Anche per i bambini non in stato di abbandono può sussistere un interesse concreto all’adozione

Il Tribunale per i Minorenni di Bologna, in composizione collegiale e così composto
Dr. Giuseppe Spadaro Presidente
Dr.ssa Elisabetta Tarozzi Giudice
Dr. Daniele Stumpo Giudice Onorario
Dr.ssa Antonella Allegrini Giudice Onorario
ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
nel procedimento iscritto al n. 290\1 6 ADN-CP
avente ad OGGETTO: ricorso ex art. 44, lett. d), legge 184/1983
IN FATTO
A. , nato a, in data xxxxxxxx, residente in xxxxxxxx xxxxxxxxxxxxxx xxxxx xxxxxxxxxx, ha richiesto, ai sensi dell’art. 44 lett. d, I. adoz., di poter adottare il minore C. nato a xxxxxxxx in data xxxxxxxxx a seguito di procreazione medicalmente assistita. L’istante premette di avere costituito a xxx, in Germania, una unione civile tra persone dello stesso sesso, con B. nato a xxxxxx in data xxxxxxxxxx all’esito di una relazione affettiva avviata nel 1991. La coppia è tuttora convivente, con comune residenza in xxxx, alla via xxxxxxxxxxxxxxxx xxxxxxx presso l’immobile acquistato in regime di comproprietà.

Nel 2014, l’istante riferisce di avere deciso, con il proprio compagno, di avere un figlio, ricorrendo alla procedura di procreazione medicalmente assistita in xxxxxx. Il minore C. è stato riconosciuto figlio suo e di B. , con provvedimento della Corte Superiore dello Stato della California (Contea di Placer). Da un punto di vista biologico, C. è figlio di B. (il quale ha dato il proprio seme nel procedimento di FMA): per questo motivo, il provvedimento americano è stato trascritto nei registri dello Stato Civile italiani del Comune di xxxx con indicazione di questi, come solo genitore, ma conservando il cognome di nascita “A. B.”. L’atto di nascita di C. è stato pure trascritto in Berlino, avendo il minore acquistato iure sanguinis la cittadinanza tedesca (v. passaporto, rilasciato il 21 febbraio 2016).
Le indagini svolte hanno dato tutte esito positivo. A conferma rilevano i colloqui con i genitori e l’osservazione diretta relazionata dagli Assistenti Sociali, dalle quali emerge che “C.. si presenta come un bambino sorridente, sereno, curioso e attivo. Si relaziona facilmente con gli adulti, anche se appena conosciuti, ma si riferisce costantemente ai genitori con i quali mostra di aver instaurato una buona relazione di attaccamento.” Ancora, si legge in relazione, “il Sig. A. il Sig. B. raccontano al bambino la sua storia, «C. ha due papà, come altri bambini hanno due mamme e altri un papà e una mamma»; vi è quindi un atteggiamento di trasparenza rispetto al racconto della storia del bambino e in questo i genitori sono supportati dal confronto con altre famiglie che vivono la loro stessa esperienza [ … ] Dall’osservazione tra il Sig. A. e il piccolo C. emerge la capacità di accogliere i bisogni de/piccolo, di stimolarlo e coinvolgerlo in attività di vario tipo. L’interazione è caratterizzata da gesti affettuosi e dal gioco e attraverso queste modalità gli trasmette ritmi e regole quotidiane” (cfr. relazione psicosociale relativa all’istanza di adozione).
Sulla base degli atti e dei documenti, alla luce delle prove acquisite e dell’istruttoria condotta, è pacifico e certo che il minore C. riconosce in A. e in B. i suoi genitori; la relazione della coppia si distingue per solidità affettiva, costanza nel tempo e comunanza di obbiettivi, al punto da dovere essere considerata, a tutti gli effetti, una famiglia. Il tessuto familiare di questa unione include il piccolo C.: C. è un membro della famiglia A.B. . In particolare, è provato che: a) il bambino è stato sempre trattato da A. come suo figlio, avendo questi provveduto in qualità di padre al suo mantenimento, alla sua educazione, alle sue esigenze di vita quotidiana; b) C. è a tutti gli effetti considerato padre, nelle relazioni sociali, affettive e di vita quotidiana (scuola, istituzioni, contesti di riferimento, etc.); c) C. è considerato figlio di A. anche nell’ambito delle famiglie di origine di entrambi i padri.
Sulla scorta dei dati sin qui brevemente illustrati, può procedersi all’esame del merito della domanda.
IN DIRITTO
Nell’Ordinamento italiano, in linea con gli altri sistemi giuridici europei, il legame genitoriale può originare da un procedimento adottivo: il genitore diventa tale in assenza di legame biologico con il minore e a seguito di procedura giurisdizionale che sostituisce al vincolo biologico una attribuzione giuridica della responsabilità genitoriale. L’origine del progetto genitoriale non incide sullo stato giuridico dei figli che è sempre e comunque Io stesso (art. 315. c.c. come modificato dalla legge 10 dicembre 2012 n. 219). 11 referente normativo principale, in materia di adozione, è la legge 4 maggio 1983 n. 184 (“diritto del minore ad una famiglia”). La normativa in esame enuclea, in modo tipico e tassativo, i casi ex lege che consentono l’instaurazione giuridica (piuttosto che biologica) del legame genitoriale. In linea di principio, l’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto. I coniugi devono essere affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendano adottare (art. 6, legge 184 del 1983). Condizione necessaria perché l’adozione possa essere pronunciata, è che l’età degli adottanti superi di almeno diciotto e di non più di quarantacinque anni l’età dell’adottando. In ogni caso, l’adozione è consentita a favore dei minori dichiarati in stato di adottabilità (art. 7 comma I): sono dichiarati in stato di adottabilità dal tribunale per i minorenni del distretto nel quale si trovano, i minori di cui sia accertata la situazione di abbandono perché privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio.
La norma testé citata (art. 7) ha riguardo ai casi “ordinari” di adozione ed esclude, di norma, l’adozione da parte di coppie formate dallo stesso sesso, atteso che il procedimento adottivo è riservato ai coniugi e non è esteso agli uniti (come noto, l’unione civile è la formazione familiare composta da due persone dello stesso sesso: v. art. I, legge 20 maggio 2016 n. 76). L’adozione non è consentita nemmeno alle persone che siano solo conviventi di fatto (al riguardo, v. art. 1, comma 36, legge 76/2016 cit.).
A fronte di casi ordinari, la normativa disciplina anche «casi particolari» di adozione, nell’ambito dell’art. 44 1. 184 del 1983. L’adozione nei casi ordinari è detta “piena o legittimante” poiché esplica effetti totalmente parificanti rispetto alla genitorialità biologica. Gli effetti dell’adozione “non piena” sono invece regolati dagli artt. 45 e ss. 1. 184 del 1983.
L’adozione in casi particolari prevede che i minori possano essere adottati (“anche quando non ricorrono le condizioni di cui al comma 1 dell’articolo 7): a) da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, anche maturato nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento, quando il minore sia orfano di padre e di madre; b) dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge; c) quando il minore si trovi nelle condizioni indicate dall’articolo 3, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e sia orfano di padre e di madre; d) quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo.
Adozione piena e adozione in casi particolari rappresentano due diversi istituti giuridici, anche se, in concreto, gli Autori dibattono circa la persistente diversità effettiva, alla luce delle modifiche apportate al “sistema” dal dlgs. n. 154 del 2013. L’adozione cd. legittimante, come visto, abilita l’adozione (nazionale o internazionale) di bambini in stato di abbandono, prevedendo una corsia preferenziale in favore delle persone con cui il minore1 abbia instaurato legami affettivi significativi e un rapporto stabile e duraturo (si tratta, in genere, della cd. famiglia affidataria: v. art. 5-bis, legge 173 del 2015). Per effetto dell’adozione ordinaria, la relazione tra minore e adottante è del tutto equiparata a quella sussistente tra genitore biologico e la propria prole.
La “adozione in casi particolari” è ammessa, invece, in diversi casi specifici che concernono, per lo più, ipotesi in cui vi è già una relazione genitoriale di fatto tra un bimbo ed un adulto. La stessa è consentita anche ai singoli ed alle coppie non sposate. Si tratta dell’ipotesi di bambini già curati da parenti o conoscenti (lettera A) e dell’ipotesi di bambini che hanno instaurato una relazione filiale col nuovo coniuge del proprio genitore (lettera B). In questi casi non si tratta di trovare un genitore per un bambino abbandonato ma di tutelare e coprire giuridicamente situazioni in cui un bambino ha già chi si occupa di lui, dove vi è già un “genitore di fatto” che è tuttavia privo di riconoscimento legale formale (sul “valore” dei legami genitoriali di fatto, cfr. legge 173 del 2015 e Corte Cost. n. 225 del 2016). L’adozione in casi particolari è anche prevista per bambini orfani portatori di handicap (lettera C), per i quali, essendo l’adozione ammessa anche per i singoli e le coppie non sposate, viene così ampliata la platea degli aspiranti adottanti.
L’adozione in casi particolari è prevista anche quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo (art. 44, lett. d, legge 184 del 1983): si tratta della norma di riferimento per l’odierna decisione. In passato, infatti, la disposizione è stata interpretata dalla giurisprudenza in modo restrittivo, come applicabile comunque alla ipotesi del bambino “in stato di abbandono”. Si sosteneva, dunque, che la norma ampliasse il ventaglio degli adottanti a fronte di minori in stato di abbandono, difficilmente adottabili e di fatto rimasti senza proposte adottive: come per il caso di bambini affetti da patologie psichiatriche o fisiche invalidanti. La giurisprudenza più recente ha mutato indirizzo e interpretato la norma in modo diverso: secondo il nuovo trend pretorile, la disposizione prevedendo che “vi sia la constata impossibilità di affidamento preadottivo”, fa riferimento (non solo a situazioni di impossibilità materiale di adottare bambini in stato di abbandono, ma anche) ad ogni altra ipotesi di impossibilità giuridica di adottare con adozione legittimante. Si tratta, cioè, di casi in cui non vi, .è uno stato di abbandono e dove, tuttavia, l’adozione appare comunque consigliabile per una migliore tutela dei diritti del minore. Su questa linea si sono ritenuti adottabili bambini non abbandonati che risultano affidati da anni ad una coppia o ad un singolo.
Si arriva così al tema oggetto della presente indagine: proprio attraverso il menzionato art. 44 lett. d), infatti, si è arrivati ad affermare che, nell’ipotesi di minore concepito e cresciuto nell’ambito di una coppia dello stesso sesso, «sussiste il diritto ad essere adottato dalla madre non biologica, secondo le disposizioni sulla adozione in casi particolari ex art. 44 lett. D della Legge 4 maggio 1983, n. 184 ed a prendere il doppio cognome, sussistendo, in ragione del rapporto genitoriale di fatto instauratosi fra il genitore sociale ed il minore, l’interesse concreto del minore al suo riconoscimento». In questi termini sì è pronunciato originariamente il Tribunale per i Minorenni di Roma, con sentenza 30 luglio 2014 (est. Cavallo), inaugurando una presa di posizione ermeneutica confermata negli arresti successivi (Trib. Minorenni Roma, 22 ottobre 2015, est. Cavallo; Trib. Minorenni Roma, 23 dicembre 2015, est. Cavallo), anche nel secondo grado. In particolare, secondo il giudice d’appello romano, «nell’ipotesi di minore concepito e cresciuto nell’ambito di una coppia dello stesso sesso, sussiste il diritto ad essere adottato dalla madre non biologica, secondo le disposizioni sulla adozione in casi particolari ex art. 44 lett. D della Legge 4 maggio 1983, n. 184, sussistendo, in ragione del rapporto genitoriale di fatto instauratosi fra il genitore sociale ed il minore, l’interesse concreto del minore al suo riconoscimento; la sussistenza ditale rapporto genitoriale di fatto e del conseguente superiore interesse al riconoscimento della bigenitorialità devono essere operate in concreto sulla base delle risultanze delle indagini psico-sociali» (Corte App. Roma, 23 dicembre 2015, Pres. Montaldi, est. Pagliari); della stessa idea la Corte di Appello di Torino che, riformando il primo grado, afferma «l’ipotesi di adozione in casi particolari ex art. 44 lett. D della Legge 4 maggio 1983, n. 184 può trovare applicazione anche in caso di impossibilità giuridica di affidamento preadottivo per non essere il minore dichiarato in stato di abbandono sussistendo un genitore biologico che ne ha cura; la norma può pertanto trovare applicazione anche nel caso in cui sussista l’interesse concreto del minore al riconoscimento del rapporto genitoriale di fatto instauratosi con l’altra figura genitoriale sociale, seppure dello stesso sesso» (Corte App. Torino, Pres. Mecca, est. Lanza).
La questione della adozione coparentale è stata infine affrontata dalla Suprema Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi con riguardo alla impugnazione della pronuncia della Corte di Appello romana del 23 dicembre 2015. Definendo il procedimento in senso conforme alla decisione impugnata, la Suprema Corte di Cassazione ha, in primis, affermato che in ipotesi di domanda di adozione in casi particolari da parte della compagna della madre biologica non sussiste alcun conflitto di interessi fra quest’ultima e la figlia e non pertanto alcuna necessità di nominare un curatore speciale. Ha quindi osservato che l’ipotesi di adozione in casi particolari ex art. 44 lett. D della Legge 4 maggio 1983, n. 184 può trovare applicazione anche in caso di impossibilità giuridica di affidamento preadottivo per non essere il minore dichiarato in stato di abbandono sussistendo un genitore biologico che ne ha cura; la norma può pertanto trovare applicazione anche nel caso in cui sussista l’interesse concreto del minore al riconoscimento del rapporto genitoriale di fatto instauratosi con l’altra figura genitoriale sociale, seppure dello stesso sesso (Cass. Civ., sez. I, sentenza 26 maggio 2016 n. 12962, Pres. Della Palma, est. Acierno). In tempi recenti, l’indirizzo del tutto maggioritario in giurisprudenza è stato, infine, avallato dalla Corte di Appello di Milano, con la pronuncia 9 febbraio 2017.
Reputa questo Tribunale che l’indirizzo sin qui illustrato sia stato anche confermato dalla legge n. 76 del 2016. In primo luogo, la nuova normativa ha eletto le coppie formate da persone dello stesso sesso, ove sussistenti vincoli affettivi, al rango di “famiglia” (è inequivoco il riferimento, nella normativa, alla “vita familiare”, a tacer d’altro), così offrendo all’adozione in casi particolari, un substrato relazionale solido, sicuro, giuridicamente tutelato. Soprattutto, come ben ha messo in evidenza la Corte di Appello di Milano, nella decisione citata, la legge di nuovo conio ha confermato l’orientamento di Cassazione, con l’articolo I comma 20: “al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge », «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni dì cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”.
Ebbene, come hanno sottolineato i commentatori, questa norma nasce da un compromesso legislativo, reso necessario a seguito dello stralcio dell’articolo che prevedeva una modifica dell’art. 44 lettera b). Per effetto di detto stralcio, il Legislatore ha sentito ìl bisogno di aggiungere una locuzione che non può essere interpretata in nessun altro modo se non, come clausola di salvaguardia, altrimenti non se ne comprenderebbe il senso, avendo già detto, che l’equiparazione del termine coniuge all’unito civilmente vale per le leggi in vigore tranne che per la 184/83, ovvero l’espressione: “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalla norme vigenti”. Che resti fermo quanto previsto può apparire pleonastico ma è fatto salvo anche quanto consentito, evidentemente dalla interpretazione giurisprudenziale così come si è sviluppata nel tempo e come indicata da ultimo dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 12962/16. E’ insomma evidente che dalla legge n. 76 del 2016 non emerge affatto una volontà del Legislatore di delimitare più rigidamente i confini interpretativi dell’adozione in casi particolari ma, semmai, emerge la volontà contraria, tanto è vero che, successivamente alla emanazione della legge, vi sono state altre pronunzie che, in casi analoghi a quello in esame, hanno accolto la domanda di adozione ex art. 44 d).
Questa lettura è stata anche seguita in Dottrina ed è ritenuta corretta da questo Tribunale. La «clausola di salvaguardia» che chiude il comma 20 rende immune dall’eccezione alla clausola generale di equivalenza prevista per la legge sulle adozioni «quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti». In questo modo, tale disposizione apre alla possibilità di un’applicazione alle unioni civili delle disposizioni in materia di adozioni, ma solo, per l’appunto, nei limiti del diritto vigente. Come ha efficacemente rilevato la Corte di Appello di Milano, la clausola nasce dalla consapevolezza degli effetti che lo stralcio di cui si è detto avrebbe comportato al consolidato orientamento giurisprudenziale che riconosce alle coppie di persone dello stesso sesso la possibilità di ricorrere alla c.d. «adozione coparentale» (stepchild o secondparent adoption). Pertanto, allo stralcio dell’articolo 5 è seguita l’aggiunta della clausola in parola, proprio allo scopo di congiurare che fosse «impedito agli omosessuali di continuare a fruire di un istituto già esistente». La sua funzione, dunque, è quella di chiarire all’interprete che la mancata previsione legislativa dell’accesso all’adozione coparentale non deve essere letta come un segnale di arresto o di contrarietà rispetto all’orientamento consolidatosi negli ultimi anni in giurisprudenza in favore dell’adozione coparentale ai sensi della lettera d).
In conclusione, è opportuno rammentare che l’interpretazione qui in esame risulta avallata non solo dalla Corte di Cassazione nella pronuncia n. 12962 del 2016, ma anche da Corte cost., 7 ottobre 1999, n. 383, secondo cui la ratio dell’effettiva realizzazione degli interessi del minore consente l’adozione per “constatata impossibilità di affidamento preadottivo” anche quando i minori “non sono stati o non possono essere formalmente dichiarati adottabili”.
Alla luce di quanto sin qui osservato, ove le indagini ex lege diano esito positivo, l’adozione risponda all’interesse del minore e vi sia il consenso di tutti i soggetti interessati «non si comprende come possano essere posti ostacoli alla richiesta di adozione se non per il prevalere di pregiudizi legati ad una concezione dei vincoli familiari non più rispondente alla ricchezza e complessità delle relazioni umane nell’epoca attuale. Del resto proprio la interpretazione evolutiva della Corte EDU della nozione di vita familiare di cui all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, è giunta ad affermare che nell’ambito della vita familiare deve annoverarsi il rapporto fra persone dello stesso sesso, rapporto che non può quindi essere escluso dal diritto di famiglia con la conseguenza che non già le aspirazioni o i desideri degli adulti debbano avere necessariamente pari riconoscimento da parte dell’ordinamento, bensì i diritti dei bambini» (Corte App. Milano, cit.).
Va rimarcato che la relazione affettiva tra due persone dello stesso sesso, che si riconoscano come parti di un medesimo progetto di vita, con le aspirazioni, i desideri e i sogni comuni per il futuro, la condivisione insieme dei frammenti di vita quotidiana, costituisce a tutti gli effetti una “famiglia”, luogo in cui è possibile la crescita di un minore, senza che il mero fattore “omoaffettività” possa costituire ostacolo formale.
La disamina sin qui condotta induce a dover accogliere la domanda dell’istante sulla scorta del seguente principio di diritto: in virtù della clausola di salvaguardia di cui all’art. I comma 20 legge n. 76 del 2016, l’ipotesi di adozione in casi particolari ex art. 44 lett. D della Legge 4 maggio 1983, n. 184 può trovare applicazione anche in caso di impossibilità giuridica di affidamento preadottivo per non essere il minore dichiarato in stato di abbandono sussistendo un genitore biologico che ne ha cura; la norma può pertanto trovare applicazione anche nel caso in cui sussista l’interesse concreto del minore al riconoscimento del rapporto genitoriale di fatto instauratosi con l’altra figura genitoriale sociale, seppure dello stesso sesso.
In conclusione, il ricorso merita accoglimento. Nulla per le spese di lite.
PER QUESTI MOTIVI
DICHIARA l’adozione di C. nato a xxxx in data xxxx, da parte di A. nato a xxxx, in data xxxx
ORDINA la comunicazione della presente sentenza per esteso alla Procura, alle parti e all’Ufficiale dello stato Civile del Comune di Bologna per le trascrizioni e i provvedimenti di competenza.

