27.2.2017 della beneficiaria e dell’amministratrice di sostegno, Avv. xxxxxx del Foro di Vercelli;
visto l’art. 411 c.c. e letto il decreto di nomina;
osserva quanto segue.
***
Con decreto 16.3.2016 veniva aperta l’amministrazione di sostegno a tempo determinato (di anni due dal giuramento) di XXX.
Con riferimento all’attività concernente la straordinaria amministrazione, questo Magistrato deferiva all’amministratrice di sostegno poteri cd. in assistenza, ex art. 405, comma 5, nr. 4, c.c., disponendo che – salva l’autorizzazione giudiziale – i relativi atti potessero dirsi validamente negoziati solo ove sottoscritti sia dalla beneficiaria che dalla amministratrice di sostegno.
Con il ricorso in esame, da entrambe sottoscritto, le istanti esponevano che:
– fosse deceduta, in data 07.7.2015, la madre della beneficiaria;
– la beneficiaria, alla luce delle regole della successione ab intestato, fosse l’unica chiamata all’eredità;
– nel compendio morendo dismesso figurassero valori mobiliari (saldo attivo conto corrente e dossier titoli dello Stato italiano) conservati presso la filiale principale di XXXXXXX di Vercelli;

allegavano altresì copia della dichiarazione di successione xxxxxx, dalla quale emergeva inoltre che:
– l’asse ereditario fosse scevro da passività (quadro D);
– nell’attivo ereditario risultasse la quota di tre quarti della piena proprietà di un fabbricato sito in Vercelli (quadro B1); sul punto si specifica che, come emerge dalla “relazione iniziale” dell’amministratrice di sostegno del 22.6.2016, il residuo quarto di proprietà su detto immobile tocchi alla beneficiaria medesima, che ivi abita;
alla luce di quanto sopra, le istanti chiedevano l’autorizzazione alla riscossione dei valori mobiliari di cui sopra, ciò che comporterebbe altresì accettazione tacita dell’eredità.
Ciò detto, deve premettersi come il decreto di nomina relativo al caso di specie indichi, tra gli atti di straordinaria amministrazione patrimoniale da compiersi con l’assistenza necessaria dell’amministratrice di sostegno, tanto la riscossione di capitali (in particolare, per somme superiori ad € XXXX), quanto l’accettazione di eredità, con sostanziale richiamo alle norme di cui ai numeri 2) e 3) dell’art. 374 c.c..
Da un punto di vista dogmatico, non può dubitarsi della inapplicabilità generale, ai beneficiari di amministrazione di sostegno, dell’art. 471 c.c. (non richiamato dall’art. 411, comma 1, c.c., ed estensibile solo esplicitamente, ai sensi dell’ultimo comma della predetta norma), disposizione che impone l’accettazione beneficiata dell’eredità devoluta a minori ed interdetti.
I beneficiari, dunque, possono, in linea di principio, accettare l’eredità cui sono chiamati anche puramente e semplicemente, a patto che, ove previsto nel decreto di nomina, si muniscano, per il tramite dell’amministratore di sostegno, dell’autorizzazione di cui all’art. 374 comma 1, nr.3) c.c..
Ciò, è appena il caso di osservarlo, consente ai predetti chiamati di apprendere il patrimonio ereditario evitando i costi, i tempi e gli effetti dell’accettazione con beneficio di inventario, di fatto superflui in tutti i casi nei quali, per le condizioni di evidente capienza del compendio relitto (in ipotesi privo di poste passive), appaia inutile conseguire l’effetto di separazione patrimoniale di cui all’art. 490 c.c.; il tutto, inoltre, con un’operazione del tutto priva di rischi laddove il Giudice tutelare, nell’ambito dei poteri di cui all’ultimo comma dell’art. 411 c.c. abbia in ogni caso esteso al beneficiario l’effetto protettivo – previsto per gli interdetti – di cui all’art. 489 c.c., cosa che è avvenuta nel caso in esame.
Ciò premesso, vi è però da chiedersi se, per i beneficiari di amministrazione di sostegno sia possibile, con le debite autorizzazioni, tanto l’accettazione espressa dell’eredità (aspetto sul quale non sussistono perplessità), quanto l’accettazione tacita della medesima, che, come noto (art. 476 c.c.) si perfeziona laddove il chiamato compia un atto che presuppone necessariamente la volontà di accettare, e che non potrebbe essere compiuto se non in qualità di erede.
Ritiene questo Giudice che, ferme le precisazioni che seguiranno, non vi siano ragioni per escludere, in capo ai beneficiari di amministrazione di sostegno, la capacità, in linea generale, di procedere all’accettazione tacita dell’eredità.
Militano in tal senso ragioni letterali: se è vero che l’accettazione pura e semplice può essere espressa o tacita (art. 474 c.c.); e se è vero che il beneficiario, come supra chiarito, può accettare puramente e semplicemente l’eredità; non si vede dunque perché inibirgli la modalità più diretta e usuale di porre in essere tale negozio. La qual cosa, oltretutto, consentirebbe al beneficiario di evitare i costi dell’accettazione espressa, laddove negoziata con atto pubblico (ciò che, in casi simili, avviene nella quasi totalità dei casi).
La precisazione che si rende peraltro indispensabile, è quella per cui, laddove al beneficiario sia imposto di accettare l’eredità solo previa autorizzazione del Giudice tutelare (art. 374, comma 1, nr. 3, c.c.) – o in ogni caso gli sia precluso di negoziare validamente atti concernenti la straordinaria amministrazione patrimoniale – dovrà essere sottoposta alla relativa autorizzazione proprio l’atto il cui compimento importerà accettazione ereditaria.
In mancanza, l’accettazione tacita dell’eredità potrà sì dirsi compiuta, ma certo non validamente, giusta il disposto di cui all’art. 412 c.c..
È appena il caso di notare, poi, che il compimento dell’atto che comporti accettazione tacita, nella gran parte dei casi, sarà anch’esso soggetto al medesimo regime autorizzativo (si pensi alla riscossione di capitali, o alla vendita di beni), ciò che determinerà dunque una duplice valenza in capo al decreto del Giudice tutelare, da intendersi quale condicio juris tanto del valido compimento dell’atto espresso, quanto della valida accettazione tacita dell’asse ereditario.
Questo implica dunque necessariamente che, in sede di istanza al Giudice tutelare, l’interessato illustri compiutamente non solo i contenuti dell’atto da autorizzarsi, ma altresì che il compimento dello stesso determinerà gli effetti di cui all’art. 476 c.c., e che questi ultimi saranno forieri di conseguenze positive per il soggetto beneficiario, o quantomeno scevri da controindicazioni.
Infine, peraltro, pare de jure condito doversi escludere la possibilità di trascrivere, ai sensi dell’art. 2648, comma 3, c.c., il decreto del Giudice tutelare che autorizzi il compimento dell’atto determinante l’accettazione tacita: come noto, infatti, le norme sulla trascrizione costituiscono presidio di ordine pubblico e sono insuscettibili di applicazione analogica o estensiva; non figurando il decreto del Giudice tutelare tra i provvedimenti menzionati dalla norma, deve concludersi per la soluzione negativa.
Venendo al caso di specie, l’istanza merita accoglimento, essendo state rispettate le coordinate appena tracciate.
Le istanti hanno chiesto autorizzarsi la riscossione di somme di denaro e valori mobiliari ricomprese nel patrimonio morendo dismesso dalla de cuius.
Hanno soggiunto espressamente che ciò comporterebbe accettazione tacita del compendio relitto, e, allegando la dichiarazione di successione, hanno altresì dimostrato l’assenza di passività del medesimo (essendo oltretutto l’immobile privo di iscrizioni, trascrizioni, pesi o oneri pregiudizievoli).
Dal punto di vista formale, infine, deve effettivamente discutersi, nel caso in esame, di accettazione tacita, considerato che l’istanza in atti è del tutto prodromica (e intimamente connessa) all’atto che determinerà l’acquisto jure hereditatis, e che la sottoscrizione apposta all’istanza da parte della beneficiaria costituisce esplicazione del deferimento di poteri concorrenti (405 comma 5, nr. 4 c.c.), e non già attività idonea a conferire all’istanza natura di scrittura privata rilevante per l’accettazione espressa, difettando in ogni caso, il relativo documento, tanto della dichiarazione di accettazione, quanto dell’assunzione della qualità di erede (e cioè dei negozi unilaterali non recettizi alternativamente previsti dall’art. 475 c.c.).
In definitiva, l’intera operazione appare legittima – sostanzialmente e formalmente – oltre che connotata da utilità evidente per la beneficiaria.
Essa deve dunque essere autorizzata.
Quanto al reimpiego delle somme, visto l’art. 372, comma 1, nr. 4) c.c., se ne dispone l’accredito sul conto corrente vincolato alla procedura di amministrazione di sostegno.
Lo stato di bisogno economico in cui versa la beneficiaria (chiaramente descritto nella relazione dell’amministratrice di sostegno), rende opportuno munire il presente decreto della clausola di immediata efficacia ex art. 741, comma 2, c.p.c.
PQM
Il Giudice tutelare, dott. Carlo Bianconi;
visto l’art. 411 c.c. e le norme di cui alla parte motiva;
letto il decreto di nomina;
in accoglimento del ricorso, autorizza le istanti alla riscossione dei valori mobiliari caduti nel compendio ereditario di cui alla successione in morte di XXXXXX, e conservati presso la Filiale principale XXXXXX di Vercelli, disponendone il reimpiego attraverso l’accredito sul conto corrente o sui rapporti vincolati alla procedura di amministrazione di sostegno; autorizza per l’effetto l’accettazione tacita del compendio morendo dismesso dalla de cuius.
Decreto immediatamente esecutivo ex art. 741, comma 2, c.p.c..

Sentenza dichiarativa della paternità

Di Gianfranco Dosi
I
La natura dichiarativa della sentenza di accertamento della paternità
Secondo quanto dispone il primo comma dell’art. 277 c.c. (Effetti della sentenza) “La sentenza che dichiara la filiazione produce gli effetti del riconoscimento”, il che significa che la sentenza del tribunale produce gli stessi effetti del riconoscimento spontaneo.
Proprio per questo motivo la giurisprudenza riconosce la natura dichiarativa della sentenza (che è, quindi, sentenza di accertamento) e quindi la decorrenza retroattiva degli effetti al momento della nascita (ex tunc). Si tratta degli stessi effetti retroattivi riconosciuti alla sentenza che dichiara per esempio la nullità. Viceversa se fosse attribuita alla sentenza natura costitutiva gli effetti decorrerebbero dalla data della sentenza (ex nunc).
Il principio è stato sempre pacificamente riconosciuto (Cass. civ. Sez. VI , 14 luglio 2016, n. 14417;Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652; Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2010, n. 22506; Cass. civ. Sez. I, 6 novembre 2009, n. 23630; Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 2007, n. 24409; Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328; Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2003, n. 7386; Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2007, n. 26575; Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2005, n. 15100; Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2003, n. 2196; Cass. civ. Sez. I, 14 agosto 1998, n. 8042; Cass. civ. Sez. I, 26 giugno 1987, n. 5619). Tutte le decisioni in questione affermano in sostanza che l’obbligo del genitore di concorrere al mantenimento del figlio sorge con la nascita dello stesso, anche nell’ipotesi in cui la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza. La sentenza dichiarativa della filiazione produce perciò gli effetti del riconoscimento e, pertanto, implica per il genitore tutti i doveri tipici della procreazione, incluso quello del mantenimento, ricollegandosi tale obbligazione allo status genitoriale ed assumendo, di conseguenza, efficacia retroattiva. Anche la giurisprudenza di merito non si è mai discostata da questi principi (Trib. Treviso Sez. I, 10 marzo 2017; Trib. Cassino, 15 giugno 2016; Trib. Napoli Sez. I, 18 settembre 2012; App. Bologna Sez. minori, 5 dicembre 2011; Trib. Trani, 27 settembre 2007; Trib. L’Aquila, 6 giugno 2007).
Solo Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006 n. 23596 ha qualificato in passato la sentenza dichiarativa della paternità come costitutiva, ma non ne ha fatto derivare conseguenze sostanziali diverse. Può essere quindi accettata la terminologia tradizionale che parla di sentenza dichiarativa con effetti costitutivi.

II
Gli effetti costitutivi della sentenza relativamente all’accertamento della paternità
La sentenza che dichiara la paternità, pur avendo natura dichiarativa, produce effetti solo dal giudicato. Si parla a tale proposito di effetti costitutivi, nel senso che prima del giudicato non possono realizzarsi gli effetti collegati alla pronuncia sullo status.
La sentenza di accertamento della filiazione potrà quindi essere trascritta nei registri di stato civile solo dopo il suo passaggio in giudicato.
Il terzo comma dell’art. 48 del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Ordinamento di stato civile) prescrive, infatti, che “La dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, dopo il passaggio in giudicato, è comunicata, a cura del procuratore della Repubblica, o è notificata dagli interessati, all’ufficiale dello stato civile che ne fa annotazione nell’atto di nascita).
III
I provvedimenti conseguenziali connessi all’affidamento e al mantenimento
Alla dichiarazione della paternità conseguono evidentemente effetti in senso ampio connessi al rapporto genitori-figli nel campo personale, alimentare, economico, patrimoniale, successorio. Effetti che possono realizzarsi su richiesta dell’altro genitore (che abbia agito ex art. 273 c.c. in sostituzione e nell’interesse del figlio minore1) o dello stesso figlio maggiorenne (che abbia egli stesso agito in giudizio per la dichiarazione di paternità), in en¬trambi i casi anche nell’ipotesi in cui – essendo defunto il presunto padre – siano stati convenuti in giudizio gli eredi di lui (art.276 c.c.).
Il secondo comma dell’art. 277 c.c. prescrive che “Il giudice può anche dare i provvedimenti che stima utili per l’affidamento, il mantenimento, l’istruzione e l’educazione del figlio e per la tutela degli interessi patrimoniali di lui”. Questa norma consente quindi che domande di natura economica possano essere proposte e prese in con¬siderazione insieme alle domande sullo status.
1 L’azione di paternità promossa in base all’art. 273 c.c. dall’altro genitore (o dal tutore) costituisce un caso in cui il genitore (o il tutore) agisce non nella qualità di esercente la responsbailità genitoriale ma in sostituzione del figlio minore, in applicazione della regola di cui all’art. 81 c.p.c. secondo cui “Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge [uno dei quali è, appunto, l’art. 273 c.c.] nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui”.
Per quanto concerne i possibili provvedimenti sull’affidamento (evidentemente del figlio minore di età), si tratta di una novità introdotta dall’art. 34, comma 1, lett. b, del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154.
Per quanto concerne, invece, l’eventuale mantenimento, si tratta di due tipi di provvedimenti:
a) i provvedimenti relativi al mantenimento futuro del figlio (in genere, ma non necessariamente, minore) da parte del genitore dichiarato tale dalla sentenza;
b) i provvedimenti relativi alla richiesta dell’altro genitore di rimborso pro quota delle spese di mantenimento sostenute per il figlio in passato2.
Il diritto al rimborso (in sede di accertamento della paternità) delle spese sostenute dalla nascita dall’altro geni¬tore dipende strettamente dalla circostanza – alla quale si riferiscono tutte le sentenze sopra richiamate – che gli effetti del riconoscimento, come si è detto, retroagiscono alla nascita. Secondo alcune decisioni si tratterebbe di un diritto di natura indennitaria da determinare anche in via equitativa (Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2014, n. 16657; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2004, n. 11351).
Le differenti caratteristiche procedurali tra i due tipi di provvedimenti sono riconducibili alla circostanza che mentre per l’affidamento e il mantenimento futuro il giudice ha un potere di ufficio, potendolo esercitare indi¬pendentemente dalla domanda dell’altro genitore (Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2004, n. 13296), per i prov¬vedimenti di rimborso pro quota delle spese sostenute in passato, è necessaria la domanda di parte (da ultimo Cass. civ. Sez. I, 21 maggio 2014, n. 11211).
Benché non indicato espressamente nell’art. 277 c.c. è considerata ammissibile anche la domanda di risarcimento dei danni in relazione a quell’orientamento che ammette tale risarcimento in caso di mancato riconoscimento alla nascita (Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205 o da Cass. civ. Sez. VI, 16 febbraio 2015, n. 3079)3.
IV
La prescrizione dei diritti relativi al mantenimento e al rimborso delle spese
pregresse sostenute da un genitore
Il diritto al mantenimento del figlio minore è un diritto indisponibile e quindi imprescrittibile (art. 2943, co. 2, c.c.) per tutto il corso della minore età. In caso pertanto di riconoscimento o di sentenza dichiarativa della filia¬zione nel corso della minore età, la prescrizione (decennale, ex art. 2946 c.c.) comincia a decorrere dal compi¬mento della maggiore età.
Il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne, in caso di riconoscimento o di sentenza dichiarativa della filia¬zione di figlio maggiore di età, si prescrive nel termine ordinario di dieci anni (art. 2946 c.c.) oppure di cinque anni se connesso ad una decisione che ne ha già riconosciuto la spettanza periodica (art. 2948, n. 4, c.c.).
Il diritto al rimborso delle spese pregresse sostenute dall’altro genitore ha invece natura di diritto disponibile e pertanto sui prescrive nel termine ordinario di prescrizione di dieci anni (art. 2946 c.c.).
In caso di accertamento giudiziario della filiazione i termini di prescrizione dei diritti relativi al mantenimento, decorrono dalla data della dichiarazione giudiziale, e perciò dal passaggio in giudicato della sentenza sullo status, trovandosi il figlio, precedentemente, nell’impossibilità giuridica di far valere i diritti dipendenti dallo status non ancora accertato; e questo in applicazione della regola generale contenuta nell’art. 2934 c.c. secondo cui “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”. Lo hanno affermato Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986; Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596; Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328, Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124, precisando che in materia di mantenimento del figlio (naturale), il diritto al rimborso pro quota delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che se ne è occupato in via esclusiva, sarebbe azio¬nabile dal momento della sentenza di accertamento della paternità, che conseguentemente costituisce il dies a quo della decorrenza della ordinaria prescrizione decennale.
Questa conclusione viene espressamente riferita nelle sentenze sopra indicate alle (sole) domande di rimborso delle spese pregresse, ancorché anche i provvedimenti sull’affidamento e sul mantenimento futuro nel loro com¬plesso possano considerarsi richiamate nel secondo comma dell’art. 277 c.c.
Dovendo necessariamente individuarsi un termine di decorrenza della prescrizione, questo orientamento può dirsi giustificato, non essendoci altrimenti alcun termine iniziale certo di decorrenza del termine prescrizionale. Tuttavia questo non comporta – secondo quanto si dirà in materia di provvisoria esecuzione dei capi di condanna delle sentenze costitutive e dichiarative – che gli interessati non possano utilmente azionare e porre in esecuzio¬ne anche prima del giudicato sullo status, le pretese conseguenziali di natura economica.

