ALIMENTI

Di Gianfranco Dosi
I
Le persone obbligate agli alimenti
a) Gli obbligati nell’ambito delle relazioni familiari
Delle obbligazioni alimentari si occupa l’intero titolo XIII del primo libro del codice civile.
La collocazione nell’ambito delle norme sul diritto di famiglia (da molti ritenuta non plausibile) appare, invece, del tutto ragionevole in quanto le obbligazioni di natura alimentare sono soprattutto riferibili, nel sentire comune, ai vincoli di solidarietà primaria esistenti tra componenti della famiglia, anche se l’art. 437 pone al primo posto tra gli obbligati il donatario, nei confronti del donante, e perciò un soggetto che per riconoscenza, e non per vincoli di solidarietà familiare, viene dichiarato tenuto all’obbligo.
In ogni caso è pacifico che l’ordinamento appresta, con queste norme, gli strumenti affinché chi non può mantenere se stesso possa ottenere i mezzi necessari alla propria sussistenza da parte di soggetti che si trovano con lui in una particolare relazione personale e che hanno la possibilità economica di provvedere.
L’applicazione delle disposizioni in questione è espressamente e interamente estesa anche alle unioni civili dal comma 19 dell’art. 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze).
All’obbligo ex lege di prestare gli alimenti a chi è incapace di provvedere al proprio sostentamento sono tenuti – secondo quanto previsto nell’art. 433 – nell’ordine: 1) il coniuge; 2) i figli, anche adottivi, e, in loro mancanza, i discendenti prossimi; 3) i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi; gli adottanti; 4) i generi e le nuore; 5) il suocero e la suocera; 6) i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza dei germani sugli unilaterali. Come detto, l’art. 437 aggiunge, collocandolo al primo posto, il donatario nei riguardi del donante.
L’elencazione è tassativa e progressiva, nel senso che il primo soggetto in grado di adempiere esclude gli altri.
Condizione, insomma, dell’azione alimentare proposta contro persone obbligate in un grado determinato è la man¬canza di obbligati di grado anteriore o la loro incapacità di prestare gli alimenti (Trib. Cassino, 23 agosto 2016).
Interessante è la decisione con cui T.A.R. Lombardia Brescia Sez. II, 24 giugno 2011, n. 933 ha ritenuto conforme ai principi costituzionali in un’ottica di solidarietà sociale, distinguere, per l’accesso ai servizi sociali, nell’ambito dei soggetti che maggiormente hanno bisogno di assistenza tra coloro che hanno comunque una fonte di sostentamento, costituita dalla presenza di un obbligato agli alimenti e chi tale fonte non ha; equiparare le due situazioni potrebbe comportare un vulnus agli stessi principi generali e livelli essenziali per l’accesso ai servizi sociali, potendo determinare in concreto una riduzione delle risorse da destinare ai soggetti più bisogne¬voli, perché sprovvisti di una rete di sostegno economico familiare.
Il coniuge
Il coniuge è tale fino al giudicato di divorzio. La conferma sta proprio nella norma (art. 156, comma 3, c.c.) che prevede il diritto alimentare per il coniuge in stato di bisogno al quale è stata addebitata la separazione e che perciò ha perso il diritto all’assegno coniugale.
I figli
I figli (nati nel matrimonio o fuori del matrimonio e anche quelli adottati in età minore o da maggiorenni) sono tenuti agli alimenti nei confronti dei genitori, mentre solo in loro mancanza sono obbligati i discendenti prossimi. Segnale inequivoco del riferirsi l’art. 433 alla famiglia estesa e non solo a quella nucleare.
I genitori
I genitori, anche adottanti, e in loro mancanza gli ascendenti prossimi, sono tenuti a prestare gli alimenti ai figli.
Questa obbligazione alimentare ha carattere evidentemente residuale rispetto al più generale obbligo di man¬tenere i figli fino a quando gli stessi non abbiano raggiunto l’autonomia economica. La giurisprudenza di legit¬timità considera venuto meno il diritto al mantenimento ove il figlio maggiorenne, conclusasi una esperienza lavorativa che lo aveva reso temporaneamente autosufficiente, perda la sua autonomia rientrando in famiglia. Hanno seguito questa interpretazione molte sentenze. In particolare Cass. civ. Sez. VI, 27 gennaio 2014, n. 1585 e Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 2005, n. 26259 dove si afferma che le circostanze che hanno interrotto l’indipendenza economica non possono far risorgere un obbligo di mantenimento i cui presupposti erano già ve¬nuti meno; Cass. civ. Sez. II, 7 luglio 2004, n. 12477 e Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2010, n. 23590 secondo cui l’obbligo dei genitori non può protrarsi sine die e che pertanto esso trova il suo limite allorché il figlio risulti avviato ad una attività lavorativa la quale interrompe “il legame e la dipendenza morale e materiale con la famiglia d’origine”. In verità nessuna norma afferma (e se vi fosse una norma del genere sarebbe nell’attuale congiuntura economica certamente irragionevole) che il diritto al mantenimento venuto meno per una circo¬stanza determinata (perché per esempio un ragazzo ha trovato un’attività lavorativa temporanea) non possa poi riprendere vita quando il ragazzo dovesse terminare non per sua colpa tale attività. L’interpretazione opposta è stata sostenuta da Cass. civ. Sez. I, 24 settembre 2008, n. 24018 secondo cui l’obbligo di mantenimento del figlio “riprende nel caso in cui il giovane abbia deciso di lasciare il lavoro che lo aveva reso economicamente indipendente per riprendere gli studi, seguire corsi di formazione e seguire così la propria inclinazione e aspira¬zione e ciò in quanto non ha colpa il figlio che rifiuta una sistemazione lavorativa non adeguata rispetto a quella cui la sua specifica preparazione, le sue attitudini ed i suoi effettivi interessi siano rivolti, quanto meno nei limiti temporali in cui tali aspirazioni abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate, e sempre che tale at¬teggiamento di rifiuto (nel proseguire a lavorare) sia compatibile con le condizioni economiche della famiglia”.
L’art. 436 avverte che “l’adottante deve gli alimenti al figlio adottivo con precedenza sui genitori di lui”. Norma che vale naturalmente solo in caso di adozione di maggiorenni o per l’adozione di minori in casi particolari di cui all’art. 44 delle legge 4 maggio 1983, n. 184, giacché in entrambe le ipotesi – a differenza di quanto avviene con l’adozione piena dei minori – il vincolo adottivo non cancella quello genitoriale originario.
Gli affini in linea retta
L’art. 433 elenca poi come soggetti obbligati rispetto alla persona che si trova in stato di bisogno gli affini in linea retta (perciò il suocero o la suocera, il genero o la nuora). La famiglia estesa, da un punto di vista degli obblighi alimentari, non comprende quindi i cognati. Si deve ricordare che nelle unioni civili non esiste rilevanza giuridica del vincolo di affinità (cfr art. 1, comma 20, della legge 76/2016). L’obbligazione alimentare nei confronti del soggetto in stato di bisogno – secondo quanto prevede l’art. 434 – cessa non quando tale soggetto divorzia ma solo quando contrae nuovo matrimonio. Singolare che l’obbligo non cessi automaticamente con il divorzio o con la dichiarazione di nullità (Cass. civ. Sez. I, 7 giugno 1978, n. 2848). Quindi il coniuge divorziato – benché in dottrina si ritiene il contrario – potrebbe essere chiamato a corrispondere gli alimenti all’ex suocero. L’obbligo cessa, inoltre, quando il coniuge, da cui deriva l’affinità, e i figli nati dalla sua unione con l’altro coniuge e i loro discendenti sono morti (altrimenti sarebbero questi soggetti, in vita, ad essere obbligati).
Se il matrimonio da cui sorge il vincolo di affinità è dichiarato nullo, cessa l’obbligo alimentare giacché l’affinità cessa se il matrimonio è dichiarato nullo (art. 78, ult. comma, c.c.).
I fratelli e le sorelle
Sono infine indicati come reciprocamente obbligati agli alimenti i fratelli/sorelle con precedenza (irragionevole) tra fratelli/sorelle che hanno gli stessi genitori (germani) rispetto a quelli che ne hanno in comune uno solo (unilaterali).
Come si è detto l’indicazione degli obbligati è progressiva (nel senso chiarito che il primo obbligato in grado di adempiere esclude gli altri) ed è veramente inspiegabile come mai il legislatore abbia ritenuto di collocare i fratelli dopo gli affini.
Si ricorda, infine, che l’art. 1, comma 65, della citata legge 20 maggio 2016, n. 76, prevede nella parte finale che “…l’obbligo alimentare del convivente di cui al presente comma [alla cessazione della convivenza] è adempiuto con precedenza sui fratelli e sorelle”. Il che vuol dire che, al momento della cessazione della convivenza, dopo gli eventuali figli e dopo gli eventuali genitori ma prima dei fratelli e delle sorelle sarà il convivente, ad essere tenuto agli alimenti.
b) Separazione, divorzio, nullità del matrimonio e obbligazioni alimentari
Come meglio si dirà più oltre, trattando il tema della differenza tra mantenimento e alimenti, l’obbligazione ali¬mentare, se ve ne sono i presupposti, permane a favore del coniuge separato senza mantenimento (non in sede di divorzio in cui cessa lo status coniugale) ed è prevista anche in caso di perdita del diritto al mantenimento a seguito di addebito della separazione (art. 156 c.c.). Gli alimenti spettano anche al convivente di fatto che al momento della cessazione della convivenza versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento (art. 1, comma 65, della legge 20 maggio 2016, n. 76).
Quanto alla nullità del matrimonio l’art. 129-bis, primo comma, c.c. chiarisce che “il coniuge al quale sia impu¬tabile la nullità… è tenuto altresì a prestare gli alimenti al coniuge in buona fede, sempre che non vi siano altri obbligati”. Si tratta di un caso di alimenti in cui pur non sussistendo più il rapporto di coniugio, resta fermo alle condizioni indicate, l’obbligo alimentare. In tal caso però la collocazione dell’obbligato è all’ultimo posto nell’or¬dine degli obbligati.
c) Obbligazioni alimentari al di fuori della famiglia
Il donatario
Il donatario è obbligato in base all’art. 437 a prestare gli alimenti al donante in virtù, evidentemente, del vincolo di gratitudine che lo dovrebbe lega al donante ed in effetti sarebbe ingiusto che la persona bisognosa si rivolges¬se ad un membro della famiglia esistendo qualcuno che in passato ha da lui ricevuto un beneficio patrimoniale e che continuerebbe a godere dei vantaggi della donazione pur potendo soccorrere il donante indigente.
L’obbligo è limitato al valore della donazione ancora esistente nel patrimonio del donatario (art. 438, terzo com¬ma).
Trattandosi di un’obbligazione ex lege come quelle indicate nell’art. 433, anche la concessione di alimenti a carico del donatario è subordinata all’assolvimento, da parte del richiedente, dell’onere probatorio in ordine al suo stato di indigenza e all’impossibilità, per cause incolpevoli, di procurarsi personalmente i mezzi di sostentamento.
E’ ragionevole ritenere che l’obbligo alimentare sussista anche in caso di donazione indiretta.
L’obbligo non sussiste – precisa sempre l’art. 437 – allorché “si tratti di donazione fatta in riguardo di un matri¬monio o di una donazione rimuneratoria” giacché in questi due casi l’arricchimento non è avvenuto per spirito di liberalità. Per gli stessi motivi, peraltro, nei medesimi casi – come avverte l’art. 805 – non si può chiedere la revocazione della donazione per ingratitudine e per sopravvenienza di figli.
Nel caso di presenza di più donatari, la soluzione ragionevole dovrebbe essere quella della proporzionalità (art. 438, secondo comma) nel senso che i donatari saranno tenuti agli alimenti, ciascuno in proporzione del valore delle donazioni tuttora esistenti nel suo patrimonio.
Altri casi
Non mancano figure che presentano alcuni caratteri propri degli obblighi alimentari pur senza poter essere pi¬enamente ricondotte ad essi. Per esempio l’art. 2154 c.c.1 prevede l’obbligo del concedente di somministrare quanto necessario al mantenimento della famiglia colonica se il mezzadro e la sua famiglia si trovano in stato di bisogno per insufficienza del raccolto; il vecchio testo dell’art. 560 c.p.c. consentiva al giudice dell’esecuzione immobiliare di concedere al debitore, che non abbia altri mezzi di sostentamento, un assegno alimentare sulle rendite del bene pignorato nei limiti dello stretto necessario, ma in realtà poiché qui il giudice aveva un potere discrezionale non sembrava di potersi ricondurre questa ipotesi all’obbligo legale alimentare; in ogni caso il testo attuale dell’art. 560 c.p.c. (modo della custodia) non prevede più questa possibilità: l’art. 47 della legge falli¬mentare 2 attribuisce al giudice delegato (anche qui discrezionalmente: Cass. civ. Sez. I, 25 febbraio 2002, n. 2755) il potere di concedere al fallito e alla sua famiglia un sussidio alimentare. La Cassazione ha ritenuto che il concetto di mantenimento del fallito e della sua famiglia, nell’art. 46, n. 2, legge fallimentare 3 (secondo cui non sono compresi nel fallimento tra gli altri i redditi da lavoro e “ciò che il fallito guadagna con la sua attività, entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della sua famiglia), non debba intendersi con riferimento alle esigenze meramente alimentari, ma debba determinarsi in un qualcosa di più e cioè in una misura intermedia tra il minimo alimentare ed il minimo socialmente adeguato in base al principio costituzionale della retribuzione sufficiente (Cass. civ. Sez. I, 26 gennaio 1995, n. 971; Cass. civ. Sez. I, 15 dicembre 1994, n. 10736).
d) Obbligazioni alimentari nascenti da legato, da contratto e da atto illecito
L’art. 660 c.c.4 prevede espressamente il legato di alimenti che consiste in un lascito disposto dal testatore, a carico dell’erede o di un legatario, a favore di un beneficiario, per il soddisfacimento dei suoi bisogni di vita; in assenza di determinazione da parte del de cuius il legato comprende le somministrazioni indicate dall’art. 438.
