REGOLAMENTO EUROPEO SULLE CAUSE MATRIMONIALI E SULLA RESPONSABILITÀ GENITORIALE

di Gianfranco Dosi
I Il Regolamento europeo n. 2201 del 2003
Il Regolamento n. 2201 del 2003 (relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento n. 1347/2000) costituisce il testo più significativo oggi in vigore nell’Unione europea in materia di controversie transfrontaliere nell’ambito del diritto di famiglia.
Il Regolamento è stato adottato dal Consiglio dell’Unione Europea (denominato in questo modo dal trattato di Lisbona del 2007) che è il Consiglio dei ministri europei (con sede a Bruxelles) e che detiene – insieme con il Parlamento europeo – il potere legislativo nell’ambito dell’Unione europea.
L’adozione nelle forme del Regolamento si spiega in quanto un trattato internazionale sarebbe esposto alle riserve di singoli Stati, viceversa il Regolamento (europeo) è, a differenza delle Diret¬tive, un atto generale a contenuto obbligatorio per tutti gli Stati membri e quindi potenzialmente idoneo ad una applicazione uniforme in tutta l’Unione europea.
Non è il primo Regolamento che si è occupato di questa materia. Nel 2000 era già stato adottato un Regolamento sulle cause matrimoniali e sulla responsabilità genitoriale (limitatamente, però, ai figli nati nel matrimonio). Si trattava del Regolamento n. 1347 (cosiddetto Bruxelles I) abrogato dal Regolamento del 2003 (cosiddetto Bruxelles II). Il grande numero di matrimoni misti tra cit¬tadini europei aveva da tempo posto in evidenza i problemi a livello comunitario relativi alla crisi dell’unione matrimoniale soprattutto con figli minori. Problemi che riguardano l’accertamento di quale sia il giudice competente a decidere, l’individuazione del diritto applicabile alle controversie e gli aspetti connessi al riconoscimento e all’eventuale esecuzione dei provvedimenti.
Il Regolamento n. 2201, che è in vigore dal 2004, si occupa (analogamente a quanto fanno nei sin¬goli Stati le norme di diritto internazionale privato relativamente ai rapporti con ordinamenti extra¬europei) di due aspetti, tutti nel settore civile: 1) l’individuazione della competenza giurisdizionale (indica cioè quali giudici sono competenti ad occuparsi della da cause matrimoniali e dei provve¬dimenti sulla responsabilità genitoriale, anche indipendentemente da qualsiasi nesso con le cause matrimoniali, inclusi le misure di protezione del minore) e quindi anche con riferimento ai figli nati fuori dal matrimonio (ampliandosi così il suo campo d’azione anche alle famiglie di fatto); 2) il rico¬noscimento e l’attuazione in uno Stato membro delle decisioni adottate in un altro Stato membro).
Relativamente alle decisioni di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio, il Regolamento si occupa soltanto delle decisioni potremmo dire sullo status e non riguarda i rapporti patrimoniali o altri eventuali provvedimenti accessori ed eventuali (per esempio l’addebito della separazione o il risarcimento dei danni). Gli atti pubblici e gli accordi (per esempio gli accordi di negoziazione assistita) aventi efficacia esecutiva in uno Stato membro sono equiparati alle “deci¬sioni” ai fini dell’applicazione delle norme sul riconoscimento e l’attuazione.
Il Regolamento non si applica ai diritti connessi alla filiazione, che sono questioni distinte dall’at¬tribuzione della responsabilità genitoriale. Come detto trova invece applicazione per le decisioni sulla responsabilità genitoriale anche relativamente alla filiazione fuori dal matrimonio e quindi nella famiglia di fatto.
Non si occupa, inoltre, di controversie o di provvedimenti di natura alimentare che sono espressa¬mente escluse dal campo di applicazione del Regolamento n. 2201/2003 in quanto già disciplinate dal Regolamento n. 44/2001 sebbene i giudici competenti ai sensi del Regolamento n. 2201/2003 siano gli stessi competenti a statuire in materia di obbligazioni alimentari. La giurisprudenza ha chiarito come la nozione di obbligo alimentare debba essere intesa in senso ampio, per lo più svincolata dalle indicazioni espresse a livello nazionale, comprendendo essa tutte le obbligazioni alimentari previste dal diritto civile, “indipendentemente dalla denominazione che esse assumono secondo la legge applicabile al merito della controversia” (Cass. civ. Sez. Unite 1 ottobre 2009, n. 21053; Cass. civ. Sez. Unite, 1 ottobre 2009, n. 21053).
Il Regolamento non si occupa di diritto sostanziale. Un diritto comune europeo non è stata finora materia di competenza di alcun Regolamento.
II Ambito di applicazione
a) I rapporti tra le giurisdizioni degli Stato europei
Innanzittuto è da precisare che secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza il Regolamento n. 2201/2003 si applica solo ai rapporti tra diverse giurisdizioni degli Stati dell’Unione Europea, regolando i conflitti tra queste giurisdizioni, non anche ai rapporti con le giurisdizione degli Stati esterni all’Unione, ai cui conflitti, anche se la causa verte tra cittadini dell’Unione, si applica l’art. 7 della legge n. 218 del 1995, con eventuale sospensione del giudizio interno sino alla definizione del previo giudizio estero (Cass. civ. Sez. Unite, 18 marzo 2016, n. 5420).
Vi è quindi differenza tra le norme sovranazionali contenute nei Regolamenti europei e le norme di diritto internazionale privato contenute nella legge 31 maggio 1995, n. 218. Queste ultime conti¬nuano ad applicarsi ai rapporti tra la giurisdizione italiana e quella di Stati extraeuropei.
Questa affermazione non contrasta con il fatto che il Regolamento n. 2201/2003 trova applicazione anche in caso di cittadinanza extraeuropea dei coniugi (residenti in uno Stato europeo) in quanto il criterio di collegamento prescelto dal Regolamento nell’attribuzione della competenza giurisdizio¬nale non è quello della cittadinanza, bensì della “residenza abituale” di uno o di entrambi i coniugi in uno Stato membro (Corte Giustizia Unione Europea, 29 novembre 2007; Trib. Belluno, 5 novembre 2010; Trib. Belluno, 6 marzo 2009).
La questione è ben chiara se si esamina anche solo l’art. 3 del Regolamento n. 2201 del 2013 che, riferendosi ai criteri di competenza, dichiara competenti le autorità giurisdizionali in cui risiede una persona, prescindendo dalla sua cittadinanza.
b) Le materie
Il Regolamento si applica, indipendentemente dal tipo di autorità giurisdizionale, alle materie civili relative:
1) al divorzio, alla separazione personale e all’annullamento del matrimonio (in particolare alle sole decisioni relative per così dire allo status e non al contenuto ampio delle cause matrimoniali.
2) all’attribuzione, all’esercizio, alla delega, alla revoca totale o parziale della responsabilità ge¬nitoriale. In particolare: a) il diritto di affidamento e il diritto di visita; b) la tutela, la curatela ed altri istituti analoghi; c) la designazione e le funzioni di qualsiasi persona o ente aventi la respon¬sabilità della persona o dei beni del minore o che lo rappresentino o assistano; d) la collocazione del minore in una famiglia affidataria o in un istituto; e) le misure di protezione del minore legate all’amministrazione, alla conservazione o all’alienazione dei beni del minore.
Viceversa il Regolamento non si applica: a) alla determinazione o all’impugnazione della filiazione; b) alla decisione relativa all’adozione, alle misure che la preparano o all’annullamento o alla revoca dell’adozione; c) ai nomi e ai cognomi del minore; d) all’emancipazione; e) alle obbligazioni alimen¬tari; f) ai trust e alle successioni; g) ai provvedimenti derivanti da illeciti penali commessi da minori.
L’art. 2 definisce la “responsabilità genitoriale” (utilizzando questa espressione poi entrata con la riforma del 2012 anche nel lessico giuridico del nostro diritto di famiglia al posto di “potestà dei genitori”) riferendosi con tale espressione ai “diritti e doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore”. L’espressione comprende, in particolare, il diritto di affidamen¬to (intendendo espressamente per tale i diritti e i doveri concernenti la cura della persona di un minore, in particolare il diritto di intervenire nella decisione riguardo al suo luogo di residenza) e il diritto di visita (intendendo per tale il diritto di condurre il minore in un luogo diverso dalla sua residenza abituale per un periodo limitato di tempo).
III Il giudice competente in materia di separazione, divorzio e annullamento del matrimonio
Ipotizziamo che un ragazzo italiano sposi una ragazza francese, che vengono ad abitare in Italia e che dopo alcuni anni, a causa di una crisi, intervenga la decisione di uno dei due di separarsi.
Quale sarà il giudice competente per la separazione?
Soccorre a tale proposito il fondamentale art. 3 (competenza generale) del Regolamento n. 2201/2003 il quale precisa che in materia di separazione, divorzio o annullamento del matrimo¬nio un coniuge che è cittadino e che risiede in uno Stato europeo può essere convenuto soltanto (quindi con carattere di esclusività: art. 6) o di fronte al giudice dello Stato di cui entrambi sono cittadini (cosa che non si verifica nell’esempio sopra fatto e che si verificherebbe se si trattasse di due cittadini per esempio italiani) oppure (in via alternativa):
– di fronte al giudice dello Stato nel cui territorio si trova la residenza abituale dei coniugi
– o l’ultima residenza abituale dei coniugi se uno di essi vi risiede ancora,
– o la residenza abituale del convenuto,
– o in caso di domanda congiunta, la residenza abituale di uno dei coniugi,
– o la residenza abituale dell’attore se questi vi ha risieduto almeno per un anno immediatamente prima della domanda,
– o la residenza abituale dell’attore se questi vi ha risieduto almeno per sei mesi immediatamente prima della domanda ed è cittadino dello Stato membro stesso.
Secondo quanto precisato da Cass. civ. Sez. Unite, 17 febbraio 2010, n. 3680 i parametri di cui all’art. 3 sono esclusivi ma anche alternativi, tale che ognuno di essi consente la individuazione del Giudice che può essere adito.
Per verificare, quindi, se il giudice di uno Stato ha competenza è sufficiente che si verifichi una delle ipotesi possibili indicate.
Nell’esempio sopra fatto della coppia di coniugi residente in Italia, formata da un ragazzo italiano e una ragazza francese, il giudice competente non potrà che essere quello italiano (giudice dello Stato nel cui territorio si trova la residenza abituale dei coniugi).
Se la moglie francese si fosse, invece, allontanata da casa e fosse tornata a vivere in Francia, il marito potrebbe proporre la separazione sempre di fronte al giudice italiano (in quanto essendo egli rimasto in Italia si tratta del “giudice dell’ultima residenza abituale dei coniugi se uno di essi vi risiede ancora”) ma la moglie, dopo essere rientrata in Francia, potrebbe anche lei instaurare il giudizio di separazione, davanti al giudice italiano quale “giudice di residenza abituale del conve¬nuto” oppure, nell’ipotesi in cui decidesse di chiedere la separazione dopo sei mesi dal suo rientro in Francia, potrebbe iniziarla davanti al giudice francese quale “giudice della residenza abituale dell’attore se questi vi ha risieduto almeno per sei mesi immediatamente prima della domanda ed è cittadino dello Stato membro stesso”.
Il che significa che, in caso di due coniugi di diversa cittadinanza, se uno dei decide di allontanarsi dalla residenza familiare e di tornare a risiedere nello Stato di cui è cittadino, è in condizioni di imporre all’altro il giudizio di separazione nel proprio Stato. Pertanto il coniuge italiano – nell’e¬sempio sopra fatto – avrebbe a disposizione sei mesi di tempo per presentare in Italia il ricorso di separazione. Ove trascorresse questo periodo, il coniuge francese, tornato da sei mesi in Francia, potrà proporre in Francia il giudizio di separazione, costringendo il coniuge italiano a subire il pro¬cesso in quello Stato.
Secondo quanto prevede l’art. 7 del Regolamento, qualora per ipotesi nessun giudice di uno Stato membro fosse competente in relazione ai criteri indicati (si pensi al caso in cui un cittadino france¬se ed uno italiano non abbiano mai avuto la residenza né in Francia né in Italia e il coniuge italiano si trasferisca in Italia chiedendo la separazione), la competenza, in ciascuno Stato membro, è determinata dalla legge di tale Stato (e cioè dalle norme di diritto internazionale privato di quello Stato). In Italia secondo la legge 31 maggio 1995, n. 218 avrebbe “competenza giurisdizionale” il giudice italiano secondo quanto stabilito nel suo articolo 3 (ambito della giurisdizione) che nell’ul¬tima parte richiama i criteri della competenza territoriale (nello specifico l’art. 18 c.p.c. che, in caso di convenuto residente all’estero, dichiara competente il giudice della residenza dell’attore).
Le norme di diritto internazionale privato troveranno applicazione anche quando ad invocarle sia il cittadino di uno Stato membro che ha la residenza abituale nel territorio di un altro Stato membro, contro un convenuto che non ha la residenza abituale nel territorio di uno Stato membro né ha la cittadinanza di uno Stato membro.
Va precisato che il Regolamento n. 2201/2003 trova applicazione anche in caso di cittadinanza extraeuropea dei coniugi in quanto il criterio di collegamento prescelto dal Regolamento nell’at¬tribuzione della competenza giurisdizionale non è quello della cittadinanza, bensì della “residenza abituale” di uno o di entrambi i coniugi in uno Stato membro (Corte Giustizia Unione Europea, 29 novembre 2007; Trib. Belluno, 5 novembre 2010; Trib. Belluno, 6 marzo 2009).
Per Cass. civ. Sez. Unite, 25 giugno 2010, n. 15328 la nozione di residenza abituale del coniu¬ge, di cui al Regolamento n. 2201/2003 fa riferimento non alla residenza formale o anagrafica ma al luogo del concreto e continuativo svolgimento dalla vita personale ed eventualmente lavorativa; nessuna rilevanza gioca al riguardo il fatto che saltuariamente, e anche per un periodo continuati¬vo, il coniuge abbia trascorso periodi presso la residenza all’estero dell’altro coniuge, ivi ricevendo anche corrispondenza e svolgendo attività di studio.
In caso di doppia cittadinanza il coniuge ha il diritto di presentare una domanda di divorzio dinanzi al giudice di uno o dell’altro dei due Stati membri di cui possiede la cittadinanza (Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 16 luglio 2009, n. 168/08)
IV Il giudice competente in materia di responsabilità genitoriale
a) Il criterio della residenza abituale del minore
Il Regolamento n. 2201/2003, ha avuto il merito di chiarire la nozione “europea” di responsabilità genitoriale. Infatti, dopo aver stabilito, all’art. 1, che l’ambito di applicazione del Regolamento si estende a tutti i procedimenti (di qualsiasi natura – anche non giurisdizionale in senso stretto – e davanti ad ogni autorità indicata come competente dagli Stati membri) relativi “all’attribuzione, all’esercizio, alla delega ed alla revoca totale o parziale della responsabilità genitoriale”, indipen¬dentemente dal fatto che i figli siano nati all’interno o fuori dal matrimonio, nell’art. 2 definisce la responsabilità genitoriale come “i diritti e i doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore”. A tale nozione vengono poi espressamente ricondotti sia il diritto di affida¬mento (diritti e doveri concernenti la cura della persona del minore), sia il diritto di visita (diritto di condurre il minore in luogo diverso dalla sua residenza abituale per un periodo di tempo limitato), mentre titolare della responsabilità genitoriale è considerata “qualsiasi persona che eserciti la re¬sponsabilità di genitore su un minore”.
Con riferimento al problema della competenza giurisdizionale, il Regolamento adotta il criterio della “residenza abituale”, così confermando l’orientamento di fondo, volto a ridurre il più possibile margini di ambiguità e conseguenti conflitti nell’applicazione delle norme. In particolare, per le domande relative alla responsabilità genitoriale è considerata competente l’autorità giurisdizionale dello Stato membro, nel cui territorio il minore risieda abitualmente (art. 8).
La ratio di questa scelta è stata finora continuativamente ribadita in primo luogo nella giurispru¬denza comunitaria (da ultimo, per esempio, in Corte giustizia Unione Europea, Sez. I, 15 febbraio 2017, n. 499/15 che chiarito ancora come il Regolamento sia stato elaborato con l’obiettivo di rispondere all’interesse superiore del minore e, a tal fine, esso privilegia il “criterio di vicinanza”. Il legislatore ha infatti ritenuto che il giudice geograficamente vicino alla residen¬za abituale del minore si trovi nella situazione più favorevole per valutare i provvedimenti da disporre nell’interesse del minore. Per questi motivi la competenza giurisdizionale appartiene quindi, anzitutto, ai giudici dello Stato membro in cui il minore risiede abitualmente, salvo ove si verifichi un cambiamento della sua residenza o in caso di accordo fra i titolari della responsabilità genitoriale. Ed è per questo che l’articolo 8 del regolamento n. 2201/2003 traduce tale obiettivo attribuendo una competenza generale alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui il minore ha la residenza abituale.
Se non c’è mai stata residenza in Italia del minore non vi è competenza del giudice italiano (Trib. Tivoli, 6 aprile 2011).
Il criterio della vicinanza – scelto dal Regolamento per la individuazione del giudice competente ad adottare decisioni in materia di responsabilità genitoriale – è stato precisato in una molteplice sequenza di sentenze.
Che significa residenza abituale del minore?
La risposta della giurisprudenza è molto chiara. Tra le tante ultimamente Cass. civ. Sez. Unite, 10 febbraio 2017, n. 3555 che precisa come per “residenza abituale” deve intendersi il luogo dove il minore trova e riconosce, anche grazie a una permanenza tendenzialmente stabile, il centro dei propri legami affettivi, non solo parentali, originati dallo svolgersi della sua vita di relazione. In altri termini, la residenza abituale corrisponde al luogo che denota una certa integrazione del minore in un ambiente sociale e familiare, e, ai fini del relativo accertamento, rilevano una serie di circostanze che vanno valutate in relazione alla peculiarità del caso concreto: la durata, la re¬golarità e le ragioni del soggiorno nel territorio di uno Stato membro, la cittadinanza del minore, la frequenza scolastica e, in generale, le relazioni familiari e sociali. Per Cass. civ. Sez. Unite, 7 settembre 2016, n. 17676 e Cass. civ. Sez. Unite, 13 febbraio 2012, n. 1984 la residen¬za abituale del minore al momento della domanda va inteso il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale, e non quello risultante da un calcolo puramente aritmetico del vissuto. Secondo Cass. civ. Sez. Unite, 28 maggio 2014, n. 11915 la residenza abituale va individuata sulla base di criteri oggettivi e il trasferimento del minore non è idoneo a radicare la competenza del tribunale di destinazione, nel caso in cui sia trascorso un lasso di tempo minimo non apprezzabile, tenuto conto dell’età del fanciullo.
La nozione di residenza abituale è stata approfondita anche in sede europea. Per esempio per Corte giustizia Unione Europea Sez. I, 22 dicembre 2010, n. 497/10 la nozione deve essere interpretata nel senso che tale residenza corrisponde al luogo che denota una certa integrazione del minore in un ambiente sociale e familiare (A tal fine, e laddove si tratti della situazione di un neonato che soggiorna con la madre solo da pochi giorni in uno Stato membro – diverso da quello della sua residenza abituale – nel quale è stato portato, devono essere presi in considerazione, da un lato, la durata, la regolarità, le condizioni e le ragioni del soggiorno nel territorio di tale Stato membro nonché del trasferimento della madre in detto Stato e, d’altro lato, tenuto conto dell’età del minore, l’origine geografica e familiare della madre nonché i rapporti familiari e sociali che madre e minore intrattengono con quello stesso Stato membro. È compito del giudice nazionale determinare la residenza abituale del minore tenendo conto di tutte le circostanze di fatto specifi¬che di ciascuna fattispecie). Secondo Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 02/04/2009, n. 523/07 la nozione di “residenza abituale”, dev’essere interpretata nel senso che tale residenza corrisponde al luogo che denota una certa integrazione del minore in un ambiente sociale e fami¬liare. A tal fine, si deve in particolare tenere conto della durata, della regolarità, delle condizioni e delle ragioni del soggiorno nel territorio di uno Stato membro e del trasloco della famiglia in tale Stato, della cittadinanza del minore, del luogo e delle condizioni della frequenza scolastica, delle conoscenze linguistiche nonché delle relazioni familiari e sociali del minore nel detto Stato. Com¬pete al giudice nazionale stabilire la residenza abituale del minore, tenendo conto delle peculiari circostanze di fatto che caratterizzano ogni caso di specie.
Ove il minore trasferisca lecitamente la propria residenza abituale in un altro Stato membro, ma il titolare del diritto di visita continui a risiedere abitualmente nello Stato membro della precedente residenza abituale, le autorità giurisdizionali di quest’ultimo Paese continuano ad essere compe¬tenti per un periodo di tre mesi dal trasferimento, nei procedimenti volti a modificare una decisione sul diritto di visita, salvo che detto titolare del diritto di visita abbia accettato la competenza della autorità giurisdizionali del nuovo Stato membro di residenza, “partecipando ai procedimenti dinan¬zi ad esse senza contestarla” (art. 9).
L’individuazione del giudice competente in materia di responsabilità genitoriale è quindi effettuata dall’art. 8 del Regolamento attraverso la previsione della competenza del giudice dello Stato in cui il minore risiede abitualmente alla data in cui viene richiesto il provvedimento.
Qualora non sia possibile stabilire la residenza abituale del minore sono competenti i giudici dello Stato membro in cui si trova il minore (art. 13 del Regolamento).
Fanno eccezione alla regola della competenza del giudice della residenza abituale quattro casi:
Il trasferimento lecito (art. 9)
Il primo caso di deroga al principio della competenza fondata sulla residenza abituale del minore è quello del lecito trasferimento della residenza di un minore da uno Stato membro ad un altro in cui la competenza delle autorità giurisdizionali dello Stato membro della precedente residenza abituale del minore permane per un periodo di 3 mesi dal trasferimento (cosiddetta ultrattività della competenza) limitatamente ai procedimenti per modificare una decisione sul diritto di visita, purché il titolare del diritto di vista continui a risiedere in detto Stato, e salvo che egli abbia accet¬tato la competenza delle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui è andato a risiedere il minore partecipando ai procedimenti dinanzi ad esse senza contestarla.
Il trasferimento illecito (art. 10)
Il secondo caso di deroga è quello del trasferimento illecito o mancato rientro del minore, in cui l’autorità giurisdizionale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale imme¬diatamente prima del trasferimento o del mancato rientro conserva la competenza giurisdizionale fino a che il minore non abbia acquisito la residenza in un altro Stato membro. Questa attribuzione di competenza finisce quando il titolare del diritto di affidamento abbia accettato il trasferimento o quando sia trascorso un anno dal trasferimento stesso senza che siano presentate istanze di rientro.
La proroga della competenza (art. 12)
Il terzo caso di deroga è quello della cosiddetta proroga della competenza (cioè della competenza per attrazione) in cui il giudice si occupa della separazione o del divorzio dei coniugi che hanno figli e in cui conseguentemente (per forza attrattiva) il Regolamento gli attribuisce la competenza ad occuparsi anche della responsabilità genitoriale. Quindi al giudice della separazione e del divorzio è attribuita per attrazione anche la competenza ad emettere decisioni sui figli (se almeno uno eserciti effettivamente la responsabilità genitoriale) sempre che il genitore convenuto ritenga di accettare tale competenza e questa sia ritenuta conforme all’interesse del minore. È quindi una ipotesi di attrazione sostanzialmente per accordo delle parti. Queste precisazioni sono contenute nell’art. 12 del Regolamento e sono state ribadite da Cass. civ. Sez. Unite, 7 settembre 2016, n. 17676 in una vicenda in cui la moglie inglese non aveva accettato la competenza giurisdizionale del giudice italiano in ordine alla responsabilità genitoriale in una causa di separazione intentata in Italia dal marito e in cui è stato ribadito il principio che la giurisdizione del giudice italiano va negata rispet¬to alle domande inerenti l’affidamento ed il mantenimento del figlio delle parti [stante la mancata accettazione dell’appellante e il superiore interesse del minore], in quanto devolute in via esclusiva alla competenza del giudice, ove il minore è stabilmente residente. Con la sentenza in questione, le Sezioni Unite della Cassazione non hanno, quindi, negato rilevanza (come dalla lettura della sola massima si potrebbe dedurre) alla connessione fra domande relative alla separazione di coniugi e all’affidamento e mantenimento dei figli minori. Si legge, infatti, nella sentenza che, “alla luce delle chiare prescrizioni contenute negli artt. 3, 8 e 12, del Regolamento, deve ritenersi che sulle domande diverse da quella di separazione giudiziale contenute nel ricorso vi fosse la giurisdizione del giudice inglese, in quanto la proroga per quella di separazione personale non poteva estendersi a quelle rela¬tive all’affidamento del figlio ed al suo mantenimento stante la mancata accettazione dell’appellante e il superiore interesse del minore”. Effettivamente nella vicenda la madre non aveva accettato la giurisdizione del giudice italiano su tutte le domande proposte dal marito. Il che vuol dire che ove vi fosse stata accettazione della competenza giurisdizionale e questa fosse stata valutata conforme all’interesse del minore i giudici avrebbero ritenuto la competenza giurisdizionale del giudice italiano.
L’accettazione della competenza giurisdizionale espressa in una causa di separazione non può va¬lere ai fini della attrazione della competenza al giudice dello Stato non di residenza del minore nel successivo giudizio di modifica delle condizioni affidamento (Cass. civ. Sez. Unite, 5 giugno 2017, n. 13912 sia perché quest’ultimo è un nuovo giudizio, sia perché il criterio di attribuzione della giurisdizione fondato sulla residenza abituale, dettato nell’interesse superiore del minore as¬sume una pregnanza tale da comportare l’esclusione della validità del pregresso consenso del geni¬tore alla proroga della giurisdizione. In questo caso torna a valere il criterio della residenza abituale.
Conforme al principio che l’attrazione della competenza al giudice della separazione si fonda sull’in¬teresse del minore è anche la decisione di Corte giustizia Unione Europea, Sez. I, 15 febbraio 2017, n. 499/15 secondo cui i giudici dello Stato membro che hanno adottato una decisione passata in giudicato in materia di responsabilità genitoriale e di obbligazioni alimentari riguardanti un figlio minore non sono più competenti a pronunciarsi su una domanda di modifica dei provvedi¬menti adottati con tale decisione, qualora in quel momento la residenza abituale del minore si trovi nel territorio di un altro Stato membro. La competenza a pronunciarsi su tale domanda spetta ai giudici di quest’ultimo Stato membro.
La proroga della competenza per accordo degli interessati (art. 12, paragrafo 3)
L’ultimo caso di deroga al principio della competenza fondata sulla residenza abitale del minore è la proroga – cioè l’attrazione ad altra causa – che si può verificare in relazione a “procedimenti diversi” da quelli di separazione, divorzio e annullamento del matrimonio. Lo afferma il paragrafo 3 dell’art. 12 il quale prescrive che le autorità giurisdizionali di uno Stato membro sono competenti in materia di responsabilità dei genitori in “procedimenti diversi” da quelli di separazione, divorzio e annullamento se a) il minore ha un legame sostanziale con quello Stato membro, in particolare perché uno dei titolari della responsabilità genitoriale vi risiede abitualmente o perché è egli stesso cittadino di quello Stato e b) la loro competenza è stata accettata espressamente o in qualsiasi altro modo univoco da tutte le parti al procedimento alla data in cui le autorità giurisdizionali sono adite ed è conforme all’interesse superiore del minore. L’interpretazione che di questo paragrafo ha dato Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 12 novembre 2014, n. 656/13 è nel senso che, nell’impossibilità evidentemente di indicare quali possano essere questi “procedimenti diversi” l’articolo 12, paragrafo 3, del regolamento deve essere interpretato nel senso che esso consente, ai fini di un procedimento in materia di responsabilità genitoriale, di fondare la competenza di un giudice di uno Stato membro diverso dallo Stato di residenza abituale del minore pur se dinanzi al giudice prescelto non è pendente alcun altro procedimento.
Il consenso di genitori alla proroga deve essere espresso e non può consistere nella mancata con-testazione della competenza (Cass. civ. Sez. Unite, 30 dicembre 2011, n. 30646)
Naturalmente la competenza a favore di un giudice di uno Stato membro investito del procedi¬mento dai titolari della responsabilità genitoriale, viene meno con la pronuncia di una decisione definitiva nel contesto di tale procedimento (Corte giustizia Unione Europea Sez. II, 1 ottobre 2014, n. 436/13)
b) Il trasferimento della competenza ad altro giudice
L’art. 15 del regolamento – intitolato “Trasferimento delle competenze a una autorità giurisdiziona¬le più adatta a trattare il caso” consente in via eccezionale all’autorità giurisdizionale di uno Stato membro competente a conoscere del merito, di interrompere la trattazione di un procedimento e di invitare le parti a presentare domanda all’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro (in tal caso l’autorità giurisdizionale fissa un termine entro il quale le autorità giurisdizionali dell’altro Stato membro devono essere adite; decorso inutilmente tale termine, la competenza continua ad essere esercitata dall’autorità giurisdizionale preventivamente adita) oppure di chiedere di¬rettamente all’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro di assumere la competenza sul procedimento, qualora ritenga che l’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore abbia un legame particolare (per esempio la precedente residenza abituale o la residenza dei genitori o dello Stato di cui è cittadino), sia più adatta a trattare il caso o una sua parte speci¬fica e ove ciò corrisponda all’interesse superiore del minore.
Il trasferimento della causa può anche essere effettuato su iniziativa su richiesta dell’autorità giu-risdizionale di un altro Stato membro ma soltanto se esso è accettato da almeno una delle parti in causa.
Secondo Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 27 ottobre 2016, n. 428/15 poiché le nozioni di autorità giurisdizionale “più adatta” e di “interesse superiore del minore” non sono defi¬nite da alcun’altra disposizione del Regolamento, occorre interpretarle tenendo conto del contesto nel quale si collocano e degli obiettivi perseguiti dal Regolamento. Nel contesto del Regolamento n. 2201/2003, la considerazione dell’interesse superiore del minore è volta a garantire il rispetto dei diritti fondamentali del bambino, come si evince dal considerando 33 di tale regolamento. Per poter stabilire che un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore ha un legame particolare è più adatta, il giudice competente di uno Stato membro deve accertarsi che il trasferimento del caso a detta autorità giurisdizionale sia idoneo ad apportare un valore aggiunto reale e concreto al trattamento dello stesso, in particolare tenendo conto delle norme di procedura applicabili in detto altro Stato membro; ed inoltre che tale trasferimento non rischi di ripercuotersi negativamente sulla situazione del minore.
La ratio del trasferimento di competenza è stata rinvenuta nel solo interesse del minore (Trib. Vercelli, 18 dicembre 2014; Trib. Milano, 11 febbraio 2014).
Secondo Cass. civ. Sez. Unite, 7 settembre 2016, n. 17676 la regola del trasferimento a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro sancita all’articolo 15, costituisce una regola di competenza speciale e derogatoria rispetto a quella di competenza generale enunciata all’articolo 8, cosicché essa deve essere interpretata restrittivamente.
V Competenza o giurisdizione? Questioni processuali
Si parla nel Regolamento non di giurisdizione ma di competenza (vista nell’ambito dei rapporti tra Stati dell’Unione europea, esattamente come all’interno di uno Stato si parla di competenza fun¬zionale e territoriale). E così, come si è visto, si indica quale sia il giudice “competente” a trattare una separazione (per esempio quello del foro della residenza comune) o il giudice “competente” ad emettere un provvedimento sulla responsabilità genitoriale (il giudice della residenza abitua¬le del minore). Le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea parlano tutte di giudice “competente”.
Nelle decisioni, invece, interne al nostro Stato la giurisprudenza parla di giurisdizione (e spesso sa-lomonicamente di “competenza giurisdizionale”), essendo orientata a ritenere le questioni relative alla competenza del giudice italiano o di quello straniero come questioni di giurisdizione. Il che è comprensibile. Noi ci chiediamo se il giudice italiano può occuparsi di questa o quella vicenda; se ha cioè giurisdizione. Noi consideriamo i Regolamenti europei come trattati tra Stati – nell’ottica, quindi, più del diritto internazionale che di quello sovranazionale – e facciamo applicazione quindi dello stesso lessico giuridico utilizzato dalla legge 31 maggio 1995, n. 218 che delinea certamente l’ambito della giurisdizione italiana rispetto a quella di altri Stati (art. 1 della legge 218/95).
Una decisione in passato sembrava avesse dato le coordinate giuste per impostare questo problema. Si tratta di Cass. civ. Sez. Unite, 29 gennaio 2001, n. 37 che, nell’esaminare l’eccezione secondo la quale l’accertamento della litispendenza internazionale non darebbe luogo ad una questione di giu¬risdizione e non consentirebbe perciò la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione (ex art. 41 c.p.c.), affermava che la Corte ha sempre sostenuto che il giudice italiano, prima di pronun¬ciare sulla propria giurisdizione in presenza di domande proposte dinanzi al giudice di un altro Stato contraente, deve innanzi tutto accertare se sussista l’eccepita litispendenza, tenendo conto della più ampia accezione di tale nozione come elaborata dalla Corte di Giustizia europea e, in caso afferma¬tivo, dopo aver riscontrato che il giudice preventivamente adito è quello dell’altro Stato contraente, deve sospendere il procedimento in attesa che la competenza dell’altro giudice sia stata accertata con sentenza definitiva. Ne consegue che la litispendenza internazionale, prima dell’accertamento definitivo della competenza del giudice preventivamente adito, dà luogo solo ad un’ipotesi di sospen¬sione necessaria del processo e non pone alcun problema di giurisdizione, sicché è inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione proposto nel corso del giudizio instaurato dinanzi al giudice italiano, salvo restando il rimedio del regolamento necessario di competenza avverso il provvedimen¬to con il quale il giudice italiano abbia dichiarato la sospensione necessaria del processo.
Secondo questa impostazione quindi le questioni di litispendenza previste nei Regolamenti europei (relative cioè alla contemporanea pendenza della causa davanti al giudice italiano e al giudice di altro Stato) non sarebbero questioni di giurisdizione ma di competenza e potrebbero perciò dare luogo soltanto alla sospensione o meno della causa successivamente instaurata.
Ora la nostra giurisprudenza certamente ammette che di fronte al provvedimento di sospensione disposto dal giudice italiano (adito successivamente a quello dello Stato estero) – ma non di quello che nega la sospensione – sia esperibile (soltanto) il regolamento necessario di competenza ex art. 42 c.p.c. 1, così come ammette pacificamente che la questione della competenza possa essere oggetto ovviamente anche di impugnazione e che avverso la decisione della Corte d’appello sia ammissibile il ricorso per cassazione ordinario per violazione di legge regolativa della competenza. Tuttavia la nostra giurisprudenza nell’ambito delle materie oggetto dei Regolamenti europei non solo ammette naturalmente il ricorso per cassazione per ragioni di giurisdizione (art. 362, primo comma, c.p.c.) ma anche il regolamento preventivo di giurisdizione (art. 41 c.p.c.) sul presup¬posto che il rinvio fatto dall’art. 412 all’art. 373 (in cui con la legge 18 giugno 2009 n. 69 è stato cancellato il secondo comma che prevedeva il regolamento di giurisdizione per difetto di giurisdi¬zione del giudice italiano nei confronti dello straniero) non abbia fatto venir meno la possibilità di esperire il regolamento di giurisdizione nel corso del giudizio di primo grado per questioni relative alla sussistenza o meno della giurisdizione italiana nei confronti di soggetti stranieri (Cass. civ. Sez. Unite, 1 febbraio 1999, n. 6; Cass. civ. Sez. Unite, 21 maggio 2004, n. 9802).
Ciò è avvenuto anche con riguardo al Regolamento n. 2201/2003 dove le Sezioni Unite sono state chiamate in causa da un regolamento preventivo di giurisdizione (per esempio da ultimo Cass. civ. Sez. Unite, 18 marzo 2016, n. 5420; Cass. civ. Sez. Unite, 5 giugno 2017, n. 13912) o in seguito a ricorsi ordinari avverso decisioni di Corte d’appello per questioni attinenti alla giuri¬sdizione (per esempio da ultimo Cass. civ. Sez. Unite, 10 febbraio 2017, n. 3555; Cass. civ. Sez. Unite, 7 settembre 2016, n. 17676).
Concludendo si può dire che le questioni concernenti la distribuzione di competenza tra giudici dell’Unione europea si atteggiano come questioni di competenza viste nel contesto europeo, men¬tre sono considerate questioni di giurisdizione viste dall’angolo visuale dell’ordinamento italiano rendendo esperibili sia i rimedi del ricorso per cassazione ordinario per motivi attinenti alla giuri¬sdizione (di competenza delle Sezioni unite ex art. 374 primo comma c.p.c che rinvia all’art. 362 primo comma), sia il rimedio del regolamento preventivo di giurisdizione ex art. 41 c.p.c di compe¬tenza delle Sezioni Unite), ma anche il regolamento necessario di competenza avverso l’ordinanza di sospensione del processo (art. 42) per motivi attinenti alla litispendenza internazionale, nonché il ricorso per cassazione ordinaria per tutti i motivi di cui all’art. 360 e quindi anche per violazione di legge in relazione alla distribuzione della competenza giurisdizionale stabilita dai Regolamenti..
VI L’esame della competenza, la connessione e la litispendenza
a) La dichiarazione di incompetenza
Secondo quanto dispongono l’art. 17 e 18 del Regolamento l’autorità giurisdizionale di uno Stato membro, investita di una controversia per la quale il Regolamento non prevede la sua competenza e per la quale è, invece, competente l’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro, deve di¬chiarare d’ufficio la propria incompetenza.
Se la persona che ha la residenza abituale in uno Stato diverso dallo Stato membro in cui l’azione è stata proposta non compare, l’autorità giurisdizionale competente è tenuta a sospendere il proce¬dimento fin quando non si sarà accertato che al convenuto è stata data la possibilità di ricevere la domanda giudiziale o un atto equivalente in tempo utile perché questi possa presentare le proprie difese, ovvero che è stato fatto tutto il possibile a tal fine.
b) La sospensione del processo per litispendenza
L’art. 19 si occupa della questione cruciale relativa al caso in cui in due Stati differenti siano pen¬denti due procedimenti tra le stesse parti.
Si prevede che qualora dinanzi ad autorità giurisdizionali di Stati membri diverse e tra le stesse parti siano state proposte domande di divorzio, separazione personale dei coniugi e annullamento del matrimonio, l’autorità giurisdizionale successivamente adita sospende d’ufficio il procedimento finché non sia stata accertata la competenza dall’autorità giurisdizionale preventivamente adita.
Si deve considerare che la disciplina della litispendenza e della connessione contenuta nei primi due paragrafi dell’art. 11 del precedente Regolamento n 1347 del 2000 4 prevedeva la litispenden¬

1 Art. 42 c.p.c. (Regolamento necessario di competenza)
L’ordinanza che, pronunciando sulla competenza anche ai sensi degli articoli 39 e 40 non decide il merito della causa e i provvedimenti che dichiarano la sospensione del processo ai sensi dell’art. 295 possono essere impu¬gnati soltanto con istanza di regolamento di competenza.
2 Art. 41 c.p.c. (Regolamento di giurisdizione)
1. Finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte può chiedere alle Sezioni Unite della Corte di cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione di cui all’art. 37. L’istanza si propone con ricorso a norma degli articoli 364 e seguenti e produce gli effetti di cui all’art. 367.
Art. 37 c.p.c. (Difetto di giurisdizione)
Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo.
Articolo 11, paragrafi 1 e 2, del Regolamento 29 maggio 2000, n. 1347
Qualora dinanzi a giudici di Stati membri diversi e tra le stesse parti siano state proposte domande aventi il medesimo oggetto ed il medesimo titolo, il giudice successivamente adito sospende d’ufficio il procedimento finché non sia stata accertata la competenza del giudice preventivamente adito.

za (e quindi la sospensione del giudizio successivamente instaurato) solo tra cause tra le stesse parti ma aventi lo stesso oggetto e lo stesso titolo (cioè litispendenza tra due cause di separazio¬ne, ovvero tra due cause di divorzio). Viceversa oggi (avendo il testo dell’art. 19 eliminato l’inciso “aventi il medesimo oggetto e il medesimo titolo”) la sospensione del procedimento successiva¬mente instaurato avviene anche se vi è pendenza tra una causa di separazione ed una di divorzio.
Si tratta, come è stato detto, di una nozione di litispendenza “sostanzialistica” (App. Catania, 21 luglio 2011) perché fa riferimento non al dato formale del petitum e della causa petendi (diversi tra quei procedimenti) ma al fatto che si tratti di procedimenti in sostanza concernenti il matri¬monio.
Correttamente lo ha fatto notare anche Tribunale di Milano, Sez. IX, 24 febbraio 2017) precisando che ai fini dell’applicazione dell’art. 19 del Regolamento n. 2201/2003, in tema di liti¬spendenza internazionale in materia matrimoniale, non è necessario che vi sia l’identità di titolo e oggetto tra le domande proposte dinanzi a giudici di Stati membri diversi: infatti le due cause pos¬sono avere oggetto distinto, purché vertano comunque sulla separazione personale, sul divorzio o sull’annullamento del matrimonio. Sussiste perciò – ha concluso il tribunale – una situazione di litispendenza internazionale nel caso siano proposte dinanzi ad autorità giurisdizionali di due Stati dell’Unione Europea una domanda di divorzio e una di separazione personale.
c) La sospensione del processo per connessione
qualora dinanzi a autorità giurisdizionali di Stati membri diversi siano state proposte domande sul¬la responsabilità genitoriale su uno stesso minore, aventi il medesimo oggetto e il medesimo titolo, l’autorità giurisdizionale successivamente adita sospende d’ufficio il procedimento finché non sia stata accertata la competenza dell’autorità giurisdizionale preventivamente adita.
Quando la competenza dell’autorità giurisdizionale preventivamente adita è stata accertata, l’au¬torità giurisdizionale successivamente adita dichiara la propria incompetenza a favore dell’autorità giurisdizionale preventivamente adita.
In tal caso la parte che ha proposto la domanda davanti all’autorità giurisdizionale successivamen¬te adita può promuovere l’azione dinanzi all’autorità giurisdizionale preventivamente adita.
Deve precisarsi che in base a quanto dispone espressamente l’art. 16 del Regolamento l’autorità giurisdizionale si considera adita alla data in cui la domanda giudiziale o un atto equivalente (per esempio un ricorso) è depositato, “purché successivamente l’attore non abbia omesso di prendere tutte le misure cui era tenuto affinché fosse effettuata la notificazione al convenuto” oppure, se l’atto deve essere notificato prima di essere depositato presso l’autorità giurisdizionale, alla data in cui l’autorità competente ai fini della notificazione lo riceve, “purché successivamente l’attore non abbia omesso di prendere tutte le misure cui era tenuto affinché l’atto fosse depositato pres¬so l’autorità giurisdizionale”. Quindi il deposito o la notifica non sono sufficienti occorrendo che il procedimento venga coltivato per l’instaurazione del contraddittorio.
d) L’adozione di provvedimenti di urgenza
L’art. 20 del Regolamento consente in casi d’urgenza alle autorità giurisdizionali di uno Stato mem¬bro di adottare i provvedimenti provvisori o cautelari previsti dalla legge interna, relativamente alle persone presenti in quello Stato o ai beni in esso situati, anche se, a norma Regolamento, sarebbe competente a conoscere nel merito l’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro.
I provvedimenti adottati cessano di essere applicabili quando l’autorità giurisdizionale dello Stato membro competente abbia adottato i provvedimenti ritenuti appropriati (Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre2009, n. 22093).
È, dunque, possibile, in caso di urgenza, un intervento del giudice per regolare il diritto di visita di un minore figlio di genitori non italiani, ma residente in territorio italiano (Trib. Varese, 4 ottobre 2010).
Stando a quanto precisato da Corte giustizia Unione Europea Sez. II, 15 luglio 2010, n. 256/09 e Corte giustizia Unione Europea, 23 dicembre 2009, n. 403/09 il sistema di ri¬conoscimento e di esecuzione delle decisioni predisposto dagli articoli 21 e seguenti del Regola¬mento – di cui si dirà più oltre – non si applica a provvedimenti provvisori, in materia di diritto di affidamento, rientranti nell’art. 20 di detto regolamento. Perché, però, tali provvedimenti siano validi deve esserci il rispetto delle condizioni stabilite dall’art. 20 del Regolamento, vale a dire: 1) i provvedimenti considerati devono essere urgenti; 2) essi devono essere disposti nei confronti di persone situate o di beni presenti nello Stato membro di tali autorità giurisdizionali, e 3) devono avere natura provvisoria.
Mentre secondo Trib. Minorenni Milano, 5 febbraio 2010 l’art. 20 del Regolamento consen¬tirebbe al giudice di uno Stato membro di adottare un provvedimento provvisorio e urgente in materia di responsabilità genitoriale inteso per esempio a concedere a un genitore l’affidamento di un minore che si trova nel territorio di tale Stato, anche nel caso in cui il giudice di un altro Stato membro abbia già emesso una decisione che affida provvisoriamente il minore all’altro genitore e
2. Qualora dinanzi a giudici di Stati membri diversi e tra le stesse parti siano state proposte domande relative al divorzio, alla separazione personale o all’annullamento del matrimonio non aventi il medesimo oggetto e il me¬desimo titolo, il giudice successivamente adito sospende d’ufficio il procedimento finché non sia stata accertata la competenza del giudice preventivamente adito.