2 La domanda relativa al rimborso delle spese di mantenimento sostenute è una domanda personale del genitore che la propone; non è una domanda collegata alla qualità di genitore esercente la responsabilità genitoriale.
3 cfr la voce RISARCIMENTO DEI DANNI PER OMESSO RICONOSCIMENTO DEL FIGLIO
V
Il rapporto tra il giudizio sull’accertamento della paternità e quello sulle domande conseguenziali
a) La possibile contestualità tra domanda di accertamento e domande conseguenziali: pluralità di domande e pluralità di capi della sentenza
Le domande conseguenziali relative all’affidamento e al mantenimento sono in genere proposte (dall’interessato o dal genitore che agisce il sostituzione del figlio minore) nella stessa causa di accertamento della paternità, sebbene, naturalmente, possano senz’altro essere proposte anche separatamente.
A tale proposito si deve osservare che, così come una stessa causa può avere a fondamento più domande con¬cernenti diversi aspetti (ciascuna con un petitum diverso ancorché rivolti al perseguimento di un unitario risul¬tato complessivo), anche la sentenza può conseguentemente occuparsi di più aspetti. L’art. 104 c.p.c. dispone che “Contro la stessa parte possono proporsi nel medesimo processo più domande, anche non altrimenti con¬nesse…” e l’art. 346 aggiunge, nell’ambito delle impugnazioni, che “Le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate”. L’art. 329 c.p.c. (acquiescenza totale o parziale) mette bene in evidenza il concetto chiarendo che “L’impugnazione parziale [cioè di una parte della sentenza] importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnata” e ugualmente fa l’art. 336 c.p.c. dove si precisa che “la riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sen¬tenza dipendenti dalla parte riformata o cassata”.
Quindi una stessa causa può pacificamente contenere più domande e una sentenza può contenere più parti.
Nello specifico l’azione per l’accertamento della paternità naturale può comprendere insieme la domanda sullo status e le domande conseguenziali di natura economica. Ed ugualmente la sentenza dichiarativa della paternità può contenere insieme alla pronuncia sullo status anche le statuizioni economiche a cui si riferisce il secondo comma dell’art.277 c.c. (“Il giudice può anche dare i provvedimenti che stima utili per l’affidamento, il manteni¬mento, l’istruzione e l’educazione del figlio e per la tutela degli interessi patrimoniali di lui”). Le conseguenze successorie sono ovviamente previste nella parte del codice che concerne le successioni.
Anche le domande di rimborso delle spese pregresse sostenute da un genitore in via esclusiva o le domande di risarcimento del danno possono essere proposte insieme alla domanda principale sull’accertamento della pater¬nità, ma – con riguardo agli effetti necessariamente costitutivi delle sentenze attributive di uno status – possono trovare accoglimento, come si dirà, solo se lo status è passato in giudicato. La contestualità può anche sussistere tra domanda di accertamento della paternità promossa nei confronti degli eredi di un defunto e domande di natu¬ra ereditaria collegate all’accertamento dello status, ma anche in questo caso per l’accoglimento delle domande ereditarie sarà necessario il previo passaggio in giudicato sull’accertamento della paternità.
In queste ultime ipotesi di domande conseguenziali il cui accoglimento dipende dal giudicato sull’accertamento della paternità, se la domanda è proposta nello stesso giudizio sull’accertamento della paternità l’accoglimento delle domande non potrà che avvenire dopo il giudicato formatosi sulla inevitabile sentenza non definitiva sull’ac¬certamento della paternità.
Sia nel caso di contestualità tra domande sullo status e domande conseguenziali, sia nel caso in cui le domande conseguenziali fossero separatamente azionate prima del formarsi del giudicato sull’accertamento della paterni¬tà, si pone il problema del rapporto tra il giudizio sull’accertamento della paternità e le domande conseguenziali.
In particolare si pone il problema della eventuale sospensione del procedimento sulle domande economiche in attesa della definitività della domanda sullo status proposta in sede di accertamento giudiziale della paternità.
b) La natura eccezionale della sospensione del processo civile
Come più diffusamente esaminato in altra parte 4 il codice di procedura civile prevede la possibile sospensione del processo civile (di cognizione) nel caso in cui la decisione da prendere in una causa dipende dalla soluzione di una controversia di cui si discute in un’altra causa (sospensione necessaria: art. 295) ovvero nel caso in cui in una causa – di cui, appunto si chiede la sospensione – si invoca l’autorità di una sentenza pronunciata in altra causa e impugnata, e quindi non ancora passata in giudicato (sospensione discrezionale: art. 337). Si tratta di due situazioni omogenee in quanto in entrambi i casi in sostanza si chiede di sospendere un processo, cosiddetto pregiudicato, in attesa che la situazione cosiddetta pregiudicante (cioè, nel nostro caso, il processo sull’accerta¬mento della paternità ovvero la sentenza ex art. 277 c.c. impugnata di cui si invoca l’autorità) possa considerarsi definitivamente certa.
4 cfr la voce SOSPENSIONE DEL PROCESSO CIVILE
L’art. 295 (sospensione necessaria) prescrive che “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”. L’art. 337 (sospensione dell’esecuzione e dei processi) nell’ambito delle norme sull’impugnazione, dopo aver precisato al primo comma che “l’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione…”, al secondo comma prevede che “quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo, questo può essere sospeso se la sentenza è impugnata”.
Sennonché la sospensione del processo viene oggi considerata come avente senz’altro natura eccezionale, in virtù di quanto indicato nel secondo comma dell’art. 111 della Costituzione (inserito dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2) dove il disfavore verso ogni ipotesi di sospensione è espresso dalla previsione che la legge non deve tollerare una irragionevole durata del processo. L’esigenza di una maggiore celerità del processo era stata anche perseguita dalla riforma del 1990 del processo civile (legge 26 novembre 1990, n. 353) che aveva eliminato la sospensione ex lege dell’efficacia della sentenza di primo grado, salva la richiesta di provvisoria esecuzione. Il testo vigente dell’art. 282 (riformato appunto nel 1990) dichiara la sentenza di primo grado prov¬visoriamente esecutiva salvo richiesta di sospensione al giudice di appello (art. 283). Analogamente è avvenuto più di recente per i provvedimenti camerali in materia di famiglia (art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile a seguito delle modifiche apportate dall’art 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219) che ugualmente “sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente”.
Costituisce orientamento pacifico della giurisprudenza di legittimità (a partire da Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027) che l’ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due diversi giudici del giudizio sul “se dovuto” e di quello sul “quanto dovuto” non comporta che il secondo debba rimanere sospeso in attesa della decisione del primo e che, per converso, quante volte nel primo sia pronunciata sentenza che afferma esistente il diritto, il giudice del secondo giudizio possa porre a base della propria decisione ciò che è stato già deciso, ancorché la sentenza sia stata impugnata, l’unica alternativa essendo per contro quella di sospendere il giudizio di liquidazione del dovuto (come affermato a suo tempo da Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2004 n. 14060 che aveva fatto proprie in larga misura le argomentazioni svolte in precedenza da Cass. civ. Sez. lavoro, 25 maggio 1996 n. 4844 incentrate su una lettura restrittiva dell’istituto della sospensione necessaria, appunto ripudiata dalle Sezioni Unite nel 2012).
Il principio affermato da Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 è stato poi ribadito successivamente da Cass. civ. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 6207 e da Cass. civ. Sez. VI, 20 gennaio 2015, n. 798.
Determinante, ai fini di tale conclusione, è la considerazione che l’art. 295 c.p.c. potrebbe “determinare l’arresto del processo dipendente per un tempo indeterminato e certamente non breve, poiché la paralisi del processo sa¬rebbe destinata a protrarsi fino al passaggio in giudicato della decisione sulla causa pregiudiziale (art. 297 c.p.c., comma 1), onde evitare il rischio di conflitto tra giudicati. In tal modo, in funzione della realizzazione del valore processuale dell’armonia dei giudicati, viene sacrificato il valore processuale della sollecita definizione dei giudizi”.
Le Sezioni unite in Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2004 n. 14060 avevano messo in rilievo che una serie di interventi normativi – tra gli altri il ridimensionamento in senso restrittivo della pregiudizialità penale (espunto dallo stesso precedente testo dell’art. 295) e la modifica dell’art. 42 c.p.c. (con l’estensione del regolamento necessario di competenza all’intera area dei provvedimenti applicativi della sospensione del processo) – stava a dimostrare l’emersione di una linea di tendenza sfavorevole alla sospensione. Aggiunsero poi che la sopravvenu¬ta modifica dell’art. 111 Cost. attuata con la legge costituzionale 29 novembre 1999, n. 2 (nella parte prescrittiva di una ragionevole durata del processo) doveva essere considerata determinante nel senso di imporre una lettura restrittiva dell’art. 295.
Naturalmente tutto ciò non significa che l’art. 295 c.p.c. sia da considerare abrogato, perché sopravvive in tutti i casi in cui la sospensione appare da un punto della pregiudizialità in termini tecnico giuridici plausibile (Cass. civ. Sez. lavoro, 24 giugno 2014, n. 14274 secondo cui l’art. 295 c.p.c. fa esclusivo riferimento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giudice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico – giuridico e non già in senso meramente logico).
Tale tipo di legame è stato ritenuto sussistente da Cass. civ. Sez. VI, 9 dicembre 2014, n. 25861 in caso di pendenza di una lite sulla validità dell’accordo giustificativo della separazione consensuale tra coniugi che pre¬giudica, in senso tecnico giuridico, l’esito del giudizio, contemporaneamente pendente, di cessazione degli effetti civili del loro matrimonio, e ne comporta la sospensione ex art. 295 cod. proc. civ. perché l’eventuale annul¬lamento di quell’accordo determinerebbe il venir meno, con effetto “ex tunc”, di un presupposto indispensabile della pronuncia di divorzio.
c) L’inapplicabilità dell’istituto della sospensione necessaria delle domande conseguenziali (econo-miche o ereditarie) in caso di dichiarazione giudiziale della paternità
Tutto ciò premesso, tra le numerose questioni che si sono finora presentate in ambito civilistico in tema di rapporti tra più cause tra loro collegate da un rapporto di pregiudizialità (e che pongono quindi un problema di sospensione della causa pregiudicata), quello del tema dei rapporti tra domanda (e processo) di accertamento della paternità e domande (e processo) di natura patrimoniale o ereditaria connesse allo status, è uno dei più affrontati in giurisprudenza.
Soprattutto perché l’art. 277 del codice civile, occupandosi degli effetti della sentenza che dichiara la filiazione, prescrive al secondo comma – come si è visto – che con la sentenza “il giudice può anche dare i provvedimenti che stima utili per l’affidamento, il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figlio e per la tutela degli inte¬ressi patrimoniali di lui” tra cui anche i provvedimenti economici chiesti in regresso dal genitore che abbia fino a quel momento mantenuto da solo il figlio.
Questa norma attribuisce perciò plausibilità giuridica al fatto che domande di natura economica possono essere proposte e prese in considerazione insieme alle domande sullo status.
Ebbene, le domande di natura economica o ereditaria possono essere esaminate prima che si sia formato il giu¬dicato sullo status? O il relativo giudizio deve essere sospeso?
A queste domande ha dato risposta molto chiara, escludendo la sospensione necessaria di cui all’art, 295 e ridi¬mensionando quella ex art. 337, Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 occupandosi proprio del rap¬porto tra due cause pendenti in appello una sullo status di filiazione e l’altra sulle conseguenti domande ereditarie.
La sentenza fa proprio l’orientamento già espresso in passato perentoriamente – ma in ambiti diversi da quello del rapporto tra accertamento sulla filiazione e causa di natura ereditaria – da Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924 (rapporto tra un giudizio di responsabilità professionale intentato contro un notaio e una cau¬sa tributaria azionata dal notaio stesso) e di Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435 (domanda di diniego di rinnovazione di un contratto di locazione e processo in appello relativo al riscatto della proprietà sull’immobile) le quali entrambe avevano precisato che “Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, comma secondo, cod. proc. civ. e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ.. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimento è di per sé illegittimo, a prescindere da qualsiasi accertamento di merito circa la sussi¬stenza del rapporto di pregiudizialità).
Ad invocare l’intervento delle Sezioni Unite era stata la sesta sezione della Corte di cassazione di fronte alla quale si discuteva di un ricorso contro un provvedimento di sospensione del processo, concesso dalla corte d’appello di Torino in una causa di petizione ereditaria in relazione alla pendenza sempre in appello di una causa di rico¬noscimento di paternità.
Si tratta quindi di stabilire – afferma Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 – allorché pendono in grado di appello sia il giudizio in cui è stata pronunciata sentenza di accertamento della paternità, sia il giudizio che su tale base ha accolto la domanda di petizione di eredità, ed impugnate dai convenuti entrambe le sentenze – se il secondo giudizio debba essere sospeso in attesa che nel primo si formi il giudicato sulla dichiarazione di paternità o invece possa proseguire ovvero non debba essere sospeso necessariamente, ma solo possa esserlo se il giudice del secondo giudizio non intenda riconoscere l’autorità dell’altra decisione”.
La sentenza in questione si occupa quindi, dell’interpretazione sia dell’art. 295 c.p.c. che dell’art. 337 c.p.c. e proprio per tale ragione costituisce, relativamente a queste due norme, un approfondimento di decisiva e stra¬ordinaria importanza.
Affermato il principio generale che spetta solo al giudice il compito di valutare se l’efficacia della sentenza pro¬nunciata sulla lite pregiudicante debba essere sospesa (art. 283 cod. proc. civ.) o se la sua autorità debba essere provvisoriamente rifiutata (art. 337 c.p.c., comma 2) la sentenza delle Sezioni Unite lo applica al rapporto tra domanda di accertamento della filiazione naturale ed azione di petizione di eredità, affermando che salvi sol¬tanto i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica ed in modo che debba attendersi che sulla causa pregiudicante sia pronunciata sentenza passata in giudicato (come, esemplificando, nel caso previsto dall’art. 75 c.p.c., comma 3), “pare alla Corte che nell’interpretazione sistematica della disciplina del processo sia da riconoscere un ruolo decisivo alla disposizione che, a seguito della legge 26 novembre 1990, n. 353, si trova ora ad essere dettata dall’art. 282 del codice di rito. Col riconoscere provvisoria esecutività tra le parti alla sentenza di primo grado il legislatore ha determinato una cesura tra la posizione delle parti in controversia tra loro nel giudizio di primo grado – che è tendenzialmente paritaria e solo provvisoriamente alterabile da misure anticipatorie o cautelari – e la situazione in cui le stesse parti vengono poste dalla decisione del giudice di primo grado, che conosciuta la controversia, dichiara lo stato del diritto tra loro. L’ordinamento, anche allo scopo di scoraggiare il protrarsi della lite, che al contrario risulterebbe favorito, se all’impugnazione si attribuisse l’effetto d’un ripristino delle posizioni di partenza, proclama il valore del modo di composizione della controversia, che è dichiarato conforme a diritto dal giudice, terzo ed imparziale (art. 111 Cost., comma 2). Il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo diver¬so da quello dello stato originano di lite e giustifica sia l’esecuzione provvisoria, quando a quel diritto si tratti di adeguare la realtà materiale, sia l’autorità della sentenza di primo grado nell’ambito della relazione tra lite sulla causa pregiudiziale e lite sulla causa pregiudicata”.
L’idoneità della decisione sulla causa pregiudicante a condizionare quella della causa che ne dipende dovrebbe giustificare che questa causa resti sospesa a prescindere dal segno che potrà avere la decisione sull’altra. Lo impone prima di tutto l’esigenza che il sistema giudiziario non sia gravato dalla duplicazione dell’attività di cogni¬zione nei due processi pendenti. Ma quando nel processo sulla causa pregiudicante la decisione è sopravvenuta, quello sulla causa pregiudicata è in grado di riprendere il suo corso, perché ormai il sistema giudiziario è in grado di pervenire al giudizio sulla causa pregiudicata fondandolo sull’accertamento che sulla questione comune alle due cause si è potuto raggiungere nell’altro processo tra le stesse parti, attraverso l’esercizio della giurisdizione. Non dipende più da esigenze di ordine logico che il processo sulla causa dipendente resti sospeso.
Salvo, quindi, che l’ordinamento non esprima in casi specifici una valutazione diversa, imponendo che la compo¬sizione della lite pregiudicata debba attendere il giudicato sull’elemento di connessione tra le situazioni giuridiche collegate e controverse, è da ritenere che spetta al giudice il compito di valutare se l’efficacia della sentenza pronunciata sulla lite pregiudicante debba essere sospesa (art. 283 cod. proc. civ.) o se la sua autorità debba essere provvisoriamente rifiutata (art. 337 c.p.c., comma 2) in questo caso attribuendo al giudice del giudizio sulla lite pregiudicata il potere di sospenderlo
d) È possibile la sospensione discrezionale ex art. 337 c.p.c. del giudizio sulle domande di natura economica se la sentenza sull’accertamento della paternità è impugnata?
Secondo l’impostazione delle Sezioni Unite, quindi, venuta meno la possibilità di sospensione ex art. 295 c.p.c. che determinerebbe una paralisi inammissibile della cognizione, il processo civile cosiddetto pregiudicato po¬trebbe essere astrattamente sospeso soltanto ex art, 337 c.p.c. ove la sentenza del procedimento pregiudicante venisse impugnata. Si ricorda che secondo l’art. 337 c.p.c. “l’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione…”, al secondo comma prevede che “quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo, questo può essere sospeso se la sentenza è impugnata”.