Con il contratto atipico alimentare, una parte, quale corrispettivo del trasferimento di un bene mobile o immobile o della cessione di un capitale, assume, in via esclusiva o in aggiunta al pagamento di una somma di denaro, l’obbligo di prestare all’altra, per un determinato periodo di tempo o per tutta la durata della vita della stessa (o di altra persona), assistenza (in senso lato) materiale e morale nella forma, secondo i casi, di vitto, vestiario, alloggio, cure mediche, pulizia della casa e della persona 5.
Infine l’obbligazione alimentare può nascere da atto illecito (per esempio la morte del figlio per fatto illecito al¬trui), per lesione del diritto agli alimenti futuri dei genitori, qualora l’avente diritto non possa ottenere gli alimenti da altro obbligato (Cass. civ., 11 gennaio 1979, n. 224).
II
I presupposti del diritto agli alimenti
I presupposti per richiedere gli alimenti soni due e precisamente a) trovarsi in stato di bisogno; b) non essere in grado di provvedere al proprio mantenimento (art. 438, primo comma).
La sussistenza dei fatti costitutivi del diritto alimentare dev’essere verificata alla data della decisione e non della domanda (Cass. civ. Sez. I, 19 giugno 2013, n. 15397).
a) Lo stato di bisogno
Il concetto di stato di bisogno va riferito alla mancanza dei mezzi necessari a soddisfare i bisogni primari della persona.
Il concetto è ben chiarito da Cass. civ. Sez. II, 8 novembre 2013, n. 25248 dove si afferma che lo stato di bisogno, quale presupposto del diritto agli alimenti esprime l’impossibilità per il soggetto di provvedere al sod¬
1 Art. 2154 (Anticipazioni di carattere alimentare alla famiglia colonica).
Se la quota dei prodotti spettante al mezzadro, per scarsezza del raccolto a lui non imputabile, non è sufficiente ai bisogni alimen¬tari della famiglia colonica, e questa non è in grado di provvedervi, il concedente deve somministrare senza interesse il necessario per il mantenimento della famiglia colonica, salvo rivalsa mediante prelevamento sulla parte dei prodotti e degli utili spettanti al mezzadro.
Il giudice, con riguardo alle circostanze, può disporre il rimborso rateale.
2 Art. 47 (Alimenti al fallito e alla famiglia)
1. Se al fallito vengono a mancare i mezzi di sussistenza, il giudice delegato, sentiti il curatore ed il comitato dei creditori, può concedergli un sussidio a titolo di alimenti per lui e per la famiglia.
2. La casa di proprietà del fallito, nei limiti in cui è necessaria all’abitazione di lui e della sua famiglia, non può essere distratta da tale uso fino alla liquidazione delle attività.
3 Art. 46 (Beni non compresi nel fallimento)
1. Non sono compresi nel fallimento:1) i beni ed i diritti di natura strettamente personale; 2) gli assegni aventi carattere ali¬mentare, gli stipendi, pensioni, salari e ciò che il fallito guadagna con la sua attività entro i limiti di quanto occorre per il man¬tenimento suo e della famiglia; 3) i frutti derivanti dall’usufrutto legale sui beni dei figli, i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di essi, salvo quanto è disposto dall’articolo 170 del codice civile; 4) (numero soppresso) 5) le cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge.
2. I limiti previsti nel primo comma, n. 2), sono fissati con decreto motivato del giudice delegato che deve tener conto della condizione personale del fallito e di quella della sua famiglia.
4 Art. 660 (Legato di alimenti)
Il legato di alimenti, a favore di chiunque sia fatto, comprende le somministrazioni indicate dall’articolo 438, salvo che il testatore abbia altrimenti disposto.
disfacimento dei suoi bisogni primari, quali il vitto, l’abitazione, il vestiario, le cure mediche, da valutarsi in re¬lazione alle effettive condizioni dell’alimentando, tenendo conto di tutte le risorse economiche di cui il medesimo disponga, compresi i redditi ricavabili dal godimento di beni immobili in proprietà o in usufrutto, e della loro idoneità a soddisfare le sue necessità primarie. In passato nello stesso senso si erano espresse Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2007, n. 3334 e Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 1990, n. 1099.
Il concetto è stato anche ribadito più volte in sede di merito (Trib. Monza, 21 marzo 2012; Trib. Milano Sez. IX, 15 aprile 2011; Trib. Padova Sez. I, 12 novembre 2010; Trib. Novara, 14 aprile 2009; Trib. Saler¬no Sez. I, 25 febbraio 2009).
Non sussiste lo stato di bisogno in chi, pur privo di redditi e di disponibilità economiche, venga mantenuto o sostentato da altri soggetti ancorché questi ultimi non vi siano obbligati, come il convivente di fatto.
Inoltre non c’è lo stato di bisogno quando sussista il diritto di ottenere un contributo al mantenimento a carico di altro soggetto: è il caso, in particolare, del diritto all’assegno divorzile.
b) L’impossibilità di provvedere al proprio mantenimento
L’alimentando deve fornire la prova non solo del proprio stato di bisogno ma anche dell’impossibilità di provve¬dere al proprio sostentamento mediante l’esplicazione di un’attività lavorativa confacente alle proprie attitudini ed alle proprie condizioni sociali (Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 2017, n. 9415; Cass. civ. Sez. I, 30 settembre 2010, n. 20509; Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2007, n. 3334).
Secondo Trib. Monza, 21 marzo 2012 il presupposto del non poter provvedere al proprio mantenimento deve essere valutato con riferimento alle capacità fisiche ed intellettive di chi versa in stato di bisogno ed alle pos¬sibilità ambientali di svolgere una concreta e proficua attività.
c) La domanda di corresponsione degli alimenti
Il diritto agli alimenti sorge in astratto per il fatto di trovarsi in una condizione di bisogno e quindi quando sus¬sistono i presupposti oggettivi e soggettivi previsti dalla legge, ma perché venga affermato in concreto occorre che vi sia evidentemente una domanda della parte, quanto meno rivolta ad uno dei soggetti indicati come ob¬bligato. Ed infatti l’art. 445 afferma che il diritto decorre dalla domanda giudiziale o dal giorno della costituzione in mora dell’obbligato.
E’ questo il senso da dare all’affermazione della giurisprudenza secondo cui il diritto agli alimenti sorge in seguito alla domanda dell’alimentando (Cass. civ. Sez. I, 16 marzo 1990, n. 2199; Trib. Genova Sez. IV, 14 gen¬naio 2008; Trib. Monza Sez. I, 8 gennaio 2007).
Secondo Trib. Bari, 14 agosto 1991 la domanda di alimenti certamente essere proposta dal procuratore ge¬nerale dell’alimentando.
Uguale potere va riconosciuto al tutore (che in base all’art. 357 c.c. ha la cura della persona dell’incapace, lo rappresenta in tutti gli atti civili e ne amministra i beni) previa autorizzazione del giudice tutelare (art. 374 c.c.), così come all’amministratore di sostegno (art. 404 e seguenti c.c.) sempre previa autorizzazione del giudice tutelare (art. 411 che richiama come applicabile l’art. 374 c.c.).
III
La misura degli alimenti
Il primo comma dell’art. 438 prescrive che gli alimenti sono dovuti da un punto di vista dei soggetti creditori “in proporzione del bisogno di chi li domanda” e dal punto di vista dei soggetti debitori “in proporzione …delle condizioni economiche di chi deve somministrarli”.
La misura degli alimenti non deve superare quanto necessario per la vita dell’alimentando, avuto riguardo alla sua posizione sociale (art. 438, secondo comma, seconda parte). Proprio quest’ultimo riferimento ha indotto la dottrina ad individuare il concetto di “alimenti congrui”, dove la congruità si deve desumere anche dalla posizione sociale del soggetto e quindi dalle sue aspettative a conservare un certo tenore di vita.
Inoltre “il donatario non è tenuto oltre il valore della donazione tuttora esistente nel suo patrimonio” (art. 438 ultimo comma).
Tra fratelli e sorelle – come avverte inspiegabilmente l’art. 439 – “gli alimenti sono dovuti nella misura dello stretto necessario”.
Una sentenza di merito ha precisato che il concetto di “alimenti strettamente necessari” si riferisce non solo alla somministrazione del vitto e dell’alloggio, ma anche al vestiario, alle cure mediche e a tutto quanto è indispen¬sabile per la vita dell’alimentando (Trib. Bari Sez. I, 6 settembre 2007).
In ogni caso se l’interessato che ha diritto è un soggetto minore di età, l’obbligazione alimentare può “compren¬dere anche le spese per l’educazione e l’istruzione” e quindi qualcosa che supera “quanto necessario per la vita dell’alimentando” come si è già sopra detto.
L’obbligazione alimentare (come quella di mantenimento coniugale, divorzile o per i figli) è obbligazione di valore (Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 1995, n. 6737) per cui si deve tener conto del variare del potere d’acquisto della moneta, sia con riferimento alla liquidazione che al periodico aggiornamento.
IV
Quando cessa l’obbligo di somministrare gli alimenti?
Il problema del limite temporale dell’obbligazione alimentare è risolto dall’art. 440 che in verità si occupa anche delle vicende modificative (riduzione o aumento) dell’importo stabilito dal giudice.
Se dopo l’assegnazione degli alimenti mutano le condizioni economiche di chi li somministra o di chi li riceve, l’autorità giudiziaria provvede per la cessazione, la riduzione o l’aumento, secondo le circostanze. Si tratta quindi di una obbligazione di durata variabile e condizionata in quanto il suo perdurare nel tempo dipende dalla persistenza dei presupposti oggettivi e soggettivo in forza dei quali è sorta. Si può dire perciò che è soggetta implicitamente, come il mantenimento, alla clausola rebus sic stantibus.
Gli alimenti possono pure essere ridotti per la condotta disordinata o riprovevole dell’alimentato.
Se, dopo assegnati gli alimenti, consta che uno degli obbligati di grado anteriore è in condizione di poterli som¬ministrare, l’autorità giudiziaria non può liberare l’obbligato di grado posteriore se non quando abbia imposto all’obbligato di grado anteriore di somministrare gli alimenti.
Il giudice, su domanda della parte interessata, può quindi intervenire per aumentare o ridurre la prestazione, o addirittura a far cessare l’obbligazione, tutte le volte che si verifica un’alterazione dell’equilibrio originario, ossia quando lo stato di bisogno dell’avente diritto o le condizioni economiche dell’obbligato subiscano variazioni o addirittura vengano meno.
Ai sensi del secondo comma dell’art. 440, se dopo l’assegnazione degli alimenti consta che un obbligato di grado anteriore è in condizione di poterli somministrare, il debitore originario potrà ottenere la cessazione della sua ob¬bligazione; in tal caso, però, il giudice potrà liberare l’obbligato originario solo quando abbia imposto all’obbligato di grado anteriore di somministrare gli alimenti.
V
Più obbligati: la natura parziaria e non solidale dell’obbligazione alimentare
Nelle obbligazioni solidali allorché via sia un concorso nell’obbligazione di più soggetti obbligati (più debitori) tutti sono tenuti per l’intero (art. 1292 c.c.) e l’obbligazione si divide in parti uguali (art. 1298 c.c.).
Nell’ambito delle obbligazioni alimentari questa regola non vale.
Infatti, sulla base di quanto indicato nell’art. 441 (concorso di obbligati) la natura dell’obbligazione è parziaria – e non solidale – in quanto, come chiarisce il primo comma, “Se più persone sono obbligate nello stesso grado alla prestazione degli alimenti, tutte devono concorrere alla prestazione stessa, ciascuna in proporzione delle proprie condizioni economiche” e quindi non in misura uguale per tutti.
Il giudice, quindi, non deve ripartire l’assegno a carico dei coobbligati in uguale misura, ma deve porre a carico di ciascuno di essi una parte della prestazione, in proporzione alla sua capacità economica, e sempre che tutti i coobbligati abbiano tale capacità economica; diversamente, l’assegno alimentare dovrà essere posto a carico solo dell’obbligato economicamente capace (Cass. civ. Sez. I, 15 marzo 1986, n. 1767).
La natura parziaria è rafforzata dalla previsione del secondo comma dove si legge che “Se le persone chiamate in grado anteriore alla prestazione non sono in condizioni di sopportare l’onere in tutto o in parte, l’obbligazione stessa è posta in tutto o in parte a carico delle persone chiamate in grado posteriore”. Ne conseguirebbe che il successo dell’azione alimentare esercitata contro un soggetto presuppone che l’avente diritto dimostri, in parti¬colare, la mancanza di obbligati di grado anteriore o la loro incapacità, in tutto o in parte, di prestare gli alimenti.