Camera dei deputati – proposta di legge

Modifiche all’articolo 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, in materia di assegno spettante a seguito di scioglimento del matrimonio o dell’unione civile
Presentata il 27 luglio 2017

ONOREVOLI COLLEGHI ! — Alcuni precedenti giurisprudenziali in materia di assegno divorzile hanno avuto vasta risonanza presso la pubblica opinione per l’eccessiva entità dell’assegno disposto a favore del coniuge
« debole ». Per altro verso la cronaca segnala spesso casi di difficili condizioni di vita in cui vengono a trovarsi gli ex-coniugi (generalmente i mariti) in quanto costretti a corrispondere un assegno che assorbe
parte cospicua del loro guadagno. Si tratta di casi in cui si è applicata, non sempre appropriatamente, la norma sull’assegno post-matrimoniale come interpretata da una consolidata giurisprudenza,
che ravvisa, come primo presupposto e criterio di determinazione dell’assegno, l’assenza di un reddito sufficiente a mantenere il tenore di vita di cui si godeva in costanza di matrimonio.
In sede di giurisprudenza di legittimità si è però avuto, di recente, un segno del tutto contrario (sentenza della Cassazione civile n. 11504 del 10 maggio 2017). Si è infatti affermato che l’assegno divorzile può
essere concesso solamente all’ex coniuge che non abbia l’autosufficienza economica,
che, cioè, non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. Adeguandosi a questa nuova interpretazione una recente ordinanza del tribunale di Milano, emessa il 22 maggio 2017, ha affermato che l’assegno può essere chiesto dall’ex coniuge avente diritto al gratuito patrocinio, ossia dall’ex
coniuge che versa in condizione di povertà. In base alla nuova interpretazione, l’ex coniuge che non percepisca quanto è strettamente necessario per vivere può pretendere solamente gli alimenti, senza che si
possa fare alcun riferimento al rapporto matrimoniale ormai estinto. Nessuna rilevanza, conseguentemente, avrebbero, tra l’altro, la durata del matrimonio e l’impegno dedicato dal coniuge alla famiglia. Altre sentenze hanno invece escluso che lo stato di povertà sia il necessario presupposto dell’assegno divorzile, per la determinazione del quale va tenuto in conto, anche, ma non esclusivamente, il tenore di vita matrimoniale insieme ad altri criteri, come l’apporto personale ed economico
dato da ciascuno alla conduzione familiare (tribunale di Udine, sentenza n. 513 del 1°
giugno 2017). Il contrastante quadro giurisprudenziale che si è venuto a creare richiede un urgente intervento legislativo, volto a fissare precise linee normative rispondenti all’esigenza di evitare, da un lato,
che lo scioglimento del matrimonio sia causa di indebito arricchimento e, dall’altro, che sia causa di degrado esistenziale del coniuge economicamente debole che abbia confidato nel programma di vita del matrimonio, dedicandosi alla cura della famiglia rinunciando in tal modo a sviluppare una buona formazione professionale e a svolgere una proficua attività di lavoro o di impresa.
In tale direzione sono orientati gli ordinamenti europei dove è tenuta presente l’esigenza che al coniuge divorziato debole venga dato un aiuto economico destinato, per quanto possibile, a compensare la disparità o lo squilibrio economico creato dallo scioglimento del matrimonio (articolo
276, I comma, del codice civile francese; articolo 97, I comma, del codice civile spagnolo). Ai fini della determinazione di tale aiuto in qualche codice o legge è fatto espresso riferimento al livello di vita matrimoniale (paragrafo 1573 del codice civile tedesco; sezione 25, comma 2, lettera d),della legge matrimoniale inglese – Matrimonial causes Act 1973) e ad altri elementi,quale la cura di un figlio comune alla quale sia chiamato il coniuge divorziato. Al tempo stesso è avvertita l’esigenza che la corresponsione dell’aiuto economico non dia luogo a risultati iniqui o favorisca il coniuge per colpa esclusiva del quale è stato pronunziato il divorzio (articolo 370 del codice civile francese). Avvertita è anche l’esigenza di contenere nel tempo la durata dell’aiuto economico, prevedendone la corresponsione in una somma capitale (articolo 270 del codice civile francese) o una limitazione temporale quando una corresponsione a tempo indeterminato risulti ingiustificata anche in considerazione della breve durata del matrimonio (paragrafo 1573 del codice civile tedesco).
Le disposizioni di cui alla presente proposta sono volte a prevedere, anche nel nostro ordinamento, una soluzione di equità familiare tanto attesa dalla società civile.

Atti Parlamentari — 2 — Camera dei Deputati
XVII LEGISLATURA A.C. 4605
PROPOSTA DI LEGGE
__
ART. 1.
1. Il sesto comma dell’articolo 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, è sostituito dal seguente:
« Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili
del matrimonio, il tribunale dispone l’attribuzione di un assegno a favore di un
coniuge, destinato a compensare, per quanto possibile, la disparità che lo scioglimento o
la cessazione degli effetti del matrimonio crea nelle condizioni di vita dei coniugi ».
2. Dopo il sesto comma dell’articolo 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, sono
inseriti i seguenti: « Nella determinazione dell’assegno il tribunale valuta le condizioni economiche in
cui i coniugi vengono a trovarsi a seguito della fine del matrimonio; le ragioni dello
scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio; la durata del matrimonio;
il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e
alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune; il reddito di entrambi,
l’impegno di cura personale di figli comuni minori o disabili, assunto dall’uno o dal-
l’altro coniuge; la ridotta capacità reddituale dovuta a ragioni oggettive; la mancanza di un’adeguata formazione professionale quale conseguenza dell’adempimento di doveri coniugali.
Tenuto conto di tutte le circostanze il tribunale può predeterminare la durata
dell’assegno nei casi in cui la ridotta capacità reddituale del richiedente sia dovuta a
ragioni contingenti o comunque superabili.
L’assegno non è dovuto nel caso in cui il matrimonio sia cessato o sciolto per violazione, da parte del richiedente l’assegno, degli obblighi coniugali ».
3. Ai sensi dell’articolo 1, comma 25,
della legge 20 maggio 2016, n. 76, le disposizioni introdotte dal comma 1 del presente
Atti Parlamentari — 3 — Camera dei Deputati
XVII LEGISLATURA A.C. 4605
articolo si applicano anche nei casi di scioglimento delle unioni civili.
4. Al comma 25 dell’articolo 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76, le parole: « dal
quinto all’undicesimo comma » sono sostituite dalle seguenti: « dal quinto al quindicesimo comma ».