A tale proposito le già richiamate Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924 e Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435 avevano entrambe precisato che “Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudi¬zialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, comma secondo, cod. proc. civ., e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ.. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimento è di per sé illegittimo, a prescindere da qualsiasi accertamento di merito circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità”.
Trattandosi di una sospensione facoltativa (“…può essere sospeso se la sentenza è impugnata”) si deve verificare in che cosa si sostanzia questo potere facoltativo (di sospendere il processo in cui è invocata la sentenza impu¬gnata), per evitare che il potere di sospensione diventi un arbitrio.
Ed allora ci si accorge che l’astratta possibilità di sospensione ex art. 337 c.p.c. viene ad essere in concreto quasi annullata, dal momento che la giurisprudenza richiede che il giudice debba verificare “l’efficacia persuasiva della sentenza” (come molto bene ha affermato per esempio Cass. civ. Sez. III, 4 luglio 2007, n. 15111). L’interpretazione quindi che i giudici della Cassazione hanno dato a partire dalle tre sentenze sopra richiamate (Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924; Cass. civ. Sez. III, 4 luglio 2007, n. 15111; Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435) è che quando tra due giudizi esiste rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non ancora passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, comma 2, c.p.c. e non ex art. 295 c.p.c. ma è compito del giudice valutare la forza della sentenza di primo grado per verificare con adeguata motivazione se sia plausibile che il giudizio pregiudicato venga sospeso. In definitiva tanto più alta è la forza (cioè la validità, la plausibilità) della sentenza di primo grado non ancora passata in giudicato, tanto più il giudice dovrà negare la sospensione.
L’ordinamento rimette quindi al giudice – secondo queste sentenze – il compito di valutare, tenuto conto degli elementi in base ai quali la controversia è riaperta con l’impugnazione, quale sia la forza e l’efficacia della senten¬za emessa nel giudizio pregiudicante (causa di paternità naturale) attribuendo al giudice della causa pregiudicata (causa ereditaria) il potere di sospenderla.
Quando la sentenza (appellata), asseritamente pregiudicante, è una sentenza dichiarativa della paternità, essa si fonda sul dato acquisito in genere con CTU genetica (di fatto incontrovertibile). E si tratta quindi di una sentenza do¬tata di così significativa efficacia persuasiva da non consentire una motivazione plausibile circa la sua sospensione.
Tutti questi principi sono stati più recentemente ribaditi e rafforzati da Cass. civ. Sez. VI, 12 novembre 2014, n. 24046 in cui si legge che “l’ordinanza con la quale viene disposta la sospensione discrezionale del processo ai sensi dell’art. 337, cpv., c.p.c. deve indicare le ragioni per le quali il giudice non intende riconoscere l’autorità della prima sentenza, già è intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante, chiarendo perché non ne condi¬vide il merito e le ragioni giustificatrici.
Perciò, ai fini del legittimo esercizio del potere di sospensione discrezionale del processo, previsto dall’art. 337, secondo comma, c.p.c. è indispensabile un’espressa valutazione di plausibile controvertibilità della decisione di cui venga invocata l’autorità in quel processo, sulla base di un confronto tra la decisione stessa e le critica che ne è stata fatta. Ne consegue che la sospensione discrezionale in parola è ammessa ove il giudice del secondo giudizio motivi esplicitamente le ragioni per le quali non intende riconoscere l’autorità della prima sentenza, già intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante. Si legge nella sentenza che “il potere discrezionale può bene essere esercitato a condizione che si dia conto, purché in modo non meramente apparente, di tali indispensabili valutazioni”. Occorre cioè, con tutta evidenza, che di tale intenzione di non riconoscimento si dia comunque, per quanto sommariamente, espressamente conto, altrimenti risolvendosi la sospensione nell’esercizio immotivato di un potere – che da discrezionale diverrebbe arbitrario ed incontrollabile – e finendo con il sovrapporsi meccani¬cisticamente alla diversa, ma non configurabile, ipotesi della sospensione necessaria ai sensi dell’art. 295 c.p.c.” Perciò è rimessa al giudice la scelta – anche ex art. 111 Cost sulla ragionevole durata del processo – tra l’ade¬guarsi all’autorità della pronuncia pregiudicante di primo grado, decidendo in base alla stessa ove sia fondata su una particolare plausibilità della decisione, ovvero discostarsene sospendendo il giudizio pregiudicato nell’attesa della pronuncia del processo di impugnazione.
VI
La disciplina processuale delle domande conseguenziali
a) Il giudicato sull’accertamento della paternità come presupposto processuale dell’accoglimento delle domande di rimborso delle spese pregresse e del risarcimento del danno
Secondo l’orientamento consolidato espresso dalla prima sezione civile della Corte di cassazione, attesa la natura dichiarativa della pronuncia che accerta la filiazione, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese soste¬nute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che se ne è occupato in via esclusiva, non sarebbe utilmente esercitabile e se esercitato non potrebbe essere accolto, se non successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986; Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596; Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328, Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124 le quali tutte hanno fatto affermazione di questo orientamento per farne conseguire il principio che il giudicato sullo status costituisce il dies a quo della decorrenza della prescrizione).
Pertanto secondo questa impostazione non sarebbe proponibile – e se proposta, non può essere accolta – una domanda di rimborso delle spese pregresse se non dopo il giudicato sull’accertamento della paternità.
Una di queste decisioni (Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006 n. 23596) qualifica, peraltro, la sentenza di accertamento della paternità come costitutiva, traendone tuttavia le stesse conseguenze che non dipendono quindi dalla qualificazione come dichiarativa o costituiva della sentenza ma dal fatto in sé dell’essere la sentenza considerata di fatto un presupposto condizionate le domande di natura economica.
Questo orientamento tradizionale è stato ripreso espressamente anche nella giurisprudenza di merito da Trib. Sulmona, 26 novembre 2012 secondo cui le domande a contenuto economico correlate alla domanda di di¬chiarazione giudiziale di paternità naturale possono essere svolte e decise in un unico processo, fermo restando che il credito derivante dall’accoglimento delle prime potrebbe essere azionato soltanto all’esito del passaggio in giudicato del capo relativo all’accertamento dello status di figlio.
Queste conclusioni – espressamente riferite alle sole domande di rimborso per le spese pregresse sostenute da un genitore dalla nascita del figlio, possono considerarsi applicabili anche alle domande di risarcimento del danno che, perciò, in applicazione dei medesimi principi, non possono essere proposte prima del giudicato sullo status e, in ogni caso, ove proposte prima, non potrebbe essere accolte prima del formarsi del giudicato sullo status. Si ricorda che è ammessa la domanda risarcitoria dei danni in caso di mancato riconoscimento alla na¬scita (Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205; Cass. civ. Sez. VI, 16 febbraio 2015, n. 30795 dove si ribadisce il principio secondo cui il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti del figlio (naturale) integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli articoli 2 e 30 della Costituzione un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell’illecito civile e legittima l’esercizio, ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., di un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole.
b) La contestuale proposizione e il possibile contestuale accoglimento della domanda di accertamen¬to della paternità con le domande sull’affidamento e sul mantenimento
Nella prassi dei tribunali italiani si ammette pacificamente la contestuale proposizione delle domande di accer¬tamento della paternità con quelle sull’affidamento e sul mantenimento futuro (esattamente come sono consi¬derate proponibili insieme alla domanda principale sullo status le domande relative al rimborso delle spese di mantenimento pregresse sostenute da un genitore, delle domande risarcitorie e di quelle di natura ereditaria).
5 cfr la voce RISARCIMENTO DEI DANNI PER OMESSO RICONOSCIMENTO DEL FIGLIO
Questa prassi è ampiamente riconosciuta e richiamata nella più volte citata Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 che proprio sul rapporto tra le due domande (quella sullo status e quella sulle questioni econo¬miche) fonda il suo ragionamento contrario alla sospensione del processo concernente le questioni economiche.
Alla contestualità tra domanda principale sullo status e domande conseguenziali si accompagna la possibilità di una medesima sentenza definitiva del tribunale che dispone su entrambi gli aspetti, quello relativo all’accerta¬mento e quello sulle domande conseguenziali relative all’affidamento e al mantenimento del figlio.
E opportuno ripetere che questa possibile contestualità nella medesima sentenza tra accertamento dello status e provvedimenti conseguenziali non può, però, includere i provvedimenti relativi al rimborso delle spese pregres¬se, al risarcimento dei danni e alle questioni ereditarie che tutte presuppongono il passaggio in giudicato della sentenza sullo status. In questi ultimi tre casi, ove le domande fossero state proposte nello stesso giudizio, vi saranno due sentenze: una non definitiva sullo status e una definitiva sulle questioni economiche.
VII
Il problema della provvisoria esecuzione (art. 282 c.p.c.) dei capi della sentenza
concernenti le domande relative al mantenimento
a) L’orientamento degli anni Novanta che nega la possibilità della provvisoria esecuzione in caso di condanne accessorie a sentenze dichiarative e costitutive
Acquisito che le sentenze dichiarative sullo status e perciò anche quelle di accertamento della paternità hanno effetti costitutivi, nel senso che non possono essere considerate esecutive se non dopo il loro passaggio in giu¬dicato (non si può certo trascrivere una sentenza di riconoscimento della paternità nei registri di stato civile se questa non è passata in giudicato), occorre ora chiedersi se i capi della sentenza concernenti l’affidamento e il mantenimento futuro possano essere considerati provvisoriamente esecutivi.
L’art. 282 c.p.c. prescrive che “La sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti”.
La precedente formulazione prevedeva, per converso, quale facoltà per il giudice, la concessione, su espressa richiesta della parte, della “clausola” di provvisoria esecuzione qualora la domanda fosse fondata su atto pub¬blico o scrittura privata o se, con riferimento alla parte vittoriosa, il ritardo nell’esecuzione avesse creato una situazione di “pericolo”. Peraltro, la concessione della clausola, salvo casi eccezionali, era sempre prevista nel caso di sentenza di condanna al pagamento di provvisionali o di prestazioni alimentari e l’esecutività ex lege delle decisioni di primo grado era già stata introdotta, tra l’altro, nell’ambito del rito del lavoro, per le condanne al pagamento di crediti in favore del lavoratore, secondo il sistema di cui all’art. 431 c.p.c., ed estesa ai “riti speciali” collegati, relativi alle controversie in materia di locazione e a quelle di competenza delle sezioni specia¬lizzate agrarie. Tutti elementi da cui è possibile desumere, peraltro, anche argomenti a favore della provvisoria esecuzione nei casi di cui stiamo discutendo di condanne accessorie a sentenze costitutive o dichiarative.
Può l’art. 282 c.p.c. essere interpretato nel senso, quindi, di ritenere che le pronunce di condanna accessorie ad un accertamento ovvero alla costituzione, modificazione o estinzione di un rapporto giuridico siano qualificabili come provvisoriamente esecutive?
Intanto vi è da dire che il riferimento alle sentenze di condanna ha fatto sorgere il dubbio se la provvisoria ese¬cuzione secondo il disposto dell’art. 282 nel testo vigente, che non contiene alcuna precisazione (parlando solo di “sentenza di primo grado”), vada ascritta a tutte le sentenze o solo a quelle di primo grado che pronuncino una condanna. Si ritiene in dottrina che il riferimento della norma tout court alla sentenza di primo grado sia il frutto di una scelta di rifiutare un più circoscritto e qualificato richiamo, tanto più che, in sede di lavori prepara¬tori, l’emendamento volto a puntualizzare il riferimento alle sole sentenze di condanna venne criticato e respinto, soprattutto con la considerazione che si sarebbe svuotata di molto l’utilità che era lecito ripromettersi dalla nuova soluzione a favore della generalizzata esecutività, applicabile anche a certe sentenze dichiarative o costitutive, specie in tema di diritto di famiglia. Nonostante tali indicazioni dei lavori preparatori (preziosa per l’interpretazio¬ne comunque favorevole alla provvisoria esecuzione nell’ambito delle cause sugli status familiae), la soluzione di segno restrittivo è prevalsa nella giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. Sez. II, 12 luglio 2000, n. 9236 e Cass. civ. Sez. I, 6 febbraio 1999, n. 1037 nelle quali si afferma che la disciplina dell’esecuzione provvisoria di cui all’art. 282 c.p.c. trova legittima attuazione soltanto con riferimento alle sentenze di condanna, le uniche idonee, per loro natura, a costituire titolo esecutivo.
Pertanto la giurisprudenza si è assestata per lungo tempo sulla considerazione che il concetto di esecutorietà non può essere riferito alle sentenze dichiarative (di accertamento) e costitutive e che le sentenze aventi tale natura, ai sensi dell’interpretazione restrittiva dell’art. 282 c.p.c., acquistano efficacia (intesa, in senso lato, come produzione degli effetti ad esse propri) solo con il passaggio in giudicato (Cass. civ. Sez. II, 24 marzo 1998, n. 3090).
La giurisprudenza di legittimità e di merito ha conseguentemente sostenuto, negli anni Novanta, la tesi secondo cui tutte le pronunce di condanna ancorché accessorie e consequenziali, compresa quella relativa alla regolamentazione delle spese processuali (Cass. civ. Sez. III, 24 maggio 1993, n. 5837 sono inidonee a costituire titolo esecutivo fino a quando non diventi efficace la pronuncia principale di accertamento o costitutiva. Non si potrebbe pertanto procedere all’esecuzione forzata sul capo di condanna consequenziale in difetto dell’efficacia del capo che ne costituisce il presupposto. Non potrebbe, pertanto, essere data rilevanza autonoma a tali statu¬izioni accessorie, il cui regime deve adeguarsi a quello della statuizione principale.
b) Il cambio di rotta di una parte della giurisprudenza degli anni Duemila: tutte le sentenze sono provvisoriamente esecutive, anche quelle dichiarative e costitutive
A partire dal 2005 una parte della giurisprudenza di legittimità ha cambiato orientamento, arrivando a sostenere la provvisoria esecuzione di tutte le sentenze di primo grado, ivi comprese quelle dichiarative e quelle costitutive.
Dapprima Cass. civ. Sez. III, 26 gennaio 2005, n. 1619 ha ritemuto che non solo le sentenze di condanna ma anche quelle costitutive possono essere provvisoriamente esecutive indipendentemente da una esplicita statuizio¬ne in tal senso del giudice se contengono una condanna implicita, desumibile anche dalla sola motivazione o dalla funzione stessa che il titolo è destinato a svolgere e successivamente, soprattutto Cass. civ. Sez. III, 3 set¬tembre 2007, n. 18512 ha affermato che anche i capi delle sentenze di natura dichiarativa e costitutiva hanno efficacia in senso lato immediata e che non ha senso la distinzione tra pronunce di condanna pure e consequenziali poiché tutte le condanne presuppongono un accertamento, quand’anche implicito. Con la conseguenza che tutte le declaratorie di condanna (ivi comprese quelle inerenti alle spese di lite) sono provvisoriamente esecutive. Con quest’ultima sentenza si stabilisce che, nel caso di pronuncia di sentenza costitutiva ai sensi dell’art. 2932 c.c., le statuizioni di condanna consequenziali, dispositive dell’adempimento delle prestazioni a carico delle parti tra le quali la sentenza determina la conclusione del contratto, sono da ritenere immediatamente esecutive, ai sensi dell’art. 282 c.p.c., di modo che, qualora l’azione ex art. 2932 c.c. sia stata proposta dal promittente venditore, la statuizione di condanna del promissario acquirente al pagamento del prezzo è da considerare provvisoriamente esecutiva. Perciò, la pronuncia sancisce l’estensione degli effetti dell’art. 282 c.p.c. a tutte le statuizioni di condan¬na di primo grado, siano esse principali o accessorie e strumentali a pronunce dichiarative o costitutive.
Questo orientamento elimina ogni differenza tra condanne principali e condanne accessorie ad una declaratoria dichiarativa o costitutiva e afferma in ogni caso che non esisterebbe nel nostro ordinamento alcun principio in forza del quale al riconoscimento della tutela costitutiva, nella sua funzione tipica, non possano conseguire effetti prima del passaggio in giudicato della sentenza che ne acclari i presupposti. Dunque, il principio è quello secondo cui le sentenze dichiarative e costitutive sono provvisoriamente efficaci prima del passaggio in giudicato, salvo che la legge disponga altrimenti.
Il nuovo corso aperto da questa parte della giurisprudenza di legittimità suggerisce allora di interpretare l’art. 282 c.p.c. nel senso che tutte le sentenze di primo grado sono provvisoriamente efficaci (sempre che non vi sia una previsione speciale che stabilisca per singoli casi il contrario).
Pertanto in base a questo orientamento non solo è pacifico che siano provvisoriamente esecutive le sentenze di condanna accessorie ad una decisione dichiarativa o costituiva ma sarebbero immediatamente esecutive anche tutte le sentenze dichiarative o costitutive.
c) L’intervento delle Sezioni Unite (n. 4059/2010) e il ritorno alla tesi della esecutività condizionata al giudicato in caso di sentenze costitutive ma limitatamente alle controprestazioni corrispettive