tale decisione sia stata dichiarata esecutiva nel territorio del primo Stato membro, secondo Corte giustizia Unione Europea, 23 dicembre 2009, n. 403/09 nel caso in cui un giudice di uno Sta¬to membro abbia già emesso una decisione che affida provvisoriamente un minore a uno dei suoi genitori, dichiarata esecutiva nel territorio di un altro Stato membro, non è consentito a un giudice di questo secondo Stato adottare un provvedimento provvisorio inteso a concedere l’affidamento del minore che si trova nel territorio di tale Stato all’altro genitore.
VII Il trasferimento illecito del minore
a) L’articolo 11 del Regolamento
La norma di contrasto all’illecito trasferimento di un minore dalla sua residenza abituale è l’articolo 11 del Regolamento, intitolata “ritorno del minore”.
Come si sa il trasferimento illecito dei minori è disciplinato dalla Convenzione dell’Aja del 25 otto¬bre 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori. Ebbene l’art. 11 del Regola¬mento richiama per i rapporti tra Stati europei questa Convenzione (in vigore per gli Stati firmatari – tra cui l’Italia – anche, naturalmente, nei rapporti con Stati extraeuropei).
Per la legge italiana, la sottrazione e il trattenimento di un minore all’estero costituiscono un delitto punito con la reclusione da uno a quattro anni (articolo 574 bis codice penale).
L’art. 11 del Regolamento prevede quindi l’applicazione delle procedure indicate nella Convenzione dell’Aja – quindi le medesime, di cui si dirà più oltre, cui fa riferimento la legge 15 gennaio 1994 n. 64 di ratifica della Convenzione dell’Aja – quando una persona o un ente titolare del diritto di affidamento (si pensi al servizio sociale affidatario di un minore) adisce le autorità competenti di uno Stato membro affinché emanino un provvedimento di rientro di un minore che è stato illecita¬mente trasferito o trattenuto in uno Stato membro diverso dallo Stato membro nel quale aveva la residenza abituale immediatamente prima dell’illecito trasferimento o mancato ritorno.
Secondo Corte giustizia Unione Europea, 5 ottobre 2010, n. 400/10 l’illiceità del trasferi¬mento di un minore dipende esclusivamente dall’esistenza di un diritto di affidamento, conferito dal diritto nazionale applicabile, in violazione del quale tale trasferimento ha avuto luogo.
Il trasferimento o il mancato rientro sono illeciti pur in presenza dell’esercizio congiunto dell’affi¬damento da parte di entrambi i genitori, se contrasta con la situazione di fatto – concordemente e convenzionalmente accettata dai genitori – sulla base della presunzione secondo la quale l’interes¬se del minore coincide con quello di non essere allontanato o di essere immediatamente ricondotto nel luogo in cui si svolge la sua abituale vita quotidiana. (Cass. civ. Sez. I, 23 gennaio 2013, n. 1527; Cass. civ. Sez. I, 19 maggio 2010, n. 12293). La condizione è sempre però che il diritto di affidamento sia “effettivamente esercitato” secondo quanto prescrive la Convenzione dell’Aja del 1980, come detto, richiamata dall’art. 11 del Regolamento (Cass. civ. Sez. I, 4 luglio 2012, n. 11156).
Il trasferimento all’estero o il mancato rientro in Italia di minori figli di genitori separati non è qualificabile come illecita sottrazione all’altro genitore, allorché l’allontanamento avvenga ad opera dell’affidatario (Cass. civ. Sez. Unite, 21 ottobre 2009, n. 22238)
Come ha fatto notare Cass. civ. Sez. Unite, 2 agosto 2011, n. 16864 le disposizioni che pre¬vedono, in caso di trasferimento illecito o di mancato rientro, la competenza dello Stato in cui il minore si trova, sono dettate dall’esigenza di far fronte a situazioni eccezionali.
Nell’applicare la Convenzione dell’Aja, si deve garantire che il minore possa essere ascoltato du¬rante il procedimento, se ciò non appaia inopportuno in ragione della sua età o del suo grado di maturità.
L’autorità giurisdizionale alla quale è stata presentata la domanda per il ritorno del minore procede alla rapida trattazione della domanda, utilizzando le procedure più rapide previste nella legisla¬zione nazionale e deve emanare il provvedimento entro sei settimane da quando ha ricevuto la domanda. A chi ha chiesto il provvedimento deve essere data la possibilità di essere ascoltato.
Il provvedimento che rigetta la richiesta di rientro è trasmesso direttamente o tramite l’autorità centrale all’autorità giurisdizionale competente o all’autorità centrale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima dell’illecito trasferimento o mancato ritorno e tale autorità deve informarne le parti e invitarle a presentare le proprie conclu¬sioni, conformemente alla legislazione nazionale, entro tre mesi dalla data della notifica, affinché quest’ultima esamini la questione dell’affidamento del minore. In caso di mancato ricevimento delle conclusioni entro il termine stabilito, l’autorità giurisdizionale archivia il procedimento. Que¬sta specifica situazione (l’obbligo, cioè, di portare all’esame del giudice della residenza abituale la questione dell’affidamento, entro tre mesi dal rigetto della domanda di rientro da parte del giudice dello Stato in cui il minore è stato portato) è un elemento differenziale del procedimento previsto dal Regolamento rispetto a quanto previsto nella Convenzione dell’Aja del 1980 (lo fa notare Cass. civ. Sez. I, 12 maggio 2015, n. 9632 di cui abbiamo rettificato, però la massima imprecisa).
In tema di giurisdizione, il regolamento CE 27 novembre 2003, n. 2201/2003 non deroga alla Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 – in base alla quale la decisione sull’istanza di rientro nel luogo di residenza del minore illecitamente trasferito spetta all’autorità competente del Paese in cui si trova – ma conserva, per un periodo di tempo limitato, la competenza giurisdizionale allo Stato membro in cui il minore aveva la residenza abituale prima del trasferimento, a condizione che sia tempestivamente presentata e successivamente accolta un’istanza di rientro.
Si tratta, quindi, di una procedura di riesame per il caso in cui il giudice competente dello Stato in cui il minore è stato trasferito abbia negato l’ordine di ritorno per uno dei motivi previsti dall’ar¬ticolo 13 della Convenzione dell’Aja del 1980 (se cioè abbia ritenuto che il soggetto vittima della sottrazione aveva dato il proprio consenso al trasferimento o vi aveva prestato acquiescenza; se vi è fondato rischio che il minore sia esposto, in caso di ritorno, a pericoli fisici e psichici, o che venga a trovarsi in una situazione intollerabile; se il minore si oppone al ritorno e ha un’età e un grado di maturità tali da rendere importante il suo parere). Quando il diniego dell’ordine di ritorno è fondato su uno di questi motivi, il tribunale estero che ha emesso la decisione trasmette, perciò, copia del provvedimento e della documentazione, in particolare della trascrizione delle audizioni, all’autorità giudiziaria italiana (di solito tramite autorità centrali). L’autorità giudiziaria italiana, come si è sopra detto, informa le parti e le invita a presentare entro tre mesi le proprie conclusioni sulla questione dell’affidamento (articolo 11 del Regolamento n. 2201/2003). Se nessuna delle parti si attiva, il procedimento viene archiviato e il minore non farà ritorno, conformemente alla decisione straniera. Se invece almeno una delle parti presenta delle richieste, l’autorità giudiziaria italiana può riesa¬minare la decisione sul ritorno già adottata dal giudice dello Stato estero, pronunciandosi anche sull’affidamento.
Con questo meccanismo, l’autorità giudiziaria della residenza abituale del minore al momento della sottrazione, che ha la competenza sulla questione dell’affidamento, ha l’ultima parola anche sulla questione del ritorno e la sua decisione prevale sulla decisione emessa nello Stato estero.
Contro questo provvedimento di riesame può essere proposto solo ricorso per cassazione (Cass. civ. Sez. I, 21 marzo 2011, n. 6319; Cass. civ. Sez. I, 14 luglio 2010, n. 16549)
b) La Convenzione dell’Aja del 1980 sulla sottrazione internazionale di minori
Si parla di sottrazione internazionale quando un minore avente la residenza abituale in un determi¬nato Stato è condotto in un altro Stato senza il consenso del soggetto che esercita la responsabilità genitoriale, che, come si è visto, comprende il diritto di determinare il luogo di residenza abituale del minore. Alla sottrazione è equiparato il trattenimento del minore in uno Stato diverso da quello di residenza abituale, senza il consenso del genitore o di altro soggetto titolare dell’affidamento. La cittadinanza del minore e dei genitori è irrilevante contando soltanto la residenza abituale del minore al momento della sottrazione.
La Convenzione dell’Aja del 1980, insieme ad altre convenzioni internazionali sulla protezione dei minori, è stata ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 15 gennaio 1994 n. 64 e si applica nelle relazioni tra gli Stati che l’hanno firmata o vi hanno aderito ed inoltre nei rapporti tra Stati dell’Unione europea per il rinvio che ne fa – come si è detto – il Regolamento europeo n. 2201 del 2003.
Le procedure previste dalla Convenzione dell’Aja si applicano se il minore sottratto ha meno di sedici anni di età (al compimento del sedicesimo anno, la procedura si interrompe, anche se è già in fase giudiziaria) e sempre che la persona che richiede il ritorno è il titolare della re¬sponsabilità genitoriale sul minore e al momento della sottrazione esercitava effettivamente le corrispondenti funzioni.
Per i minori che hanno la residenza abituale in Italia, entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale e di comune accordo stabiliscono la residenza abituale del minore (articolo 316 codice civile). Questa è la regola generale anche dopo la fine della convivenza (articolo 337 ter del codice civile), ma il provvedimento giudiziario che dispone in tema di affidamento dei figli può decide¬re diversamente. In alcuni casi, il servizio sociale affidatario in base a una decisione del giudice competente può essere il soggetto legittimato a presentare la richiesta di ritorno. L’esercente la responsabilità genitoriale può essere il tutore del minore.
Le norme della Convenzione e le procedure in essa previste si applicano quando la sottrazione si è già verificata. La Convenzione non stabilisce entro quanto tempo dopo che si è verificata la sottra¬zione debba essere avviata la procedura per chiedere il ritorno del minore nello Stato di residenza abituale. Il decorso del tempo non è però irrilevante. Infatti, se la domanda per il ritorno è propo¬sta all’autorità giudiziaria entro un anno dalla sottrazione, il giudice è tenuto a ordinare il ritorno del minore. Se invece la domanda è presentata quando è passato più di un anno dalla sottrazione del minore, il giudice dello Stato di attuale collocazione può non ordinare il ritorno, se accerta che il minore si è nel frattempo integrato nel nuovo ambiente.
La procedura è normalmente promossa dall’autorità centrale dello Stato in cui il minore aveva la residenza abituale prima della sottrazione, su richiesta della persona che lamenta la sottrazione (per l’Italia l’autorità centrale è istituita presso il Dipartimento per la giustizia minorile del Mini¬stero della giustizia). Tutti gli Stati aderenti alla Convenzione dell’Aja del 1980 devono nominare le rispettive autorità centrali che hanno il compito di cooperare reciprocamente al fine proprio di assicurare l’immediato ritorno dei minori sottratti illecitamente. Tuttavia la persona che lamenta la sottrazione può anche decidere di rivolgersi direttamente e autonomamente alle autorità̀ giudizia¬rie dello Stato in cui il minore è stato portato e trattenuto.
Le autorità centrali devono, direttamente o tramite altri organi del loro Stato, mettere in atto tutto il possibile per localizzare il minore sottratto, per assicurare la consegna volontaria del minore o agevolare la composizione amichevole della controversia, devono scambiarsi le informazioni rela¬tive alla situazione del minore, forniscono informazioni generali sulla legislazione del proprio Stato in relazione all’applicazione della Convenzione; avviano e agevolano l’instaurazione della procedura per ottenere il ritorno del minore sottratto concedendo o agevolando anche l’assistenza legale.
Naturalmente le autorità centrali non possono emettere l’ordine di ritorno, che compete all’autorità giudiziaria dello Stato in cui il minore è stato portato e non possono in alcun modo interferire sui tempi della procedura giudiziaria e tanto meno con il merito della decisione.
Per emettere l’ordine di ritorno il giudice dello Stato di collocazione attuale verifica se il minore sot¬tratto ha meno di 16 anni, se prima della sottrazione o del mancato rientro aveva effettivamente la residenza abituale nello Stato in cui si chiede il ritorno, se il soggetto che presenta la domanda di ritorno è titolare della responsabilità genitoriale – comprendente il diritto di decidere il luogo di residenza abituale del minore – e se effettivamente tale soggetto la esercitava al momento della sottrazione, se la sottrazione è stata fatta senza il consenso del soggetto titolare della responsa¬bilità genitoriale, se la sottrazione è avvenuta da meno di un anno o, se è avvenuta da oltre un anno, se il minore si è integrato nel suo nuovo ambiente.
Anche se sussistono queste condizioni il giudice non emette l’ordine di ritorno se risulta che, prima o dopo la sottrazione, il richiedente ha acconsentito al trasferimento, se accerta che sussiste un fondato rischio che il minore, ritornando nello Stato di residenza abituale, sia esposto a pericoli fisici e psichici, o comunque possa trovarsi in una situazione intollerabile (per esempio una situa¬zione di maltrattamenti), se il minore si oppone al ritorno e, per la sua età e maturità, occorre tener conto del suo parere.
Scopo dell’ordine di ritorno è ristabilire la situazione di fatto che esisteva prima della sottrazione. Il provvedimento non interferisce con il regime giuridico dell’affidamento del minore preesistente alla sottrazione e, quindi, non comporta l’affidamento del minore al genitore che ha subito la sot¬trazione. La pronuncia di provvedimenti relativi all’affidamento resta di competenza del giudice dello Stato della residenza abituale del minore. Per questi motivi, spesso il genitore che ha subito la sottrazione non si limita ad attivare la procedura per il ritorno ma richiede anche la separazione o il divorzio o la modifica delle condizioni della separazione o del divorzio, oppure per l’affidamento del figlio nato fuori dal matrimonio.
Le procedure sul rimpatrio hanno carattere d’urgenza e non potrebbero durare più di sei settimane (riferibili al primo grado).
Nel caso in cui un minore sia sottratto dallo Stato estero di residenza abituale e portato in Italia, la Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 viene applicata in Italia secondo la procedura stabilita dalla legge di ratifica del 15 gennaio 1994 n. 64, specificamente dall’art. 7 della legge5.
Secondo quando previsto in questa disposizione l’autorità centrale italiana trasmette l’istanza di ritorno e la documentazione alla procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni competente in base al luogo in cui si trova il minore. La procura della Repubblica presenta al tri¬bunale per i minorenni un ricorso e il tribunale fissa l’udienza per la trattazione della domanda di ritorno. Il soggetto che ha subito la sottrazione viene informato tramite le autorità centrali della data dell’udienza, cui ha diritto di partecipare. Può essere sentito dal giudice, eventualmente mediante un interprete. Non è necessaria, ma possibile, la nomina di un legale che lo assista e lo rappresenti nel giudizio (Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17201). Nel corso del procedi¬mento deve essere ascoltato il minore, se ciò̀ non è inopportuno in ragione della sua età o del suo grado di maturità. L’ascolto avviene secondo le previsioni dell’articolo 336-bis del codice civile. Il Tribunale decide con decreto immediatamente esecutivo. Contro il decreto può essere proposto ricorso per cassazione.
L’ordine di ritorno emesso dal tribunale per i minorenni è, come detto, immediatamente esecutivo. Il ricorso per cassazione non sospende l’esecutività dell’ordine di ritorno. Pertanto, il minore deve essere riportato subito nello Stato della residenza abituale. La procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni è l’organo competente per l’esecuzione dell’ordine di ritorno, cui provve¬de avvalendosi prevalentemente dei servizi sociali della giustizia minorile, ove necessario assistiti dalla pubblica sicurezza.
5 Art. 7 della legge 15 gennaio 1994, n. 64
1. Le richieste tendenti ad ottenere il ritorno del minore presso l’affidatario al quale è stato sottratto, o a rista¬bilire l’esercizio effettivo del diritto di vista, sono presentate per il tramite dell’autorità centrale a norma degli articoli 8 e 21 della convenzione de L’Aja del 25 ottobre 1980.
2. L’autorità centrale, premessi se del caso i necessari accertamenti, trasmette senza indugio gli atti al procura¬tore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni del luogo in cui si trova il minore. Il procuratore della Re¬pubblica richiede con ricorso in via d’urgenza al tribunale l’ordine di restituzione o il ripristino del diritto di visita.
3. Il presidente del tribunale, assunte se del caso sommarie informazioni, fissa con decreto l’udienza in camera di consiglio, dandone comunicazione all’autorità centrale. Il tribunale decide con decreto entro trenta giorni dalla data di ricezione della richiesta di cui al comma 1, sentiti la persona presso cui si trova il minore, il pubblico ministero, e, se del caso, il minore medesimo. La persona che ha presentato la richiesta è informata della data dell’udienza a cura dell’autorità centrale, e può comparire a sue spese e chiedere di essere sentita.
4. Il decreto è immediatamente esecutivo. Contro di esso può essere proposto ricorso per cassazione. La pre¬sentazione del ricorso non sospende l’esecuzione del decreto.
5. Il procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni cura l’esecuzione delle decisioni anche avvalendosi dei servizi minorili dell’Amministrazione della giustizia, e ne dà immediatamente avviso all’autorità centrale.
6. È fatta salva la facoltà per l’interessato di adire direttamente le competenti autorità, a norma dell’articolo 29 della convenzione di cui al comma 1.
VIII Il riconoscimento delle decisioni (nelle cause matrimoniali e in materia di responsabilità genitoriale)
Il Regolamento europeo n. 2201 del 2003 si occupa anche del riconoscimento e dell’esecuzione in uno Stato membro delle decisioni adottate in altri Stati membri.
Per ciò che attiene al riconoscimento, le decisioni adottate in uno Stato europeo – secondo quanto dispone l’art. 21 – sono riconosciute negli altri Stati europei senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento. Si tratta di un principio ormai adottato anche nelle normative interne di diritto internazionale privato.
Pertanto non è necessario alcun procedimento per l’aggiornamento delle iscrizioni nello stato civile di uno Stato membro a seguito di una decisione di divorzio, di separazione personale dei coniugi o annullamento del matrimonio pronunciata in un altro Stato membro, contro la quale non sia più possibile proporre impugnazione secondo la legge di detto Stato membro.
Tuttavia – e fatto salvo quanto si dirà in ordine all’esecuzione delle decisioni sul diritto di visita e di ritorno del minore che hanno un trattamento privilegiato – ogni parte interessata può sempre far dichiarare che la decisione deve essere o non può essere riconosciuta (Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 11 luglio 2008, n. 195/08 ha appunto chiarito che salvo i casi in cui il pro¬cedimento riguardi una decisione certificata in applicazione degli artt. 11, par. 8, e degli artt. 40, 41, 42 del Regolamento n. 2201/2003, qualsiasi parte interessata può chiedere, in base all’art. 21 par. 3 del regolamento, il non riconoscimento di una decisione giudiziaria, anche qualora non sia stata precedentemente presentata un’istanza di riconoscimento di tale decisione).
La competenza degli organi giurisdizionali al riconoscimento, è determinata dal diritto interno dello Stato membro nel quale è proposta l’istanza di riconoscimento o di non riconoscimento. Se il rico¬noscimento di una decisione è richiesto in via incidentale dinanzi ad una autorità giurisdizionale di uno Stato membro, questa può decidere al riguardo.
Come si vede la disciplina del Regolamento è in questo settore omogenea a quella prevista nel nostro sistema di diritto internazionale privato nel quale anche il riconoscimento delle decisioni adottate all’estero è automatico, salvo il diritto di chi contesti la decisione straniera (o di chi inten¬da darne esecuzione), di richiedere la dichiarazione di efficacia o inefficacia in Italia (articoli 64 e seguenti della legge 31 maggio 1995, n.218).
Secondo quanto prevede l’art. 22 del Regolamento le decisioni di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio non sono riconosciute nei casi seguenti: a) se il riconoscimento è manifestamente contrario all’ordine pubblico dello Stato membro richiesto6; b) quando è resa in contumacia, ovvero la domanda giudiziale o un atto equivalente non è stato notificato o comuni¬cato al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale da poter presentare le proprie difese, salvo che sia stato accertato che il convenuto ha accettato inequivocabilmente la decisione; c) se la decisione è incompatibile con una decisione resa in un procedimento tra le medesime parti nello Stato membro richiesto; o d) se la decisione è incompatibile con una decisione anteriore avente le stesse parti, resa in un altro Stato membro o in un paese terzo, purché la decisione anteriore soddisfi le condizioni prescritte per il riconoscimento nello Stato membro richiesto.
L’art. 23 indica i motivi di non riconoscimento delle decisioni sulla responsabilità genitoriale: a) se, tenuto conto dell’interesse superiore del minore, il riconoscimento è manifestamente contra¬rio all’ordine pubblico dello Stato membro richiesto (App. Torino Decreto, 4 dicembre 2014 sottolinea il fatto che il concetto di ordine pubblico è qui collegato all’interesse del minore); b) se, salvo i casi d’urgenza, la decisione è stata resa senza che il minore abbia avuto la possibilità di essere ascoltato, in violazione dei principi fondamentali di procedura dello Stato membro richiesto; c) quando è resa in contumacia, ovvero la domanda giudiziale o un atto equivalente non è stato notificato o comunicato al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale da poter presentare le proprie difese, salvo che sia stato accertato che il convenuto ha accettato inequivocabilmente la decisione; d) su richiesta di colui che ritiene che la decisione sia lesiva della propria responsabilità genitoriale, se è stata emessa senza dargli la possibilità di essere ascoltato; e) se la decisione è incompatibile con una decisione successiva sulla responsabilità genitoriale emessa nello Stato membro richiesto; f) se la decisione è incompatibile con una decisione successiva sulla respon¬sabilità genitoriale emessa in un altro Stato membro o nel paese terzo in cui il minore risieda, la quale soddisfi le condizioni prescritte per il riconoscimento nello Stato membro richiesto; o g) se la procedura prevista dall’articolo 56 non è stata rispettata.
Di particolare interesse – che va qui evidenziato – è il motivo di non riconoscimento indicato nella lettera b) consistente nel fatto che la decisione non può essere riconosciuta nei casi in cui il minore non ha avuto la possibilità di essere ascoltato.
Costituiscono principi generali quello secondo cui il giudice dello Stato in cui si svolge la procedu¬ra di riconoscimento non può procedere al riesame della competenza giurisdizionale del giudice dello Stato membro d’origine (art. 24), quello secondo cui il riconoscimento di una decisione non può essere negato perché la legge dello Stato membro richiesto non prevede per i medesimi fatti il divorzio, la separazione personale o l’annullamento del matrimonio (art. 25) ed inoltre quello secondo cui in nessun caso la decisione può formare oggetto di un riesame del merito (art. 26).
L’autorità giurisdizionale dinanzi alla quale è richiesto il riconoscimento di una decisione pronunciata in un altro Stato membro può sospendere il procedimento se la decisione è stata impugnata con un mezzo ordinario (art. 27).
IX Il particolare regime previsto per l’esecuzione delle decisioni sulla responsabilità genitoriale
Le decisioni sull’esercizio della responsabilità genitoriale, non si sottraggono al principio generale dell’automatico riconoscimento (restando l’eventuale disconoscimento subordinato ad un’iniziativa di parte) ma non possono, solo perché riconosciute, essere poste in esecuzione. Non possono, cioè, costituire titolo per un’attività esecutiva occorrendo, oltre alla previa notificazione, un’appo¬sita declaratoria di esecutività, su istanza dell’interessato.
Lo afferma l’art. 28 del Regolamento prevedendo che le decisioni relative all’esercizio della respon¬sabilità genitoriale su un minore, emesse ed esecutive in un determinato Stato membro, hanno un trattamento particolare. Per essere eseguite in un altro Stato membro devono essere prima notificate e poi dichiarate esecutive su istanza della parte interessata.
A tale proposito ha fatto notare Cass. civ. Sez. Unite, 20 dicembre 2006, n. 27188 che in tema di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia di responsabilità genitoriale, nella disciplina del regolamento n. 2201/2003, le decisioni sull’esercizio della responsabilità genitoriale, se non si sottraggono al principio generale dell’automatico riconoscimento (restando l’eventuale disconoscimento subordinato ad iniziativa di parte), non possono, solo perché riconosciute, esse¬re poste in esecuzione, vale a dire non possono costituire titolo per un’attività modificativa della situazione in atto, all’uopo occorrendo, oltre alla previa notificazione, la apposita declaratoria di esecutività, su istanza dell’interessato, di cui all’art. 28 del citato regolamento. Ne deriva che la decisione del giudice italiano, la quale modifichi una precedente scelta e sostituisca l’uno all’altro genitore nella qualità di affidatario del figlio minore, non autorizza il nuovo affidatario a prelevare e trasferire il minore stesso dallo Stato membro in cui risieda assieme al precedente affidatario, rendendosi a tal fine necessaria, la dichiarazione di esecutività.
L’istanza per la dichiarazione di esecutività è proposta ai giudici che figurano nell’elenco comuni¬cato da ciascuno Stato membro alla Commissione. In Italia, la competenza in materia di ricono¬scimento (in via principale) e di esecuzione delle decisioni in questo contesto è stata attribuita alle Corti d’appello.
La competenza territoriale è determinata dalla residenza abituale della parte contro cui è chiesta l’esecuzione oppure dalla residenza abituale del minore cui l’istanza si riferisce.
Dall’art. 30 del Regolamento ci si occupa specificamente del procedimento, prevedendosi che le modalità del deposito dell’istanza sono determinate in base alla legge dello Stato membro dell’ese¬cuzione. L’istante elegge il proprio domicilio nella circoscrizione dell’autorità giurisdizionale adita. L’autorità giurisdizionale adita decide senza indugio. In questa fase del procedimento, né la parte contro la quale l’esecuzione viene chiesta né il minore possono presentare osservazioni. L’istanza può essere respinta solo per uno dei motivi di cui agli articoli 22, 23 e 24 e in nessun caso la de¬cisione può formare oggetto di un riesame del merito.
La decisione resa su istanza di parte è senza indugio portata a conoscenza del richiedente, a cura del cancelliere, secondo le modalità previste dalla legge dello Stato membro dell’esecuzione (art. 32) e ciascuna delle parti può proporre opposizione contro la decisione resa sull’istanza intesa a ottenere una dichiarazione di esecutività. Il ricorso è esaminato secondo le norme sul procedimen¬to in contraddittorio.
Se l’opposizione è proposta dalla parte che ha richiesto la dichiarazione di esecutività, la parte contro cui l’esecuzione viene fatta valere è chiamata a comparire davanti all’autorità giurisdizio¬nale dell’opposizione.
L’opposizione deve essere proposta nel termine di un mese dalla notificazione della stessa. Se la parte contro la quale è chiesta l’esecuzione ha la residenza abituale in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata rilasciata la dichiarazione di esecutività, il termine è di due mesi a decorrere dalla data della notificazione in mani proprie o nella residenza. Detto termine non è prorogabile per ragioni inerenti alla distanza.
Si tratta, quindi, di un procedimento a contraddittorio eventuale e posticipato. Se non c’è opposi¬zione il provvedimento è esecutivo appena trascorsi i termini indicati.
La decisione resa sull’opposizione può costituire unicamente oggetto delle procedure di cui all’e¬lenco comunicato da ciascuno Stato membro alla Commissione conformemente all’articolo 68 che, per l’Italia, è la Corte di cassazione.
L’autorità giurisdizionale dinanzi alla quale è proposta l’opposizione può, su istanza della parte contro la quale è chiesta l’esecuzione, sospendere il procedimento di esecuzione se la decisione è stata impugnata nello Stato membro d’origine con un mezzo ordinario o se il termine per proporre l’impugnazione non è ancora scaduto. In quest’ultimo caso l’autorità giurisdizionale può fissare un termine per proporre tale impugnazione.
L’art. 37 indica i documenti che la parte deve produrre tra cui un certificato riepilogativo apposito ri¬lasciato dal tribunale con le caratteristiche indicate nell’art. 39. Il modello è allegato al regolamento.
L’esecuzione è disciplinata poi dalla legge dello Stato membro in cui deve avvenire.
X L’attuazione delle decisioni sul diritto di visita e di quelle che prescrivono il ritorno del minore
Una parte del Regolamento (dall’art. 40 all’art. 45) si occupa dell’esecuzione di talune decisioni considerate sensibili (decisioni in materia di diritto di visita e decisioni che prescrivono il ritorno del minore) disposizioni che non ostano naturalmente a che il titolare della responsabilità genito¬riale chieda il riconoscimento e l’esecuzione in forza delle disposizioni sopra viste contenute nel Regolamento.
a) Le decisioni sul diritto di visita
Secondo la definizione che ne dà l’art. 2 del Regolamento con l’espressione “diritto di visita” ci si riferisce al “diritto di condurre il minore in un luogo diverso dalla sua residenza abituale per un periodo limitato di tempo”.
Anche la Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 si occupa delle garanzie per la corretta esecu¬zione del diritto di visita del genitore, consentendo che per il tramite delle autorità centrali possa essere richiesta l’organizzazione o la tutela dell’esercizio effettivo del diritto di visita nei confronti di un figlio che viva con l’altro genitore in uno Stato estero. Secondo la Convenzione dell’Aja la domanda viene presentata e trattata con le stesse modalità previste per le domande di ritorno del minore: alla prima fase amministrativa, durante la quale il minore viene localizzato e si tenta di raggiungere un accordo tra le parti, segue la fase giudiziaria davanti al giudice competente in base al luogo di residenza del minore.
Per i minori abitualmente residenti nell’Unione Europea, il diritto di visita riceve una tutela più incisiva grazie all’articolo 41 del Regolamento n. 2201 del 2003. Il provvedimento giudiziario ese¬cutivo, emesso un qualsiasi Stato membro, che disciplina il diritto di visita di un genitore è ricono¬sciuto automaticamente ed è immediatamente esecutivo in tutti gli altri Stati dell’Unione Europea, quando è munito di un particolare certificato, che va rilasciato dal giudice che ha emesso quel provvedimento. Non è dunque necessario che nello Stato di residenza abituale del minore venga esperita una procedura di dichiarazione di esecutività (exequatur).
Secondo quanto stabilito da Corte giustizia Unione Europea Sez. I, 22 dicembre 2010, n. 491/10 la decisione che ordina il ritorno di un minore può essere certificata soltanto dopo aver verificato che, in funzione dell’interesse superiore del minore e tenuto conto di tutte le circostanze del caso di specie, tale decisione sia stata adottata nel rispetto del diritto del minore di esprimersi liberamente e che sia stata offerta a quest’ultimo una possibilità concreta ed effettiva di esprimer¬si, tenuto conto dei mezzi procedurali nazionali e degli strumenti della cooperazione giudiziaria internazionale.
La domanda per l’organizzazione o la tutela dell’esercizio effettivo del diritto di visita può essere presentata anche da parenti diversi dai genitori (nonni, zii, fratelli), se ciò è consentito dalla legge dello Stato in cui il minore è abitualmente residente.
L’autorità giurisdizionale dello Stato in cui avviene l’esecuzione può stabilire modalità pratiche vol¬te ad organizzare l’esercizio del diritto di visita, qualora le modalità necessarie non siano o siano insufficientemente previste nella decisione emessa dalle autorità giurisdizionali dello Stato mem¬bro competente a conoscere del merito e a condizione che siano rispettati gli elementi essenziali di quella decisione.
b) Le decisioni che prescrivono il ritorno del minore
Le decisioni sul ritorno del minore emesse in uno Stato membro a seguito di un trasferimento illecito in altro Stato, sono riconosciute ed eseguibili senza che sia necessaria una dichiarazione di esecutività e senza che sia possibile opporsi al riconoscimento, sempre che la decisione sia stata certificata nello Stato membro d’origine (con il certificato di cui si è sopra detto per le decisioni sul diritto di visita).
Il giudice di origine che ha emanato la decisione rilascia il certificato solo se: a) il minore ha avu¬to la possibilità di essere ascoltato, salvo che l’audizione sia stata ritenuta inopportuna in ragione della sua età o del suo grado di maturità; b) le parti hanno avuto la possibilità di essere ascolta¬te; e c) l’autorità giurisdizionale ha tenuto conto, nel rendere la sua decisione, dei motivi e degli elementi di prova alla base del provvedimento emesso. Nel caso in cui l’autorità giurisdizionale o qualsiasi altra autorità adotti misure per assicurare la protezione del minore dopo il suo ritorno nello Stato della residenza abituale, il certificato contiene i dettagli di tali misure.
XI Gli accordi
L’art. 46 del Regolamento equipara in tutto e per tutto gli atti pubblici e gli accordi alle decisioni giudiziarie prescrivendo che “gli atti pubblici formati e aventi efficacia esecutiva in uno Stato mem¬bro nonché gli accordi tra le parti aventi efficacia esecutiva nello Stato membro di origine sono riconosciuti ed eseguiti alle stesse condizioni previste per le decisioni”
XII La cooperazione tra Stati
Ciascuno Stato membro – sulla base di quanto prescritto dall’art. 53 del Regolamento – designa una o più autorità centrali incaricata di assisterlo nell’applicazione del Regolamento e ne specifica le competenze territoriali e materiali.
Le autorità centrali mettono a disposizione informazioni sull’ordinamento e sulle procedure na¬zionali e adottano misure generali per migliorare l’applicazione del Regolamento e rafforzare la cooperazione.
Una cooperazione speciale è poi prevista nell’ambito dei procedimenti attinenti alla responsabilità genitoriale. In tali procedimenti le autorità centrali, su richiesta di un’autorità centrale di un altro Stato membro o del titolare della responsabilità genitoriale, cooperano per realizzare gli obiettivi del Regolamento provvedendo a raccogliere e a scambiare informazioni sulla situazione del mi¬nore, sugli eventuali procedimenti in corso e sulle decisioni adottate relativamente al minore; a fornire informazioni e assistenza ai titolari della responsabilità genitoriale che chiedono il ricono¬scimento e l’esecuzione delle decisioni sul loro territorio, relativamente in particolare al diritto di visita e al ritorno del minore; a facilitare la comunicazione fra le autorità giurisdizionali; a fornire informazioni e sostegno; a facilitare un accordo fra i titolari della responsabilità genitoriale, ricor¬rendo alla mediazione o con altri mezzi, e ad agevolare a tal fine la cooperazione transfrontaliera.
Da parte loro i titolari della responsabilità genitoriale possono rivolgere richieste di assistenza gratuita all’autorità centrale dello Stato membro in cui risiedono abitualmente ovvero all’autorità centrale dello Stato membro in cui si può trovare o risiede abitualmente il minore.
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. Unite, 5 giugno 2017, n. 13912 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’accettazione della giurisdizione italiana nell’ambito del giudizio di separazione personale non esplica alcun effetto nel successivo procedimento di modifica delle condizioni della separazione instaurato per ottenere l’affidamento di figli minori, sia perché quest’ultimo è un nuovo giudizio (come si evince anche dall’art. 12, par. 2, lett. a), del reg. CE n. 2201 del 2003), sebbene ricollegato al regolamento attuato con la decisione definitiva o con l’omologa della separazione consensuale non più reclamabile, in base al suo carattere di giudicato “rebus sic stantibus”, sia perché il criterio di attribuzione della giurisdizione fondato sulla cd. vicinanza, dettato nell’interesse superiore del minore come delineato dalla Corte di giustizia della UE, assume una pregnanza tale da comportare l’esclusione della validità del consenso del genitore alla proroga della giurisdizione.
Tribunale di Milano, Sez. IX, 24 febbraio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’applicazione dell’art. 19, Reg. n. 2201/2003, in tema di litispendenza internazionale in materia matrimoniale, non è necessario che vi sia l’identità di titolo e oggetto tra le domande proposte dinanzi a giudici di Stati membri diversi: infatti le due cause possono avere oggetto distinto, purché vertano comunque sulla separazione personale, sul divorzio o sull’annullamento del matrimonio. Sussiste perciò una situazione di litispendenza internazionale nel caso siano proposte dinanzi ad autorità giurisdizionali di due Stati dell’Unione Europea una domanda di divorzio e una di separazione personale.
Nell’ipotesi di procedimenti di separazione e divorzio (o annullamento del matrimonio) instaurati in Stati membri diversi, l’autorità giurisdizionale successivamente adita deve sospendere il procedimento fino a quando non venga accertata la competenza giurisdizionale dell’autorità adita per prima.(Nel caso di specie, il Tribunale ha correttamente sospeso, ex art. 19 del regolamento 2201/2003 (c.d. Bruxelles II bis), il giudizio di separazione pendente davanti ad esso, in attesa che i giudici inglesi, precedentemente aditi, statuiscano sulla loro competenza a trattare la domanda di divorzio.
Corte giustizia Unione Europea, Sez. I, 15 febbraio 2017, n. 499/15 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il regolamento n. 2201/2003 si fonda sulla cooperazione e sulla fiducia reciproca tra le autorità giurisdizionali che devono condurre al reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie, fondamento per la creazione di un autentico spazio giudiziario. Tale regolamento è stato elaborato con l’obiettivo di rispondere all’interesse superiore del minore e, a tal fine, esso privilegia il criterio di vicinanza. Il legislatore ha infatti ritenuto che il giudice geograficamente vicino alla residenza abituale del minore si trovi nella situazione più favorevole per valutare i provvedimenti da disporre nell’interesse del minore. Per questi motivi la competenza giurisdizionale appartiene quindi, anzitutto, ai giudici dello Stato membro in cui il minore risiede abitualmente, salvo ove si verifichi un cambiamento della sua residenza o in caso di accordo fra i titolari della responsabilità genitoriale. Ed è per questo che l’articolo 8 del regolamento n. 2201/2003 traduce tale obiettivo attribuendo una competenza generale alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui il minore ha la residenza abituale.
L’articolo 8 del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000, e l’articolo 3 del regolamento (CE) n. 4/2009 del Consiglio, del 18 dicembre 2008, relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari, devono essere interpretati nel senso che i giudici dello Stato membro che hanno adottato una decisione passata in giudicato in materia di responsabilità genitoriale e di obbligazioni alimentari riguardanti un figlio minore non sono più competenti a pronunciarsi su una domanda di modifica dei provvedimenti adottati con tale decisione, qualora la residenza abituale del minore si trovi nel territorio di un altro Stato membro. La competenza a pronunciarsi su tale domanda spetta ai giudici di quest’ultimo Stato membro.
Cass. civ. Sez. Unite, 10 febbraio 2017, n. 3555 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di competenza, l’art. 8, n. 1 del Regolamento CE 27 novembre 2003 n. 2201/2003/Cons., prevede, per le domande relative alla responsabilità genitoriale su un minore, la competenza internazionale dell’autorità giudiziaria dello Stato membro in cui il minore stesso risiede abitualmente alla data della domanda, dettando in tal modo un principio ispirato all’interesse superiore del minore stesso ed al criterio della vicinanza. A tal uopo, per “residenza abituale” deve intendersi il luogo dove il minore trova e riconosce, anche grazie a una permanenza tendenzialmente stabile, il centro dei propri legami affettivi, non solo parentali, originati dallo svolgersi della sua vita di relazione. In altri termini, la residenza abituale corrisponde al luogo che denota una certa integrazione del minore in un ambiente sociale e familiare, e, ai fini del relativo accertamento, rilevano una serie di circostanze che vanno valutate in relazione alla peculiarità del caso concreto: la durata, la regolarità e le ragioni del soggiorno nel territorio di uno Stato membro, la cittadinanza del minore, la frequenza scolastica e, in generale, le relazioni familiari e sociali.
Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 27 ottobre 2016, n. 428/15 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 prevede che le autorità giurisdizionali di uno Stato membro competenti a conoscere del merito di un caso possono chiedere il trasferimento di tale caso o di una sua parte specifica a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore abbia un legame particolare, ove ritengano che quest’ultima sia più adatta a trattarla e ove ciò corrisponda all’interesse superiore del minore. Poiché le nozioni di autorità giurisdizionale «più adatta» e di «interesse superiore del minore» ai sensi di tale disposizione non sono definite da alcun’altra disposizione del regolamento n. 2201/2003, occorre interpretarle tenendo conto del contesto nel quale si collocano e degli obiettivi perseguiti da detto regolamento. A termini del considerando 12 del regolamento n. 2201/2003, le regole di competenza dettate da quest’ultimo in materia di responsabilità genitoriale sono ispirate all’interesse superiore del minore. Pertanto la necessità che il trasferimento di un caso a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro corrisponda all’interesse superiore del minore costituisce un’espressione del principio cardine su cui, da un lato, si è basato il legislatore nella concezione di tale regolamento e che, dall’altro, deve guidare la sua attuazione nelle cause in materia di responsabilità genitoriale ad esso assoggettate. Nel contesto del regolamento n. 2201/2003, la considerazione dell’interesse superiore del minore è volta a garantire il rispetto dei diritti fondamentali del bambino, come si evince dal considerando 33 di tale regolamento.
L’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel senso che per poter stabilire che un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore ha un legame particolare è più adatta, il giudice competente di uno Stato membro deve accertarsi che il trasferimento del caso a detta autorità giurisdizionale sia idoneo ad apportare un valore aggiunto reale e concreto al trattamento dello stesso, in particolare tenendo conto delle norme di procedura applicabili in detto altro Stato membro; ed inoltre per poter stabilire che un siffatto trasferimento corrisponde all’interesse superiore del minore, il giudice competente di uno Stato membro deve in particolare accertarsi che tale trasferimento non rischi di ripercuotersi negativamente sulla situazione del minore.
Cass. civ. Sez. Unite, 7 settembre 2016, n. 17676 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito di applicazione del Reg. 2201/2003, in tema di responsabilità genitoriale, al fine di stabilire la competenza giurisdizionale, occorre dare rilievo, come regola generale, al criterio della residenza abituale del minore al momento della domanda, intendendo come tale il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale, e non quello risultante da un calcolo puramente aritmetico del vissuto.
La regola del trasferimento a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro sancita all’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 costituisce una regola di competenza speciale e derogatoria rispetto a quella di competenza generale enunciata all’articolo 8, paragrafo 1, di tale regolamento, cosicché essa dev’essere interpretata restrittivamente.
La giurisdizione del giudice italiano va negata rispetto alle domande inerenti l’affidamento ed il mantenimento del figlio delle parti [stante la mancata accettazione dell’appellante e il superiore interesse del minore], in quanto devolute in via esclusiva alla competenza del giudice, ove il minore è stabilmente residente, e deve invece essere affermata relativamente al giudizio di separazione personale, conformemente ai principi della perpetuatio jurisdictionis e della prevenzione, che precludono lo spostamento di competenza in favore del procedimento (anche se) connesso avviato all’estero successivamente al primo.
Cass. civ. Sez. Unite, 18 marzo 2016, n. 5420 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il Regolamento (CE) n. 2201/2003 si applica solo alle diverse giurisdizioni degli stati dell’Unione Europea, non anche alla giurisdizione degli stati esterni all’Unione, per la quale, anche se la causa verte tra cittadini dell’Unione, si applica l’art. 7 della l. n. 218 del 1995, con eventuale sospensione del giudizio interno sino alla definizione del previo giudizio estero.
Il Regolamento (CE) n. 2201/2003 si applica solo alle diverse giurisdizioni degli stati dell’Unione Europea, non anche alla giurisdizione degli stati esterni all’Unione, per la quale, anche se la causa verte tra cittadini dell’Unione, si applica l’art. 7 della l. n. 218 del 1995, con eventuale sospensione del giudizio interno sino alla definizione del previo giudizio estero. (Dichiara giurisdizione)
Cass. civ. Sez. I, 12 maggio 2015, n. 9632 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di giurisdizione, il regolamento CE 27 novembre 2003, n. 2201/2003 non deroga alla Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 – in base alla quale la decisione sull’istanza di rientro nel luogo di residenza del minore illecitamente trasferito spetta all’autorità competente del Paese in cui si trova – ma conserva, per un periodo di tempo limitato, la competenza giurisdizionale allo Stato membro in cui il minore aveva la residenza abituale prima del trasferimento, a condizione che sia tempestivamente presentata e successivamente accolta un’istanza di rientro (rectius di affidamento). Ne consegue una fase di sdoppiamento della competenza giurisdizionale sul rientro e sull’affidamento, tesa a garantire, da un lato, che la decisione sul rientro sia presa dal giudice del luogo in cui il minore si trova, in base al criterio di prossimità e possibilità di ascolto, e, dall’altro, ad impedire che la sottrazione illecita del minore favorisca, con lo spostamento della giurisdizione, il suo autore.
Trib. Vercelli, 18 dicembre 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 15 del Reg. 2201/2003 prevede una “eccezionale” forma di dismissione discrezionale della competenza ispirata alla dottrina anglosassone del forum non conveniens. Il trasferimento d’ufficio della competenza giurisdizionale ad altro Stato può, in particolare, essere disposto nel caso in cui, nel corso della procedura pendente nello Stato a quo, i minori coinvolti nel processo abbiano definitivamente modificato la loro residenza abituale, fissando la dimora in altro Stato: in questo caso, è opportuno il trasferimento della causa al giudice dello Stato ad quem, previa audizione delle parti, per acquisire il loro consenso.
App. Torino Decreto, 4 dicembre 2014 (Nuova Giur. Civ., 2015, 5, 441 nota di FRANCO)
Ai fini del riconoscimento o meno dei provvedimenti giurisdizionali stranieri, deve aversi prioritario riguardo all’interesse superiore del minore (art. 3 L. 27 maggio 1991, n. 176 di ratifica della Convenzione sui diritti del fanciullo, di New York 20.11.1989), come ribadito in ambito comunitario, con particolare riferimento al riconoscimento delle sentenze straniere in materia di rapporti tra genitori e figli, dall’art. 23 reg. CE n. 2201/2003 il quale stabilisce espressamente che la valutazione della non contrarietà all’ordine pubblico debba essere effettuata tenendo conto dell’interesse superiore del figlio.
Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 12 novembre 2014, n. 656/13 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’articolo 12, paragrafo 3, del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000, deve essere interpretato nel senso che esso consente, ai fini di un procedimento in materia di responsabilità genitoriale, di fondare la competenza di un giudice di uno Stato membro diverso dallo Stato di residenza abituale del minore pur se dinanzi al giudice prescelto non è pendente alcun altro procedimento.
Corte giustizia Unione Europea Sez. II, 1 ottobre 2014, n. 436/13 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza in materia di responsabilità genitoriale, prorogata in forza dell’articolo 12, paragrafo 3, del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000, a favore di un giudice di uno Stato membro investito del procedimento di concerto dai titolari della responsabilità genitoriale, viene meno con la pronuncia di una decisione definitiva nel contesto di tale procedimento.
Trib. Milano Sez. IX Decreto, 16 luglio 2014
Qualora dinanzi a autorità giurisdizionali di Stati membri diversi siano state proposte domande sulla responsabilità genitoriale su uno stesso minore, aventi il medesimo oggetto e il medesimo titolo, l’autorità giurisdizionale successivamente adita sospende d’ufficio il procedimento finché non sia stata accertata la competenza dell’autorità giurisdizionale preventivamente adita. In ipotesi di litispendenza internazionale, è tuttavia ammissibile l’adozione di provvedimenti cautelari o urgenti, ex art. 20 del regolamento n. 2201/2003. Tale enunciato, tuttavia, deve essere interpretato nel senso che esso non consente ad un giudice di uno Stato membro di adottare un provvedimento provvisorio in materia di responsabilità genitoriale inteso a interferire con altro provvedimento già adottato (ed efficace) dal giudice dello Stato Membro adito per primo e dichiaratosi, nelle more, competente.
Cass. civ. Sez. Unite, 28 maggio 2014, n. 11915 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È principio assolutamente consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte, in sintonia fra l’altro con quanto affermato nel Regolamento CE n. 2201/2003 (art. 8) e nella Convenzione dell’Aja del 25.10.1980 (art. 8), che per i provvedimenti diretti ad intervenire sulla potestà genitoriale secondo le previsioni degli artt. 330 e segg. c.c. e per quelli in tema di giurisdizione sui provvedimenti “de potestate” rileva il criterio della residenza abituale del minore al momento della proposizione della domanda (per i primi C-13/17746, C-12/1984, C-06/2171, C-05/2877, C-03/1058, C-01/9266, C-99/1238, per i secondi C-12/1984, C-11/16864). La residenza abituale del minore va individuata sulla base di criteri oggettivi e, in caso di trasferimento del minore, lo stesso non è idoneo a radicare la competenza del tribunale di destinazione, nel caso in cui sia trascorso un lasso di tempo minimo non apprezzabile, tenuto conto dell’età del fanciullo (nel caso di specie, il minore aveva vissuto a Cuba sino al 23 aprile del 2012; il ricorso era stato presentato al Tribunale per i Minorenni di Genova, il 14 giugno 2012).
Trib. Milano Sez. IX, 31 marzo 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di sottrazione/mancato rientro di minore, il regolamento 2201/2003 prevede l’applicazione del “diritto speciale” contenuto nella convenzione dell’Aia del 25 ottobre 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori (legge ratif. n. 64/94): le richieste tendenti ad ottenere il ritorno del minore presso l’affidatario al quale è stato sottratto, o a ristabilire l’esercizio effettivo del diritto di visita, sono presentate per il tramite dell’autorità centrale a norma degli articoli 8 e 21 della Convenzione de l’Aja del 25 ottobre 1980. E’, pertanto, ammissibile una tutela ex art. 316 comma IV, 337-bis c.c. solo nell’ipotesi in cui le sopraccitate regole non siano applicabili “in concreto” per essere stato il minore condotto in uno Stato non sottoscrittore della Convenzione dell’Aja (Trib. Milano, sez. IX, 19 marzo 2014, con riguardo alla Russia); nel caso, invece, di Stato Membro della Convenzione è da escludere l’utilizzo di strumenti di tutela interni diverso da quello tipizzato dalla l. 64/94 (Trib. Milano, sez. IX, 6 febbraio 2014, con riguardo al Brasile). Nei casi di sottrazione cd. attiva, il Dicastero italiano ha una competenza “diretta” se lo Stato in cui il minore è stato condotto non aderisce alla succitata Convenzione e/o non è destinatario del Reg. 2201/2003; mentre ha una competenza sussidiaria, se lo Stato in cui il minore è stato condotto aderisce ai testi normativi sopra indicati.
Trib. Milano, 11 febbraio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 15 del Reg. n. 2201/2003 prevede, eccezionalmente, il trasferimento delle competenze a una autorità giurisdizionale più adatta a trattare il caso. Si tratta di una forma di dismissione discrezionale della competenza sulla scia della dottrina anglo-sassone del forum non conveniens che istituisce una sorta di translatio iudicii internazionale. L’istituto ha carattere del tutto eccezionale e, invero, costituisce infatti una previsione inedita nel panorama ordinamentale: al punto da dovere essere considerato di applicazione del tutto residuale sulla base di elementi di particolare rilevanza e, soprattutto, allorché il trasferimento del processo sia opportuno.
Cass. civ. Sez. I, 23 gennaio 2013, n. 1527 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di illecita sottrazione internazionale di minori da parte di un genitore, il trattenimento del figlio minore da parte di un genitore, pur in presenza dell’esercizio congiunto del diritto di custodia da parte di entrambi i genitori, deve ritenersi illecito, alla luce della Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980, come integrata dal Regolamento CE n. 2201/2003 (diciassettesimo “considerando”), se contrasta con la situazione di fatto – concordemente e convenzionalmente accettata dai genitori – sulla base della presunzione secondo la quale l’interesse del minore coincide con quello di non essere allontanato o di essere immediatamente ricondotto nel luogo in cui si svolge la sua abituale vita quotidiana. (Nella specie, un formale provvedimento di affidamento da parte dell’autorità straniera a favore della madre era intervenuto solo in epoca successiva alla decisione impugnata ed entrambi i genitori esercitavano congiuntamente il diritto di affidamento, con l’accordo, peraltro, che il figlio potesse giungere o restare in Italia solo con il consenso della madre).
Cass. civ. Sez. I, 4 luglio 2012, n. 11156 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione, il diritto di affidamento nei confronti del minore comprende anche il diritto di intervenire nella decisione concernente il suo luogo di residenza (Reg. CE n. 2201/2003); il trasferimento o il mancato ritorno dello stesso è considerato atto illecito nel caso in cui risulti avvenuto in violazione del diritto di affidamento, purché effettivamente esercitato.
Cass. civ. Sez. Unite, 13 febbraio 2012, n. 1984 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di giurisdizione sui provvedimenti “de potestate”, l’art. 8 del Regolamento (CE) del 27 novembre 2003, n. 2201 dà rilievo, al fine di stabilire la competenza giurisdizionale di uno stato membro, unicamente al criterio della residenza abituale del minore al momento della proposizione della domanda, intendendo come tale il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale e non quello risultante da un calcolo puramente aritmetico del vissuto. Non sussiste perciò la giurisdizione italiana qualora il minore risieda all’estero.
Cass. civ. Sez. Unite, 30 dicembre 2011, n. 30646 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi degli artt. 3 comma 1 lett. b e 8 del Regolamento n. 2201/2003 del 27 novembre 2003, in una controversia di separazione personale sussiste la giurisdizione italiana in base alla comune cittadinanza dei coniugi, mentre essa non sussiste – bensì sussista quella inglese – riguardo all’affidamento dei figli, in quanto questi ultimi sono residenti nel Regno Unito né è stata accettata la giurisdizione italiana ex art. 12, comma 1.
La giurisdizione sulle domande relative all’affidamento dei figli ed al loro mantenimento, ove pure proposte congiuntamente a quella di separazione giudiziale, appartiene al giudice del luogo in cui il minore risiede abitualmente, a norma dell’art. 8 del Regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio del 27 novembre 2003. Tale criterio, informato all’interesse superiore del minore e, segnatamente, al criterio della vicinanza, riveste una tale pregnanza, da condurre ad escludere che il consenso del genitore alla proroga della giurisdizione quanto alle domande concernenti i minori – pur ammessa dall’art. 12 del citato regolamento, in presenza del consenso di entrambi i coniugi – sia ravvisabile dalla mancata contestazione giurisdizione da parte di un coniuge con riguardo alla domanda di separazione. (Dichiara giurisdizione)
Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17201 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di sottrazione internazionale di minori, nel procedimento per il rientro nell’originaria residenza abituale, l’audizione del minore, già prevista dall’art. 12 della convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo, ai sensi dell’art. 7 comma 3 della legge 15 gennaio 1994 n. 64 non è imposta anche se si ritiene che sia divenuto un adempimento necessario se ciò non appaia inopportuno in ragione della sua età o del suo grado di maturità, come ora specificamente previsto dall’art. 11 comma 2 del Regolamento n. 2201/2003, dall’art. 13 della convenzione dell’Aja 25 ottobre 1980 sulla sottrazione internazionale dei minori e dagli artt. 3 e 6 della convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996 sull’esercizio dei diritti del bambino.
Nel procedimento previsto dalla legge 15 gennaio 1994, n. 64, di esecuzione e di autorizzazione alla ratifica della Convenzione de L’Aja 25 ottobre 1980, in tema di illecita sottrazione di minori, il genitore ha la qualità di parte, ma il suo diritto alla nomina di un difensore d’ufficio e, comunque, al patrocinio legale obbligatorio, non è previsto dalla citata Convenzione, né dalla normativa sovranazionale, anche successiva (art. 47 della Carta di Nizza), la quale prevede soltanto il diritto del genitore ad essere informato della pendenza della procedura e ad essere posto in condizione di essere sentito (art. 11, comma 5 del Reg.CE n. 2201 del 2003 e art. 4 comma 2 e 7 comma 3 della legge n. 64 del 1994); pertanto, per il genitore coinvolto in detto procedimento, la nomina di un difensore tecnico, al pari della sua costituzione nel procedimento stesso, integrano facoltà esercitabili a sua iniziativa, secondo le ordinarie regole processuali interne.
Cass. civ. Sez. Unite, 2 agosto 2011, n. 16864 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di trasferimento illecito di un minore, ai fini di determinare la giurisdizione, il mutamento del luogo di residenza abituale del minore successivo al momento della proposizione della domanda non rileva se è dovuto a provvedimenti giudiziari emessi in via interinale per ragioni di urgenza, in quanto le disposizioni che prevedono la competenza dello Stato in cui il minore si trova, come gli artt. 13 e 15 del Regolamento n. 2201/2003 del 27 novembre 2003 e l’art. 12 della convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 sulla sottrazione internazionale dei minori, sono derogatrici rispetto al regime ordinario fondato sul principio della perpetuatio iurisdictionis e sono dettate dall’esigenza di far fronte a situazioni eccezionali.
App. Catania, 21 luglio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Dal combinato disposto degli artt. 19 e 20 del Reg. n. 2201/2003 è possibile ricavare una nozione di litispendenza sostanzialistica che prescinde dal formale titolo di aggressione al vincolo familiare, in relazione alla quale domina incontrastato il principio della prevenzione, soddisfatto non solo dal deposito dell’atto introduttivo ma dalla successiva coltivazione dell’azione intrapresa attraverso le rituali notifiche
Trib. Tivoli, 6 aprile 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 8 del Regolamento n. 2201/2003 non sussiste la giurisdizione italiana in merito alla responsabilità genitoriale su una minore che non abbia mai avuto la propria residenza abituale in Italia; né essa sussiste ai sensi dell’art. 10, non essendovi stato alcun trasferimento illecito o mancato rientro della minore in Italia, né ai sensi dell’art. 12, non essendo stata accettata dalla convenuta la giurisdizione italiana.
Ai sensi dell’art. 8 del Regolamento n. 2201/2003 non sussiste la giurisdizione italiana in merito alla responsabilità genitoriale su una minore che non abbia mai avuto la propria residenza abituale in Italia; né essa sussiste ai sensi dell’art. 10, non essendovi stato alcun trasferimento illecito o mancato rientro della minore in Italia, né ai sensi dell’art. 12, non essendo stata accettata dalla convenuta la giurisdizione italiana.
Cass. civ. Sez. I, 21 marzo 2011, n. 6319 (Foro It., 2011, 10, 1, 2765)
Può essere proposto solo ricorso per cassazione avverso il provvedimento di rigetto della domanda di rientro nella residenza abituale del minore, illecitamente trasferito in altro Stato, emesso dal tribunale per i minorenni, ai sensi dell’art. 11 del Regolamento n. 2201/2003/CE, in sede di riesame del precedente diniego dell’autorità giudiziaria dello Stato membro nel quale il minore è stato condotto.
Corte giustizia Unione Europea Sez. I, 22 dicembre 2010, n. 491/10 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Una decisione che ordina il ritorno di un minore può essere certificata dal giudice dello Stato membro d’origine ai sensi dell’art. 42 del Regolamento n. 2201/2003 del 27 novembre 2003, interpretato conformemente all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, soltanto dopo aver verificato che, in funzione dell’interesse superiore del minore e tenuto conto di tutte le circostanze del caso di specie, tale decisione sia stata adottata nel rispetto del diritto del minore di esprimersi liberamente e che sia stata offerta a quest’ultimo una possibilità concreta ed effettiva di esprimersi, tenuto conto dei mezzi procedurali nazionali e degli strumenti della cooperazione giudiziaria internazionale.
Corte giustizia Unione Europea Sez. I, 22 dicembre 2010, n. 497/10 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La nozione di “residenza abituale”, ai sensi degli artt. 8 e 10 del regolamento (CE) del Consiglio 27 novembre 2003, n. 2201, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000, deve essere interpretata nel senso che tale residenza corrisponde al luogo che denota una certa integrazione del minore in un ambiente sociale e familiare. A tal fine, e laddove si tratti della situazione di un neonato che soggiorna con la madre solo da pochi giorni in uno Stato membro – diverso da quello della sua residenza abituale – nel quale è stato portato, devono essere presi in considerazione, da un lato, la durata, la regolarità, le condizioni e le ragioni del soggiorno nel territorio di tale Stato membro nonché del trasferimento della madre in detto Stato e, d’altro lato, tenuto conto dell’età del minore, l’origine geografica e familiare della madre nonché i rapporti familiari e sociali che madre e minore intrattengono con quello stesso Stato membro. È compito del giudice nazionale determinare la residenza abituale del minore tenendo conto di tutte le circostanze di fatto specifiche di ciascuna fattispecie. Nell’ipotesi in cui l’applicazione dei criteri testé ricordati conducesse, nella causa principale, a concludere che non è possibile accertare la residenza abituale del minore, la determinazione del giudice competente dovrebbe essere effettuata in base al criterio del luogo «in cui si trova il minore» ai sensi dell’art. 13 del regolamento. 2) Le decisioni di un’autorità giurisdizionale di uno Stato membro recanti rigetto, ai sensi della convenzione dell’Aia del 1980, sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, di una domanda di rientro immediato di un minore nell’ambito della giurisdizione di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro e vertenti sulla responsabilità genitoriale nei confronti di detto minore sono irrilevanti ai fini delle decisioni che devono essere emanate in tale altro Stato membro in merito alle azioni in materia di responsabilità genitoriale che sono state precedentemente proposte e ivi sono ancora pendenti.
Trib. Belluno, 5 novembre 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il regolamento CE del Consiglio n. 2201 del 2003 disciplinante la competenza, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale ed in materia di responsabilità genitoriale, deve essere applicato a prescindere dalla cittadinanza europea delle parti, e quindi anche nei confronti di cittadini extracomunitari. Le norme sulla giurisdizione previste dal diritto nazionale, inoltre, restano applicabili solo in via residuale nell’ipotesi in cui nessun giudice degli Stati membri, in applicazione degli artt. 3 e 5 del Regolamento citato, sia competente.
Corte giustizia Unione Europea, 5 ottobre 2010, n. 400/10 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’illiceità del trasferimento di un minore, ai sensi dell’art. 2 n. 11 del Regolamento n. 2201/2003, dipende esclusivamente dall’esistenza di un diritto di affidamento, conferito dal diritto nazionale applicabile, in violazione del quale tale trasferimento ha avuto luogo.
Trib. Varese, 4 ottobre 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le disposizioni del Regolamento n. 2201/2003 (cd. Bruxelles II) non ostano a che le autorità giurisdizionali di uno Stato membro adottino i provvedimenti provvisori o cautelari previsti dalla legge interna, relativamente alle persone presenti in quello Stato o ai beni in esso situati, anche se, a norma del citato regolamento, è competente a conoscere nel merito l’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro. E’, dunque, possibile, in caso di urgenza, un intervento del giudice per regolare il diritto di visita di un minore figlio di genitori non italiani, ma residente in territorio italiano.
Corte giustizia Unione Europea Sez. II, 15 luglio 2010, n. 256/09 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il sistema di riconoscimento e di esecuzione delle decisioni predisposto dagli articoli 21 ss. del Regolamento n. 2201/2003 non si applica a provvedimenti provvisori, in materia di diritto di affidamento, rientranti nell’art. 20 di detto regolamento. Rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 20 del Regolamento n. 2201/2003 del 27 novembre 2003 solo i provvedimenti provvisori o cautelari adottati da giudici che non fondino la loro competenza su una delle disposizioni dettate da tale regolamento.
Alla luce dell’importanza dei provvedimenti provvisori – a prescindere dal fatto che siano disposti o meno da un giudice competente nel merito – che possono essere ordinati in materia di responsabilità genitoriale, e in particolare delle loro possibili conseguenze su minori in tenera età, in modo particolare per quanto riguarda gemelli separati l’uno dall’altro, e del fatto che il giudice che ha disposto i provvedimenti, se del caso, ha rilasciato un certificato ai sensi dell’art. 39 del Regolamento n. 2201/2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il Regolamento n. 1347/2000, e la validità dei provvedimenti provvisori contemplati da tale certificato è condizionata alla presentazione di un ricorso di merito entro 30 giorni, è importante che una persona interessata da siffatto procedimento, anche se è stata sentita dal giudice che ha disposto i provvedimenti, possa assumere l’iniziativa di presentare un ricorso avverso la decisione che istituisce i detti provvedimenti provvisori per contestare, dinanzi ad un giudice distinto da quello che ha adottato tali provvedimenti e che si pronunci entro breve, in particolare, la competenza nel merito che si sia assunto il giudice che ha disposto i provvedimenti provvisori o, se dalla decisione non risulta che il giudice sia competente o si sia ritenuto tale nel merito in forza di detto regolamento, il rispetto delle condizioni stabilite dall’art. 20 di tale regolamento, vale a dire: 1) i provvedimenti considerati devono essere urgenti; 2) essi devono essere disposti nei confronti di persone situate o di beni presenti nello Stato membro di tali autorità giurisdizionali, e 3) devono avere natura provvisoria.
Cass. civ. Sez. I, 14 luglio 2010, n. 16549 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di sottrazione internazionale del minore, il giudizio del Tribunale dei minorenni che, in qualità di giudice “naturale” del minore in quanto giudice della residenza abituale del medesimo, ai sensi dell’art. 11 del Regolamento CE 27 novembre 2003 n. 2201, si pronunci sul provvedimento di diniego di ritorno emesso dal giudice dello Stato in cui il minore è stato illecitamente trasferito, si configura come un procedimento di riesame completo ed esaustivo del provvedimento impugnato, direttamente ricorribile per Cassazione attesa l’analogia tra il procedimento sommariamente descritto nell’art. 11 del Regolamento CE 2201 del 2003 e quello regolato dall’art. 7 della legge n. 64 del 1994 con la quale è stata data esecuzione alla Conv. dell’Aja del 25 ottobre 1980.
In tutte le ipotesi in cui il tribunale per i minorenni – investito da domande di ritorno del minore, adito direttamente o per il tramite dell’autorità centrale ai sensi della Convenzione dell’Aja 25 ottobre 1980, ovvero ai sensi del Regolamento n. 2201 del 2003 decida su dette domande, il relativo decreto può essere impugnato immediatamente con ricorso per cassazione.
Cass. civ. Sez. Unite, 25 giugno 2010, n. 15328 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi del Regolamento n. 2201/2003 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, competente a decidere sulle questioni inerenti la separazione dei coniugi è (anche) il giudice dello Stato membro dell’Unione europea di cui l’attore sia cittadino e in cui abbia la residenza abituale almeno per sei mesi immediatamente prima della domanda [art. 3, comma 1, lett. a)].
La nozione di residenza abituale del coniuge, di cui al Regolamento n. 2201/2003 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, fa riferimento non alla residenza formale o anagrafica ma al luogo del concreto e continuativo svolgimento dalla vita personale ed eventualmente lavorativa; nessuna rilevanza gioca al riguardo il fatto che saltuariamente, e anche per un periodo continuativo, il coniuge abbia trascorso periodi presso la residenza all’estero dell’altro coniuge, ivi ricevendo anche corrispondenza e svolgendo attività di studio.
Cass. civ. Sez. I, 19 maggio 2010, n. 12293 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori postula anche per il caso di titolarità congiunta dei diritti di custodia del minore che i diritti ricompresi nel “diritto di affidamento”, e quindi i diritti concernenti la cura della persona del minore e in particolare il diritto di decidere riguardo al suo luogo di residenza, siano effettivamente esercitati al momento del trasferimento del minore o del suo mancato rientro o avrebbero potuto esserlo se non si fossero verificate tali circostanze; si deve dunque verificare se il genitore che lamenta la violazione del suo diritto di affidamento abbia in concreto esercitato tale diritto, anche nel caso di titolarità congiunta; d’altro canto, l’audizione dei minori, già prevista nell’art. 12 della convenzione di New York del 24 novembre 1989 sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che li riguardino ai sensi dell’art. 6 della convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996 sull’esercizio dei diritti dei minori: da ciò deriva che la stessa, pur non essendo imposta nel procedimento per il mancato illecito rientro in ragione del carattere urgente e meramente ripristinatorio della situazione di tale procedura, è ritenuta in genere opportuna, come peraltro specificamente previsto dall’art. 11 comma 2 del Regolamento n. 2201/2003 del 27 novembre 2003, al fine di riuscire a valutare l’eventuale opposizione del minore al ritorno, ai sensi dell’art. 13 comma 2 della convenzione dell’Aja del 1980, salvo che sia esclusa da ragioni di inopportunità, per età o grado di maturità, e a fortiori di danno per quest’ultimo.
Cass. civ. Sez. Unite, 17 febbraio 2010, n. 3680 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della individuazione del Giudice dello Stato membro competente i parametri di cui all’art. 3 del Reg. CE n. 2201 del 2003 sono esclusivi ed alternativi, tale che ognuno di essi consente la individuazione del Giudice che può essere adito e solo se nessun Giudice di uno degli Stati membri abbia giurisdizione in base ai criteri di cui alla norma regolamentare, può procedersi secondo quanto è stabilito dalla normativa interna dello Stato stesso, come sancito dall’art. 7 del citato Regolamento comunitario. L’espresso principio esclude, nella fattispecie, ogni rilievo alle affermazioni del ricorrente in ordine alla pretesa applicazione delle norme del diritto internazionale privato di cui alla legge n. 218 del 1995, in realtà inapplicabile non solo in base al citato art. 7, ma anche in quanto mentre il richiamato art. 31 della legge n. 218 del 1995 non disciplina in alcun modo i poteri dei Giudici dei vari Stati di decidere sulla domanda di separazione, ma solo le norme applicabili ai relativi giudizio, l’art. 32 ha funzione unicamente residuale e non è quindi suscettibile di applicazione, stante la chiara individuazione della normativa da applicare nella concreta fattispecie di separazione di due cittadini di Stati membri dell’U.E. in ordine ai criteri determinativi della giurisdizione espressamente previsti dagli artt. 3, 4 e 5, Reg. CE n. 2201 del 2003.
Ai sensi dell’art. 3 comma 1 lett. a del Regolamento n. 2201/2003 del 27 novembre 2003, sussiste la giurisdizione italiana riguardo a una domanda di separazione giudiziale proposta da una cittadina italiana residente in Italia da più di un anno contro un cittadino belga residente all’estero, dovendosi intendere la residenza della prima come effettiva ovvero riferita al luogo in cui l’interessato ha fissato con carattere di stabilità il centro permanente o abituale dei propri interessi, indipendentemente dalla residenza anagrafica.
Trib. Minorenni Milano Decreto, 5 febbraio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 20 del Regolamento n. 2201/2003 consente al giudice di uno Stato membro di adottare un provvedimento provvisorio e urgente in materia di responsabilità genitoriale inteso a concedere a un genitore l’affidamento di un minore che si trova nel territorio di tale Stato, nel caso in cui il giudice di un altro Stato membro, competente in forza di detto regolamento a conoscere del merito della controversia sull’affidamento, abbia già emesso una decisione che affida provvisoriamente il minore all’altro genitore e tale decisione sia stata dichiarata esecutiva nel territorio del primo Stato membro. Al fine di stabilire le modalità pratiche necessarie ad organizzare l’esercizio del diritto di visita, qualora le stesse non siano state compiutamente previste nella decisione emessa dalle autorità giurisdizionali dello Stato membro competente a conoscere del merito e a condizione che siano rispettati gli elementi essenziali di quella decisione, in Italia possono essere sollecitati i poteri di sorveglianza del giudice tutelare.
Corte giustizia Unione Europea, 23 dicembre 2009, n. 403/09 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 20 del Regolamento n. 2201/2003 del 27 novembre 2003, disposizione che dev’essere interpretata restrittivamente in quanto costituisce un’eccezione al sistema di competenze previsto dal detto regolamento, i giudici di uno Stato membro che non siano competenti a conoscere del merito possono adottare provvedimenti provvisori o cautelari soltanto a condizione che siano cumulativamente soddisfatte tre condizioni, ovvero: che tali provvedimenti siano urgenti, che siano provvisori e che siano adottati nei confronti di persone presenti nello Stato membro del foro. In particolare, nel caso di un provvedimento provvisorio in materia di responsabilità genitoriale, la condizione relativa all’urgenza si correla, al tempo stesso, alla situazione in cui si trova il minore e all’impossibilità pratica di agire dinanzi al giudice competente nel merito.
Nel caso in cui un giudice di uno Stato membro, competente in forza del Regolamento n. 2201/2003 a conoscere del merito della controversia relativa all’affidamento di un minore, abbia già emesso una decisione che affida provvisoriamente un minore a uno dei suoi genitori, dichiarata esecutiva nel territorio di un altro Stato membro, non è consentito a un giudice di questo secondo Stato adottare un provvedimento provvisorio inteso a concedere l’affidamento del minore che si trova nel territorio di tale Stato all’altro genitore, in quanto il mutamento delle circostanze successivamente all’adozione del primo provvedimento, derivante dal fatto che il minore si sia integrato nel secondo Stato membro ove è stato trasferito illecitamente ai sensi dell’art. 2 n. 11 del suddetto regolamento, non implica una situazione di urgenza ai sensi dell’art. 20 del regolamento.
Cass. civ. Sez. Unite, 21 ottobre 2009, n. 22238 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di giurisdizione sui provvedimenti “de potestate”, il trasferimento all’estero o il mancato rientro in Italia di minori figli di genitori separati non è qualificabile come illecita sottrazione all’altro genitore, allorché l’allontanamento avvenga ad opera dell’affidatario, con la conseguenza che in tale ipotesi è inapplicabile la Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 sugli effetti civili della sottrazione internazionale di minori, resa esecutiva in Italia con la legge n. 64 del 1994; tuttavia, qualora la mobilità internazionale e la mutabilità della residenza abituale sia stata convenzionalmente esclusa dai coniugi nelle condizioni di separazione, trova applicazione l’art. 10 del Regolamento CE n. 2201 del 27 novembre 2003, con la conseguenza che competente a decidere della responsabilità genitoriale resta il giudice della pregressa residenza abituale, finché non sia decorso un anno da quando chi aveva diritto a chiedere il ripristino del diritto di visita o il rientro ha avuto conoscenza del cambio di residenza. (Cassa con rinvio, App. Roma, 23/07/2008)
In base all’art. 10 del Regolamento n. 2201/2003/CE del 27 novembre 2003, è competente a decidere della responsabilità genitoriale sui minori il giudice della residenza abituale dei medesimi. Nella fattispecie rimane competente a decidere il giudice pregresso – italiano – sino alla data dell’acquisizione della nuova residenza dei figli, finché non sia decorso un anno da quando il coniuge che aveva diritto di chiedere il ripristino del diritto di visita od il rientro, ha avuto conoscenza del cambio di residenza.
Ai sensi dell’art. 9 del Regolamento n. 2201/2003 del 27 novembre 2003, sussiste la giurisdizione italiana riguardo a una domanda relativa al diritto di visita dei minori proposta entro i tre mesi dal lecito trasferimento dei minori stessi all’estero.
Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre 2009, n. 22093 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 20 par. 2 del Regolamento n. 2201/2003, i provvedimenti provvisori a cautela dei minori adottati, ex art. 20, par. 1, dal giudice di uno Stato membro diverso da quello i cui giudici sono competenti a conoscere del merito della causa cessano di avere efficacia allorché l’autorità giurisdizionale di quest’ultimo Stato membro abbia adottato i provvedimenti appropriati in via definitiva.
Cass. civ. Sez. Unite, 1 ottobre 2009, n. 21053 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della determinazione della giurisdizione in materia di obbligazioni alimentari ai sensi dell’art. 5 n. 2 della convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, la nozione di obbligazione alimentare deve essere interpretata in senso autonomo e ampio, comprensivo degli assegni di mantenimento.
Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 16 luglio 2009, n. 168/08 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di cooperazione giudiziaria civile, la Corte di giustizia europea stabilisce che, in caso di doppia cittadinanza comune, ciascun coniuge abbia il diritto, in applicazione dell’art. 3, n. 1, lett. b), Regolamento n. 2201/2003, di presentare una domanda di divorzio dinanzi al giudice di uno o dell’altro dei due Stati membri di cui egli e l’altro coniuge possiedono la cittadinanza.
Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 2 aprile 2009, n. 523/07 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La nozione di “residenza abituale”, ai sensi dell’articolo 8, n. 1, del Regolamento n. 2201/2003, dev’essere interpretata nel senso che tale residenza corrisponde al luogo che denota una certa integrazione del minore in un ambiente sociale e familiare. A tal fine, si deve in particolare tenere conto della durata, della regolarità, delle condizioni e delle ragioni del soggiorno nel territorio di uno Stato membro e del trasloco della famiglia in tale Stato, della cittadinanza del minore, del luogo e delle condizioni della frequenza scolastica, delle conoscenze linguistiche nonché delle relazioni familiari e sociali del minore nel detto Stato. Compete al giudice nazionale stabilire la residenza abituale del minore, tenendo conto delle peculiari circostanze di fatto che caratterizzano ogni caso di specie.
Ai sensi dell’art. 20 del Regolamento n. 2201/2003, in materia di responsabilità genitoriale, l’adozione da parte di un giudice di uno Stato membro, che non sia competente a conoscere nel merito, di un provvedimento cautelare previsto dalla sua legge nazionale, come la presa in carico di minori, è subordinata al rispetto di tre condizioni cumulative, ovvero: che tale provvedimento sia urgente, che sia adottato rispetto a persone presenti nello Stato membro di cui trattasi e che sia provvisorio.
Un giudice nazionale può disporre un provvedimento cautelare, come la presa in carico di minori, ai sensi dell’articolo 20 del Regolamento n. 2201/2003, qualora siano soddisfatte le seguenti condizioni: – tale provvedimento deve essere urgente; – deve essere adottato rispetto a persone presenti nello Stato membro di cui trattasi, e – deve essere provvisorio. L’attuazione del detto provvedimento nonché il carattere imperativo di quest’ultimo devono essere determinati secondo quanto prescritto dalla normativa nazionale. Dopo l’attuazione del provvedimento cautelare, il giudice nazionale non è obbligato a deferire il caso al giudice competente di un altro Stato membro. Tuttavia, allorché lo rende necessario la tutela dell’interesse superiore del minore, il giudice nazionale che ha attuato provvedimenti provvisori o cautelari deve informarne, direttamente o tramite l’autorità centrale designata ai sensi dell’articolo 53 del Regolamento n. 2201/2003, il giudice competente di un altro Stato membro.
Trib. Belluno, 6 marzo 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di domanda di divorzio proposta da coniugi che non sono cittadini italiani e che hanno contratto matrimonio nel paese d’origine (nella specie, in India) va affermata la giurisdizione del giudice italiano, in forza del Regolamento n. 2201/2003 in materia matrimoniale che trova applicazione a prescindere dalla cittadinanza europea delle parti ed indipendentemente dalle norme sulla giurisdizione previste dal diritto nazionale. Nella fattispecie, la giurisdizione italiana (di carattere esclusivo, ai sensi dell’art. 6 del Regolamento) va affermata a norma dell’art. 3, 1 comma, lett. a), del citato Regolamento, il quale fissa il criterio generale della residenza, e in particolare, nella specifica ipotesi di domanda congiunta, il criterio della “residenza abituale di uno dei coniugi” che sussiste nel caso in esame poiché entrambe le parti risiedono nel territorio italiano.
Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 11 luglio 2008, n. 195/08 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Salvo i casi in cui il procedimento riguardi una decisione certificata in applicazione degli artt. 11, par. 8, e degli artt. 40, 41, 42 del Regolamento n. 2201/2003, qualsiasi parte interessata può chiedere, in base all’art. 21 par. 3 del regolamento, il non riconoscimento di una decisione giudiziaria, anche qualora non sia stata precedentemente presentata un’istanza di riconoscimento di tale decisione.
Corte giustizia Unione Europea, 29 novembre 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il Regolamento n. 2201/2003 trova applicazione anche in caso di cittadinanza extraeuropea dei coniugi in quanto il criterio di collegamento prescelto dal Regolamento nell’attribuzione della competenza giurisdizionale non è quello della cittadinanza, bensì della “residenza abituale” di uno o di entrambi i coniugi in uno Stato membro.
Cass. civ. Sez. Unite, 20 dicembre 2006, n. 27188 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia di responsabilità genitoriale, nella disciplina del regolamento CE del Consiglio 27 novembre 2003, n. 2201/2003, le decisioni sull’esercizio della responsabilità genitoriale, se non si sottraggono al principio generale dell’automatico riconoscimento (restando l’eventuale disconoscimento subordinato ad iniziativa di parte), non possono, solo perché riconosciute, essere poste in esecuzione, vale a dire non possono costituire titolo per un’attività modificativa della situazione in atto, all’uopo occorrendo, oltre alla previa notificazione, la apposita declaratoria di esecutività, su istanza dell’interessato, di cui all’art. 28 del citato regolamento. Ne deriva che la decisione del giudice italiano, la quale modifichi una precedente scelta e sostituisca l’uno all’altro genitore nella qualità di affidatario del figlio minore, non autorizza il nuovo affidatario a prelevare e trasferire il minore stesso dallo Stato membro in cui risieda assieme al precedente affidatario, rendendosi a tal fine necessaria, la dichiarazione di esecutività.