Effettivamente, come ha chiarito Trib. Bologna Sez. I, 2 febbraio 2006 in base al combinato disposto degli artt. 433 e 441 c.c., condizione dell’azione alimentare proposta contro persone obbligate in un grado determina¬to è la mancanza di obbligati di grado anteriore o la loro incapacità di prestare gli alimenti; inoltre, se più persone sono obbligate nello stesso grado, può essere accolta l’azione proposta contro solo alcuni di essi nel caso in cui gli altri risultino incapaci di sostenere la prestazione alimentare. Anche se non è necessario che tutti gli obbligati incapaci economicamente siano presenti nel giudizio, grava sempre sull’alimentando l’onere della prova delle suddette circostanze, sia pure nei confronti dei soli chiamati in giudizio, quale presupposto per l’accoglimento di una domanda volta ad ottenere gli alimenti da obbligati in un grado ulteriore o da una parte sola dei coobbligati nello stesso grado, tra i quali la prestazione alimentare dovrebbe essere ripartita.
L’art. 441 regola quindi i casi di concorso fra obbligati, siano essi dello stesso grado (primo comma), ovvero di grado diverso (secondo comma).
L’obbligo del condebitore ad adempiere l’obbligo giuridico che gli sia imposto con provvedimento giudiziale sussiste anche nell’ipotesi in cui i bisogni dell’avente diritto vengano soddisfatti per intero da uno soltanto dei condebitori (Trib. Monza Sez. IV, 11 gennaio 2012 e Trib. Bari Sez. I, 15 gennaio 2009 dove si chiarisce che in tal caso il condebitore solvente può agire in regresso nei confronti dell’altro, per la quota di sua spettanza, senza che sia necessaria una preventiva diffida ad adempiere.
Escludendosi correttamente l’esistenza di un’obbligazione solidale (come fa espressamente per esempio App. Bologna Sez. I, 10 aprile 2009) si deve coerentemente anche negare la possibilità che chi ha adempiuto per l’intero agisca in regresso nei confronti dei coobbligati ex art. 1299. Tuttavia si ammette in giurisprudenza l’azione di regresso pro quota in virtù delle regole dell’utile gestione (Trib. Monza Sez. IV, 11 gennaio 2012).
Si è posta la questione del diritto di rivalsa degli enti assistenziali, avente ad oggetto la retta di ricovero, nei con¬fronti dei parenti del ricoverato che siano tenuti agli alimenti. Una norma originariamente prevedeva tale diritto (art. 1, legge 3.12.1931, n. 1580) ma non è stata riprodotta nella legge di riforma del servizio sanitario nazionale (attuata con la legge 23.12.1978, n. 833). La prassi diffusa, degli istituti di assistenza pubblica di rivolgersi ai parenti del ricoverato, per chiedere un contributo per il pagamento della retta, deve quindi oggi ritenersi illegit¬tima. La giurisprudenza è divisa: la sussistenza del diritto alla rivalsa è stata affermata da Cass. civ. Sez. I, 24 febbraio 2004, n. 3629; Trib. Torino, 12 agosto 1994 ma è stata negata da Trib. Verona, 14 maggio 1996 e T.A.R. Veneto Sez. I, 3 novembre 1999, n. 1785 “poiché la domanda alimentare ha natura stret¬tamente personale e l’amministrazione sanitaria non può sostituirsi al beneficiario ed agire in via surrogatoria”.
Infine l’ultimo comma dell’art. 441 avverte che “Se gli obbligati non sono concordi sulla misura, sulla distribuzio¬ne e sul modo di somministrazione degli alimenti, provvede l’autorità giudiziaria secondo le circostanze”.
A tale proposito Cass. civ. Sez. I, 11 novembre 1994, n. 9432 ha avuto modo di affermare che al fine del riconoscimento e della quantificazione del diritto agli alimenti, nonché della ripartizione del relativo onere in presenza di più obbligati, il raffronto fra le rispettive condizioni economiche va effettuato con riferimento alla situazione in atto, e, quindi, deve prescindere da vicende future, quale la probabile riscossione di crediti, le qua¬li potranno avere influenza, al loro verificarsi, per un’eventuale revisione di dette statuizioni, ai sensi dell’art. 440 c.c.
VI
Che succede se un solo obbligato deve provvedere a più persone bisognose?
L’art. 442 (concorso di aventi diritto) prevede che “Quando più persone hanno diritto agli alimenti nei confronti di un medesimo obbligato, e questi non è in grado di provvedere ai bisogni di ciascuna di esse, l’autorità giudiziaria dà i provvedimenti opportuni, tenendo conto della prossimità della parentela e dei rispettivi bisogni, e anche della possibilità che taluno degli aventi diritto abbia di conseguire gli alimenti da obbligati di grado ulteriore”.
Il problema risolto da questa disposizione è quello del concorso – non degli obbligati – ma degli aventi diritto agli alimenti.
Che avviene se un singolo obbligato debba prestare gli alimenti a più persone e non è in grado di provvedere ai bisogni di tutte?
In tale evenienza il giudice ha il potere discrezionale di ridurre la prestazione a favore dei diversi destinatari, tenendo però conto di alcuni criteri espressamente indicati: la prossimità del vincolo di parentela, l’entità dei bisogni di ciascuno, e la possibilità che taluno degli aventi diritto possa conseguire gli alimenti da obbligati di grado successivo.
VII
Il modo di somministrazione degli alimenti
Gli alimenti sono sostanzialmente una prestazione economica anche se giustamente è stato sottolineato che in questo concetto rientra anche l’attività di assistenza, intesa come prestazione personale di supporto globale al soggetto in stato di bisogno, in termini di presenza, di compagnia, di conforto e di affetto, che si deve, tuttavia tradurre in una prestazione di materialità concreta non potendo coincidere con il concetto di “presenza”, di “cu¬stodia” generica (App. Lecce, 2 novembre 2016).
Chi deve somministrare gli alimenti – come stabilisce l’art. 443 – “ha la scelta di adempiere questa obbligazione o mediante un assegno alimentare corrisposto in periodi anticipati, o accogliendo e mantenendo nella propria casa colui che vi ha diritto”.
Anche l’autorità giudiziaria, su richiesta di chi si trova in stato di bisogno, può determinare il modo di sommini¬strazione (art. 443, secondo comma).
L’ultimo comma dell’art. 443 prescrive che “In caso di urgente necessità l’autorità giudiziaria può altresì porre temporaneamente l’obbligazione degli alimenti a carico di uno solo tra quelli che vi sono obbligati, salvo il re¬gresso verso gli altri”.
I primi due commi della norna in questione disciplinano i modi di adempimento dell’obbligazione alimentare. Fra le varie modalità astrattamente idonee ad adempiere l’obbligazione, il legislatore ne ha considerate in particolare due che sembrano meglio contemperare gli interessi in gioco: l’obbligato può scegliere di corrispondere un as¬segno alimentare periodico (analogamente a quanto avviene per il mantenimento nell’ambito della separazione e del divorzio), oppure di accogliere e mantenere l’avente diritto nella propria casa. In entrambi i casi si tratta naturalmente di prestazioni di carattere patrimoniale.
L’obbligazione si configura, pertanto, come obbligazione alternativa (art. 1285 ss c.c.), e la scelta spetta al debitore. Le regole della scelta sono tuttavia peculiari: in particolare il giudice (che comunque non può certo all’obbligato di ospitare in casa il debitore contro la volontà dell’uno o dell’altro (Trib. Prato, 9 novembre 2010) ha il potere di valutare l’opportunità della scelta effettuata, di modificarla e di determinare il modo di adempimento nel caso in cui il debitore non voglia effettuare la scelta.
VIII
L’adempimento della prestazione alimentare
L’art. 444 prescrive che l’assegno alimentare prestato secondo le modalità stabilite non può essere nuovamente richiesto, qualunque uso l’alimentando ne abbia fatto.
L’adempimento dell’assegno nei modi stabiliti dal provvedimento del giudice estingue l’obbligo relativo, di modo che l’assegno prestato non potrà essere nuovamente richiesto. Ciò vale nel caso in cui l’alimentando lo sperper¬asse o ne facesse un cattivo uso.
IX
La decorrenza dell’obbligazione alimentare
Gli alimenti sono dovuti – come prevede l’art. 445 – “dal giorno della domanda giudiziale o dal giorno della costi¬tuzione in mora dell’obbligato, quando questa costituzione sia entro sei mesi seguita dalla domanda giudiziale”.
La norma in commento regola la decorrenza degli alimenti, ossia la data a partire dalla quale sono dovuti gli alimenti.
Il termine iniziale coincide con la domanda giudiziale, ovvero con la costituzione in mora (da intendersi quale domanda stragiudiziale non formale), purché entro sei mesi sia seguita dalla domanda giudiziale.
Proprio da questa regola consegue la retroattività delle statuizioni della decisione anche di secondo grado che deve, però, contemperarsi con i principi di irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità delle prestazioni alimentari. In tal modo si è espressa Cass. civ. Sez. I, 5 novembre 1996, n. 9641 secondo cui chi abbia ricevuto, per ogni singolo periodo, le prestazioni stabilite nella pronuncia di primo grado, non è tenuto a resti¬tuirle, né può vedersi opporre in compensazione quanto ricevuto a tale titolo, mentre il soggetto obbligato, ove abbia corrisposto le somme poste a suo carico nella decisione di primo grado, non può ripeterle sulla base delle statuizioni a lui più favorevoli della sentenza di appello, né può rifiutare le prestazioni dovute in base alla stessa, opponendo in compensazione le maggiori somme versate in forza della pronunzia di primo grado; d’altra parte, in base al principio della retroattività della decisione d’appello, se il soggetto obbligato non abbia corrisposto, per periodi anteriori alla decisione stessa, le somme poste a suo carico dalla pronuncia riformata, non può es¬sere costretto ad adempiervi, essendo ormai tenuto unicamente, anche per il passato, a corrispondere quanto stabilito dalla sentenza di secondo grado.
La Cassazione, in sede di delibazione di una sentenza straniera che stabiliva la decorrenza degli alimenti da data anteriore alla domanda, ha ritenuto che la decisione non contrasti l’ordine pubblico italiano poiché, avendo l’obbligazione alimentare contenuto prettamente patrimoniale, non coinvolge valori d’ordine primario, né principi supremi ed inderogabili della convivenza civile, sì che l’ampiezza di contenuto e di decorrenza di una siffatta ob¬bligazione può essere variamente fissata (Cass. civ. Sez. I, 17 aprile 1991, n. 4103).
La decorrenza dell’obbligazione alimentare a far data dalla domanda sussiste solo nel rapporto diretto tra ali¬mentato e alimentando, mentre l’azione di regresso, esercitata da uno dei condebitori verso il co-obbligato, è riconducibile alle regole della negotiorum gestio (Cass. civ. Sez. I, 9 agosto 1988, n. 4883).
X
Il procedimento e l’assegno provvisorio
Il procedimento per la determinazione e l’attribuzione dell’assegno alimentare ha natura contenziosa. Non trat¬tandosi di una causa in cui è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero è competente il tribunale in compo¬sizione monocratica del luogo di residenza dell’obbligato convenuto in giudizio.
Analogamente a quanto avviene nell’ambito dei procedimenti di separazione e di divorzio, l codice prevede all’art. 446 che, nel corso della causa e “finché non sono determinati definitivamente il modo e la misura degli alimenti, il presidente del tribunale può, sentita l’altra parte, ordinare un assegno in via provvisoria ponendolo, nel caso di concorso di più obbligati, a carico anche di uno solo di essi, salvo il regresso verso gli altri”.
L’esistenza di questa possibilità rende inammissibile altre forme di tutela d’urgenza e cautelare (Trib. Milano Sez. IX, 3 aprile 2013; Trib. Modena Sez. II, 27 ottobre 2008). Per l’applicabilità, invece, anche in materia di alimenti della disciplina dei procedimenti cautelari Trib. Firenze, 7 novembre 1994 che ha ritento compe¬tente il giudice alla corresponsione in corso di causa di un assegno provvisorio di alimenti.
L’ultima parte dell’art. 446 dispone che, in caso di urgente necessità, il giudice può porre temporaneamente l’obbligazione alimentare a carico di uno dei coobbligati, salvo il diritto al regresso nei confronti degli altri. Si ha quindi un caso di condanna di un solo obbligato, le cui condizioni economiche lo consentano, al pagamento dell’intera prestazione, mediante sentenza non definitiva, con prosecuzione del processo per la suddivisione dell’obbligazione tra i condebitori e per la determinazione dei rimborsi.
Il procedimento in questione, in assenza (irragionevole) di una specifica diversa procedura prevista nel comma 65 dell’art. 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76 – di cui si tratterà più oltre – dovrebbe trovare applicazione anche per il caso in cui alla cessazione della convivenza uno dei conviventi intendesse richiedere l’assegno ali¬mentare previsto dal comma indicato.
XI
L’indisponibilità dell’obbligazione alimentare: il divieto di cessione e di compensazione
Secondo quanto dispone espressamente l’art. 447 il credito alimentare non può essere ceduto né può essere opposto in compensazione “neppure quando si tratta di prestazioni arretrate”.
Il divieto di cessione si fonda sulla necessità di garantire il soddisfacimento delle esigenze di vita dell’avente diritto e costituisce un’applicazione dell’art. 1260 c.c., che sancisce l’incedibilità dei crediti di carattere stretta¬mente personale6. La giurisprudenza sottolinea che il credito alimentare non può essere oggetto di cessione o di compensazione (T.A.R. Lombardia Milano Sez. III, 4 luglio 2011, n. 1738), pur precisandosi, però che gli accordi fra coobbligati in merito alla misura dell’assegno alimentare sono leciti, poiché non incidono sul diritto dell’alimentando e non comportano rinunzia (Trib. Brescia Sez. II, 27 ottobre 2003).
Il divieto di compensazione è espressamente sancito anche per le prestazioni arretrate.
Il principio, insomma, è quello dell’indisponibilità dell’obbligazione alimentare (e della conseguente inammissi¬bilità della rinuncia e della transazione) che viene ricostruito proprio sulla base delle regole sancite dall’art. 447.