I principi affermati nella sentenza 18512/2007 non trovarono successiva conferma nella giurisprudenza di le¬gittimità successiva, la quale è rimasta nel complesso ferma nel propendere per la soluzione negativa in ordine soprattutto all’ammissibilità della provvisoria esecutività delle sentenze costitutive ex art. 2932 c.c..
In particolare, con la pronuncia Cass. civ. Sez. II, 6 aprile 2009, n. 8250 – nettamente contrapposta alla n. 18512/2007 – la Corte confermava che la sentenza che dispone l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, ex art. 2932 c.c., produce i propri effetti solo dal momento del passaggio in giudicato; ne consegue che, quando detta sentenza abbia subordinato l’effetto traslativo al pagamento del residuo prezzo, l’obbligo di pagamento in capo al promissario acquirente non diventa attuale prima dell’irretrattabilità della pronuncia giudiziale, essendo tale pagamento la prestazione corrispettiva destinata ad attuare il sinallagma contrattuale.
Riferita alle sole sentenze costitutive questa interpretazione in chiave contrattualistica e dubbio che possa esten¬dersi al di fuori del terreno del contratto e in particolare nel terreno degli status.
In ogni caso sul terreno sempre delle sentenze costitutive (specificamente nel campo delle sentenze relative all’esecuzione dell’obbligo di trasferire la proprietà) venne sollecitato un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite per comporre il contrasto determinatosi in giurisprudenza.
Le Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. Unite, 22 febbraio 2010, n. 4059) ritennero di disattendere l’orientamento radicale di cui alla sentenza 18512/2007 e di dare, invece, continuità all’orientamento seguito dalla sentenza 8250/2009 dichiarando di condividere gli argomenti sviluppati dalla dottrina maggioritaria a sostegno della tesi secondo cui, nel caso di preliminare di compravendita e di pronuncia ex art. 2932 c.c. l’effetto traslativo della proprietà del bene si produce solo con l’irretroattività della sentenza che determina l’effetto sostitutivo del con¬tratto definitivo. La sentenza di primo grado di accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c. non può pertanto produrre, prima del passaggio in giudicato, gli effetti del contratto definitivo con la conseguente impossibilità di scissione, nelle sentenze ex art. 2932 c.c. in tema di contratto preliminare di compravendita, tra capi costitutivi principali e capi di condanna consequenziali, con riferimento specifico a quelli cosiddetti sinallagmatici le cui relative statuizioni fanno parte integrante della pronuncia costitutiva nel suo complesso.
Affermano in sostanza le Sezioni Unite che l’esecutività provvisoria ai sensi dell’art. 282 c.p.c. della sentenza di accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica ai sensi dell’art. 2932 c.c. dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita è limitata ai capi della decisione compatibili con la produzione dell’effetto trasla¬tivo del bene in un momento successivo e non si estende ai capi condannatori che si collocano in un rapporto di stretta interdipendenza con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale.
Si legge nella sentenza: va precisato che la possibilità di anticipare l’esecuzione delle statuizioni condannatorie contenute nella sentenza costitutiva va riconosciuta in concreto, volta a volta, a seconda del tipo di rapporto tra l’effetto condannatorio da anticipare e l’effetto costitutivo producibile solo con il giudicato. A tal fine occorre differenziare le statuizioni condannatorie meramente dipendenti dal detto effetto costitutivo, dalle statuizioni che invece sono a tale effetto legate da un vero e proprio nesso sinallagmatico ponendosi come parte – talvolta “corrispettiva” – del nuovo rapporto oggetto della domanda costitutiva.
Così, ad esempio, nel caso di condanna del promissario acquirente al pagamento del prezzo della vendita, non è possibile riconoscere effetti esecutivi a tale condanna altrimenti si verrebbe a spezzare il nesso tra il trasfe¬rimento della proprietà derivante in virtù della pronuncia costitutiva ed il pagamento del prezzo della vendita.
L’effetto traslativo della proprietà del bene si produce solo con l’irretrattabilità della sentenza per cui è da esclu¬dere che prima del passaggio in giudicato della sentenza sia configurabile un’efficacia anticipata dell’obbligo di pagare il prezzo: si verificherebbe un’alterazione del sinallagma. Ritenere diversamente consentirebbe alla parte promittente venditrice – ancora titolare del diritto di proprietà del bene oggetto del preliminare – di incassare il prezzo prima ancora del verificarsi dell’effetto, verificabile solo con il giudicato, del trasferimento di proprietà.
Possono quindi ritenersi anticipabili i soli effetti esecutivi dei capi che sono compatibili con la produzione dell’effet¬to costitutivo in un momento temporale successivo, ossia all’atto del passaggio in giudicato del capo di sentenza propriamente costitutivo. Così la condanna al pagamento delle spese processuali contenuta nella sentenza che accoglie la domanda. La provvisoria esecutività non può invece riguardare quei capi condannatori che si collocano in un rapporto di stretta sinallagmaticità con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale.
Le indicazioni delle Sezioni Unite hanno trovato applicazione esplicita nelle decisioni successive della giurispru¬denza di legittimità.
Così per esempio Cass. civ. Sez. I, 29 luglio 2011, n. 16737 ha affermato che l’anticipazione in via provvisoria , ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie contenute in sentenze costitutive, non è consentita, essendo necessario il passaggio in giudicato, soltanto nei casi in cui la statuizione condannatoria è le¬gata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico (come nel caso di condanna al pagamento del prezzo della compravendita nella sentenza sostitutiva del contratto definitivo non concluso); è invece consentita quando la statuizione condannatoria è meramente dipendente dall’effetto costitutivo, essendo detta anticipazione compatibile con la produzione dell’effetto costitutivo nel momento temporale successivo del passaggio in giudi¬cato (come nel caso di specie riguardante la condanna di un istituto di credito alla restituzione delle somme di denaro ricevute da un istituto di credito a seguito di atti solutori dichiarati inefficaci ai sensi dell’art. 67 legge fall.).
Nella giurisprudenza di merito analogamente si è espresso Trib. Pordenone, 9 febbraio 2017.
d) La provvisoria esecuzione delle statuizioni di condanna al mantenimento in caso di sentenze di-chiarative della paternità
Le sentenze dichiarative come quelle sull’accertamento della paternità condividono con quelle costitutive la na¬tura costituiva degli effetti: prima del giudicato non è possibile l’attribuzione di effetti alla relativa pronuncia che potrà essere trascritta nei registri di stato civile soltanto dopo il passaggio in giudicato.
Come si è visto – dall’illustrazione dell’elaborazione giurisprudenziale sul punto – non vi sono motivi ostativi all’esecuzione provvisoria dei capi di condanna contenuti nella sentenza costitutiva o dichiarativa in generale. Le Sezioni Unite intervenute nel dibattito (Cass. civ. Sez. Unite, 22 febbraio 2010, n. 4059) hanno precisato, appunto, che l’esecutività provvisoria ai sensi dell’art. 282 c.p.c. della sentenza costitutiva (nel caso di obbligo specifico di concludere un contratto) non è affatto impedita, ma è limitata ai capi della decisione compatibili con la produzione dell’effetto traslativo del bene in un momento successivo e non si estende ai capi condannatori che si collocano in un rapporto di stretta interdipendenza (sinallagmaticità) con i capi costitutivi relativi alla modifi¬cazione giuridica sostanziale.
Come si è visto anche Cass. civ. Sez. I, 29 luglio 2011, n. 16737 ha affermato che l’anticipazione in via prov-visoria, ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie contenute in sentenze costitutive non è consentita soltanto nei casi in cui la statuizione condannatoria è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico (come nel caso di condanna al pagamento del prezzo della compravendita nella sentenza sostitutiva del contratto definitivo non concluso).
Il sinallagma è un elemento costitutivo implicito del contratto a obbligazioni corrispettive. È il rapporto di inter¬dipendenza contrattuale tra una prestazione ed una controprestazione. In tanto una parte diventa proprietaria in quanto paga il prezzo del bene. Non si può essere condannati a pagare il prezzo di un bene se non si diventa contestualmente proprietari di quel bene.
In tutti i casi in cui la statuizione di condanna, invece, non ha questo collegamento sinallagmatico con la pro¬nuncia principale, è consentito attribuire alla condanna l’effetto esecutivo provvisorio (così per esempio in caso di condanna al pagamento delle spese di giudizio).
Ebbene in caso di sentenze dichiarative di accertamento della paternità non è possibile parlare di sinallagmati¬cità non essendoci alcun rapporto contrattuale tra figlio e genitore dichiarato tale, con la conseguenza che non vi sono ostacoli a considerare possibile l’esecuzione provvisoria delle statuizioni di condanna, non solo per il capo della sentenza sulle spese processuali (come è pacifico in giurisprudenza, per esempio Cass. civ. Sez. I, 15 dicembre 2011, n. 27090; Tribunale, Reggio Emilia, 6 settembre 2012) ma anche per gli altri capi contenenti una condanna.
Sarebbe strano il contrario, cioè che la regolamentazione del mantenimento per esempio del figlio minore ve¬nisse posticipata ad un tempo successivo al giudicato che potrebbe sopraggiungere solo dopo molti anni con evidenti ripercussioni negative sul diritto del figlio ad essere salvaguardato nelle sue esigenze primarie.
Sussistono quindi tutte le coordinate giuridiche e logiche della concessione ex lege della provvisoria esecuzione: il fumus e il periculum.
Esemplare in tale direzione è la decisione (proprio in un caso di accertamento della paternità) con cui le Sezioni Unite nel 2012 hanno affermato – come si è visto (Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2004 n. 14060) – il prin¬cipio generale che “salvi soltanto i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica ed in modo che debba attendersi che sulla causa pregiudicante sia pronunciata sen¬tenza passata in giudicato pare alla Corte che nell’interpretazione sistematica della disciplina del processo sia da riconoscere un ruolo decisivo alla disposizione che, a seguito della legge 26 novembre 1990, n. 353, si trova ora ad essere dettata dall’art. 282 del codice di rito. Col riconoscere provvisoria esecutività tra le parti alla sentenza di primo grado (e, si ripete, si trattava proprio di un accertamento della paternità) il legislatore ha determinato una cesura tra la posizione delle parti in controversia tra loro nel giudizio di primo grado – che è tendenzialmente paritaria e solo provvisoriamente alterabile da misure anticipatorie o cautelari – e la situazione in cui le stesse parti vengono poste dalla decisione del giudice di primo grado, che conosciuta la controversia, dichiara lo stato del diritto tra loro. L’ordinamento, anche allo scopo di scoraggiare il protrarsi della lite, che al contrario risul¬terebbe favorito, se all’impugnazione si attribuisse l’effetto d’un ripristino delle posizioni di partenza, proclama il valore del modo di composizione della controversia, che è dichiarato conforme a diritto dal giudice, terzo ed imparziale (art. 111 Cost., comma 2). Il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originano di lite e giustifica sia l’esecuzione provvisoria, quando a quel diritto si tratti di adeguare la realtà materiale, sia l’autorità della sentenza di primo grado nell’ambito della relazione tra lite sulla causa pregiudiziale e lite sulla causa pregiudicata”.
VIII
La provvisoria esecuzione dei capi della sentenza concernenti l’affidamento del figlio
Il principio della provvisoria esecuzione di tutte le decisioni che concernono l’affidamento dei figli minori è stato riaffermato dalla recente riformulazione dell’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile riformato dall’art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 come modificato dall’art. 96 lett. c del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 1546.
6 Art.38
Sono di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, del codice civile. Per i procedimenti di cui all’articolo 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni per l’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’articolo 316 del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario.
Sono altresì di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 251 e 317-bis del codice civile *
Sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria. Nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applica, in quanto compatibile, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile.
Fermo restando quanto previsto per le azioni di stato, il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sen¬tito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente.
Sulla base di questa riformulazione l’art. 38 disp. att. c.c. contiene ora un principio generale di immediata ese¬cutività di tutti i provvedimenti che concernono l’affidamento di minori, che sarebbe del tutto irragionevole non applicare anche ai provvedimenti sull’affidamento conseguenziali alla sentenza di accertamento della paternità.
Quando il provvedimento è emesso dal tribunale per i minorenni, il reclamo si propone davanti alla sezione di corte di appello per i minorenni.
Giurisprudenza
Trib. Treviso Sez. I, 10 marzo 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa del rapporto di filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento (tardivo) e quindi, a norma dell’art. 261 c.c., comporta da parte del genitore tutti i doveri e tutti i diritti propri della procreazione legittima.
Trib. Pordenone, 9 febbraio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’anticipazione in via provvisoria , ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie contenute in sentenze costitutive, non è consentita, occorrendo il passaggio in giudicato, soltanto nei casi in cui la statuizione condannatoria è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico; è invece consentita quando la statuizione condannatoria è me¬ramente dipendente dall’effetto costitutivo, essendo detta anticipazione compatibile con la produzione dell’effetto costitutivo nel momento temporale successivo del passaggio in giudicato.
Cass. civ. Sez. VI, 14 luglio 2016, n. 14417 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento da cui conseguono tutti i doveri propri della procreazione legittima tra i quali l’obbligo di mantenimento. La relativa obbligazione si collega allo status genitoriale e assume decorrenza dalla nascita del figlio, con la conseguenza che l’altro genitore, il quale nel frattempo ha sostenuto l’onere di manteni¬mento anche per la porzione di pertinenza del figlio dichiarato giudizialmente, ha diritto di regresso per la corrispondente quota.
Trib. Cassino, 15 giugno 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio nasce al momento della sua nascita, anche se la procrea¬zione sia stata successivamente accertata con sentenza. La sentenza dichiarativa della filiazione naturale, invero, produce gli effetti del riconoscimento comportando per il genitore, ai sensi dell’art. 261 c.c., tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ai sensi dell’art. 148 c.c. Conseguentemente, anche nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, per ciò stesso non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o mater¬nità naturale. Su tale base, la violazione dei relativi doveri non trova la sua sanzione, necessariamente e soltanto, nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, in quanto la natura giuridica di tali obblighi implica che la relativa violazione, nell’ipotesi in cui provochi la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo ad un’au¬tonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c. (Nel caso di specie, Il Tribunale ha condannato il padre naturale di una ragazzina di tredici anni a risarcirle i danni non patrimoniali conseguiti al totale disinteresse dimostrato nei suoi confronti, tale da avere determinato una vera e propria lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione, i quali trovano negli artt. 2 e 30 della carta costituzionale, oltre che in normative internazionali recepite nel nostro ordinamento, un elevato grado di riconoscimento e tutela. Di conseguenza, considerata anche la giovane età della figlia, il giudice di merito ha condannato il padre a versare, a titolo di danno non patrimoniale per abbandono morale della minore, la somma di 52.000 euro, liquidata in via equitativa).
Cass. civ. Sez. VI, 16 febbraio 2015, n. 3079 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di una figlia naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli articoli 2 e 30 della Costituzione – oltre che nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento – un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell’illecito civile e legittima l’esercizio, ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., di un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole.
Cass. civ. Sez. VI, 9 dicembre 2014, n. 25861 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La pendenza di una lite sulla validità dell’accordo giustificativo della separazione consensuale tra coniugi pregiudica, in senso tecnico giuridico, l’esito del giudizio, contemporaneamente pendente, di cessazione degli effetti civili del loro matrimonio, e ne comporta la sospensione ex art. 295 cod. proc. civ., perché l’eventuale annullamento di quell’accordo determinerebbe il venir meno, con effetto “ex tunc”, di un presupposto indispensabile della pronuncia di divorzio.
È configurabile la sospensione ex art. 295 cod. proc. civ. del giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio che penda contemporaneamente a quello riguardante l’annullamento della separazione consensuale omologata tra gli stessi coniugi.
Cass. civ. Sez. VI, 20 gennaio 2015, n. 798 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato la sospensione del giudizio pregiudicato può essere disposto soltanto ai sensi dell’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ., sicché ove il giudice abbia provveduto ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., il relativo provvedimento, a prescindere da ogni accertamento circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità, è illegittimo e va annullato, ferma restando la possibilità, da parte del giudice di merito dinanzi al quale il giudizio andrà riassunto, di un nuovo e motivato provvedimento di sospensione ai sensi dell’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ. (In applicazione del detto principio, la S.C. ha accolto il ricorso proposto av¬verso l’ordinanza di sospensione, ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., del giudizio introdotto dall’INAIL in surroga, nei confronti dei responsabili dell’infortunio sul lavoro occorso al lavoratore, pendendo in appello il giudizio tra i danneggiati e i responsabili del sinistro stradale.
Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2014, n. 16657 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di filiazione naturale, il diritto al rimborso delle spese a favore del genitore che ha provveduto al mantenimento del figlio fin dalla nascita, ancorché trovi titolo nell’obbligazione legale di mantenimento imputabile anche all’altro genitore, ha natu¬ra in senso lato indennitaria, in quanto diretto ad indennizzare il genitore, che ha riconosciuto il figlio, degli esborsi sostenuti da solo per il mantenimento della prole. Ne consegue che il giudice di merito, ove l’importo non sia altrimenti quantificabile nel suo preciso ammontare, legittimamente provvede, per le somme dovute dalla nascita fino alla pronuncia, secondo equità trattandosi di criterio di valutazione del pregiudizio di portata generale, fermo restando che, essendo la richiesta di indennizzo assimilabile ad un’azione di ripetizione dell’indebito, gli interessi, in assenza di un precedente atto stragiudiziale di costituzione in mora, decorrono dalla data della domanda giudiziale.
Cass. civ. Sez. VI, 12 novembre 2014, n. 24046 (Giur. It., 2015, 6, 1395 nota di BERTILLO)
L’ordinanza con la quale viene disposta la sospensione discrezionale del processo ai sensi dell’art. 337, cpv., c.p.c. deve anche indicare le ragioni per le quali il giudice non intenda riconoscere l’autoritaè della prima sentenza, giaè intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante, chiarendo perché non ne condivide il merito e le ragioni giustificatrici.
Ai fini del legittimo esercizio del potere di sospensione discrezionale del processo, previsto dall’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ., è indispensabile un’espressa valutazione di plausibile controvertibilità della decisione di cui venga invocata l’autorità in quel processo, sulla base di un confronto tra la decisione stessa e le critica che ne è stata fatta. Ne consegue che la sospensione discrezionale in parola è ammessa ove il giudice del secondo giudizio motivi esplicitamente le ragioni per le quali non intende riconoscere l’autorità della prima sentenza, già intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante, chiarendo perché non ne condivide il merito o le ragioni giustificatrici.
Cass. civ. Sez. lavoro, 24 giugno 2014, n. 14274 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 295 c.p.c., la cui ragione fondante è quella di evitare il rischio di un conflitto tra giudicati, fa esclusivo riferimento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giudice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico – giuridico e non già in senso meramente logico, la sospensione necessaria del processo non è configurabile nell’ipotesi di con¬temporanea pendenza davanti a due giudici diversi del giudizio sull’”an debeatur” e di quello sul “quantum”, fra i quali esiste un rapporto di pregiudizialità solamente in senso logico, essendo in tal caso applicabile l’art. 337, secondo comma, c.p.c., il quale, in caso di impugnazione di una sentenza la cui autorità sia stata invocata in un separato processo, prevede soltanto la possibilità della sospensione facoltativa di tale processo.
Cass. civ. Sez. I, 21 maggio 2014, n. 11211 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di accertamento della paternità naturale, mentre la condanna al rimborso della quota del genitore che, prima della pro¬nuncia, abbia provveduto integralmente al mantenimento della prole, presuppone la domanda di parte, non è necessaria alcuna specifica richiesta in ordine ai provvedimenti relativi al mantenimento del minore per il periodo successivo alla proposizione dell’azione, in relazione ai quali il giudice è dotato di poteri ufficiosi.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di mantenimento del figlio naturale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente azionabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, che conseguentemente costituisce il “dies a quo” della decorrenza della ordinaria prescrizione decennale.
Cass. civ. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 6207 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando fra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato – salvo nel caso in cui la sospensione sia imposta da una dispo¬sizione specifica fino al passaggio in giudicato – soltanto ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., come si trae dall’interpretazione sistematica della disciplina del processo, in cui un ruolo decisivo riveste l’art. 282 cod. proc. civ. e il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originario di lite, giustificando sia l’esecuzione provvisoria, sia l’autorità della sentenza di primo grado. (Nella specie, la S.C. ha cassato l’ordinanza di sospensione ex art. 295 cod. proc. civ. emesso dal tribunale affermando che la pendenza in appello di un giudizio in cui era stata accolta, in primo grado, la domanda di una società volta all’accertamento della validità dell’acquisto di un complesso immobiliare non era necessariamente pregiudiziale al procedimento introdotto in primo grado dalla medesima società e volto a far valere l’acquisto immobiliare per usucapione abbreviata per effetto dell’immissione in possesso conseguente all’aggiudicazione, potendo tale se¬condo procedimento essere sospeso solo ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., ove il giudice avesse inteso riconoscere l’autorità della prima decisione).
Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo dei genitori di educare e mantenere i figli (artt. 147 e 148 cod. civ.) è eziologicamente connesso esclusivamente alla procreazione, prescindendo dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così determinandosi un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore. Il presupposto di tale responsabilità e del conseguente diritto del figlio al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali è costituito dalla consapevolezza del concepimento, che non si identifica con la certezza assoluta derivante esclusi¬vamente dalla prova ematologica, ma si compone di una serie di indizi univoci, quali, nella specie, la indiscussa consumazione di rapporti sessuali non protetti all’epoca del concepimento.
Trib. Sulmona, 26 novembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le domande a contenuto economico correlate alla domanda di dichiarazione giudiziale di paternità naturale possono essere svol¬te e decise in un unico processo, fermo restando che il credito derivante dall’accoglimento delle prime potrebbe essere azionato soltanto all’esito del passaggio in giudicato del capo relativo all’accertamento dello status di figlio.
Trib. Napoli Sez. I, 18 settembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligazione di mantenimento del figlio riconosciuto da entrambi i genitori, per effetto della sentenza dichiarativa della filiazione naturale, collegandosi allo status genitoriale, sorge con decorrenza dalla nascita del figlio, con la conseguenza che il genitore, che nel frattempo abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento del minore anche per la quota di pertinenza dell’altro genitore, ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla base delle regole dettate dagli artt. 148 e 261 c.c., da interpretarsi tuttavia alla luce del regime delle obbligazioni solidali sancito dall’art. 1229 c.c.
Tribunale, Reggio Emilia, 6 settembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza con natura dichiarativa oppure costitutiva (e non di condanna) è provvisoriamente esecutiva solamente con riferi¬mento al capo che concerne le spese di lite.
Gli effetti dichiarativi e costitutivi, invece, diventano esecutivi (solamente) con il passaggio in giudicato della stessa sentenza.
Ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 282 c.p.c. la sentenza è provvisoriamente esecutiva tra le parti.
Tale norma non può essere letta (ed interpretata) con l’indiscriminata attribuzione della provvisoria esecutività alla integralità delle sentenze di primo grado, con il “pericolo” di alterazione del rapporto giuridico tra le parti.
Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 (Famiglia e Diritto, 2013, 5, 450 nota di VANZ)
Salvi soltanto i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica ed in modo che debba attendersi che sulla causa pregiudicante sia pronunciata sentenza passata in giudicato, quando fra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., come si trae dall’interpretazione sistematica della disciplina del processo, in cui un ruolo decisivo riveste l’art. 282 cod. proc. civ.: il diritto pronunciato dal giudice di primo grado, invero, qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originario di lite, giustificando sia l’esecu¬zione provvisoria, sia l’autorità della sentenza di primo grado. Pertanto, allorché penda, in grado di appello, sia il giudizio in cui è stata pronunciata una sentenza su causa di riconoscimento di paternità naturale e che l’abbia dichiarata, sia il giudizio che su tale base abbia accolto la domanda di petizione di eredità, ed entrambe le sentenze siano state impugnate, il secondo giudizio non deve di necessità essere sospeso, in attesa che nel primo si formi la cosa giudicata sulla dichiarazione di paternità naturale, ma può esserlo, ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., se il giudice del secondo giudizio non intenda riconoscere l’autorità dell’altra decisione. Non ostano, a tale conclusione, le disposizioni degli artt. 573 e 715 cod. civ., non essendo in questione il momento dal quale si producono gli effetti della dichiarazione di filiazione naturale, ma il potere del giudice, cui la seconda domanda sia proposta, di conoscerne sulla base della filiazione naturale già riconosciuta con sentenza, pur non ancora passata in giudicato.
Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio insorge con la nascita dello stesso, anche nell’ipotesi in cui la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza. Ciò in virtù del fatto che la sentenza dichiarativa della fi¬liazione naturale produce gli effetti del riconoscimento e, quindi, in base all’art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri tipici della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento di cui all’art. 148 c.c., ricollegandosi tale obbligazioni allo status genitoriale ed assumendo, di conseguenza, efficacia retroattiva. Al riguardo, si precisa come l’obbligo di mantenimento dei figli sussiste per il solo fatto di averli generati, prescindendo da qualsiasi domanda in tal senso, con la conseguenza che, laddove al momento della nascita il figlio sia stato riconosciuto da uno solo dei genitori, l’altro è comunque obbligato al mantenimento per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale.
Cass. civ. Sez. I, 15 dicembre 2011, n. 27090 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ancorché la pronuncia non contenga una condanna nel merito della domanda la statuizione in materia di condanna alle spese fruisce dell’efficacia esecutiva di cui al codice di rito.
App. Bologna Sez. minori, 5 dicembre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligazione di mantenimento del figlio, per effetto della sentenza dichiarativa della filiazione naturale, collegandosi allo sta¬tus genitoriale, sorge con decorrenza dalla nascita del figlio. Ne consegue che il genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento del minore anche per la porzione di pertinenza dell’altro genitore, ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dagli artt. 148 e 261 c.c. da interpretarsi alla luce del regime delle obbligazioni solidali stabilito nell’art. 1229 c.c.
Cass. civ. Sez. I, 29 luglio 2011, n. 16737 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’anticipazione in via provvisoria , ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie contenute in sentenze costitutive, non è consentita, essendo necessario il passaggio in giudicato, soltanto nei casi in cui la statuizione condannatoria è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico (come nel caso di condanna al pagamento del prezzo della compravendita nella sentenza sostitutiva del contratto definitivo non concluso); è invece consentita quando la statuizione con¬dannatoria è meramente dipendente dall’effetto costitutivo, essendo detta anticipazione compatibile con la produzione dell’effet¬to costitutivo nel momento temporale successivo del passaggio in giudicato (come nel caso di specie riguardante la condanna di un istituto di credito alla restituzione delle somme di denaro ricevute da un istituto di credito a seguito di atti solutori dichiarati inefficaci ai sensi dell’art. 67 legge fall.).
Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2010, n. 22506 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligazione di mantenimento del figlio riconosciuto da entrambi i genitori, per effetto della sentenza dichiarativa della fi¬liazione naturale, collegandosi allo “status” genitoriale, sorge con decorrenza dalla nascita del figlio, con la conseguenza che il genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento del minore anche per la porzione di pertinenza dell’altro genitore, ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dagli artt. 148 e 261 del cod. civ. da interpretarsi però alla luce del regime delle obbligazioni solidali stabilito nell’art. 1299 cod. civ. Pertanto, il “quantum” dovuto in restituzione nel periodo di mantenimento esclusivo non può essere determinato sulla base dell’importo stabilito per il futuro nella pronuncia relativa al riconoscimento del figlio naturale, via via devalutato, in quanto l’ammontare dovuto trova limite negli esborsi presumibilmente sostenuti in concreto dal genitore che ha per intero sostenuto la spesa senza però prescindere né dalla considerazione del complesso delle specifiche e molteplici esigenze effettivamente soddisfatte o notoriamente da soddisfare nel periodo in considerazione né dalla valorizzazione delle sostanze e dei redditi di ciascun genitore quali all’epoca goduti ed evidenziati, eventualmente in via presuntiva, dalle risultanze processuali, né infine dalla correlazione con il tenore di vita di cui il figlio ha diritto di fruire, da rapportare a quello dei suoi genitori.
Cass. civ. Sez. Unite, 22 febbraio 2010, n. 4059 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di preliminare di compravendita e di pronuncia ex art. 2932 c.c. l’effetto traslativo della proprietà del bene si produce solo con l’irretroattività della sentenza che determina l’effetto sostitutivo del contratto definitivo. La sentenza di primo grado di accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c. non può pertanto produrre, prima del passaggio in giudicato, gli effetti del con¬tratto definitivo con la conseguente impossibilità di scissione, nelle sentenze ex art. 2932 c.c. in tema di contratto preliminare di compravendita, tra capi costitutivi principali e capi di condanna consequenziali, con riferimento specifico a quelli cosiddetti sinallagmatici le cui relative statuizioni fanno parte.
Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, comma secondo, cod. proc. civ., e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ.. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimento è di per sé illegittimo, a prescindere da qualsiasi accertamento di merito circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità).
Cass. civ. Sez. I, 6 novembre 2009, n. 23630 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella determinazione del contributo previsto dall’art. 277, secondo comma, cod. civ. per il mantenimento del figlio minore nato fuori del matrimonio, a seguito della dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il giudice, ai sensi dell’art. 155 cod. civ., appli¬cabile anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati in virtù del rinvio contenuto nell’art. 4 della legge n. 54 del 2006, deve tener conto non solo delle esigenze attuali del figlio, ma anche del tenore di vita goduto dallo stesso nel corso della convivenza con entrambi i genitori, nonché delle risorse economiche di questi, in modo da realizzare il principio generale di cui all’art. 148 cod. civ., secondo cui i genitori devono concorrere al mantenimento dei figli in proporzione delle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo.
Cass. civ. Sez. II, 6 aprile 2009, n. 8250 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza che dispone l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, ex art. 2932 c.c., produce i propri effetti solo dal momento del passaggio in giudicato; ne consegue che, quando detta sentenza abbia subordinato l’effetto traslativo al paga¬mento del residuo prezzo, l’obbligo di pagamento in capo al promissario acquirente non diventa attuale prima dell’irretrattabilità della pronuncia giudiziale, essendo tale pagamento la prestazione corrispettiva destinata ad attuare il sinallagma contrattuale.
Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, comma secondo, cod. proc. civ., e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ.. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimento è di per sé illegittimo, a prescindere da qualsiasi accertamento di merito circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità).
Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2007, n. 26575 (Famiglia e Diritto, 2008, 6, 563 nota di RUSSO)
La sentenza di accertamento della filiazione naturale dichiara ed attribuisce uno status che conferisce al figlio naturale i diritti che competono al figlio legittimo con efficacia retroattiva, sin dal momento della nascita, con la conseguenza che dalla stessa data decorre anche l’obbligo di rimborsare pro quota l’altro genitore che abbia integralmente provveduto al mantenimento del figlio; peraltro, la condanna al rimborso di detta quota, per il periodo precedente la proposizione dell’azione, non può prescindere da un’espressa domanda della parte, attenendo tale pronunzia alla definizione dei rapporti pregressi tra debitori solidali in relazione a diritti disponibili.
Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 2007, n. 24409 (Famiglia e Diritto, 2008, 12, 1133 nota di MISEFARI)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento ai sensi dell’art. 277 c.c. e quindi implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento.
Trib. Trani, 27 settembre 2007 (Famiglia e Diritto, 2008, 6, 564 nota di RUSSO)