RIMBORSI E RESTITUZIONI IN COMUNIONE DEI BENI

di Gianfranco Dosi
I
L’identificazione della massa da dividere dopo la cessazione del regime di comunione

I. L’identificazione della massa da dividere dopo la cessazione del regime di comunione
II. I rimborsi
a) il rimborso delle “somme prelevate dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni previste dall’articolo 186”
b) Il rimborso del “valore dei beni di cui all’art. 189”
III. Le restituzioni
IV. Il momento in cui avvengono i rimborsi e le restituzioni
V. I rimborsi nel corso della comunione per atti compiuti da un coniuge senza il consenso dell’altro
VI. La natura del credito di restituzione
La cessazione del regime legale della comunione dei beni per una delle cause previste nell’art. 191 c.c. 1 – la più diffusa delle quali è certamente la separazione – o in seguito alla morte di un coniuge, determina il passaggio dei coniugi (o del coniuge superstite con gli altri eredi se ve ne sono) in una condizione di comunione ordinaria nella quale ciascuno ha il diritto potestativo di chiedere la divisione (concordata o giudiziale) dei beni comuni (in comunione immediata e in comunione de residuo)2.
Le norme del regime legale prevedono che la divisione dei beni debba essere fatta per quote uguali – ripartendo, cioè, rigorosamente “in parti uguali l’attivo e il passivo” (art. 194 c.c.3) – senza possibilità, quindi, di pretendere conguagli in relazione all’eventuale diverso impegno di spesa tra i coniugi negli acquisti, ma, naturalmente, nel rispetto anche della diversa volontà dei condividenti i quali potrebbero anche accordarsi per soluzioni diverse.
Prima di effettuare però la divisione è necessario identificare correttamente la consistenza della massa da dividere attraverso quelle operazioni preliminari (eventuali) a cui fa riferimento nel codice l’art. 192 (Rimborsi e restituzioni); norma che attiene ai rapporti interni della vita di coppia.
Si potrà procedere alla divisione solo una volta individuata esattamente la massa comune da dividere. E per determinare esattamente la massa in comunione da dividere potrebbe essere necessario reintegrare la comunione (rimborsi) ove vi fossero stati nel corso del matrimonio prelievi per finalità personali da parte di uno o entrambi i coniugi o eliminare dalla massa (restituzioni) somme personali impiegate da uno o entrambi i coniugi per spese e investimenti del patrimonio comune.
Naturalmente la divisione concerne i beni comuni e non quelli esclusi dalla comunione, come i beni che appartenevano a ciascun coniuge da prima del matrimonio o che gli sono pervenuti per

1 Art. 191 (Scioglimento della comunione).
La comunione si scioglie per la dichiarazione di assenza o di morte presunta di uno dei coniugi, per l’annullamento, per lo scioglimento o per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, per la separazione personale, per la separazione giudiziale dei beni, per mutamento convenzionale del regime patrimoniale, per il fallimento di uno dei coniugi.
Nel caso di separazione personale, la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato. L’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione dello scioglimento della comunione. (1)
Nel caso di azienda di cui alla lettera d) dell’articolo 177, lo scioglimento della comunione può essere deciso, per accordo dei coniugi, osservata la forma prevista dall’articolo 162.
2 cfr la voce DIVISIONE DEI BENI DELLA COMUNIONE
3 Art. 194 (Divisione dei beni della comunione)
La divisione dei beni della comunione legale si effettua ripartendo in parti uguali l’attivo e il passivo.
Il giudice, in relazione alle necessità della prole e all’affidamento di essa, può costituire a favore di uno dei coniugi l’usufrutto su una parte dei beni spettanti all’altro coniuge.

donazione o successione. Correttamente quindi questi beni possono essere prelevati da chi ne ha la proprietà e il prelevamento avviene al momento in cui si effettua la divisione. A queste operazioni fanno riferimento gli articoli 195 (Prelevamento dei beni mobili), 196 (Ripetizione del valore in caso di mancanza delle cose da prelevare) e 197 (Limiti al prelevamento nei riguardi dei terzi) che riguardano, appunto, il prelevamento, da parte dei coniugi o degli eredi, dei beni mobili che appartenevano ai coniugi stessi prima della comunione o che sono ad essi pervenuti durante la medesima per successione o donazione, ovvero del loro valore.
In questa sede ci si sofferma sull’art. 192 (Rimborsi e restituzioni):
Ciascuno dei coniugi è tenuto a rimborsare alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni previste dall’articolo 186.
È tenuto altresì a rimborsare il valore dei beni di cui all’articolo 189, a meno che, trattandosi di atto di straordinaria amministrazione da lui compiuto, dimostri che l’atto stesso sia stato vantaggioso per la comunione o abbia soddisfatto una necessità della famiglia.
Ciascuno dei coniugi può richiedere la restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune.
I rimborsi e le restituzioni si effettuano al momento dello scioglimento della comunione; tuttavia il giudice può autorizzarli in un momento anteriore se l’interesse della famiglia lo esige o lo consente.
Il coniuge che risulta creditore può chiedere di prelevare beni comuni sino a concorrenza del proprio credito. In caso di dissenso si applica il quarto comma. I prelievi si effettuano sul denaro, quindi sui mobili e infine sugli immobili.
Può essere utile ricordare che la disposizione sui rimborsi e sulle restituzioni, in quanto norma sulla comunione dei beni, trova anche applicazione, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, per le unioni civili (art. 1, comma 13, legge 20 maggio 2016, n. 76) e per i conviventi di fatto che, nell’eventuale contratto di convivenza, abbiamo scelto il regime della comunione dei beni (art. 1, comma 53 della legge indicata).
II I rimborsi
a) il rimborso delle “somme prelevate dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni previste dall’articolo 186”
L’art. 192 prevede che al momento della cessazione del regime “Ciascuno dei coniugi è tenuto a rimborsare alla comunione” le somme o il valore dei beni prelevati dalla comunione sostanzialmente per finalità personali.
La prima precisazione da fare è che in caso di prelevamenti di denaro ci si riferisce a prelievi effettuati naturalmente con il consenso dell’altro coniuge, altrimenti troverà applicazione l’art. 184 che, in materia di prelievi di denaro, consente l’immediata rimborso di prelievi effettuati senza il consenso dell’altro.
Poiché le somme a cui fa riferimento questa norma che ne autorizza il rimborso, sono quelle prelevate dal patrimonio comune “per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni previste dall’articolo 186” è intanto necessario chiarire a cosa si faccia riferimento.
L’articolo 186 del codice 4 definisce gli obblighi gravanti sui beni della comunione, indicando quali sono le obbligazioni che, essendo state contratte nell’interesse della comunione (pesi, oneri, spese di amministrazione) e della famiglia (mantenimento, istruzione ed educazione dei figli, obbligazioni contratte dai coniugi, anche separatamente, nell’interesse della famiglia; obbligazioni contratte congiuntamente dai coniugi) sono garantite nei confronti dei creditori dai beni della comunione stessa. E’ evidente quindi che si tratta di obbligazioni le cui conseguenze, essendo state tali obbligazioni contratte nell’interesse della comunione e della famiglia, devono essere sopportate da entrambi i coniugi, anche attraverso l’aggressione da parte dei creditori del patrimonio personale (tanto è vero che, come si dirà tra breve, possono essere richieste in restituzione da chi le ha anticipate). Quindi i prelevamenti effettuati per finalità nell’interesse della famiglia non dovranno essere rimborsati.
Potrebbe, però, essere avvenuto nella vita di coppia che uno dei coniugi abbia attinto unilateralmente (sia pure con il consenso dell’altro) al patrimonio comune per finalità del tutto lecite e ammissibili ma che oggettivamente non erano nell’interesse della famiglia ma nell’interesse per¬

4 Art. 186 (Obblighi gravanti sui beni della comunione).
I beni della comunione rispondono:
a) di tutti i pesi ed oneri gravanti su di essi al momento dell’acquisto;
b) di tutti i carichi dell’amministrazione;
c) delle spese per il mantenimento della famiglia e per l’istruzione e l’educazione dei figli e di ogni obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell’interesse della famiglia;
d) di ogni obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi.

sonale. E’ giusto quindi che rimborsi alla comunione, al momento della divisione, quanto ha avuto bisogno o desiderio di prelevare per finalità estranee ai bisogni della comunione e della famiglia.
Se, insomma, un coniuge per un proprio viaggio di piacere ha utilizzato una determinata somma del patrimonio comune, la deve rimborsare alla comunione al momento della cessazione del regime legale. Non altrettanto dovrà fare, e non potrà l’altro chiedere il rimborso, se quelle somme sono servite per esempio per l’educazione dei figli o per curare una malattia, cioè per una finalità concernente la vita familiare (Trib. Salerno, Sez. I, 21 novembre 2009 dove si fa notare che in caso di obbligazioni contributive – come quelle per il mantenimento – sarebbe comunque inammissibile la pretesa dell’altro coniuge al rimborso).
Un esempio illuminante è contenuto in Cass. civ. Sez. I, 14 marzo 1992, n. 3141 in cui un coniuge in comunione aveva realizzato in costanza di matrimonio su suolo di proprietà personale una costruzione (che appartiene esclusivamente al proprietario del suolo a titolo originario, in virtù delle disposizioni generali in materia di accessione e, pertanto, non costituisce oggetto della comunione medesima). Avendo il coniuge per la costruzione in questione impiegato danaro comune, la Corte di cassazione precisava che il coniuge che si è giovato dell’accessione è tenuto a rimborsare alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune ed utilizzate per l’edificazione a norma dell’art. 192, 1° comma, c. c., mentre, nel caso in cui nella costruzione sia stato impiegato danaro appartenente in via esclusiva all’altro coniuge, quest’ultimo ha diritto di ripetere le relative somme ai sensi dell’art. 2033 c. c. trattandosi in caso contrario di arricchimento ingiustificato del coniuge proprietario.
b) Il rimborso del “valore dei beni di cui all’art. 189”
Come si è detto l’art. 192 al secondo comma prevede che ciascun coniuge rimborsi “il valore dei beni di cui all’articolo 189, a meno che, trattandosi di atto di straordinaria amministrazione da lui compiuto, dimostri che l’atto stesso sia stato vantaggioso per la comunione o abbia soddisfatto una necessità della famiglia”.
Come si capisce bene, qui il riferimento all’art. 189 lascia intendere che – a differenza dei prelevamenti di denaro a cui accenna il primo comma – si tratta di atti compiuti sostanzialmente senza il consenso dell’altro coniuge che hanno determinato un’obbligazione inadempiuta e la conseguente aggressione dei beni della comunione da parte dei creditori.
Infatti l’art. 189 del codice 5 definisce la sorte delle obbligazioni contratte da un coniuge “dopo il matrimonio… per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza il necessario consenso dell’altro” e di quelle contratte da un coniuge “anteriormente al matrimonio” prescrivendo che i beni della comunione rispondono per tali obbligazioni. Si pensi all’acquisto di un’auto di lusso acquistata a rate prima del matrimonio o dopo il matrimonio. Ebbene se quel coniuge non riesce a saldare il prezzo dell’auto acquistata, ne rispondono secondo l’art. 189 i beni della comunione (sia pure fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato). Il che significa che la comunione si è comunque depauperata (a causa dell’espropriazione da parte del creditore) per colpa del coniuge che, avendo contratto quell’obbligazione, non è stato in grado di adempierla. Pertanto il coniuge responsabile di tale depauperamento deve rimborsare alla comunione il valore del depauperamento stesso.
Se, tuttavia, quel coniuge – ecco il senso del secondo comma dell’art. 192 – dimostra, ma limitatamente alle sole obbligazioni contratte dopo il matrimonio, che l’atto da lui compiuto “sia stato vantaggioso per la comunione o abbia soddisfatto una necessità della famiglia” (quindi non un semplice atto di interesse della famiglia) allora il rimborso non è dovuto. Così se, per esempio, invece di un’auto di lusso, quel coniuge abbia acquistato un’utilitaria semplicemente per muoversi meglio in città e poter raggiungere più facilmente il posto di lavoro, avendo soddisfatto una necessità della famiglia non dovrà rimborsare quella spesa.
III Le restituzioni
Il terzo comma dell’art. 192 prevede che “Ciascuno dei coniugi può richiedere la restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune”.
Si tratta di una diposizione che ha dato del filo da torcere agli interpreti.
A cosa si riferisce la norma quando parla di “somme prelevate dal patrimonio personale”? Si tratta di dare a questa espressione una interpretazione che non rischi di vanificare il senso generale della comunione.
Si potrebbero, infatti, sostenere due interpretazioni. La prima è che le “somme” in questione sarebbero tutti i proventi di un coniuge impiegati in “spese ed investimenti del patrimonio comune”.

5 Art. 189 (Obbligazioni contratte separatamente dai coniugi).
I beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato, rispondono, quando i creditori non possono soddisfarsi sui beni personali, delle obbligazioni contratte, dopo il matrimonio, da uno dei coniugi per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza il necessario consenso dell’altro.
I creditori particolari di uno dei coniugi, anche se il credito è sorto anteriormente al matrimonio, possono soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato. Ad essi, se chirografari, sono preferiti i creditori della comunione.