Conseguenza della natura indisponibile è anche la imprescrittibilità del diritto alimentare (art. 2934, secondo comma c.c.) mentre si prescrivono in cinque anni le annualità scadute, a norma dell’art. 2948, n. 2).
Il credito alimentare (“gli assegni aventi carattere alimentare”: art. 46, n. 2, della legge fallimentare) è anche impignorabile, tranne che per causa di alimenti (art. 545 c.p.c. 7), e quindi insequestrabile (art. 671 c.p.c. 8).
XII
La cessazione dell’obbligo per morte della persona tenuta agli alimenti
L’obbligo degli alimenti cessa – stante la previsione dell’art. 448 – con la morte dell’obbligato, anche se la som¬ministrazione è avvenuta in esecuzione di una sentenza.
Si comprende quindi l’obbligazione alimentare ha natura è strettamente personale con la conseguenza che legittimato attivo è solo colui che si trova in stato di bisogno, o il suo rappresentante legale, e che è, quindi, in¬concepibile un’azione surrogatoria dei creditori dell’alimentando (T.A.R. Lombardia Milano Sez. III, 4 luglio 2011, n. 1738)
Gli alimenti risulteranno dovuti fino al momento della morte, mentre il debito per gli alimenti arretrati graverà sugli eredi del debitore, e il credito per gli alimenti arretrati sarà a favore degli eredi del creditore.
Qualora la morte dell’obbligato sia imputabile a fatto doloso o colposo di un terzo, l’autore dell’illecito potrebbe essere tenuto a risarcire il danno subito dal creditore per la morte del suo debitore.
Alla morte va equiparata la morte presunta (art. 63). In caso invece di assenza la prestazione a favore dell’assente rimane temporaneamente sospesa (art. 50, quarto comma c.c.) e il coniuge dell’assente può ottenere dal tribu¬nale un assegno alimentare (art. 51 c.c.).
Un’altra causa di cessazione dell’obbligo alimentare è il fallimento del debitore. In tal caso il creditore potrà in¬sinuarsi al passivo per le rate scadute prima della dichiarazione di fallimento
La cessazione dell’obbligo alimentare costituisce poi – ai sensi del terzo comma dell’art. 609-novies c.p. – pena accessoria della sentenza irrevocabile di condanna per uno dei reati di violenza contro la persona indicati dagli articoli 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies del codice penale.
XIII
Decadenza dalla responsabilità genitoriale: l’esclusione degli alimenti e della successione
La riforma sulla filiazione operata con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 e con il decreto legislativo 28 dicem¬bre 2013, n. 154 ha inserito nel codice civile l’art. 448-bis (cessazione per decadenza dell’avente diritto dalla responsabilità genitoriale sui figli) in base al quale “Il figlio, anche adottivo, e, in sua mancanza, i discendenti prossimi non sono tenuti all’adempimento dell’obbligo di prestare gli alimenti al genitore nei confronti del quale è stata pronunciata la decadenza dalla responsabilità genitoriale”.
Il genitore decaduto dalla responsabilità genitoriale perde ogni potere inerente alla cura della persona del figlio e
6 Art. 1260 (Cedibilità dei crediti)
Il creditore può trasferire a titolo oneroso o gratuito il suo credito, anche senza il consenso del debitore, purché il credito non abbia carattere strettamente personale o il trasferimento non sia vietato dalla legge.
Le parti possono escludere la cedibilità del credito; ma il patto non è opponibile al cessionario, se non si prova che egli lo cono¬sceva al tempo della cessione.
7 Art. 545 (Crediti impignorabili)
Non possono essere pignorati i crediti alimentari, tranne che per cause di alimenti, e sempre con l’autorizzazione del presidente del tribunale o di un giudice da lui delegato e per la parte dal medesimo determinata mediante decreto…(omissis)
8 Art. 671 (Sequestro conservativo)
Il giudice, su istanza del creditore che ha fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito, può autorizzare il sequestro conservativo di beni mobili o immobili del debitore o delle somme e cose a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne permette il pignoramento.
all’amministrazione del suo patrimonio, nonché la sua rappresentanza legale, l’usufrutto legale sui beni del figlio ed è indegno di succedere al figlio, qualora, alla data di apertura della sua successione, non sia stato in essa reintegrato (art. 463 n. 3-bis c.c.). In passato, tuttavia, il genitore decaduto conservava, nei confronti del figlio, e, in mancanza, dei suoi discendenti prossimi, il diritto agli alimenti, dovuti ai sensi dell’art. 433, n. 2.
a) L’esclusione degli alimenti
L’art. 448 bis, nella sua prima parte, esonera, in modo espresso, il figlio, e in mancanza, i suoi discendenti pros¬simi, dall’obbligo di prestare gli alimenti al genitore, nei cui confronti sia stata pronunziata la decadenza dalla responsabilità genitoriale.
La lettera della norma fa riferimento ad una decadenza «pronunciata», ma non vi sono motivi per non dare alla norma una interpretazione estensiva applicandola a tutti i casi di decadenza (per esempio, come si è detto, al¬lorché costituisce pena accessoria della sentenza irrevocabile di condanna per un reato di violenza sessuale).
La Corte Costituzionale ha escluso l’illegittimità dell’art. 448-bis, nella parte in cui non prevede che l’esonero dalla prestazione alimentare possa essere invocato dal figlio anche nei confronti del genitore che, pur non es¬sendo decaduto dalla responsabilità genitoriale, abbia nel passato tenuto una condotta trascurata nei suoi con¬fronti (Corte cost., 27 gennaio 2016, n. 34).
Naturalmente la reintegrazione nella responsabilità genitoriale avrà anche l’effetto di ripristinare il diritto del genitore agli alimenti.
b) L’esclusione dalla successione
L’art. 448-bis nella sua seconda parte aggiunge anche che i figli possono escludere dalla successione il genitore decaduto “per i fatti che non integrano i casi di indegnità di cui all’articolo 463” (che già di per sé prevedono l’esclusione dalla successione).
Il genitore che sia decaduto dalla responsabilità genitoriale, quindi, può essere escluso dalla successione del figlio quando la sua decadenza sia dovuta a fatti che non integrano i casi di indegnità di cui all’art. 463 9. Il rif¬erimento è al n. 3-bis) dell’art. 463, che contempla, quale causa di indegnità a succedere, la decadenza di uno dei genitori, o di entrambi, dalla responsabilità genitoriale, ma solo se pronunziata ex art. 330. Le altre ipotesi di decadenza dalla responsabilità genitoriale non comportavano fini ad oggi l’indegnità a succedere, essendo quest’ultima una sanzione civile e operando, quindi, il principio di tassatività, a tutela della persona. Il nuovo art. 448-bis, dunque, colma le lacune della normativa sull’indegnità, riconoscendo che, per i fatti diversi da quelli contemplati dall’art. 463, e, quindi, in particolare, per le ipotesi di decadenza dalla responsabilità genitoriale di¬verse da quelle pronunciate dal giudice ai sensi dell’art. 330, sia possibile l’esclusione della successione e quindi per esempio nei casi in cui la legge penale prevede la decadenza come pena accessoria.
In che modo il genitore decaduto dalla responsabilità genitoriale può essere escluso dalla successione del figlio? La legge tace sulle modalità con le quali l’esclusione possa essere attuata. Di fatto la nuova normativa concede al figlio la facoltà di diseredare il genitore, privandolo anche della quota di riserva con un testamento nel quale dichiara di escludere il genitore dalla propria successione.
La diseredazione, anche in questo caso, potrà essere disposta solo nei confronti del genitore che sia decaduto dalla responsabilità non per effetto di un provvedimento adottato dal giudice ex art 330 in quanto se la decaden¬za è fondata su quest’ultima norma, e non sia stata seguita da reintegrazione, il genitore è indegno di succedere al figlio (art. 463, n. 3-bis) e non si pone, allora, il problema della sua diseredazione.
XIV
Le differenze tra il mantenimento e gli alimenti
a) La natura in senso lato alimentare del mantenimento e le conseguenze
Gli alimenti ai quali fa riferimento il titolo XIII del primo libro del codice civile sono una prestazione diversa dal mantenimento cui fanno riferimento le norme in materia di separazione. Ne sono diversi i presupposti e i criteri di quantificazione. È lo stesso codice che indica le differenze tra le due forme di sostentamento: il mantenimento (che ha la funzione di consentire al coniuge debole di conservare lo stesso tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale) e gli alimenti (la cui funzione è quella di sostenere – ai sensi dell’art. 438 c.c. – “chi versa in stato di bisogno e non è in grado di provvedere da solo al proprio mantenimento”. Sono pertanto com¬

9 Art. 463 (Casi d’indegnità)
È escluso dalla successione come indegno:
1) chi ha volontariamente ucciso o tentato di uccidere la persona della cui successione si tratta, o il coniuge, o un discendente, o un ascendente della medesima, purché non ricorra alcuna delle cause che escludono la punibilità a norma della legge penale;
2) chi ha commesso, in danno di una di tali persone, un fatto al quale la legge dichiara applicabili le disposizioni sull’omicidio;
3) chi ha denunziato una di tali persone per reato punibile con l’ergastolo o con la reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a tre anni, se la denunzia è stata dichiarata calunniosa in giudizio penale; ovvero ha testimoniato contro le persone me¬desime imputate dei predetti reati, se la testimonianza è stata dichiarata, nei confronti di lui, falsa in giudizio penale;
3-bis) Chi, essendo decaduto dalla responsabilità genitoriale nei confronti della persona della cui successione si tratta a norma dell’articolo 330, non è stato reintegrato alla data di apertura della successione della medesima.
4) chi ha indotto con dolo o violenza la persona, della cui successione si tratta, a fare, revocare o mutare il testamento, o ne l’ha impedita;
5) chi ha soppresso, celato o alterato il testamento dal quale la successione sarebbe stata regolata;
6) chi ha formato un testamento falso o ne ha fatto scientemente uso.

Contratto fiduciario

Di Gianfranco Dosi

I
Fiducia e contratto come categorie antitetiche
Fiducia e contratto sono due categorie sostanzialmente antitetiche. La fiducia è, infatti, una condizione psicologica che comporta l’affidarsi alla lealtà e all’onore di un’altra persona, mentre il contratto ha forza di legge tra le parti ed obbliga all’adempimento.
Queste caratteristiche, fanno sì che la fiducia sia per lo più irrilevante nell’esperienza formale del mondo giuridico. Se per non apparire proprietario di un bene o per evitare l’aggressione di una mia proprietà da parte di un creditore, mi accordo per intestare ad un amico un mio bene immobile o mie quote societarie fidandomi del fatto che egli mi restituirà quello che io gli cedo (fiducia cum amico) non compio nessuna attività su cui giuridicamente io possa contare per poter reagire all’eventuale adempimento da parte del mio amico. Posso solo sperare che questa persona adempia a quanto mi assicura sulla parola che farà. Ugualmente non ha nessuna forza giuridico il fatto del debitore che trasferisce al creditore la proprietà di un bene con l’intesa fiduciaria che, quando il debito sarà estinto, il diritto gli sarà retrocesso (fiducia cum creditore).
La rilevanza di questi impegni rimane, insomma, interna al rapporto tra le persone che li pongono in essere. Nessuna azione giuridica potrà mai avere il fiduciante nei confronti del fiduciario.
La riprova di questo si ha nell’unico caso in cui il codice civile si occupa della fiducia che è l’art. 627 (la cui rubrica è “disposizione fiduciaria”), il cui primo comma afferma che “Non è ammessa azione in giudizio per accertare che le disposizioni fatte a favore di persona dichiarata nel testamento sono soltanto apparenti e che in realtà riguardano altra persona, anche se espressioni del testamento possono indicare o far presumere che si tratti di persona interposta”. In caso di disposizione fiduciaria, insomma, non esiste azione. Tuttavia, precisa il secondo comma, se la persona dichiarata nel testamento esegue la disposizione e trasferisce i beni alla persona voluta dal testatore, “non può agire per la ripetizione”.
Il meccanismo è quello dell’obbligazione naturale (art. 2034 c.c.) e, benché riferito alla disposizione fiduciaria testamentaria, non vi sono motivi per non considerarlo esportabile all’adempimento di altre disposizioni fiduciarie. In effetti il riferimento alla fiducia come qualcosa che vincola solo moralmente costituendo perciò un dovere morale è pienamente plausibile e giustifica l’inquadramento dell’adempimento delle disposizioni fiduciarie nell’ambito delle obbligazioni naturali.
Fiducia e contratto si confermano quindi come categorie sostanzialmente antitetiche fondate la prima sul vincolo morale e la seconda sul vincolo giuridico.
Parlare, quindi, di contratto fiduciario, di pactum fiduciae, di causa fiduciae, di fiduciante e fiduciario ha senso solo se si comprende che queste espressioni non si riferiscono certo più alla fiducia romanistica, priva di azione in giudizio, ma al contesto in cui determinati rapporti giuridici negoziali hanno insieme effetti reali esterni ed effetti obbligatori interni garantiti da clausole che ne assicurano l’adempimento.

II
Esiste ancora la fiducia come causa di un contratto? L’inquadramento in giurisprudenza del negozio fiduciario come negozio atipico ad effetti obbligatori risultante dal collegamento tra due negozi

La realtà giuridica attuale non conosce di fatto più la storica fiducia romanistica (fiducia cum amico e fiducia cum creditore) quella cioè in cui il fiduciante non ha mezzi per essere tutelato, o, perlomeno, potrebbe avere solo quello del risarcimento del danno. Oggi la causa fiduciae è scomparsa e confusa all’interno di clausole contrattuali che rendono il negozio cosiddetto fiduciario un vero e proprio negozio obbligatorio. Nei negozi giuridici cosiddetti fiduciari il trasferimento del bene è reale e l’adempimento del ritrasferimento è garantito da obbligazioni accessorie e non certo dalla sola fiducia.