Appendice
Testo del Regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio del 27 novembre 2003 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000
IL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA,
visto il trattato che istituisce la Comunità europea, in particolare l’articolo 61, lettera c), e l’articolo 67, paragrafo 1,
vista la proposta della Commissione,
visto il parere del Parlamento europeo,
visto il parere del Comitato economico e sociale europeo,
considerando quanto segue:
(1) La Comunità europea si prefigge l’obiettivo di istituire uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel quale sia garantita la libera circolazione delle persone. A tal fine, la Comunità adotta, tra l’altro, le misure nel settore della cooperazione giudiziaria in materia civile necessarie al corretto funzionamento del mercato interno.
(2) Il Consiglio europeo di Tampere ha approvato il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudi¬ziarie quale fondamento per la creazione di un autentico spazio giudiziario e ha individuato nel diritto di visita un settore prioritario.
(3) Il regolamento (CE) n. 1347/2000 del Consiglio, del 29 maggio 2000(4), stabilisce norme relative alla com¬petenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e relative alla responsabilità dei genitori sui figli avuti in comune, emesse in occasione di procedimenti matrimoniali. Il contenuto di tale regolamento riprendeva ampiamente la convenzione del 28 maggio 1998 avente il medesimo oggetto.
(4) Il 3 luglio 2000 la Francia ha presentato un’iniziativa in vista dell’adozione del regolamento del Consiglio relativo all’esecuzione reciproca delle decisioni in materia di diritto di visita ai figli minori.
(5) Per garantire parità di condizioni a tutti i minori, il presente regolamento disciplina tutte le decisioni in ma¬teria di responsabilità genitoriale, incluse le misure di protezione del minore, indipendentemente da qualsiasi nesso con un procedimento matrimoniale.
(6) Dato che l’applicazione delle norme sulla responsabilità genitoriale ricorre spesso nei procedimenti matri¬moniali, è più opportuno disporre di uno strumento unico in materia matrimoniale e in materia di responsabilità dei genitori.
(7) Il campo di applicazione del presente regolamento riguarda le materie civili, indipendentemente dal tipo di organo giurisdizionale.
(8) Relativamente alle decisioni di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio, il presente regolamento dovrebbe applicarsi solo allo scioglimento del vincolo matrimoniale e non dovrebbe riguardare que¬stioni quali le cause di divorzio, gli effetti del matrimonio sui rapporti patrimoniali o altri provvedimenti accessori ed eventuali.
(9) Per quanto attiene ai beni del minore, il presente regolamento dovrebbe applicarsi esclusivamente alle misure di protezione del minore, vale a dire i) alla designazione e alle funzioni di una persona o ente aventi la responsabilità di gestire i beni del minore o che lo rappresentino o assistano e ii) alle misure relative all’am¬ministrazione, alla conservazione o all’alienazione dei beni del minore. In tale contesto e a titolo d’esempio, il presente regolamento dovrebbe applicarsi ai casi nei quali i genitori hanno una controversia in merito all’ammi¬nistrazione dei beni del minore. Le misure relative ai beni del minore e non attinenti alla protezione dello stesso dovrebbero continuare ad essere disciplinate dal regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale.
(10) Il presente regolamento non è inteso ad applicarsi a materie come quelle relative alla sicurezza sociale, mi¬sure pubbliche di carattere generale in materia di istruzione e di sanità o decisioni sul diritto d’asilo e nel settore dell’immigrazione. Inoltre, esso non si applica né al diritto di filiazione, che è una questione distinta dall’attribu¬zione della responsabilità genitoriale, né alle altre questioni connesse con la situazione delle persone. Esso non si applica nemmeno ai provvedimenti derivanti da illeciti penali commessi dai minori.
(11) Le obbligazioni alimentari sono escluse dal campo di applicazione del presente regolamento in quanto sono già disciplinate dal regolamento (CE) n. 44/2001. I giudici competenti ai sensi del presente regolamento saranno in genere competenti a statuire in materia di obbligazioni alimentari in applicazione dell’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 44/2001.
(12) È opportuno che le regole di competenza in materia di responsabilità genitoriale accolte nel presente re¬golamento si informino all’interesse superiore del minore e in particolare al criterio di vicinanza. Ciò significa che la competenza giurisdizionale appartiene anzitutto ai giudici dello Stato membro in cui il minore risiede abitualmente, salvo ove si verifichi un cambiamento della sua residenza o in caso di accordo fra i titolari della responsabilità genitoriale.
(13) Nell’interesse del minore, il presente regolamento consente al giudice competente, a titolo eccezionale e in determinate condizioni, di trasferire il caso al giudice di un altro Stato membro se quest’ultimo è più indicato a conoscere del caso. Tuttavia, in questo caso, il giudice adito in seconda istanza non dovrebbe essere autorizzato a trasferire il caso a un terzo giudice.
(14) Gli effetti del presente regolamento non dovrebbero pregiudicare l’applicazione del diritto internazionale pubblico in materia di immunità diplomatiche. Se il giudice competente in applicazione del presente regolamento non può esercitare la propria competenza a causa dell’esistenza di una immunità diplomatica conforme al diritto internazionale, la competenza dovrebbe essere determinata nello Stato membro nel quale la persona interessata non beneficia di immunità, conformemente alla legge di tale Stato.
(15) È opportuno che la notificazione e comunicazione dei documenti introduttivi del giudizio proposto a norma del presente regolamento siano disciplinate dal regolamento (CE) n. 1348/2000 del Consiglio, del 29 maggio 2000, relativo alla notificazione e alla comunicazione negli Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile o commerciale.
(16) Il presente regolamento non osta a che i giudici di uno Stato membro adottino, in casi di urgenza, provve¬dimenti provvisori o cautelari relativi alle persone presenti in quello Stato o ai beni in esso situati.
(17) In caso di trasferimento o mancato rientro illeciti del minore, si dovrebbe ottenerne immediatamente il ritorno e a tal fine dovrebbe continuare ad essere applicata la convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980, quale integrata dalle disposizioni del presente regolamento, in particolare l’articolo 11. I giudici dello Stato membro in cui il minore è stato trasferito o trattenuto illecitamente dovrebbero avere la possibilità di opporsi al suo ri¬entro in casi precisi, debitamente motivati. Tuttavia, una simile decisione dovrebbe poter essere sostituita da una decisione successiva emessa dai giudici dello Stato membro di residenza abituale del minore prima del suo trasferimento illecito o mancato rientro. Se la decisione implica il rientro del minore, esso dovrebbe avvenire senza che sia necessario ricorrere a procedimenti per il riconoscimento e l’esecuzione della decisione nello Stato membro in cui il minore è trattenuto.
(18) Qualora venga deciso il non rientro in virtù dell’articolo 13, della convenzione dell’Aja del 1980, il giudice dovrebbe informarne il giudice competente o l’autorità centrale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale prima del suo trasferimento illecito o mancato rientro. Detto giudice, se non è ancora stato adito, o l’autorità centrale, dovrebbe inviare una notificazione alle parti. Questo obbligo non dovrebbe ostare a che l’autorità centrale invii anch’essa una notificazione alle autorità pubbliche interessate conformemente alla legge nazionale.
(19) L’audizione del minore è importante ai fini dell’applicazione del presente regolamento, senza che detto strumento miri a modificare le procedure nazionali applicabili in materia.
(20) L’audizione del minore in un altro Stato membro può essere effettuata in base alle modalità previste dal regolamento (CE) n. 1206/2001 del Consiglio, del 28 maggio 2001, relativo alla cooperazione fra le autorità giudiziarie degli Stati membri nel settore dell’assunzione delle prove in materia civile o commerciale.
(21) Il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni rese in uno Stato membro dovrebbero fondarsi sul principio della fiducia reciproca e i motivi di non riconoscimento dovrebbero essere limitati al minimo indispensabile.
(22) Gli atti pubblici e gli accordi tra le parti aventi efficacia esecutiva in uno Stato membro dovrebbero essere equiparati a “decisioni” ai fini dell’applicazione delle norme sul riconoscimento e l’esecuzione.
(23) Il Consiglio europeo di Tampere ha affermato nelle sue conclusioni (punto 34) che le decisioni pronunciate nelle controversie familiari dovrebbero essere “automaticamente riconosciute in tutta l’Unione senza che siano necessarie procedure intermedie o che sussistano motivi per rifiutarne l’esecuzione”. Pertanto le decisioni in materia di diritto di visita o di ritorno, che siano state certificate nello Stato membro d’origine conformemente alle disposizioni del presente regolamento, dovrebbero essere riconosciute e hanno efficacia esecutiva in tutti gli altri Stati membri senza che sia richiesto qualsiasi altro procedimento. Le modalità relative all’esecuzione di tali decisioni sono tuttora disciplinate dalla legge nazionale.
(24) Il certificato rilasciato allo scopo di facilitare l’esecuzione della decisione non dovrebbe essere impugnabile. Non dovrebbe poter dare luogo a una domanda di rettifica se non in caso di errore materiale, ossia se il certifi¬cato non rispecchia correttamente il contenuto della decisione.
(25) È opportuno che le autorità centrali collaborino fra loro, sia in generale che per casi specifici, anche per favo¬rire la risoluzione amichevole delle controversie familiari in materia di responsabilità genitoriale. A questo scopo è necessario che le autorità centrali si avvalgano della possibilità di partecipare alla rete giudiziaria europea in materia civile e commerciale, istituita con decisione 2001/470/CE del Consiglio, del 28 maggio 2001, relativa all’istituzione di una rete giudiziaria europea in materia civile e commerciale.
(26) La Commissione dovrebbe rendere pubblici e aggiornare gli elenchi relativi ai giudici e ai mezzi di impugna¬zione comunicati dagli Stati membri.
(27) Le misure necessarie all’attuazione del presente regolamento sono adottate secondo la decisione 1999/468/ CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, recante modalità per l’esercizio delle competenze di esecuzione conferite alla Commissione.
(28) Il presente regolamento sostituisce il regolamento (CE) n. 1347/2000 che è pertanto abrogato.
(29) Ai fini del corretto funzionamento del presente regolamento, è opportuno che la Commissione ne esamini l’applicazione per proporre, se del caso, le modifiche necessarie.
(30) A norma dell’articolo 3 del protocollo sulla posizione del Regno Unito e dell’Irlanda allegato al trattato sull’Unione europea e al trattato che istituisce la Comunità europea, questi Stati hanno notificato che intendono partecipare all’adozione ed applicazione del presente regolamento.
(31) La Danimarca, conformemente agli articoli 1 e 2 del protocollo sulla posizione della Danimarca allegato al trattato sull’Unione europea e al trattato che istituisce la Comunità europea, non partecipa all’adozione del pre¬sente regolamento, e non ne è pertanto vincolata né è soggetta alla sua applicazione.
(32) Poiché gli obiettivi del presente regolamento non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque essere realizzati meglio a livello comunitario, la comunità può intervenire, in base al principio di sussidiarietà sancito dall’articolo 5 del trattato. Il presente regolamento si limita a quanto necessario per conseguire tali obiettivi in ottemperanza al principio di proporzionalità enunciato nello stesso articolo.
(33) Il presente regolamento riconosce i diritti fondamentali e osserva i principi sanciti in particolare dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In particolare, mira a garantire il pieno rispetto dei diritti fonda¬mentali del bambino quali riconosciuti dall’articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
HA ADOTTATO IL PRESENTE REGOLAMENTO:
CAPO I
AMBITO D’APPLICAZIONE E DEFINIZIONI
Articolo 1
Ambito d’applicazione
1. Il presente regolamento si applica, indipendentemente dal tipo di autorità giurisdizionale, alle materie civili relative:
a) al divorzio, alla separazione personale e all’annullamento del matrimonio;
REGOLAMENTO EUROPEO SULLE CAUSE MATRIMONIALI E RESPONSABILITÀ GENITORIALEGianfranco Dosi Lessico di diritto di famiglia 26
b) all’attribuzione, all’esercizio, alla delega, alla revoca totale o parziale della responsabilità genitoriale.
2. Le materie di cui al paragrafo 1, lettera b), riguardano in particolare:
a) il diritto di affidamento e il diritto di visita;
b) la tutela, la curatela ed altri istituti analoghi;
c) la designazione e le funzioni di qualsiasi persona o ente aventi la responsabilità della persona o dei beni del minore o che lo rappresentino o assistano;
d) la collocazione del minore in una famiglia affidataria o in un istituto;
e) le misure di protezione del minore legate all’amministrazione, alla conservazione o all’alienazione dei beni del minore.
3. Il presente regolamento non si applica:
a) alla determinazione o all’impugnazione della filiazione;
b) alla decisione relativa all’adozione, alle misure che la preparano o all’annullamento o alla revoca dell’adozione;
c) ai nomi e ai cognomi del minore;
d) all’emancipazione;
e) alle obbligazioni alimentari;
f) ai trust e alle successioni;
g) ai provvedimenti derivanti da illeciti penali commessi da minori.
Articolo 2
Definizioni
Ai fini del presente regolamento valgono le seguenti definizioni:
1) “autorità giurisdizionale”: tutte le autorità degli Stati membri competenti per le materie rientranti nel campo di applicazione del presente regolamento a norma dell’articolo 1;
2) “giudice”: designa il giudice o il titolare di competenze equivalenti a quelle del giudice nelle materie che rien¬trano nel campo di applicazione del presente regolamento;
3) “Stato membro”: tutti gli Stati membri ad eccezione della Danimarca;
4) “decisione”: una decisione di divorzio, separazione personale dei coniugi o annullamento del matrimonio emessa dal giudice di uno Stato membro, nonché una decisione relativa alla responsabilità genitoriale, a prescin¬dere dalla denominazione usata per la decisione, quale ad esempio decreto, sentenza o ordinanza;
5) “Stato membro d’origine”: lo Stato membro in cui è stata resa la decisione da eseguire;
6) “Stato membro dell’esecuzione”: lo Stato membro in cui viene chiesta l’esecuzione della decisione;
7) “responsabilità genitoriale”: i diritti e doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore. Il termine comprende, in particolare, il diritto di affidamento e il diritto di visita;
8) “titolare della responsabilità genitoriale”: qualsiasi persona che eserciti la responsabilità di genitore su un minore;
9) “diritto di affidamento”: i diritti e doveri concernenti la cura della persona di un minore, in particolare il diritto di intervenire nella decisione riguardo al suo luogo di residenza;
10) “diritto di visita”: in particolare il diritto di condurre il minore in un luogo diverso dalla sua residenza abituale per un periodo limitato di tempo;
11) “trasferimento illecito o mancato ritorno del minore”: il trasferimento o il mancato rientro di un minore:
a) quando avviene in violazione dei diritti di affidamento derivanti da una decisione, dalla legge o da un accordo vigente in base alla legislazione dello Stato membro nel quale il minore aveva la sua residenza abituale imme¬diatamente prima del suo trasferimento o del suo mancato rientro
e
b) se il diritto di affidamento era effettivamente esercitato, individualmente o congiuntamente, al momento del trasferimento del minore o del suo mancato rientro, o lo sarebbe stato se non fossero sopravvenuti tali eventi. L’affidamento si considera esercitato congiuntamente da entrambi i genitori quanto uno dei titolari della respon¬sabilità genitoriale non può, conformemente ad una decisione o al diritto nazionale, decidere il luogo di residenza del minore senza il consenso dell’altro titolare della responsabilità genitoriale.
CAPO II
COMPETENZA
SEZIONE 1
Divorzio, separazione personale e annullamento del matrimonio
Articolo 3
Competenza generale
1. Sono competenti a decidere sulle questioni inerenti al divorzio, alla separazione personale dei coniugi e all’an¬nullamento del matrimonio le autorità giurisdizionali dello Stato membro:
a) nel cui territorio si trova:
– la residenza abituale dei coniugi, o
– l’ultima residenza abituale dei coniugi se uno di essi vi risiede ancora, o
– la residenza abituale del convenuto, o
– in caso di domanda congiunta, la residenza abituale di uno dei coniugi, o
– la residenza abituale dell’attore se questi vi ha risieduto almeno per un anno immediatamente prima della domanda, o
– la residenza abituale dell’attore se questi vi ha risieduto almeno per sei mesi immediatamente prima della domanda ed è cittadino dello Stato membro stesso o, nel caso del Regno Unito e dell’Irlanda, ha ivi il proprio “domicile”;
b) di cui i due coniugi sono cittadini o, nel caso del Regno Unito e dell’Irlanda, del “domicile” di entrambi i coniugi.
2. Ai fini del presente regolamento la nozione di “domicile” cui è fatto riferimento è quella utilizzata negli ordi¬namenti giuridici del Regno Unito e dell’Irlanda.
Articolo 4
Domanda riconvenzionale
L’autorità giurisdizionale davanti alla quale pende un procedimento in base all’articolo 3 è competente anche per esaminare la domanda riconvenzionale in quanto essa rientri nel campo d’applicazione del presente rego¬lamento.
Articolo 5
Conversione della separazione personale in divorzio
Fatto salvo l’articolo 3, l’autorità giurisdizionale dello Stato membro che ha reso la decisione sulla separazione personale è altresì competente per convertirla in una decisione di divorzio, qualora ciò sia previsto dalla legisla¬zione di detto Stato.
Articolo 6
Carattere esclusivo della competenza giurisdizionale di cui agli articoli 3, 4 e 5
Il coniuge che:
a) risiede abitualmente nel territorio di uno Stato membro o
b) ha la cittadinanza di uno Stato membro o, nel caso del Regno Unito e dell’Irlanda, ha il proprio “domicile” nel territorio di uno di questi Stati membri
può essere convenuto in giudizio davanti alle autorità giurisdizionali di un altro Stato membro soltanto in forza degli articoli 3, 4 e 5.
Articolo 7
Competenza residua
1. Qualora nessun giudice di uno Stato membro sia competente ai sensi degli articoli 3, 4 e 5, la competenza, in ciascuno Stato membro, è determinata dalla legge di tale Stato.
2. Il cittadino di uno Stato membro che ha la residenza abituale nel territorio di un altro Stato membro può, al pari dei cittadini di quest’ultimo, invocare le norme sulla competenza qui in vigore contro un convenuto che non ha la residenza abituale nel territorio di uno Stato membro né ha la cittadinanza di uno Stato membro o che, nel caso del Regno Unito e dell’Irlanda, non ha il proprio “domicile” nel territorio di uno di questi Stati membri.
SEZIONE 2
Responsabilità genitoriale
Articolo 8
Competenza generale
1. Le autorità giurisdizionali di uno Stato membro sono competenti per le domande relative alla responsabilità genitoriale su un minore, se il minore risiede abitualmente in quello Stato membro alla data in cui sono aditi.
2. Il paragrafo 1 si applica fatte salve le disposizioni degli articoli 9, 10 e 12.
Articolo 9
Ultrattività della competenza della precedente residenza abituale del minore
1. In caso di lecito trasferimento della residenza di un minore da uno Stato membro ad un altro che diventa la sua residenza abituale, la competenza delle autorità giurisdizionali dello Stato membro della precedente residen¬za abituale del minore permane in deroga all’articolo 8 per un periodo di 3 mesi dal trasferimento, per modificare una decisione sul diritto di visita resa in detto Stato membro prima del trasferimento del minore, quando il tito¬lare del diritto di visita in virtù della decisione sul diritto di visita continua a risiedere abitualmente nello Stato membro della precedente residenza abituale del minore.
2. Il paragrafo 1 non si applica se il titolare del diritto di visita di cui al paragrafo 1, ha accettato la competenza delle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui risiede abitualmente il minore partecipando ai procedi¬menti dinanzi ad esse senza contestarla.
Articolo 10
Competenza nei casi di sottrazione di minori
In caso di trasferimento illecito o mancato rientro del minore, l’autorità giurisdizionale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima del trasferimento o del mancato rientro conserva la competenza giurisdizionale fino a che il minore non abbia acquisito la residenza in un altro Stato membro e:
a) se ciascuna persona, istituzione o altro ente titolare del diritto di affidamento ha accettato il trasferimento o mancato rientro;
o
b) se il minore ha soggiornato in quell’altro Stato membro almeno per un anno da quando la persona, istituzione o altro ente titolare del diritto di affidamento ha avuto conoscenza, o avrebbe dovuto avere conoscenza, del luogo in cui il minore si trovava e il minore si è integrato nel nuovo ambiente e se ricorre una qualsiasi delle seguenti condizioni:
i) entro un anno da quando il titolare del diritto di affidamento ha avuto conoscenza, o avrebbe dovuto avere conoscenza, del luogo in cui il minore si trovava non è stata presentata alcuna domanda di ritorno del minore dinanzi alle autorità competenti dello Stato membro nel quale il minore è stato trasferito o dal quale non ha fatto rientro;
ii) una domanda di ritorno presentata dal titolare del diritto di affidamento è stata ritirata e non è stata presen¬tata una nuova domanda entro il termine di cui al punto i);
iii) un procedimento dinanzi all’autorità giurisdizionale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima del trasferimento o del mancato rientro è stato definito a norma dell’articolo 11, paragrafo 7;
iv) l’autorità giurisdizionale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima dell’illecito trasferimento o del mancato ritorno ha emanato una decisione di affidamento che non prevede il ritorno del minore.
Articolo 11
Ritorno del minore
1. Quando una persona, istituzione o altro ente titolare del diritto di affidamento adisce le autorità competenti di uno Stato membro affinché emanino un provvedimento in base alla convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori (in seguito “la convenzione dell’Aja del 1980”) per ottenere il ritorno di un minore che è stato illecitamente trasferito o trattenuto in uno Stato membro diverso dallo Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima dell’illecito trasferimento o mancato ritorno, si applicano i paragrafi da 2 a 8.
2. Nell’applicare gli articoli 12 e 13 della convenzione dell’Aja del 1980, si assicurerà che il minore possa esse¬re ascoltato durante il procedimento se ciò non appaia inopportuno in ragione della sua età o del suo grado di maturità.
3. Un’autorità giurisdizionale alla quale è stata presentata la domanda per il ritorno del minore di cui al para¬grafo 1 procede alla rapida trattazione della domanda stessa, utilizzando le procedure più rapide previste nella legislazione nazionale.
Fatto salvo il primo comma l’autorità giurisdizionale, salvo nel caso in cui circostanze eccezionali non lo consen¬tano, emana il provvedimento al più tardi sei settimane dopo aver ricevuto la domanda.
4. Un’autorità giurisdizionale non può rifiutare di ordinare il ritorno di un minore in base all’articolo 13, lettera b), della convenzione dell’Aja del 1980 qualora sia dimostrato che sono previste misure adeguate per assicurare la protezione del minore dopo il suo ritorno.
5. Un’autorità giurisdizionale non può rifiutare di disporre il ritorno del minore se la persona che lo ha chiesto non ha avuto la possibilità di essere ascoltata.
6. Se un’autorità giurisdizionale ha emanato un provvedimento contrario al ritorno di un minore in base all’ar¬ticolo 13 della convenzione dell’Aja del 1980, l’autorità giurisdizionale deve trasmettere direttamente ovvero tramite la sua autorità centrale una copia del provvedimento giudiziario contrario al ritorno e dei pertinenti do¬cumenti, in particolare una trascrizione delle audizioni dinanzi al giudice, all’autorità giurisdizionale competente o all’autorità centrale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima dell’illecito trasferimento o mancato ritorno, come stabilito dalla legislazione nazionale. L’autorità giurisdizionale riceve tutti i documenti indicati entro un mese dall’emanazione del provvedimento contro il ritorno.
7. A meno che l’autorità giurisdizionale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale imme¬diatamente prima dell’illecito trasferimento o mancato ritorno non sia già stato adita da una delle parti, l’autorità giurisdizionale o l’autorità centrale che riceve le informazioni di cui al paragrafo 6 deve informarne le parti e in¬vitarle a presentare all’autorità giurisdizionale le proprie conclusioni, conformemente alla legislazione nazionale, entro tre mesi dalla data della notifica, affinché quest’ultima esamini la questione dell’affidamento del minore.
Fatte salve le norme sulla competenza di cui al presente regolamento, in caso di mancato ricevimento delle conclusioni entro il termine stabilito, l’autorità giurisdizionale archivia il procedimento.
8. Nonostante l’emanazione di un provvedimento contro il ritorno in base all’articolo 13 della convenzione dell’A¬ja del 1980, una successiva decisione che prescrive il ritorno del minore emanata da un giudice competente ai sensi del presente regolamento è esecutiva conformemente alla sezione 4 del capo III, allo scopo di assicurare il ritorno del minore.
Articolo 12
Proroga della competenza
1. Le autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui viene esercitata, ai sensi dell’articolo 5, la competenza a decidere sulle domande di divorzio, separazione personale dei coniugi o annullamento del matrimonio sono competenti per le domande relative alla responsabilità dei genitori che si ricollegano a tali domande se:
a) almeno uno dei coniugi esercita la responsabilità genitoriale sul figlio;
e
b) la competenza giurisdizionale di tali autorità giurisdizionali è stata accettata espressamente o in qualsiasi altro modo univoco dai coniugi e dai titolari della responsabilità genitoriale alla data in cui le autorità giurisdizionali sono adite, ed è conforme all’interesse superiore del minore.
2. La competenza esercitata conformemente al paragrafo 1 cessa non appena:
a) la decisione che accoglie o respinge la domanda di divorzio, separazione personale o annullamento del ma¬trimonio sia passata in giudicato;
o
b) nei casi in cui il procedimento relativo alla responsabilità genitoriale è ancora pendente alla data di cui alla lettera a), la decisione relativa a tale procedimento sia passata in giudicato;
o
c) il procedimento di cui alle lettere a) e b) sia terminato per un’altra ragione.
3. Le autorità giurisdizionali di uno Stato membro sono competenti in materia di responsabilità dei genitori nei procedimenti diversi da quelli di cui al primo paragrafo se:
a) il minore ha un legame sostanziale con quello Stato membro, in particolare perché uno dei titolari della re¬sponsabilità genitoriale vi risiede abitualmente o perché è egli stesso cittadino di quello Stato
e
b) la loro competenza è stata accettata espressamente o in qualsiasi altro modo univoco da tutte le parti al pro¬cedimento alla data in cui le autorità giurisdizionali sono adite ed è conforme all’interesse superiore del minore.
4. Se il minore ha la residenza abituale nel territorio di uno Stato che non è parte della convenzione dell’Aja, del 19 ottobre 1996, concernente la competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la coo¬perazione in materia di potestà genitoriale e di misure di protezione dei minori, si presume che la competenza fondata sul presente articolo sia nell’interesse del minore, in particolare quando un procedimento si rivela im¬possibile nel paese terzo interessato.
Articolo 13
Competenza fondata sulla presenza del minore
1. Qualora non sia possibile stabilire la residenza abituale del minore né determinare la competenza ai sensi dell’articolo 12, sono competenti i giudici dello Stato membro in cui si trova il minore.
2. Il paragrafo 1 si applica anche ai minori rifugiati o ai minori sfollati a livello internazionale a causa di disordini nei loro paesi.
Articolo 14
Competenza residua
Qualora nessuna autorità giurisdizionale di uno Stato membro sia competente ai sensi degli articoli da 8 a 13 la competenza, in ciascuno Stato membro, è determinata dalla legge di tale Stato.
Articolo 15
Trasferimento delle competenze a una autorità giurisdizionale più adatta a trattare il caso
1. In via eccezionale le autorità giurisdizionali di uno Stato membro competenti a conoscere del merito, qualora ritengano che l’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore abbia un legame parti¬colare sia più adatto a trattare il caso o una sua parte specifica e ove ciò corrisponda all’interesse superiore del minore, possono:
a) interrompere l’esame del caso o della parte in questione e invitare le parti a presentare domanda all’autorità giurisdizionale dell’altro Stato membro conformemente al paragrafo 4 oppure
b) chiedere all’autorità giurisdizionale dell’altro Stato membro di assumere la competenza ai sensi del paragrafo 5.
2. Il paragrafo 1 è applicabile:
a) su richiesta di una parte o
b) su iniziativa dell’autorità giurisdizionale o
c) su iniziativa di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con cui il minore abbia un legame partico¬lare, conformemente al paragrafo 3.
Il trasferimento della causa può tuttavia essere effettuato su iniziativa dell’autorità giurisdizionale o su richiesta di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro soltanto se esso è accettato da almeno una delle parti.
3. Si ritiene che il minore abbia un legame particolare con uno Stato membro, ai sensi del paragrafo 1, se tale Stato membro
a) è divenuto la residenza abituale del minore dopo che l’autorità giurisdizionale di cui al paragrafo 1 è stata adita; o
b) è la precedente residenza abituale del minore; o
c) è il paese di cui il minore è cittadino; o
d) è la residenza abituale di uno dei titolari della responsabilità genitoriale; o
e) la causa riguarda le misure di protezione del minore legate all’amministrazione, alla conservazione o all’alie¬nazione dei beni del minore situati sul territorio di questo Stato membro.
4. L’autorità giurisdizionale dello Stato membro competente a conoscere del merito fissa un termine entro il quale le autorità giurisdizionali dell’altro Stato membro devono essere adite conformemente al paragrafo 1.
Decorso inutilmente tale termine, la competenza continua ad essere esercitata dall’autorità giurisdizionale pre¬ventivamente adita ai sensi degli articoli da 8 a 14.
5. Le autorità giurisdizionali di quest’altro Stato membro possono accettare la competenza, ove ciò corrisponda, a motivo delle particolari circostanze del caso, all’interesse superiore del minore, entro 6 settimane dal momento in cui sono adite in base al paragrafo 1, lettere a) o b). In questo caso, l’autorità giurisdizionale preventivamente adita declina la propria competenza. In caso contrario, la competenza continua ad essere esercitata dall’autorità giurisdizionale preventivamente adito ai sensi degli articoli da 8 a 14.
6. Le autorità giurisdizionali collaborano, ai fini del presente articolo, direttamente ovvero attraverso le autorità centrali nominate a norma dell’articolo 53.
SEZIONE 3
Disposizioni comuni
Articolo 16
Adizione di un’autorità giurisdizionale
1. L’autorità giurisdizionale si considera adita:
a) alla data in cui la domanda giudiziale o un atto equivalente è depositato presso l’autorità giurisdizionale, purché successivamente l’attore non abbia omesso di prendere tutte le misure cui era tenuto affinché fosse effettuata la notificazione al convenuto;
o
b) se l’atto deve essere notificato prima di essere depositato presso l’autorità giurisdizionale, alla data in cui l’autorità competente ai fini della notificazione lo riceve, purché successivamente l’attore non abbia omesso di prendere tutte le misure cui era tenuto affinché l’atto fosse depositato presso l’autorità giurisdizionale.
Articolo 17
Verifica della competenza
L’autorità giurisdizionale di uno Stato membro, investita di una controversia per la quale il presente regolamento non prevede la sua competenza e per la quale, in base al presente regolamento, è competente un’autorità giu¬risdizionale di un altro Stato membro, dichiara d’ufficio la propria incompetenza.
Articolo 18
Esame della procedibilità
1. Se la persona che ha la residenza abituale in uno Stato diverso dallo Stato membro in cui l’azione è stata proposta non compare, l’autorità giurisdizionale competente è tenuta a sospendere il procedimento fin quando non si sarà accertato che al convenuto è stata data la possibilità di ricevere la domanda giudiziale o un atto equivalente in tempo utile perché questi possa presentare le proprie difese, ovvero che è stato fatto tutto il possibile a tal fine.
2. In luogo delle disposizioni del paragrafo 1 del presente articolo, si applica l’articolo 19 del regolamento (CE) n. 1348/2000 qualora sia stato necessario trasmettere la domanda giudiziale o un atto equivalente da uno Stato membro a un altro a norma di tale regolamento.
3. Ove non si applichino le disposizioni del regolamento (CE) n. 1348/2000, si applica l’articolo 15 della conven¬zione dell’Aja del 15 novembre 1965 relativa alla notificazione e alla comunicazione all’estero di atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile o commerciale, qualora sia stato necessario trasmettere la domanda giudiziale o un atto equivalente all’estero a norma di tale convenzione.
Articolo 19
Litispendenza e connessione
1. Qualora dinanzi a autorità giurisdizionali di Stati membri diverse e tra le stesse parti siano state proposte domande di divorzio, separazione personale dei coniugi e annullamento del matrimonio, l’autorità giurisdizionale successivamente adita sospende d’ufficio il procedimento finché non sia stata accertata la competenza dall’au¬torità giurisdizionale preventivamente adita.
2. Qualora dinanzi a autorità giurisdizionali di Stati membri diversi siano state proposte domande sulla responsa¬bilità genitoriale su uno stesso minore, aventi il medesimo oggetto e il medesimo titolo, l’autorità giurisdizionale successivamente adita sospende d’ufficio il procedimento finché non sia stata accertata la competenza dell’au¬torità giurisdizionale preventivamente adita.
3. Quando la competenza dell’autorità giurisdizionale preventivamente adita è stata accertata, l’autorità giuri¬sdizionale successivamente adita dichiara la propria incompetenza a favore dell’autorità giurisdizionale preven¬tivamente adita.
In tal caso la parte che ha proposto la domanda davanti all’autorità giurisdizionale successivamente adita può promuovere l’azione dinanzi all’autorità giurisdizionale preventivamente adita.
Articolo 20
Provvedimenti provvisori e cautelari
1. In casi d’urgenza, le disposizioni del presente regolamento non ostano a che le autorità giurisdizionali di uno Stato membro adottino i provvedimenti provvisori o cautelari previsti dalla legge interna, relativamente alle per¬sone presenti in quello Stato o ai beni in esso situati, anche se, a norma del presente regolamento, è competente a conoscere nel merito l’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro.
2. I provvedimenti adottati in esecuzione del paragrafo 1 cessano di essere applicabili quando l’autorità giurisdi¬zionale dello Stato membro competente in virtù del presente regolamento a conoscere del merito abbia adottato i provvedimenti ritenuti appropriati.
CAPO III
RICONOSCIMENTO ED ESECUZIONE
SEZIONE 1
Riconoscimento
Articolo 21
Riconoscimento delle decisioni
1. Le decisioni pronunciate in uno Stato membro sono riconosciute negli altri Stati membri senza che sia neces¬sario il ricorso ad alcun procedimento.
2. In particolare, e fatto salvo il paragrafo 3, non è necessario alcun procedimento per l’aggiornamento delle iscrizioni nello stato civile di uno Stato membro a seguito di una decisione di divorzio, separazione personale dei coniugi o annullamento del matrimonio pronunciata in un altro Stato membro, contro la quale non sia più possibile proporre impugnazione secondo la legge di detto Stato membro.
3. Fatta salva la sezione 4 del presente capo, ogni parte interessata può far dichiarare, secondo il procedimento di cui alla sezione 2, che la decisione deve essere o non può essere riconosciuta.
La competenza territoriale degli organi giurisdizionali indicati nell’elenco, comunicato da ciascuno Stato membro alla Commissione conformemente all’articolo 68, è determinata dal diritto interno dello Stato membro nel quale è proposta l’istanza di riconoscimento o di non riconoscimento.
4. Se il riconoscimento di una decisione è richiesto in via incidentale dinanzi ad una autorità giurisdizionale di uno Stato membro, questa può decidere al riguardo.
Articolo 22
Motivi di non riconoscimento delle decisioni di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio
La decisione di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio non è riconosciuta nei casi se¬guenti:
a) se il riconoscimento è manifestamente contrario all’ordine pubblico dello Stato membro richiesto;
b) quando è resa in contumacia, ovvero la domanda giudiziale o un atto equivalente non è stato notificato o comunicato al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale da poter presentare le proprie difese, salvo che sia stato accertato che il convenuto ha accettato inequivocabilmente la decisione;
c) se la decisione è incompatibile con una decisione resa in un procedimento tra le medesime parti nello Stato membro richiesto; o
d) se la decisione è incompatibile con una decisione anteriore avente le stesse parti, resa in un altro Stato mem¬bro o in un paese terzo, purché la decisione anteriore soddisfi le condizioni prescritte per il riconoscimento nello Stato membro richiesto.
Articolo 23
Motivi di non riconoscimento delle decisioni relative alla responsabilità genitoriale
Le decisioni relative alla responsabilità genitoriale non sono riconosciute nei casi seguenti:
a) se, tenuto conto dell’interesse superiore del minore, il riconoscimento è manifestamente contrario all’ordine pubblico dello Stato membro richiesto;
b) se, salvo i casi d’urgenza, la decisione è stata resa senza che il minore abbia avuto la possibilità di essere ascoltato, in violazione dei principi fondamentali di procedura dello Stato membro richiesto;
c) quando è resa in contumacia, ovvero la domanda giudiziale o un atto equivalente non è stato notificato o comunicato al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale da poter presentare le proprie difese, salvo che sia stato accertato che il convenuto ha accettato inequivocabilmente la decisione;
d) su richiesta di colui che ritiene che la decisione sia lesiva della propria responsabilità genitoriale, se è stata emessa senza dargli la possibilità di essere ascoltato;
e) se la decisione è incompatibile con una decisione successiva sulla responsabilità genitoriale emessa nello Stato membro richiesto;
f) se la decisione è incompatibile con una decisione successiva sulla responsabilità genitoriale emessa in un altro Stato membro o nel paese terzo in cui il minore risieda, la quale soddisfi le condizioni prescritte per il riconosci¬mento nello Stato membro richiesto;
o
g) se la procedura prevista dall’articolo 56 non è stata rispettata.
Articolo 24
Divieto di riesame della competenza giurisdizionale dell’autorità giurisdizionale d’origine
Non si può procedere al riesame della competenza giurisdizionale del giudice dello Stato membro d’origine. Il criterio dell’ordine pubblico di cui agli articoli 22, lettera a), e 23, lettera a), non può essere applicato alle norme sulla competenza di cui agli articoli da 3 a 14.
Articolo 25
Divergenze fra le leggi
Il riconoscimento di una decisione non può essere negato perché la legge dello Stato membro richiesto non pre¬vede per i medesimi fatti il divorzio, la separazione personale o l’annullamento del matrimonio.
Articolo 26
Divieto di riesame del merito
In nessun caso la decisione può formare oggetto di un riesame del merito.
Articolo 27
Sospensione del procedimento
1. L’autorità giurisdizionale di uno Stato membro dinanzi alla quale è richiesto il riconoscimento di una decisione pronunciata in un altro Stato membro può sospendere il procedimento se la decisione è stata impugnata con un mezzo ordinario.
2. L’autorità giurisdizionale di uno Stato membro dinanzi alla quale è richiesto il riconoscimento di una decisione emessa in Irlanda o nel Regno Unito e la cui esecuzione è sospesa nello Stato membro d’origine per la presen¬tazione di un ricorso può sospendere il procedimento.
SEZIONE 2
Istanza per la dichiarazione di esecutività
Articolo 28
Decisioni esecutive
1. Le decisioni relative all’esercizio della responsabilità genitoriale su un minore, emesse ed esecutive in un determinato Stato membro, sono eseguite in un altro Stato membro dopo esservi state dichiarate esecutive su istanza della parte interessata, purché siano state notificate.
2. Tuttavia la decisione è eseguita in una delle tre parti del Regno Unito (Inghilterra e Galles, Scozia e Irlanda del Nord) soltanto dopo esservi stata registrata per esecuzione, su istanza di una parte interessata.
Articolo 29
Giudici territorialmente competenti
1. L’istanza per la dichiarazione di esecutività è proposta ai giudici che figurano nell’elenco comunicato da cia¬scuno Stato membro alla Commissione conformemente all’articolo 68.
2. La competenza territoriale è determinata dalla residenza abituale della parte contro cui è chiesta l’esecuzione oppure dalla residenza abituale del minore cui l’istanza si riferisce.
Quando nessuno dei luoghi di cui al primo comma si trova nello Stato membro dell’esecuzione, la competenza territoriale è determinata dal luogo dell’esecuzione.
Articolo 30
Procedimento
1. Le modalità del deposito dell’istanza sono determinate in base alla legge dello Stato membro dell’esecuzione.
2. L’istante elegge il proprio domicilio nella circoscrizione dell’autorità giurisdizionale adita. Tuttavia, se la legge dello Stato membro dell’esecuzione non prevede l’elezione del domicilio, l’istante designa un procuratore.
3. All’istanza vengono allegati i documenti di cui agli articoli 37 e 39.
Articolo 31
Decisione dell’autorità giurisdizionale
1. L’autorità giurisdizionale adita decide senza indugio. In questa fase del procedimento, né la parte contro la quale l’esecuzione viene chiesta né il minore possono presentare osservazioni.
2. L’istanza può essere respinta solo per uno dei motivi di cui agli articoli 22, 23 e 24.
3. In nessun caso la decisione può formare oggetto di un riesame del merito.
Articolo 32
Comunicazione della decisione
La decisione resa su istanza di parte è senza indugio portata a conoscenza del richiedente, a cura del cancelliere, secondo le modalità previste dalla legge dello Stato membro dell’esecuzione.
Articolo 33
Opposizione
1. Ciascuna delle parti può proporre opposizione contro la decisione resa sull’istanza intesa a ottenere una di¬chiarazione di esecutività.
2. L’opposizione è proposta davanti all’autorità giurisdizionale di cui all’elenco comunicato da ciascuno Stato membro alla Commissione conformemente all’articolo 68.
3. Il ricorso è esaminato secondo le norme sul procedimento in contraddittorio.
4. Se l’opposizione è proposta dalla parte che ha richiesto la dichiarazione di esecutività, la parte contro cui l’e¬secuzione viene fatta valere è chiamata a comparire davanti all’autorità giurisdizionale dell’opposizione. In caso di contumacia, si applicano le disposizioni dell’articolo 18.
5. L’opposizione contro una dichiarazione di esecutività deve essere proposta nel termine di un mese dalla no¬tificazione della stessa. Se la parte contro la quale è chiesta l’esecuzione ha la residenza abituale in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata rilasciata la dichiarazione di esecutività, il termine è di due mesi a decorrere dalla data della notificazione in mani proprie o nella residenza. Detto termine non è prorogabile per ragioni inerenti alla distanza.
Articolo 34
Autorità giurisdizionale dell’opposizione e ulteriori mezzi di impugnazione
La decisione resa sull’opposizione può costituire unicamente oggetto delle procedure di cui all’elenco comunicato da ciascuno Stato membro alla Commissione conformemente all’articolo 68.
Articolo 35
Sospensione del procedimento
1. L’autorità giurisdizionale dinanzi alla quale è proposta l’opposizione a norma dell’articolo 33 o dell’articolo 34 può, su istanza della parte contro la quale è chiesta l’esecuzione, sospendere il procedimento di esecuzione se la decisione è stata impugnata nello Stato membro d’origine con un mezzo ordinario o se il termine per proporre l’impugnazione non è ancora scaduto. In quest’ultimo caso l’autorità giurisdizionale può fissare un termine per proporre tale impugnazione.
2. Qualora la decisione sia stata emessa in Irlanda o nel Regno Unito, qualsiasi mezzo di impugnazione esperibile nello Stato membro d’origine è considerato “impugnazione ordinaria” ai sensi del paragrafo 1.
Articolo 36
Esecuzione parziale
1. Se la decisione ha statuito su vari capi della domanda e l’esecuzione non può essere concessa per tutti i capi, l’autorità giurisdizionale autorizza l’esecuzione solo per uno o taluni di essi.
2. L’istante può chiedere un’esecuzione parziale.
SEZIONE 3
Disposizioni comuni alle sezioni 1 e 2
Articolo 37
Documenti
1. La parte che chiede o contesta il riconoscimento oche chiede una dichiarazione di esecutività deve produrre quanto segue:
a) una copia della decisione, che presenti le condizioni di autenticità prescritte;
e
b) il certificato di cui all’articolo 39.
2. Se si tratta di decisione contumaciale, la parte che ne chiede il riconoscimento o l’esecuzione deve inoltre produrre:
a) l’originale o una copia autenticata del documento comprovante che la domanda giudiziale o l’atto equivalente è stato notificato o comunicato al contumace;
o
b) un documento comprovante che il convenuto ha inequivocabilmente accettato la decisione.
Articolo 38
Mancata produzione di documenti
1. Qualora i documenti di cui all’articolo 37, paragrafo 1, lettera b), o paragrafo 2, non vengano prodotti, l’au¬torità giurisdizionale può fissare un termine per la loro presentazione o accettare documenti equivalenti ovvero, qualora ritenga di essere informato a sufficienza, disporre l’esonero della presentazione degli stessi.
2. Qualora l’autorità giurisdizionale lo richieda, è necessario produrre una traduzione dei documenti richiesti. La traduzione è autenticata da una persona a tal fine abilitata in uno degli Stati membri.
Articolo 39
Certificato relativo alle decisioni rese nelle cause matrimoniali e in materia di responsabilità geni¬toriale
L’autorità giurisdizionale o l’autorità competente dello Stato membro d’origine rilascia, su richiesta di qualsiasi parte interessata, un certificato utilizzando il modello standard di cui all’allegato I (decisioni in materia matrimo¬niale) o all’allegato II (decisioni in materia di responsabilità genitoriale).
SEZIONE 4
Esecuzione di talune decisioni in materia di diritto di visita e di talune decisioni che prescrivono il ritorno del minore
Articolo 40
Campo d’applicazione
1. La presente sezione si applica:
a) al diritto di visita;
e
b) al ritorno del minore ordinato in seguito a una decisione che prescrive il ritorno del minore di cui all’articolo 11, paragrafo 8.
2. Le disposizioni della presente sezione non ostano a che il titolare della responsabilità genitoriale chieda il rico¬noscimento e l’esecuzione in forza delle disposizioni contenute nelle sezioni 1 e 2 del presente capo.
Articolo 41
Diritto di visita
1. Il diritto di visita di cui all’articolo 40, paragrafo 1, lettera a), conferito in forza di una decisione esecutiva emessa in uno Stato membro, è riconosciuto ed è eseguibile in un altro Stato membro senza che sia necessaria alcuna dichiarazione di esecutività e senza che sia possibile opporsi al suo riconoscimento se la decisione è stata certificata nello Stato membro d’origine in accordo con il paragrafo 2.
Anche se il diritto interno non prevede l’esecutività di diritto, nonostante un eventuale ricorso, di una decisione che accorda un diritto di visita, l’autorità giurisdizionale può dichiarare la decisione esecutiva.
2. Il giudice di origine rilascia il certificato di cui al paragrafo 1, sulla base del modello standard di cui all’allegato III (certificato sul diritto di visita), solo nei seguenti casi:
a) in caso di procedimento in contumacia, la domanda giudiziale o un atto equivalente è stato notificato o comu¬nicato al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale che questi possa presentare le proprie difese, o, è stato notificato o comunicato nel mancato rispetto di queste condizioni, sia comunque accertato che il convenuto ha accettato la decisione inequivocabilmente;
b) tutte le parti interessate hanno avuto la possibilità di essere ascoltate;
e
c) il minore ha avuto la possibilità di essere ascoltato, salvo che l’audizione non sia stata ritenuta inopportuna in ragione della sua età o del suo grado di maturità.
Il certificato standard deve essere compilato nella lingua della decisione.
3. Se il diritto di visita riguarda un caso che sin dall’atto della pronuncia della decisione riveste un carattere transfrontaliero, il certificato è rilasciato d’ufficio quando la decisione diventa esecutiva, anche se solo provviso¬riamente. Se il caso diventa transfrontaliero solo in seguito, il certificato è rilasciato a richiesta di una della parti.
Articolo 42
Ritorno del minore
1. Il ritorno del minore di cui all’articolo 40, paragrafo 1, lettera b), ordinato con una decisione esecutiva emessa in uno Stato membro, è riconosciuto ed è eseguibile in un altro Stato membro senza che sia necessaria una dichiarazione di esecutività e senza che sia possibile opporsi al riconoscimento, se la decisione è stata certificata nello Stato membro d’origine conformemente al paragrafo 2.
Anche se la legislazione nazionale non prevede l’esecutività di diritto, nonostante eventuali impugnazioni, di una decisione che prescrive il ritorno del minore di cui all’articolo 11, paragrafo 8, l’autorità giurisdizionale può dichiarare che la decisione in questione è esecutiva.
2. Il giudice di origine che ha emanato la decisione di cui all’articolo 40, paragrafo 1, lettera b), rilascia il certi¬ficato di cui al paragrafo 1 solo se:
a) il minore ha avuto la possibilità di essere ascoltato, salvo che l’audizione sia stata ritenuta inopportuna in ragione della sua età o del suo grado di maturità;
b) le parti hanno avuto la possibilità di essere ascoltate; e
c) l’autorità giurisdizionale ha tenuto conto, nel rendere la sua decisione, dei motivi e degli elementi di prova alla base del provvedimento emesso conformemente all’articolo 13 della convenzione dell’Aja del 1980.
Nel caso in cui l’autorità giurisdizionale o qualsiasi altra autorità adotti misure per assicurare la protezione del minore dopo il suo ritorno nello Stato della residenza abituale, il certificato contiene i dettagli di tali misure.
Il giudice d’origine rilascia detto certificato di sua iniziativa e utilizzando il modello standard di cui all’allegato IV (certificato sul ritorno del minore).
Il certificato è compilato nella lingua della decisione.
Articolo 43
Domanda di rettifica
1. Il diritto dello Stato membro di origine è applicabile a qualsiasi rettifica del certificato.
2. Il rilascio di un certificato a norma dell’articolo 41, paragrafo 1, o dell’articolo 42, paragrafo 1, non è inoltre soggetto ad alcun mezzo di impugnazione.
Articolo 44
Effetti del certificato
Il certificato ha effetto soltanto nei limiti del carattere esecutivo della sentenza.
Articolo 45
Documenti
1. La parte che chiede l’esecuzione di una decisione deve produrre quanto segue:
a) una copia della decisione, che presenti le condizioni di autenticità prescritte;
e
b) il certificato di cui all’articolo 41, paragrafo 1, o all’articolo 42, paragrafo 1.
2. Ai fini del presente articolo:
– il certificato di cui all’articolo 41, paragrafo 1, è corredato della traduzione del punto 12 relativo alle modalità per l’esercizio del diritto di visita,
– il certificato di cui all’articolo 42, paragrafo 1, è corredato della traduzione del punto 14 relativo alle misure adottate per assicurare il ritorno del minore.
La traduzione deve essere nella lingua ufficiale o in una delle lingue ufficiali dello Stato membro dell’esecuzione o in un’altra lingua che quello Stato membro abbia dichiarato di accettare. La traduzione è autenticata da una persona a tal fine abilitata in uno degli Stati membri.
SEZIONE 5
Atti pubblici e accordi
Articolo 46
Gli atti pubblici formati e aventi efficacia esecutiva in uno Stato membro nonché gli accordi tra le parti aventi efficacia esecutiva nello Stato membro di origine sono riconosciuti ed eseguiti alle stesse condizioni previste per le decisioni.
SEZIONE 6
Altre disposizioni
Articolo 47
Procedimento di esecuzione
1. Il procedimento di esecuzione è disciplinato dalla legge dello Stato membro dell’esecuzione.
2. Ogni decisione pronunciata dall’autorità giurisdizionale di uno Stato membro e dichiarata esecutiva ai sensi della sezione 2 o certificata conformemente all’articolo 41, paragrafo 1, o all’articolo 42, paragrafo 1, è eseguita nello Stato membro dell’esecuzione alle stesse condizioni che si applicherebbero se la decisione fosse stata pro¬nunciata in tale Stato membro.
In particolare una decisione certificata conformemente all’articolo 41, paragrafo 1, o all’articolo 42, paragrafo 1, non può essere eseguita se è incompatibile con una decisione esecutiva emessa posteriormente.
Articolo 48
Modalità pratiche per l’esercizio del diritto di visita
1. L’autorità giurisdizionale dello Stato membro dell’esecuzione possono stabilire modalità pratiche volte ad organizzare l’esercizio del diritto di visita, qualora le modalità necessarie non siano o siano insufficientemente previste nella decisione emessa dalle autorità giurisdizionali dello Stato membro competente a conoscere del merito e a condizione che siano rispettati gli elementi essenziali di quella decisione.
2. Le modalità pratiche stabilite a norma del paragrafo 1 cessano di essere applicabili in virtù di una decisione posteriore emessa dalle autorità giurisdizionali dello Stato membro competenti a conoscere del merito.
Articolo 49
Spese
Le disposizioni del presente capo, eccettuate quelle previste alla sezione 4, si applicano altresì alla determinazio¬ne dell’importo delle spese per i procedimenti instaurati in base al presente regolamento nonché all’esecuzione di qualsiasi decisione relativa a tali spese.
Articolo 50
Patrocinio a spese dello Stato
L’istante che nello Stato membro d’origine ha usufruito in tutto o in parte del patrocinio a spese dello Stato o dell’esenzione dalle spese beneficia, nel procedimento di cui agli articoli 21, 28, 41, 42 e 48, dell’assistenza più favorevole o dell’esenzione più ampia prevista dalla legge dello Stato membro dell’esecuzione.
Articolo 51
Cauzione o deposito
Non può essere imposta la costituzione di cauzioni o depositi, comunque denominati, alla parte che chiede l’e¬secuzione in uno Stato membro di una decisione pronunciata in un altro Stato membro per i seguenti motivi:
a) per il difetto di residenza abituale nello Stato membro richiesto, o
b) per la sua qualità di straniero oppure, qualora l’esecuzione sia richiesta nel Regno Unito o in Irlanda, per difetto di “domicile” in uno di tali Stati membri.
Articolo 52
Legalizzazione o altra formalità analoga
Non è richiesta alcuna legalizzazione o altra formalità analoga per i documenti indicati negli articoli 37, 38 e 45, né per l’eventuale procura alle liti.
CAPO IV
COOPERAZIONE FRA AUTORITÀ CENTRALI IN MATERIA DI RESPONSABILITÀ GENITORIALE
Articolo 53
Designazione
Ciascuno Stato membro designa una o più autorità centrali incaricata di assisterlo nell’applicazione del presente regolamento e ne specifica le competenze territoriali e materiali. Qualora uno Stato membro abbia designato più autorità centrali, le comunicazioni dovrebbero essere inviate direttamente all’autorità centrale competente. Se una comunicazione è stata inviata a un’autorità centrale non competente, quest’ultima deve inoltrarla all’autorità centrale competente e informare il mittente al riguardo.
Articolo 54
Funzioni generali
Le autorità centrali mettono a disposizione informazioni sull’ordinamento e sulle procedure nazionali e adottano misure generali per migliorare l’applicazione del presente regolamento e rafforzare la cooperazione. A tal fine si ricorre alla rete giudiziaria europea in materia civile e commerciale, istituita con decisione 2001/470/CE.
Articolo 55
Cooperazione nell’ambito di cause specifiche alla responsabilità genitoriale
Le autorità centrali, su richiesta di un’autorità centrale di un altro Stato membro o del titolare della responsabi¬lità genitoriale, cooperano nell’ambito di cause specifiche per realizzare gli obiettivi del presente regolamento. A tal fine esse provvedono, direttamente o tramite le autorità pubbliche o altri organismi, compatibilmente con l’ordinamento di tale Stato membro in materia di protezione dei dati personali:
a) a raccogliere e a scambiare informazioni:
i) sulla situazione del minore;
ii) sugli eventuali procedimenti in corso; o
iii) sulle decisioni adottate relativamente al minore;
b) a fornire informazioni e assistenza ai titolari della responsabilità genitoriale che chiedono il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni sul loro territorio, relativamente in particolare al diritto di visita e al ritorno del minore;
c) a facilitare la comunicazione fra le autorità giurisdizionali, in relazione soprattutto all’attuazione dell’articolo 11, paragrafi 6 e 7, e dell’articolo 15;
d) a fornire informazioni e sostegno utili all’attuazione dell’articolo 56 da parte delle autorità giurisdizionali;
e) a facilitare un accordo fra i titolari della responsabilità genitoriale, ricorrendo alla mediazione o con altri mezzi, e ad agevolare a tal fine la cooperazione transfrontaliera.
Articolo 56
Collocamento del minore in un altro Stato membro
1. Qualora l’autorità giurisdizionale competente in virtù degli articoli da 8 a 15 intenda collocare il minore in istituto o in una famiglia affidataria e tale collocamento abbia luogo in un altro Stato membro, egli consulta preventivamente l’autorità centrale o un’altra autorità competente di quest’ultimo Stato membro se in tale Stato membro è previsto l’intervento di un’autorità pubblica nei casi nazionali di collocamento di minori.
2. La decisione sul collocamento di cui al paragrafo 1 può essere presa nello Stato membro richiedente soltanto se l’autorità centrale o un’altra autorità competente dello Stato richiesto ha approvato tale collocamento.
3. Le modalità relative alla consultazione o all’approvazione di cui ai paragrafi 1 e 2 sono disciplinate dal diritto nazionale dello Stato membro richiesto.
4. Qualora l’autorità giurisdizionale competente ai sensi degli articoli da 8 a 15 decida di collocare il minore in una famiglia affidataria e tale collocamento abbia luogo in un altro Stato membro, e in quest’ultimo Stato membro non sia previsto l’intervento di un’autorità pubblica nei casi nazionali di collocamento di minori, egli lo comunica all’autorità centrale o ad un’autorità competente di quest’ultimo Stato membro.
Articolo 57
Metodo di lavoro
1. I titolari della responsabilità genitoriale possono rivolgere una domanda di assistenza, di cui all’articolo 55, all’autorità centrale dello Stato membro in cui risiedono abitualmente ovvero all’autorità centrale dello Stato membro in cui si può trovare o risiede abitualmente il minore. In generale, la domanda contiene tutte le informa¬zioni disponibili che ne possono agevolare l’esecuzione. Se la domanda di assistenza riguarda il riconoscimento o l’esecuzione di una decisione in materia di responsabilità genitoriale che rientra nel campo di applicazione del presente regolamento, il titolare della responsabilità genitoriale vi acclude i pertinenti certificati di cui all’articolo 39, all’articolo 41, paragrafo 1, o all’articolo 42, paragrafo 1.
2. Gli Stati membri comunicano alla Commissione la o le lingue ufficiali delle Istituzioni della Comunità, diverse dalla sua, nelle quali le comunicazioni alle autorità centrali possono essere redatte.
3. L’assistenza delle autorità centrali a norma dell’articolo 55 è gratuita.
4. Ciascuna autorità centrale sostiene i propri costi.
Articolo 58
Riunioni
1. Per facilitare l’applicazione del presente regolamento le autorità centrali si riuniscono periodicamente.
2. Le riunioni sono convocate conformemente alla decisione 2001/470/CE relativa all’istituzione di una rete giu¬diziaria europea in materia civile e commerciale.
CAPO V
RELAZIONI CON GLI ALTRI ATTI NORMATIVI
Articolo 59
Relazione con altri strumenti
1. Fatti salvi gli articoli 60, 63, 64 e il paragrafo 2 del presente articolo, il presente regolamento sostituisce, nei rapporti tra gli Stati membri, le convenzioni vigenti alla data della sua entrata in vigore, concluse tra due o più Stati membri su materie disciplinate dal presente regolamento.
2. a) La Finlandia e la Svezia hanno facoltà di dichiarare che nei loro rapporti reciproci, in luogo delle norme del presente regolamento, si applica in tutto o in parte la convenzione del 6 febbraio 1931 tra Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia contenente disposizioni di diritto internazionale privato in materia di matrimonio, adozione e tutela, nonché il relativo protocollo finale. Queste dichiarazioni sono pubblicate nella Gazzetta uffi¬ciale dell’Unione europea in allegato al presente regolamento. Tali Stati membri possono dichiarare in qualsiasi momento di rinunciarvi in tutto o in parte.
b) È fatto obbligo di rispettare il principio di non discriminazione in base alla cittadinanza tra i cittadini dell’Unione europea.
c) I criteri di competenza giurisdizionale di qualsiasi accordo che sarà concluso tra gli Stati membri di cui alla lettera a) su materie disciplinate dal presente regolamento devono corrispondere a quelli stabiliti dal regola¬mento stesso.
d) Le decisioni pronunciate in uno degli Stati nordici che abbia reso la dichiarazione di cui alla lettera a), in base a un criterio di competenza giurisdizionale corrispondente a quelli previsti nel capo II del presente regolamento, sono riconosciute ed eseguite negli altri Stati membri secondo le disposizioni del capo III del regolamento stesso.
3. Gli Stati membri comunicano alla Commissione:
a) copia degli accordi di cui al paragrafo 2, lettere a) e c), e delle relative leggi uniformi di applicazione;
b) qualsiasi denuncia o modifica di tali accordi o leggi uniformi.
Articolo 60
Relazione con talune convenzioni multilaterali
Nei rapporti tra gli Stati che ne sono parti, il presente regolamento prevale sulle convenzioni seguenti, nella misura in cui queste riguardino materie da esso disciplinate:
a) convenzione dell’Aja, del 5 ottobre 1961, sulla competenza delle autorità e sulla legge applicabile in materia di protezione dei minori;
b) convenzione del Lussemburgo, dell’8 settembre 1967, sul riconoscimento delle decisioni relative al vincolo matrimoniale;
c) convenzione dell’Aja, del 1o giugno 1970, sul riconoscimento dei divorzi e delle separazioni personali;
d) convenzione europea, del 20 maggio 1980, sul riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia di affidamento dei minori e di ristabilimento dell’affidamento;
e
e) convenzione dell’Aja, del 25 ottobre 1980, sugli aspetti civili della sottrazione internazionale dei minori.
Articolo 61
Relazioni con la convenzione dell’Aja del 19 ottobre 1996 sulla competenza giurisdizionale, la legge applicabile, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni, nonché la cooperazione, in materia di responsabilità genitoriale e di misure per la tutela dei minori
Nelle relazioni con la convenzione dell’Aja del 19 ottobre 1996 sulla competenza giurisdizionale, la legge ap¬plicabile, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni, nonché la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure per la tutela dei minori, il presente regolamento si applica:
a) se il minore in questione ha la sua residenza abituale nel territorio di uno Stato membro;
b) per quanto riguarda il riconoscimento e l’esecuzione di una decisione emessa dal giudice competente di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro, anche se il minore risiede abitualmente nel territorio di uno Stato non membro che è parte contraente di detta convenzione.
Articolo 62
Portata degli effetti
1. Gli accordi e le convenzioni di cui all’articolo 59, paragrafo 1, e agli articoli 60 e 61 continuano a produrre effetti nelle materie non disciplinate dal presente regolamento.
2. Le convenzioni di cui all’articolo 60, in particolare la convenzione dell’Aja del 1980, continuano ad avere effi¬cacia tra gli Stati membri che ne sono parti contraenti, conformemente all’articolo 60.
Articolo 63
Trattati con la Santa Sede
1. Il presente regolamento fa salvo il trattato internazionale (Concordato) concluso fra la Santa Sede e il Porto¬gallo, firmato nella Città del Vaticano il 7 maggio 1940.
2. Ogni decisione relativa all’invalidità di un matrimonio disciplinata dal trattato di cui al paragrafo 1 è ricono¬sciuta negli Stati membri a norma del capo III, sezione 1, del presente regolamento.
3. Le disposizioni di cui ai paragrafi 1 e 2 si applicano altresì ai seguenti trattati internazionali (Concordati) con¬clusi con la Santa Sede:
a) “Concordato lateranense”, dell’11 febbraio 1929, tra l’Italia e la Santa Sede, modificato dall’accordo, con pro¬tocollo aggiuntivo, firmato a Roma il 18 febbraio 1984;
b) accordo tra la Santa Sede e la Spagna su questioni giuridiche del 3 gennaio 1979.
4. L’Italia e la Spagna possono sottoporre il riconoscimento delle decisioni di cui al paragrafo 2 alle procedure e ai controlli applicabili alle sentenze dei tribunali ecclesiastici pronunciate in base ai trattati internazionali con la Santa Sede di cui al paragrafo 3.
5. Gli Stati membri comunicano alla Commissione:
a) una copia dei trattati di cui ai paragrafi 1 e 3;
b) eventuali denunce o modificazioni di tali trattati.
CAPO VI
DISPOSIZIONI TRANSITORIE
Articolo 64
1. Il presente regolamento si applica solo alle azioni proposte, agli atti pubblici formati e agli accordi tra le parti conclusi posteriormente alla data in cui il presente regolamento entra in applicazione secondo l’articolo 72.
2. Le decisioni pronunciate dopo l’entrata in applicazione del presente regolamento, relative ad azioni proposte prima di tale termine ma dopo l’entrata in vigore del regolamento (CE) n. 1347/2000, sono riconosciute ed eseguite secondo le disposizioni del capo III del presente regolamento se la norma sulla competenza era fon¬data su regole conformi a quelle contenute nel capo II del regolamento stesso, ovvero nel regolamento (CE) n. 1347/2000, ovvero in una convenzione in vigore tra lo Stato membro d’origine e lo Stato membro richiesto al momento della proposizione dell’azione.
3. Le decisioni pronunciate prima dell’entrata in applicazione del presente regolamento, relative ad azioni pro¬poste dopo l’entrata in vigore del regolamento (CE) n. 1347/2000, sono riconosciute ed eseguite secondo le disposizioni del capo III del presente regolamento, purché siano decisioni di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio, ovvero decisioni relative alla responsabilità dei genitori sui figli avuti in comune, emesse in occasione di quei procedimenti matrimoniali.
4. Le decisioni pronunciate prima dell’entrata in applicazione del presente regolamento ma dopo l’entrata in vi¬gore del regolamento (CE) n. 1347/2000, relative ad azioni proposte prima dell’entrata in vigore del regolamento (CE) n. 1347/2000, sono riconosciute ed eseguite secondo le disposizioni del capo III del presente regolamento, purché siano decisioni di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio, ovvero decisioni rela¬tive alla responsabilità dei genitori sui figli avuti in comune, emesse in occasione di quei procedimenti matrimo¬niali, e se la norma sulla competenza era fondata su regole conformi a quelle contenute nel capo II del presente regolamento, ovvero nel regolamento (CE) n. 1347/2000, ovvero in una convenzione in vigore tra lo Stato membro d’origine e lo Stato membro richiesto al momento della proposizione dell’azione.
CAPO VII
DISPOSIZIONI FINALI
Articolo 65
Riesame
Al più tardi il 1o gennaio 2012 e successivamente ogni cinque anni, la Commissione presenta al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo, sulla base delle informazioni fornite dagli Stati membri, una relazione sull’applicazione del presente regolamento, corredata se del caso di proposte di adegua¬mento.
Articolo 66
Stati membri con sistemi normativi plurimi
Qualora in uno Stato membro vigano, in unità territoriali diverse, due o più sistemi giuridici o complessi di norme per questioni disciplinate dal presente regolamento:
a) ogni riferimento alla residenza abituale nello Stato membro va inteso come riferimento alla residenza abituale nell’unità territoriale;
b) ogni riferimento alla cittadinanza, o, nel caso del Regno Unito, al “domicile” va inteso come riferimento all’ap¬partenenza all’unità territoriale designata dalla legge di detto Stato;
c) ogni riferimento all’autorità dello Stato membro va inteso come riferimento all’autorità di un’unità territoriale interessata di tale Stato;
d) ogni riferimento alle norme dello Stato membro richiesto va inteso come riferimento alle norme dell’unità territoriale in cui si invocano la competenza giurisdizionale, il riconoscimento o l’esecuzione.
Articolo 67
Informazioni relative alle autorità centrali e alle lingue accettate
Gli Stati membri comunicano alla Commissione, entro tre mesi dall’entrata in vigore del presente regolamento:
a) denominazione, indirizzo e mezzi di comunicazione indirizzate alle autorità centrali designate a norma dell’ar¬ticolo 53;
b) le lingue accettate per le comunicazioni indirizzate alle autorità centrali di cui all’articolo 57, paragrafo 2;
e
c) le lingue accettate per la compilazione del certificato sul diritto di visita a norma dell’articolo 45, paragrafo 2.
Gli Stati membri comunicano alla Commissione ogni eventuale cambiamento di queste informazioni.
La Commissione provvede affinché tali informazioni siano accessibili a tutti.
Articolo 68
Informazioni relative ai giudici e ai mezzi di impugnazione
Gli Stati membri comunicano alla Commissione gli elenchi dei giudici e dei mezzi d’impugnazione di cui agli ar¬ticoli 21, 29, 33 e 34 e le modifiche apportate.
La Commissione aggiorna tali informazioni e le rende accessibili a tutti mediante pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea e con ogni altro mezzo appropriato.
Articolo 69
Modificazione degli allegati
Le modifiche dei certificati standard di cui agli allegati da I a IV sono adottate in conformità della procedura di cui all’articolo 70, paragrafo 2.
Articolo 70
Comitato
1. La Commissione è assistita da un comitato (di seguito, “il comitato”).
2. Nei casi in cui è fatto riferimento al presente paragrafo, si applicano gli articoli 3 e 7 della decisione 1999/468/ CE.
3. Il comitato adotta il proprio regolamento interno.
Articolo 71
Abrogazione del regolamento (CE) n. 1347/2000
1. Il regolamento (CE) n. 1347/2000 è abrogato alla data in cui il presente regolamento entra in applicazione.
2. I riferimenti al regolamento (CE) n. 1347/2000 si intendono fatti al presente regolamento secondo la tavola di concordanza che figura nell’allegato V.
Articolo 72
Entrata in vigore
Il presente regolamento entra in vigore il 1o agosto 2004.
Il presente regolamento si applica dal 1o marzo 2005, ad eccezione degli articoli 67, 68, 69 e 70 che si applicano dal 1o agosto 2004.
Il presente regolamento è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri in base al trattato che istituisce la Comunità europea.