Se così fosse, però, la previsione della possibile restituzione di quanto un coniuge abbia speso (da solo o in più rispetto all’altro) per l’acquisto di un bene comune, vanificherebbe il principio della parità tra coniugi nel momento della divisione, in quanto, come si sa, l’art 194 (Divisione dei beni della comunione) prevede al primo comma che “la divisione dei beni della comunione legale si effettua ripartendo in parti uguali l’attivo e il passivo”.
Deve essere, perciò, adottata un’altra interpretazione secondo la quale il “patrimonio personale” coincide con “i beni personali” di cui all’art. 179. Le “somme prelevate dal patrimonio personale” sono di conseguenza solo quelle derivanti per esempio da una donazione o da successione o derivanti da un risarcimento dei danni, ma non in ogni caso i proventi personali.
Qualcuno parla a tale proposito di denaro personale (i proventi di attività separata) e di denaro personalissimo (il denaro, cioè, rientrante nell’ambito dei beni personali di cui all’art. 179 c.c.).
Si propone quindi una equiparazione tra “patrimonio personale” e “beni personali” – come indicati nell’art. 179 6 – per affermare che qualunque costo un coniuge abbia sostenuto per far fronte a “spese ed investimenti del patrimonio comune” utilizzando denaro proveniente dai propri “beni personali” costituisce un importo a suo credito e di cui il coniuge può richiedere la restituzione al momento della cessazione del regime legale. Le somme di cui si può chiedere la restituzione devono essere, quindi, riconducibili alla fattispecie dell’art. 179 e non a quella dell’art. 177, lett. c.
Non è condivisibile l’opinione che ritiene che le somme derivanti dalla vendita di un bene personale diventerebbero proventi personali che, se impiegati per spese e investimenti del patrimonio comune non darebbero luogo ad un diritto alla restituzione. L’art. 179 lett. f prevede infatti che gli “acquisti” effettuati con denaro proveniente dalla vendita di un bene personale non entrano in comunione. L’acquisto per surrogazione (dichiarato nell’atto di acquisto) lascia, quindi, il bene acquistato personale del coniuge acquirente (Cass. civ. Sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1197). Pertanto il denaro ricavato dalla vendita di beni personali è da considerare patrimonio personale ai fini della richiesta di restituzione.
La norma dell’art. 192, comma 3 c.c. attribuisce a ciascuno dei coniugi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, e non già alla ripetizione, totale o parziale, del denaro personale e dei proventi dell’attività separata (che cadono nella comunione “de residuo”, solamente per la parte non cosumata al momento dello scioglimento) impiegati per l’acquisto di beni costituenti oggetto della comunione (Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2012, n. 19454; Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2005, n. 10896; Trib. Lecce, Sez. II, 29 luglio 2016; App. Taranto 16 gennaio 2014; Trib. Rovigo, 14 febbraio 2011; Trib. Taranto 9 maggio 2000; Trib. Milano 25 maggio 1998; Trib. Catania 21 aprile 1987).
E’ evidente anche che il diritto del coniuge in sede di divisione alla restituzione delle somme prele¬vate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, non riguarda il conferimento alla comunione di beni personali (Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2005, n. 2354; Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2005, n. 10896; App. Catania, 7 gennaio 2008) che con il conferimento si trasformano in beni comuni soggetti alla disciplina della comunione legale e quindi al principio della divisione in parti uguali in sede di divisione.
Quindi Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2005, n. 2354 e Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2005, n. 10896 delimitano il diritto ai rimborsi e alle restituzioni solo alle spese compiute in miglioramenti su beni già facenti parte della comunione, escludendo che il coniuge, che abbia usato proventi per¬sonali per acquisti caduti in comunione, possa pretenderne la restituzione. In queste sentenze si afferma infatti che per effetto della trasformazione dei proventi personali in beni che diventano della comunione, detti beni restano immediatamente soggetti alla disciplina della comunione legale, e quindi al principio inderogabile di cui all’art. 194 c.c., comma 1, il quale impone che, in sede di divi¬sione, l’attivo e il passivo siano ripartiti in parti eguali, indipendentemente dalla misura della parte¬cipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione”.
Ovviamente è sempre fatta salva la prova che i miglioramenti o gli investimenti integrino donazioni indirette (App. Milano, 19 novembre 1993; Trib. Bergamo, 18 marzo 1983) di cui sarebbe certamente escluso il diritto alla restituzione.
L’espressione “spese ed investimenti del patrimonio comune” si riferisce a qualunque acquisto effettuato dai coniugi (e non è chiaro, a tale proposito, perché il codice non abbia utilizzato questa

6 Art. 179 (Beni personali)
Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge:
a) i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento;
b) i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione;
c) i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori;
d) i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di una azienda facente parte della comunione;
e) i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa;
f) i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto.
L’acquisto di beni immobili, o di beni mobili elencati nell’articolo 2683, effettuato dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente comma, quando tale esclusione risulti dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge.

espressione che sarebbe stata più chiara) o a qualunque miglioria apportata ad un bene della co¬munione, per esempio le spese di ristrutturazione.
Su chi chiede la restituzione incombe naturalmente l’onere probatorio circa il fatto che le spese e gli investimenti nel patrimonio comune sono state effettuate con denaro proveniente dal patrimo¬nio personale come sopra individuato.
IV Il momento e il modo con cui avvengono i rimborsi e le restituzioni
Si è fin qui detto che i rimborsi e le restituzioni avvengono al momento in cui si effettua la divisione essendo tali operazioni preordinate alla identificazione della massa da dividere.
Effettivamente la prima parte del quarto comma dell’art. 192 precisa che “I rimborsi e le restitu¬zioni si effettuano al momento dello scioglimento della comunione”.
Per questo motivo si ritiene pacificamente che nell’ambito di un giudizio di separazione tra coniu¬gi sono inammissibili le domande di divisione di beni mobili ed immobili, nonché di divisione del risparmio, rimborso e restituzione delle somme spettanti in dipendenza dell’amministrazione dei beni comuni prima della cessazione del regime della comunione legale tra i coniugi, in quanto esse si possono proporre solo al momento della divisione dei beni comuni (Trib. Torre Annunziata Sez. I, 8 maggio 2014).
Tuttavia la seconda parte del medesimo quarto comma avverte che – in difetto naturalmente di un accordo tra i coniugi – “il giudice può autorizzarli in un momento anteriore se l’interesse della fami¬glia lo esige o lo consente”. Il che significa che i rimborsi e le restituzioni possono anche avvenire in epoca precedente alla divisione se necessario per ripristinare anticipatamente una condizione di equità.
Secondo l’opinione comune espressa sul quarto comma dell’art. 192 in base al contenuto testua¬le del primo comma (“Ciascuno dei coniugi è tenuto a rimborsare alla comunione…”) i rimborsi concordati o autorizzati dal giudice prima della cessazione del regime devono avvenire non a favore dell’altro coniuge ma a favore della comunione (Cass. civ. Sez. I, 15 settembre 2004, n. 18564; Trib. Monza, 11 marzo 2009). Viceversa in caso di richieste di restituzione sarà il coniuge creditore che potrà pretendere personalmente il recupero di ciò che anticipato a vantaggio della comunione (Trib. Salerno, 14 maggio 2011 che fa, appunto, notare che se è vero che i coniugi non possono richiedere alcuna forma di restituzione fino a quando è vigente il regime della comunione, ciò può essere fatto con l’autorizzazione del giudice ove lo esiga l’interesse superiore della famiglia e dei figli in particolare).
Naturalmente l’autorizzazione del giudice ad effettuare rimborsi e restituzioni prima della cessa¬zione del regime legale della comunione riguarda, appunto, solo i rimborsi e le restituzioni. Per il resto vale sempre il principio generale che sino alla cessazione del regime legale (che in caso di separazione oggi coincide con l’autorizzazione a vivere separati contenuta nell’ordinanza resa in sede presidenziale) nessuno dei coniugi può rivendicare la disponibilità personale di rendite nei limiti della propria quota di comproprietà indivisa (cfr per esempio sul punto Cass. civ. Sez. I, 15 settembre 2004, n. 18564)
Le restituzioni e i rimborsi avvengono attraverso trasferimenti di denaro eventualmente con un conguaglio tra le rispettive pretese. Possono però anche avvenire (obbligazione facoltativa) at¬traverso prelevamenti dai beni della comunione. Lo si deduce dall’ultimo comma secondo cui “Il coniuge che risulta creditore può chiedere di prelevare beni comuni sino a concorrenza del proprio credito” mentre solo “in caso di dissenso si applica il quarto comma”. Il che significa che se non c’è accordo sul metodo del prelevamento dai beni della comunione il credito deve essere direttamente saldato dal coniuge debitore. L’ultima parte del comma precisa poi che “I prelievi si effettuano sul denaro [comune], quindi sui mobili [comuni] e infine sugli immobili [comuni]”.
Nessuna norma attribuisce alla parte titolare del diritto di prelievo un diritto di prelazione nei con¬fronti dei terzi creditori.
V I rimborsi nel corso della comunione per atti compiuti da un coniuge senza il consenso dell’altro
Non bisogna confondere i rimborsi dovuti da un coniuge alla comunione ai quali fa riferimento l’art. 192 – dovuti al momento della cessazione del regime in relazione all’uso personale di risorse della comunione (e quindi non finalizzato agli interessi della famiglia) che è stato fatto in corso di matrimonio da un coniuge – dai rimborsi ai quali allude l’art. 184 (Atti compiuti senza il necessario consenso) in cui si prevede che se un coniuge, senza il consenso dell’altro, compie atti (di aliena¬zione per esempio) di beni della comunione, l’altro può immediatamente chiederne l’annullamento (se si tratta di beni immobili o mobili registrati) oppure chiedere immediatamente la ricostituzione della comunione o il rimborso del loro valore (se si tratta di beni mobili).
L’art. 184 (Atti compiuti senza il necessario consenso) prevede che:
“(1) Gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro coniuge e da questo non convalidati sono annullabili se riguardano beni immobili o beni mobili elencati nell’articolo 2683.
(2) L’azione può essere proposta dal coniuge il cui consenso era necessario entro un anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell’atto e in ogni caso entro un anno dalla data di trascrizione. Se l’atto non sia stato trascritto e quando il coniuge non ne abbia avuto conoscenza prima dello scio¬glimento della comunione l’azione non può essere proposta oltre l’anno dallo scioglimento stesso.
(3) Se gli atti riguardano beni mobili diversi da quelli indicati nel primo comma, il coniuge che li ha compiuti senza il consenso dell’altro è obbligato su istanza di quest’ultimo a ricostituire la comu¬nione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non sia possibile, al pa¬gamento dell’equivalente secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione”.
Nel caso di cui all’art. 192 l’atto che determina la richiesta di rimborso è un prelevamento utilizzato da un coniuge per fini personali e non della famiglia o della comunione (prelevamento effettuato s’intende con il consenso dell’altro coniuge); nel caso, invece, di cui all’art. 184 l’atto incriminato è un atto di straordinaria amministrazione (In genere di alienazione per i beni mobili) compiuto sen¬za il necessario consenso dell’altro. In questo secondo caso il coniuge che non è stato interpellato potrebbe naturalmente accettare le conseguenze dell’atto ma ha il diritto di chiederne l’annulla¬mento o, se si tratta di beni mobili, di ricostituire la comunione nelle sua integrità.
Mentre i rimborsi di somme prelevate dal patrimonio comune per fini personali (art. 192) possono essere richiesti solo al momento della cessazione del regime (salvo, come si è visto che il giudice ne autorizzi il rimborso prima) la pretesa del coniuge non interpellato e dissenziente (art. 184) può essere realizzata subito come precisa la stessa norma e non è quindi fondata la tesi di App. Palermo Sez. II, 18 settembre 2013 che ritiene che anche in questo caso occorrerebbe atten¬dere la cessazione del regime.
Le due norme hanno due diversi campi d’azione in relazione agli atti dispositivi di somme di de¬naro: l’elemento differenziante è dato dal fatto che l’art. 184, ultimo comma, prende pur sempre le mosse dal presupposto che il coniuge agente abbia posto in essere un atto senza il consenso dell’altro (imposto dall’art. 180). Con la conseguenza che la sfera d’azione dell’art. 192, comma 1, si riduce ai prelievi consentiti dall’altro coniuge. Come esattamente rimarcato dagli autori che si sono occupati di questo argomento, l’obbligo del rimborso non può giustificare l’idea che ognuno dei coniugi abbia un’indiscriminata disponibilità del denaro comune, salva reintegrazione al mo¬mento dello scioglimento della comunione. Questa considerazione conduce a restringere l’ambito applicativo dell’art. 192 ai prelievi che siano stati effettuati con il consenso, anche tacito, dell’altro coniuge; mentre a fronte di un prelevamento del tutto abusivo, potrà pretendersene l’immediata restituzione senza che sorga la necessità di attendere la cessazione della comunione, ovvero l’au¬torizzazione giudiziale alla anticipazione del rimborso.
Nel caso in cui vi sia un contenzioso tra coniugi relativo alla restituzione di un bene che si assu¬me essere stato, per esempio, alienato indebitamente e uno dei due coniugi dovesse chiedere lo scioglimento della comunione, essendo nel frattempo intervenuta la cessazione del regime legale, tra i due procedimenti non vi è pregiudizialità – e quindi non può esservi sospensione ex art. 295 c.p.c. – in quanto l’accertamento sull’atto in contestazione “non condiziona in alcun modo la legit¬timazione dei coniugi a promuovere la divisione dei beni comuni, a seguito del verificarsi di una delle cause di scioglimento della comunione. Esso, infatti, non incide né sulla titolarità né sulla disponibilità dei beni da dividere, in quanto la disciplina dei debiti gravanti sui beni in comunione non comporta l’assoggettamento degli stessi ad alcun vincolo di destinazione, ma si risolve in un regolamento dei rapporti reciproci tra i coniugi, inteso alla tutela di ciascuno di essi, che dà luogo, nel caso di prelievo di beni comuni per il soddisfacimento di obbligazioni contratte nell’interesse esclusivo, ad un credito per rimborsi e restituzioni, da far valere in sede di divisione, ai sensi dell’art. 192 cod. civ.” (in motivazione Cass. civ. Sez. VI, 4 dicembre 2012, n. 21751).