Il che non vuol dire, naturalmente, che nella prassi non siano rinvenibili trasferimenti per così dire provvisori di diritti – spesso elusivi di obblighi verso il fisco o verso i creditori – basati solo sulla fiducia.
A differenza della fiducia romanistica in cui il trasferimento del diritto è reale, nella fiducia germanistica non vi è trasferimento effettivo della titolarità del bene, perché il fiduciario riceve solo la legittimazione ad esercitare in nome proprio un diritto che però continua a rimanere in capo al fiduciante. A tale proposito va segnalata Trib. Milano, 19 novembre 2001 che ha approfondito l’ammissibilità del contratto fiduciario, riconducibile alla “fiducia germanistica”, con cui un fiduciante attribuisce ad una società fiduciaria la legittimazione all’esercizio dei diritti inerenti le quote di s.r.l. ma non la titolarità delle quote.
In dottrina si è spesso negata dignità al negozio fiduciario (romanistico) anche sul presupposto che il trasferimento della proprietà con causa fiduciaria contrasterebbe con i caratteri tipici della proprietà, venendosi ad ammettere un tipo di proprietà (la proprietà fiduciaria, appunto) che avrebbe caratteristiche diverse da quelle previste dall’articolo 832 c.c.; si tratterebbe infatti di una proprietà solo formale svuotata del tutto da ogni contenuto e quindi di un diritto reale atipico, contrastante con il principio del numero chiuso dei diritti reali. Se il negozio fiduciario si fondasse solo su questo la tesi potrebbe avere una sua plausibilità. In verità il negozio giuridico cosiddetto fiduciario non ha più quasi nulla in comune con quello causa fiduciae del diritto romano.
Il trasferimento della proprietà, infatti, è del tutto reale, sia pure sottoposta ad una condizione concordata tra le parti. E poiché questa condizione ha carattere obbligatorio ed è, quindi, capace di attribuire rilevanza giuridica al programma concordato tra le parti, di fatto il negozio atipico che le parti realizzano perde la connotazione fiduciaria pura ed acquista una connotazione di obbligatorietà che l’avvicina molto a qualsiasi altro contratto atipico.
In sostanza non siamo più in presenza di un negozio fiduciario ma di un negozio obbligatorio, sia pure, in taluni casi, largamente permeato da una ampia libertà di scelta circa le modalità migliori di adempimento (si pensi al trust o ai cosiddetti contratti di affidamento fiduciario). La fiducia è solo affidabilità nelle capacità del soggetto incaricato dell’adempimento.
Per questo in giurisprudenza si considera il negozio (che ancora viene chiamato) “fiduciario” un vero e proprio negozio atipico obbligatorio dando quindi ragione alla constatazione che di fatto è oggi inesistente nel nostro ordinamento un negozio fiduciario puro, basato cioè sulla sola fiducia.
Sintomatico quanto si afferma in Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2014, n. 10633 dove si legge che l’obbligo di ritrasferimento che trae le sue origini da un pactum fiduciae concluso oralmente, può rinvenire la sua fonte non solo in un accordo contrattuale ma anche in una dichiarazione unilaterale, qualora essa contenga la chiara enunciazione dell’impegno attuale del soggetto ad effettuare una determinata prestazione in favore di altro soggetto, ai sensi dell’art. 1174 c.c. Per cui la dichiarazione unilaterale scritta con cui un soggetto si impegna a trasferire ad altri la proprietà di uno o più beni immobili in esecuzione di un precedente accordo fiduciario non costituisce semplice promessa di pagamento ma autonoma fonte di obbligazioni se contiene un impegno attuale e preciso al ritrasferimento, e, qualora il firmatario non dia esecuzione a quanto contenuto nell’impegno unilaterale, è suscettibile di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 cod. civ., purché l’atto unilaterale contenga l’esatta individuazione dell’immobile, con l’indicazione dei confini e dei dati catastali. In questa sentenza la differenza tra patto fiduciario (di per sé non obbligatorio) e obbligazione unilaterale (eseguibile coattivamente) è molto chiara.
Per questo motivo si parla qui di negozio giuridico cosiddetto fiduciario. In verità non è la fiducia a connotare questo negozio ma la clausola contrattuale che rende obbligatorio il ritrasferimento della proprietà. La clausola contrattuale dà azione al fiduciante. Come si è già detto il negozio fiduciario puro, invece, è quel negozio per il cui adempimento non è prevista azione, e che si basa, appunto sulla fiducia delle parti che intendono proprio sottrarre agli schemi legali la realizzazione del risultato da esse perseguito.
Se, oltre alla vendita, viene stipulato quindi un patto con cui il fiduciario si obbliga a ritrasferire il bene a richiesta del fiduciante, siamo nell’ipotesi del patto di retrovendita, cui sono applicabili i rimedi del risarcimento del danno e dell’esecuzione in forma specifica. In altre parole, il patto non si basa più sulla fiducia, ma sulla tutela che la legge appresta a qualsiasi contratto, tipico o atipico che sia. Molto efficacemente Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012, n. 3134 esprime il concetto chiarendo che l’intestazione fiduciaria di un bene, frutto della combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti obbligatori a vantaggio del fiduciante, ha luogo solo ove il trasferimento vero e proprio in favore del fiduciario sia limitato dall’obbligo, inter partes, del ritrasferimento al fiduciante o al beneficiario da lui indicato, in ciò esplicandosi il contenuto del pactum fiduciae.
La giurisprudenza ritiene da sempre che, il negozio cosiddetto fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, entrambi voluti, l’uno di carattere esterno, efficace verso i terzi, e l’altro, inter partes ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo (da ultimo Cass. civ. Sez. I, 8 settembre 2015, n. 17785 secondo cui sarebbe negozio fiduciario l’intestazione fiduciaria di quote di partecipazione societaria che integra gli estremi dell’interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista – diversamente dal caso d’interposizione fittizia o simulata – la titolarità delle quote, pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interponente, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, ed a ritrasferirgliele ad una scadenza concordata, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario). Nella specie si trattava di una scrittura privata con cui una persona aveva alienato una parte della propria partecipazione in una società, al prezzo di svariati milioni, al figlio il quale aveva a sua volta rilasciato una procura in favore del padre, nominato procuratore speciale e autorizzato a trasferire tutte le quote a terzi e anche a se stesso. Poiché il padre nella qualità di procuratore del figlio aveva alienato agli altri figli le quote ne nacque un contenzioso. La Corte ha ritenuto che l’alienazione di quote societarie dal padre ai figli, con contestuale rilascio di procura irrevocabile alla retrocessione o al trasferimento a terzi, realizza un pactum fiduciae volto ad attribuire ai figli i poteri gestionali della società e a lasciare al genitore quelli di controllo.
La tesi del collegamento negoziale è del tutto ragionevole, corrisponde effettivamente alla sostanza del negozio cosiddetto fiduciario ed è stata proposta in molte altre sentenze (Cass. civ. Sez. II, 14 luglio 2015, n. 14695; Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012 n. 3134; Cass. civ. Sez. III, 2 aprile 2009, n. 8024; Cass. civ. Sez. II, 1 aprile 2003, n. 4886; App. Napoli Sez. III, 17 febbraio 2006; Trib. Roma Sez. X, 6 luglio 2010).
Con il negozio cosiddetto fiduciario si opera, perciò, il trasferimento della titolarità di un diritto dal fiduciante al fiduciario o l’acquisto da terzi di un diritto da parte del fiduciario stesso con danaro fornito dal fiduciante, il cui esercizio viene disciplinato da un’intesa interna, con la quale l’interposto si obbliga a comportarsi in una maniera determinata. Il negozio fiduciario si realizza, quindi, mediante il collegamento dei due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto e avente efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno e obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del negozio esterno, per cui il fiduciario è obbligato a trasferire, in tutto o in parte, la cosa o il diritto attribuitogli con il negozio reale all’altro contraente o a un terzo.
III
Le caratteristiche del negozio giuridico cosiddetto fiduciario come negozio atipico indiretto
a) La liceità e la meritevolezza dell’interesse perseguito
Innanzitutto vi è da dire che si può parlare plausibilmente di valido negozio giuridico cosiddetto fiduciario nei soli casi in cui il trasferimento non assume una funzione elusiva di norme imperative che lo renderebbero nullo (articoli 1322 e 1418 c.c.).
Non è certamente affetta da nullità la situazione che si determina quando, per esempio, una persona, dovendosi assentare per lungo tempo, trasferisce in proprietà i suoi beni ad un amico con l’accordo accessorio che quest’ultimo li amministri nel periodo dell’assenza, ovvero quando un debitore trasferisca la proprietà di un bene ad un creditore, con l’intesa contrattuale che quest’ultimo lo mantenga in buono stato fino al momento della soddisfazione del debito (si ricorda che il divieto del patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c. colpisce il solo patto con cui si conviene che in mancanza di adempimento il creditore possa diventare proprietario del bene ipotecato o dato in pegno).
In base a principi che presiedono all’autonomia contrattuale, il negozio fiduciario è riconosciuto dalla legge quale contratto atipico, in quanto si proponga di realizzare interessi leciti. Invece esso deve essere dichiarato nullo al pari di ogni altro negozio, che adempia alla stessa funzione se, è diretto ad eludere la legge, ponendo in essere un risultato vietato e sanzionato da nullità (il principio trova affermazione da sempre: cfr per esempio Cass. civ. Sez. II, 17 febbraio 1961, n. 339).
In altri casi il negozio fiduciario potrebbe non essere affetto da nullità ma revocabile (art. 2901 c.c.). Si pensi al caso in cui si trasferiscano momentaneamente i propri beni per sottrarli ai creditori. In assenza di una norma che vieti, in via generale, di porre in essere attività negoziali pregiudizievoli per i terzi, il negozio lesivo dei diritti o delle aspettative dei creditori non è, di per sé, illecito, sicché la sua conclusione non è nulla per illiceità della causa, per frode alla legge o per motivo illecito determinante comune alla parti, apprestando l’ordinamento, a tutela di chi risulti danneggiato da tale atto negoziale, dei rimedi speciali che comportano, in presenza di particolari condizioni, l’applicazione della sola sanzione dell’inefficacia (Cass. civ. Sez. III, 31 ottobre 2014, n. 23158).
Non sono naturalmente revocabili ai sensi dell’art. 2901 c.c. gli atti posti in essere in adempimento di un’obbligazione e, conseguentemente, anche i contratti conclusi in esecuzione di un contratto preliminare o di un negozio fiduciario salvo il caso in cui – come detto – sia provato il carattere fraudolento del negozio, con cui il debitore ha assunto l’obbligo poi eseguito, essendo la stipulazione del negozio definitivo l’esecuzione doverosa di un pactum de contraendo validamente posto in essere cui il promissario non potrebbe unilateralmente sottrarsi (Cass. civ. Sez. III, 16 aprile 2008, n. 9970; Trib. Trieste, 10 agosto 2011; Trib. Gallarate, 5 febbraio 2010 che fanno applicazione del principio generale di revocabilità del contratto definitivo, ancorché atto dovuto, solo allorché sia provato il carattere fraudolento del preliminare).
Inoltre ai fini dell’inquadramento della fattispecie concreta tra i negozi cosiddetti fiduciari rileva lo scopo dell’operazione che deve essere meritevole di tutela (art. 1322, cpv, c.c. che ammette le parti alla conclusione di contratti atipici “purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela”) ed è proprio la meritevolezza dell’interesse (ancorché si tratti di un concetto così vasto che finisce per confondersi con la liceità del contratto) che potrebbe non rendere plausibile l’inquadramento dell’operazione in concreto realizzata dalle parti tra i negozi giuridici aticipi. Si pensi al negozio fiduciario che persegue finalità di evasione fiscali (per evitare il pagamento della tassa di successione intesto un bene al mio erede, che diventerà effettivamente suo alla sua morte).
Pacificamente, quanto meno in giurisprudenza, si ritiene che l’evasione fiscale avuta di mira dai contraenti non consente di qualificare un accordo diretto all’evasione fiscale come nullo in quanto “giusta quanto assolutamente pacifico presso la giurisprudenza più che consolidata, la frode fiscale, diretta ad eludere le norme tributarie trova soltanto nel sistema delle disposizioni fiscali la sua sanzione, la quale non è sanzione di nullità o di annullabilità del negozio” (tra le tante Cass. Civ. Sez. III, 18 marzo 2008, n. 7282). Il principio applicato è quello secondo cui la violazione della normativa fiscale non incide sulla validità o efficacia di un contratto, ma ha rilievo esclusivamente tributario. Quindi l’intenzione comune fraudolentemente tesa all’evasione fiscale non renderebbe di per sé nullo un negozio cosiddetto fiduciario.
La meritevolezza dell’interesse – scrutinata in sede di azione di adempimento – potrebbe costituire, perciò, il solo criterio utile, in questi casi, ai fini dell’ammissibilità della figura negoziale in questione.