RICONOSCIMENTO TARDIVO DEL FIGLIO NATO FUORI DAL MATRIMONIO

di Gianfranco Dosi

I. Il problema sociale del riconoscimento tardivo dei figli nati fuori dal matrimonio
II. L’assenso del figlio ultraquattordicenne
III. Il riconoscimento tardivo consensuale
IV. Il procedimento di riconoscimento tardivo in caso di dissenso del primo genitore
a) L’interesse del minore e la valorizzazione del suo punto di vista (i casi di autorizza¬zione e di esclusione dell’autorizzazione al riconoscimento)
b) La procedura rapida in caso di ricorso non seguito da opposizione
c) Il procedimento in seguito all’opposizione della madre e l’audizione del figlio
d) La posizione del minore: è parte o non è parte del procedimento? È obbligatoria la nomina di un curatore speciale?
e) I provvedimenti provvisori e urgenti
f) Il contenuto ampio della sentenza
g) Il cognome
h) Le criticità del procedimento
i) È ammissibile nel procedimento l’eccezione di non veridicità della paternità?
I Il problema sociale del riconoscimento tardivo dei figli nati fuori dal matrimonio
Un volume dell’Istat pubblicato nel 2014 (“Avere figli in Italia negli anni 2000”) ha analizzato le di¬namiche riproduttive delle donne in Italia, sfruttando il potenziale informativo relativo ad indagini su oltre 17.000 madri condotte dall’Istat nel 2002, nel 2005 e nel 2012.
La ricerca informava che nel 2012 a fronte di 534.186 nascite in Italia circa il 2,1% erano nascite avvenute da madre nubili (ragazze madri) di età compresa tra i 14 e i 19 anni. Un fenomeno in crescita nel nostro paese, anche in regioni del nord come la Lombardia, mentre qualche anno fa la percentuale di ragazze madri si concentrava in Campania e in Sicilia. Secondo le statistiche il 68% dei padri lascia il nucleo familiare prima della nascita del figlio, rendendo la situazione economica della giovane mamma più complicata, in quanto, oltre a dover portare avanti la gravidanza, deve cercare un modo per mantenere se stessa e poi il figlio.
È soprattutto questo il contesto generale di riferimento delle problematiche giuridiche del riconoscimento tardivo del figlio nato fuori dal matrimonio. Figli che nascono senza essere riconosciuti dal padre e che molti padri, però, chiedono in seguito, spesso molti anni dopo, di riconoscere.
Si tratta di situazioni in cui una ragazza porta avanti la gravidanza da sola, partorisce e si prende poi cura del figlio da sola, magari anche per molti anni.
In seguito la madre e il figlio potranno sempre chiedere che il tribunale dichiari la paternità.
Spesso, però, avviene che dopo la nascita del figlio sia lo stesso padre a farsi di nuovo vivo inten¬zionato a riconoscere il figlio di cui si era disinteressato.
II L’assenso del figlio ultraquattordicenne
Uno dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico vigente della filiazione è quello secondo cui l’assenso del figlio che abbia compiuto l’età di quattordici anni (e quindi ancora minore o mag¬giorenne) è elemento imprescindibile per l’efficacia del riconoscimento da parte dei genitori.
Il secondo comma dell’art. 250 del codice civile, infatti, prescrive che “Il riconoscimento del figlio che ha compiuto i quattordici anni non produce effetto senza il suo assenso”.

La disposizione è stata così riformulata dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219 di riforma della filia¬zione che ha ridotto da sedici anni a quattordici l’età del figlio oltre la quale il riconoscimento non può produrre effetti senza l’assenso dell’interessato.
Nessuno che abbia compiuto quattordici anni, quindi – minore o maggiorenne che sia – può essere riconosciuto come figlio nato fuori dal matrimonio se non è d’accordo.
III Il riconoscimento tardivo consensuale
Al riconoscimento tardivo che potremmo chiamare consensuale fanno riferimento il terzo e il quar¬to comma dell’art. 250 del codice civile.
Al primo comma l’art. 250 del codice civile prevede che “Il figlio nato fuori del matrimonio può essere riconosciuto, nei modi previsti dall’articolo 254, dalla madre e dal padre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento. Il riconoscimento può avvenire tanto congiuntamente quanto separatamente” e al terzo comma prescrive che “Il riconoscimento del figlio che non ha compiuto i quattordici anni non può avvenire senza il consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento”.
Secondo quanto affermato da Cass. civ. Sez. I, 30 luglio 2014, n. 17277 il consenso del primo genitore al riconoscimento tardivo da parte dell’altro, deve essere prestato personalmente anche se il genitore è stato sospeso dalla responsabilità genitoriale, e non, quindi, dal tutore del minore medesimo. E’ invece il tutore a dover dare il consenso ove la madre sia deceduta (Cass. civ. Sez. I, 26 novembre 1998, n. 12018).
Il testo del primo e del terzo comma dell’art. 250 corrisponde all’originaria norma del codice civile (come riformato nel 1975) con l’unica variante – introdotta dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219 di riforma della filiazione – della riduzione da sedici a quattordici degli anni dell’età del figlio sotto la quale è necessario il consenso del primo genitore al riconoscimento tardivo da parte dell’altro. Il che significa che per riconoscere tardivamente un figlio che ha più di quattordici anni (minorenne o maggiorenne che sia) non occorre mai il consenso del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Perciò, il raggiungimento, da parte del minore, dell’età di quattordici anni, ritenuta dal legislatore adeguata ad esprimere un meditato personale giudizio, rilevabile d’ufficio, determina il venir meno della necessità del consenso del primo genitore al riconoscimento da parte dell’altro e, in difetto, dell’intervento del giudice (Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 781; Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 2003, n. 14).
Occorrerà, invece, naturalmente, sempre l’assenso del figlio (ultraquattordicenne, minorenne o maggiorenne) al riconoscimento. Nessuno, come si è detto, che abbia compiuto i quattordici anni può essere riconosciuto senza il suo assenso.
Pertanto, se i genitori intendono riconoscere insieme il figlio nato fuori dal matrimonio possono farlo effettuando il riconoscimento insieme davanti all’ufficiale di stato civile e formando, così, l’at¬to di nascita. Se, però, il riconoscimento del figlio è effettuato soltanto da uno dei genitori – nella quasi totalità dei casi dalla sola madre – l’altro genitore per poter riconoscere anche lui in seguito il figlio (infra-quattordicenne) avrà necessità del consenso del genitore che per primo lo ha rico¬nosciuto. L’ufficiale di stato civile se manca il consenso del primo dei genitori che ha effettuato il riconoscimento, non potrà ricevere la dichiarazione tardiva di riconoscimento da parte del secondo genitore (che verrà annotata nell’atto di nascita già formato).
Secondo l’art. 45 dell’Ordinamento di stato civile (DPR 3 novembre 2000, n. 396) il consenso può essere manifestato all’ufficiale di stato civile contestualmente al secondo riconoscimento (i due genitori si recheranno insieme all’ufficio di stato civile) o anche anteriormente (cioè con un pre-riconoscimento anch’esso effettuato congiuntamente dai genitori). E può anche essere contenuto in un testamento o in un atto pubblico. Secondo una opinione plausibile espressa in passato da Trib. Minorenni Ancona, 29 maggio 2006 il consenso potrebbe anche essere documentato in un verbale di udienza che è atto pubblico.
In ogni caso, è questa la conclusione, quando i genitori sono d’accordo, il riconoscimento tardivo non comporta alcuna procedura giudiziaria, ma solo la formalità del consenso da esprimere (salve le ipotesi del testamento e dell’atto pubblico) direttamente all’ufficiale di stato civile.
IV Il procedimento di riconoscimento tardivo in caso di dissenso del primo genitore
A questa situazione fa riferimento il quarto comma dell’art. 250 che – nel testo ampiamente rifor¬mulato dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219 di riforma della filiazione – prevede quanto segue:
Il consenso non può essere rifiutato se risponde all’interesse del figlio. Il genitore che vuole riconoscere il figlio, qualora il consenso dell’altro genitore sia rifiutato, ricorre al giudice competente, che fissa un termine per la notifica del ricorso all’altro genitore. Se non viene proposta opposizione entro trenta giorni dalla notifica, il giu¬dice decide con sentenza che tiene luogo del consenso mancante; se viene proposta opposizione, il giudice, assunta ogni opportuna informazione, dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore, ove capace di discernimento, e assume eventuali provvedimenti provvisori e urgenti al fine di instaurare la relazione, salvo che l’opposizione non sia palesemente fondata. Con la sentenza che tiene luogo del consenso mancante, il giudice assume i provvedimenti opportuni in relazione all’affidamento e al mantenimento del minore ai sensi dell’ar¬ticolo 315-bis e al suo cognome ai sensi dell’articolo 262.
Questa disposizione – come detto completamente riformata nel 2012 rispetto al testo del codice civile previgente1 – prevede numerosi passaggi da approfondire trattandosi di significative novità sostanziali e processuali.
a) L’interesse del minore e la valorizzazione del suo punto di vista (i casi di autorizza¬zione e di esclusione dell’autorizzazione al riconoscimento)
“Il consenso non può essere rifiutato se risponde all’interesse del figlio…”
Il primo periodo del quarto comma dell’art. 250 c.c. ribadisce il principio generale secondo cui in tutti i contesti privati o pubblici e in tutte le decisioni che concernono i minori, “L’interesse supe¬riore del minore deve essere una considerazione preminente” (art. 3 Convenzione sui diritti del minore di New York del 20 novembre 1989). Principio espresso ormai in molteplici passaggi dell’or¬dinamento giuridico interno (salvo che nella Costituzione italiana dove l’art. 31 secondo comma, incredibilmente mai fatto oggetto di un più moderno progetto di modifica, si limita ad affermare che la Repubblica “protegge…l’infanzia”), come appunto, per ciò che attiene al riconoscimento, in apertura di questo quarto comma dell’art. 250.
Il monito a tener presente l’interesse del minore è rivolto innanzitutto al genitore che per primo ha effettuato da solo il riconoscimento. In effetti una donna che si trova a riconoscere un figlio dopo essere stata magari abbandonata dall’altro genitore (giacché questa è la situazione statisticamen¬te più diffusa) avrebbe più di una buona ragione per opporsi alla richiesta di riconoscimento che perviene da chi avrebbe potuto riconoscere ed occuparsi del figlio dalla nascita. Che affidamento si può fare su un padre che fugge dalle sue responsabilità non riconoscendo il figlio? Eppure anche in queste situazioni – come nelle altre in cui il mancato riconoscimento dipende da altre circostanze (per esempio dalla mancata conoscenza della nascita) – il legislatore invita soprattutto a valutare le conseguenze che per una persona può avere il fatto di non essere riconosciuto da entrambi i genitori. Le conseguenze psicologiche e sociali del crescere senza un genitore (quali che siano le motivazioni per le quali alla nascita del figlio non è stato effettuato il riconoscimento) possono essere anche devastanti per l’equilibrio di una persona.
Trib. Milano Sez. IX, 5 ottobre 2016 con riguardo al mancato tempestivo riconoscimento da parte del padre della minore e al conseguente pregiudizio consistente nella privazione del rapporto parentale tra padre e figlia, imputabile esclusivamente al comportamento dell’altro genitore, ha ri¬tenuto che sussiste la responsabilità della madre per il danno da privazione del rapporto genitoriale.
In secondo luogo il monito della legge è rivolto al giudice che, di fronte al ricorso del padre bio¬logico che chiede di riconoscere tardivamente il figlio (e che non può farlo, essendo necessario il consenso della madre che lo ha riconosciuto e che non vuole acconsentire) deve decidere se il dissenso manifestato dalla madre è o meno plausibile. La chiave di lettura della plausibilità o meno del dissenso è, appunto, costituita dall’interesse del minore.
L’interesse del minore ad essere riconosciuto va accertato in concreto o può essere presunto ren¬dendosi quindi necessario provare soltanto i gravi motivi che sconsigliano il riconoscimento?
Secondo alcune pronunce sarebbe necessaria l’individuazione di un concreto interesse del minore al riconoscimento. Così per esempio Trib. Taranto Sez. I, 7 maggio 2014 ha affermato che il sacrificio totale alla genitorialità può essere giustificato solo in presenza di gravi ed irreversibili motivi che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compressione dello sviluppo del minore e della sua salute psico-fisica.
Prevale, però, assolutamente in giurisprudenza l’altro orientamento secondo cui non servirebbe un riscontro concreto dell’interesse del minore ma al contrario è sempre necessaria l’individuazione e l’esplicitazione dei gravi motivi che depongono per la decisione di non autorizzare il riconoscimento.
È questa la posizione per esempio assunta da Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729 che, confermando la decisione di merito contraria al riconoscimento, ha ribadito che l’opposizione al riconoscimento ex art. 250 c.c. può essere accolta in caso di giudizio di inidoneità genitoriale del padre e di pericolo di compromissione dello sviluppo psico-fisico della minore in caso di riconosci¬
1 Il testo dell’art. 250 del codice civile prima della riforma del 2012 era il seguente:
Il figlio naturale può essere riconosciuto, nei modi previsti dall’articolo 254, dalla madre e dal padre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento. Il riconoscimento può avvenire tanto con¬giuntamente quanto separatamente.
Il riconoscimento del figlio che ha compiuto i sedici anni non produce effetto senza il suo assenso. [3] Il ricono¬scimento del figlio che non ha compiuto i sedici anni non può avvenire senza il consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento.
Il consenso non può essere rifiutato ove il riconoscimento risponda all’interesse del figlio. Se vi è opposizione, su ricorso del genitore che vuole effettuare il riconoscimento, sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone e con l’intervento del pubblico ministero, decide il tribunale con sentenza che, in caso di accoglimento della domanda, tiene luogo del consenso mancante.
Il riconoscimento non può essere fatto dai genitori che non abbiano compiuto il sedicesimo anno di età.