VI La natura del credito di restituzione
Il credito relativo alla restituzione delle somme di denaro prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune (art. 192, terzo comma) è di natura nominalistica (art. 1277, primo comma, c.c.7) e produce interessi ex art. 1282, primo comma c.c. 8 oltre la rivalutazione monetaria in caso di prova di maggior danno sofferto (art. 1224 c.c. 9) (Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2005, n. 10896).
Ugualmente secondo Cass. civ. Sez. I, 11 settembre 2008, n. 23391 anche il credito pecunia¬rio a titolo di rimborso ex art. 192 c.c., comma 1, rappresenta un credito di valuta (la sentenza conferma il riconoscimento alla moglie del diritto alla metà del prezzo di un autoveicolo già in comunione legale, successivamente venduto a terzi dal marito che si era intascato il prezzo). In realtà l’inquadramento più corretto di questa fattispecie sarebbe stato l’art. 184, posto che il ma¬rito aveva intascato il prezzo della vendita dell’autoveicolo comune senza il consenso della moglie

7 Art. 1277 (Debito di somma di denaro)
I debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale.
8 Art. 1282 (Interessi nelle obbligazioni pecuniarie)
I crediti liquidi es esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto, salvo che la legge o il titolo stabiliscano diversamente.
9 Art. 1224 (Danni nelle obbligazioni pecuniarie)
Nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di denaro, sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali, anche se non erano dovuti precedentemente ed anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno. Se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella tessa misura.
Al creditore che dimostra di aver subito un danno maggiore spetta l’ulteriore risarcimento. Questo non è dovuto se è stata convenuta la misura degli interessi moratori.

Se è vero che i rimborsi per somme prelevate dal patrimonio comune e le richieste di restituzioni (per somme prelevate dal patrimonio personale determinano crediti di valuta, altrettanto non si può dire nel caso invece di obbligazioni contratte relativamente a beni comuni senza il consenso dell’altro coniuge. In questi casi l’art. 192, secondo comma, afferma che il coniuge “È tenuto…a rimborsare il valore dei beni di cui all’art. 189…” in questione. Perciò in questi casi (in cui di fatto un bene della comunione viene espropriato dai creditori a causa di una obbligazione non adempiu¬ta contratta separatamente da un coniuge) si tratta di debiti di valore e quindi il coniuge tenuto al rimborso subirà anche l’onere della rivalutazione.
Secondo quanto è abbastanza pacifico sia in dottrina che in giurisprudenza oggetto dei debiti di valuta è ab origine una somma di denaro determinata o anche solo determinabile, la quale è soggetta ex art. 1227 c.c. e in cui quindi le eventuali variazioni del valore reale della moneta non hanno alcuna incidenza sull’importo oggetto della prestazione. Viceversa le obbligazioni di valore si qualificano tali allorché l’oggetto diretto e originario della prestazione consista in una cosa diversa dal denaro, rappresentando la moneta solo un bene sostitutivo di una prestazione con diverso oggetto; qui l’obbligazione pecuniaria non è originaria, ma rappresenta solo l’equivalente di una diversa obbligazione primaria, per cui l’oggetto della prestazione è ab origine diverso dalla dazione di una somma di denaro, che ne costituisce soltanto la traduzione in termini monetari; le obbliga¬zioni aventi ad oggetto debiti di valore, di conseguenza, sono sottratte al principio nominalistico, in quanto l’importo dovuto deve necessariamente esprimere il valore effettivo dell’obbligazione primaria sostituita e, pertanto, deve essere soggetta a rivalutazione.

Giurisprudenza
Trib. Lecce, Sez. II, 29 luglio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, la norma dell’art. 192, comma 3 c.c. attribuisce a ciascuno di essi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, e non già alla ripetizione, totale o parziale, del denaro personale e dei proventi dell’attività separata (che cadono nella comunione “de residuo”, solamente per la parte non consumata al momento dello scioglimento) impiegati per l’acquisto di beni costituenti oggetto della comunione legale ex art. 177, comma 1, lett. a) c.c., rispetto ai quali trova applicazione il principio inderogabile, posto dall’art. 194, comma 1 c.c., secondo cui, in sede di divisione, l’attivo e il passivo sono ripartiti in parti eguali, indipenden¬temente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione.
Trib. Torre Annunziata Sez. I, 8 maggio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito di un giudizio di separazione tra coniugi sono inammissibili le domande di divisione di beni mobili ed immobili, nonché di divisione del risparmio, rimborso e restituzione delle somme spettanti in dipendenza dell’amministrazione dei beni comuni prima della cessazione del regime della comunione legale tra i coniugi, in quanto esse si possono proporre solo al momento della divisione dei beni comuni che coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia.
App. Taranto 16 gennaio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra i coniugi, la norma di cui all’art. 192, comma 3° c.c., attribu¬isce a ciascuno di essi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegare in spese ed investimenti del patrimonio comune e non già alla ripetizione, totale o parziale, del denaro personale e dei proventi dell’attività separata impiegati per l’acquisto di beni costituenti oggetto della comunione legale, rispetto ai quali si applica il principio inderogabile secondo cui, in sede di divisione, l’attivo ed il passivo sono ripartiti in parti uguali indipendentemente dalla misura di partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi ne¬cessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione.
App. Palermo Sez. II, 18 settembre 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra i coniugi, in seguito alla pronuncia della separazione persona¬le, la domanda giudiziaria di divisione dei beni non può essere introdotta prima del passaggio in giudicato della pronuncia di separazione. I rimborsi e le restituzioni delle somme spettanti in dipendenza dell’amministrazione dei beni comuni si effettuano solo al momento dello scioglimento della comunione in funzione della divisione dei beni comuni, momento che, in caso di separazione tra coniugi, coincide con il passaggio in giudicato della rela¬tiva pronuncia. I presupposti della comunione non cessano di configurarsi solo perché uno dei due coniugi abbia eventualmente distolto a fini del tutto personali i beni oggetto della stessa, convertendosi, in tal caso, il conte¬nuto delle pretese dell’altro coniuge, in quello relativo ai rimborsi ed alle restituzioni, a norma dell’art. 192 c.c.
Cass. civ. Sez. VI, 4 dicembre 2012, n. 21751(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’accertamento dell’eventuale destinazione dei beni già in comunione legale al soddisfacimento delle obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia non condiziona in alcun modo la legittimazione dei coniugi a promuovere la divisione dei beni comuni, a seguito del verificarsi di una delle cause di scioglimento della comunione. Esso, infat¬ti, non incide né sulla titolarità né sulla disponibilità dei beni da dividere, in quanto, ferma restando la distinzione operata dagli artt. 186 e ss. cod. civ. tra le obbligazioni contratte per un interesse comune e quelle facenti capo ad interessi particolari dei coniugi, con la connessa sussidiarietà della responsabilità rispettivamente dei beni personali e comuni per ciascuna categoria di obbligazioni, la disciplina dei debiti gravanti sui beni in comunione non comporta l’assoggettamento degli stessi ad alcun vincolo di destinazione, ma si risolve in un regolamento dei rapporti reciproci tra i coniugi, inteso alla tutela di ciascuno di essi, che dà luogo, nel caso di prelievo di beni comuni per il soddisfacimento di obbligazioni contratte nell’interesse esclusivo, ad un credito per rimborsi e restituzioni, da far valere in sede di divisione, ai sensi dell’art. 192 cod. civ.
Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2012, n. 19454 (Nuova Giur. Civ., 2013, 4, 340 nota di PALADINI)
Allo scioglimento della comunione legale tra i coniugi, ai sensi dell’art. 192, terzo comma, cod. civ., devono es¬sere restituiti solo gli importi impiegati in spese ed investimenti per il patrimonio comune già costituito, ma non il denaro personale impiegato per l’acquisto di immobile che concorre a formare la comunione, trovando, in tale ipotesi, applicazione l’art. 194, comma primo, cod. civ., secondo il quale all’atto dello scioglimento l’attivo ed il passivo devono essere ripartiti in quote uguali indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi. (Rigetta, App. Roma, 18/09/2007)
Il denaro personale o i proventi dell’attività separata non possono essere restituiti se impiegati nell’acquisto di un bene caduto in comunione legale ai sensi dell’art. 177, comma 1, lett. a), cod. civ.. Il diritto alla restituzione sorge invece, se i beni già facenti parte della comunione legale e, conseguentemente, del “patrimonio comune” (come indicato nell’art. 192, comma 3, cod. civ.) siano oggetto di spese o investimenti anche finalizzati all’in¬cremento del loro valore in epoca successiva all’acquisto, mediante lavori di ristrutturazione o miglioramenti.
Trib. Salerno, 14 maggio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per il combinato disposto degli artt. 186, 191 e 192 c.c. i coniugi, che abbiano optato per il regime patrimoniale della comunione dei beni, non possono richiedere alcuna forma di restituzione o di rimborso, fino a quando è vigente il regime della comunione, salvo espressa autorizzazione del giudice in deroga, ma solo ove lo esiga l’interesse superiore della famiglia e dei figli in particolare.
Trib. Rovigo, 14 febbraio 2011(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il disposto normativo di cui all’art. 192, comma terzo, c.c., nella parte in cui attribuisce a ciascuno dei coniu¬gi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal proprio patrimonio personale e impiegate per spese e investimenti a favore del patrimonio comune, escluse quelle adoperate per l’acquisto di singoli beni caduti in comunione, opera nei soli limiti dei beni personali ex art. 179 c.c., con esclusione dei beni destinati a cadere nella comunione de residuo. La disposizione di cui al citato comma terzo, inoltre, ha carattere residuale e si riferisce sostanzialmente al denaro personale pervenuto al coniuge per cause diverse anche dalla vendita di un bene personale. In tal senso non possono rilevare versamenti e/o pagamenti di provvista di cui non si offre prova della provenienza.
Trib. Salerno, Sez. I, 21 novembre 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 192 c.c. prevede che, una volta intervenuto lo scioglimento della comunione, i coniugi hanno diritto alla restituzione di quanto da essi versato per spese non riguardanti gli obblighi reciproci di contribuzione previsti dall’art. 143 c.c., ovvero gli obblighi gravanti sui beni della comunione, come quelli relativi il mantenimento della famiglia, l’istruzione e la educazione dei figli.
Trib. Monza, 11 marzo 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di comunione legale fra coniugi, i rimborsi e le restituzioni delle somme spettanti in dipendenza dell’am¬ministrazione dei beni comuni, nei limiti delle somme prelevate da ciascuno dei coniugi dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni cui sono destinati per legge i beni in regime di comunione legale, si effettuano solo al momento della divisione dei beni comuni che, in caso di separazione tra i coniugi, coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia. Sino a tale momento il coniuge amministratore dei beni comuni amministra i beni destinati al mantenimento della famiglia, la quale permane come vincolo anche tra coniugi separati, senza che alcuno di questi possa rivendicare la disponibilità personale delle loro rendite, nei limiti della propria quota di comproprietà, prima del definitivo scioglimento del rapporto di convivenza. Ciò che trova conferma nell’art. 192, comma quarto, c.c., il quale prevede che i rimborsi e le restituzioni, possano avvenire, dietro autorizzazione del giudice, anche in un momento anteriore a quello suindicato, ma solo a favore della comunione.
Cass. civ. Sez. I, 11 settembre 2008, n. 23391 (Famiglia e Diritto, 2009, 2, 133 nota di OBERTO)
Il credito a titolo di rimborso ex art. 192 c.c., comma 1, rappresenta un credito di valuta e non di valore (Nella specie, la Cassazione ha confermato la decisione d’appello che aveva escluso la rivalutazione del credito vantato da un coniuge alla metà del corrispettivo incassato per intero dall’altro, a seguito dell’alienazione, da parte di quest’ultimo, di un autoveicolo già formante parte della comunione legale, scioltasi a seguito di separazione personale).
App. Catania, 7 gennaio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, la norma dell’art. 192, comma 3, c.c., attribuisce a ciascuno dei coniugi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, non già quello alla ripetizione del valore degli immobili provenienti dal patrimonio personale di uno dei coniugi e conferiti alla comunione, atteso che, per effetto della trasformazio¬ne dei beni personali in beni comuni, detti beni restano immediatamente soggetti alla disciplina della comunione legale, e quindi al principio inderogabile di cui all’art. 194, comma 1, c.c., il quale impone che, in sede di divi¬sione, l’attivo e il passivo siano ripartiti in parti eguali, indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione.
Cass. civ. Sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1197 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il denaro ottenuto a titolo di prezzo per l’alienazione di un bene personale rimane nella esclusiva disponibilità del coniuge alienante anche quando esso venga dal medesimo coniuge depositato sul proprio conto corrente. Questa titolarità non muta in conseguenza della mera circostanza che il denaro sia stato accantonato sotto forma di deposito bancario, giacché il diritto di credito relativo al capitale non può considerarsi modificazione del capitale stesso, né è d’altro canto configurabile come un acquisto nel senso indicato dall’art. 177, comma 1, lett. a) c.c., cioè come un’operazione finalizzata a determinare un mutamento effettivo nell’assetto patrimoniale del depositante.
Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2005, n. 10896 (Giur. It., 2006, 5, 936 nota di GALATI)
In tema di scioglimento della comunione legale, l’art. 192 c.c., nel prevedere il diritto del coniuge alla restitu¬zione delle somme prelevate dal patrimonio personale impiegate per spese ed investimenti a favore dei beni del patrimonio comune, non attribuisce anche un diritto alla ripetizione del valore degli immobili provenienti dal patrimonio personale del coniuge e conferiti alla comunione, né prevede il diritto al rimborso del denaro proprio, speso per l’acquisto di beni poi caduti in comunione. Conseguentemente, ai fini della norma, occorre distinguere tra spese effettuate con denaro proprio per migliorie ed addizioni delle cose comuni, da quelle effettuate con denaro della comunione.
Le spese e gli investimenti del patrimonio comune, rimborsabili a ciascun coniuge se effettuate con somme prelevate dal patrimonio personale, riguardano solamente gli esborsi effettuati per la gestione, la manutenzione e il miglioramento dei beni comuni, e non quelli per l’acquisto dei medesimi beni (categoria nella quale vanno ricomprese anche le spese notarili e fiscali resesi necessarie per l’acquisto)
Le somme percepite a titolo di proventi dell’attività separata (destinate alla comunione “de residuo” se non consumate al momento dello scioglimento della comunione) non costituiscono somme prelevate dal patrimonio personale.
Il credito alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, spettante al coniuge ai sensi dell’art. 192, comma 3, c.c. all’esito dello scioglimento della comunione legale, è di natura nominalistica (art. 1277 c.c.) e, determinato nel suo ammontare all’atto della divisione, previa ripartizione in parti uguali tra i condividenti delle passività di cui all’art. 186 c.c., da tale momento liquido ed esigibile. Come tale, esso produce interessi ex art. 1282 c.c., salvo il diritto alla rivalutazione monetaria in caso di prova di sofferto danno maggiore di quello dai medesimi coperto (art. 1224 c.c.).
Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2005, n. 2354 (Famiglia e Diritto, 2005, 3, 237 nota di CARBONE)
Il principio generale dell’accessione posto dall’art. 934 c.c., in base al quale il proprietario del suolo acquista “ipso iure” al momento dell’incorporazione la proprietà della costruzione su di esso edificata e la cui operatività può essere derogata soltanto da una specifica pattuizione tra le parti o da una altrettanto specifica disposizione di legge, non trova deroga nella disciplina della comunione legale tra coniugi, in quanto l’acquisto della proprietà per accessione avviene a titolo originario senza la necessità di un’apposita manifestazione di volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l’art. 177 c.c., primo comma, hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una genesi di natura negoziale, con la conseguenza che la costruzione realizzata in costanza di matri¬monio ed in regime di comunione legale da entrambi i coniugi sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno di essi è a sua volta proprietà personale ed esclusiva di quest’ultimo in virtù dei principi generali in materia di accessione, mentre al coniuge non proprietario che abbia contribuito all’onere della costruzione spetta, ai sensi dell’art. 2033 c.c., il diritto di ripetere nei confronti dell’altro coniuge le somme spese.
Cass. civ. Sez. I, 15 settembre 2004, n. 18564 (Giur. It., 2006, 2, 275 nota di SORRENTINO)
In tema di comunione legale fra coniugi, i rimborsi e le restituzioni delle somme spettanti in dipendenza dell’am¬ministrazione dei beni comuni, nei limiti delle somme prelevate da ciascuno dei coniugi dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni cui sono destinati per legge i beni in regime di comunione legale, si effettuano solo al momento della divisione dei beni comuni che, in caso di separazione tra i coniugi, coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia. Sino a tale momento il coniuge amministratore dei beni comuni amministra i beni destinati al mantenimento della famiglia, la quale permane come vincolo anche tra i coniugi separati, senza che alcuno di questi possa rivendicare la disponibilità personale delle loro rendite, nei limiti della propria quota di comproprietà, prima del definitivo scioglimento del rapporto di convivenza. Ciò che trova conferma nell’art. 192, comma quarto, c.c., il quale prevede che i rimborsi e le restituzioni, possano avvenire, dietro autorizzazione del giudice, anche in un momento anteriore a quello suindicato, ma solo a favore della comunione e, quindi, con il vincolo di destinazione delle somme relative al mantenimento della famiglia e all’istruzione e all’educazione dei figli.
Trib. Taranto 9 maggio 2000 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le somme di cui si può chiedere la restituzione ai sensi dell’art. 192 c.c. devono essere riconducibili alla fattispe¬cie dell’art. 179 e non a quella dell’art. 177, lett. c.
Trib. Milano 25 maggio 1998 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo di rimborso delle anticipazioni effettuate in favore della comunione presuppone la prova della consa¬pevolezza dell’altro coniuge del fatto che si trattasse di mere anticipazioni e non di donazioni indirette in favore dell’altro coniuge.
Cass. civ. Sez. I, 14 marzo 1992, n. 3141 (Giust. Civ., 1992, I, 1731 nota di FINOCCHIARO)
Nel regime di comunione legale, la costruzione realizzata in costanza di matrimonio su suolo di proprietà perso¬nale di uno dei coniugi, appartiene esclusivamente a questo, a titolo originario, in virtù delle disposizioni generali in materia di accessione e, pertanto, non costituisce oggetto della comunione medesima, ai sensi dell’art. 177, 1° comma, lett. a) c. c., che prevede il diverso caso di un acquisto a titolo derivativo da parte di un coniuge; peraltro, quando per la detta costruzione sia stato impiegato danaro comune, il coniuge che si è giovato dell’ac¬cessione è tenuto a rimborsare alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune ed utilizzate per l’edificazione a norma dell’art. 192, 1° comma, c. c., mentre, nel caso in cui nella costruzione sia stato impiegato danaro appartenente in via esclusiva all’altro coniuge, quest’ultimo ha diritto di ripetere le relative somme ai sensi dell’art. 2033 c. c.