A proposito della meritevolezza degli interessi perseguiti dal negozio atipico, va segnalata proprio Cass. civ. Sez. I, 19 febbraio 2000, n. 1898 che ritenendo plausibile il ragionamento fatto dal giudice di merito per ritenere sussistente il negozio fiduciario, ha affermato che il giudice, nel procedere all’identificazione del rapporto contrattuale, alla sua denominazione ed all’individuazione della disciplina che lo regola, deve procedere alla valutazione “in concreto” della causa, quale elemento essenziale del negozio, tenendo presente che essa si prospetta come strumento di accertamento, per l’interprete, della generale conformità a legge dell’attività negoziale posta effettivamente in essere, della quale va accertata la conformità ai parametri normativi dell’art. 1343 c.c. (causa illecita) e 1322, comma 2, c.c. (meritevolezza di tutela degli interessi dei soggetti contraenti secondo l’ordinamento giuridico).
Ed è certamente proprio la valutazione della meritevolezza dell’interesse alla base della sentenza in cui si è recentemente sostenuto, in tema di locazione di immobili ad uso diverso da quello abitativo, che l’obbligo di vendita dell’immobile, assunto dal locatore in forza di un patto fiduciario stipulato con un terzo anche anteriormente alla conclusione del contratto di locazione, non è idoneo a sopprimere il diritto di prelazione del conduttore, che trova fondamento nella salvaguardia del suo interesse – dotato di rilessi pubblicistici – alla prosecuzione dell’attività svolta per tutta la durata del rapporto, così che il diritto di prelazione del conduttore prevale sull’interesse delle parti del negozio fiduciario (Cass. civ. Sez. III, 28 dicembre 2016, n. 27180 dove l’interesse a fondamento del patto fiduciario è stato ritenuto inidoneo a superare l’interesse del conduttore alla salvaguardia del suo diritto di prelazione. Nella decisione in questione si fa applicazione del principio di diritto ai sensi del quale la promessa di vendita stipulata prima della locazione con un soggetto a questa estraneo non è idonea a sopprimere il diritto di prelazione derivante, in favore del conduttore, dal rapporto locativo successivamente venuto ad esistenza (principio affermato in passato da Cass. civ. Sez. III, 31 marzo 2008, n. 8288) rilevandosi come “la circostanza secondo cui la fattispecie oggetto dell’odierna controversia abbia riguardo a un obbligo di vendita derivante dalla precedente stipulazione di un patto fiduciario anziché dalla conclusione di un formale contratto preliminare di compravendita, non vale a modificare i termini sostanziali del principio di diritto richiamato”.
b) I tre caratteri del negozio fiduciario
I caratteri del negozio fiduciario che persegua finalità lecite e meritevoli di tutela sono sostanzialmente tre.
a) In primo luogo l’esistenza di un negozio tipico (in genere un trasferimento di un diritto effettuato attraverso una compravendita).
b) In secondo luogo l’effettivo (e voluto) trasferimento del diritto al fiduciario (essendosi in presenza in caso contrario, di un negozio non fiduciario ma simulato). A tale proposito ha chiarito in passato molto bene il concetto Cass. civ. Sez. III, 2 aprile 2009, n. 8024 secondo cui l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un reale trasferimento in favore del fiduciario, sia pure limitato dagli obblighi pattiziamente stabiliti tra le parti. Ugualmente si legge, in tempi più vicini, in Cass. civ. Sez. II, 14 luglio 2015, n. 14695 secondo cui l’intestazione fiduciaria di un bene – frutto della combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti obbligatori a vantaggio del fiduciante – comporta che il trasferimento vero e proprio in favore del fiduciario sia limitato dall’obbligo, inter partes, del ritrasferimento al soggetto fiduciante, oppure al beneficiario da lui indicato, in ciò esplicandosi il contenuto del pactum fiduciae.
Il bene oggetto del trasferimento è indifferente. In genere si tratta della proprietà immobiliare ma anche azioni e titoli di credito possono essere trasferiti con un pactum fiduciae. In un caso di intestazione fiduciaria di azioni Cass. civ. Sez. I, 27 novembre 1999, n. 13261 ha affermato che in base al principio secondo cui, nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, prevale “l’effettiva” proprietà del fiduciante rispetto alla titolarità “formale” del fiduciario , non può considerarsi affetta da nullità la specifica convenzione con la quale – all’interno del pactum fiduciae – il fiduciante si obblighi a tenere indenne il fiduciario dalle imposizioni fiscali gravanti su quest’ultimo in conseguenza dell’intestazione dei titoli azionari, non integrando tale traslazione dell’obbligazione tributaria gli estremi del pagamento di imposta da parte di soggetto diverso dal materiale percettore del corrispondente reddito.
Non necessariamente deve trattarsi di diritti reali. Anche obbligazioni (diritti di natura personale, quindi) possono essere oggetto di trasferimento. Come è stato ben sottolineato da Cass. civ. Sez. II, 5 febbraio 2000, n. 1289 e Cass., civ. Sez. II, 21 novembre 1988, n. 6263 il pactum fiduciae può configurarsi in relazione a situazioni giuridiche soggettive di natura reale o personale, assumendo rilievo decisivo solo l’obbligo del fiduciario di ritrasferire il bene o il diritto acquistato al fiduciante o a terzi. E’, pertanto, ravvisabile un contratto fiduciario nell’ipotesi in cui il ritrasferimento al fiduciante concerne i diritti derivanti al fiduciario dal contratto preliminare di compravendita immobiliare già stipulato con terzi. Mai la giurisprudenza ha assunto ad elemento decisivo per la ravvisabilità del pactum fiduciae la sola natura reale della posizione giuridica soggettiva da ritrasferire. Al contrario, è stato sempre correttamente ritenuta irrilevante la natura giuridica di tale posizione soggettiva assumendo rilievo decisivo solo l’obbligo del fiduciario di ritrasferire il bene od il diritto acquistato al fiduciante o ad una terza persona.
c) infine vi è nel negozio fiduciario una finalità ulteriore – chiarita attraverso clausole contrattuali di natura obbligatoria – restrittiva e specificativa rispetto al mezzo utilizzato (in dottrina si parla, con un’espressione entrata nel lessico del negozio fiduciario di “eccedenza del mezzo rispetto allo scopo dei contraenti” nel senso che il risultato giuridico che si ottiene con la conclusione del contratto eccede il reale intento delle parti, che viene perseguito con pattuizioni di natura obbligatoria che restringono gli effetti dell’atto compiuto). Il contratto viene posto in essere con un fine pratico diverso rispetto a quello che si ha nella struttura causale del negozio utilizzato. Per questo il negozio fiduciario è un vero e proprio negozio indiretto, attraverso il quale si raggiungono, cioè, finalità ulteriori rispetto a quelli che sono tipici dello strumento negoziale utilizzato. Il concetto è ribadito da Cass. civ. Sez. II, 14 luglio 2015, n. 14695; Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012 n. 3134; Cass. civ. Sez. II, 9 maggio 2011, n. 10163; Cass. civ. Sez. III, 2 aprile 2009, n. 8024 e ben ripreso anche nella giurisprudenza di merito da Trib. Vicenza Sez. II, 13 aprile 2016; Trib. Monza Sez. I, 11 maggio 2015; Trib. Roma Sez. III, 30 luglio 2014 nelle quali si osserva in sostanza che il negozio fiduciario rientra nella categoria più generale dei negozi indiretti, destinato a realizzare un determinato effetto giuridico non in via diretta, ma in via indiretta: il negozio, che è realmente voluto dalle parti, viene infatti posto in essere in vista di un fine pratico diverso da quello suo tipico, e corrispondente in sostanza alla funzione di un negozio diverso. Pertanto, l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento in favore del fiduciario, limitato però dagli obblighi stabiliti inter partes, compreso quello del trasferimento al fiduciante, in cui si ravvisa il contenuto del pactum fiduciae. Questa posizione di titolarità creata in capo al fiduciario è provvisoria e strumentale al ritrasferimento a vantaggio del fiduciante o di un terzo (così già Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012 n. 3134) nel senso che, ove l’effetto reale non risulta essere accompagnato da alcun patto contenente l’obbligo della persona nominata di modificare la posizione ad essa facente capo a favore dello stipulante o di altro soggetto da costui designato, non può parlarsi di negozio giuridico fiduciario e l’intestazione effettuata dal presunto fiduciante dovrebbe invece qualificarsi come donazione indiretta e non come intestazione fiduciaria.
L’adempimento del negozio fiduciario non è lasciato, perciò, all’affidamento sull’impegno assunto dall’alto contraente ma ha natura obbligatoria. E’ giusto quindi il principio affermato da Trib. Genova, 23 maggio 2005 secondo cui la cessione di azioni tra l’intestatario fiduciario e un terzo, avvenuta con l’intento comune alle due parti di rendere possibile al fiduciario di sottrarsi al proprio obbligo di trasferimento a favore del fiduciante, va dichiarata inefficace nei confronti del fiduciante, mentre resta accertato l’obbligo in capo al fiduciario di trasferimento delle dette azioni, siccome conseguente all’accertamento della intestazione fiduciaria da cui tale obbligo consegue.
Molto chiara, in ordine alla funzione del negozio fiduciario come negozio indiretto è Cass. civ. Sez. II, 27 agosto 2012, n. 14654 che ricostruisce in generale il negozio fiduciario come accordo tra due soggetti, con cui il fiduciante trasferisce, o costituisce, in capo al fiduciario una situazione giuridica soggettiva per il conseguimento di uno scopo pratico ulteriore. Il fiduciario, per la realizzazione di tale obiettivo, assume l’obbligo di utilizzare nei tempi e nei modi convenuti la situazione soggettiva, in funzione strumentale, avendo un comportamento coerente e congruo. Sulla stessa linea di muove App. Napoli Sez. II bis, 14 settembre 2011 secondo cui nell’ambito di un negozio fiduciario, un soggetto-fiduciante trasferisce in proprietà un bene ad un altro soggetto fiduciario non già per realizzare uno scambio, quanto piuttosto per conseguire uno scopo diverso dall’effetto traslativo, con l’obbligo del fiduciario di ritrasferire la proprietà del bene a semplice richiesta al fiduciante o ad un terzo indicato dal medesimo.
La causa concreta dell’operazione consiste, quindi, in un fine ulteriore che trascende gli effetti tipici del negozio utilizzato, proprio in ragione del collegamento negoziale tra il negozio tipico utilizzato e le obbligazioni che vi sono collegate (Cass. civ. Sez. III, 17 maggio 2010, n. 11974; Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2010, n. 11314; Cass. civ. Sez. III, 2 aprile 2009, n. 8024; Cass. civ. Sez. II, 6 maggio 2005, n. 9402).
Va segnalata infine Cass. civ. Sez. I, 16 novembre 2001, n. 14375 secondo cui il diritto del fiduciante alla restituzione dei beni intestati al fiduciario si prescrive con il decorso dell’ordinario termine decennale, che decorre, in difetto di una diversa previsione nel pactum fiduciae, dal giorno in cui il fiduciario, avutane richiesta, abbia rifiutato il trasferimento del bene. Sulla stessa linea, di recente, Trib. Massa, Sez. Unica, 3 febbraio 2017 secondo cui le norme che determinano i termini di prescrizione dei diritti vanno lette ed interpretate alla luce dell’art. 2935 c.c., secondo il quale il termine di prescrizione inizia a decorrere dalla data in cui il diritto può essere fatto valere; va da sé che nell’ipotesi di intestazione fiduciaria di quote societarie, il diritto del fiduciante ad ottenere il “ritrasferimento della quota” da parte del fiduciario può essere fatto valere, in difetto di diversa previsione nel pactum fiduciae, dal giorno in cui il fiduciario riceve la richiesta di restituzione e rifiuta l’adempimento, considerato che prima di tale data sussiste solo un obbligo di trasferimento a richiesta del fiduciante e non una obbligazione inadempiuta.
IV
Fiducia dinamica e fiducia statica
La categoria del negozio fiduciario di cui si sta parlando – da inquadrarsi nell’ambito più generale della fattispecie di interposizione reale di persona – ricomprende innanzitutto l’accordo classico con cui un soggetto trasferisce ad un altro la titolarità di un bene con il patto che ne faccia un uso determinato nel suo interesse, per poi ritrasferirlo a lui stesso o ad un terzo (cosiddetta fiducia dinamica). Qui l’aggettivazione dinamica sta proprio a intendere il fatto che vi è stato un trasferimento di diritti da una persona ad un’altra.
Il negozio fiduciario può, però, anche essere “statico” riferendosi all’accordo con cui il fiduciario acquista in nome proprio – come fosse un mandatario senza rappresentanza – da un terzo un bene con danaro fornito, anche in parte, dal fiduciante e con l’intesa di riconoscerlo successivamente come titolare, anche “pro quota”, del bene acquistato (cosiddetta fiducia statica). In questo secondo caso il fiduciario non acquista il bene dal fiduciante (quindi non vi è un effetto di tipo traslativo tra l’alienante e l’acquirente) ma lo possiede in nome proprio avendolo acquistato da un terzo, in virtù di un precedente patto con cui si era obbligato a traferirlo successivamente al fiduciante.
La differenza è stata approfondita spesso dalla giurisprudenza non solo di merito (Trib. Chiavari, 30 aprile 1991; Trib. Napoli, 16 gennaio 1993; Trib. Cagliari, 10 dicembre 1999) ma anche da quella di legittimità. Di recente per esempio Cass. civ. Sez. III, 20 marzo 2014, n. 6514, nel ritenere pienamente ammissibile il negozio fiduciario statico, intendendosi tale quella figura negoziale atipica che si esprime allorquando fra due soggetti si conviene che un bene debba essere trasferito nel presupposto che la sua titolarità da parte del trasferente fosse in realtà espressione di un precedente accordo diretto a crearla, ma con l’intesa della sua non corrispondenza alla titolarità effettiva del bene e con l’impegno del fiduciario a ripristinare la titolarità formale.