La domanda di risarcimento del danno esistenziale conseguente al mancato riconoscimento del figlio naturale va rigettata ove sfornita di prova, in quanto, premesso che la legge non prevede l’obbligatorietà del riconoscimento del figlio naturale, il figlio ha l’onere di provare che, benché alla soddisfazione dei suoi bisogni avesse provveduto la sola madre, quest’ultima non è riuscita a garantirgli un diverso tenore di vita, che altrimenti sarebbe stato raggiunto attraverso la regolare corresponsione dell’assegno di mantenimento da parte del padre. D’altra parte – anche in considerazione dell’elevato lasso di tempo fatto decorrere dal di¬retto interessato per la richiesta di risarcimento del danno derivante dal mancato riconoscimento e mantenimento (ventiquattro anni) – non può affatto presumersi che la prova del danno esistenziale sia “in re ipsa”, ovvero che derivi, automaticamente, dal solo mancato riconoscimento. Infatti, non può essere risarcito un danno che prescinda completamente dalla prospettazione e dimostrazione di una qualche conseguenza negativa in capo alla vittima, in quanto disancorare il risarcimento del danno dall’ac¬certamento dell’esistenza di un qualche riflesso negativo, di carattere personale e patrimoniale nella sfera del soggetto leso, significa costruire una categoria di danno “automatico”, direttamente innescato da un fatto illecito senza che vi sia dimostrazione alcuna della modificazione, “in peius”, della vita della vittima.
Cass. civ. Sez. III, 3 settembre 2007, n. 18512 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 282 c.p.c., nel conferire la provvisoria esecutorietà alla sentenza di primo grado, si riferisce alle statuizioni condannatorie della sentenza, sia che essa abbia a presupposto un’azione di condanna, sia che essa abbia a presupposto un’azione costitutiva, sicché la sentenza di primo grado può comunque venire utilizzata come titolo esecutivo.
Nel caso di pronuncia della sentenza costitutiva ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., le statuizioni di condanna consequenziali, dispo¬sitive dell’adempimento delle prestazioni a carico delle parti fra le quali la sentenza determina la conclusione del contratto, sono da ritenere immediatamente esecutive ai sensi dell’art. 282 cod. proc. civ., di modo che, qualora l’azione ai sensi dell’art. 2932 c.c. sia stata proposta dal promittente venditore, la statuizione di condanna del promissario acquirente al pagamento del prezzo è da considerare immediatamente esecutiva.
Cass. civ. Sez. III, 4 luglio 2007, n. 15111 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando la legge prevede un potere del giudice, il cui esercizio si deve concretare nell’adozione di un provvedimento avente la forma dell’ordinanza ed un determinato contenuto, l’adozione del provvedimento con quel contenuto e con l’espressa indicazione della sua pronuncia, ai sensi della norma che prevede il potere di emissione del provvedimento, comporta che, nel giudizio di impugnazione che sia previsto in ordine al provvedimento, il giudice dell’impugnazione debba scrutinare il provvedimento con-siderandolo pronunciato in forza dell’esercizio del potere previsto dalla norma indicata nel provvedimento, restando preclusa la possibilità di qualificarlo come provvedimento che avrebbe potuto o dovuto essere pronunciato ai sensi di altra norma, che pure preveda un potere di emissione di un provvedimento di analogo contenuto, ma basato su presupposti e ragioni diverse, salvo il caso in cui proprio queste ultime siano espressamente esplicitate nel provvedimento sì da indurre a far ritenere che, al di là della formale invocazione di una norma, in realtà il giudice abbia in concreto esercitato il potere previsto dall’altra (Principio enunciato dalla S.C. in sede di regolamento di competenza avverso pronuncia di sospensione del processo adottata ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., che il ricorrente pretendeva fosse considerata adottata ai sensi dell’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ.).
Trib. L’Aquila, 6 giugno 2007 (Famiglia e Diritto, 2007, 10, 950)
La dichiarazione giudiziale di paternità produce gli effetti del riconoscimento e ciò determina, a carico del genitore, tutti i do¬veri derivanti dalla procreazione legittima, incluso quello del mantenimento del figlio, gravante in solido su entrambi i genitori a decorrere dal momento della nascita; di conseguenza, in base alla disciplina dell’obbligazione solidale, il genitore che abbia sostenuto il mantenimento del figlio fino alla dichiarazione di paternità ha diritto di regresso nei confronti dell’altro.
Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006 n. 23596 (Famiglia e Diritto, 2007, 11, 1007 nota di ORTORE)
Nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per in¬tero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato da parte di entrambi i genitori. Da ciò consegue, per un verso, che il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non può sottrarsi alla obbligazione nei confronti del figlio per la quota parte posta a suo carico, ma è tenuto a provvedere, sin dal momento della nascita, e, per altro verso, che il genitore il quale ha provveduto in via esclusiva al mantenimento del figlio ha azione nei confronti dell’altro per ottenere il rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita. Tale azione non è tuttavia utilmente esercitabile se non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione naturale (atteso che soltanto per effetto della pronuncia si costituisce lo “status” di figlio naturale, sia pure con effetti retroagenti alla data della nascita), con la conseguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 cod. civ., e, quindi, a norma dell’art. 261 cod. civ., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del manteni¬mento ex art. 148 cod. civ.. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale e assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 cod. civ.), ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 cod. civ. nei rapporti fra condebitori solidali. Tuttavia, in considerazione dello stato di incertezza che precede la dichiarazione giudiziale di paternità natu¬rale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente esercitabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la conseguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328 (Famiglia e Diritto, 2006, 5, 504 nota di FIGONE)
Il diritto al rimborso delle spese sostenute, spettante a genitore naturale che ha allevato il figlio, può essere esercitato solo al momento della emissione della sentenza che accerta il vincolo di filiazione con l’altro genitore, con la conseguenza che tale mo¬mento segna il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2005, n. 15100 (Foro It., 2006, 2, 1, 476)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 cod. civ., e, quindi, a norma dell’art. 261 cod. civ., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del manteni¬mento ex art. 148 cod. civ.. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale e assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 cod. civ.), ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 cod. civ. nei rapporti fra condebitori solidali. Peraltro, la condanna al rimborso di detta quota per il periodo precedente la proposizione dell’azione non può prescindere da un’espressa domanda della parte, attenendo tale pronunzia alla definizione dei rapporti pregressi tra debitori solidali, ossia a diritti disponibili, e quindi non incidendo sull’interesse superiore del minore, che soltanto legittima l’esercizio dei poteri officiosi attribuiti al giudice dall’art. 277, comma secondo, cod. civ. La necessità di analoga domanda non ricorre riguardo ai provvedimenti da adottare in relazione al periodo successivo alla proposizione dell’azione, atteso che, durante la pendenza del giudizio, resta fermo il potere del giudice adito, in forza della norma suindicata, di adottare di ufficio i provvedimenti che stimi opportuni per il mantenimento del minore. (In applicazione di detti principi, la S.C. ha confermato la decisione di merito la quale aveva escluso, rigettando la contraria pretesa, che nell’esercizio dei poteri officiosi conferitigli dall’art. 277, comma secondo, cod. civ., il giudice potesse disporre per il periodo antecedente la proposizione del giudizio, in assenza di domanda dell’altro genitore, peraltro nella specie non proponibile non avendo la ricorrente agito in proprio, ma solo in nome e per conto del figlio minorenne).
Cass. civ. Sez. III, 26 gennaio 2005, n. 1619 (Corriere Giur., 2005, 9, 1229 nota di PETRILLO)
Non solo le sentenze di condanna ma anche quelle costitutive possono essere provvisoriamente esecutive indipendentemente da una esplicita statuizione in tal senso del giudice se contengono una condanna implicita, desumibile anche dalla sola motivazione o dalla funzione stessa che il titolo è destinato a svolgere.
Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2004 n. 14060 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché l’articolo 295 del c.p.c., la cui ragione fondante è quella di evitare il rischio di un conflitto di giudicati, fa esclusivo riferi¬mento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giudice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico e non già in senso meramente logico, la sospensione necessaria del processo non può essere disposta nell’ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due giudici diversi del giudizio sull’”an debeatur” e di quello sul quantum, fra i quali esiste un rapporto di pregiudizialità solamente in senso logico, essendo in tal caso applicabile l’articolo 337, comma 2, del c.p.c., il quale, in caso di impugnazione di una sentenza la cui autorità sia stata invocata in un separato processo, prevede soltanto la possibilità della sospensione facoltativa di tale processo, e che, a norma dell’articolo 336, comma 2, del c.p.c., la riforma o la cassazione della sentenza sull’”an debeatur” determina l’automatica caducazione della sentenza sul quantum anche se su quest’ultima si sia formato un giudicato apparente, con conseguente esclusione del conflitto di giudicati.
Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2004, n. 13296 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di azione di accertamento della paternità naturale e di conseguente determinazione del contributo al mantenimento del minore figlio naturale per il periodo successivo alla proposizione dell’azione stessa, ove la parte attrice, nell’atto introduttivo del giudizio, dopo aver indicato quale “petitum” un certo importo di tale contributo, abbia usato l’espressione “ovvero la minore o maggiore somma dovuta” o altra espressione equivalente, il giudice di merito che liquidi un importo maggiore di quello richiesto non viola il principio di cui all’art. 112 c.p.c., sia perchè deve ritenersi che la parte attrice, con l’uso dell’espressione predetta, non abbia posto un limite preciso all’ammontare della somma richiesta, ma si sia rimessa agli elementi probatori da acquisire nel corso del giudizio ed alla loro valutazione ad opera del giudice, sia perchè, in ordine alla condanna del padre naturale al pagamento del contributo, il giudice che ha accertato il rapporto di paternità non è vincolato alla domanda della parte, in quanto l’art. 277, comma 2, c.c. conferisce a detto giudice il potere di adottare di ufficio, in ragione dell’interesse superiore del minore, i provvedimenti che stimi opportuni per il mantenimento del minore stesso.
Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2004, n. 11351 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale, il rimborso delle spese spettanti al genitore che ha prov¬veduto al mantenimento del figlio fin dalla nascita, ancorché trovi titolo nell’obbligazione legale di mantenimento imputabile anche all’altro genitore, ha natura in senso lato indennitaria, essendo diretta ad indennizzare il genitore, che ha riconosciuto il figlio, a causa degli esborsi sostenuti da solo per il mantenimento della prole; poiché è principio generale (desumibile da varie norme, quali ad esempio gli articoli 379, secondo comma, 2054, 2047 cod. civ.) che l’equità costituisca criterio di valutazione del pregiudizio non solo in ipotesi di responsabilità extracontrattuale ma anche quando la legge si riferisca in genere ad indennizzi o indennità, il giudice di merito può utilizzare il criterio equitativo per determinare le somme dovute a titolo di rimborso.
Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento di figlio naturale, il diritto al rimborso delle spese sostenute, spettante al genitore che ha allevato il figlio nei confronti del genitore che procede al riconoscimento, non è utilmente esercibile se non dal giorno del riconoscimento stesso (soltanto il riconoscimento comportando, ex art. 261 c.c., gli effetti tipici connessi dalla legge allo status giuridico di figlio naturale), con la conseguenza che detto giorno segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2003, n. 7386 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di accertamento della filiazione naturale pone a carico del genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, compreso quello del mantenimento; tale obbligazione decorre dalla data della nascita, e non da quella della relativa domanda
Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2003, n. 2196 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di accertamento della filiazione naturale, in quanto ha natura dichiarativa dello stato biologico di procreazione, fa sorgere a carico del genitore tutti i doveri di cui all’art. 147 c.c. propri della procreazione legittima, compreso quello di mante¬nimento che, unitamente ai doveri di educare ed istruire i figli, obbliga i genitori ex art. 148 c.c. a far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale. A tal fine, il criterio di quantificazione dell’assegno può essere adottato dal giudice di merito anche in termini complessivi ed unitari (anziché in termini di ripetibilità separata della quota delle spese straordinarie), nell’esercizio di una valutazione discrezionale insindacabile in sede di legittimità, ove logicamente e correttamente motivata.
Cass. civ. Sez. II, 12 luglio 2000, n. 9236 (Foro It., 2001, I, 159 nota di SCARSELLI)
La condanna alle spese del giudizio, contenuta nella sentenza di primo grado, può costituire titolo esecutivo a norma dell’art. 474 c.p.c., soltanto nel caso in cui sia accessoria ad una pronuncia di condanna, provvisoriamente esecutiva ai sensi dell’art. 282 c.p.c. (oppure per espressa previsione di legge), ma non quando sia conseguente alla decisione di rigetto della domanda oggetto del giudizio.
Cass. civ. Sez. I, 6 febbraio 1999, n. 1037 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’anticipazione dell’efficacia della sentenza rispetto al suo passaggio in giudicato ha riguardo soltanto al momento della esecu¬tività della pronuncia, con la conseguenza (atteso il nesso di correlazione necessaria tra condanna ed esecuzione forzata) che la disciplina dell’esecuzione provvisoria di cui all’art. 282 c.p.c. trova legittima attuazione soltanto con riferimento alle sentenze di condanna, le uniche idonee, per loro natura, a costituire titolo esecutivo, postulando il concetto stesso di esecuzione un’esi¬genza di adeguamento della realtà al decisum che, evidentemente, manca sia nelle pronunce di natura costitutiva che in quelle di accertamento (principio affermato dalla S.C. per negare che la provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado resa in sede di accoglimento di un’azione ex art. 2932 proposta dal promissario acquirente di un immobile potesse risultare ostativa all’esercizio, da parte del curatore del fallimento del promittente venditore, della facoltà di recedere dal contratto preliminare, giusta disposto dell’art. 72 l. fall.).
Cass. civ. Sez. I, 14 agosto 1998, n. 8042 (Famiglia e Diritto, 1999, 3, 271 nota di AMADIO)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli stessi effetti del riconoscimento ed implica pertanto tutti i doveri propri della procreazione legittima, compreso quello di mantenimento; tale obbligo di mantenimento, non avendo natura alimen¬tare, è a carico del genitore a seguito della dichiarazione giudiziale di paternità naturale a decorrere dalla nascita del figlio e non dal giorno della domanda giudiziale, con la conseguenza che dalla stessa data decorre anche l’obbligo di rimborsare “pro quota” l’altro genitore che abbia integralmente provveduto al mantenimento del figlio fino alla pronuncia del giudice.
Cass. civ. Sez. II, 24 marzo 1998, n. 3090 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Una sentenza costitutiva – qual è quella che dispone il trasferimento del passaggio di una servitù ad altro luogo (art. 1068 c.c.) – non è esecutiva finchè non passa in giudicato e pertanto, se la parte vittoriosa la esegue prima, è esperibile nei suoi confron¬ti l’azione di spoglio, mentre avverso la qualificazione della natura giuridica di una sentenza non è esperibile il rimedio della revocazione (art. 391 bis c.p.c., nella specie), perchè non concerne l’esistenza di un fatto, che inoltre, per configurare l’errore revocatorio, deve esser basilare per la “ratio decidendi” e il dictum.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 maggio 1996 n. 4844 (Foro It., 1997, I, 1109 nota di TRISORIO LIUZZI)
Poiché l’art. 295 c.p.c., la cui “ratio” è quella di evitare il rischio di un conflitto tra giudicati, fa esclusivo riferimento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giudice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico giuridico e non già in senso meramente logico, la sospensione necessaria del processo non può essere disposta nell’ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due giudici diversi del giudizio sull’”an debeatur” e di quello “sul quantum” (fra i quali esiste un rapporto di pregiudizialità solamente in senso logico); ne consegue che deve essere cassata l’ordinanza con cui il pretore ha disposto la sospensione necessaria del processo “sul quantum” in attesa della definizione del processo sull’”an debeatur”.
Fonti
Cass. civ. Sez. III, 24 maggio 1993, n. 5837 (Giust. Civ., 1994, I, 3248 r. It., 1998)
Per aversi titolo esecutivo, costituito da una sentenza di I grado contenente condanna alle spese del giudizio, è necessario che questa parte della sentenza sia accessoria ad una pronuncia di condanna, dichiarata provvisoriamente esecutiva ai sensi dell’art. 282 c.p.c. oppure esecutiva per legge.
Cass. civ. Sez. I, 26 giugno 1987, n. 5619 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce, ai sensi dell’art. 278 c. c., gli stessi effetti del riconoscimento, per cui pone a carico del genitore, fin dalla nascita del figlio, tutti i doveri inerenti al rapporto di filiazione legittima (art. 261 c. c.), compresi quelli di mantenimento, educazione e istruzione; pertanto, il genitore che ha provveduto al mantenimento del figlio, ha diritto di ripetere la quota delle relative spese nei confronti del soggetto del quale è stata accertata la paternità o la mater¬nità naturale, in applicazione analogica dell’art. 1299 c. c., che prevede il regresso tra condebitori solidali quando l’obbligazione sia stata adempiuta da uno solo di essi, alla stregua del principio che si trae dall’art. 148 (richiamato dall’art. 261 c. c. per la filiazione naturale) che, prevedendo l’azione giudiziaria contro il genitore inadempiente, postula il diritto di quello adempiente di agire in regresso nei confronti dell’altro.