mento della stessa da parte del genitore (nella specie sono stati ritenuti ostativi al riconoscimento il vissuto del padre e la sua personalità, “tenuto conto che egli era cresciuto in un contesto difficile, caratterizzato da violenti litigi fra i genitori e dall’abuso da parte del padre di sostanze alcooliche, e che il facile ricorso alla violenza aveva sempre caratterizzato la sua vita, segnata anche dallo stato di detenzione per otto anni a seguito della commissione di un crimine consistito nell’aver provocato la morte di un coetaneo nel corso di una lite”); Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2011, n. 2645 secondo cui il riconoscimento del figlio costituisce un diritto soggettivo sacrificabile solo in presenza di un pericolo di danno gravissimo per lo sviluppo psico-fisico del minore (non è stato ritenuto di per sé ostativa la mera pendenza di un processo penale, nella specie per alterazione di stato, a carico del genitore richiedente e neppure la valutazione del rischio di un eventuale distacco del minore dal contesto di affidamento); Cass. civ. Sez. I, 27 maggio 2008, n. 13830 (che non ha ritenuto fatto grave ostativo al riconoscimento il comportamento denunciato di minacce e lesioni posto in essere dal padre richiedente nei confronti della madre che si opponeva), dove si afferma che deve presumersi l’interesse del minore al riconoscimento da parte di entrambi i genitori, e che sul genitore che abbia già effettuato il riconoscimento, e che intenda opporsi a quello dell’altro, incombe l’onere della prova di fatti eccezionali, gravi ed irreversibili, tali da far ritenere in termini di accentuata probabilità che tale secondo riconoscimento possa seriamente compromettere lo svi¬luppo psicofisico del minore. In senso analogo Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 2008, n. 4 (che non ha ritenuto ostativo al riconoscimento il disinteresse del padre durato molti anni dalla nascita del figlio); Cass. civ. Sez. I, 16 novembre 2005, n. 23074 (che ha confermato la decisione della corte d’appello, la quale, nel negare l’autorizzazione aveva ravvisato il pericolo della detta compro¬missione in ragione delle connotazioni fortemente negative della personalità del genitore che inten¬deva procedere al secondo riconoscimento, essendo questi inserito nell’ambiente della criminalità organizzata ed attualmente detenuto per gravi reati); Cass. civ. Sez. I, 11 febbraio 2005, n. 2878 (che non ha ravvisato un impedimento nello scarso interesse verso il figlio, prima e dopo la nascita); Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2004, n. 21088 (che non ha ravvisato un impedimento nelle pregresse ripetute pressioni per l’interruzione della gravidanza); Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11949 e Cass. civ. Sez. I, 22 ottobre 2002, n. 14894 (che non hanno ravvisato un impedimento nello stato di pregressa e superata tossicodipendenza del padre richiedente); Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2003, n. 5115 e Cass. civ. Sez. I, 16 marzo 1999, n. 2338 (che non hanno ritenuto ostativo al riconoscimento rispettivamente il fatto che il minore stesse per essere adottato dal coniuge della madre e che avesse semplicemente instaurato un ottimo e valido rap¬porto affettivo con il marito della madre); Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2003, n. 5115 (che ha con¬fermato la sentenza che aveva escluso che costituissero impedimento al secondo riconoscimento l’età del padre naturale, la sua residenza in una località lontana da quella di residenza della minore, nonché la mancanza, da parte sua, di un’attività lavorativa stabile e di un’autonoma abitazione); Cass. civ. Sez. I, 22 febbraio 2000, n. 1990 e Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 1993, n. 1412 (che, accogliendo il ricorso avverso una prnuncia di rigetto dell’autorizzazione, affermavano che “il diritto al riconoscimento non può essere disconosciuto sulla sola base di una condotta morale non esente da censure, di per sé rilevante, però, per il diverso fine dell’affidamento”); Cass. civ. Sez. I, 27 ottobre 1999, n. 12077 (che non ha ritenuto ostativa all’autorizzazione al riconoscimento la mera diversità culturale, di origini, di etnia e di religione del padre richiedente); Cass. civ. Sez. I, 27 ottobre 1999, n. 12077 (che ammettendo il riconoscimento in un caso di differenze cultu¬rali e religiose, affermava che soltanto il fanatismo religioso, potrebbe assumere rilievo dirimente qualora si traduca in un’indebita compressione dei diritti di libertà del minore o in un pericolo per la sua crescita secondo i canoni generalmente riconosciuti dalle società civili).
In tutte queste decisioni si afferma che l’interesse del figlio minore al riconoscimento della pater¬nità, di cui all’art. 250 c.c. è definito dal complesso dei diritti che a lui derivano dal riconoscimento stesso, e, in particolare, dal diritto alla identità personale nella sua precisa e integrale dimensione psicofisica. Pertanto, in caso di opposizione al riconoscimento da parte dell’altro genitore, che lo abbia già effettuato, il mancato riscontro di un interesse del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore richiedente, in quanto il sacrificio totale della genitorialità può essere giustificato solo in presenza di gravi e irreversibili motivi che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compromissione dello sviluppo del minore, e in particolare della sua salute psico¬fisica. La relativa verifica va compiuta in termini concreti dal giudice del merito, le cui conclusioni, ove logicamente e compiutamente motivate, si sottraggono a ogni sindacato di legittimità.
Si tratta in sostanza della posizione spesso assunta espressamente dalla giurisprudenza in tema di dichiarazione giudiziale della paternità secondo cui il riconoscimento può essere ritenuto contrario all’interesse del minore soltanto in situazioni di grave pregiudizio per il minore nelle quali, se vi fosse stato riconoscimento, si dovrebbe dichiarare la decadenza dalla “potestà” genitoriale (Cass. civ. Sez. I, 24 settembre 1996, n. 8413; Cass. civ. Sez. I, 23 febbraio 1996, n. 1444).
Nello stesso senso in giurisprudenza di merito si sono espressi Trib. Minorenni Palermo, 13 marzo 2012 (competente prima della riforma del 2013) secondo cui il mancato riscontro di un interesse effettivo e concreto del minore al riconoscimento non costituisce ostacolo all’attuazione di esso da parte del genitore, in caso di opposizione del genitore che vi ha proceduto per primo, in quanto il sacrificio della genitorialità è ammissibile solo quando sia accertata la esistenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da segnalare la compromissione del minore per effetto del riconoscimen¬to; Trib. minorenni Palermo, 26 gennaio 2009, secondo cui la richiesta di riconoscimento ai sensi dell’art. 250 c.c. è inammissibile qualora possa arrecare grave nocumento all’integrità psichica del minore (nella specie il Tribunale ha rigettato il ricorso per il riconoscimento di minore concepito a seguito di violenza sessuale).
In una posizione tesa a valorizzare l’opinione del minore ai fini della valutazione circa l’autorizza¬zione al riconoscimento, si è posta espressamente parte della giurisprudenza, per esempio Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2004, n. 21359 e Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2000, n. 6784 se¬condo cui la l’audizione del minore è rivolta a soddisfare anche l’esigenza di accertare se il rifiuto del consenso del genitore che per primo abbia proceduto al riconoscimento risponda o meno all’in¬teresse del figlio. L’orientamento che valorizza il punto di vista del minore era stato fortemente espresso anche da Trib. Minorenni Emilia-Romagna Bologna, 23 aprile 2005 dove si afferma che sebbene il riconoscimento del figlio naturale sia diritto soggettivo primario del genitore, e si presuma lo specifico interesse del minore al riconoscimento, tuttavia, nel giudizio di opposizione al ricorso promosso del secondo genitore proponente domanda giudiziale di riconoscimento, qualora il minore adolescente non ancora legittimato all’assenso ex art. 250, co. 2, c.c., manifesti consape-vole ed autonoma contrarietà al riconoscimento tardivo, del secondo genitore ricorrente, il diritto soggettivo del secondo genitore ricorrente non può prevalere al punto di recare un pregiudizio psicofisico alla prole.
Ha molto valorizzato di recente il punto di vista del minore Cass. civ. Sez. I, 27 marzo 2017, n. 7762 dove si afferma che il riconoscimento del figlio minore infra-quattordicenne nato fuori dal matrimonio, già riconosciuto da un genitore, costituisce un diritto soggettivo dell’altro, tutelato nell’art. 30 Cost. che può, tuttavia, essere sacrificato in presenza del rischio della compromissione dello sviluppo psicofisico del minore stesso. In questo quadro – si sostiene nella sentenza – il ne¬cessario bilanciamento tra l’esigenza di affermare la verità biologica con l’interesse alla stabilità dei rapporti familiari, impone di accertare quale sia, in concreto, l’interesse del minore, valorizzando primariamente i risultati della sua audizione, una volta accertatane da parte del giudice la capacità di discernimento. La sentenza ha cassato una decisione della corte d’appello di Roma che aveva accolto la domanda avanzata dal genitore di riconoscimento della figlia infra-quattordicenne, mal¬grado la contraria volontà di quest’ultima, manifestata all’esito della sua audizione.
È evidente che più l’età del minore si avvicina ai quattordici anni in cui il suo assenso è imprescindibile (art. 250, secondo comma), più la valutazione del suo punto di vista deve essere preso in adeguata considerazione.
b) La procedura rapida in caso di ricorso non seguito da opposizione
“Il genitore che vuole riconoscere il figlio, qualora il consenso dell’altro genitore sia rifiutato, ricorre al giudice competente, che fissa un termine per la notifica del ri¬corso all’altro genitore. Se non viene proposta opposizione entro trenta giorni dalla notifica, il giudice decide con sentenza che tiene luogo del consenso mancante…”
Questo secondo periodo della disposizione – del tutto innovativo rispetto al sistema precedente alla riforma del 2012 – prevede un procedimento veloce a disposizione del padre biologico, per il caso in cui la madre non intenda acconsentire al riconoscimento paterno tardivo.
Il padre biologico può ricorrere al giudice il quale fissa un termine per la notifica del ricorso alla madre.
A questo punto la madre, presa visione del ricorso, ha due strade a disposizione: a) potrebbe non presentare nessuna opposizione (ritirando di fatto il dissenso che aveva manifestato: un vero ripensamento) e accettare che il tribunale decida (in tal caso il padre potrà successivamente rico¬noscere il figlio presentandosi all’ufficio di stato civile con la sentenza del tribunale); b) potrebbe invece anche ritenere inutile attendere una sentenza e accettare di esprimere il consenso davanti all’ufficiale di stato civile, in modo che il padre possa direttamente effettuare il riconoscimento all’ufficio di stato civile).
Nel giudizio avente ad oggetto il riconoscimento della paternità, l’intervenuto riconoscimento del figlio con l’assenso dell’altro genitore dianzi all’Ufficiale dello Stato civile, determina la declaratoria di cessazione della materia del contendere, analogamente a quanto avviene nel corso dell’azione di accertamento della paternità (Trib. Parma Sez. I, 15 febbraio 2017).
Nel corso di questa procedura veloce non è prevista nessuna attività istruttoria e, circostanza che si configura certamente come illogica e forse illegittima, nemmeno l’audizione del figlio minore.
Da un punto di vista strettamente processuale sono tre gli aspetti da considerare.
Innanzitutto il problema di quale sia il giudice competente ad emettere la sentenza che “tiene luogo del consenso mancante” e quindi a quale giudice il padre deve presentare ricorso. Fino alla riforma del 2012 della filiazione il giudice competente per questo procedimento (allora a contrad¬dittorio immediato2) era il tribunale per i minorenni e questo spiega come mai la totalità della giurisprudenza sul punto abbia origine dai tribunali per i minorenni. Con la riforma operata dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219 è stata modificata la norma fondamentale in materia di com¬petenza nei procedimenti di diritto di famiglia che è l’art. 38 delle disposizioni di attuazione del
2 Come si è detto il terzo comma dell’art. 250 c.c. nel testo precedente alla riforma prevedeva un procedimento camerale apposito molto semplificato sia pure a carattere contenzioso (“Se vi è opposizione, su ricorso del geni¬tore che vuole effettuare il riconoscimento, sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone e con l’intervento del pubblico ministero, decide il tribunale con sentenza che, in caso di accoglimento della domanda, tiene luogo del consenso mancante“).

codice civile, sulla base del cui secondo comma il giudice competente oggi ad adottare la sentenza è il tribunale ordinario3.
La giurisprudenza ha avuto modo di confermare questa conclusione circa la competenza del tri¬bunale ordinario (Cass. civ. Sez. VI, 29 luglio 2015, n. 16103). Del tutto inaccettabile è la posizione di chi ha ritenuto competente il giudice tutelare (Trib. Catanzaro, 5 marzo 2013).
Il secondo problema attiene al rito processuale da seguire e quindi alla forma che deve avere il ricorso del padre. Come si è visto la norma prevede che “il giudice decide con sentenza”. Il che vuol dire che il procedimento ha natura contenziosa decidendo su diritti delle persone. Nonostante ciò, in linea con la precedente prassi giudiziaria seguita nei tribunali per i minorenni ed in perfetta sintonia con il testo dell’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile, il rito da seguire è quello camerale (“…il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente”) e pertanto il ricorso del padre biologico è un ricorso camerale diretto al tribunale (che decide in composizione collegiale). Il rito è quindi certamente camerale (Trib. Prato, 27 luglio 2017).
Il terzo problema attiene all’eventuale impugnazione da parte della madre della sentenza “che tiene luogo del consenso mancante” adottata su ricorso del padre. E’ evidente che, non avendo presentato opposizione, la madre è carente di interesse ad impugnare nel merito la decisione “che tiene luogo del consenso mancante” ma non si può escludere che possa avere interesse ad im¬pugnarla per ragioni di legittimità: si pensi al caso la sentenza dovesse essere pronunciata prima dello spirare dei trenta giorni dalla notifica a disposizione della madre per presentare opposizione. Per quanto attiene alle impugnazioni, trattandosi di un provvedimento avente senz’altro natura decisoria (espressamente una sentenza) il provvedimento del tribunale è reclamabile in Corte d’appello la cui decisione è poi ricorribile per cassazione.
c) Il procedimento in seguito all’opposizione della madre e l’audizione del figlio
“…se viene proposta opposizione, il giudice, assunta ogni opportuna informazione, dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore, ove capace di discernimento…”
Potrebbe però avvenire che la madre ritenga di dover insistere nel negare il suo consenso. In tal caso deve presentare opposizione (entro trenta giorni dalla notifica del ricorso del padre biologico).
Si apre quindi davanti al tribunale ordinario il procedimento (appunto a contraddittorio posticipato) che nel merito potrà accogliere l’opposizione o rigettarla.
Come si dirà nel procedimento qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale.
Come si è detto il procedimento è di competenza del tribunale (in composizione collegiale) e, aven¬do la decisione natura decisoria, avverso la sentenza sono proponibili tutti i mezzi di impugnazione ordinari.
Il tribunale istruisce il procedimento assumendo anche d’ufficio ogni informazione utile.
Nel procedimento il Pubblico ministero può assumere conclusioni solo nei limiti delle domande pro¬poste dalle parti, interviene obbligatoriamente ma non gli è riconosciuto il potere di impugnazione (Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 2009, n. 12984).
Anche l’impugnazione segue il rito camerale, ma l’appello va proposto con ricorso che, in caso di notifica della sentenza a cura della parte, va depositato entro trenta giorni dalla notifica e non entro dieci giorni (Cass. civ. Sez. I, 31 dicembre 2008, n. 30688; Cass. civ. Sez. I, 26 aprile 1999, n. 4148; Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 1991, n. 687).
La legge applicabile ove quella straniera (nazionale del figlio ai sensi dell’art. 35 della legge 31 maggio 1995, n. 218), contenesse norme contrarie all’ordine pubblico, è quella italiana (Cass. civ. Sez. I, 28 dicembre 2006, n. 27592 e Cass. civ. Sez. I, 8 marzo 1999, n. 1951 in casi in cui la legge straniera esclude la possibilità del riconoscimento della filiazione fuori dal matrimonio).
Nel procedimento deve essere obbligatoriamente sentito il figlio minore che ha compiuto dodici
3 Disposizioni di attuazione del codice civile Art. 38
Sono di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, del codice civile. Per i procedimenti di cui all’articolo 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’articolo 316 del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario. Sono, altresì, di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 251 e 317-bis del codice civile.
Sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria. Nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile.
Fermo restando quanto previsto per le azioni di stato, il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente. Quando il provvedimento è emesso dal tribunale per i minorenni, il reclamo si propone davanti alla sezione di corte di appello per i minorenni.

anni o anche di età inferiore se capace di discernimento, in virtù del principio generale contenuto nell’art. 315-bis del codice civile 4 (Cass. civ. Sez. I, 21 novembre 2014, n. 24863; Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21101 le quali fanno peraltro discendere l’obbligo dell’audizione dalla qualità di parte attribuita al minore nel procedimento; Cass. civ. Sez. I, 24 dicembre 2013, n. 28645; Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2012, n. 5884). L’audizione può essere omessa quando appare manifestamente superflua (come nel caso in cui il minore abbia appena due anni di età: Cass. civ. Sez. I, 31 ottobre 2013, n. 24556).
Nel procedimento previsto dall’art. 250 cod. civ., nel testo anteriore alla legge 10 dicembre 2012 n. 219, per conseguire una pronuncia in luogo del mancato consenso al riconoscimento del figlio infrasedicenne da parte del genitore, che lo abbia già riconosciuto, pur essendo obbligatoria l’au¬dizione del minore, come confermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 83 del 2011, non è configurabile alcun vizio ove l’espletamento dell’incombente sia reso oggettivamente impossibile dalla tenera età del minore (nella specie, di neppure due anni) e, quindi, sia omesso perché su¬perfluo.
Naturalmente il tribunale deve tenere in considerazione il punto di vista del minore, pur potendo decidere autonomamente rispetto alle valutazioni da lui espresse. Come si è già visto Cass. civ. Sez. I, 27 marzo 2017, n. 7762 ha cassato proprio una decisione della corte d’appello di Roma che aveva accolto la domanda avanzata dal genitore di riconoscimento della figlia infra-quattor¬dicenne, malgrado la contraria volontà di quest’ultima, manifestata all’esito della sua audizione.
d) La posizione del minore: è parte o non è parte del procedimento? È obbligatoria la nomina di un curatore speciale?
In passato è stato sempre controverso se nella procedura che si apre in seguito all’opposizione al riconoscimento tardivo il minore fosse da considerare o meno parte processuale. Poiché la legge im¬pone in questo procedimento l’ascolto del minore, si riteneva per lo più che questo fosse sufficiente a dare rilievo e dignità alla sua posizione, senza necessità di doverla qualificare processualmente come parte (tra le tante Cass. civ. Sez. I, 4 agosto 2004, n. 14934; Cass. civ. Sez. I, 10 mag¬gio 2001, n. 6470). Si riteneva in sostanza che fosse il genitore che lo aveva già riconosciuto a rappresentarlo adeguatamente nel procedimento, senza che l’eventuale conflitto di interessi tra tale genitore e il figlio dovesse necessariamente portare alla nomina di un curatore speciale al minore.
Nel 2010 la Corte d’appello di Brescia sollevava, in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 30, 31 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 250 del codice civile. Una madre si era opposta al secondo riconoscimento e il tribunale aveva rigettato l’opposizione. La donna aveva, perciò, impugnato la decisione sostenendo che il riconoscimento autorizzato dal tri¬bunale era contrario all’interesse del figlio che non aveva mai visto o sentito parlare del presunto padre e che viveva attualmente sereno con la madre e il marito di lei. Il procuratore generale chie¬deva l’accoglimento dell’impugnazione, in considerazione della particolare situazione del minore. La Corte di appello valutava la necessità dell’intervento in causa di un curatore speciale a tutela degli interessi del bambino, ma tale iniziativa incontrava l’opposizione della madre, la quale soste¬neva che il minore non aveva la qualità di parte processuale in questo procedimento, in conformità alla giurisprudenza prevalente della Corte di cassazione. La Corte d’appello riteneva che non può essere messo in dubbio che il diritto al riconoscimento del figlio naturale già riconosciuto costitu¬isca per l’altro genitore un diritto soggettivo garantito dall’art. 30 Cost., ma che anche al minore sarebbe stato necessario riconoscere piena tutela, che può essere in concreto attuata soltanto se l’interessato sia autonomamente rappresentato e difeso in giudizio.
La Corte costituzionale con una sentenza interpretativa di rigetto (Corte cost., 11 marzo 2011, n. 8, ribadita da Corte cost. 10 novembre 2011, n. 301) valutava la questione non fondata sostenendo – al contrario di quanto ritenuto dalla Corte d’appello – che l’interpretazione sistema¬tica e coordinata delle norme giuridiche sulla nomina di un curatore speciale al minore “impone di pervenire alla conclusione che, anche per la fattispecie prevista dall’art. 250 del codice civile, il giudice, nel suo prudente apprezzamento e previa adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, possa procedere alla nomina di un curatore speciale, avvalendosi della disposizione dettata dall’art. 78 cod. proc. civ., che non ha carattere eccezionale, ma costituisce piuttosto un istituto che è espressione di un principio generale, destinato ad operare ogni qualvolta sia neces¬sario nominare un rappresentante all’incapace. Invero, già l’articolo 250 c.c. stabilisce che debba essere sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone al riconoscimento (salvo che, per ragioni di età o per altre circostanze da indicare con specifica motivazione, il minore stes¬so non sia in grado di sostenere l’audizione). Tale adempimento, la cui importanza emerge dalla citata normativa convenzionale, dimostra che il minore nella vicenda sostanziale e processuale che lo riguarda, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica, essendo implicati nel procedimento suoi rilevanti diritti e interessi, in primo luogo quello all’accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse”.
4 Art. 315-bis. (Diritti e doveri del figlio).
Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni.
Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti.
Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.
Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa.
Al minore, perciò, va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 cod. civ. E, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento, qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale. Il che può avvenire su richiesta del pubblico ministero, o di qualunque parte che vi abbia interesse (art. 79 cod. proc. civ.), ma anche di ufficio.
A questa interpretazione si è allineata la giurisprudenza.
Così, per esempio, Cass. civ. Sez. I, 24 dicembre 2013, n. 28645 (Nella interpretazione che è stata offerta dalla Corte costituzionale all’art. 250 c.c., con la sentenza n. 83 del 2011, essendo implicati nel procedimento rilevanti diritti ed interessi del minore, ed in primo luogo quello all’ac¬certamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse, questi, anche se di età inferiore a sedici anni, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica: sicché, in caso di opposizione dell’altro genitore al riconoscimento, egli gode di piena tutela dei suoi diritti ed inte¬ressi. Ne deriva che al detto minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione); Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21101 (Al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio sull’opposizione al riconoscimento successivo di cui all’art. 250 c.c., parte che, di regola, è rappresentata dal genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento oppure da un curatore speciale, nominato ai sensi della norma generale di cui all’art. 78 c.p.c., tutte le volte in cui si profili in concreto un conflitto d’interessi tra il minore e il genitore rappresentante); Cass. civ. Sez. I, 21 novembre 2014, n. 24863 (Al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di op¬posizione di cui all’art. 250 c.c. e qualora si prospettino situazioni di conflitto di interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale); App. Napoli, 23 aprile 2013 (Nel procedimento di riconoscimento del figlio naturale, ai sensi dell’art. 250 c.c., il minore è parte e spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale).
e) I provvedimenti provvisori e urgenti
“…e assume eventuali provvedimenti provvisori e urgenti al fine di instaurare la re¬lazione, salvo che l’opposizione non sia palesemente fondata…”
L’ assoluta novità della procedura prevista nel nuovo art. 250 c.c. sta nel fatto che direttamente nel corso del giudizio che porterà alla sentenza “che tiene luogo del consenso mancante” il tribunale può assumere anche d’ufficio ogni provvedimento provvisorio utile ad “instaurare la relazione”, cioè a creare le condizioni perché tra il minore e il padre biologico possano instaurarsi o rafforzarsi i legami e i rapporti. Sempre, s’intende, nel caso in cui la relazione sia ostacolata dal comporta¬mento del genitore opponente.
Si tratta di provvedimenti che naturalmente, devono essere adattati alla situazione concreta te¬nendo conto soprattutto dell’età del minore, dell’esistenza o meno di pregressi rapporti tra figlio e padre biologico, delle motivazioni che spingono la madre a dissentire rispetto al riconoscimento e di ogni altra circostanza.
f) Il contenuto ampio della sentenza
“Con la sentenza che tiene luogo del consenso mancante, il giudice assume i provve¬dimenti opportuni in relazione all’affidamento e al mantenimento del minore ai sensi dell’articolo 315-bis…”
La sentenza che definisce il procedimento espressamente “autorizza” il riconoscimento. Non di¬chiara la paternità. Pertanto il procedimento non configura un’azione di stato (Trib. Forlì, 26 ottobre 2015).
Il tribunale, in conformità al principio di celerità e di concentrazione che lo caratterizza, può anche dare disposizioni concernenti la regolamentazione dell’affidamento e relativi al mantenimento del minore.
Come si è già detto esaminando il testo dell’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile, nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori – ancorché definiti son sentenza – si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile. Quindi il tribunale provvede in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provve¬dimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente.
Per quanto attiene alle impugnazioni, si ribadisce che avendo la sentenza che definisce il procedi¬mento natura decisoria la stessa è reclamabile in Corte d’appello la cui decisione è poi ricorribile per cassazione per i motivi indicati nell’art. 360 c.p.c.
Il ricorso respinto dalla sentenza potrebbe poi essere sempre riproposto se si modificano le circo¬stanze di fatto in base alle quali la decisione è stata adottata. Infatti, secondo quanto affermato in passato da Cass. civ. Sez. I, 21 agosto 1993, n. 8861 il provvedimento con il quale il Tribunale pronuncia sul ricorso proposto dal genitore che intenda effettuare il riconoscimento, ha natura di sentenza, ma l’efficacia preclusiva del provvedimento stesso (che non dichiara direttamente il rapporto di filiazione, ma solo eventualmente rimuove un ostacolo al suo accertamento) non può essere indiscriminatamente ritenuta. Ed invero mentre non può essere, per un verso, evidente¬mente rimessa in discussione la decisione definitiva di accoglimento del ricorso cui sia seguito il riconoscimento, diversamente la sentenza di rigetto deve ritenersi emessa rebus sic stantibus, non potendo impedire la riproponibilità del ricorso ove vengano dedotti motivi nuovi.
g) Il cognome
“…e al suo cognome ai sensi dell’articolo 262”
Costituisce una significativa novità anche la disposizione che consente al giudice di decidere sul cognome del figlio il quale, come è previsto nell’art. 262 c.c. “può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre”. La stessa norma all’ultimo comma prevede che nel caso di minore età del figlio, è il giudice il soggetto chiamato a decidere sul cognome.
h) Le criticità del procedimento
La possibilità per il tribunale di adottare in corso di causa provvedimenti provvisori e con la senten¬za provvedimenti sull’affidamento, sul mantenimento e sul cognome non è tutto priva di elementi di criticità. Il più rilevante dei quali è costituito certamente dal fatto che i provvedimenti provvisori vengono adottati prima ancora della decisione (che potrebbe anche essere di accogliento dell’op¬posizione) e che ugualmente i provvedimenti sull’affidamento, sul mantenimento e sul cognome connessi alla sentenza sono esecutivi prima del giudicato e comunque prima che venga effettuato il riconoscimento (che potrebbe per ipotesi anche non essere effettuato dal genitore che è stato autorizzato).
Per questo motivo è stato suggerito in giurisprudenza (Trib. Milano, 16 aprile 2014) che, nell’in¬teresse superiore del minore a vedersi immediatamente e in modo genuino riconosciuto dal geni¬tore, il tribunale dovrebbe procedere ad “autorizzare il riconoscimento con una pronuncia parziale, disponendo la prosecuzione del giudizio in modo da consentire alla parte ricorrente di versare in atti la prova dell’avvenuto riconoscimento e di adottare poi, espletati, se del caso, i necessari ac¬certamenti, tutti i provvedimenti ex art. 315-bis e 262 c.c., come previsto dall’art. 250 comma 2 ultimo capoverso c.c., introdotto dalla Legge 219/2012”.
Non è condivisibile, invece, una recente giurisprudenza di merito (Trib. Prato, 27 luglio 2017) secondo cui il ricorso del genitore che intende riconoscere il figlio sarebbe equiparabile ad una manifestazione irrevocabile della volontà di riconoscere il figlio nato fuori dal matrimonio e che il tribunale dettando contestualmente i provvedimenti ritenuti opportuni ai sensi degli artt. 315 bis e 262 c.c. darebbe atto del perfezionamento dell’efficacia della volontà di riconoscere il figlio pale¬sata con la proposizione del ricorso e non revocabile e potrebbe ordinare all’Ufficiale di Stato Civile l’annotazione nell’atto di nascita del minore ai sensi dell’art. 49, comma 1 lett k) del DPR 396/2000 (che parla di “atti di riconoscimento di filiazione naturale, in qualunque forma effettuati”). Tuttavia nessuna norma giuridica equipara il ricorso per chiedere di riconoscimento del figlio ad un atto di riconoscimento e pertanto l’ufficiale di stato civile non potrà certamente eseguire l’annotazione.
i) È ammissibile nel procedimento l’eccezione di non veridicità della paternità?
Secondo quanto affermato da Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21101; Cass. civ. Sez. I, 29 aprile 1999, n. 4325; Cass. civ. Sez. I, 23 febbraio 1991, n. 1958 l’accertamento della veridicità del riconoscimento esula dal procedimento previsto dall’art. 250, 4° comma, c.c. Tut¬tavia un’indagine in tal senso potrebbe essere svolta incidenter tantum, al solo e limitato fine di verificare la legittimazione attiva del richiedente. Trattasi di un accertamento di natura sommaria a carico del giudice del merito.
Anche App. Milano, 20 febbraio 2001 e App. Roma, 9 novembre 1993 hanno espresso lo stesso convincimento affermando che il procedimento instaurato ai sensi dell’art. 250 c.c. è diretto in via esclusiva a conseguire una pronuncia giudiziale che tenga luogo del mancato consenso del genitore al riconoscimento del figlio naturale ed ha pertanto ad oggetto l’accertamento se il ricono¬scimento risponda o meno all’interesse del minore, sicché resta estranea al giudizio ogni ulteriore e diversa valutazione, ivi compresa quella inerente la veridicità del rapporto di filiazione.