Consolidato il nuovo indirizzo di Cassazione: assegno divorzile solo in caso di mancanza di indipendenza economica. No all’assegno alla moglie che lavora e ha una casa di proprietà

Cass. Civ., sez. 1-VI, ordinanza 29 agosto 2017, n. 20525 (Pres.
Scaldaferri, rel. Bisogni)
Rilevato che
1. Il Tribunale di Fermo ha statuito sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto da …. e …. imponendo la corresponsione di un assegno divorzile in favore della …. in ragione della forte sproporzione
delle situazioni reddituali e patrimoniali delle parti e al fine di una conservazione, almeno tendenziale, in favore del coniuge economicamente più debole del tenore di vita goduto in costanza di
matrimonio.
2. Tale decisione è stata confermata dalla Corte di appello di Ancona con sentenza n. …/2015.
3. Ricorre per cassazione … deducendo, con il primo motivo di impugnazione, la violazione e falsa applicazione dell’art. 5 comma 4 della legge n. 898/1970 e dei parametri legali ivi indicati nonché la
contraddittorietà intrinseca della pronuncia. Lamenta il ricorrente che non sia stata adeguatamente valutata la circostanza dell’attribuzione alla …. della somma di lire 157.000.000 prima della pronuncia relativa al divorzio e che non si sia tenuto conto delle condizioni economiche della…. (stipendio mensile di professoressa di matematica, casa di abitazione di sua proprietà, recenti investimenti immobiliari) che escludono la sussistenza dei presupposti per la attribuzione di un assegno divorzile in
suo favore.
4. Si difende con controricorso la ….
Ritenuto che
5. Il ricorso deve essere accolto dando così continuità alla recente giurisprudenza di questa Corte (Cass. civ. sez. I n. 11504 del 10 maggio 2017) secondo cui il diritto all’assegno di divorzio, di cui all’art. 5, comma
6, della L. n. 898 del 1970, come sostituito dall’art. 10 della L. n. 74 del 1987, è condizionato dal suo previo riconoscimento in base ad una verifica giudiziale che si articola necessariamente in due fasi, tra loro
nettamente distinte e poste in ordine progressivo dalla norma (nel senso che alla seconda può accedersi solo all’esito della prima, ove conclusasi con il riconoscimento del diritto): una prima fase, concernente l’an
debeatur, informata al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali persone singole ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o meno, del
diritto all’assegno divorzile fatto valere dall’ex coniuge richiedente; una seconda fase, riguardante il quantum debeatur, improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro quale persona economicamente più
debole (artt. 2 e 23 Cost.), che investe soltanto la determinazione dell’importo dell’assegno stesso.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Ancona che in diversa composizione deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del decreto legislativo n. 196/2003.

Il danno da occupazione illegittima della casa coniugale da parte di un coniuge in danno dell’altro è in “re ipsa”

Cass. civ. sez. VI – 3, 6 settembre 2017, n. 20856
ORDINANZA
sul ricorso 16061/2016 proposto da:
V.L., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato LUCA MARCHESE;
– ricorrente –
contro
F.B.M.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA XX SETTEMBRE 3, presso lo studio dell’avvocato BRUNO NICOLA SASSANI, rappresentata e difesa dall’avvocato GIOVANNI IACOMINI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2208/2015 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 30/12/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 18/05/2017 dal Consigliere Dott. DANILO SESTINI. Dato atto che il Collegio ha disposto la motivazione semplificata.
Svolgimento del processo
che:
la sentenza impugnata ha confermato quella di primo grado nella parte in cui aveva condannato il M. a pagare alla V. la somma di 60.000 franchi svizzeri oltre interessi (a fronte dell’importo erogato dalla seconda al primo per la costruzione – su un terreno di proprietà del M. e del fratello – del fabbricato successivamente adibito a casa coniugale), mentre l’ha riformata nella parte in cui aveva rigettato la domanda di indennizzo avanzata dal M. per l’occupazione della ex casa coniugale da parte della medesima V.: su questo secondo punto, la Corte ha ritenuto che il danno fosse in re ipsa (con decorrenza dal passaggio in giudicato della sentenza di separazione, che aveva definitivamente escluso il diritto della moglie all’assegnazione della casa coniugale), fatta salva la necessità di liquidare il risarcimento dovuto in separato giudizio;
ha proposto ricorso per cassazione la V., affidandosi a due motivi che denunciano – rispettivamente – la violazione e/o falsa applicazione egliartt. 1277 e 1813 c.c.e la violazione e/o falsa applicazione degliartt. 1591, 1223 e 2056 c.c.;
ha resistito, con controricorso, F.B.M.C., in proprio e quale esercente la responsabilità genitoriale sulla minore M.M.A., entrambe eredi di M.G..
Motivi della decisione
che:
il primo motivo è inammissibile, in quanto non individua specifiche violazioni in iure relative alle norme richiamate, ma contesta la ricostruzione della vicenda della dazione della somma (di 60.000 franchi svizzeri) in termini di mutuo, sulla base di considerazioni che – senza denunciare violazioni di canoni ermeneutici o l’omesso esame di fatti decisivi – mirano a sostituire all’apprezzamento compiuto dalla Corte quello diverso proposto dalla ricorrente, così sollecitando la Corte ad una non consentita rivalutazione del fatto;
il secondo motivo – che censura la sentenza nella parte in cui ha affermato che il danno da occupazione illegittima di un immobile è in re ipsa e che richiama la giurisprudenza di legittimità di segno contrario – è infondato se si considera che l’affermazione della Corte si sostanzia nel richiamo a Cass. n. 20823/2015 e che tale pronuncia precisa come l’esistenza del danno sia comunque oggetto di una presunzione iuris tantum, superabile con prova contraria; ciò è conforme al più recente e condivisibile orientamento di legittimità secondo cui “nella ipotesi di occupazione “sine titulo” di un cespite immobiliare altrui, il danno subito dal proprietario per l’indisponibilità del medesimo può definirsi “in re ipsa”, purché inteso in senso descrittivo, cioè di normale inerenza del pregiudizio all’impossibilità stessa di disporre del bene, senza comunque far venir meno l’onere per l’attore quanto meno di allegare, e anche di provare, con l’ausilio delle presunzioni, il fatto da cui discende il lamentato pregiudizio, ossia che se egli avesse immediatamente recuperato la disponibilità dell’immobile, l’avrebbe subito impiegato per finalità produttive, quali il suo godimento diretto o la sua locazione” (Cass. n. 25898/2016);
il ricorso va pertanto rigettato;
le spese di lite seguono la soccombenza;
atteso che la ricorrente è ammessa al patrocinio a spese dello Stato, non sussistono le condizioni per l’applicazione delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater (cfr. Cass. n. 18523/2014).
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere alla controricorrente le spese di lite, liquidate in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge.

La prova della mera provenienza di somme da parte del padre dell’opponente non è sufficiente a superare la presunzione di cointestazione di cui all’art. 1854 c.c.