Avvocato: liquidazione degli onorari. Rito applicabile

Cass. civ. Sez. VI – 2, 25 maggio 2017, n. 13272
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso 3644/2016 R.G. proposto da:
Avvocato D.P., – c.f. (OMISSIS) – da se medesimo rappresentato e difeso ed elettivamente domiciliato presso il proprio studio, in (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
L.A., – c.f. (OMISSIS);
– intimata –
Avverso l’ordinanza del 28.12.2015 del tribunale di Civitavecchia;
Udita la relazione all’udienza in camera di consiglio del 5 dicembre 2016 del consigliere dott. Luigi Abete;
Lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale dott. CELENTANO Carmelo, che ha chiesto accogliersi il ricorso per regolamento di competenza.

Svolgimento del processo
Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c., al tribunale di Civitavecchia depositato in data 29.12.2014 l’avvocato D.P. esponeva che aveva svolto attività professionale su incarico e per conto di L.A. e nel primo e nel secondo grado del giudizio di separazione personale con addebito che l’aveva opposta al coniuge, A.F.; che aveva altresì svolto attività professionale su incarico e per conto della resistente ai fini del recupero degli importi che il marito non le aveva versato; che nondimeno la L. non aveva provveduto al pagamento del saldo delle competenze professionali a lui spettanti.
Chiedeva che la resistente fosse condannata a corrispondergli la somma di Euro 23.095,55 a titolo di saldo, oltre accessori, nonché di Euro 1.832,92 a titolo di rimborso spese; il tutto con il favore delle spese del procedimento.
Costituitasi, L.A. instava per il rigetto dell’avversa domanda o in subordine per la rideterminazione in minor misura dell’avversa pretesa.
Deduceva, tra l’altro, che aveva “provveduto all’integrale pagamento delle competenze dell’avv. D. per l’attività dallo stesso svolta” (così comparsa di costituzione nel procedimento ex art. 702 bis c.p.c., di L.A., pag. 2) ed eccepiva inoltre che il compenso ex adverso preteso, limitatamente all’attività professionale svolta negli anni 2010 – 2011, “si sarebbe ad oggi (…) prescritto in ossequioall’art. 2956 c.c.” (così comparsa di costituzione nel procedimento ex art. 702 bis c.p.c. di L.A., pag. 4).
Con ordinanza del 28.12.2015 il tribunale di Civitavecchia in composizione monocratica dichiarava l’inammissibilità del ricorso e compensava le spese.
Rilevava – il tribunale – che il ricorrente aveva prestato la propria attività professionale dinanzi al tribunale di Roma, alla corte d’appello di Roma ed al giudice di pace di Roma.
Indi evidenziava che a norma delD.Lgs. n. 150 del 2011,art.14, dovevano reputarsi competenti gli uffici di merito aditi per i processi nell’ambito dei quali il ricorrente aveva prestato la propria opera.
Dava atto infine che la resistente era residente in Roma.
Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per regolamento di competenza l’avvocato D.P.; ha chiesto dichiararsi la competenza del tribunale di Civitavecchia in composizione monocratica con ogni conseguente statuizione anche in ordine alle spese.
L.A. non ha svolto difese.
Il pubblico ministero ai sensi dell’art. 380 ter c.p.c., ha formulato conclusioni scritte.
Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 ter c.p.c., comma 2.
Col ricorso a questa Corte l’avvocato D.P. deduce che l’ordinanza impugnata è errata per violazione dell’art. 702 bis c.p.c. e ss..
Deduce che, contrariamente a quanto opinato dal tribunale, la disciplina di cui al D.Lgs. n. 150 del 2001, ha modificato unicamente il procedimento speciale camerale di cui allaL. n. 794 del 1942,artt.28e 55, ed ha lasciato inalterati il procedimento ordinario di cognizione ed il procedimento sommario di cognizione, procedimento, quest’ultimo, attivato nel caso di specie dinanzi al tribunale di Civitavecchia, nel cui circondario, in Cerveteri, risiede la L..
Deduce del resto che controparte, in virtù delle eccezioni sollevate, ha senz’altro ampliato il thema decidendum.
Deduce infine che il tribunale in composizione monocratica, in considerazione delle eccezioni sollevate dalla resistente, al più avrebbe dovuto ex art. 702 ter c.p.c., comma 3, tramutare il rito da sommario in ordinario.

Motivi della decisione
Il profilo della competenza a decidere le controversie di cui allaL. n. 794 del 1942,art.28, (così come riformulato dalD.Lgs. n. 150 del 2011,art.35, comma 16, lett. a)), ossia le controversie per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti dell’avvocato nei confronti del proprio cliente, controversie ora assoggettateD.Lgs. n. 150 del 2011, ex art. 14, al rito sommario di cognizione (nondimeno con devoluzione della potestas decidendi in unico grado – attesa l’inappellabilità della statuizione finale in forma di ordinanza – all’organo giudiziario competente in ogni caso in composizione collegiale e con possibilità per le parti di stare in giudizio personalmente), è strettamente correlato alla determinazione dell’ambito di operatività del peculiare rito sommario di cui, appunto, all’art. 14 cit..
Più esattamente la competenza, ex art. 14, comma 2, cit., dell'”ufficio giudiziario di merito adito per il processo nel quale l’avvocato ha prestato la propria opera” – nel caso di specie gli uffici giudiziari di Roma e non già di Civitavecchia – non può non “calibrarsi”, dilatandosi ovvero restringendosi, alla stregua ed in simmetria con la proiezione applicativa del rito “sommario” sui generis di cui allo stesso art. 14.
Ebbene, in rapporto alla sfera di operatività del rito ex art. 14 cit., si registrano antitetiche soluzioni esegetiche, differenti dicta in seno all’elaborazione di quest’ Organo della nomofilachia.
Segnatamente si rappresenta quanto segue.
Innanzitutto, che in epoca antecedente all’emanazione delD.Lgs. n. 150 del 2011, questo Giudice del diritto ha spiegato che, in tema di liquidazione degli onorari e diritti di avvocati, non è ammissibile il ricorso alla speciale procedura di cui allaL. n. 794 del 1942,artt.28e29, qualora la controversia non abbia ad oggetto soltanto la semplice determinazione della misura del compenso, ma si estenda inoltre ad altri oggetti d’accertamento e di decisione, quali i presupposti stessi del diritto al compenso, i limiti del mandato, la sussistenza di cause estintive o limitative della pretesa (cfr. Cass. 4.6.2010, n. 13640, ove si soggiungeva che, in tali evenienze, il procedimento ordinario attrae nella sua sfera, per ragioni di connessione, anche la materia propria del procedimento speciale e l’intero giudizio non può non concludersi in primo grado se non con un provvedimento che, quand’anche adottato in forma d’ordinanza, ha valore di sentenza e può essere impugnato con il solo mezzo dell’appello. Cfr., analogamente con riferimento al pregresso assetto normativo, Cass. 13.10.2014, n. 21554, secondo cui la speciale procedura di liquidazione dei compensi per le prestazioni giudiziali degli avvocati in materia civile, regolata dallaL. 13 giugno 1942, n. 794,art.28e ss., (“ratione temporis” vigenti), non è applicabile quando la controversia riguardi non soltanto la semplice determinazione della misura del corrispettivo spettante al professionista, bensì anche altri oggetti di accertamento e decisione, quali i presupposti stessi del diritto al compenso, i limiti del mandato, l’effettiva esecuzione delle prestazioni e la sussistenza di cause estintive o limitative della pretesa azionata, poiché il procedimento ordinario è il solo previsto e consentito per la definizione di tali questioni, sicché, in questo caso, l’intero giudizio deve concludersi con un provvedimento che, seppur adottato in forma di ordinanza, ha valore di sentenza, impugnabile unicamente con l’appello. Cfr. ancora Corte costituzionale 1.4.2014, n. 65, che, nel reputare infondata la questione di legittimità costituzionale delD.Lgs. n. 150 del 2011,art.3, comma 1, art.14, comma 2, impugnati, in riferimentoall’art. 76 Cost., nella parte in cui rispettivamente prevedono, per i procedimenti in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti degli avvocati, la competenza del tribunale in composizione collegiale e l’inconvertibilità nel rito ordinario, ha evidenziato che lo speciale procedimento camerale delineato dal legislatore del 1942 era ritenuto inammissibile nei casi in cui il thema decidendum avesse compreso questioni esulanti dalla mera determinazione del compenso).
Altresì, che il novello quadro normativo si delinea come di seguito.
IlD.Lgs. n. 150 del 2011,art.34, comma 16, merce il disposto della lett. a), ha così riformulato laL. n. 794 del 1942,art.28: “per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti nei confronti del proprio cliente l’avvocato, dopo la decisione della causa o l’estinzione della procura, se non intende seguire il procedimento di cuiall’art. 633 c.p.c.e ss., procede ai sensi delD.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150,art.14”.
IlD.Lgs. n. 150 del 2011,art.34, comma 16, merce il disposto della lett. b), ha espressamente abrogato la medesimaL. n. 794 del 1942,artt.29e30.
IlD.Lgs. n. 150 del 2011,art.14, al comma 1, così statuisce: “le controversie previste dallaL. 13 giugno 1942, n. 794,art.28, e l’opposizione proposta a normadell’art. 645 c.p.c., contro il decreto ingiuntivo riguardante onorari, diritti o spese spettanti ad avvocati per prestazioni giudiziali sono regolate dal rito sommario di cognizione, ove non diversamente disposto dal presente articolo”.
LaL. n. 69 del 2009,art.54, comma 4, lett. a), (recante delega al Governo per la riduzione e semplificazione dei procedimenti civili) dispone: “restano fermi i criteri di competenza, nonché i criteri di composizione dell’organo giudicante, previsti dalla legislazione vigente”.
Ulteriormente, che al cospetto del delineato quadro normativo si sono palesate le seguenti opzioni esegetiche.
Per un verso si è assunto che le controversie per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti dell’avvocato nei confronti del proprio cliente previste dallaL. n. 794 del 1942,art.28, – come risultante all’esito delle modifiche apportate dalD.Lgs. n. 150 del 2011,art.34, e dell’abrogazione della medesimaL. n. 794 del 1942,artt.29e30, – devono essere trattate con la procedura prevista dal suddettoD.Lgs. n. 150 del 2011,art.14, anche nell’ipotesi in cui la domanda riguardi l'”an” della pretesa, senza possibilità per il giudice adito di trasformare il rito sommario in rito ordinario o di dichiarare l’inammissibilità della domanda (cfr. Cass. 29.2.2016, n. 4002).
E nella medesima linea esegetica, “a sostegno dell’assunto della necessaria unicità del rito (quello speciale, disciplinato dalD.Lgs. n. 150 del 2011,art.14) con cui devono essere trattate le controversie aventi ad oggetto il credito per il compenso di prestazioni giudiziali rese da un avvocato in materia civile, involgano esse, o meno, l’accertamento dell’an debeatur” (così in motivazione Cass. 15.2.2017, n. 3993), si è specificato, tra l’altro, che “l’entrata in vigore delD.Lgs. n. 150 del 2011, ha marcato una forte discontinuità nel sistema (…), così da giustificare una revisione profonda dei paradigmi ermeneutici consolidatisi sotto la disciplina previgente” (così in motivazione Cass. 15.2.2017, n. 3993).
Per altro verso si è affermato, in linea di continuità con l’indirizzo giurisprudenziale correlato all’assetto normativo previgente, che “ilD.Lgs. n. 150 del 2011,art.14, ha inciso solo sul rito. Più esattamente devesi opinare nel senso che alla procedura di cui allaL. 13 giugno 1942, n. 794,art.28(…), ora assoggettata al rito sommario di cognizione (…), potrà farsi ricorso allorché si controverta unicamente in ordine al quantum del compenso spettante al professionista e non già allorché si controverta anche in ordine all’an della pretesa” (così in motivazione Cass. (ord.) 24.6.2016, n. 13175. In seno alla giurisprudenza di merito cfr. Trib. Mantova, 16.12.2014, Sito Il caso.it., secondo cui ilD.Lgs. n. 150 del 2011,art.14, ha inciso solo sul rito e deve ritenersi applicabile unicamente nell’ipotesi in cui si contro verta sul quantum del compenso spettante al professionista e non invece ove la vertenza riguardi anche l’an della pretesa, nel qual caso trovano applicazione le ordinarie regole del processo di cognizione che deve, pertanto, svolgersi avanti al giudice monocratico. Si veda anche Cass. 5.10.2015, n. 19873, secondo cui, in tema di liquidazione degli onorari di avvocato, ilD.Lgs. n. 150 del 2011,art.14, comma 4, dichiarando inappellabile l’ordinanza che definisce la proceduraL. n. 794 del 1942, ex art. 28, richiama i presupposti operativi di questa procedura speciale, sicchè l’ordinanza che statuisca sull'”an” del compenso e non solo sul “quantum” è impugnabile con l’appello e non col ricorso per cassazione).
Si giustifica dunque l’appello al Primo Presidente, perché valuti, ai sensidell’art. 374 c.p.c., comma 2, se disporre che questa Corte di legittimità pronunci al riguardo a sezioni unite.