Giurisprudenza
Trib. Prato, 27 luglio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La manifestazione della volontà di riconoscere il figlio nato fuori dal matrimonio, irrevocabile ai sensi dell’art. 256 c.c., avviene secondo le forme previste dall’art. 254 c.c. o, in difetto del consenso dell’altro genitore che lo abbia già effettuato, con la notifica del ricorso ai sensi dell’art. 250, comma 4, c.c. che instaura un procedimento regolato dal rito camerale che si conclude con una sentenza con cui, ove l’opposizione sia ritenuta infondata, il Tribunale ordinario detterà contestualmente i provvedimenti ritenuti opportuni ai sensi degli artt. 315 bis e 262 c.c. dando atto del perfezionamento dell’efficacia della volontà di riconoscere il figlio palesata con la proposizione del ricorso e non revocabile ed ordinando all’Ufficiale di Stato Civile l’annotazione nell’atto di nascita del minore ai sensi dell’art. 49, comma 1 lett k), del DPR 396/2000.
In tema di rifiuto del consenso al riconoscimento del figlio infra quattordicenne, il tribunale ordinario, all’esito del procedimento promosso ai sensi dell’art. 250, comma 4, c.c., può dettare i provvedimenti ritenuti opportuni ex artt. 315-bis e 262 c.c. contestualmente all’emissione della sentenza che tiene luogo del consenso mancante del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento, la quale, in virtù della volontà di riconoscimento già irrevocabilmente manifestata dal genitore mediante la proposizione del ricorso, può essere direttamente oggetto di annotazione nell’atto di nascita del minore.
Cass. civ. Sez. I, 27 marzo 2017, n. 7762 (Foro It., 2017, 5, 1, 1533)
Il risultato dell’audizione della figlia minore, capace di discernimento – la quale si sia opposta decisamente al riconoscimento da parte del padre – deve essere apprezzato dal Giudice del merito nel contesto della valutazio¬ne, in concreto, del suo interesse a realizzarsi nel contesto delle relazioni affettive che consentano uno sviluppo armonico della sua identità sotto il profilo psichico, culturale e relazionale.
Nel procedimento proposto a seguito dell’opposizione del genitore che per primo abbia riconosciuto il figlio infra-quattordicenne nato fuori dal matrimonio al successivo riconoscimento da parte dell’altro, il secondo rico¬noscimento non costituisce, di per sé, in assenza di gravi motivi ostativi, un vantaggio per la prole, in quanto il giudice, ai fini dell’accoglimento della domanda, deve sempre valutare la concreta ed attuale sussistenza dell’in¬teresse al riguardo di quel minore, con riferimento al suo armonico sviluppo psicologico, affettivo, educativo e sociale, da valutarsi sulla base, da un lato, di quanto accertato con riferimento alla personalità del genitore richiedente, dall’altro di quanto emerso in sede di ascolto del minore medesimo (la Suprema corte ha cassato la sentenza di merito, che aveva accolto la domanda di riconoscimento, non tenendo conto dell’opposizione della figlia, di cui pure era stata riconosciuta la capacità di discernimento, né degli elementi negativi relativi alla per¬sonalità e alla condotta del ricorrente medesimo).
Il riconoscimento del figlio minore infra-quattordicenne nato fuori dal matrimonio, già riconosciuto da un geni¬tore, costituisce un diritto soggettivo dell’altro, tutelato nell’art. 30 Cost., che può, tuttavia, essere sacrificato in presenza del rischio della compromissione dello sviluppo psicofisico del minore stesso. In questo quadro, il necessario bilanciamento tra l’esigenza di affermare la verità biologica con l’interesse alla stabilità dei rapporti familiari, impone di accertare quale sia, in concreto, l’interesse del minore, valorizzando primariamente i risultati della sua audizione, una volta accertatane da parte del giudice la capacità di discernimento. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte d’appello, che aveva accolto la domanda avanzata dal genitore di rico¬noscimento della figlia infra-quattordicenne, malgrado la contraria volontà di quest’ultima, manifestata all’esito della sua audizione).
Trib. Parma Sez. I, 15 febbraio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio avente ad oggetto il riconoscimento della paternità, l’intervenuto riconoscimento del figlio con l’as¬senso dell’altro genitore dianzi all’Ufficiale dello Stato civile, determina la declaratoria di cessazione della materia del contendere.
Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 781 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento di figlio naturale, l’art. 250 c.c. (come modificato dall’art. 1, comma 2, lett. b, della l. n. 219 del 2012) subordina, nell’ipotesi di minore infraquattordicenne, la possibilità del secondo riconoscimen¬to al consenso del genitore che detto riconoscimento ha già effettuato e dispone, altresì, che, al compimento del quattordicesimo anno, il minore (anche se nato o concepito prima dell’entrata in vigore della l. n. 219 del 2012cit.) divenga titolare di un autonomo potere di incidere sul diritto del genitore al riconoscimento, confi¬gurando il suo assenso quale elemento costitutivo dell’efficacia della domanda stessa di riconoscimento. Ne consegue che il raggiungimento, da parte del minore, della “maggiore età” ritenuta dal legislatore adeguata ad esprimere un meditato giudizio, rilevabile d’ufficio, determina il venir meno della necessità del consenso del pri¬mo genitore al riconoscimento da parte dell’altro e, in difetto, dell’intervento del giudice. (Nella specie, la S.C., preso atto che il minore aveva compiuto quattordici anni nel corso del processo ed aveva rifiutato il suo assenso al riconoscimento, ha dichiarato, su ricorso della madre, cessata la materia del contendere, cassando senza rinvio la sentenza di riconoscimento della paternità).
Trib. Milano Sez. IX, 5 ottobre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rapporti familiari, con riguardo al mancato tempestivo riconoscimento da parte del padre della minore e al conseguente pregiudizio consistente nella privazione del rapporto parentale tra padre e figlia, imputabile esclusivamente al comportamento dell’altro genitore, sussiste la responsabilità della madre per il danno da pri¬vazione del rapporto genitoriale.
Trib. Forlì, 26 ottobre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In assenza di una specifica previsione normativa e non rientrando il procedimento di cui all’art. 250 c.c. tra le azioni di stato – posto che il tribunale, in assenza del consenso del genitore che per primo ha riconosciuto il minore, non dichiara giudizialmente la paternità o maternità come nel procedimento ex art. 269 e ss. c.c., ma si limita a pronunciare sentenza che tenga luogo del consenso mancante – si reputa che il tribunale debba prov¬vedere seguendo il rito camerale.
Trib. Vicenza Sez. II, 17 settembre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 c.c.. Orbene, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317 bis e 320 c.c.), qualora si prospettino situazioni di conflitto di interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale.
Cass. civ. Sez. VI, 29 luglio 2015, n. 16103 (Foro It., 2016, 3, 1, 930)
La competenza a provvedere sull’autorizzazione al riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, richiesta dal genitore non ancora sedicenne, spetta al tribunale ordinario e non a quello per i minorenni.
Cass. civ. Sez. I, 21 novembre 2014, n. 24863 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento previsto dall’art. 250 c.c. deve essere disposta obbligatoriamente l’audizione del minore, at¬teso che questi assume la qualità di parte, come riconosciuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 83 del 2011, e che, sulla base dei principi riconosciuti a livello internazionale, il minore ha diritto di essere ascoltato in tutte le procedure che lo interessano, salvo solo il caso in cui tale audizione sia manifestamente in contrasto con gli interessi superiori del fanciullo stesso.
In tema di riconoscimento dei figli naturali, nel procedimento di cui all’art. 250, comma 4, c.c., l’audizione obbli¬gatoria del minore trova il suo ineludibile fondamento non già in ragione di mere esigenze istruttorie, bensì nella stessa qualità di parte da riconoscere al minore medesimo.
Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21101 (Famiglia e Diritto, 2015, 4, 324 nota di TOMMASEO)
Al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio sull’opposizione al riconoscimento successivo di cui all’art. 250 c.c., parte che, di regola, è rappresentata dal genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento oppure da un curatore speciale, nominato ai sensi della norma generale di cui all’art. 78 c.p.c., tutte le volte in cui si profili in concreto un conflitto d’interessi tra il minore e il genitore rappresentante.
L’accertamento della veridicità del riconoscimento esula dal procedimento previsto dall’art. 250, 4° comma, c.c. Un’indagine in tal senso può essere svolta, in tale giudizio, incidenter tantum, al limitato fine di verificare la legittimazione attiva del richiedente. Trattasi, tuttavia, di un accertamento di natura sommaria a carico del giudice del merito.
In tema di riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, nel procedimento volto a conseguire la sentenza che tiene luogo del consenso mancante del genitore, che lo ha effettuato per primo, al riconoscimento da parte dell’altro, sussiste l’obbligo di ascolto del minore infra-quattordicenne, che ne è parte.
Cass. civ. Sez. I, 30 luglio 2014, n. 17277 (Foro It., 2015, 6, 1, 2126)
Il consenso al riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio da parte del genitore che lo abbia effettuato per secondo deve essere prestato personalmente da quello che vi aveva proceduto per primo, anche se sospeso dalla responsabilità genitoriale, e non dal tutore del minore medesimo (nella specie, la pronuncia di merito, conferma¬ta dalla Suprema corte alla stregua del principio sopra richiamato, aveva dichiarato inammissibile l’azione per il conseguimento della sentenza sostitutiva del consenso mancante proposta dal genitore che aveva proceduto al secondo riconoscimento, a fronte del dissenso espresso dal tutore, soggetto non legittimato, dovendosi invece completare la procedura amministrativa per il conseguimento del consenso del genitore che aveva riconosciuto per primo la figlia, benché sospeso dalla responsabilità genitoriale).
Il potere, spettante in via esclusiva al genitore che per primo ha riconosciuto il figlio infra-quattordicenne, di esprimere il consenso al secondo riconoscimento, da parte dell’altro genitore, costituisce un corollario della paternità (o maternità) e non della legale rappresentanza del minore nell’esercizio della potestà genitoriale, la cui sospensione, quindi, non gli impedisce di acconsentire al suddetto secondo riconoscimento, legittimando, in caso contrario, l’altro genitore a promuovere, ex art. 250 cod. civ., l’azione per ottenere la sentenza sostitutiva, in un procedimento nel quale il primo è litisconsorte necessario, insieme al minore, rappresentato dal tutore.
Trib. Taranto Sez. I, 7 maggio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’interesse del figlio al riconoscimento di cui all’art. 250 c.c. è definito come il complesso dei diritti che a lui derivano dal riconoscimento stesso ed, in particolare, del diritto alla identità personale nella sua precisa ed integrale dimensione psico-fisica. Ne deriva che, in caso di opposizione da parte del genitore che lo abbia già effettuato, il mancato riscontro di un interesse del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore richiedente, in quanto il sacrificio totale alla genitorialità può essere giustificato solo in presenza di gravi ed irreversibili motivi che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compressione dello sviluppo del minore e della sua salute psico-fisica.
Trib. Milano, 16 aprile 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il provvedimento giudiziale che autorizza il padre al riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio si limi¬ta ad autorizzare il genitore istante a riconoscere il minore, ma non equivale a riconoscimento, non potendosi escludere affatto che la parte, pur ottenuta l’autorizzazione, non dia corso al riconoscimento, proprio ed anche in ragione delle determinazioni giudiziali in punto di affidamento o di mantenimento, con la conseguenza che le sta¬tuizioni adottate, anche eventualmente in via provvisoria, rimarrebbero di fatto prive di effetto, in una situazione di efficacia quiescente rimessa alla volontà discrezionale della parte, situazione non compatibile con l’efficacia propria dei provvedimenti giurisdizionali, oltre a creare una situazione di potenziale pregiudizio per il minore con l’introduzione nella sua vita di una figura che poi non lo riconosce. Ne deriva che nell’interesse superiore del minore a vedersi immediatamente e in modo genuino riconosciuto dal genitore deve procedersi ad autorizzare il riconoscimento con una pronuncia parziale, disponendo la prosecuzione del giudizio in modo da consentire alla parte ricorrente di versare in atti la prova dell’avvenuto riconoscimento e di adottare poi, espletati, se del caso, i necessari accertamenti, tutti i provvedimenti ex art. 315-bis e 262 c.c., come previsto dall’art. 250 comma 2 ultimo capoverso c.c., introdotto dalla Legge 219/2012.
Cass. civ. Sez. I, 24 dicembre 2013, n. 28645 (Foro It., 2014, 2, 1, 485)
Nel procedimento proposto a seguito dell’opposizione del genitore che per primo abbia riconosciuto il figlio nato fuori dal matrimonio al successivo riconoscimento da parte dell’altro, il giudice deve procedere, a pena di nullità, all’ascolto del figlio, parte di quel procedimento, ovvero deve indicare le ragioni dell’omissione (nella specie, la Suprema corte ha cassato la sentenza di merito che si era limitata ad accertare che il secondo riconoscimento non era contrario all’interesse della minore, di circa nove anni di età, senza motivare sulle ragioni ostative all’a¬scolto della stessa, quali, ad esempio, l’insufficiente capacità di discernimento).
Nella interpretazione che è stata offerta dalla Corte costituzionale all’art. 250 c.c., con la sentenza n. 83 del 2011 – che ne ha per tale via confermato la conformità a Costituzione – essendo implicati nel procedimento de quo rilevanti diritti ed interessi del minore, ed in primo luogo quello all’accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse, questi, anche se di età inferiore a sedici anni, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica: sicché, in caso di opposizione dell’altro genitore al riconoscimento, egli gode di piena tutela dei suoi diritti ed interessi. Ne deriva che al detto minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 cod. civ.. E, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317-bis e 320 cod. civ.), qualora si prospettino situazioni di conflitto di interessi, anche in via potenziale, la tutela della sua posizione può essere in concreto attuata soltanto se sia autonomamente rappresentato e difeso in giudizio, mediante nomina di un terzo rappresentante.
Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’opposizione al riconoscimento ex art. 250 c.c. può essere accolta in caso di giudizio di inidoneità genitoriale del padre e di pericolo di compromissione dello sviluppo psico-fisico della minore in caso di riconoscimento della stessa da parte del genitore.
Ciò in base al vissuto dell’uomo ed alla sua personalità, tenuto conto che egli era cresciuto in un contesto difficile, caratterizzato da violenti litigi fra i genitori e dall’abuso da parte del padre di sostanze alcooliche, e che il facile ricorso alla violenza aveva sempre caratterizzato la vita del M., segnata anche dallo stato di detenzione per otto anni a seguito della commissione di un crimine consistito nell’aver provocato la morte di un coetaneo nel corso di una lite.
Cass. civ. Sez. I, 31 ottobre 2013, n. 24556 (Famiglia e Diritto, 2014, 10, 909 nota di LAI)
Nel procedimento previsto dall’art. 250 cod. civ., nel testo anteriore alla legge 10 dicembre 2012 n. 219, per conseguire una pronuncia in luogo del mancato consenso al riconoscimento del figlio infra-sedicenne da parte del genitore, che lo abbia già riconosciuto, pur essendo obbligatoria l’audizione del minore, come confermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 83 del 2011, non è configurabile alcun vizio ove l’espletamento dell’in¬combente sia reso oggettivamente impossibile dalla tenera età del minore (nella specie, di neppure due anni) e, quindi, sia omesso perché superfluo.
App. Napoli, 23 aprile 2013 (Famiglia e Diritto, 2013, 7, 718)
Nel procedimento di riconoscimento del figlio naturale, ai sensi dell’art. 250 c.c., deve essere sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone al riconoscimento, salvo che, per ragioni di età o per altre circo¬stanze da indicare con specifica motivazione, il minore stesso non sia in grado di sostenere l’audizione; qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, come nel caso in cui l’altro genitore si opponga al riconoscimento, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale.
App. Napoli Decreto, 17 aprile 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di procedimento innanzi al giudice minorile per conseguire il riconoscimento di un figlio minore, in ragione dell’opposizione dell’altro genitore, che abbia già proceduto al riconoscimento, il minore – anche infra-sedicenne – è parte sostanziale, e – in caso di conflitto di interessi, anche solo potenziale, con il genitore oppo¬nente – il giudice deve nominare un curatore speciale che lo rappresenti.
Trib. Catanzaro, 5 marzo 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La legge n. 219/2012, modificando l’art. 250 c.c., ha ammesso il riconoscimento del figlio da parte del genitore infra-sedicenne, sotto condizione dell’autorizzazione del giudice. Nel silenzio della legge, l’autorizzazione deve ri¬tenersi demandata alla competenza del Giudice Tutelare. In primo luogo, la legge ha attribuito al Giudice Tutelare il potere di accertamento della capacità naturale degli individui, al fine di verificarne l’idoneità al compimento di determinati atti. Inoltre, in questo senso, depone la particolare snellezza e deformalizzazione dei procedimenti di competenza del Giudice Tutelare, che assicurano di norma una particolare celerità nella decisione e si presenta¬no, pertanto, del tutto idonei alle esigenze di speditezza che simili casi richiedono. Per la competenza del giudice tutelare depone anche la circostanza che il provvedimento nel caso di specie richiesto all’Autorità Giudiziaria non risolve una questione contenziosa ma ha la funzione, in quanto autorizzatorio, di rimuovere un limite posto dall’ordinamento nei confronti di un soggetto superando, attraverso l’accertamento in concreto, la presunzione di incapacità ritenuta dal legislatore.
Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2012, n. 5884 (Famiglia e Diritto, 2012, 7, 653 nota di CARBONE)
Nel giudizio di opposizione al secondo riconoscimento di figlio naturale, ai sensi dell’art. 250, comma 4, c.c., il minore degli anni sedici dev’essere obbligatoriamente sentito, salvo che ne sia incapace per età o per altre ragioni che il giudice di merito deve indicare in motivazione.
Trib. Minorenni Palermo, 13 marzo 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’opposizione ed il rifiuto dell’un genitore al riconoscimento del figlio naturale richiesto dall’altro ed il paventato turbamento per la serenità familiare del minore in caso di riconoscimento, va necessariamente distinto e non può interferire con il primario diritto del minore a fruire di entrambe le figure genitoriali. Né un tale atteggiamento di rifiuto si configura come un impedimento a che le parti svolgano, in caso limite, autonomamente il proprio ruolo di padre e madre, in modo da favorire, ognuna per suo conto e sotto il controllo del Giudice minorile, una corretta crescita psicofisica del minore. Il diritto al secondo riconoscimento non si pone, dunque, in termini di contrasto con l’interesse del minorenne, consistente in un complesso di opportunità derivanti dal riconoscimento, fra cui riveste particolare importanza l’acquisizione della identità personale nella sua integrale e precisa dimensione psicofisica, come figlio di una madre e di un padre determinati. Peraltro, anche l’eventuale mancato riscontro di un ulteriore interesse effettivo e concreto del minore al riconoscimento non costituisce ostacolo all’attuazione di esso da parte del genitore, in caso di opposizione del genitore che vi ha proceduto per primo, in quanto il sacri-ficio della genitorialità è ammissibile solo quando sia accertata la esistenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da segnalare la compromissione del minore per effetto del riconoscimento.
Corte cost. Ordinanza, 10 novembre 2011, n. 301 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 250 del codice civile, sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 30, 31 e 111 Cost. in quanto identica questione è stata già dichiarata non fondata dalla sentenza n. 83 del 2011 e il rimettente non adduce elementi nuovi.
Corte cost., 11 marzo 2011, n. 83 (Giur. It., 2012, 2, 270 nota di GRISI)
È infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 250 c.c., sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 30, 31 e 111 Cost., dalla Corte di appello di Brescia, Sezione per i minorenni, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
a, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell›art. 250 c.c., in quanto nel giudizio promosso dal genitore naturale, a seguito dell›opposizione dell›altro genitore che abbia già operato il ricono¬scimento, al fine di effettuare a propria volta il riconoscimento, il giudice ha il potere di nominare un curatore speciale del minore, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 30, 31 e 111 Cost..
È infondata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 30, 31 e 111 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 250 c.c., dovendo la norma essere interpretata nel senso che, ove alla domanda di riconoscimento di un figlio naturale faccia opposizione il genitore che lo ha già riconosciuto, il giudice ha il potere di nominare un curatore speciale del minore.
Non è fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell›articolo 250 del codi¬ce civile, sollevata in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 30, 31 e 111 della Costituzione, in quanto per la fattispecie prevista dall›art. 250, quarto comma, cod. civ., il giudice, nel suo prudente apprezzamento e previa adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, può procedere alla nomina di un curatore speciale, avvalendosi della disposizione dettata dall›art. 78 cod. proc. civ., che non ha carattere eccezionale, ma costituisce piuttosto un istituto che è espressione di un principio generale, destinato ad operare ogni qualvolta sia necessario nomina¬re un rappresentante all›incapace. Invero, già la norma censurata stabilisce che debba essere sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone al riconoscimento (salvo che, per ragioni di età o per altre circostan¬ze da indicare con specifica motivazione, il minore stesso non sia in grado di sostenere l›audizione). Tale adem¬pimento, la cui importanza emerge dalla citata normativa convenzionale, dimostra che il minore infra-sedicenne, nella vicenda sostanziale e processuale che lo riguarda, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica, essendo implicati nel procedimento suoi rilevanti diritti e interessi, in primo luogo quello all›accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse. Ne deriva che al detto minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all›art. 250 cod. civ.. E, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317-bis e 320 cod. civ.), qualora si prospettino situazioni di conflitto d›interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale. Il che può avvenire su richiesta del pubblico ministero, o di qualunque parte che vi abbia interesse (art. 79 cod. proc. civ.), ma anche di ufficio, avuto riguardo allo specifico potere attribuito in proposito all›autorità giudiziaria dall›art. 9, primo comma, della citata Convenzione di Strasburgo.
Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2011, n. 2645 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento del figlio naturale, ai sensi dell’art. 250, quarto comma, cod. civ., costituisce un diritto sog¬gettivo sacrificabile solo in presenza di un pericolo di danno gravissimo per lo sviluppo psico-fisico del minore, correlato alla pura e semplice attribuzione della genitorialità. Pertanto, la mera pendenza di un processo penale a carico del genitore richiedente (nella specie concorso in alterazione di stato, abbandono ed illecito affidamen¬to di neonato a terzi) non integra condizione “ex sé” ostativa all’autorizzazione al riconoscimento; neppure la valutazione del rischio di un eventuale distacco del minore dall’attuale contesto di affidamento deve costituire interferenza ostativa al riconoscimento, posto che non vi è alcun nesso con il diritto alla genitorialità, potendo invece tale valutazione costituire oggetto di giudizio in diverso procedimento “ad hoc”.
Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 2009, n. 12984 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nelle cause in cui il P.M. può assumere conclusioni solo nei limiti delle domande proposte dalle parti – come nel caso del procedimento disciplinato dall’art. 250 cod. civ., nel quale interviene obbligatoriamente ma non gli è riconosciuto il potere di impugnazione, non potendo proporre autonomamente il giudizio -, l’omissione o l’incom¬pletezza della trascrizione delle suddette conclusioni non comporta la nullità della sentenza, qualora non abbia determinato una mancata pronuncia sulle conclusioni non trascritte. (Nella specie, la S.C., esaminato il verbale d’udienza, e verificato che il P.M. aveva rassegnato le stesse conclusioni della parte privata, ha escluso la nullità della sentenza per aver il giudice motivato unitariamente).
Trib. Palermo Sez. minori, 26 gennaio 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La richiesta di riconoscimento dei figli naturali ai sensi dell’art. 250 c.c. è inammissibile qualora possa arrecare grave nocumento all’integrità psichica del minore (Nel caso di specie il Tribunale ha rigettato il ricorso per il riconoscimento di minore concepito a seguito di violenza sessuale).
Cass. civ. Sez. I, 31 dicembre 2008, n. 30688 (Foro It., 2009, 5, 1, 1450)
L’impugnazione della sentenza che definisce il procedimento camerale di autorizzazione al riconoscimento del figlio naturale infra-sedicenne, in difetto del consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimen¬to, richiede il deposito in cancelleria del ricorso entro trenta giorni dalla notifica della sentenza, ovvero, nel caso in cui l’impugnazione sia stata proposta con citazione a udienza fissa, il deposito dell’atto introduttivo entro lo stesso termine.
Nei procedimenti regolati dall’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile, che si svolgono con il rito camerale e si concludono con sentenza, la forma dell’appello è quella del ricorso e non quella della citazione, stante la previsione generale di cui all’art. 737 cod. proc. civ., rispondendo alla “ratio” del sistema che, tutte le volte in cui il legislatore abbia previsto il rito camerale per il primo grado di un determinato procedimento, tale rito debba ritenersi implicitamente adottato anche per il gravame proponibile avverso di esso, ancorchè non consista nel reclamo previsto dall’art. 739 cod. proc. civ.; ne consegue che anche nel procedimento previsto dall’art. 250, comma quarto, cod. civ., il termine breve per appellare è rispettato con il tempestivo deposito in cancelleria del ricorso entro trenta giorni dalla notifica della sentenza, mentre nel caso in cui l’impugnazione sia stata proposta con citazione a udienza fissa il gravame deve considerarsi tempestivamente e validamente pro¬posto solo ove il deposito della citazione avvenga entro il termine di trenta giorni dalla notifica della sentenza, essendo detto deposito l’atto con il quale, nei procedimenti camerali, l’impugnazione è proposta.
Cass. civ. Sez. I, 27 maggio 2008, n. 13830 (Foro It., 2008, 9, 1, 2457)
Posto che deve presumersi l’interesse del minore infra-sedicenne al riconoscimento da parte di entrambi i ge¬nitori, sul genitore che abbia già effettuato il riconoscimento, e che intenda opporsi a quello dell’altro, incombe l’onere della prova di fatti eccezionali, gravi ed irreversibili, tali da far ritenere in termini di accentuata probabilità che tale secondo riconoscimento possa seriamente compromettere lo sviluppo psicofisico del minore.
Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 2008, n. 4 (Nuova Giur. Civ., 2008, 9, 1, 1081 nota di CHECCHINI)
I padri naturali – che hanno avuto figli nati fuori dal matrimonio – hanno sempre il diritto a riconoscere, anche con molti anni di ritardo dalla nascita, i bambini che non hanno voluto quando sono nati dalle loro compagne, compreso il caso in cui il minore, dal riconoscimento tardivo, non tragga alcun interesse effettivo e concreto; l’istanza per ottenere il consenso giudiziale al riconoscimento può essere bloccata solo se vi è una forte probabi¬lità di una compromissione dello sviluppo del minore che giustifichi il sacrificio totale del diritto alla genitorialità.
L’interesse del figlio minore infra-sedicenne al riconoscimento della paternità naturale, di cui all’art. 250 c.c. è definito dal complesso dei diritti che a lui derivano dal riconoscimento stesso, e, in particolare, dal diritto alla identità personale nella sua precisa e integrale dimensione psicofisica. Pertanto, in caso di opposizione al riconoscimento da parte dell’altro genitore, che lo abbia già effettuato, il mancato riscontro di un interesse del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore richiedente, in quanto il sacrificio totale della genitorialità può essere giustificato solo in presenza di gravi e irreversibili motivi che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compromissione dello sviluppo del minore, e in particolare della sua salute psicofisica. La relativa verifica va compiuta in termini concreti dal giudice del merito, le cui conclusioni, ove logicamente e compiutamente motivate, si sottraggono a ogni sindacato di legittimità.
Cass. civ. Sez. I, 28 dicembre 2006, n. 27592 (Famiglia e Diritto, 2007, 12, 1113 nota di DE FEIS, TOM¬MASEO)
In tema di azione diretta ad ottenere una pronuncia sostitutiva del consenso dell’altro genitore, al fine del rico¬noscimento di figlio naturale infrasedicenne, nato da relazione adulterina, proposta dal padre, cittadino egiziano, trova applicazione in via esclusiva la legge italiana, atteso che quella egiziana è contraria all’ordine pubblico, perché esclude la possibilità del riconoscimento della filiazione naturale.
In tema di capacità di fare il riconoscimento del figlio, disciplinata – in base alle norme del diritto internazionale privato (art. 35, secondo comma, della legge 31 maggio 1995, n. 218) – dalla legge nazionale del genitore, il principio di ordine pubblico internazionale che riconosce il diritto alla acquisizione dello “status” di figlio naturale a chiunque sia stato concepito, indipendentemente dalla natura della relazione tra i genitori, costituisce un limite generale all’applicazione della legge straniera (nella specie, egiziana, recepente in materia di “statuto personale” il diritto islamico) che, attribuendo all’uomo la paternità unicamente nell’ipotesi in cui il figlio sia stato generato in un “rapporto lecito”, preclude al padre di riconoscere il figlio nato da una relazione extramatrimoniale. In tal caso, stante la rilevata contrarietà all’ordine pubblico internazionale della norma straniera applicabile in base al sistema di diritto internazionale privato, trova applicazione la corrispondente norma di diritto interno (art. 250 cod. civ.), la quale, in relazione alla capacità del padre di addivenire al riconoscimento del figlio naturale, si sostituisce inte¬gralmente alla norma straniera, ai sensi dell’art. 16, secondo comma, della citata legge n. 218 del 1995.
Trib. Minorenni Ancona, 29 maggio 2006 (Famiglia e Diritto, 2007, 4, 378 nota di BOLONDI)
Ai sensi dell’art. 45, comma 1, D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, l’Ufficiale dello Stato Civile ha l’obbligo di riceve¬re l’atto di riconoscimento del figlio naturale infra-sedicenne compiuto dal secondo genitore quando il consenso a detto riconoscimento da parte del genitore che per primo ha riconosciuto il figlio sia documentato in un verbale di udienza che è atto pubblico e, come tale, fa piena prova fino a querela di falso di quanto in esso risultante.
Cass. civ. Sez. I, 16 novembre 2005, n. 23074 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne, già riconosciuto da un genitore, da parte dell’altro genitore, costituisce un diritto soggettivo di natura primaria, tuttavia condizionato all’interesse del minore. Tale secondo riconoscimento può essere sacrificato soltanto in presenza di un fatto di importanza proporzionale al valore del diritto sacrificato, ossia solo ove sussista il pericolo di un pregiudizio così grave per il minore da com¬promettere seriamente il suo sviluppo psicofisico. (Enunciando il principio di cui in massima, la S.C. ha confer¬mato la decisione della corte d’appello, la quale, nel negare la pronuncia in luogo del mancato consenso, aveva ravvisato il pericolo della detta compromissione in ragione delle connotazioni fortemente negative della persona¬lità del genitore che intendeva procedere al secondo riconoscimento, essendo questi inserito nell’ambiente della criminalità organizzata ed attualmente detenuto per gravi reati).
Trib. Minorenni Emilia-Romagna Bologna, 23 aprile 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Sebbene il riconoscimento del figlio naturale sia diritto soggettivo primario del genitore, e si presuma lo specifico interesse del minore al riconoscimento, tuttavia, nel giudizio di opposizione al ricorso promosso del secondo genitore proponente domanda giudiziale di riconoscimento, qualora il minore adolescente non ancora legittimato all’assenso ex art. 250, co. 2, c.c., manifesti consapevole ed autonoma contrarietà al riconoscimento – per altro tardivo, del secondo genitore ricorrente – il diritto soggettivo del secondo genitore ricorrente non può prevale al punto di recare un pregiudizio psicofisico alla prole.
Cass. civ. Sez. I, 11 febbraio 2005, n. 2878 (Fam. Pers. Succ., 2006, 1, 73 nota di SCARANO)
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne, già riconosciuto da un genitore, è un diritto soggetti¬vo primario dell’altro genitore, costituzionalmente garantito dall’art. 30 Cost.; in quanto tale, esso non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, atteso il diritto del bambino ad identificarsi come figlio di una madre e di un padre e ad assumere, così, una precisa e completa identità. Ne consegue che il secondo riconoscimento, ove vi sia contrapposizione dell’altro genitore che per primo ha proceduto al riconoscimento, può essere sacrificato – anche alla luce degli artt. 3 e 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 (resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176) – solo in presenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da far ravvisare la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore. (Enunciando il principio di cui in massima, in un caso nel quale la richiesta del padre al tribunale di pronunciare sentenza in luogo del consenso mancante era stata presentata tre mesi dopo la nascita del bambino, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva escluso che costituisse impedimento al secondo riconoscimento la presunta inidoneità del padre naturale a svolgere il compito genitoriale, desumibile dall’avere questi dimostrato scarso interesse verso il figlio, prima e dopo la nascita).
Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2004, n. 21359 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento del figlio naturale la prescrizione riguardante l’audizione del minore, che non abbia compiuto sedici anni e che sia già stato riconosciuto da uno dei genitori, è rivolta a soddisfare l’esigenza di ac¬certare se il rifiuto del consenso del genitore che per primo abbia proceduto al riconoscimento risponda o meno all’interesse del figlio. Non è configurabile, pertanto, un potere di delega al consulente tecnico d’ufficio di una funzione che la legge riserva espressamente al giudice, per supplire all’assenso del figlio (se maggiore di sedici anni) ovvero al mancato consenso dell’altro genitore (se minore di sedici anni), a tutela dell’interesse morale del minore, ritenuto per la sua età non ancora capace di una valutazione personale pienamente attendibile rispetto a un evento suscettibile di incidere sul suo equilibrio e sulla sua vita di relazione.
Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2004, n. 21088 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche alla luce degli artt. 3 e 7 della convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo, il mancato rincontro di un interesse effettivo e concreto del minore ad essere riconosciuto dal proprio genitore non costituisce ostacolo all’esercizio del corrispondente diritto da parte di quest’ultimo ex art. 250 c.c., malgrado l’opposizione del genitore che per primo ha proceduto al riconoscimento.
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne già riconosciuto da un genitore costituisce oggetto di un diritto soggettivo dell’altro genitore, costituzionalmente garantito dall’art. 30 Cost., entro i limiti stabiliti dalla legge (art. 250 cod. civ.), cui rinvia la Costituzione, che non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, che è segnato dal complesso dei diritti che al minore derivano dal riconoscimento e, in particolare, dal diritto all’identità personale, inteso come diritto ad una genitorialità piena e non dimidiata. Ne consegue che, anche alla luce degli artt. 3 e 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 (resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176), il mancato riscontro di un interesse effettivo e concreto del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore ad ottenere il riconoscimento, nel caso di opposizione del genitore che per primo ha proce¬duto al riconoscimento, in quanto detto interesse va valutato in termini di attitudine a sacrificare la genitorialità, riscontrabile soltanto qualora si accerti l’esistenza di motivi gravi ed irreversibili che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compromissione dello sviluppo del minore, che giustifichi il sacrificio totale del diritto alla genitorialità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, secondo la quale il pregresso compor¬tamento del genitore, che aveva preteso l’aborto e non si era occupato della bambina, non autorizza a desumere che dal riconoscimento possano derivare alla minore pregiudizi gravi ed irreparabili, né ad escludere gli effetti vantaggiosi che, almeno in linea astratta, alla minore stessa dal riconoscimento possano derivare).
Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2004, n. 21088 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di riconoscimento del figlio minore infra-sedicenne, solo la presenza di una probabile compromissione dello sviluppo psico-fisico dello stesso, giustifica il rifiuto del consenso dell’altro genitore.
Cass. civ. Sez. I, 4 agosto 2004, n. 14934 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento previsto dall’art. 250 c.c., quarto comma, il minore infra-sedicenne non assume la qualità di parte, divenendo tale solamente all’esito della nomina del curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c., secondo comma, in presenza di un conflitto d’interessi con il genitore legale rappresentante che si oppone al riconosci¬mento da parte dell’altro genitore naturale, determinandosi in tal caso una sorta di intervento “iussu iudicis” del minore stesso, a mezzo del suddetto curatore. Ne consegue che la sentenza emessa a chiusura del proce¬dimento deve essere notificata, ai fini della decorrenza del termine breve per la relativa impugnazione, anche al suddetto curatore, non determinandosi in difetto il passaggio in giudicato e la conseguente definitività della decisione, in ragione del mancato decorso di detto termine rispetto a tutte le parti in causa. [Principio enun¬ciato nell’ambito di un giudizio concernente la domanda di equa riparazione dei danni (lamentati per effetto di una durata del giudizio ex art. 250 c.c., quarto comma, prolungatasi, anche in ragione della condotta degli addetti alla Cancelleria, per quattro anni e cinque mesi e dedotta come irragionevole in considerazione pure della particolare semplicità del rito camerale e della delicatezza della vicenda in questione), proposta seppur in difetto di notificazione della sentenza emessa a conclusione del giudizio (anche) al curatore speciale nominato alla minore, e dal giudice di merito dell’impugnazione nondimeno ritenuta conclusiva del procedimento all’esito del decorso del termine breve per l’impugnazione fatto decorrere dalla relativa notifica effettuata solamente ai genitori e al P.M.).
Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11949 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne già riconosciuto da un genitore costituisce oggetto di un diritto soggettivo dell’altro genitore, costituzionalmente garantito dall’art. 30 Cost., entro i limiti stabiliti dalla legge (art. 250, c.c.), cui rinvia la Costituzione, che non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura di elemento di definizione dello stesso, che è segnato dal complesso dei diritti che al minore derivano dal riconoscimento e, in particolare, dal diritto all’identità paternale nella sua integrale e precisa dimensione psichica; pertanto il mancato riscontro di un interesse effettivo e concreto del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore ad ottener il riconoscimento, nel caso di opposizione del genitore che primo ha proceduto al riconoscimento, in quanto come interesse va valutato in termini di attitudine a sacrificare la genitorialità, riscontrabile soltanto qualora si accerti l’esistenza di motivi gravi ed irreversibili che inducano a ravvisare la forte probabilità di una comprossione dello sviluppo del minore, che giustifichi il sacrificio totale del diritto alla genitorialità. Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, secondo la quale la pregressa tossicodipendenza del genitore, superata all’esito di un programma volontario di recupero, e l’atteggiamento di ripulsa della madre del minore nei confronti del padre naturale non costituivano ostacolo al riconoscimento e non incidevano negativamente sull’interesse del minore al riconoscimento.
Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2003, n. 5115 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non sono incompatibili con gli articoli 3 e 7 della convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo i principi informatori della disciplina relativa al riconoscimento dei minori infrasedicenni di cui all’art. 250 cod. civ.
Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2003, n. 5115 (Famiglia e Diritto, 2003, 5, 445 nota di FIGONE)
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne, già riconosciuto da un genitore, rappresenta un dirit¬to soggettivo primario dell’altro genitore, che trova protezione nell’art. 30 Cost. e in quanto tale, non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, visto il diritto del nato ad identificarsi come figlio di un padre e di una madre e ad assumere, pertanto, una com¬pleta identità. Ne deriva che il secondo riconoscimento, in presenza dell’opposizione dell’altro genitore, ex art. 250, comma 3, c.c., può essere sacrificato solo in presenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da far supporre la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore.
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne, già riconosciuto da un genitore, è diritto soggettivo primario dell’altro genitore, costituzionalmente garantito dall’art. 30 della Costituzione: in quanto tale, esso non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, atteso il diritto del bambino ad identificarsi come figlio di una madre e di un padre e ad assumere così una precisa e completa identità. Ne consegue che il secondo riconoscimento, ove vi sia opposizione dell’altro genitore che per primo ha proceduto al riconoscimento, può essere sacrificato – anche alla luce degli artt. 3 e 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 (resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176) – solo in presenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da far ravvisare la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore. (Enunciando il principio di cui in massima, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva escluso che costituissero impedimento al secondo ricono¬scimento l’età del padre naturale, la sua residenza in una località lontana da quella di residenza della minore, nonché la mancanza, da parte sua, di un’attività lavorativa stabile e di un’autonoma abitazione).
Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 2003, n. 14 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento di figlio naturale, l’art. 250 c.c. che, nell’ipotesi di minore infrasedicenne, subordina la possibilità del secondo riconoscimento al consenso del genitore che detto consenso ha già effettuato, dispo¬ne altresì che al compimento del sedicesimo anno il minore divenga titolare di un autonomo potere di incidere sul diritto del secondo genitore al riconoscimento, configurando il suo assenso quale elemento costitutivo della efficacia del riconoscimento stesso. Ne consegue che il raggiungimento da parte del minore della “maggiore età” ritenuta dal legislatore adeguata ad esprimere un meditato giudizio determina il venir meno della necessità del consenso del primo genitore al riconoscimento da parte dell’altro genitore e, in difetto, dell’intervento del giudice. (Nel caso di specie la S.C., preso atto del compimento del sedicesimo anno del minore, ha dichiarato la cessazione della materia del contendere ed ha cassato senza rinvio la sentenza impugnata).
Cass. civ. Sez. I, 22 ottobre 2002, n. 14894 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne già riconosciuto da un genitore rappresenta un diritto soggettivo primario dell’altro genitore, costituzionalmente garantito, e – in quanto tale – non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, atteso il diritto di quest’ultimo ad identificarsi come figlio di una madre e di un padre e ad assumere una precisa e completa identità. Conseguentemente, il secondo riconoscimento, ove vi sia opposizione da parte dell’altro geni¬tore che per primo abbia proceduto al riconoscimento, può essere sacrificato solo in presenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da far ravvisare la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore.
App. Cagliari, 17 maggio 2001 (Pluris, Wolters-Kluwer Italia)
L’interesse del minore costituisce l’unico parametro di riferimento ai fini della valutazione della legittimità del rifiuto del consenso opposto dall’altro genitore al riconoscimento del figlio naturale. Tale indagine deve essere condotta alla luce della presunzione (semplice) dell’esistenza di un interesse del minore al richiesto riconosci¬mento sotto il profilo affettivo – spirituale non meno che sotto quello dei diritti all’istruzione, educazione, man¬tenimento ad esso conseguenti.
Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2001, n. 6470 (Nuova Giur. Civ., 2002, II, 294 nota di LENA)
Nel procedimento previsto dall’art. 250, comma 4, c.c., per conseguire una pronuncia che tenga luogo del man¬cato consenso dei genitore, che abbia già riconosciuto il figlio infra-sedicenne, al riconoscimento dello stesso minore da parte dell’altro genitore, il minore non assume la qualità di parte, ma ne è prevista l’audizione, sempre che ne sia capace per ragioni di età o per altre cause, sicchè in tale procedimento non insorge l’esigenza della nomina di un curatore speciale del minore nè la mancata previsione della necessità di tale nomina si pone in contrasto con gli art. 3, 31 e 111 cost., atteso che il minore risulta adeguatamente protetto dalla verifica che il tribunale per i minorenni è chiamato a compiere circa l’effettiva rispondenza all’interesse dei minore medesimo del secondo riconoscimento.
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne, già riconosciuto da un genitore, è diritto soggettivo primario dell’altro genitore, costituzionalmente garantito dall’art. 30 cost.: in quanto tale, esso non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, atteso il diritto del bambino ad identificarsi come figlio di una madre e di un padre e ad assumere così una precisa e completa identità. Ne consegue che il secondo riconoscimento, ove vi sia opposizione dell’altro genitore che per primo ha proceduto al riconoscimento, può essere sacrificato solo in presenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da far ravvisare la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore.
Nel procedimento disciplinato dall’art. 250, comma 4, c.c., il vizio procedurale dipendente dalla mancata audi¬zione del minore deve essere espressamente dedotto dalle parti, non trattandosi di nullità rilevabile d’ufficio, ma di prescrizione rivolta a soddisfare unicamente l’esigenza di accertare se il rifiuto del consenso del genitore che per primo ha proceduto al riconoscimento risponda o meno all’interesse del minore.
App. Milano, 20 febbraio 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il procedimento instaurato ai sensi dell’art. 250, comma 4, c.c. è diretto in via esclusiva a conseguire una pronuncia giudiziale che tenga luogo del mancato consenso del genitore al riconoscimento del figlio naturale infra-sedicenne, ed ha pertanto ad oggetto l’accertamento se il riconoscimento risponda o meno all’interesse del minore, sicché resta estranea al giudizio ogni ulteriore e diversa valutazione, ivi compresa quella inerente la veridicità del rapporto di filiazione.
Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2000, n. 6784 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di cui all’art. 250 c.c., l’audizione del minore è prevista quale prima fonte di convincimento del giudice sulla rispondenza del secondo riconoscimento all’interesse del minore medesimo e deve essere disposta anche d’ufficio col solo limite dell’incapacità del minore, per età o altra causa, a rendere dichiarazioni; in tal caso il giudice deve motivare in ordine alle ragioni che hanno impedito l’incombente, al fine di consentirne il controllo. (Nella specie la S.C. ha escluso fosse incorso in violazione di legge il giudice di merito, che aveva escluso l’audi¬zione in ragione dell’età del minore, cinque anni).
Cass. civ. Sez. I, 22 febbraio 2000, n. 1990 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento di un figlio naturale minore, già riconosciuto da un genitore, è diritto soggettivo primario dell’altro genitore, che, ancorché condizionato all’interesse del minore, è costituzionalmente garantito dall’art. 30 cost. e, come tale, non può essere disconosciuto sulla sola base di una condotta morale non esente da cen¬sure, di per sé rilevante per il diverso fine dell’affidamento.
Cass. civ. Sez. I, 27 ottobre 1999, n. 12077 (Dir. Famiglia, 2001, 536 nota di GALOPPINI)
In tema di autorizzazione al riconoscimento di figlio naturale, la mera diversità culturale, di origini, di etnia e di re¬ligione non può di per sé costituire elemento significativo ai fini dell’esclusione dell’interesse del minore all’acqui¬sizione della doppia genitorialità. Tuttavia, il fanatismo religioso. (Nella specie, si trattava di genitori di nazionalità e religioni diverse) può assumere rilievo dirimente qualora si traduca in un’indebita compressione dei diritti di li¬bertà del minore o in un pericolo per la sua crescita secondo i canoni generalmente riconosciuti dalle società civili.
È infondata, in fatto e in diritto, nonché contraria all’interesse del minore l’opposizione ex art. 250 c.c., della madre italiana, che ha riconosciuto per prima, al riconoscimento richiesto dall’altro genitore, peraltro alieno da gesti ed atteggiamenti prevaricatori e del tutto integrato nel tessuto socioculturale italiano, qualora l’opposizione abbia a basarsi unicamente sull’etnia e la confessione religiosa di quest’ultimo (arabo e di religione musulmana) e sul conseguente timore che la figlia, acquistando la cittadinanza tunisina e frequentando il padre, possa avere grave danno sia dalla sua sottoposizione all’ordinamento giuridico tunisino, fondato su di una concezione unitaria della religione e dello Stato sulla deteriore condizione, sotto ogni riguardo, della donna rispetto all’uomo, sia dall’integralismo religioso e politico dei musulmani; la bambina, invero, che conserva, malgrado il riconoscimento, la cittadinanza italiana, può e potrà sempre contare sulla tutela dei diritti fondamentali ad ogni persona garantita dall’ordinamento italiano, fermo restando che il principio di laicità di cui all’art. 8 cost. impedisce che ogni confessione religiosa possa essere in sè anteposta o posposta alle altre.
Cass. civ. Sez. I, 29 aprile 1999, n. 4325 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il procedimento previsto dall’art. 250, comma 4, c.c. per conseguire dal tribunale una pronuncia che tenga luogo del mancato consenso al riconoscimento del figlio minore, da parte del genitore che abbia già effettuato tale riconoscimento, è volto esclusivamente ad accertare se il secondo riconoscimento risponde all’interesse del minore stesso, sicché in esso resta irrilevante ogni indagine sulla veridicità del secondo riconoscimento, indagine – questa – che presuppone il riconoscimento e che può essere svolta in separato giudizio, ove il riconoscimento autorizzato a norma dell’art. 250 venga impugnato ex art. 263 c.c. Un siffatto accertamento non può essere quindi svolto nel giudizio di cui all’art. 250, se non al limitato fine – in presenza di contestazioni della controparte, di verificare, ma solo “incidenter tantum”, la legittimazione attiva del richiedente.
Cass. civ. Sez. I, 26 aprile 1999, n. 4148 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al pari di quanto accade in tema di controversie in tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale di minori, anche nel procedimento previsto dall’art. 250, comma 4, c.c., avente ad oggetto l’indagine sulla legittimità del rifiuto al secondo riconoscimento opposto dal genitore che per primo abbia riconosciuto il figlio, il termine breve per appellare è rispettato con il tempestivo deposito in cancelleria del ricorso entro trenta giorni dalla notifica della sentenza, mentre, nel caso in cui l’impugnazione sia stata proposta con citazione a udienza fissa, il gravame deve considerarsi tempestivo e validamente proposto purché il deposito della citazione avvenga entro il termine di trenta giorni dalla notifica della sentenza, essendo detto deposito l’atto con il quale, nei procedimenti camerali, l’impugnazione è proposta.

Il testamento posteriore invalido non revoca il precedente

Cass. civ. Sez. VI – 2, 16 novembre 2017, n. 27161
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
ORDINANZA
sul ricorso 15526-2016 proposto da:
G.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PACUVIO, 34, presso lo studio dell’avvocato LORENZO ROMANELLI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIUSEPPE MARVULLI in virtù di procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
B.E., domiciliata in ROMA presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato ENRICO DONATI in virtù di procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 54/2016 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 19/01/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/09/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Letta la memoria depositata dalla ricorrente.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
B.E. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Genova G.A., deducendo di essere erede ovvero legataria della defunta zia, M.G., giusta testamenti olografi del 9/3/1990 e del 6/2/1992, chiedendo pertanto accertarsi la comproprietà per la quota del 50% pro capite dell’appartamento appartenente alla defunta sito in (OMISSIS), sul presupposto che la restante quota apparteneva alla convenuta, in quanto figlia e erede legittimaria della testatrice.
La convenuta contestava la fondatezza della domanda chiedendone il rigetto.
Il Tribunale adito con la sentenza n. 3283/2009, non definitivamente pronunziando, annullava il testamento del 6/2/1992 per incapacità naturale della testatrice, ma dichiarava l’attrice erede in forza dei precedenti testamenti del 9/3/1990, riconoscendole la comproprietà dell’immobile per la quota del 50%, rimettendo la causa in istruttoria per lo svolgimento delle operazioni divisionali.
La Corte d’Appello di Genova, con la sentenza n. 54 del 19 gennaio 2016 rigettava il gravame della G., condannando l’appellante al rimborso delle spese del giudizio di secondo grado.
Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso G.A. sulla base di cinque motivi (erroneamente indicati come sette a pag. 9 del ricorso ed in contrasto con quanto emerge dalla stessa formulazione del ricorso e dalla indicazione preliminare di cui alla pag. 2).
B.E. ha resistito con controricorso.
Il primo motivo lamenta la violazione o falsa applicazionedell’art. 2909 c.c..
Si osserva che a fronte della domanda dell’attrice che aveva fatto valere la sua qualità di erede ovvero di legataria, sulla base dei testamenti olografi della de cuius del 6 marzo 1990, avendo la stessa B. riconosciuto che quello successivo del febbraio del 1992 andava annullato in quanto redatto allorché la testatrice era già incapace di intendere e di volere, la ricorrente già nel corso del giudizio di primo grado aveva invocato l’efficacia di giudicato della sentenza con la quale era stato pronunciato l’annullamento del contratto di compravendita dell’ottobre del 1994, con il quale la de cuius aveva alienato alla stessa controricorrente l’immobile oggetto di causa.
Si assume che, poiché quel giudizio si era svolto in epoca successiva all’apertura della successione, la convenuta avrebbe dovuto in quella sede addurre l’esistenza del testamento a suo favore, sicché l’omessa invocazione di tale diversa modalità di acquisto del bene in quel giudizio, non consentiva di poter poi agire per il riconoscimento dell’efficacia del testamento nel presente procedimento.
Il motivo è infondato.
Correttamente la sentenza impugnata ha evidenziato le palesi differenze esistenti tra il giudizio di annullamento della vendita effettuata dalla defunta in favore della attrice, in epoca successiva alla stesura dei testamenti oggetto di causa e quello invece volto a rivendicare i diritti successori, escludendo quindi la possibilità di poter invocare la previsione di cuiall’art. 2909 c.c., in ragione della chiare differenze di petitum e causa petendi tra i due giudizi, che non consente quindi di estendere il giudicato oltre i limiti oggettivi della lite nella quale si è venuto a formare.
Alle condivisibili considerazioni sviluppate dalla Corte distrettuale, deve altresì aggiungersi, e sempre a favore della tesi dell’insussistenza di alcun nesso di pregiudizialità tra le due causa tale da consentire l’estensione degli effetti del giudicato, e soprattutto, come vorrebbe la ricorrente, la preclusione alla successiva proposizione del giudizio in esame, che solo l’esito positivo della domanda di annullamento del contratto di compravendita del bene per cui è causa poteva legittimare la successiva proposizione della domanda di petizione ereditaria e di divisione promossa dalla B., in quanto laddove fosse stata accertata la validità della compravendita, il bene de quo non sarebbe mai caduto in successione, e sarebbe quindi risultato del tutto superfluo pretendere il riconoscimento della sua titolarità sulla base dell’efficacia del negozio mortis causa.
Le evidenti differenze della causa petendi e del petitum (da intendersi non già come accertamento della proprietà del bene, assimilabile quindi all’effetto della rivendica, ma come indiretto recupero del bene al patrimonio della venditrice, in conseguenza dell’accertamento della invalidità dell’atto di alienazione), non consentono quindi di affermare che la successiva devoluzione, sebbene pro quota, dello stesso bene in favore dell’acquirente, fosse circostanza che andava necessariamente dedotta nell’ambito del giudizio di impugnativa negoziale.
In definitiva, poiché la successiva chiamata testamentaria non costituisce un fatto impeditivo, modificativo o estintivo sul piano giuridico rispetto alla diversa domanda di annullamento del contratto di compravendita, deve escludersi che il giudicato formatosi sull’accoglimento di tale ultima domanda, sia incompatibile, e come tale preclusivo, con la successiva attribuzione di una quota del medesimo bene, ma a titolo successorio.
Il secondo motivo denunzia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, e precisamente del carattere ingravescente della patologia psichica della testatrice, che è stato oggetto di discussione tra le parti, con la conseguente violazione anche della regola di riparto dell’onere della prova exart. 2697 c.c..
Si evidenzia che la stessa attrice aveva ammesso che alla data del 6/2/1992, cui risale l’ultima scheda testamentaria, la de cuius era affetta da incapacità di intendere e di volere, e che già in data 19/12/1988 alla defunta era stata diagnosticata una encefalopatia aterosclerotica, per la quale le era stata riconosciuta una invalidità pari al 67%.
Poiché trattasi di una patologia a carattere permanente, necessariamente destinata ad aggravarsi con l’avanzare dell’età dell’ammalata, deve ritenersi che la testatrice fosse già incapace alla data del marzo del 1990, come testimoniato anche dall’episodio dell’acquisto di un gelato di cui ignorava il prezzo attuale, così come riferito dai testi, sicché era specifico onere dell’attrice dimostrare che in realtà il testamento che la beneficiava era stato redatto in un momento di lucido intervallo.
Il motivo, ad onta delle preliminari considerazioni della stessa ricorrente, mira nella sostanza ad ottenere un diverso apprezzamento delle risultanze di fatto, risolvendosi nella proposizione esclusivamente di censure di merito.
A tal fine va evidenziato che a seguito della novella di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ed al fine di chiarire la corretta esegesi della novella, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte che con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, hanno ribadito che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83,art.54conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, ed è solo in tali ristretti limiti che può essere denunziata la violazione di legge, sotto il profilo della violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4.
Nella fattispecie, atteso il tenore della sentenza impugnata, deve escludersi che ricorra un’ipotesi di anomalia motivazionale riconducibile ad una delle fattispecie che, come sopra esposto, in base alla novella consentono alla Corte di sindacare la motivazione, riconoscendo lo stesso ricorrente che la sentenza che recepisca per relationem le conclusioni ed i passi salienti di una relazione di consulenza tecnica d’ufficio di cui dichiari di condividere il merito, non incorre nel vizio di carenza di motivazione (in tal senso si veda Cass. 13845/07; 7392/94; 16368/14; 19475/05). La deduzione circa la mancata disamina delle critiche mosse alla consulenza tecnica si risolve pertanto in una censura sotto il profilo dell’insufficienza argomentativa, occorrendo a tal fine che il ricorrente evidenzi la loro rilevanza ai fini della decisione e l’omesso esame in sede di decisione, ma pur sempre nell’ambito della previsione di cuiall’art. 360 c.p.c., n. 5.
Le suesposte argomentazioni, escludono che quindi le censure nella loro concreta formulazione possano essere esaminate dalla Corte, atteso che tramite le medesime si mira surrettiziamente a veicolare sotto il vizio della violazione di legge quella che è in realtà una denunzia di insufficienza motivazionale, non senza doversi altresì evidenziare che la già citata Cass. n. 8054/2014 ha altresì sottolineato che “L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie”, essendo quindi evidente che il motivo, ove anche ritenuta ammissibile la proposizione del ricorso ai sensidell’art. 360 c.p.c., n. 5 non appare idoneo a denunziare l’omesso esame di un fatto decisivo.
Nel caso in esame, la Corte distrettuale ha analiticamente esaminato le varie risultanze istruttorie, a partire dalle perizie mediche, pervenendo al convincimento, non sindacabile in questa sede, per il quale alla data del 1990 le condizioni di salute psichica della defunta non erano tali da determinare la sua totale incapacità di testare.
La decisione ha altresì dato contezza delle ragioni per le quali l’episodio del gelato, del quale nemmeno era certa la collocazione cronologica, potesse deporre in senso contrario, dovendosi escludere che la non perfetta consapevolezza del prezzo di tale genere alimentare potesse denotare la presenza di una patologia invalidante e rilevante ai finidell’art. 591 c.c..Stante quindi l’accertamento dell’inesistenza di una patologia a carattere permanente già alla data cui risalgono le schede invocate dall’ attrice, deve altresì escludersi che sia stata posta in essere un’indebita inversione dell’onere della prova, avendo la Corte di merito compiuto corretta applicazione delle regole di riparto dell’onere, come costantemente applicate dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di incapacità del testatore (cfr. ex multis Cass. n. 27351/2014).
Il terzo motivo denunzia la violazione e falsa applicazionedell’art. 163 c.p.c., n. 3 eart. 164 c.p.c., comma 4, sostenendosi che la citazione introduttiva del giudizio era affetta da nullità, apparendo incerto se la B. intendesse ottenere il riconoscimento dell’intera proprietà del bene ovvero della quota del 50%.
Infatti, sebbene nella parte espositiva dell’atto si indicava che per effetto del testamento del 6/3/1990 alla stessa era stata attribuita una quota del 50% dell’immobile, tuttavia nelle conclusioni si era riservata la possibilità di agire in separato giudizio per ottenere il rimborso del 100 % delle spese anticipate per l’amministrazione straordinaria dell’immobile e per i tributi versati, affermando quindi che la convenuta era proprietaria esclusiva del bene.
Tale motivo che appare sostanzialmente riproduttivo dell’analogo motivo di appello, è del pari infondato.
La sentenza impugnata ha condivisibilmente evidenziato che la stessa B. riconoscendo l’invalidità della scheda testamentaria del 1992, aveva inteso far valere la sola efficacia dei testamenti anteriori nel tempo, evidenziando che, attesa la qualità di legittimaria della G., alla medesima andava in ogni caso riconosciuta una quota del 50% sul bene caduto in successione, sicché tute le domande risultano essere state articolate in coerenza con tale premessa, ivi inclusa la domanda di divisione, sul presupposto della natura comune del bene relitto.
Tale coerenza argomentativa non può ritenersi che sia stata inficiata dal fatto che la stessa attrice avesse formulato la riserva di agire in separata sede per il recupero delle spese integralmente pagate per l’immobile, trattandosi appunto di una richiesta avanzata in via del tutto gradata e condizionata al fatto che nel giudizio promosso fosse stata esclusa, per effetto delle difese della convenuta, la contitolarità dell’immobile, con la conseguenza che le spese medio tempore sostenute, sarebbero risultate del tutto prive di giustificazione e come tali suscettibili di essere ripetute nei confronti della G., quale evidentemente, unica proprietaria del bene.
Trattasi però di una domanda condizionata al non auspicato rigetto della domanda di divisione, e che, proprio in ragione di tale condizionamento, esclude che possa ravvisarsi alcuna confusione o contraddittorietà con la domanda proposta in via principale.
Il quarto motivo denunzia la violazione e falsa applicazionedell’art. 683 c.c..
Si rileva che la scheda testamentaria del 6 febbraio 1992 è stata annullata dai giudici di merito attesa l’incapacità naturale della testatrice.
Tale ultimo testamento, per il suo contenuto incompatibile con quello delle precedenti schede testamentarie, era idoneo a determinare la revoca per incompatibilità dei precedenti testamenti ai sensi della norma richiamata in rubrica.
Si sostiene che tale effetto si produca anche nel caso di specie, e nonostante l’intervenuto annullamento del testamento del 1992, attesa la non tassatività delle ipotesi previste dalla norma de qua, e la possibilità di escludere la sua efficacia nel solo caso di nullità del testamento successivo incompatibile.
Anche tale motivo è infondato.
La previsione normativa ancorché, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non abbia carattere tassativo quanto all’individuazione delle ipotesi di inefficacia (cfr. Cass. S.U. n. 7186/1993), nel prevedere la permanenza dell’effetto di revoca del successivo testamento sebbene inefficace, fa riferimento ad una serie di ipotesi (premorienza del legatario o dell’erede, incapacità ovvero indegnità dell’istituito, ed ancora rinunzia all’eredità ed al legato) che consentono di affermare, come osservato dalla più attenta dottrina, che sia affermato il principio dell’indipendenza della revocazione testamentaria dalla sorte della delazione.
La nozione di inefficacia ivi contemplata, sebbene estesa anche ad ipotesi non previste dalla norma, non può però estendersi alla diversa situazione in cui la perdita di efficacia del testamento sia riconducibile alla patologia della quale risulti affetto lo stesso testamento, come appunto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte per l’ipotesi di nullità dell’atto mortis causa (cfr. Cass. n. 1112/1980, che prevede la salvezza dell’effetto di revoca solo nel caso in cui la nullità del testamento sia dichiarata per vizi di forma e la revoca costituisca un negozio autonomo e distinto rispetto al nuovo testamento).
Nell’ambito delle patologie che escludono la sopravvivenza dell’effetto di revoca scaturente dall’incompatibilità della nuova scheda testamentaria con il contenuto di quelle precedenti, deve farsi rientrare anche l’ipotesi di annullamento per incapacità naturale del testatore.
Ed, infatti, in tal caso, sebbene con una pronuncia di carattere costitutivo, il testamento perde la sua efficacia ex tunc, venendo meno, non già la delazione, ma la stessa vocazione, mancando una valida espressione della volontà testamentaria che possa consentire il riscontro dell’incompatibilità tra vecchie e nuove volontà del de cuius.
A ciò deve poi aggiungersi che la stessa causa che determina l’annullamento del testamento, e rappresentata dalla incapacità di autodeterminarsi del testatore, impedisce che alla volontà invalidamente manifestata, in quanto espressione di un soggetto privo delle piene facoltà psichiche, possa ricondursi l’effetto della revoca, in quanto l’incompatibilità si porrebbe tra disposizioni anteriori validamente espresse e disposizioni successive frutto di un procedimento cognitivo e volitivo inficiato a monte dalla patologia psichica, che esclude che la diversa sorte dei beni sia frutto di un valido intento di revocare quanto in precedenza disposto.
Infine il quinto motivo lamenta la violazione e falsa applicazione degliartt. 475, 476 e 713 c.c., con il conseguente difetto di legittimazione della controricorrente a promuovere il giudizio di divisione ereditaria.
Si evidenzia che per l’acquisto della qualità di erede occorre un atto di accettazione dell’eredità da parte del vocato, accettazione che non può ritenersi compiuto da parte della B., atteso che la stessa, lungi dall’accettare l’eredità della M., si è limitata solo a promuovere il giudizio di divisione per cui è causa.
Il richiamo alla quota del 50%, quale quota della quale è titolare, implica che sia stata posta in essere un’accettazione parziale, e come tale nulla, sicché deve escludersi che la parte sia divenuta erede e che possa quindi promuovere la domanda di scioglimento della comunione.
Anche tale motivo è destituito di fondamento.
La previsione della nullità dell’accettazione parziale, come confermato dalla sua collocazione topografica, è limitata alla sola ipotesi di accettazione espressa, laddove nel caso in esame si verte in materia di accettazione tacita, quale conseguenza della proposizione dell’azione di divisione (in termini Cass. n. 1628/1985), cosicché è la stessa concludenza dell’atto, dalla quale è dato inferire la volontà di acquisto della qualità di erede, ad estendere gli effetti dell’adizione dell’eredità all’intero coacervo ereditario, sebbene l’atto abbia riguardato solo uno o alcuni dei beni ereditari, essendo quindi escluso che possa ritenersi essere di fronte ad un’accettazione parziale, per il solo fatto di instare per la tutela solo di un singolo bene (e ciò anche a prescindere dall’osservazione pur pertinente, di parte resistente, secondo cui, per effetto del testamento, alla B. competevano solo i diritti sull’immobile per il quale era stata promossa la domanda di divisione – cfr. anche pag. 5 della sentenza gravata – di guisa che la domanda aveva interessato tutto quanto era stato dalla medesima acquisito iure hereditario).
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art.1, comma 17, dellalegge 24 dicembre 2012, n. 228(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui alD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 6.000,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori come per legge;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, inserito dallaL. n. 228 del 2012,art.1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, stesso art. 13.

Successione ereditaria: differenza tra istituzione di erede e di legatario

Cass. civ. Sez. VI – 2, 16 novembre 2017, n. 27160
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
ORDINANZA
sul ricorso 15067/2016 proposto da:
G.D.B.G., G.D.B.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA AREZZO 38, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO MESSINA, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato TULLIO CASTELLI giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
SOLEDAD SRL UNIPERSONALE, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA, 362, presso lo studio dell’avvocato PASQUALE TRANE, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2931/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 21/12/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/09/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le memorie depositate dalle parti.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Il Tribunale di Verona con la sentenza n. 796/2013 rigettava la domanda proposta dagli odierni ricorrenti exart. 732 c.c., nei confronti della Soledad S.r.l., in relazione all’acquisto effettuato dalla società, dell’eredità del defunto Gu.di.Br.Gu., giusta atto di vendita in data 12/2/2009 intercorso con G.d.B.E., quale venditrice.
Ad avviso del giudice di prime cure la domanda andava disattesa in quanto gli attori non rivestivano la qualità di coeredi, posto che la venditrice era stata nominata dal de cuius quale erede universale, il che precludeva la stessa esistenza di una comunione ereditaria, in relazione alla quale esercitare il diritto di riscatto.
La Corte d’Appello di Venezia con la sentenza n. 2931 del 21/12/2015 ha rigettato il gravame proposto dagli attori, ritenendo che non poteva essere ritenuta inammissibile, in quanto tardiva, la deduzione sollevata dalla convenuta società all’atto della sua costituzione in giudizio, circa la mancata titolarità in capo agli attori della qualità di coeredi, atteso che la contestazione in oggetto costituiva una mera difesa, non sottoposta a preclusioni, essendo appunto onere degli attori fornire la prova di tale qualità, dovendo altresì escludere che le difese sollevate dalla convenuta fossero incompatibili con la contestazione della titolarità del rapporto dedotto in giudizio. Inoltre rilevava che dalla complessiva valutazione delle schede testamentarie del de cuius era confermata la conclusione circa la volontà di istituire quale erede universale la sola figlia E., essendosi fatta menzione delle donazioni effettuate in favore dei figli maschi, al solo fine di giustificare perchè tutto il patrimonio relitto era attribuito, con finalità perequativa appunto delle donazioni effettuate in vita, alla sola dante causa della società convenuta.
Nè poteva indurre a diverse conclusioni il fatto che il testamento avesse disposto che tasse, imposte ed altri oneri, oltre che la pensione mensile in favore di tal C.M.M., dovessero essere ripartiti in pari misura tra i tre figli, atteso che ben possono essere imputate le poste passive a carico dei legatari.
Infine, anche i beni immobili non espressamente menzionati in testamento dovevano reputarsi attribuiti in proprietà esclusiva, ed a titolo di erede, alla figlia E., atteso che nella scheda testamentaria del 16 gennaio, oltre a prevedersi delle attribuzioni mobiliari a favore dei figli maschi, ma da intendersi quali legati, il de cuius ribadiva che tutto il resto del patrimonio doveva andare alla predetta E..
Quanto alla deduzione degli appellanti, per la quale, avendo gli stessi proposto azione di riduzione nei confronti della sorella, andava disposta la sospensione del giudizio exart. 295 c.p.c., in attesa della definizione del giudizio di riduzione, rilevava la Corte distrettuale che l’acquisto della qualità di erede da parte del legittimario pretermesso presuppone l’accoglimento della domanda di riduzione con efficacia di giudicato, sicchè medio tempore le disposizioni lesive continuavano a produrre effetto. Andava poi esclusa l’esistenza di una pregiudizialità tecnica tra i due giudizi, e pertanto, non si poneva il paventato pericolo di contrasto tra giudicati.
Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso G.d.B.A. e G.d.B.G. articolato in tre motivi.
La Soledad S.r.l. ha resistito con controricorso.
Il primo motivo di ricorso con il quale si denunzia la violazione e falsa applicazionedell’art. 167 c.p.c., comma 2,art. 183 c.p.c., comma 6, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che la mancata tempestiva contestazione da parte della convenuta della qualità di coeredi degli attori non comportasse la decadenza dalla relativa eccezione, è privo di fondamento.
Ed, invero, oltre a doversi ribadire che la titolarità della qualità di coeredi costituisce elemento costitutivo della domanda proposta exart. 732 c.c., sicché è onere di parte attrice dimostrarne la sussistenza, la decisione gravata ha comunque fatto corretta applicazione dei principi di recente affermati da questa Corte a Sezioni Unite nella sentenza n. 2951/2016, nella quale si è precisato che la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicchè spetta all’attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto.
Nel caso di specie, deve escludersi la contestazione della qualità di coeredi degli attori costituisca quindi un’eccezione e per di più un’eccezione in senso stretto, sicché ben poteva il giudice anche d’ufficio rilevarne la carenza. Peraltro alcuna rilevanza può essere attribuita alla tardiva costituzione della società convenuta, avendo altresì la Corte veneta chiarito come non fosse possibile ravvisare una difesa da parte della società incompatibile con la contestazione dello status di coeredi in capo agli attori.
Anche il secondo motivo, con il quale si denunzia la violazione e falsa applicazione degliartt. 732, 554, 588, 56 e 457 c.c., è infondato.
Sostengono i ricorrenti che in realtà il testamento conteneva la loro istituzione quali eredi ex certa re, e che in ogni caso, in ordine ai beni non espressamente menzionati dal de cuius (tra cui un immobile in (OMISSIS) e terreni in (OMISSIS)) si era aperta la successione legittima alla quale concorrevano anche i ricorrenti.
Ed, invero, quanto alla violazionedell’art. 588 c.c., occorre ricordare che costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui (cfr. da ultimo Cass. 25 ottobre 2013 n. 24613) in tema di distinzione tra erede e legatario, ai sensidell’art. 588 cod. civ., l’assegnazione di beni determinati configura una successione a titolo universale (“institutio ex re certa”) qualora il testatore abbia inteso chiamare l’istituito nell’universalità dei beni o in una quota del patrimonio relitto, mentre deve interpretarsi come legato se egli abbia voluto attribuire singoli, individuati, beni. In ogni caso l’indagine diretta ad accertare se ricorra l’una o l’altra ipotesi si risolve in un apprezzamento di fatto, riservato ai giudici del merito e, quindi, incensurabile in cassazione, se congruamente motivato (conf. Cass. 13 giugno 2007 n. 13835; Cass. 1 marzo 2002 n. 3016).
In particolare (cfr. Cass. 12 luglio 2001 n. 9467) tale indagine deve essere sia di carattere oggettivo, riferita cioè al contenuto dell’atto sia di carattere soggettivo, riferita all’intenzione del testatore. Ne consegue che soltanto in seguito a tale duplice indagine – che è di competenza del giudice del merito ed i cui risultati non sono censurabili in sede di legittimità se congruamente motivati – può stabilirsi se attraverso l’assegnazione di beni determinati il testatore abbia inteso attribuire una quota del proprio patrimonio unitariamente considerato (sicché la successione in esso è a titolo universale) ovvero abbia inteso escludere l’istituzione nell'”universum ius” (sicché la successione è a titolo di legato).
La sentenza impugnata con adeguata motivazione ha quindi accertato che le disposizioni testamentarie non consentivano di attribuire agli attori la qualità di eredi, emergendo piuttosto la precisa volontà di istituire la sola figlia E. come unica erede, essendosi data giustificazione di tale scelta in ragione delle numerose e cospicue donazioni, anche indirette, effettuate in vita dal de cuius in favore dei figli maschi, liberalità che si intendeva perequare proprio mediante l’assegnazione della qualità di erede unicamente alla dante causa della società convenuta.
La sentenza ha puntualmente chiarito come i vari argomenti spesi dalla difesa degli attori per vedersi riconosciuta la qualità di coeredi non potessero avere seguito (menzione delle donazioni, suddivisione in parti eguali tra i tre figli delle passività ereditarie, qualificazione non come legati delle assegnazioni di beni mobili ben individuati).
Trattasi di valutazioni connotate da logicità e coerenza ed insuscettibili di rivisitazione da parte di questa Corte, sicché la formale denunzia di violazione di legge altro non costituisce che una indebita sollecitazione a procedere ad un non consentito nuovo apprezzamento del fatto.
La sentenza peraltro si è specificamente occupata anche dell’ulteriore questione, pur dedotta in ricorso, relativa alla possibile apertura della successione legittima sui beni immobili dei quali il de cuius non aveva fatto menzione nella scheda testamentaria, avendo condivisibilmente sottolineato come il tenore della scheda testamentaria più risalente (che prevedeva che tutte le unità immobiliari in (OMISSIS) fossero trasferite in piena ed esclusiva proprietà ad E.) sia stato integrato dalla terza scheda testamentaria nella quale si ribadisce la volontà di attribuire alla figlia “quanto della mia proprietà resta a me intestato e che considero la sua parte, rinnovo qui la volontà che tutto quello che è ancora a me intestato divenga proprietà di mia figlia E.”, espressione questa che la sentenza impugnata ha, con adeguata motivazione, ritenuto idonea ad attribuire alla beneficiaria la qualità di erede universale, precludendo quindi l’apertura di una successione legittima, seppure parziale, in favore dei germani.
Infine, il terzo motivo denunzia la violazione e falsa applicazionedell’art. 295 c.p.c., e degliartt. 457 e 554 c.c., art. 3652 c.c., n. 8,artt. 2643 e 2644 c.c., nella parte in cui la Corte di merito ha negato l’esistenza di una pregiudizialità tra la presente causa e quella di riduzione intentata dagli attori nei confronti della sorella, disattendendo la richiesta di disporre la sospensione necessaria del processo.
Il motivo deve essere disatteso sebbene sulla base di una indicazione diversa da quella di cui alla proposta, fondata sulla ravvisata diversità delle parti del giudizio in esame, rispetto a quello avente a detta dei ricorrente carattere pregiudiziale (avendo in tal senso i ricorrenti fatto rilevare nella memoria exart. 378 c.p.c., che anche al giudizio avente ad oggetto l’azione di riduzione ha partecipato la società intimata).
In tal senso va ricordato che la più volte ribadita validità della disposizione testamentaria eventualmente lesiva dei diritti dei legittimari, suscettibile di essere dichiarata solo inefficace in caso di vittorioso esperimento dell’azione di riduzione (cfr. Cass. n. 25834/2008; Cass. n. 27556/2008), tanto da precludere la possibilità di poter richiedere la divisione al legittimario prima dell’accoglimento della sua domanda (cfr. Cass. n. 368/2010), e proprio per l’assenza di una comunione attuale, impedisce altresì di poter ritenere passibile di retratto l’alienazione dei beni ereditari compiuta dal soggetto che allo stato riveste la qualità di unico erede.
Corretto appare il richiamo operato dalla sentenza impugnata ai precedenti di questa Corte che, nel sottolineare l’inefficacia ex nunc degli atti lesivi, a far data dall’accoglimento dell’azione di riduzione, hanno escluso la sussistenza di un nesso di pregiudizialità tecnica tra la causa di riduzione e la diversa controversia avente ad oggetto i beni oggetto delle disposizioni testamentarie (Cass. n. 5323/2002; Cass. n. 9424/2003) avendo affermato principi che appaiono indubbiamente suscettibili di estensione anche al caso di specie.
La trascrizione della domanda di riduzione assicura poi che, laddove la stessa dovesse essere accolta, i legittimari vittoriosi potranno opporre la sentenza a loro favorevole anche alla società acquirente, venendosi in tal caso ad instaurare una comunione tra gli stessi legittimari e la società, senza che questa possa opporre di avere acquistato la piena proprietà dei beni ereditari (peraltro nella fattispecie, trattandosi di una vendita di eredità avvenuta allorquando era stata già proposta l’azione di riduzione, la trascrizione mira ad assicurare la piena esplicazione degli effetti di cuiall’art. 111 c.p.c., nei confronti della società terza acquirente in corso di causa).
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dellaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 quater, del testo unico di cui alD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115- della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 12.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori come per legge;
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, inserito dallaL. n. 228 del 2012,art.1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13.