Cass. civ. Sez. II, 28 agosto 2017, n. 20452
ORDINANZA
sul ricorso 4057-2014 proposto da:
U.G.M. ((OMISSIS)), domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato EMANUELE CONTINO;
– ricorrente –
contro
S.M. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, V. FEDERICO CESI 72, presso lo studio dell’avvocato EGIDIO MARULLO, rappresentato e difeso dall’avvocato EZIO MARCON;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1403/2013 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 26/06/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/06/2017 dal Consigliere Dott. ORILIA LORENZO.
Svolgimento del processo
1 La Corte d’Appello di Torino, con sentenza 26.6.2013, ha confermato la decisione del primo giudice (n. 4223/2011 del locale Tribunale) che aveva respinto l’opposizione proposta da U.G.M. contro un decreto ingiuntivo per Euro 5.490,00 ottenuto dalla moglie S.M. a titolo di restituzione del 50% delle somme da lui prelevate da un conto corrente cointestato ai coniugi (in regime di comunione legale).
Per giungere a tale soluzione la Corte territoriale ha osservato che l’appellante non aveva superato la presunzione di comproprietà del danaro prelevato, ritenendo a tal fine ininfluenti i due capitoli di prova testimoniale articolati dall’opponente in primo grado.
2 U. ricorre per cassazione sulla base di un unico motivo a cui resiste con controricorso la S..
Motivi della decisione
Con l’unica censura si denunzia violazione degli artt. 115 e 167 cpc, nonchéart. 111 Cost., e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione riproponendosi la questione della non contestazione in ordine alla esclusione delle somme dalla comunione, a dire del ricorrente, erroneamente disattesa dai giudici di merito.
Il ricorso è inammissibile nella parte in cui denunzia il vizio di motivazione, che non può essere più dedotto come motivo di ricorso alla luce della nuova formulazionedell’art. 360 c.p.c., n. 5, (applicabile alla fattispecie in esame): oggi è possibile denunziare l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, ipotesi non ricorrente nel caso in esame e neppure dedotta.
In secondo luogo, sotto il profilo della violazione di legge, il ricorso è infondato perché, come la Corte d’Appello ha ben evidenziato, la S. aveva sempre rivendicato l’appartenenza del 50% delle somme e, d’altra parte, proprio su questo presupposto aveva agito in via monitoria.
Contrariamente a quanto si afferma in ricorso, la comparsa di costituzione della S. (peraltro ivi riportata integralmente) evidenzia proprio la volontà di contestare l’esclusiva appartenenza al marito delle somme da lui prelevate.
Ciò chiarito, come ripetutamente affermato da questa Corte, la cointestazione di un conto corrente tra coniugi attribuisce agli stessi, exart. 1854 c.c., la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto, sia nei confronti dei terzi che nei rapporti interni, e fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto; tale presunzione dà luogo ad una inversione dell’onere probatorio che può essere superata attraverso presunzioni semplici purché gravi, precise e concordanti – dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa (tra le varie, Sez. L, Sentenza n. 18777 del 23/09/2015 Rv. 637049; Sez. 3, Sentenza n. 4496 del 24/02/2010;Rv. 611861; Sez. 1, Sentenza n. 28839 del 05/12/2008 Rv. 605716).
Nel caso in esame, la Corte d’Appello ha ritenuto non assolto l’onere probatorio da parte dell’ U., ed ha considerato irrilevante il fatto che l’investimento fosse stato alimentato anche da un accredito proveniente dal padre dell’appellante, essendo ben possibile una elargizione fatta anche a favore della S., all’epoca ancora in buoni rapporti col coniuge (v. pag. 7): tale osservazione appare non solo logicamente coerente, ma anche giuridicamente corretta.
Per il resto, dietro lo schermo della violazione di legge (censura dedotta in assenza di una specifica illustrazione), il ricorso si risolve in realtà in una censura di tipo fattuale contro il ragionamento seguito dai giudici di merito per ritenere non assolto l’onere probatorio gravante sull’opponente – appellante (che aveva dedotto una situazione giuridica diversa da quella derivante dalla cointestazione).
In conclusione, il ricorso va respinto con addebito di spese al ricorrente, soccombente.
Trattandosi di ricorso successivo al 30 gennaio 2013 e deciso sfavorevolmente, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dellaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 -quater, del testo unico di cui alD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115- della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente grado di giudizio che liquida in complessivi Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi. Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1- quater, inserito dallaL. n. 228 del 2012,art.1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.

Il punto di vista di Gianfranco Dosi

Come reagire al fatto che…
… la prima sezione della Corte di Cassazione fa quadrato intorno all’interpretazione dei presupposti per l’assegno di divorzio: una questione di particolare importanza su cui non intende richiedere l’intervento delle Sezioni Unite
Contro l’ostinazione della prima sezione può essere utile ricordare il secondo e il terzo comma dell’art. 376 c.p.c. secondo cui
“La parte, che ritiene di competenza delle sezioni unite un ricorso assegnato a una sezione semplice, può proporre al primo presidente istanza di rimessione alle sezioni unite, fino a dieci giorni prima dell’udienza di discussione del ricorso.
All’udienza della sezione semplice, la rimessione può essere disposta soltanto su richiesta del pubblico ministero o d’ufficio, con ordinanza inserita nel processo verbale”.
* * *
La prima sezione della Cassazione ha deciso improvvisamente negli ultimi mesi di abbandonare per il divorzio il riferimento al pregresso tenore di vita quale parametro finalizzato all’attribuzione dell’assegno, agganciando il diritto del coniuge richiedente al parametro dell’indipendenza economica, suggestivamente definito “criterio dell’autoresponsabilità” (Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504). Le posizioni espresse da questa sentenza erano ben note per essere comparse, a firma dello stesso relatore della sentenza, nella rivista Questione giustizia dell’11 marzo 2016, con il titolo “L’assegno divorzile e il dogma della conservazione del tenore di vita matrimoniale”.
Nonostante la discutibilità della decisione e della motivazione – che ha suscitato solo perplessità e dissensi nel foro e in dottrina – la prima sezione della Cassazione ha insistito su questa linea interpretativa (Cass. civ. Sez. VI – 1, 29 agosto 2017, n. 20525 che ha ribadito gli stessi principi e Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 agosto 2017, n. 19920 che ha rimesso alla prima sezione in seduta pubblica un ricorso che ripropone lo stesso tema).
L’interpretazione finora vivente dell’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio secondo cui l’attribuzione del diritto all’assegno divorzile è subordinata al fatto di non avere redditi “adeguati a mantenere tendenzialmente il tenore di vita goduto nel corso della convivenza matrimoniale”, si deve a Cass. civ. Sez. Unite, 29 novembre 1990, n. 11490. Si tratta dell’unica interpretazione ragionevole perché – a differenza di quella oggi proposta dalla prima Sezione (che propone uno sbarramento radicale nella fase preliminare dell’accertamento del diritto) – contiene in sé la possibilità di garantire che in fase di quantificazione dell’assegno siano eliminate le possibili storture e le possibili rendite parassitarie.
Nonostante, però, la richiesta da più parti avanzata (anche dal Procuratore generale all’udienza pubblica) di rimettere la questione alle Sezioni Unite per una doverosa verifica (confermativa o modificativa) dei principi affermati su una così indubbia “questione di particolare importanza” (art. 374, secondo comma) – anche per i suoi incommensurabili riflessi sociali – la prima sezione dichiara (espressamente nella sentenza 11504/2017) che non intende confrontarsi con le Sezioni Unite, ostinandosi a condurre da sola una rivoluzione che i giudici di merito non possono esimersi dall’attuare in quanto alla Cassazione l’art. 65 dell’Ordinamento giudiziario attribuisce la funzione di assicurare l’uniforme interpretazione della legge.
L’ostinazione della prima Sezione è contra legem in quanto il secondo comma dell’art. 374 c.p.c. dopo aver affermato che “il primo presidente può disporre che la Corte pronunci a sezioni unite sui ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, e su quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza” prescrive testualmente che “Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”.
Poiché la Prima Sezione della Cassazione non ha alcuna intenzione di adeguarsi al dettato normativo e non intende rimettere la questione alle Sezioni Unite, non resta che auspicare che siano gli avvocati a richiederlo.
La norma di riferimento è il secondo comma dell’art. 376 c.p.c. secondo cui “La parte, che ritiene di competenza delle sezioni unite un ricorso assegnato a una sezione semplice, può proporre al primo presidente istanza di rimessione alle sezioni unite, fino a dieci giorni prima dell’udienza di discussione del ricorso”
Utilizziamo questa norma per vincere le resistenze della prima sezione della Cassazione.

Nel divorzio e nella separazione, il tribunale quando la causa è matura per la decisione è tenuto a pronunciare (anche in mancanza di istanza di parte) sentenza non definitiva sullo status

Cass. civ. Sez. VI – 1, 31 agosto 2017, n. 20666
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
R.C.A.M., elettivamente domiciliata in Roma, via Cola di Rienzo 44, presso l’avv. Carla Maria Gentili, che la rappresenta e difende, giusta procura speciale in calce al ricorso, e dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo al fax n. 06/3236612 e alla p.e.c. carlamariagentili(at)ordineavvocatiroma.org;
– ricorrente –
nei confronti di:
D.d.R.A.P.M., elettivamente domiciliato in Roma, via F. Paulucci dè Calboli 1, presso l’avv. Stefania Ciaschi (fax 06/3741211, p.e.c. stefaniaciaschi(at)ordineavvocatiroma.org) che lo rappresenta e difende unitamente all’avv. Giovanna Conciò (p.e.c. giovannacondo(at)milano.pecavvocati.it, fax 02/54090127);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 430/2016 della Corte di appello di Roma, emessa il 10 dicembre 2015 e depositata il 24 gennaio 2016, n. R.G. 7640/2014.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
1. Con ricorso del 23 marzo 2012 il D.d.R.A.P.M. ha adito il Tribunale di Roma per ottenere la separazione giudiziale, con addebito alla moglie R.C.A.M. che si è costituita chiedendo a sua volta la dichiarazione di addebito a carico del marito. Entrambe le parti hanno formulato domande relative al regime di affidamento dei figli e al loro mantenimento. La R.C. ha chiesto altresì la imposizione al mensile di D.d.R. di un assegno mensile di mantenimento in suo favore.
2. Il Tribunale con sentenza non definitiva del 23/24 ottobre 2012 ha pronunciato la separazione giudiziale.
3. Ha proposto appello la R.C. per l’errata valutazione circa la sua adesione alla domanda di separazione e la sua rinuncia ai termini di cuiall’art. 109 c.p.c.; per il mancato accertamento circa l’effettiva irreversibilità della crisi coniugale e della intollerabilità della convivenza; per la asserita incostituzionalità della disciplina che consente la pronuncia della separazione con sentenza non definitiva in quanto in contrasto con gliartt. 3, 29 e 111 Cost..
4. D.d.R.A.P.M. si è costituito e ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità per difetto di interesse all’impugnazione e la condanna della R.C. exart. 96 c.p.c..
5. La Corte di appello ha respinto l’appello rilevando che con la novella introdotta conlegge n. 263/2005dell’art. 709 bis c.p.c., sussiste ormai l’obbligo e non più la sola facoltà per il giudice di pronunciare anche con sentenza non definitiva sullo status e ciò a prescindere dall’impulso di parte (Cass. civ. n. 10484/2012). Ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale e ha ritenuto accertata in base alle prospettazioni delle parti e all’esito del tentativo di conciliazione l’intollerabilità della convivenza. Ha infine condannato la R.C. exart. 96 c.p.c., comma 3.
6. Ricorre per cassazione la R.C. affidandosi a sei motivi con i quali ribadisce di non aver mai proposto o aderito alla domanda di separazione, rileva la mancata prospettazione delle pretese ragioni di intollerabilità della convivenza, contesta l’omessa valutazione in ordine alla prospettata necessità di prosecuzione del processo prima della sentenza dichiarativa della separazione, contesta infine la sussistenza dei presupposti per la sua condanna exart. 96 c.p.c., e al pagamento delle spese processuali.
7. Si difende con controricorso il D.d.R..
Ritenuto che:
8. La disposizione di cui all’art. 709 bis c.p.c., come definitivamente modificata dalla L. 25 dicembre 2005, n. 263, art. 1, comma 4, sancisce in maniera esplicita, in materia di pronuncia immediata sullo “status”, la già ritenuta equiparazione fra il procedimento di separazione tra i coniugi e quello di divorzio, volendo evitare condotte processuali dilatorie, tali da incidere negativamente sul diritto di una delle parti ad ottenere una pronuncia sollecita in ordine al proprio “status” (Cass. civ., sez. 6^-1, n. 10484 del 22 giugno 2012).
9. Come affermato sin dal 1992 (Cass. civ., sez. 1^ n. 7148 del 10 giugno 1992) e ribadito anche di recente (Cass. civ., sez. 1^, n. 8713 del 29 aprile 2015) la situazione di intollerabilità della convivenza può dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco spirituale anche di uno solo dei coniugi.
10. Per ciò che concerne la sollevata questione di costituzionalità questa Corte ha già affermato (Cass. civ. sez. 1^, n. 9614 del 22 aprile 2010) che la sentenza non definitiva di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, che il Tribunale è tenuto a pronunciare d’ufficio quando la causa sia, sul punto, matura per la decisione, ed alla quale faccia seguito la prosecuzione del giudizio per le altre statuizioni, costituisce uno strumento di accelerazione dello svolgimento del processo che non determina un’arbitraria discriminazione nei confronti del coniuge economicamente più debole, sia perché è sempre possibile richiedere provvedimenti temporanei ed urgenti, ai sensi dellaL. n. 898 del 1970,art.4, peraltro modificabili e revocabili dal giudice istruttore al mutare delle circostanze, sia per l’effetto retroattivo, fino al momento della domanda, che può essere attribuito in sentenza al riconoscimento dell’assegno di divorzio. Pertanto, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dellaL. n. 898 del 1970,art.4, comma 9, (nel testo sostituito dellaL. n. 74 del 1987,art.8), sollevata in riferimento agliartt. 2, 3 e 29 Cost..
11. Per ciò che concerne gli ultimi due motivi di ricorso attinenti alla contestazione della condanna alle spese del giudizio di appello la Corte ritiene di aderire all’indirizzo giurisprudenziale più recente (Cass. civ. sez. 6^-3 n. 9532 del 12 aprile 2017) secondo cui il rigetto, in sede di gravame, della domanda, meramente accessoria, exart. 96 c.p.c., a fronte dell’integrale accoglimento di quella di merito proposta dalla stessa parte, in riforma della sentenza di primo grado, non configura un’ipotesi di parziale e reciproca soccombenza, né in primo grado né in appello, sicché non può giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensidell’art. 92 c.p.c..
Conseguentemente anche tali motivi devono ritenersi infondati sebbene non possano ritenersi sussistenti – in ragione dello specifico contrasto giurisprudenziale (Cass. civ. sez. 2^ n. 20838 del 14 ottobre 2016) – i presupposti per una condanna della ricorrente ex art. 96, comma 3, relativamente al presente giudizio.
12. Il ricorso va pertanto respinto con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in 5.100 Euro, di cui 100 per spese, oltre accessori di legge e spese forfettarie. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 12 giugno 2017.
Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2017