Si legge in questa sentenza che già in passato era stata individuata la ricorrenza del negozio fiduciario non solo nel “negozio fiduciario di tipo traslativo (che importa l’attribuzione originaria di una determinata posizione giuridica – normalmente del diritto di proprietà o di altro diritto reale – al fiduciario) anteriore o coevo all’acquisto”, ma anche nella “fiducia statica”. Si deve soprattutto a Cass. civ. Sez. II, 7 agosto 1982, n. 4438 la precisazione che: “Negli schemi del pactum fiduciae rientra, oltre il negozio fiduciario di tipo traslativo, anche la cosiddetta fiducia statica i cui estremi sono rappresentati dalla preesistenza di una situazione giuridica attiva facente capo ad un soggetto che venga poi assunto come fiduciario e si dichiari disposto ad attuare un certo “disegno” del fiduciante mediante l’utilizzazione non già di una situazione giuridica all’uopo creata (come nel negozio fiduciario di tipo traslativo), ma di quella preesistente, che viene così dirottata dal suo naturale esito, a ciò potendosi determinare proprio perché a lui fa capo la situazione giuridica di cui si tratta. Insomma il fiduciario ha già la proprietà di qualcosa e accetta con un patto di trasferirla ad altri.
Ugualmente delle due situazioni si ebbe ad occupare Cass. civ. Sez. II, 18 ottobre 1988, n. 5663 secondo cui il negozio fiduciario è vero e reale, sia quando si realizzi mediante il collegamento tra due negozi, l’uno di carattere esterno effettivamente voluto comportante il trasferimento di un diritto oppure il sorgere di una situazione giuridica in capo ad un soggetto ( fiduciario ), l’altro di carattere interno ed obbligatorio comportante l’obbligo del fiduciario di ritrasferire alla controparte o ad un terzo la cosa o il diritto attribuitogli; sia nell’ipotesi in cui, preesistendo una situazione giuridica attiva facente capo ad un soggetto, questi, in forza di apposita pattuizione, s’impegni a modificarla a richiesta e nel senso voluto dall’altro contraente (fiduciante).
La figura viene ulteriormente evocata da Cass. civ. Sez. II, 18 ottobre 1991, n. 11025, la quale precisò che “Il negozio fiduciario, sia quando venga preceduto da un atto di trasferimento del diritto del fiduciante al fiduciario (cosiddetta fiducia dinamica) sia quando non lo sia, per essere il fiduciario già titolare del diritto che si obblighi a trasferire all’altro contraente o al terzo (cosiddetta fiducia statica), è sempre un atto realmente dovuto, con la conseguenza che ad esso non sono estensibili le norme che prevedono l’inopponibilità del negozio simulato ai creditori del titolare apparente”.
Ancora: la distinzione fra fiducia cd. statica a fiducia cosiddetta dinamica è evocata da Cass. civ. Sez. II, 3 maggio 1993, n. 5113 nella chiara supposizione della legittimità di entrambe, per escludere che vi fosse riconducibile il negozio in concreto oggetto del giudizio, avendo detta sentenza affermato che: “Il patto con il quale si conviene che uno dei contraenti acquisti un fondo in proprietà comune e trasferisca agli altri contraenti la quota ad essi rispettivamente spettante non può essere qualificato come negozio fiduciario di tipo traslativo, che è stipulato tra l’alienante e l’acquirente in vista di uno scopo pratico ulteriore rispetto a quello proprio della alienazione, né come una situazione di cosiddetta fiducia di tipo statico, che si innesta in una situazione giuridica preesistente in testa alla persona che, con il pactum fiduciae, accetta di dirottarla dal suo naturale esito, ma deve essere ricondotto alla figura giuridica del mandato senza rappresentanza ed, avendo per oggetto un bene immobile, deve essere, stipulato per iscritto”.
V
La forma e la prova del patto fiduciario
Secondo l’impostazione generale richiamata dalla citata Cass. civ. Sez. II, 27 agosto 2012, n. 14654, non essendo il contratto cosiddetto fiduciario espressamente disciplinato dalla legge e non essendoci una disposizione esplicita in senso contrario, esso è soggetto al principio generale della libertà della forma. Nella vicenda trattata dalla sentenza in questione si trattava della cessione di titoli senza corrispettivo nella quale la Corte ha ritenuto configurabile, non una donazione ma un negozio fiduciario.
Nella stessa prospettiva Trib. Bari Sez. IV, 17 dicembre 2008 ha ritenuto che il negozio fiduciario costituisce una figura negoziale atipica retta dal principio della libertà delle forme, e ha affermato (in un caso di trasferimento di quote societarie) che, non essendo richiesta la forma scritta né ad substantiam né ad probationem, la sussistenza del pactum fiduciae può essere provata con qualsiasi mezzo, anche con prova testimoniale.
Se è vero che in mancanza di una disposizione espressa in senso contrario, il pactum fiduciae non può che essere affidato al principio generale della libertà di forma, è anche vero, però, che se il patto ha ad oggetto beni immobili, esso deve rivestire la forma scritta.
Recentemente Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2014, n. 10633 ha ribadito che il negozio fiduciario, quando si riferisce a beni immobili, deve rivestire necessariamente la forma scritta ad substantiam, né tale forma può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti. Il principio consolidato è quello secondo cui ogni obbligazione che importa l’obbligo di vendere un bene immobile deve seguire la forma prevista per la vendita (art. 1351 c.c.) come ha messo più volte in evidenza la giurisprudenza (Cass. civ. Sez. II, 9 maggio 2011, n. 10163; Cass. civ. Sez. II, 7 aprile 2011, n. 8001; Cass. civ. Sez. II, 13 ottobre 2004, n. 20198; Cass. civ. Sez. II, 13 aprile 2001, n. 5565; Cass. civ. Sez. II, 19 luglio 2000, n. 9489; Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 1993 n. 6024) precisando che la ratio dell’art. 1351 c.c., dettato in tema di contratto preliminare, è invocabile anche in caso di negozio fiduciario.
Anche la designazione da parte del fiduciante della persona a favore della quale deve essere traferito il bene deve rivestire ad substantiam la forma scritta ( art. 1350 n. 1 e 1351 c.c.), non bastando a tal fine la prova presuntiva. Tale designazione, pur non richiedendo l’uso di formule sacramentali, deve risultare chiaramente dalla scrittura documentale (Cass. civ. Sez. II, 30 gennaio 1995, n. 1086; Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 1993, n. 6024).
Qualora l’obbligazione assunta dal soggetto nell’atto unilaterale abbia ad oggetto il trasferimento di un diritto reale immobiliare, il creditore della prestazione, in difetto del suo spontaneo adempimento da parte dell’obbligato, potrà ottenere dal giudice l’emissione di una sentenza che tenga luogo dell’atto traslativo non compiuto (art. 2932 c.c.) soltanto se la dichiarazione unilaterale sia stata redatta per iscritto e sottoscritta e qualora essa contenga una analitica descrizione degli immobili degli immobili da trasferire. L’art. 2932 c.c., infatti può essere utilizzato non soltanto in presenza di un contratto preliminare cui non abbia fatto seguito il contratto definitivo, ma anche in presenza di un impegno unilaterale che abbia i requisiti essenziali per consentire il trasferimento della proprietà, ovvero contenga un impegno attuale del promittente a cui lo stesso non abbia dato volontariamente corso, benché il termine sia scaduto o in mancanza di termine, e l’indicazione precisa degli immobili oggetto dell’impegno di ritrasferimento, nonché la forma scritta prescritta dalla legge ad substantiam per il trasferimento della proprietà dei beni immobili.
Molto opportunamente nella sopra richiamata Cass. civ. Sez. II, 9 maggio 2011, n. 10163 si afferma che la mera dichiarazione confessoria non può valere né quale elemento integrante il contratto, né come prova del medesimo in quanto nei contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà immobiliare (e relativi preliminari), il requisito della forma scritta prevista ad substantiam comporta che l’atto scritto, costituendo lo strumento necessario ed insostituibile per la valida manifestazione della volontà produttiva degli effetti del negozio con efficienza pari alla volontà dell’altro contraente, non può essere sostituito da una dichiarazione confessoria dell’altra parte, non valendo tale dichiarazione né quale elemento integrante il contratto né – quando anche contenga il preciso riferimento ad un contratto concluso per iscritto – come prova del medesimo; pertanto, il requisito di forma può ritenersi soddisfatto solo se il documento costituisca l’estrinsecazione formale diretta della volontà negoziale delle parti e non anche quando esso si limiti a richiamare un accordo altrimenti concluso, essendo in tal caso necessario che anche tale accordo rivesta la forma scritta e contenga tutti gli elementi essenziali del contratto non risultanti dall’altro documento, senza alcuna possibilità di integrazione attraverso il ricorso a prove storiche, non consentite dall’art. 2725 c.c. (che in questi casi ammette solo la prova della perdita del documento scritto).
Anche nella giurisprudenza di merito la forma scritta è considerata essenziale. Per esempio Trib. Milano Sez. IV, 10 giugno 2013; precisa che negozio fiduciario deve annoverarsi nella più ampia categoria dei negozi indiretti, caratterizzati dal fatto di realizzare un determinato effetto giuridico in via non diretta, ma indiretta e poiché l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento dello stesso in favore del fiduciario, ove il patto abbia ad oggetto beni immobili, esso deve necessariamente risultare da un atto avente forma scritta ad substantiam. Ugualmente Trib. Roma Sez. X, 10 febbraio 2011 afferma che il negozio fiduciario, allorché si riferisca al trasferimento di beni immobili, deve rivestire la forma scritta ad substantiam, quale elemento essenziale di sua validità ex art. 1350 c.c. e tale forma non può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti, non potendo siffatta dichiarazione essere utilizzata né come elemento integrante del contratto, né come prova dello stesso, tenuto conto che il medesimo non può essere dimostrato mediante la prova testimoniale (art. 2725 c.c.) , all’infuori dell’ipotesi eccezionale di perdita incolpevole del documento. Ugualmente per Trib. Roma Sez. X, 6 luglio 2010 e Trib. Genova, 13 ottobre 2005 il negozio fiduciario che inerisca al trasferimento di beni immobili deve rivestire necessariamente la forma scritta ad substantiam, quale elemento essenziale della sua validità, ai sensi dell’ art. 1350 c.c., forma che assolutamente non può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti, non potendo tale dichiarazione essere utilizzata né come elemento integrante il contratto, né come prova dello stesso il quale, peraltro, non è dimostrabile tramite testimonianze, all’infuori della sola ed eccezionale ipotesi di perdita incolpevole del documento. In passato anche App. Bologna, 14 giugno 1991 aveva già affermato che la stipulazione di un patto fiduciario avente ad oggetto il trasferimento di un immobile deve essere effettuata con il rispetto della forma scritta ad substantiam ed inoltre che la prova di tale negozio fiduciario non può essere data per testimoni (ad eccezione dell’ipotesi consacrata nel n. 3 dall’art. 2724 c.c.), né mediante giuramento e nemmeno mediante confessione, cui tende essenzialmente l’interrogatorio formale.
Al di fuori dei casi in cui vi sia un trasferimento di beni immobili (che come detto deve rivestire necessariamente la forma scritta ad substantiam e non è dimostrabile con testimoni), la prova per testimoni relativamente al pactum fiduciae è ammessa nel caso in cui il patto sia volto a creare obblighi connessi e collaterali rispetto al regolamento contrattuale, al fine di realizzare uno scopo ulteriore rispetto a quello naturalmente inerente al tipo di accordo, senza direttamente contraddire il contenuto espresso di tale regolamento. Qualora, invece, il patto si ponga in antitesi con quanto risulta altrimenti dal contratto, la mera qualificazione dello stesso come fiduciario non è sufficiente ad impedire l’applicabilità delle disposizioni che vietano la prova testimoniale dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento (Cass. civ. Sez. III, 23 marzo 2017, n. 7416; Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2014, n. 11757; Cass. civ. Sez. I Sent., 1 agosto 2007, n. 16992).
VI
Contratto fiduciario e contratto simulato: le differenze
Il negozio simulato non produce effetti tra le parti (art. 1414 c.c.). Un esempio di simulazione (relativa) è l’interposizione fittizia con cui le parti fanno comparire come intestatario del bene acquistato un soggetto che non è quello – per i motivi più vari – che tra di loro vogliono sia il proprietario. Simulano una intestazione ma in verità il titolare della proprietà secondo accordi tra le parti è un altro.
Questo fenomeno non ha niente a che vedere con l’interposizione reale (ipotesi di negozio fiduciario) in cui il vero proprietario è quello che risulta intestatario, mentre tra le parti si conviene che costui dovrà ritrasmettere in seguito la proprietà all’altro.
L’intestazione fiduciaria (per esempio la vendita dal fiduciante al fiduciario ovvero l’acquisto di quanto alienato da un terzo al fiduciario, sia pure con provvista erogata dal fiduciante) è realmente voluta e pienamente efficace, e segna la differenza rispetto al negozio simulato, nel quale le parti in realtà non vogliono la produzione degli effetti. Nel negozio fiduciario gli effetti del trasferimento sono realmente voluti dalle parti che correggono con patti obbligatori la situazione creata dal negozio. Nel negozio simulato gli effetti sono invece voluti al solo fine di creare un’apparenza per i terzi, di modo che si palesi una esteriorità difforme da quanto effettivamente voluto dalle parti.