Notifica PEC: la Cassazione ritiene valido solo il formato.p7m

Cass. civ. sez. VI – 3, 31 agosto 2017, n. 20672
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso iscritto al n. 16969/2016 R.G. proposto da:
UNICREDIT S.P.A. – C.F. e P.I. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COLA DI RIENZO, 111, presso lo studio dell’avvocato GIULIO GONNELLA, rappresentata e difesa dall’avvocato ALESSANDRO GALLO;
– ricorrente –
contro
Z.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MECENATE 27, presso lo studio dell’avvocato ANDREINA DI TORRICE, rappresentato e difeso dall’avvocato PIETRO BISCONTI;
– controricorrente –
e contro
Z.M., Z.G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DELLE MILIZIE 138, presso lo studio dell’avvocato MARINA MAGGIULLI, rappresentati e difesi dall’avvocato GAETANO NARO;
– controricorrenti –
e contro
CONSORZIO PER L’AREA DI SVILUPPO INDUSTRIALE DELLA PROVINCIA DI PALERMO IN LIQUIDAZIONE;
– intimato –
avverso la sentenza n. 2216/2016 del TRIBUNALE di PALERMO, depositata il 26/04/2016;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del dì 11/05/2017 dal Consigliere Dott. Franco DE STEFANO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
rilevato che:
UniCredit spa ricorre, affidandosi a due motivi, per la cassazione della sentenza (n. 2216 del 26/04/2016) con cui il tribunale di Palermo ha rigettato l’opposizione avverso l’ordinanza del 12/05/2014 del g.e. di quel tribunale, di rigetto dell’opposizione dalla medesima proposta contro il provvedimento di accoglimento della contestazione del credito proposta dai creditori procedenti Z.P., M. e G. nel procedimento di espropriazione presso terzi promosso contro il debitore esecutato Consorzio per l’Area di sviluppo industriale di Palermo in liq.ne;
in particolare, la ricorrente notifica un primo ricorso, in cui il suo difensore dichiara di agire in forza di procura generale alle liti del 29/10/2010, a mezzo p.e.c. in data 27/06/2016, ma pure ulteriore ricorso (ovvero, come specifica nella memoria il medesimo ricorso, ma semplicemente reiterandolo), sempre a mezzo p.e.c., stavolta in data 19/09/2016, nella cui intestazione continua a farsi riferimento univoco alla procura generale del 29/10/2010, ma che reca stavolta acclusa una procura speciale da parte di tale avv. V.F. – quale procuratore speciale e così legale rappresentante di UniCredit – in favore del medesimo difensore che aveva formato il primo ricorso;
degli intimati notificano separati controricorsi contro ciascuno dei due ricorsi sia Z.P. (in data 22/07 e 19/10/2016) sia, con unitario atto, Z.G. e M. (in data 25/07 e 26/10/2016), in particolare eccependo, nei primi controricorsi, l’inammissibilità per carenza di procura speciale e, nei secondi, il vizio derivante dalla reiterazione del ricorso;
non espleta attività difensiva in questa sede il Consorzio;
è formulata proposta di definizione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 1, come modificato dalD.L. 31 agosto 2016, n. 168,art.1 bis, comma 1, lett. e), conv. con modif. dallaL. 25 ottobre 2016, n. 197;
la ricorrente deposita memoria ai sensi del secondo comma, ultima parte, del medesimo art. 380 bis, con la quale, tra l’altro, solleva questione di ritualità della notifica del controricorso di Z.P., siccome avvenuta con allegazione al messaggio di PEC di tre file in formato “.pdf” e non “.p7m” e quindi da ritenersi privi di firma digitale, poi ribadendo pure la ritualità della procura allegata al ricorso notificato per secondo, siccome appunto sottoscritta digitalmente con file con estensione “.p7m”;
considerato che:
ben potrebbe immediatamente provvedersi – con altrettanto immediata individuazione della soccombenza della ricorrente – in conformità alla proposta di inammissibilità, già formulata dal relatore, per entrambi i ricorsi:
– del primo, perché formato da difensore privo di procura speciale, non potendo valere la procura generale rilasciata il 29/10/2010 per impugnare una sentenza del 2016 (e tanto per giurisprudenza a dir poco consolidata; tra le innumerevoli: Cass. 20/11/2009, n. 24548; Cass. 31/05/2005, n. 11583; Cass. 16/05/2003, n. 7710) e neppure valendo (stando alla tesi sviluppata con la memoria) la e-mail della cliente, sul punto informata, tanto integrando una fattispecie singolarmente estranea a quella disegnata per il conferimento di una procura speciale dalle previsioni del codice di procedura civile;
– del secondo, perché proposto – il 19/09/2016 – una volta decorso il termine breve (non soggetto, atteso l’oggetto della controversia, alla sospensione feriale: e cioè scaduto il 60 giorno dal 27/06/2016, venerdì 26/08/2016) dalla prima notificazione, sebbene relativa ad un’impugnazione inammissibile (in tali sensi, da ultimo ed ove riferimenti, Cass. Sez. U. 13/06/2016, n. 12084, già ricordata da Cass. 08/03/2017, n. 5793); né valendo a sanare l’inammissibilità del primo per difetto di valida procura la rinnovazione della sua notifica, una volta scaduti i termini per l’impugnazione;
tuttavia, ad avviso del Collegio, il ricorso non potrebbe essere definito, sia pure anche solo ai fini di regolare le spese nei rapporti tra la ricorrente ed uno solo dei controricorrenti ( Z.P.) senza prendere posizione, anche a seguito della formale eccezione della ricorrente nella memoria depositata in vista dell’adunanza non partecipata e per gli effetti sensibili sul carico delle spese di giudizio che la sua soluzione potrebbe avere (per il valore della controversia e l’entità dell’attività svolta da prendere in considerazione ai fini della liquidazione), su di una problematica che stima il Collegio investire una questione di massima di particolare importanza, sulla quale non risulta essersi ancora consolidato un orientamento della giurisprudenza di legittimità, nonostante investa un punto focale del processo civile telematico e l’applicazione ad esso di fondamentali principi della processualistica;
tale questione ha ad oggetto gli effetti della violazione delle disposizioni tecniche specifiche sulla forma degli “atti del processo in forma di documento informatico” (o, descrittivamente, nativi informatici) da notificare – riferendosi i precedenti di legittimità noti a fattispecie di atti in formato analogico e poi trasformati e notificati in via telematica, ovvero ad altre più articolate, ma non esattamente negli specifici termini di cui appresso – e, in particolare, sull’estensione (che indica o descrive il tipo) dei file in cui essi si articolano, ove siano indispensabili per valutare la loro autenticità: sicché va stabilito se esse prevedano o meno una nullità di forma e, quindi, se questa sia poi da qualificarsi indispensabile ai sensidell’art. 156 c.p.c., comma 2, rendendosi – in caso di risposta affermativa al quesito necessario poi definire l’ambito ed i limiti dell’applicabilità alla fattispecie del principio generale di sanatoria degli atti nulli in caso di raggiungimento dello scopo previstodall’art. 156 c.p.c., comma 3;
ritiene al riguardo il Collegio che la sesta sezione – cioè, la “sezione di cui all’art. 376, comma 1, primo periodo” del codice di procedura civile – ben possa rimettere direttamente la questione alle Sezioni Unite, anziché alla pubblica udienza della sezione ordinaria (ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., u.c., come modificato dalD.L. 31 agosto 2016, n. 168,art.1 bis, comma 1, lett. e), conv. con modif. dallaL. 25 ottobre 2016, n. 197), visto che la problematica della ritualità della notifica di uno o più degli atti di costituzione della parte dinanzi a questa Corte, eseguita con documento nativo informatico a mezzo p.e.c. ma con file – ricorso o controricorso e soprattutto relativa indispensabile procura speciale – con estensione (e quindi forma o struttura informatica) diversa da quella espressamente prescritta, attiene all’ammissibilità o meno dei medesimi e quindi rileva agli effetti dell’applicazionedell’art. 375 c.p.c., n. 1), materia che è riservata appunto di norma proprio alla cognizione della sesta sezione ai sensi dell’art. 376, comma 1, primo periodo, nonchè art. 380 bis c.p.c., come novellato;
ciò premesso ed al riguardo, ad avviso di questo Collegio neppure può trovare diretta ed immediata applicazione il principio generale di sanatoria della nullità, perché l’osservanza delle specifiche tecniche sullo stesso confezionamento dei file informatici nativi dovrebbe poter attenere all’esistenza stessa dell’atto e, quanto alla procura speciale, all’ufficiosa indispensabile verifica dell’instaurazione di un valido e rituale rapporto processuale dinanzi a questa Corte, alla stregua della disciplina ormai applicabile;
pertanto, non dovrebbero poter giovare i precedenti di Cass. Sez. U. 18/04/2016, n. 7665 (siccome riferito ad un documento nativo analogico, notificato in via telematica con estensione “.doc” anziché “.pdf”), né di Cass. ord. 26/01/2016, n. 1403 (relativa ad un atto trasmesso mediante file con estensione “p7m” dedotto come illeggibile ma comunque decifrato o reperito al punto da consentire la piena difesa), ma, a ben guardare, neppure l’altro principio, di eguale portata generale, dell’insussistenza di un diritto all’astratta regolarità del processo (a chiarissime lettere ribadito, in materia, dalla stessa Cass. Sez. U. 7665/16, ovvero, più in generale, dalla più recente ancora Cass. Sez. U. 11141/17), visto che l’intrinseca esistenza dell’atto e della procura attiene ad elementi talmente coessenziali dell’uno e dell’altro ai fini di una valida instaurazione del rapporto processuale dinanzi al giudice di legittimità da suggerirne come indispensabile la verifica ufficiosa (sicché neppure può trovare applicazione il principio elaborato da Cass. 19/12/2016, n. 26102, quanto alla – mera – carenza della firma digitale ad un documento formato ab origine su supporto analogico);
va allora rilevato che il formato dell’atto del processo in forma di documento informatico è regolato, in via di sostanziale delegificazione, dall’art. 12 delProvvedimento 28/12/2015(successivo a numerosi altri analoghi) del Direttore Generale per i sistemi informativi automatizzati (DGSIA) del Ministero della Giustizia in forza dell’art. 11 del decreto del Ministro della giustizia del 21/02/2011, n. 44, recante il “Regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti daldecreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, ai sensi dell’articolo4, commi 1 e 2, deldecreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito nellalegge 22 febbraio 2010 n. 24″ e successive modificazioni”;
ai sensi del capoverso di tale disposizione, per quel che qui può rilevare, è stabilito poi che “La struttura del documento firmato è PAdES-BES (o PAdES Part 3) o CAdES-BES; il certificato di firma è inserito nella busta crittografica;… nel caso del formato CAdES il file generato si presenta con un’unica estensione p7m”, mentre le definizioni degli acronimi PAdES e CAdES si rinvengono alle lett. z) ed y) del precedente art. 2 del detto provvedimento DGSIA: risultando quindi indispensabile l’estensione “p7m”, a garanzia dell’autenticità del file e cioè dell’apposizione della firma digitale al file in cui il documento informatico originale è stato formato, solo per il secondo caso, in cui cioè il documento informatico originale è creato in formato diverso da quello “pdf”;
completano il quadro normativo di riferimento, applicabile ratione temporis alla fattispecie (caratterizzata dalla notifica diretta, da parte del difensore di Z.P., del controricorso al difensore del ricorrente in data 19/10/2016 a mezzo p.e.c.), l’art. 13, lett. a), e art. 19 bis, del già richiamato provvedimento del DGSIA: ai sensi dell’uno, la notifica insieme all’atto del processo in forma di documento informatico di un allegato è consentita se questo è in formato “.pdf” – ai sensi dell’art. 13, lett. a), del richiamato provvedimento DGSIA – ma, se il secondo è firmato digitalmente, dovrebbe quest’ultimo appunto recare l’estensione in virtù del già detto cpv. dell’art. 12 – “p7m”, a garanzia della sua autenticità; ai sensi dell’altro, in caso di notificazioni eseguite in via diretta dall’avvocato, “qualora il documento informatico, di cui ai commi precedenti, sia sottoscritto con firma digitale o firma elettronica qualificata, si applica quanto previsto all’art. 12, comma 2”;
in via descrittiva, invero, parrebbe dirsi che con l’imposizione dell’elaborazione del file in documento informatico con estensione “p7m” il normatore tecnico abbia inteso offrire la massima garanzia possibile, allo stato, di conformità del documento, non creato ab origine in formato informatico ma articolato anche su di una parte o componente istituzionalmente non informatica, quale la procura a firma analogica su supporto tradizionale, al suo originale composito, incorporando appunto i due documenti in modo inscindibile e, per quel che rileva ai fini processuali e soprattutto se non altro con riferimento alla presente fattispecie – della regolare costituzione nel giudizio di legittimità (per la quale è da sempre stata considerata quale presupposto indispensabile la ritualità della procura speciale), con assicurazione di genuinità ed autenticità di entrambi in quanto costituenti un unicum;
diversa – ed in questa sede irrilevante – valenza dovrebbe avere poi il potere di autenticazione riconosciuto in via generale dalla normativa primaria all’avvocato notificante, che dovrebbe riguardare appunto la conformità degli atti già ritualmente formati ai loro rispettivi originali, ma non parrebbe riferito anche all’intrinseca o strutturale regolarità almeno della procura speciale indispensabile per il ricorso o per il controricorso in Cassazione e, verosimilmente, per la firma in calce a questi ultimi due atti in quanto tali: riguardo ai quali le formalità previste dalle norme tecniche specifiche potrebbero porsi come indispensabili presupposti od elementi di esistenza stessa di un atto riferibile a colui che vi figura essere il suo autore;
pertanto, opina il Collegio che la questione di massima di particolare importanza riguarda, nell’ambito di una pure istituzionale discrezionalità in capo alla parte notificante – donde l’onere, per la controparte, di calibrare attentamente ogni eccezione o doglianza di nullità al riguardo – nella scelta tra l’alternativa (PAdES o CAdES) della modalità strutturale dell’atto del processo in forma di documento informatico e firmato da notificare direttamente dall’avvocato, la configurabilità o meno, al riguardo e se non altro quando l’atto da notificare comprende anche la procura speciale indispensabile per la ritualità del ricorso o del controricorso in sede di legittimità, di una prescrizione sulla forma dell’atto indispensabile al raggiungimento dello scopo (art. 156 c.p.c., comma 2) e posta pertanto a pena di nullità, nonché, in caso di risposta affermativa, sull’applicabilità – e relativi presupposti ed eventuali limiti – del principio di sanatoria dell’atto nullo in caso di raggiungimento dello scopo;
ricorrono pertanto, al riguardo e ad avviso del Collegio, le condizioni per rimettere gli atti al Primo Presidente, affinché valuti l’opportunità di assegnare la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374 c.p.c, comma 2, seconda ipotesi, sulle questioni suddette, riassunte al punto 1 delle ragioni della decisione.
P.Q.M.
La Corte rimette gli atti al Primo Presidente, affinchè valuti l’opportunità di assegnare la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite sulla questione di massima di particolare importanza indicata in motivazione.

La morte del coniuge in pendenza di giudizio comporta la cessazione della materia del contendere

Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 novembre 2017, n. 26489
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ORDINANZA
sul ricorso 19341/2016 proposto da:
O.S., O.A., O.C., S.M.T., in proprio e nella qualità di eredi del sig. O.A., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA DELLA GIULIANA, 37, presso lo studio dell’avvocato AGNESE DI CAPRIO, rappresentate e difese dall’avvocato ROSA MARRONCELLI;
– ricorrenti –
contro
C.C.G., O.N.A., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato CIRO CENTORE;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 466/2016 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 04/02/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 28/09/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO PIETRO LAMORGESE.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 4 febbraio 2016, ha accolto parzialmente il gravame di C.C.G. avverso la sentenza di primo grado che aveva rigettato le sue domande di attribuzione di un assegno divorzile, nonché di una quota del TFR e del risarcimento dei danni nei confronti dell’ex coniuge O.A., con il quale la C. aveva contratto matrimonio il (OMISSIS), sciolto con sentenza parziale del 3 marzo 2011; la Corte ha quindi attribuito alla C. un assegno divorzile di Euro 1.000,00 ed ha rigettato le altre domande.
L’ O. era deceduto nel corso del giudizio di appello, nel quale, aderendo alle sue difese, si erano costituiti S.M.T., quale coniuge superstite, e i suoi figli ed eredi O.A., O.C. e O.S.; si era costituito anche O.N.A., nato dall’unione della C. con l’ O., aderendo alle domande della C..
S.M.T., O.A., O.C. e O.S. hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi; C.C.G. e O.N.A. hanno resistito con controricorso. Le parti hanno presentato memorie.
Motivi della decisione
I ricorrenti hanno denunciato, con i primi tre motivi, violazione di norme di diritto e vizi motivazionali in ordine all’an e, nei restanti motivi, in ordine al quantum debeatur dell’assegno divorzile.
L’esame dei suddetti motivi è tuttavia precluso dal rilievo pregiudiziale del decesso di O. nel corso del giudizio di appello.
Trova infatti applicazione la condivisibile giurisprudenza secondo la quale la morte di uno dei coniugi, sopravvenuta in pendenza del giudizio di separazione personale o di divorzio, anche nella fase di legittimità, comporta la declaratoria di cessazione della materia del contendere, con riferimento al rapporto di coniugio ed a tutti i profili economici connessi; l’evento della morte ha l’effetto di travolgere ogni pronuncia in precedenza emessa e non ancora passata in giudicato (Cass. n. 18130 del 26 luglio 2013, n. 9689 del 27 aprile 2006; n. 27556 del 20 novembre 2008; cfr. anche Cass. n. 661 del 29 gennaio 1980; n. 1757 del 18 marzo 1982, n. 740 del 3 febbraio 1990, n. 2944 del 4 aprile 1997).
Pertanto, giudicando sul ricorso, la sentenza impugnata è cassata.
Le spese dell’intero giudizio devono essere compensate, in considerazione dell’esito dello stesso.
P.Q.M.
La Corte cassa la sentenza impugnata e compensa le spese dell’intero giudizio.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.

Per il risarcimento di cui all’art. 709 ter c.p.c. è competente il tribunale del luogo di residenza dell’obbligato

Cass. civ. Sez. Unite, 15 novembre 2017, n. 27091
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
SENTENZA
sul ricorso 1067/2016 proposto da:
P.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI GRACCHI 283, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE CALA’, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
L.A.M.;
– intimato –
avverso il decreto n. 1557/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositato l’8/07/2015;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/09/2017 dal Consigliere Dott. MARIA ACIERNO;
udito il Pubblico Ministero in persona dell’Avvocato Generale Dott. FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato Giuseppe Calà.
Svolgimento del processo
1. La ricorrente, cittadina italiana, ha adito il Tribunale di Milano esponendo che era stato pronunciato lo scioglimento del matrimonio contratto in Italia con il coniuge, cittadino italiano, dal Pretore di Lugano nel 2010 con pronuncia dichiarata esecutiva dalla Corte d’Appello di Milano il 20/6/2012.
Nella predetta pronuncia era stato regolato l’affidamento dei figli minori, il diritto di visita del padre e l’obbligo di concorrere al mantenimento di essi nonché a quello della moglie. Il coniuge si era reso inadempiente all’assolvimento degli obblighi patrimoniali e, di conseguenza, la ricorrente, è stata indotta a trasferirsi a (OMISSIS), da Lugano, essendo anche cessata la frequentazione del padre con i figli minori. La comunicazione del trasferimento era avvenuta via sms.
L’azione proposta ha ad oggetto l’autorizzazione a vivere con i figli in (OMISSIS), la condanna del padre al pagamento della retta scolastica fino alla maggiore età dei figli presso la scuola americana a Londra e delle altre spese straordinarie nonché al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti dai figli e dalla ricorrente a causa del suo reiterato inadempimento ed infine l’autorizzazione a vendere la nuda proprietà dell’appartamento di proprietà dei figli a (OMISSIS) stante il difetto di consenso del padre dei minori.
2. Il giudice di primo grado ha ritenuto il difetto di giurisdizione del giudice italiano su tutte le domande proposte in favore di quello della (OMISSIS).
3. Sul reclamo, la Corte d’Appello ha confermato la pronuncia del giudice di primo grado sulla base delle seguenti affermazioni:
il Pretore di Lugano aveva stabilito che l’autorità parentale fosse mantenuta congiuntamente da entrambi i genitori. La nozione coincide con la responsabilità genitoriale ed esclude, anche ai sensi dell’art. 301 del codice civile svizzero che il genitore collocatario possa unilateralmente disporre il trasferimento dei minori presso un altro Stato, come del resto confermato dalla stessa ricorrente con la richiesta di essere autorizzata a legittimare tale scelta. Tale domanda non può che essere inclusa tra quelle inerenti la responsabilità genitoriale da radicarsi secondo l’art. 8 del reg. CE 2201 del 2003 presso il luogo di residenza abituale del minore, nella specie univocamente fissato a (OMISSIS).
Non sussistono i presupposti per l’ultrattività della competenza nella precedente residenza dei minori, dal momento che la residenza della famiglia era stata fissata stabilmente in (OMISSIS) e la proroga della competenza è prevista solo per i tre mesi successivi al lecito trasferimento del minore in altro stato.
Non sussistono neanche i presupposti per la proroga della competenza di cui all’art. 12 del regolamento citato, perché non è sufficiente che sussista un legame tra il minore e lo stato membro ma è altresì necessario che la competenza dell’autorità dello Stato membro adito sia stata accettata espressamente o in qualsiasi altro modo univoco da tutte le parti del procedimento.
La contumacia del padre non costituisce accettazione tacita della competenza giurisdizionale.
Le domande patrimoniali sono accessorie ed eziologicamente collegate a quella relativa alla responsabilità genitoriale.
L’autorizzazione a formulare istanza di vendita al giudice tutelare è anch’essa accessoria, come può evincersi dall’art. 1, par. 1, lett. e) del reg. CE 2201 del 2003 secondo il quale anche le misure di protezione del minore legate all’alienazione dei beni di sua proprietà rientrano nell’ambito di applicazione del regolamento. Peraltro la domanda è stata ritenuta inammissibile perchè avente ad oggetto istanza ad essere autorizzata a presentare istanza al giudice tutelare ovvero un’autorizzazione giudiziaria normativamente non prevista.
4. Avverso tale pronuncia ha proposto per cassazione P.S., articolato in cinque motivi, illustrati da memoria. L.A. non ha resistito.
5. Il Collegio ha richiesto alla precedente udienza documentazione attestante il perfezionamento della notifica del ricorso, concedendo termine per l’incombente.
La documentazione è stata depositata nel termine. Da essa risulta che il ricorso è stato notificato ex art. 143 c.p.c., previo esperimento delle ricerche necessarie (come risulta dalla relata), una volta tentata la notificazione presso l’ultima residenza anagrafica, debitamente documentata, senza esito.
Motivi della decisione

6. Nel primo motivo viene dedotta la falsa applicazione dell’art. 301 del codice svizzero per avere la Corte d’Appello di Milano erroneamente ritenuto che alla luce del diritto vigente e della pronuncia del Pretore del Distretto di Lugano nella quale veniva disposto l’affidamento dei minori alla madre e l’autorità parentale congiuntale, la ricorrente non avesse il diritto di modificare il luogo di dimora dei minori senza la necessità di richiedere un’autorizzazione giudiziale.
Precisa la parte ricorrente che non può trovare applicazione l’art. 301 del codice civile svizzero attualmente vigente e la regolamentazione del potere decisionale sulla residenza del minore ivi contenuta perché entrato in vigore dopo la pronuncia relativa allo scioglimento del matrimonio emessa dal giudice svizzero. Nella formulazione ante vigente il genitore che aveva la custodia anche solo di fatto del minore poteva modificarne la dimora e anche trasferirla all’estero senza la necessità del consenso dell’altro genitore. Alla luce di questa regola la domanda di autorizzazione a vivere a (OMISSIS) con i figli deve essere interpretata come una domanda di riconoscimento per l’ordinamento italiano di una situazione di fatto corrispondente all’esercizio di un diritto. Entro questi limiti la domanda è priva della vis attractiva conferitale nella sentenza impugnata.
6.1. Rileva il Collegio che le domande proposte nei gradi di merito dalla ricorrente sono state esaminate esclusivamente ai fini della preliminare indagine sulla giurisdizione del giudice adito. La sentenza impugnata esamina, ai soli fini dell’impugnazione della decisione sulla giurisdizione del giudice di primo grado, le domande proposte, fornendone una qualificazione giuridica coerente con la loro formulazione letterale e logico sistematica.
Il regime giuridico relativo alla custodia e le decisioni relative agli spostamenti di dimora o residenza dei minori riguardano esclusivamente il merito della controversia e sono del tutto ininfluenti rispetto all’accertamento concernente la dichiarazione od il difetto di giurisdizione del giudice adito. Le Sezioni Unite hanno anche di recente ribadito che le norme di diritto internazionale privato relative alla determinazione della giurisdizione e quelle riguardanti la legge applicabile non possono interferire, venendo in considerazione le seconde solo quando la giurisdizione del giudice adito sia stata accettata nelle forme di legge o sia stata preventivamente dichiarata all’esito di un accertamento giudiziale. (Cass. S.U. n. 1310 del 2017). Nel caso di specie, pertanto, il parametro normativo applicabile è esclusivamente quello derivante dalle disposizioni espressamente regolative della giurisdizione contenute nei regolamenti CE n. 2201 del 2003, 44 del 2001 e n. 4 del 2009, inerenti le domande dedotte nel presente giudizio che saranno analiticamente illustrate nell’esame degli altri motivi.
Sotto il profilo esaminato, in conclusione, il motivo è inammissibile anche per la parte relativa alla prospettazione della domanda di autorizzazione a fissare la residenza dei minori a (OMISSIS) come mero esercizio di un diritto materno. A parte la inequivoca formulazione letterale della domanda, deve rilevarsi che l’accertamento della titolarità o del legittimo esercizio di un diritto integra il petitum sostanziale della domanda e definisce il perimetro dell’accertamento giudiziale.
7. Nel secondo motivo viene dedotta la falsa applicazione dell’art. 8 del Reg. CE 2201 del 2003 e dell’art. 3, lett. b), del regolamento CE n. 4 del 2009 per avere la Corte d’appello erroneamente ritenuto “pregiudiziale” la domanda relativa alla responsabilità genitoriale invece che quelle, nettamente prevalenti, aventi ad oggetto gli obblighi di mantenimento verso i minori, non considerando che il trasferimento in Inghilterra era lecito e ormai del tutto consolidato così da non richiedere un provvedimento di modifica del diritto di trasferire i figli minori dalla svizzera all’Inghilterra.
7.1 Nel terzo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 34 c.p.c., in relazione all’accertamento del trasferimento dei minori a (OMISSIS) per avere la Corte d’Appello ritenuto che le domande aventi ad oggetto il mantenimento dei minori fossero di natura accessoria, senza considerare che la Corte di Giustizia nella pronuncia n. 479 del 2015 (causa 184/14 su rinvio della Corte di Cassazione italiana) ha stabilito che l’accessorietà non può essere lasciata alla valutazione da parte dei giudici di ciascuno Stato membro in funzione del diritto nazionale. Nella pronuncia in oggetto è stato affermato che una domanda relativa ad un’obbligazione alimentare nei confronti di un minore può essere accessoria soltanto ad una domanda relativa alla responsabilità genitoriale. Nella specie le domande di natura economica non sono eziologicamente collegate a quella avente ad oggetto l’autorizzazione a vivere in Gran Bretagna nel senso che le prime non traggono titolo da quest’ultima con la conseguente mancanza del vincolo di accessorietà.
Il titolo deriva dalla sentenza dell’organo giudiziario di Lugano che ha omologato gli accordi delle parti in sede di divorzio. Davanti al giudice italiano è stato chiesto di accertare l’inadempimento del convenuto e la sua condanna al risarcimento dei danni ex art. 709 ter c.p.c.. Su queste domande la competenza giurisdizionale si radica nel luogo di residenza dell’obbligato. Per la domanda relativa alla modifica delle condizioni economiche relative al mantenimento dei minori (riguardanti il mutamento del destinatario dei pagamenti inerenti le rette scolastiche) il foro di maggiore prossimità è quello della residenza dell’obbligato anche secondo i principi statuiti dal Regolamento CE n. 4 del 2009, ed in particolare in relazione al “forum conveniens” potendo il provvedimento munito di efficacia esecutiva essere prontamente eseguito nel foro del giudice adito dalla parte ricorrente.
7.3 Nel quarto motivo viene dedotta l’omessa applicazione dell’art. 3 lett. a) e art. 56, lett. b) del Reg. CE n. 4 del 2009 in ordine alle domande relative all’esecuzione degli obblighi alimentari ed alla modifica del destinatario delle rette scolastiche dei minori, dal momento che l’art. 3 del predetto regolamento radica la competenza giurisdizionale nel luogo di residenza del convenuto. Il vincolo di accessorietà di queste domande alla azione relativa alla responsabilità genitoriale doveva essere escluso in virtù del principio stabilito nel citato art. 3 secondo il quale il creditore può scegliere il foro più adatto a garantire ai minori una pronuncia efficace e di rapida esecuzione. La giurisdizione in Inghilterra determina un incremento di costi e disagi ingiustificati.
Le domande di natura alimentare non sono eziologicamente connesse alla domanda relativa all’autorizzazione a risiedere in Inghilterra, avendo ad oggetto l’accertamento dell’inadempimento pregresso e le modifiche in ordine all’ente destinatario delle rette scolastiche (non l’istituto della scuola americana a Lugano ma quello di Londra). Tale interpretazione è rafforzata dal trentunesimo considerando del regolamento secondo il quale il recupero transfrontaliero dei crediti alimentari può essere effettuato mediante presentazione di domande di riconoscimento, di dichiarazione di esecutività e di esecuzione di decisioni esistenti e di modifica di tali decisioni o di emanazione di una decisione nonché dall’art. 56 del regolamento n. 4 del 2009 che permette al creditore che vuole recuperare il proprio credito alimentare di presentare una domanda di modifica di una decisione emessa nello stato membro richiesto.
Peraltro la competenza giurisdizionale del giudice italiano si desume anche dalle norme interne (L. n. 898 del 1970, art. 9, e ss. modifiche).
Si rileva infine che il Regno Unito non ha notificato l’adesione al Regolamento come richiesto nel 47 Considerando del Reg. CE n. 4 del 2009.
7.4. Il secondo, terzo e quarto motivo possono essere trattati congiuntamente perché logicamente connessi.
La ricorrente ha richiesto:
1) l’autorizzazione a far risiedere i figli a (OMISSIS) con la madre affidataria;
2) l’accertamento dell’obbligo di pagamento delle rette scolastiche già gravante sul padre anche dopo il trasferimento a (OMISSIS) (richiesta di pagamento diretto alla scuola americana di Londra fino al 18 esimo anno di età);
3) il pagamento di tutte le spese scolastiche;
4) la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale conseguente all’inadempimento pregresso in ordine agli obblighi alimentari nei confronti dei figli e nei suoi;
5) l’autorizzazione a proporre istanza al giudice tutelare. per la vendita dell’immobile.
Le censure prospettate possono essere sintetizzate come segue:
a) L’errata qualificazione della richiesta di autorizzazione a far risiedere i minori a (OMISSIS) come domanda inerente la responsabilità genitoriale e, conseguentemente, come domanda principale rispetto a quelle riconducibili agli obblighi di natura alimentare dell’intimato che nella specie hanno carattere prevalente;
b) la vis attractiva della domanda relativa all’inadempimento pregresso del L. ai suoi obblighi alimentari rispetto a tutte le altre domande;
c) L’applicabilità, per le domande di natura alimentare, del forum conveniens, ovvero il foro più adatto a garantire ai minori una pronuncia efficace e di rapida esecuzione.
d) L’eseguibilità delle domande relative agli obblighi alimentari soltanto in Italia come criterio trainante la giurisdizione;
e) L’applicabilità del foro relativo al luogo ove è situato l’immobile di proprietà dei minori in ordine alla richiesta autorizzazione alla vendita.
7.5. La qualificazione giuridica della domanda sub 1) fornita dalla Corte d’Appello, come inerente la responsabilità genitoriale, è stata condivisa dal Collegio, come illustrato nella motivazione sull’inammissibilità della censura proposta nel primo motivo. Al riguardo, si deve precisare, come sollecitato dalla requisitoria del Procuratore Generale, che le controversie relative alla responsabilità genitoriale non possono limitarsi a quelle relative all’individuazione del genitore affidatario (in caso di affidamento esclusivo) o collocatario (in caso di affidamento condiviso o congiunto, secondo le diverse denominazioni e i diversi regimi giuridici dei paesi facenti parte dell’Unione Europea), dovendosi ricomprendere in esse anche tutte le richieste riguardanti l’esercizio della responsabilità genitoriale, ed in particolare quelle relative al mutamento di residenza in quanto direttamente incidenti sull’esercizio di tale potere dovere da parte del genitore non affidatario o collocatario.
7.6. Rimane, tuttavia, da accertare se il criterio di determinazione della giurisdizione applicabile alla domanda relativa alla responsabilità genitoriale, incontestatamente coincidente con la residenza abituale dei minori, ubicata a Londra, attragga allo stesso foro anche le altre domande (art. 8 comma 1 regolamento CE n. 2201 del 2003) come ritenuto nella sentenza impugnata.
Per procedere all’indagine sulla giurisdizione così come richiesto dalla parte ricorrente è necessaria una breve illustrazione del quadro normativo applicabile, di esclusiva derivazione eurounitaria.
La norma generale sulla competenza giurisdizionale in ordine alle controversie appartenenti al genus “responsabilità genitoriale” è l’art. 8 del regolamento CE n. 2201 del 2003.
La norma stabilisce:
“Le autorità giurisdizionali di uno Stato membro sono competenti per le domande relative alla responsabilità genitoriale su un minore, se il minore risiede abitualmente in quello Stato membro alla data in cui aditi”.
La norma generale che regola, agli esclusivi fini dell’individuazione dello Stato membro munito della competenza giurisdizionale, il rapporto tra domanda inerente la responsabilità genitoriale e quella o quelle di natura alimentare è l’art.3 del regolamento CE n. 4 del 2009, applicabile alla fattispecie.
L’art. 3 stabilisce:
Sono competenti a pronunciarsi in materia di obbligazioni alimentari negli Stati membri:
a) L’autorità giurisdizionale del luogo in cui il convenuto risiede abitualmente; o b) L’autorità giurisdizionale del luogo in cui il creditore risiede abitualmente o c) l’autorità giurisdizionale competente secondo la legge del foro a conoscere di un’azione relativa allo stato delle persone qualora la domanda relativa a un’obbligazione alimentare sia accessoria a detta azione, salvo che tale competenza sia fondata unicamente sulla cittadinanza di una delle parti; o d) l’autorità giurisdizionale competente secondo la legge del foro a conoscere di un’azione relativa alla responsabilità genitoriale qualora la domanda relativa a un’obbligazione alimentare sia accessoria a detta azione, salvo che tale competenza sia fondata unicamente sulla cittadinanza di una delle parti.
La lettura della norma evidenzia come l’indicazione del foro del convenuto, per quel che interessa ai fini del presente giudizio, subisca due deroghe di estrema rilevanza specificate nelle lettere c) e d), fondate sull’applicazione del criterio dell’accessorietà.
Tale parametro si deve fondare esclusivamente sulla nozione ricavabile dal diritto dell’Unione Europea. La sentenza della Corte di Giustizia n. 479 del 2015, ha espressamente stabilito che la portata della nozione di domanda accessoria, impiegata all’art. 3, lett. c) e d), del regolamento CE n. 4 del 2009 non può essere lasciata alla valutazione dei giudici di ciascuno Stato membro in funzione del loro diritto nazionale, essendo necessaria un’applicazione autonoma ed uniforme della predetta nozione, tratta dal complessivo sistema giuridico regolamentare del diritto dell’Unione Europea ovvero “dal contesto della disposizione e dalla finalità perseguita”, anche in funzione del principio di uguaglianza, strettamente connesso al principio dell’applicazione uniforme. (Corte di Giustizia Kasler e Kaslerne Rabai C-26/13 sent. n. 282 del 2014).
Al riguardo deve osservarsi che la Corte di giustizia, investita dalle Sezioni Unite di questa Corte, ha stabilito con la sentenza n. 479 del 2015 che qualora un giudice di uno Stato membro sia investito della controversia sul vincolo coniugale ed un altro sia chiamato a pronunciarsi su un’azione relativa alla responsabilità genitoriale, la domanda di natura alimentare relativa ai figli minori è accessoria a quella riguardante la responsabilità genitoriale, così dovendosi interpretare la nozione eurounitaria di accessorietà derivante dalla lettura coordinata delle lettere c) e d) dell’art. 3 del regolamento CE n. 4 del 2009.
In questa pronuncia la vis attractiva dell’azione relativa alla responsabilità genitoriale risulta rafforzata ed ampliata con riferimento alle ipotesi alternative descritte nelle citate lettere c) e d). In particolare, la regola stabilita nella lettera c) secondo la quale il giudice dello Stato membro investito del vincolo coniugale ha competenza giurisdizionale anche in ordine alla domanda alimentare non trova applicazione con riferimento ai figli minori se vi sia un’autonoma azione riguardante la responsabilità genitoriale di cui sia investito un giudice di un altro stato membro.
L’opzione interpretativa della Corte di Giustizia restringe l’ambito applicativo della lett. c), stabilendo la prevalenza (con riferimento ai criteri di definizione della giurisdizione) della domanda relativa alla responsabilità genitoriale. La giustificazione della scelta ermeneutica risiede, come afferma espressamente la Corte di giustizia, “nella necessità di tenere conto, nell’interpretazione delle regole di competenza previste dall’art. 3, lett. c) e d) del regolamento n. 4 del 2009, dell’interesse superiore del minore. Ciò vale a maggior ragione ove si consideri che l’attuazione del regolamento n. 4 del 2009 deve avvenire conformemente all’art. 24, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, secondo cui in tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore deve essere considerato preminente”.
Secondo la Corte di Giustizia, in conclusione, l’interesse preminente del minore si realizza nella tendenziale concentrazione di tutte le azioni giudiziarie che lo riguardano, quanto meno all’interno del conflitto familiare, presso il giudice dello stato membro cui deve essere attribuita, sulla base del criterio della residenza abituale, la competenza giurisdizionale in tema di responsabilità genitoriale (ove, come nella specie, una domanda rientrante in tale ambito concettuale sia stata proposta). La vicinanza o prossimità al luogo di residenza abituale del minore consentono una conoscenza “degli elementi essenziali per la valutazione della sua domanda”.
7.8 La parte ricorrente, pur condividendo, in astratto, l’affermazione relativa alla derivazione eurounitaria della nozione di accessorietà, perviene a conclusioni opposte a quelle della Corte d’Appello, valorizzando norme e principi tratti dai regolamenti CE inerenti alla fattispecie dedotta nel presente giudizio ritenute idonee ad impedirne la rigida applicazione.
In particolare viene affermata la prevalenza del forum conveniens, ovvero del luogo di più facile esecuzione del credito alimentare ed, infine, della vis attractiva della domanda risarcitoria.
Quanto al primo profilo critico deve osservarsi che l’art. 3 del regolamento CE n. 4 del 2009 indica alle lett. a) e b) due fori alternativi, ovvero il foro del convenuto e quello della residenza abituale del creditore, rimettendo al proponente la domanda di natura alimentare la scelta tra i due fori. Questa facoltà di scelta, tuttavia, non ha carattere assoluto, non potendo operare nelle ipotesi regolate dalle lett. c) e d) che, al contrario, contengono regole inderogabili di determinazione della giurisdizione, fondate sulla vis attractiva dell’azione sul vincolo e di quella sulla responsabilità genitoriale rispetto alle domande aventi ad oggetto crediti alimentari dei figli minori.
Solo escludendo il vincolo di accessorietà tra la domanda relativa all’esercizio della responsabilità genitoriale e quella riguardante gli obblighi alimentari paterni nei confronti dei figli minori, possono tornare ad essere applicabili i fori alternativi ma, come si è già ampiamente illustrato mediante l’esame della giurisprudenza della Corte di Giustizia, il giudizio sulla natura principale ed accessoria delle due domande, non costituisce una valutazione di merito, quantitativa o qualitativa (la preminenza delle domande di natura alimentare) come viene sollecitato dalla parte ricorrente, ma deve essere esclusivamente desunto dal parametro regolamentare così come interpretato e giustificato (in funzione del preminente interesse del minore) dalla Corte di Giustizia.
7.9 Del pari inapplicabile è l’art. 56 del medesimo regolamento. La norma non contiene alcuna regola inerente la giurisdizione ma indica le diverse modalità di proposizione di una domanda di recupero crediti alimentari allo scopo di facilitare l’attuazione del diritto. Tra queste modalità è prevista anche la modifica di una precedente pronuncia assunta in uno stato membro diverso da quello richiesto, ovvero un’ipotesi coincidente con quella formante oggetto del presente giudizio, ma tale inclusione non determina, come ritenuto dalla ricorrente, il superamento del vincolo di accessorietà tra la domanda principale (riguardante la responsabilità genitoriale) e le accessorie alimentari. Nè può indurre a superare l’applicazione della regola inderogabile di determinazione della giurisdizione applicabile alla fattispecie, l’art. 56, comma 4. Tale disposizione, sempre al fine di predisporre misure semplificative del recupero dei crediti alimentari stabilisce che le domande (alimentari) siano trattate conformemente alla legge dello stato membro e siano soggette alle norme sulla competenza ad esso applicabili, “salva diversa disposizione contraria del presente regolamento”. Anche questa norma, tuttavia, come tutto l’art. 56 non contiene alcuna indicazione relativa alla giurisdizione, riferendosi, alle regole interne della competenza di ciascuno Stato membro. Impedisce l’opzione interpretativa prospettata sia la collocazione sistematica della norma nel Capo VII, riguardante la cooperazione delle autorità centrali sia l’espressa clausola di salvaguardia delle disposizioni inderogabili e contrarie del regolamento quali quelle dettate in relazione alla determinazione della giurisdizione (art. 3, lettere c) e d)) ampiamente illustrate.
Infine, deve ritenersi irrilevante il richiamo al trentunesimo considerando del regolamento CE n. 4 del 2009 nella parte in cui avverte che le autorità centrali dovrebbero favorire l’esercizio del diritto agli alimenti facilitando le domande di riconoscimento, di dichiarazione di esecutività e di esecuzione di decisioni preesistenti. Il considerando trova applicazione nell’art. 56 sopra illustrato e, conseguentemente è ininfluente rispetto alla determinazione della giurisdizione. In conclusione, le domande relative al pagamento delle rette scolastiche e delle spese straordinarie, diverse dall’inadempimento degli obblighi di mantenimento dei minori già maturati, sono da assoggettare alla giurisdizione del giudice del Regno Unito.
8. Al riguardo, deve precisarsi che tale Stato ha presentato domanda di accettazione (cd. opt in) del Regolamento n. 4 del 2009 così come prescritto nel quarantesettesimo considerando, e la Commissione Europea si è espressa in senso favorevole con decisione 8/6/2009 n. 451.
9. Tra le domande di natura economica è contenuta anche quella proposta ex art. 709 ter c.p.c., ed avente ad oggetto l’accertamento dell’inadempimento degli obblighi di mantenimento dei minori e della ricorrente posti a carico del padre nella pronuncia sul vincolo e la responsabilità genitoriale ed il risarcimento dei danni non patrimoniali di cui all’art. 2059 c.c. (pag. 3 del ricorso, riproduzione delle conclusioni del giudizio di appello).
9.1 In ordine a questa specifica domanda non opera la relazione di accessorietà accertata per le altre domande di natura alimentare rivolte a regolare gli obblighi futuri dell’intimato e non l’inadempimento passato. E’ azionato il diritto (la causa petendi) al risarcimento del danno da fatto illecito consistente nella violazione degli obblighi di mantenimento giudizialmente posti a carico dell’intimato. La natura alimentare dell’obbligazione non adempiuta, peraltro non riguardante soltanto i minori, non incide sulla qualificazione giuridica della domanda la quale trova fondamento sull’accertamento di un fatto illecito. Non trova diretta applicazione il regolamento n. 4 del 2009 che, come espressamente specificato nella norma che ne definisce l’ambito di applicazione, riguarda le obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, parentela, matrimonio o di affinità. L’obbligazione che sorge da illecito è, invece, contenuta nel regolamento n. 44 del 2001 ratione temporis applicabile in quanto il nuovo regolamento UE n. 1215 del 2012 opera a partire dal 10 gennaio 2015 (art. 66). Alla luce del diritto Euro unitario, applicabile alla domanda di risarcimento del danno dedotta in giudizio, deve ritenersi esattamente radicata la giurisdizione presso il giudice italiano. Trova, infatti, applicazione l’art. 1 del regolamento n. 44 del 2001 che individua la giurisdizione in quella dello Stato membro ove il convenuto sia domiciliato. Le competenze speciali contenute nell’art. 5, che prevedono per l’illecito un foro alternativo non sono inderogabili, costituendo un’opzione rimessa alla parte attrice. Nel caso di specie il convenuto, ancorché irreperibile, risulta aver avuto l’ultima residenza conosciuta a (OMISSIS) e dalle ricerche effettuate in sede di notificazione del presente ricorso, non ne risulta un’altra neanche di fatto in luogo o stato diverso.
10. Nel quinto motivo viene dedotta l’omessa applicazione del combinato disposto del Reg. CE n. 44 del 2001 (artt. 2 e 3, art. 5, comma 2) e al considerando 9 del Reg. 2201 del 2003, in ordine alle misure relative ai beni immobili dei minori. La richiesta di autorizzazione all’alienazione non attiene alla protezione dei minori e pertanto non trova applicazione il Reg. 2201 del 2003. Nella specie trova applicazione il Reg. CE n. 44 del 2001 dal momento che il Regno Unito non partecipa all’adozione del Reg. n. 4 del 2009 nè è soggetto alla sua applicazione in virtù del rinvio operato dal Considerando n. 9 del regolamento n. 2201 del 2003 (cfr Considerando n. 47 del Reg. CE 4/2009).
10.1 La censura non merita accoglimento. L’ultimo rilievo è stato già disatteso (infra par. 8).
10.2 L’art. 1, comma 2, lettera e) del regolamento n. 2201 del 2003 include tra le materie che rientrano nella nozione di responsabilità genitoriale le misure di protezione legate all’amministrazione, alla conservazione ed all’alienazione di beni del minore. Il nono considerando precisa che non tutte le misure relative ai beni dei minori rientrano nell’ambito di applicazione del regolamento e che devono essere escluse quelle non attinenti alla protezione del minore. Segue, tuttavia, nel considerando un’elencazione delle misure rivolte specificamente alla tutela del preminente interesse del minore che contempla espressamente quelle relative all’amministrazione, conservazione e alienazione dei beni del minore.
Non può pertanto condividersi l’assunto della parte ricorrente che ritiene di poter desumere proprio dal considerando l’esclusione dell’autorizzazione all’alienazione dei beni del minore dall’ambito di applicazione del regolamento. L’alienazione dei beni del minore può essere autorizzata, solo nel suo interesse, essendo sottoposta a controllo pubblico (tendenzialmente giudiziale) l’esercizio della responsabilità genitoriale e del potere di amministrazione e rappresentanza del minore proprio in funzione di questa esclusiva finalità. Anche per questa domanda, in quanto attinente all’esercizio della responsabilità genitoriale, la giurisdizione appartiene al giudice della residenza abituale del minore, non essendovi alcun collegamento, previsto dalla normativa Europea applicabile, con l’ubicazione dell’immobile.
11. Per quanto riguarda, infine, i dubbi e le criticità ermeneutiche sollevate in via subordinata nel ricorso, al fine di rimetterne l’interpretazione alla Corte di Giustizia, entrambe le questioni prospettate devono essere disattese.
11.1. In ordine alla prima, l’art. 12, comma 3, lett. b), del regolamento CE n. 2201 del 2003 richiede l’accettazione espressa o un’adesione manifestata in modo univoco della giurisdizione del giudice adito. Nella contumacia non può ravvisarsi alcuna delle due condizioni previste dalla norma, trattandosi di una condotta processualmente rilevante ai soli fini della valutazione dell’instaurazione del rapporto processuale ma non espressiva di alcun impegno di volontà o di attestazione di scienza. Nel caso di specie peraltro non è verificabile neanche la certa conoscenza del procedimento da parte del convenuto né nei gradi di merito, perché mancano allegazioni specifiche al riguardo, né in cassazione ove tale condizione può essere esclusa proprio dalle modalità di esecuzione della notificazione (ex art. 143 c.p.c.).
11.2 In ordine alla seconda, nella quale si chiede se il considerando n. 9 del regolamento CE n. 2201 del 2003 possa portare a ritenere applicabile tale disciplina normativa anche all’ipotesi in cui non vi sia conflitto tra i genitori per la contumacia del convenuto, deve rilevarsi che la mancata costituzione di una parte del giudizio non elimina la natura conflittuale di una controversia e che l’attribuzione congiunta della responsabilità genitoriale ad entrambi i genitori pone in rilievo la questione della necessità o di un’istanza congiunta o dell’assenso dell’altro genitore. In conclusione deve essere confermata la sentenza impugnata e dichiarata la giurisdizione del giudice del Regno Unito per tutte le domande proposte ad eccezione di quella avente ad oggetto l’accertamento dell’inadempimento pregresso agli obblighi di mantenimento dei figli minori e della ricorrente da parte del padre così come giudizialmente stabiliti nella sentenza del 26/10/2010 ed il conseguente risarcimento del danno.
L’accoglimento delle censure sia pure limitatamente, determina la cassazione della sentenza impugna, e trattandosi di decisione sulla giurisdizione il rinvio al Tribunale di Milano, in diversa composizione anche per le spese processuali del presente procedimento.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione.
Dichiara la giurisdizione del giudice italiano in ordine alla domanda di accertamento dell’inadempimento del sig. L. all’obbligo di pagare il contributo dovuto per il mantenimento dei figli minori e della moglie così come stabilito nella sentenza emessa a Lugano il 26/10/2010 e di condanna al risarcimento del danno conseguente.
Dichiara il difetto di giurisdizione del giudice italiano in ordine a tutte le altre domande.
Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia al Tribunale di Milano anche per le spese del presente giudizio.