P.Q.M.
si rimettono gli atti al Primo Presidente di questa Corte perché disponga – se reputa – che questo medesimo Giudice di legittimità pronunci a sezioni unite in ordine al presente ricorso.

Figli maggiorenni non autosufficienti: versamento diretto

Cass. civ. Sez. I, 17 maggio 2017, n. 12391
SENTENZA
sul ricorso 574/2015 proposto da:
S.R., elettivamente domiciliato in Roma, Via Orti della Farnesina n. 126, presso l’avvocato Stella Richter Giorgio, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati King Francesca, Nisivoccia Niccolò, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
P.P., elettivamente domiciliata in Roma, Via A. Mordini, n. 14, presso l’avvocato Guercio Giovanni, rappresentata e difesa dall’avvocato Colombo Benedetta, Oddi Paolo, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3349/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 23/09/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/03/2017 dal cons. LAMORGESE ANTONIO PIETRO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale CERONI Francesca, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale, rigetto dell’incidentale;
udito, per il ricorrente, l’Avvocato Stella Richter Giorgio che ha chiesto l’accoglimento;
udito, per la controricorrente, l’avvocato Guercio Giovanni, con delega orale, che si riporta.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Milano, con sentenza 23 settembre 2014, parzialmente riformando la sentenza impugnata, ha ridotto la misura dell’assegno divorzile dovuto da S.R. all’ex coniuge P.P., da Euro 10.000,00 a Euro 7.500,00 mensili, e l’ha confermata per quanto ancora interessa – nella parte in cui il primo giudice aveva posto a carico del S. un contributo di mantenimento di complessivi Euro 6000,00 per due figli. ( G. e C.), entrambi divenuti maggiorenni in corso di causa.
La Corte ha osservato che la P. era una musicista cinquantenne con redditi da lezioni, presumibilmente modesti, e nullatenente, mentre il S. era un affermato imprenditore immobiliarista e amministratore della società Irnerio con un cospicuo capitale, nonché titolare di azioni di altra società, e che il tenore di vita della coppia era elevato; che, tuttavia, l’assegno divorzile doveva essere ridotto, dovendosi considerare che Parte dei redditi dell’obbligato proveniva da quote modeste di eredità (un sesto dell’eredità paterna e un terzo di quella materna), che la P. usufruiva della casa coniugale e che egli si faceva carico del mantenimento di uno dei figli che studiava e viveva a Londra.
Avverso questa sentenza S. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui si è opposta la P. che ha proposto ricorso incidentale, affidato a un motivo. Il ricorrente ha presentato una memoria.

Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso il S. ha denunciato violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, succ. mod., per avere determinato l’assegno divorzile, la cui debenza in favore della P. non era contestata, senza indagare sul tenore di vita della coppia in costanza di matrimonio e senza dare alcun rilievo agli altri criteri indicati dalla legge per la quantificazione dell’assegno né all’importo a questo titolo concordato dalle parti in sede di separazione.
Il motivo è infondato, dovendosi escludere la necessità di una puntuale considerazione da parte del giudice di tutti, contemporaneamente e nella stessa misura, i parametri di riferimento indicati dallaL. 6 marzo 1987, n. 74,art.5, comma 6, ai fini della quantificazione dell’assegno divorzile, ben potendosi, come nella specie, valorizzare il criterio fondato sulle condizioni economiche delle parti, desumibili anche dal loro tenore di vita (Cass. n. 23574/2016, n. 2546/2014).
Segue nell’ordine logico l’esame del terzo motivo, con il quale il ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 337 septies c.c., per avere ritenuto dovuto alla ex coniuge il contributo di mantenimento per il figlio G., il quale però si era trasferito all’estero per motivi di studio, cessando la convivenza con la madre, sicché il contributo non era più dovuto, non sostenendo la madre costi per il suo mantenimento e non rilevando l’occasionale convivenza con il figlio nei periodi in cui egli rientrava in Italia; inoltre, il contributo, se dovuto, doveva essere corrisposto direttamente al figlio e non all’ex coniuge.
Il motivo è parzialmente fondato.
La sentenza impugnata, pur osservando che “la P. non ha contestato che egli (il S.) mantiene a Londra il figlio G. per gli studi; e questo, se non legittima l’esclusione dell’assegno in suo favore, dato che il giovane vive all’estero solo nel periodo scolastico, mentre trascorre i rimanenti periodi dell’anno con la madre, costituisce pur sempre una circostanza che va tenuta in considerazione nella fissazione del contributo in suo favore”, è tuttavia pervenuta alla conclusione che il contributo in favore dei figli “va mantenuto invariato”, a differenza dell’assegno divorzile (ridotto a Euro 7.500,00 mensili). Si tratta di una insanabile contraddizione che falsa l’applicazione dell’art. 337 septies c.c., che impone al giudice di rinvio di riesaminare la fattispecie.
Con riguardo alla questione delle modalità di pagamento del contributo in forma diretta al figlio, come richiesto dal ricorrente, o tramite versamento all’ex coniuge, come implicitamente ritenuto dalla Corte d’appello, si deve dare continuità all’orientamento secondo cui il genitore separato o divorziato tenuto al mantenimento del figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente e convivente con l’altro genitore, non può pretendere, in mancanza di una specifica domanda del figlio in sede giudiziaria, come nella specie, di assolvere la propria prestazione nei confronti di quest’ultimo anziché del genitore istante, non avendo egli alcuna autonomia nella scelta del soggetto nei cui confronti adempiere (Cass. n. 24316 e 25300 del 2013).
Restano assorbiti il secondo motivo, riguardante la determinazione del contributo di mantenimento in favore dei figli in misura superiore all’importo concordato in sede di separazione, e il ricorso incidentale sul governo delle spese processuali.
In conclusione, in relazione al motivo accolto, l’impugnata sentenza è cassata con rinvio alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese.

P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo del ricorso principale e accoglie il terzo; dichiara assorbito il secondo motivo del principale e il ricorso incidentale; in relazione al motivo accolto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.

Divorzio: convivenza more uxorio e perdita dell’assegno

Cass. civ. Sez. VI – 1, 22 maggio 2017, n. 12879
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
B.M., elettivamente domiciliato in Roma via Monte Zebio 30, presso l’avv. Gianmaria Cameici che lo rappresenta e difende, unitamente all’avv. Alberto Figone, giusta procura speciale in calce al ricorso, e dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo al fax n. 06/32600464 e alle p.e.c. giammariacammici(at)ordineavvocatiroma.org e alberto.figone(at)ordineavvgenova.it;
– ricorrente –
nei confronti di:
N.M., domiciliata in Roma, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avv. Nazzareno Siccardi, giusta procura speciale a margine del controricorso, che dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo presso la p.e.c. nazzareno.siccardi(at)ordineavvocatisv.it e il telefax n. 0182542205;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1/2014 della Corte di appello di Genova, emessa il 13 dicembre 2013 e depositata l’8 gennaio 2014, n. R.G. 515/2013.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
1. La controversia ha ad oggetto il diritto della N. a percepire l’assegno divorzile di 250 Euro mensili. Ritiene infatti il ricorrente che è illogica e contrastante con la giurisprudenza l’affermazione della Corte di appello che, nel disporre la corresponsione dell’assegno a carico del B., ha rilevato che la possibilità per la N. di ricevere assistenza materiale dal compagno P.R. è resa difficile dalla sua dichiarazione di fallimento pronunciata dal Tribunale di Savona nel maggio 2013. Ritiene infatti il ricorrente che, secondo una corretta e aggiornata interpretazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, deve ritenersi che l’instaurazione di una convivenza more uxorio elide ogni possibile connessione con il modello di vita precedente e fa venir meno i presupposti per il riconoscimento dell’assegno divorzile. Rileva inoltre il ricorrente che la sentenza della Corte di appello è censurabile anche sotto il profilo della ricognizione dei presupposti di cui all’art. 5 citato ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno come pure per ciò che concerne la regolamentazione delle spese processuali compensate per metà quanto ai due gradi del giudizio di merito e poste a carico dell’odierno ricorrente per la quota residua.
2. Si difende con controricorso N.M..
3. Il ricorrente deposita memoria difensiva.
Ritenuto che:
4. Il ricorso è manifestamente fondato alla luce della giurisprudenza di questa Corte (Cass. civ. sez. 1^ n. 6885/2015 e sez. 6^-1 n. 2466/2016) che ritiene cessata con l’instaurazione di una convivenza stabile e caratterizzata dalla relazione affettiva fra i conviventi la obbligazione di cui all’art. 5, per effetto della cessazione della solidarietà che caratterizza i rapporti fra gli ex coniugi dopo il divorzio.
5. Va pertanto accolto il primo motivo di ricorso con assorbimento del secondo relativo alla sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno divorzile. Alla cassazione della sentenza della Corte di appello può seguire la decisione nel merito di rigetto della domanda di assegno divorzile proposta dalla N..
6. Va invece respinto il terzo motivo di ricorso essendo la decisione sulle spese del giudizio di merito basata sulla parziale soccombenza del B. quanto alle domande relative al riconoscimento e alla quantificazione del contributo al mantenimento dei figli.
7. In relazione all’esito del giudizio e al recente mutamento della giurisprudenza di legittimità quanto alla questione controversa che ha costituito l’oggetto del primo motivo si ritiene di compensare interamente le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo motivo, e respinge il terzo motivo. Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda di assegno divorzile proposta da N.M.. Compensa le spese del giudizio di cassazione. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.

Assegni familiari: titolarità rapporto di lavoro del coniuge affidatario

Cass. civ. Sez. lavoro, 11 maggio 2017, n. 11569
SENTENZA
sul ricorso 27218-2011 proposto da:
I.N.P.S. ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, C.F. (OMISSIS) in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati ANTONIETTA CORETTI, EMANUELE DE ROSE, VINCENZO TRIOLO, VINCENZO STUMPO, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
L.M., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIOVANNI ANTONELLI 50, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELE TRIVELLINI, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 608/2011 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 01/08/2011, R.G.N. 1266/10;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/02/2017 dal Consigliere Dott. ROBERTO RIVERSO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato ANTONIETTA CORETTI;
udito l’Avvocato RAFFAELE TRIVELLINI.
Svolgimento del processo
Con sentenza 608/2011 la Corte d’Appello di Torino respingeva l’appello dell’INPS avverso la sentenza del tribunale che dichiarava il diritto di L.M. all’erogazione dell’assegno per il nucleo familiare per i figli V. e G. affidati alla madre in sede di separazione tra i coniugi.
A sostegno del decisum la Corte territoriale osservava che il coniuge separato non affidatario è titolare del diritto alla corresponsione dell’assegno in base alla lettera della L. 19 maggio 1975, n. 75, art. 211 ed alla luce della giurisprudenza di legittimità (SU 5135/1989).
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso l’INPS con un motivo corredato da memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c.. L.M. ha resistito con controricorso illustrato da memoria.
Motivi della decisione
1. Con il motivo proposto l’INPS allega la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 69 del 1988, art. 2 commi 2 e 6, convertito con modificazione dalla L. n. 153 del 1988, e L. 19 maggio 1975, n. 151, art. 211; in quanto al fine di accertare la spettanza del diritto occorreva considerare sia il tenore letterale della disposizione che si riferisce testualmente al “coniuge cui i figli sono affidati”, sia che la contraria interpretazione accolta dai giudici di merito non si armonizzava con la logica dell’assegno per il nucleo familiare di cui al D.L. n. 69 del 1988 sostitutivo della disciplina degli assegni familiari di cui al TU D.P.R. n. 567 del 1955.
2. Il motivo appare infondato alla luce dell’orientamento di questa Corte che il Collegio condivide pienamente e secondo cui la L. 19 maggio 1975, n. 151, art. 211, prevede che “il coniuge cui i figli sono affidati ha diritto in ogni caso a percepire gli assegni familiari per i figli, sia che ad essi abbia diritto per un suo rapporto di lavoro, sia che di essi sia titolare l’altro coniuge”.
3. La lettera della norma, contrariamente a quanto sostenuto dall’INPS, porta a ritenere che il coniuge affidatario dei figli, quando non possa percepire l’assegno in questione in virtù di un proprio rapporto di lavoro, ha diritto di percepirlo per il tramite di quello del genitore non affidatario.
4. Si tratta di un principio affermato nella sentenza delle Sez. Unite di questa Corte n. 5135/1989; poi ribadito con sentenze n.24204/2004 e 5060/2003; e di recente richiamato anche nella sentenza 6351/2015.
5. Le considerazioni sin qui svolte impongono dunque di rigettare il ricorso proposto dall’INPS avverso la sentenza impugnata che ha fatto buon governo delle regole di diritto applicabili alla fattispecie. Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna l’INPS al pagamento delle spese processuali liquidate in complessivi Euro 2200, di cui Euro 2000 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali ed oneri accessori.