Ai fini del riconoscimento e della successiva eventuale quantificazione dell’assegno divorzile si deve dare continuità alla recente giurisprudenza della Corte

Cass. civ. Sez. VI – 1, 29 agosto 2017, n. 20525
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
B.M., elettivamente domiciliato in Roma viale Giulio Cesare 78, presso l’avv. Alessandro Orsini, rappresentato e difeso, giusta procura speciale a margine del ricorso, dall’avv. Fabrizio Ferracuti che dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al processo al fax n. 0734/623607 e alla p.e.c. fabrizio.ferracuti(at)ordineavvocatifermopec.it;
– ricorrente –
nei confronti di:
C.L., domiciliata in Roma, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avv. Francesca Palma (0734/226149 fax, francesca.palma(at)ordineavvocatifermopec.it) giusta delega in margine alla comparsa di costituzione di primo grado e procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 617/15 della Corte di appello di Ancona, emessa il 15 gennaio 2015 e depositata il 26 maggio 2015, n. R.G. 1103/14.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
1. Il Tribunale di Fermo ha statuito sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto da B.M. e C.L. imponendo la corresponsione di un assegno divorzile in favore della C. in ragione della forte sproporzione delle situazioni reddituali e patrimoniali delle parti e al fine di una conservazione, almeno tendenziale, in favore del coniuge economicamente più debole del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
2. Tale decisione è stata confermata dalla Corte di appello di Ancona con sentenza n. 617/2015.
3. Ricorre per cassazione B.M. deducendo, con il primo motivo di impugnazione, la violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 4, e dei parametri legali ivi indicati nonché la contraddittorietà intrinseca della pronuncia. Lamenta il ricorrente che non sia stata adeguatamente valutata la circostanza dell’attribuzione alla C. della somma di Lire 157.000.000 prima della pronuncia relativa al divorzio e che non si sia tenuto conto delle condizioni economiche della C. (stipendio mensile di professoressa di matematica, casa di abitazione di sua proprietà, recenti investimenti immobiliari) che escludono la sussistenza dei presupposti per la attribuzione di un assegno divorzile in suo favore.
4. Si difende con controricorso la C..
Ritenuto che:
5. Il ricorso deve essere accolto dando così continuità alla recente giurisprudenza di questa Corte (Cass. civ. sez. 1^ n. 11504 del 10 maggio 2017) secondo cui il diritto all’assegno di divorzio, di cui allaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, come sostituito dallaL. n. 74 del 1987,art.10, è condizionato dal suo previo riconoscimento in base ad una verifica giudiziale che si articola necessariamente in due fasi, tra loro nettamente distinte e poste in ordine progressivo dalla norma (nel senso che alla seconda può accedersi solo all’esito della prima, ove conclusasi con il riconoscimento del diritto): una prima fase, concernente l’an debeatur, informata al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali persone singole ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o meno, del diritto all’assegno divorzile fatto valere dall’ex coniuge richiedente; una seconda fase, riguardante il quantum debeatur, improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro quale persona economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), che investe soltanto la determinazione dell’importo dell’assegno stesso.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Ancona che in diversa composizione deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 12 giugno 2017.
Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2017

Vista la sentenza n. 11504 del 2017, la trattazione del ricorso per la revoca dell’assegno divorzile, è rimessa alla pubblica udienza della prima sezione civile della Corte

Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 agosto 2017, n. 19920
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso 2105/2015 proposto da:
D.B.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TRIONFALE 21, presso lo studio dell’avvocato FEDERICA CASAGNI, rappresentato e difeso dall’avvocato ANNA MARIA RANALLI;
– ricorrente –
contro
F.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL TRITONE 169, presso lo studio dell’avvocato LILIANA CURTILLI, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
e contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI L’AQUILA;
– intimato –
avverso la sentenza n. 616/2014 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 05/06/2014;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 12/06/2017 dal Consigliere Dott. MARIA ACIERNO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Nel 2010 il sig. D.B., essendo trascorsi tre anni dall’udienza di comparizione dei coniugi dinanzi al Presidente del Tribunale per la separazione personale, chiedeva con ricorso di dichiarare la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con la sig.ra F., di regolare il regime di affidamento della figlia minore C., di dichiarare non dovuto l’assegno divorzile in favore della moglie, di confermare in Euro 600,00 mensili il contributo a titolo di assegno di mantenimento in favore della figlia. La sig.ra F. si costituiva in giudizio e chiedeva l’aumento ad Euro 1.100,00 mensili del contributo a titolo di mantenimento a carico del marito in favore della figlia e la corresponsione di un assegno divorzile nella misura di Euro 750,00 mensili in suo favore. Il giudice di primo grado dichiarava l’inammissibilità delle domande sul rilievo che non fosse provato il titolo dedotto a sostegno della domanda di divorzio in quanto i coniugi non avevano prodotto copia della sentenza di separazione giudiziale munita di attestazione di passaggio in giudicato.
In sede d’appello, il sig. D.B. impugnava la decisione chiedendo la riforma della sentenza e formulando le seguenti conclusioni:
1) dichiarazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto fra le parti;
2) conferma del già disposto affido condiviso della figlia;
3) conferma del contributo di Euro 600,00 mensili a titolo di assegno di mantenimento in favore della figlia;
4) rigetto della richiesta di assegno divorzile in favore della moglie, in ragione della raggiunta autonomia economica della stessa.
La sig.ra F. si costituiva in giudizio e chiedeva la dichiarazione di inammissibilità dell’appello, la corresponsione del contributo di Euro 1.100,00 mensili a titolo di assegno di mantenimento in favore della figlia e la corresponsione del contributo di Euro 1.200,00 mensili a titolo di assegno divorzile in suo favore.
Il giudice d’appello, definitivamente pronunciando, così provvedeva: in primo luogo dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto tra coniugi. Secondo il giudice d’appello la declaratoria d’inammissibilità della domanda formulata in primo grado era infondata. Il Tribunale nella motivazione aveva affermato che non era provato il titolo dedotto a sostegno della domanda di divorzio in quanto i coniugi non avevano prodotto copia della sentenza munita di attestazione di passaggio in giudicato. La Corte, ritenuta la sussistenza del requisito della specificità della censura, ha evidenziato l’avvenuta allegazione della sentenza di separazione in copia comprovante, in assenza di contestazione, il suo passaggio in giudicato per mancata impugnazione della controparte. Inoltre, l’appellante, dopo aver censurato l’unica affermazione contenuta nella sentenza impugnata, ha dedotto la sussistenza delle restanti condizioni per la pronuncia di divorzio, chiedendo dichiararsi la cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché l’adozione dei provvedimenti relativi all’affidamento della figlia ed ai rapporti patrimoniali tra i coniugi, consequenziali alla pronuncia di divorzio, del tutto pretermessi in primo grado. Di conseguenza confermava l’affidamento condiviso della figlia con stabile permanenza della stessa presso l’abitazione materna, in quanto il giudice di secondo grado non ravvisava ragioni per modificare l’affidamento condiviso con stabile collocazione della figlia presso l’abitazione della madre e stabiliva la corresponsione del contributo di Euro 600,00 mensili a titolo di assegno di mantenimento a carico del padre in favore della figlia, dal momento che tale assegno appariva congruo a garantire alla prole un tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della famiglia ed analogo a quello goduto in precedenza in relazione alle risorse ed ai redditi dei genitori; nonché la corresponsione del contributo di Euro 900,00 mensili a titolo di assegno divorzile a carico del sig. D.B. in favore della sig.ra F.. Il giudice d’appello argomentava che i coniugi, in costanza di matrimonio, godevano di un alto tenore di vita assicurato dall’attività lavorativa del marito (all’epoca dirigente dell’Università di L’Aquila) ed in minore misura dalla moglie (all’epoca non occupata, ma proprietaria della casa familiare e di un locale commerciale sito nel centro di L’Aquila). Successivamente la situazione economica dei coniugi era sensibilmente cambiata, in quanto il sig. D.B. era stato promosso all’incarico di dirigente amministrativo presso l’Università di L’Aquila. Inoltre lo stesso aveva acquistato un appartamento in L’Aquila e sosteneva il mantenimento di un’altra figlia nata da una nuova relazione. Al contempo, la sig.ra F. ha trovato occupazione come insegnante di ruolo in una scuola media e come docente collaboratrice in ambito universitario. Inoltre, la stessa aveva perso le potenzialità economiche relative alla proprietà degli immobili sopracitati in quanto inagibili a causa del noto sisma. Pertanto, nonostante le modifiche delle reciproche situazioni economiche e patrimoniali, si confermava la persistenza della disparità di risorse reddituali e patrimoniali in favore del marito.
Avverso tale pronuncia viene proposto ricorso per Cassazione dal sig. D.B. affidato ai seguenti motivi, cui resiste controricorso la sig.ra F..
1) Violazione e falsa applicazionedell’art. 2697 c.c.e dellaL. n. 898 del 1970,art.5, exart. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla debenza ed alla commisurazione dell’assegno divorzile, in assenza di prova da parte della coniuge richiedente in ordine al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, nonché in ordine ai propri redditi attuali ed all’eventuale stato di bisogno: il ricorrente ha evidenziato che il giudice d’appello avrebbe travalicato il generale principio di disponibilità delle parti, ricostruendo esso stesso il tenore di vita goduto dalla coppia in costanza di matrimonio e soprattutto avrebbe operato tale ricostruzione solo sulla base dei redditi annuali del marito ma non su quelli attuali della moglie, la quale avrebbe omesso la produzione delle proprie dichiarazioni dei redditi aggiornate, offrendo al giudice solo quelle più datate e recanti disponibilità inferiori, cioè disponibilità economiche risalenti all’epoca in cui era disoccupata e priva di stabilità lavorativa.
2) Violazione e falsa applicazione degliartt. 115 e 116 c.p.c., exart. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla valutazione degli accresciuti redditi della moglie per il solo assegno di mantenimento della figlia e non per quello divorzile: il ricorrente contestava la decisione della Corte d’Appello, in quanto avrebbe escluso dal quadro probatorio di riferimento per la determinazione dell’obbligo di assegno divorzile e per la sua stessa quantificazione tutte le prove dell’accresciuta disponibilità della moglie e avrebbe utilizzato i soli redditi passati e presenti del marito per stimare la sussistenza dell’obbligo di assegno.
3) Omesso esame del fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, costituito dal tenore di vita della coppia, nonché dalle accresciute capacità reddituali della moglie, in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 5: il ricorrente ha affermato che le violazioni di legge in tema di disponibilità, valutazione e dello stesso onere di prova avrebbero anche condotto ad omettere ogni esame circa l’effettivo tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio, nonché circa l’accrescimento delle capacità reddituali della moglie e quindi la potenzialità di questa di garantirsi un tenore di vita non diverso rispetto a quello goduto durante l’unione.
4) Violazione e falsa applicazione dellaL. n. 898 del 1970,art.5, exart. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’istituzione di un assegno divorzile in favore della moglie, in assenza dei presupposti di sperequazione dei redditi e della necessità di mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio: il ricorrente ha evidenziato che la sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto di alcuno degli elementi previsti dall’art. 5 della sopracitata Legge, ad eccezione dei soli redditi attuali del marito, senza peraltro considerare quale sarebbe stato l’apporto della moglie al loro accrescimento, non avendo dunque valutato tutto quell’insieme di altri elementi (durata del matrimonio, condizioni dei coniugi, apporto di ciascuno alla famiglia) indispensabili al fine di stabilire l’an ed il quantum di un eventuale assegno divorzile.
All’esito della adunanza non partecipata il Collegio, rilevato che non sussistono le condizioni per provvedere in questa sede a norma dell’art. 380 bis c.p.c., alla luce della sentenza n. 11504 del 2017, rimette la trattazione del ricorso alla pubblica udienza della prima sezione civile di questa Corte.
P.Q.M.
Rimette la causa alla pubblica udienza della Prima Sezione Civile di questa Corte.
Motivazione semplificata.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 giugno 2017.
Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2017