Il mancato pagamento dei compensi esonera l’avvocato dal trascrivere il verbale di separazione

Cass. civ. Sez. III, 15 novembre 2017, n. 26973
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ORDINANZA
sul ricorso 26025-2015 proposto da:
M.G.P., elettivamente domiciliato VIA T. D’AQUINO 83, presso lo studio dell’avvocato TOMMASO LONGO, rappresentato e difeso dall’avvocato GIAN PAOLO MANNO difensore di sè medesimo;
– ricorrente –
contro
C.P.;
– intimata –
Nonché da:
C.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ROMEO ROMEI 27, presso lo studio dell’avvocato BEATRICE AURELI, rappresentata e difesa dall’avvocato LUCA MORELLI giusta procura speciale in calce al controricorso e ricorso incidentale;
– ricorrente incidentale –
contro
M.G.P.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 710/2015 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 27/05/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/10/2017 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI.
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Genova con sentenza 5.11.2012 riconosceva la concorrente responsabilità dell’avv. M.G.P. e della cliente C.P., rispettivamente nella misura del 40% e del 60%, nella produzione del danno patrimoniale da quest’ultima subito per la mancata trascrizione da parte del legale, cui era seguita l’ingiustificata inerzia della C., del verbale omologato in data 13.2.2004 di separazione consensuale dei coniugi – con il quale era stata disposta la cessione a titolo gratuito, a favore della moglie, della quota del 50% della proprietà dell’immobile adibito a casa familiare -, essendo stata iscritta sull’immobile, nel dicembre 2004, ipoteca da parte di GEST LINE per l’importo di Euro 172.767,80 oltre accessori. Il Tribunale condannava pertanto il M. al risarcimento del danno che quantificava, in misura proporzionale alla responsabilità accertata, in Euro 22.211,80 oltre accessori, con riferimento al valore commerciale della quota di proprietà trasferita.
La Corte d’appello di Genova, con sentenza 27.5.2015 n. 710, rigettava l’appello principale del M. e l’appello incidentale della C., rilevando che dalla istruttoria risultava comprovato il conferimento al legale dell’incarico di trascrizione del verbale di separazione (avendo suggerito lo stesso legale di simulare la separazione personale dei coniugi, con vendita della quota proprietaria, onde sottrarre l’immobile all’azione esecutiva dei creditori del marito), la omessa anticipazione da parte della C. delle spese per eseguire la trascrizione e la conoscenza di quest’ultima – avuto riguardo alla lettera trasmessale in data 13.9.2004 – della intenzione manifestata dal legale di non procedere ad ulteriore esecuzione dell’incarico in difetto del saldo dei compensi maturati. Riteneva il Giudice di appello che il legittimo esercizio della eccezione ex art. 1460 c.c. da parte del legale non consentiva comunque a questi di pregiudicare gli interessi dei clienti e che il danno patrimoniale non poteva identificarsi nell’importo del credito ipotecario, dovendo invece essere liquidato tenendo in conto sia il rischio attuale e serio di un’azione revocatoria dell’atto di trasferimento della quota proprietaria – non risultando comprovato il titolo oneroso della cessione -, sia del concorso causale attribuito alla C. che non si era attivata tempestivamente per provvedere autonomamente alla trascrizione del verbale di separazione.
La sentenza di appello, notificata in data 21.7.2015, è stata impugnata con ricorso principale dal M. con cinque motivi, illustrati da memoria.
Resiste la C. con controricorso e ricorso incidentale, affidato a due motivi.
Motivi della decisione
1-p. Esame dei motivi del ricorso principale, proposto dall’avv. M.G.P..
Con il primo ed il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 per avere omesso i Giudici di appello di rilevare: a) che la condizione n. 3 inserita nel ricorso per separazione – nella quale si faceva carico alla C. dell’onere di trascrizione del verbale – doveva ritenersi operante anche se non riportata nel verbale di separazione omologato, né poteva essere ritenuta – come affermato dal primo Giudice – mera clausola di stile, sicché doveva ritenersi comprovato il mancato conferimento al legale anche dell’incarico della trascrizione del verbale di separazione; b) che il difensore non è onerato dal compiere oltre agli atti del mandato difensivo anche ulteriori attività materiali, e nella specie il legale era stato incaricato di assistere i coniugi soltanto ai fini della separazione personale.
Entrambi i motivi sono inammissibili in quanto non rispondono ai requisiti prescritti per la deduzione del vizio di legittimità contemplato dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
La nuova formulazione del testo normativo, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134 (recante “Misure urgenti per la crescita del Paese”), che ha sostituito il n. 5 del comma 1, dell’art. 360 c.p.c. (con riferimento alle impugnazioni proposte avverso le sentenze pubblicate successivamente alla data dell’11 settembre 2012), ha, infatti, limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado, per vizio di motivazione, alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, e dunque l’ammissibilità del motivo risulta condizionata: 1- alla individuazione di un “fatto storico” – ossia un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, ritualmente accertato mediante verifica probatoria – che abbia costituito oggetto di discussione in contraddittorio tra le parti; 2- alla incidenza di tale fatto su uno o più degli elementi costitutivi della fattispecie normativa disciplinatrice del diritto controverso, rivestendo quindi carattere di “decisività” ai fini della decisione di merito; 3- all’omesso esame” di tale fatto da parte del Giudice di merito, inteso come mancata rilevazione ed apprezzamento del dato probatorio tale da tradursi in una carenza argomentativa inficiante la relazione di dipendenza logica tra le premesse in fatto e la soluzione in diritto adottata dal Giudice, che deve essere evidenziata dallo stesso testo motivazionale, rendendo per conseguenza l’argomentazione priva del pur minimo significato giustificativo della decisione e dunque affetta da invalidità (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014; id. Sez. U, Sentenza n. 19881 del 22/09/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016).
Orbene i fatti indicati dal ricorrente altro non sono che quelle stesse prove documentali sulle quali – e non soltanto su esse, essendo state valutate dalla Corte territoriale anche le prove orali – il Giudice di appello ha fondato il proprio convincimento sulla esistenza dell’incarico professionale esteso anche alla trascrizione dell’atto dispositivo della proprietà immobiliare e rispetto alle quali, pertanto, non sussiste evidentemente alcuna omissione da parte del giudicante (del tutto irrilevante è il richiamo, contenuto nel ricorso, al precedente Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 1605 del 03/02/2012, secondo cui “tra gli obblighi di fornire i mezzi per ottenere il risultato voluto dai clienti di un avvocato non rientra come inderogabile quello di depositare materialmente la nota di trascrizione di una domanda giudiziale, specie se, come nel caso in esame, sia lo stesso cliente ad esonerare il professionista dal farlo”, atteso che diversamente dalla fattispecie oggetto del precedente richiamato, nel presente giudizio la Corte territoriale non ha affatto ritenuta “inderogabile” l’attività di trascrizione, ma ha ritenuto invece provato il conferimento di tale specifico incarico da parte dei clienti).
In sostanza il ricorrente viene a richiedere a questa Corte una inammissibile rivalutazione delle risultanze istruttorie, che esula del tutto dai limiti del sindacato di legittimità.
Con il terzo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 1460 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Sostiene il ricorrente la illegittimità della statuizione della Corte territoriale secondo cui il mancato pagamento dell’onorario consentiva la legale di recedere dal mandato ma non anche di arrecare pregiudizio agli interessi del cliente, in quanto ciò avrebbe implicato per il legale l’assunzione dell’ulteriore e gravoso onere, estraneo al contratto d’opera, di anticipare le spese della trascrizione dell’atto dispositivo della proprietà.
Il motivo è fondato.
La Corte territoriale ha ritenuto che il mancato pagamento dei “compensi” non esonerava il legale, che non avesse inteso recedere dall’incarico, ad operarsi affinché il cliente non incorresse in decadenze, preclusioni o altre situazioni pregiudizievoli, configurandosi quindi una responsabilità grave per avere l’avv. M. omesso ingiustificatamente di trascrivere il titolo.
Orbene, se correlata alla eccezione ex art. 1460 c.c. formulata dal M., la statuizione impugnata non distingue se, in presenza della facoltà del professionista di recedere unilateralmente dal rapporto (art. 2237 c.c., comma 2), debba intendersi esclusa la applicabilità del rimedio ex art. 1460 c.c., accordato alla parte non inadempiente, di sospendere la esecuzione della prestazione corrispettiva in difetto dell’adempimento dell’altra parte, ovvero se, invece, detta eccezione possa essere opposta dal professionista, ma nell’osservanza dei limiti indicati.
Osserva il Collegio che l’art. 2237 c.c., commi 2 e 3, disciplina le condizioni e le modalità dell’esercizio del diritto di recesso del prestatore dal contratto d’opera intellettuale, subordinando il legittimo esercizio del diritto ad una “giusta causa” ed imponendo, comunque, al prestatore d’opera di “evitare pregiudizio al cliente”.
La disposizione del terzo comma rinviene la sua “ratio” nel generale obbligo di buona fede, espressione del dovere di solidarietà ex art. 2 Cost., che informa i rapporti tra i contraenti dal momento in cui vengono socialmente in contatto nella fase delle trattative fino alla fase patologica del rapporto, e nel quale trovano fondamento i “doveri di protezione” che accedono alla modalità di attuazione del rapporto, sicché il legittimo esercizio dei diritti che nascono dal contratto o dalle norme integrative del contenuto contrattuale, non esonera la parte dal salvaguardare gli interessi e le utilità dell’altro contraente, nella misura in cui tale l’attività richiesta non si risolva nell’aggravio di un consistente onere o sacrificio (analoga previsione è prevista anche nel rapporto di mandato: art. 1727 c.c., comma 2, in caso di rinunzia del mandatario).
La disposizione non può ritenersi ostativa alla applicazione del rimedio sospensivo di cui all’art. 1460 c.c., che bene può trovare ingresso tutte le volte in cui la esecuzione della prestazione inadempiuta sia ancora possibile ed il professionista non intenda far valere una giusta causa di recesso (la esperibilità nell’ambito del rapporto d’opera intellettuale della “exceptio inadimpleti seu non rite adimpleti contractus”, ha trovato accoglimento nella giurisprudenza di legittimità: Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 3958 del 13/12/1969 – con specifico riferimento al contratto d’opera intellettuale avente ad oggetto l’espletamento di attività giudiziale o stragiudiziale dell’avvocato -; id. Sez. L, Sentenza n. 5775 del 11/06/1999; id. Sez. L, Sentenza n. 14702 del 25/06/2007; id. Sez. 2, Sentenza n. 11304 del 05/07/2012 e Sez. 2 -, Sentenza n. 25894 del 15/12/2016 – che esaminano l’ipotesi della eccezione ex art. 1460 c.c. formulata dal cliente nei confronti del procuratore ad litem -), tanto più considerando che, nel caso di specie, la esecuzione della prestazione “sospesa” avrebbe implicato l’onere per l’avvocato della anticipazione delle spese di trascrizione dell’atto presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari (art. 2760 c.c.) e dunque l’assunzione di un aggravio economico, eccedente il normale sacrificio richiesto ai sensi dell’art. 1375 c.c., peraltro escluso dalla disciplina del tipo legale del contratto d’opera intellettuale. L’art. 2234 c.c. dispone, infatti, che “Il cliente, salva diversa pattuizione, deve anticipare al prestatore d’opera le spese occorrenti al compimento dell’opera e corrispondere, secondo gli usi, gli acconti sul compenso”, e non risulta dagli atti, né emerge dalla sentenza impugnata, che le pareti abbiano disposto alcuna pattuizione in deroga. La norma da ultimo richiamata individua un “obbligo di collaborazione” che grava sul cliente al fine di mettere la controparte in grado di dare inizio all’opera e proseguirla, rispondendo alla finalità di mitigare la regola della post-numerazione, in virtù della quale il diritto al compenso ed al rimborso delle spese matura solo a seguito dell’effettuazione di una prestazione tecnicamente idonea a conseguire il risultato cui è destinata (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 24046 del 10/11/2006).
Orbene se il richiamato principio della buona fede nella esecuzione del contratto non può non riferirsi anche alle modalità di esercizio dei diritti e delle eccezioni di diritto sostanziale che nascono dal contratto, e dunque anche alla eccezione di cui all’art. 1460 c.c., tuttavia il limite nel quale l’eccipiente deve preservare l’utilità della controparte, non può, evidentemente, coincidere salvo i casi che verranno di seguito indicati – con l’obbligo di eseguire la medesima prestazione sospesa, diversamente venendo ad essere annichilito lo stesso rimedio contrattuale previsto dall’art. 1460 c.c.. Analogamente alla modalità di esercizio del recesso, prescritta dall’art. 2237 c.c., comma 3, l’onere di cautela e salvaguardia dell’interesse altrui richiesto a colui che esercita il diritto deve, infatti, individuarsi nel compimento di quelle attività che appaiono idonee a conservare alla controparte la possibilità di conseguire in altro modo la soddisfazione dell’interesse o del risultato perseguito, e che normalmente si risolvono nella tempestiva informativa della volontà di recedere dal rapporto ovvero nella tempestiva contestazione dell’altrui inadempimento e della volontà di avvalersi del rimedio sospensivo (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 22353 del 03/11/2010 secondo cui, ai fini della esclusione della buona fede nella eccezione di inadempimento, assume rilevante importanza la circostanza che la giustificazione del rifiuto sia stata resa nota alla controparte solo in occasione del giudizio e non in occasione dell’attività posta in essere allo scopo di conseguire l’esecuzione spontanea del contratto), così da consentire all’altra parte di adottare le opzioni e le iniziative ritenute più opportune per non pregiudicare il proprio interesse.
Alla stregua di tale principio deve, quindi, essere verificata la statuizione della Corte territoriale secondo cui il professionista “utendo juribus” non può, comunque, agire in pregiudizio della controparte, così da farla incorrere in decadenze o in preclusioni o ancora precludendole il conseguimento del risultato utile, dovendo osservarsi al proposito che tale affermazione, tuttavia, non ha astratta valenza assoluta, nel senso di dover ritenere che, verificatisi gli eventi predetti, sussiste sempre e comunque la violazione del dovere di buona fede, ed il professionista receduto o che ha opposto la eccezione ex art. 1460 c.c. deve intendersi sempre e comunque responsabile delle conseguenze dannose.
Al fine di verificare quale sia il limite posto all’obbligo della buona fede, occorre, invece, rapportare la esigenza di provvedere per evitare il pregiudizio alla controparte, alla situazione concreta determinata dalla condotta delle parti contraenti.
Sarà pertanto contrario a buona fede un comportamento del professionista che, nella imminente scadenza di un termine di decadenza, ometta di compiere l’atto richiesto dall’incarico professionale, allegando il recesso o l’inadempimento della controparte e sospendendo la esecuzione della prestazione, così arrecando un pregiudizio irreparabile al proprio cliente: copiosa la giurisprudenza di legittimità in materia di espletamento del mandato ad litem, che afferma al riguardo come l’art. 85 cod. proc. civ., in guisa diversa dalla disciplina della procura al compimento di atti di diritto sostanziale (che consente a chi ha conferito i poteri di revocarli od a chi li ha ricevuti dismetterli, con efficacia immediata), prevede che, né la revoca né la rinuncia privano – di per sé – il difensore della capacità di compiere o di ricevere atti, occorrendo a tal fine che si aggiunga il fatto della intervenuta sostituzione del legale revocato o dimissionario (Corte cass. sez. 1, sentenza n. 10643 del 29/10/1997), il quale ha il dovere di svolgere con diligenza il mandato professionale sino al momento della sua sostituzione con altro procuratore, con la conseguenza che sue eventuali negligenze o dimenticanze si verificano e consumano nell’ambito del rapporto professionale con il cliente (Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 3326 del 29/05/1982).
Risponderà invece al principio di buone fede l’esercizio dei diritti e dei rimedi contrattuali esperiti dal professionista – al di fuori dei casi in cui sia richiesto il compimento di atti “urgenti” – qualora l’altra parte risulti tempestivamente avvertita dell’esercizio del diritto di recesso o della eccezione “inadimpleti contractus”, e ciò nonostante mantenga una condotta ingiustificatamente inerte (nel caso della eccezione ex art. 1460 c.c.: non offrendo di adempiere la controprestazione, nè assumendo iniziative dirette a contestare il proprio inadempimento ovvero a risolvere il contratto; nel caso di recesso ex art. 2237 c.c., comma 2: omettendo di attivarsi nella ricerca di un nuovo professionista cui affidare la prosecuzione dell’incarico, ovvero, ove possibile, assumendo personalmente la iniziativa del compimento degli ulteriori atti oggetto dell’incarico dismesso dal professionista): in tal caso il pregiudizio eventualmente subito dal cliente non può evidentemente ascriversi a violazione del dovere di buona fede cui è tenuto il prestatore d’opera intellettuale per non aver eseguito la necessaria prestazione contrattuale, in quanto l’insorgere della situazione di “urgenza” è imputabile in via esclusiva alla negligente condotta tenuta dalla controparte, e non vale a ripristinare un obbligo di salvaguardia che deve ritenersi compiutamente assolto dal professionista che ha messo in mora, in tempo utile, il cliente.
Può dunque enunciarsi il seguente principio di diritto:
“in materia di contratto d’opera intellettuale, avente ad oggetto l’assistenza legale nel procedimento di separazione consensuale dei coniugi comprensiva anche della trascrizione nei RR.II. del verbale omologato contenente la disposizione del trasferimento ad uno dei coniugi di una quota proprietaria dell’immobile adibito a casa familiare, è legittimamente esperibile da entrambe le parti il rimedio contrattuale della eccezione ex art. 1460 c.c., ed il professionista può avvalersi della eccezione anche nel caso in cui – non derogando il contratto all’obbligo del cliente di fornire anticipatamente la provvista necessaria alle spese ex art. 2234 c.c. – il cliente non abbia anticipato le spese necessarie ad eseguire la trascrizione, purché la sospensione della prestazione non venga attuata in modo tale da determinare al cliente un pregiudizio irreparabile, essendo comunque tenuto il professionista – in virtù del principio di buona fede – a salvaguardare l’interesse o l’utilità dell’altra parte nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio, dovendo averso riguardo a tal fine anche alla tempestività con la quale il professionista ha contestato l’inadempimento alla controparte, in modo da metterla in grado di assumere le iniziative opportune a risolvere la situazione di stallo in cui versa il rapporto ed a conservare la utilità perseguita con l’attuazione del contratto”.
Tanto premesso, emerge dalla stessa sentenza di appello – e non costituisce fatto contestato – che nei sei mesi trascorsi dalla omologa del verbale di separazione personale, più volte sollecitato dai coniugi a provvedere alla trascrizione del verbale di separazione omologato, l’avv. M. comunicò, con lettera in data 15.9.2004, che non avrebbe svolto alcuna attività suppletiva fino a quando i clienti non avessero saldati gli onorari, “precisando che non intendeva neppure anticipare le spese vive di trascrizione” (sentenza impugnata, in motiv. pag. 11), in tal modo contestando il mancato adempimento delle prestazioni dovute dai clienti – anche con riferimento alla anticipazione delle spese ex art. 2234 c.c. – e manifestando la propria intenzione di sospendere l’ulteriore attività professionale. Risulta ancora che la iscrizione ipotecaria sull’immobile è stata richiesta da GEST LINE il successivo dicembre 2004.
Tali i fatti accertati in giudizio, il Giudice di appello avrebbe dovuto verificare se la “exceptio inadimpleti contractus” fosse stata esercitata legittimamente dall’avvocato, in relazione agli obblighi di salvaguardia che allo stesso incombevano per il dovere di esecuzione del contratto d’opera intellettuale secondo buona fede, risultando pertanto errata in diritto la statuizione impugnata che, da un lato, esclude che il mancato pagamento dell’onorario potesse legittimare l’avvocato a non adempiere alla trascrizione – omettendo peraltro di verificare la compatibilità dell’obbligo di salvaguardia con l’assunzione dell’aggravio economico della anticipazione delle spese di trascrizione, non dovuta dal legale atteso il disposto dell’art. 2234 c.c. -, ritenendo “se mai” consentito soltanto il recesso dall’incarico, non tenendo conto che il rimedio ex art. 1460 c.c. trova applicazione anche nel rapporto d’opera intellettuale; dall’altro omette del tutto la verifica in concreto della legittimità della eccezione ex art. 1460 c.c. opposta dal legale, in relazione alle modalità con le quali tale eccezione risulta esercitata, in relazione alla rappresentazione delle conseguenze della sospensione della ulteriore attività di trascrizione ed alla effettiva possibilità della C. di assumere le iniziative necessarie a provvedere altrimenti alla trascrizione dell’atto dispositivo della proprietà.
La critica mossa dal ricorrente alla sentenza impugnata coglie, pertanto, nel segno censurando la statuizione che perviene alla errata affermazione in diritto secondo cui la eccezione ex art. 1460 c.c. obbligava, comunque, il professionista a dare corso alla trascrizione del verbale di separazione omologato ed a sostenere, anticipandole, le spese necessarie.
La sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio, occorrendo tuttavia egualmente procedere anche all’esame dei motivi quarto e quinto del ricorso principale che investono statuizioni della sentenza di appello “dipendenti” dall’esito del nuovo giudizio che la Corte territoriale, quale giudice del rinvio, è chiamata a compiere in ordine alla eccezione di inadempimento, sicchè per economia processuale è necessario verificare la legittimità delle altre statuizioni impugnate risultando ciò utile nel caso in cui il Giudice del rinvio si risolva ad accertare la illegittimità della condotta del legale.
Con il quarto motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 1227 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Sostiene il ricorrente che la Corte d’appello avrebbe fatto errata applicazione dell’art. 1227 c.c., comma 1 accertando il concorso causale nella produzione del danno da parte della C., mentre avrebbe dovuto escludere del tutto il risarcimento del danno, trovando nella specie applicazione l’art. 1227 c.c., comma 2 in quanto era nella piena disponibilità della C. provvedere alla trascrizione del verbale.
Il motivo è inammissibile ed infondato.
E’ inammissibile, in quanto l’accertamento dei presupposti per l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 1227 c.c., comma 2, – che esclude il risarcimento in relazione ai danni che il creditore (o il danneggiato) avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza – integra indagine di fatto, come tale riservata al giudice di merito e sottratta al sindacato di legittimità, se sorretta da congrua motivazione (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 20283 del 14/10/2004; id. Sez. 2, Sentenza n. 18352 del 13/09/2004; id. Sez. 3, Sentenza n. 15231 del 05/07/2007) e dunque non poteva essere censurata attraverso il vizio di errore nell’attività di giudizio, ma deducendo il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nei limiti consentiti dalla norma riformata.
E’ infondato venendo a confondere i diversi piani del nesso di causalità disciplinati dalla norma. Ed infatti, in tema di risarcimento del danno, l’ipotesi del fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso (art. 1227 c.c., comma 1) va distinta, anche sul piano processuale, da quella (disciplinata dal comma 2, medesimo art.) che prevede il verificarsi del (solo) aggravamento del danno prodotto dal comportamento dello stesso danneggiato che non abbia, peraltro, contribuito in alcun modo alla sua causazione, poichè, nel primo caso, il giudice deve proporsi d’ufficio l’indagine in ordine al concorso di colpa del danneggiato (sempre che risultino prospettati gli elementi di fatto dai quali sia ricavabile la colpa concorrente, sul piano causale, di quegli), mentre la seconda situazione costituisce oggetto di eccezione in senso stretto (in quanto il dedotto comportamento del creditore costituisce un autonomo dovere giuridico, posto a suo carico dalla legge quale espressione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede).
Orbene il “danno” si è determinato a seguito della iscrizione ipotecaria eseguita a favore di GEST LINE, dunque fino a tale momento il pregiudizio era solo potenziale, perdurando – secondo la ricostruzione del Giudice di merito – la condotta omissiva colpevole del professionista, con essa concorrendo la ingiustificata inerzia della C., protrattasi dopo la conoscenza della intenzione del legale di non provvedere alla trascrizione dell’atto, in mancanza di saldo onorari e di provvista delle spese.
Ne segue che in relazione al presupposto di fatto, come accertato dalla Corte d’appello, è corretto l’inquadramento giuridico della condotta della C. nello schema dell’art. 1227 c.c., comma 1 quale fatto causalmente concorrente nella produzione del danno conseguenza.
Con il quinto motivo il ricorrente impugna la sentenza di appello per “omesso esame di fatto decisivo” ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Sostiene il ricorrente che la Corte territoriale non avrebbe considerato che il danno patito dalla C. era da ritenere inesistente in quanto meramente ipotetico e futuro, non avendo la stessa neppure allegato che GEST LINE avesse intrapreso l’azione esecutiva, e neppure che, a causa della ipoteca, non era stata in grado di alienare l’immobile a terzi o ancora che non aveva potuto ottenere credito in conseguenza della prelazione ipotecaria sull’immobile.
La censura, volta – come emerge dalla esposizione del motivo – a criticare la carenza del minimo costituzionale richiesto per la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, deve ritenersi fondata.
Il Giudice di appello ha ritenuto attuale il danno subito dalla C., in quanto nel febbraio 2006 era deceduto il coniuge alienante, ed avendo la C. “rinunciato alla eredità”, la stessa era stata “impossibilitata a recuperare la quota di proprietà del marito” (sentenza appello, pag. 14).
L’argomento svolto della Corte d’appello non appare coerente alla situazione descritta, non essendo dato spiegare come la ipoteca sull’immobile possa incidere causalmente sulla rinuncia della C. alla eredità del coniuge (e quindi all’acquisto della intera proprietà dell’immobile), riconducibile piuttosto alla volontaria scelta della chiamata alla eredità di non subentrare in una esposizione debitoria maggiore – rispetto all’importo del credito ipotecario – in considerazione della generale situazione di insolvenza del marito.
Come afferma la giurisprudenza di questa Corte l’omessa trascrizione dell’atto di acquisto della proprietà incide sulla inopponibilità della anteriorità dell’atto nei confronti dei terzi successivi trascriventi diritti sull’immobili. Tuttavia tale inopponibilità – determinata nella specie nei confronti del creditore ipotecario GEST LINE – è potenzialmente suscettiva di arrecare un pregiudizio che deve essere pur sempre valutato in relazione alla situazione eventualmente più vantaggiosa – in cui si sarebbe trovato il cliente qualora il professionista avesse diligentemente adempiuto la propria prestazione (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 3657 del 14/02/2013; id. Sez. 3, Sentenza n. 18244 del 26/08/2014).
Orbene la motivazione del Giudice di appello non fornisce alcuna indicazione delle ragioni per cui la iscrizione ipotecaria abbia prodotto un danno patrimoniale risarcibile, e dunque la statuizione impugnata deve essere cassata.
2.p. Esame dei motivi del ricorso incidentale proposto da C.P..
Primo motivo: omesso esame fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
La ricorrente sostiene che la Corte d’appello, dopo aver descritto in rassegna i motivi di gravame proposti dalla C. ha poi omesso di pronunciare sul motivo con il quale si deduceva che il danno dovesse quantificarsi in relazione all’importo del credito ipotecario e dunque alla somma necessaria per disporre la cancellazione della ipoteca.
Il motivo se inteso a contestare una nullità processuale per omessa pronuncia su un motivo di gravame, è inammissibile in quanto neppure viene trascritto l’atto di appello con il relativo motivo, e comunque viene indicato un parametro del sindacato di legittimità (inerente l’errore di fatto) estraneo al vizio di attività processuale.
In ogni caso il motivo è inammissibile anche in relazione al vizio denunciato, in quanto difetta del tutto il “fatto storico” la cui considerazione sarebbe stata omessa dal Giudice di appello, tenuto conto che la sentenza impugnata ha esaminato i fatti allegati dalla C., escludendo la rilevanza del pagamento di oltre Euro 100.000,00 allegato dalla C. e che la stessa avrebbe sostenuto per evitare una pregressa azione esecutiva dei creditori del marito, in quanto non sussisteva alcuna prova che la cessione della quota proprietaria dell’immobile operata nel verbale di separazione costituisse una attribuzione a titolo oneroso in quanto compensativa del predetto esborso. Del tutto nuova e priva di riscontro (in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) è poi l’affermazione secondo cui il valore del danno sarebbe stato calcolato non in base ai prezzi correnti di mercato ma sulla scorta di una stima determinata in altra procedura esecutiva.
Secondo motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
La ricorrente incidentale, allegando che la cessione della proprietà immobiliare era da ritenersi a titolo oneroso in quanto compensativa di precedenti esborsi dalla stessa sostenuti a favore del marito, contesta la misura percentuale di riduzione del “quantum” risarcibile determinata dal Giudice di merito in quanto sussisteva una elevata probabilità che l’atto di acquisto della quota di proprietà dell’immobile potesse essere revocato ex art. 2901 c.c. dal creditore ipotecario.
Trattasi di “questio facti” preclusa al sindacato di legittimità surrettiziamente prospettata dalla ricorrente incidentale come “error juris”, peraltro già oggetto di esame nel merito da parte della Corte territoriale che ha escluso la prova documentale del nesso sinallagmatico tra le prestazioni.
Per il resto la censura richiede un riesame di tutte le risultanze probatorie (concernenti il concorso causale nella produzione del danno; la conoscenza del rifiuto opposto dal legale a proseguire l’incarico; la mancanza di prova della somministrazione al legale delle spese di trascrizione) precluso in sede di legittimità.
In conclusione il ricorso principale deve essere accolto, quanto al terzo e quinto motivo, dichiarati inammissibili gli altri; il ricorso incidentale deve essere dichiarato inammissibile; la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Genova, in diversa composizione, che attenendosi al principio di diritto enunciato, procederà a nuovo esame ed a liquidare anche le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il terzo e quinto motivo di ricorso principale, dichiara inammissibili il primo, secondo e quarto motivo di ricorso principale; dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Corte di appello di Genova in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Anche quando i figli si trovano presso il genitore non collocatario il coniuge è tenuto al versamento dell’assegno di mantenimento in favore dell’altro

Cass. pen. Sez. VI – 14, 14 novembre 2017, n. 51913
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
P.M.E., n. ad (OMISSIS);
avverso la sentenza del 22/6/2015 della Corte di appello di Ancona;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Emilia Anna Giordano;
udita la richiesta del Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato generale Dott. ROSSI Agnello, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
udito per il ricorrente l’avvocato Luigi Di Monaco, in sostituzione dell’avvocato Alessandro Traini, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. La Corte di appello di Ancona, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la condanna di P.M.E. alla pena di mesi sei di reclusione ed Euro 500,00 di multa oltre al risarcimento dei danni in favore della ex coniuge costituita parte civile, S.B., liquidati nell’importo di Euro settemila, per il reato di cui allaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.12 sexies, come richiamato dallaL. 8 febbraio 2006, n. 54,art.3, fatto commesso in (OMISSIS). Sulla scorta delle dichiarazioni rese dalla parte civile e delle ammissioni dell’imputato, la Corte di merito ha ritenuto acquisita la prova piena del mancato versamento dell’assegno di mantenimento del figlio minore, stabilito in sede di cessazione degli effetti civili del matrimonio con provvedimento del 7 giugno 2008.
2. Con i motivi di ricorso, sottoscritti dal difensore di fiducia e di seguito sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen., il ricorrente denuncia: 2.1 vizio di violazione di legge, in relazioneall’art. 649 cod. proc. pen., per la mancata declaratoria di proscioglimento poiché l’imputato aveva già riportato condanna per lo stesso reato commesso nel periodo intercorso tra il (OMISSIS). Tale omissione integra, altresì, la violazione degliartt. 133 cod. pen., in relazione alla pena applicata, e degliartt. 2043 e 2059 cod. civ.per l’importo liquidato a titolo di risarcimento del danno in favore della parte civile; 2.2 vizio di violazione di legge, in relazione agliartt. 507 e 603 cod. proc. pen., per la mancata assunzione di una prova decisiva, cioè le dichiarazioni dell’unica persona offesa del reato, il figlio P.A., divenuto maggiorenne nelle more del processo, beneficiario dell’assegno di mantenimento e vizio di motivazione della sentenza impugnata, tenuto conto che la stessa parte civile aveva riferito come il ricorrente versava al figlio almeno trentacinque Euro a settimana provvedendo a sopportare le spese scolastiche, di vestiario e all’alloggio per più giorni alla settimana, mentre il figlio dimorava nella sua abitazione ed al quale non erano mai mancati i mezzi di sussistenza; 2.3 violazione di legge, in relazione agliartt. 237 e 603 cod. proc. pen., per la mancata assunzione di una prova decisiva, cioè una lettera che il figlio aveva consegnato all’imputato in occasione del Natale 2012, missiva prodotta dalla difesa, espunta dal fascicolo in primo grado conordinanza del 15 gennaio 2013e che la difesa aveva chiesto di acquisire in appello; 2.4 violazione di legge, in relazioneall’art. 570 cod. pen., L. n. 898 del 1970, art. 12 sexies,artt. 2043 e 2049 cod. civ.in ordine alla individuazione della persona offesa dal reato, poiché la ex coniuge aveva agito in proprio e non quale esercente la potestà del minore P.A. da individuarsi quale unica persona offesa dal reato.
Motivi della decisione
1. Il ricorso deve essere rigettato per la infondatezza, in più parti manifesta, dei motivi posti a fondamento della impugnazione.
2. Generico e manifestamente infondato è il primo motivo di ricorso poiché non è dato evincere dal tenore letterale della contestazione ascritta al ricorrente che la data di commissione del reato di omesso versamento dell’assegno di mantenimento del figlio minore, individuato con riguardo alla data di presentazione della querela, debba retrodatarsi fino al (OMISSIS), data del provvedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio e di adozione dell’ordinanza con la quale veniva imposto al P. il pagamento dell’assegno, elementi che, secondo il tenore letterale della imputazione, indicano la fonte ed il contenuto dell’obbligo piuttosto che la durata dell’inadempimento. Tale durata, quindi la protrazione della condotta illecita, è stata precisata in dibattimento atteso che, come lo stesso ricorrente non ha mancato di rilevare, la persona offesa aveva indicato, nel corso della testimonianza le sue precedenti iniziative giudiziarie, e la difesa dell’imputato aveva prodotto la sentenza irrevocabile con la quale l’imputato era stato condannato per analogo reato, commesso nel periodo compreso tra il (OMISSIS). Premesso che, in tema di reato permanente, il divieto di un secondo giudizio riguarda la condotta delineata nell’imputazione ed accertata con sentenza, di condanna o di assoluzione, divenuta irrevocabile, rileva il Collegio che non viola il divieto di bis in idem la contestazione di una condotta proseguita oltre la data della contestazione oggetto della sentenza irrevocabile, giacché si tratta di “fatto storico” diverso non coperto dal giudicato e per il quale non vi è impedimento alcuno a procedere nel giudizio in corso.
3. Generica è, altresì, la deduzione difensiva che fa derivare dalla supposta violazionedell’art. 649 cod. proc. pen.la illegittimità della determinazione della pena inflitta al ricorrente e dell’importo liquidato a titolo di risarcimento del danno, al cospetto della motivazione delle sentenze di merito incentrate sul giudizio di gravità della condotta, che non si risolve nella durata e protrazione dell’inadempimento, e nel danno morale cagionato dalla condotta omissiva piuttosto che della mera contabilizzazione delle somme non corrisposte.
4.E’, d’uopo, prima di affrontare gli ulteriori motivi di ricorso, che muovono dal comune, ed erroneo, rilievo che persona offesa dal reato di cui allaL. 1 dicembre 1970, n. 898, art. sexies, come richiamato dallaL. 8 febbraio 2006, n. 54,art.3, sia esclusivamente il figlio minore, svolgere una breve premessa con riguardo agli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 12 sexiesL. n. 898cit. rispetto al reato di cuiall’art. 570 cod. pen., comma 2, e alla individuazione del creditore della prestazione.
5.Questa Corte, con condivisibili affermazioni di principio, in presenza di contestazioni che hanno ad oggetto la mancata corresponsione dell’assegno fissato in sede di divorzio e finalizzato al mantenimento del figlio minore, ha chiaramente individuato quale sia l’elemento materiale del reato di cui all’art. 12 sexiesL. n. 898cit. ed ha precisato che tale delitto si configura per il semplice inadempimento dell’obbligo di corresponsione dell’assegno nella misura disposta dal giudice in sede di divorzio, prescindendo dalla prova dello stato di bisogno dell’avente diritto (ex multis, Sez. 6, n. 44086 del 14/10/2014, P., Rv. 260717). Diversamente, la norma del codice, prevede una sanzione per l’ipotesi che tale inadempimento concretizzi la mancanza di mezzi di sussistenza in danno del congiunto, individuando sia una sfera di soggetti passivi (i discendenti di età minore ovvero inabili al lavoro, per concentrare l’attenzione su tale tipologia di soggetti) e, dunque, senza alcuna distinzione tra figli minori di genitori separati e figli minori di genitori non separati, né tra figli minori di genitori divorziati e figli minori di genitori non divorziati, nonché una sfera di bisogni più ristretta (i mezzi di sussistenza, nozione quest’ultima oggetto di diffusa elaborazione giurisprudenziale), rispetto a quella protetta dal versamento dell’assegno fissato in sede di divorzio, che riguarda, quanto ai figli, il diritto al mantenimento e che include anche il diritto del creditore a mantenere lo stesso livello di vita. Ne consegue che le condotte di cuiall’art. 570 cod. pen., comma 2, n. 2 e quella di cui all’art. 12 sexiesL. n. 898cit. sono del tutto autonome, venendo a realizzarsi l’ipotesi previstadall’art. 570 cod. pen., comma 2, n. 2, quando, dal mancato pagamento dell’assegno, consegua addirittura la privazione dei mezzi di sussistenza e che in tale fattispecie di reato, quando dalla condotta omissiva discenda anche la mancanza dei mezzi di sussistenza ai figli minori, risulta assorbita quella prevista dall’art. 12 sexiesL. n. 898cit. (Sez. 6, n. 44629 del 17/10/2013, B., Rv. 256905). Univoca, peraltro è la funzione assistenziale degli obblighi civili che sorgono dallaL. n. 898 del 1970, in favore dell’ex coniuge e dei figli, valorizzata dalla giurisprudenza di legittimità che, esaminando la problematica della natura permanente del reato di cui alla cit.L. n. 898 del 1970,art.12 sexies, pure a fronte della incriminazione diretta del mero singolo inadempimento, ne ha valorizzato la loro “affinità sistematica e strutturale” con le fattispecie oggetto dei due commidell’art. 570 cod. pen., proseguendo lungo la linea interpretativa tratteggiata con la sentenza n. 472 del 1989 dalla Corte Cost., sent. n. 472 del 1989, investita della questione di illegittimità della nuova fattispecie incriminatrice.
6. Proprio a tale pronuncia del giudice delle leggi è opportuno fare richiamo onde individuare la ratio del trattamento sanzionatorio delle condotte di inadempimento oggetto dell’art. 12 sexiesL. n. 898cit. che, fin da tale risalente sentenza, è stata ricondotta alla necessità di assicurare adeguata tutela penale, in vista della maggior tutela del soggetto debole, agli aspetti patrimoniali del divorzio attraverso la rielaborazione dellaL. 6 marzo 1987, n. 74,artt.5e6e che ha, appunto, introdotto la fattispecie delittuosa, del tutto nuova, consistente nel sottrarsi all’obbligo di corrispondere quanto dovuto a norma degli artt. 5 e 6 (assegno di divorzio e assegno di mantenimento relativo ai figli) rinviando, per la sanzione,all’art. 570 cod. pen..Il Legislatore del 1987, si osserva nella sentenza da ultimo richiamata, ha formulato l’art. 12-sexies in termini tali da ricomprendere nella nuova previsione incriminatrice, accanto all’assegno di divorzio, anche l’assegno di mantenimento relativo ai figli, quasi conglobandolo in un tutt’uno con l’altro, cosi da assicurargli un’ulteriore tutela rispetto a quella già esistente. E’ stato, altresì chiarito che la destinazione dell’assegno di mantenimento ai figli minori (v.L. n. 898 del 1970,art.6, comma 11, nel testo novellato ad opera dellaL. n. 74 del 1987,art.11) non sta a significare che sono essi i creditori della relativa prestazione. Creditore di quest’ultima è da intendersi pur sempre – allo stesso modo di quanto avviene nei casi di separazione, peraltro regolati in propositodall’art. 155 del codice civile-, il coniuge affidatario. Nel sanzionare il comportamento di chi si sottrae all’obbligo di corrispondere l’assegno dovuto a norma dell’art. 6, l’art. 12 sexies tutela, dunque, un’ulteriore posizione creditoria dell’altro coniuge, che, sia pur destinata al preciso scopo di contribuire al mantenimento dei figli e, quindi, finalizzata a soddisfare le loro esigenze, si aggiunge alla posizione creditoria sottostante all’assegno dovuto a norma dell’art. 5: il chè vale pure a spiegare l’impiego del singolare nella formula assegno dovuto a norma degli artt. 5 e 6, come se si trattasse di un tutt’uno, conformemente, del resto, alla riconosciuta prassi di liquidare in un unico ammontare complessivo i contributi disposti dal giudice civile a favore del coniuge e della prole, salva, beninteso, la diversità dei rispettivi presupposti e dei relativi criteri di determinazione, anche, se non soprattutto, a fini fiscali.
6.In linea con tale impostazione, in materia civile, si è affermato che il genitore separato (o divorziato), cui il figlio sia stato affidato durante la minore età, continua, pur dopo che questi sia divenuto maggiorenne, ma coabiti ancora con lui e non sia economicamente autosufficiente, ad essere legittimato iure proprio, in assenza di un’autonoma richiesta da parte dello stesso, a richiedere all’altro genitore tanto il rimborso, pro quota, delle spese già sostenute per il mantenimento del figlio, quanto il versamento di un assegno periodico a titolo di contributo per detto mantenimento (Sez. 1, Sentenza n. 4188 del 24/02/2006, Rv. 590762 – 01), affermazione vieppiù ribadita attraverso quel principio in cui si afferma che il genitore separato o divorziato tenuto al mantenimento del figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente e convivente con l’altro genitore, non può pretendere, in mancanza di una specifica domanda del figlio, di assolvere la propria prestazione nei confronti di quest’ultimo anziché del genitore istante. Invero, anche a seguito dell’introduzione dell’art. 155 quinquies cod. civ. ad opera dellaL. 8 febbraio 2006, n. 54, sia il figlio, in quanto titolare del diritto al mantenimento, sia il genitore con lui convivente, in quanto titolare del diritto a ricevere il contributo dell’altro genitore alle spese necessarie per tale mantenimento, cui materialmente provvede, sono titolari di diritti autonomi, ancorchè concorrenti, sicchè sono entrambi legittimati a percepire l’assegno dall’obbligato. (Sez. 1, Sentenza n. 25300 del 11/11/2013, Rv. 628819 – 01).
7. Il necessario precipitato logico di tale inquadramento, in presenza di inadempimento che ha ad oggetto la mancata corresponsione dell’assegno fissato in sede di divorzio e finalizzato al mantenimento del figlio minore convivente con l’altro genitore, è che il creditore della prestazione non è solo il figlio minore, in quanto titolare del diritto al mantenimento, ma anche il genitore con lui convivente in quanto titolare del diritto a ricevere il contributo dell’altro genitore alle spese necessarie per tale mantenimento cui materialmente provvede e che è pertanto titolare di un autonomo, ancorché concorrente, diritto dal momento che sopporta l’onere del mantenimento di un soggetto economicamente incapiente, perché minore.
8. Ne consegue la infondatezza del motivo di ricorso illustrato al punto 2.4 del Ritenuto in fatto, poiché correttamente la ex coniuge dell’imputato, madre convivente del minore beneficiario dell’assegno di mantenimento, è stata individuata quale soggetto legittimato alla costituzione di parte civile in quanto persona offesa dal reato e, pertanto, destinataria della condanna al risarcimento del danno.
9. Dal rassegnato inquadramento discende, altresì, la manifesta infondatezza e la genericità del secondo e del terzo motivo di ricorso sia nella parte in cui il ricorrente lamenta la mancata acquisizione della prova costituita dalle dichiarazioni rese dal figlio ovvero dalla lettera che costui gli avrebbe inviato in occasione del Natale del 2012 sia nella parte in cui deduce che al minore non erano mai mancati i mezzi di sussistenza e, a giustificazione dell’inadempimento, l’allegazione di avere sostenuto spese di mantenimento del figlio allorquando questi dimorava con lui.
10. Esula, per quanto già evidenziato, dagli elementi costitutivi della fattispecie in esame, qualsivoglia valutazione dello stato di bisogno dell’avente diritto e dell’avere fatto mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore né l’inadempimento è escluso dall’avere sopportato le spese di mantenimento del figlio quando questi dimorava nell’abitazione paterna. Come osservato dalla giurisprudenza civile il contributo al mantenimento dei figli minori, quantificato in una somma fissa mensile in favore del genitore affidatario, non costituisce, in mancanza di diverse disposizioni, il mero rimborso delle spese sostenute da quest’ultimo nel mese corrispondente, bensì la rata mensile di un assegno annuale determinato, tenendo conto di ogni altra circostanza emergente dal contesto, in funzione delle esigenze della prole rapportate all’anno. Da ciò deriva che il genitore non affidatario non può ritenersi sollevato dall’obbligo di corresponsione dell’assegno per il tempo in cui i figli, in relazione alle modalità di visita disposte dal giudice, si trovino presso di lui ed egli provveda in modo esclusivo al loro mantenimento (Sez. 1, Sentenza n. 18869 del 08/09/2014, Rv. 632192 – 01). A ciò, deve aggiungersi il rilievo che la natura assistenziale dell’obbligo – il cui corretto adempimento consiste nella dazione (messa a disposizione del minore) della somma, nella qualità e nel valore fissato dal giudice – comporta, di necessità, l’apprestamento solo ed esclusivamente di quel bene o di quel valore che il giudice della separazione o del divorzio ha ritenuto di determinare, nel dialettico confronto delle parti e nel superiore interesse del soggetto debole, oggetto di tutela privilegiata non essendo in facoltà dell’obbligato sostituire la somma di denaro, mensilmente dovuta a tale titolo, con “cose” o “beni” che, a suo avviso, meglio corrispondono alle esigenze del minore beneficiario: l’utilizzo in concreto della somma versata compete infatti al coniuge affidatario il quale, proprio per tale sua qualità, gode in proposito di una limitata discrezionalità, principio che, affermato in relazione al reato di cuiall’art. 570 cod. pen., comma 2, (Sez. 6, n. 8998 dell’11/2/2010, B.C.M. en. 2307 del 29/5/2014, P, non massimate sul punto) può estendersi, in ragione della comune natura assistenziale dell’obbligo, anche al reato in esame.
11.Manifestamente infondati si appalesano dunque il terzo e quarto motivo di ricorso sia perché, a fronte di tale ricostruzione concettuale, non appare decisiva l’acquisizione delle dichiarazioni del minore ovvero della sua lettera, essendo risultato pacifico che l’imputato non ha adempiuto al versamento dell’assegno di mantenimento, prestazione, come detto, infungibile, sia perché, con specifico riguardo alle dichiarazioni del figlio, la cui escussione veniva sollecitata in primo grado ai sensidell’art. 507 cod. proc. pen., la mancata assunzione di una prova decisiva – quale motivo di impugnazione per cassazione – può essere dedotta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione a normadell’art. 495 cod. proc. pen., comma 2, sicché il motivo non potrà essere validamente invocato nel caso in cui il mezzo di prova sia stato sollecitato dalla parte attraverso l’invito al giudice di merito ad avvalersi dei poteri discrezionali di integrazione probatoria di cuiall’art. 507 cod. proc. pen.e da questi sia stato ritenuto non necessario ai fini della decisione (Sez. 2, n. 9763 del 06/02/2013 – dep. 01/03/2013, Pg in proc. Muraca e altri, Rv. 254974).
12.Segue al rigetto del ricorso la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.