Molto efficacemente, per delineare la differenza radicale tra le due situazioni, Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012, n. 3134 ha affermato che costituisce domanda nuova – e non semplice precisazione o modificazione della domanda già proposta – la richiesta volta al riconoscimento della proprietà del bene, sul presupposto del carattere fittizio dell’intestazione, discendente dalla simulazione, data la diversità tra l’interposione fiduciaria e la simulazione, deducendosi con la prima l’esistenza di un contratto valido ed efficace, sia pure con la costituzione a carico del fiduciario dell’obbligo di ritrasferire il bene a vantaggio del fiduciante, e con la seconda, invece, un’ipotesi di divergenza tra volontà e manifestazione.
In passato si era espressa negli stessi termini Cass. civ. Sez. II, 6 maggio 2005, n. 9402 dove si afferma che, tenuto conto che il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure effettivamente voluto – ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o ad un terzo, l’intestazione fiduciaria di titoli azionari (o di quote di partecipazione societaria) integra gli estremi dell’interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista (a differenza che nel caso d’interposizione fittizia o simulata) la titolarità delle azioni o delle quote, pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interponente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, nonché a ritrasferire i titoli a quest’ultimo ad una scadenza convenuta, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario.
La differenza tra interposizione fittizia (simulazione) e interposizione reale (negozio fiduciario) è ben chiarita anche da Trib. Roma Sez. III, 30 luglio 2014 secondo cui il negozio fiduciario si realizza (come la giurisprudenza consolidata ritine, come si è visto) mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, costituito da un negozio reale traslativo realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure effettivamente voluto – ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio (il vero e proprio pactum fiduciae) per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o a un terzo; l’intestazione fiduciaria (nella specie di titoli azionari) integra gli estremi della interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista la titolarità del bene (a differenza di quanto avviene nella interposizione fittizia o simulata) pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interponente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, nonché a ritrasferire il bene a quest’ultimo, ad una scadenza convenuta ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario.
Anche nella meno vicina Cass. civ. Sez. I, 28 settembre 1994, n. 7899 la Corte, nel chiarire la differenza fra interposizione fittizia e interposizione reale, aveva verificato l’esistenza del pactum fiduciae, statuendo che si versa nell’ipotesi del negozio fiduciario qualora i soci si accordano per creare una società di capitali il cui capitale sia stato effettivamente conferito solo da uno di loro effettivamente mentre gli altri sono soltanto apparentemente intestatari di azioni o quote sociali “l’operazione, che si realizza con la creazione della società, integra l’intestazione fiduciaria delle quote, con il conseguente obbligo per gli intestatari apparenti di trasferire le loro quote a colui che aveva conferito interamente il capitale sociale.
Già in passato per Trib. Roma 30 maggio 2001 e per Trib. Milano, 1 febbraio 2001 la simulazione si concretizza nella divergenza tra volontà e manifestazione, mentre la fiducia consiste nella effettività del contratto, valido ed efficace, che costituisce a carico del fiduciario l’obbligo di provvedere al ritrasferimento al fiduciante. Il negozio fiduciario – si afferma – è una categoria non espressamente disciplinata dalla legge, e pur tuttavia tutelata dalla legge in base ai principi dell’autonomia contrattuale, che si realizza mediante il collegamento tra due negozi, uno di carattere esterno, realmente voluto (a differenza del contratto assolutamente o relativamente simulato) e spiegante i suoi effetti nei confronti dei terzi – comportante il trasferimento di un diritto in capo ad un soggetto ( fiduciario ) e l’altro, di carattere interno ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato del negozio esterno, comportante l’obbligo per il fiduciario di trasferire il diritto attribuitogli con negozio esterno all’altra parte del negozio interno (fiduciante).
Secondo Trib. Modena, 16 dicembre 2005 Il carattere fiduciario della titolarità di un diritto non può costituire il fondamento di una domanda di accertamento della proprietà esclusiva del fiduciante, in quanto l’intestazione del fiduciario è reale. Può invece fondare l’azione di carattere obbligatorio mirante ad ottenere il ritrasferimento del diritto.
VII
L’attuazione del patto fiduciario: gli obblighi di correttezza e la conseguenza della loro violazione
Mentre l’inadempimento di un negozio fiduciario puro non prevede alcuna possibile azione attivabile dal fiduciante, nei negozi fiduciari atipici di cui si è fin qui parlato all’inadempimento può reagirsi con al richiesta di adempimento coattivo.
Nel caso in cui l’inadempimento consista nell’omissione del fiduciario, il quale non voglia trasferire il bene, si potrà agire con l’esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre ex articolo 2932. Del resto l’articolo 2932 si applica a tutti i casi in cui c’è un obbligo di contrarre; e quindi anche nei casi in cui l’obbligo derivi da un patto aggiunto o collegato ad un negozio tipico di trasferimento (Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2014, n. 10633 e Cass. civ. Sez. II, 30 marzo 2012, n. 5160 hanno nel tempo ribadito che il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c., al fine di ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, è applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra fattispecie dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o fatto dai quali detto obbligo possa discendere ex lege.
La possibilità di adempimento coattivo non è, però, l’unica conseguenza. Infatti secondo Cass. civ. Sez. III, 14 novembre 2011, n. 23728 l’obbligo di ritrasferimento del bene deve essere adempiuto dal fiduciario acquirente a prescindere dalla relativa eventuale richiesta da parte del fiduciante venditore. Ne consegue che, in caso di inadempimento all’anzidetto obbligo, ove le parti non abbiano stipulato al riguardo una clausola risolutiva espressa determinante la risoluzione dello stesso contratto di trasferimento, il fiduciario è tenuto, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., al risarcimento del danno ed è privo di legittimazione sostanziale a disporre del bene sia inter vivos che mortis causa.
L’inadempimento può anche però consistere nella vendita a terzi da parte del fiduciario del bene del fiduciante, in violazione dell’accordo di ritrasferimento. In tal caso secondo la tesi prevalente, il fiduciante potrà ottenere il risarcimento del danno. Ed anche, il terzo, qualora sia a conoscenza del pactum fiduciae, dovrà risarcire il danno ex articolo 2043.
In Cass. civ., Sez. II, 29 novembre 1985, n. 5958 il pactum fiduciae consisteva in un divieto di alienazione posto a carico dell’acquirente ì; divieto che spiega effetti meramente interni (art. 1379 c. c.); l’inosservanza di tale divieto, pertanto, non interferisce sulla validità del contratto con il quale il fiduciario abbia trasferito il bene ad un terzo, indipendentemente dalla buona o mala fede di quest’ultimo, salvo restando il diritto del fiduciante di essere risarcito del danno derivantegli dall’inadempimento di quel patto.
Già in passato Cass. civ. Sez. II, 18 ottobre 1991, n. 11025 aveva ben chiarito che il negozio fiduciario , nella parte contenente il pactum fiduciae, non è trascrivibile, in considerazione della sua natura obbligatoria, nulla impedisce al fiduciario di trasferire, in sua violazione, il diritto cedutogli ad un terzo, il cui acquisto è pienamente valido ed efficace anche nei confronti del fiduciante.
Interessante la più recente precisazione di Cass. civ. Sez. III, 8 aprile 2014, n. 8153 che nei rapporti fiduciari (nella specie si trattava di un contratto di sponsorizzazione) assumono particolare importanza i doveri di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., contribuendo essi ad individuare obblighi, ulteriori o integrativi di quelli tipici del rapporto stesso, il cui inadempimento è patrimonialmente valutabile, ai sensi dell’art. 1174 cod. civ., e tale da giustificare una richiesta di risarcimento danni, purché siano specificati e provati i comportamenti pregiudizievoli e i loro concreti effetti lesivi.
Interessante la vicenda riguardante un conto corrente bancario fiduciariamente intestato a persona diversa dal proprietario dei fondi in cui Cass. civ. Sez. III, 3 aprile 2009, n. 8127 afferma che, qualora un soggetto acconsenta, su richiesta di un altro, ad intestarsi un conto corrente in via fiduciaria, cioè con l’intesa che le somme che su di esso transitino sono di pertinenza dell’altro soggetto, che costui avrà in concreto la gestione del conto e che esso sarà, però, utilizzato per lo svolgimento di un’attività lecita di detto soggetto, l’intestatario del conto (fiduciario) è tenuto, per il fatto stesso di apparire verso i terzi come intestatario del conto ed a maggior ragione per il fatto di non averne la concreta gestione, ad esercitare la necessaria vigilanza sul rispetto da parte di quel soggetto della finalizzazione dell’utilizzo del conto corrente esclusivamente all’esercizio della detta attività, conforme agli accordi presi. Ne consegue che, qualora l’intestatario ometta di esercitare tale vigilanza, disinteressandosi completamente della gestione del conto, e l’altro soggetto utilizzi il conto corrente per realizzare un illecito in danno di terzi, l’intestatario del conto corrente può rispondere sul piano causale a titolo di imprudenza e negligenza, ai sensi dell’art. 2043 c.c., del danno cagionato ai terzi per effetto dell’illecito.

VIII
Il trust come negozio fiduciario
Con il trust – al quale in questa sede si accenna solo per completezza trattandosi di un tipico rapporto giuridico fiduciario – alcuni beni vengono posti sotto il controllo di un “fiduciario” detto trustee, nell’interesse di uno o più beneficiari e per un fine determinato.
La Convenzione de L’Aja del 1° luglio 1985, prevede che il vincolo di destinazione mantiene i beni in trust distinti dal patrimonio del trustee, cui è demandato di “amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee”.
Il trustee è l’unico soggetto legittimato nei rapporti con i terzi, in quanto dispone in esclusiva del patrimonio vincolato alla predeterminata destinazione. Riceve quindi, relativamente a tali beni, un diritto di proprietà segregato e temporaneo nell’interesse altrui, diritto che non corrisponde in alcun modo ad un suo arricchimento o tutela, essendo preordinato ad una diversa destinazione la cui attuazione è rimessa al disponente stesso (da ultimo Trib. Modena, 22 novembre 2016; Trib. Milano, 20 maggio 2015).
La fiducia nel trust rileva – in conformità a quanto si è detto sopra trattando della natura non fiduciaria ma obbligatoria del pactum fiduciae – nel senso di affidabilità nelle capacità del soggetto incaricato dell’adempimento e non certo nel senso di non obbligatorietà dell’adempimento. Il concetto è messo bene in risalto da Cass. civ. Sez. I, 13 giugno 2008, n. 16022 che affronta il tema delle violazioni dell’incarico fiduciario da parte del “trustee” – quali la cattiva gestione dei beni oggetto di trust, atti di gestione perfezionati in conflitto di interessi, omesso rendiconto, depauperamento del patrimonio destinato – che costituiscono presupposti sufficienti all’accoglimento della domanda di revoca del trustee infedele. Nella sentenza si segnala che tale incarico non si sostanzia e non si esaurisce nel compimento di un singolo atto giuridico (come nel mandato), bensì in una attività multiforme e continua che deve essere sempre improntata a principi di correttezza e diligenza. Non a caso, le norme di cui all’art. 334 c.c., in tema di usufrutto legale, e art. 183 c.c., in tema di comunione legale, contemplano la possibilità della revoca per aver “male amministrato”, formula, necessariamente generica e lata, che può concretarsi non solo per effetto di specifiche violazioni di legge, ma anche quando l’assolvimento della funzione non sia, nel complesso, improntato alla diligenza richiesta dalla natura fiduciaria dell’incarico, così da riuscire lesivo degli interessi che l’istituto mira a proteggere.
IX
Il contratto di affidamento fiduciario
La legge 22 giugno 2016, n. 112 (Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare) al terzo comma dell’art. 1 prevede che “La presente legge è volta, altresì, ad agevolare le erogazioni da parte di soggetti privati, la stipula di polizze di assicurazione e la costituzione di trust, di vincoli di destinazione di cui all’articolo 2645-ter del codice civile e di fondi speciali, composti di beni sottoposti a vincolo di destinazione e disciplinati con contratto di affidamento fiduciario anche a favore di organizzazioni non lucrative di utilità sociale… in favore di persone con disabilità grave, secondo le modalità e alle condizioni previste dagli articoli 5 e 6 della presente legge.”
La nuova disciplina si propone di “favorire il benessere, la piena inclusione sociale e l’autonomia delle persone con disabilità” (art. 1, comma 1) ed a tal fine individua, dunque, quattro diversi strumenti giuridici astrattamente idonei a proteggere gli interessi dei soggetti con disabilità grave: le polizze di assicurazione; il trust; i vincoli di destinazione di cui all’art. 2645-ter c.c. e, come sopra detto, i “fondi speciali, composti di beni sottoposti a vincolo di destinazione e disciplinati con contratto di affidamento fiduciario”.
Viene quindi riconosciuta (ma non ancora disciplinata) la figura (finora elaborata solo dalla dottrina) del “contratto di affidamento fiduciario” che, al pari del trust e dei vincoli di destinazione, deve rispettare alcune condizioni al fine dell’ottenimento delle agevolazioni fiscali previste dall’art. 6 della stessa legge e che è ritenuta capace conseguire due effetti fondamentali per la realizzazione del programma di tutela del disabile che sono da un lato la costituzione di un patrimonio separato in capo al fiduciario, composto dai beni (i “fondi speciali”) destinati all’attuazione del programma fiduciario e dall’altro l’opponibilità ai terzi del vincolo di destinazione (e quindi dello stesso programma fiduciario).
La nuova figura dovrà essere disciplinata quanto prima da una legge che potrà fondarsi sulla elaborazione finora proposta dalla dottrina secondo la quale il contratto in questione stipulato tra un “affidante” e un “affidatario fiduciario” con un garante (guardian) che potrebbe essere lo stesso affidante o un terzo, titolare dei poteri che le parti gli attribuiscono, in particolare quello di agire sul patrimonio dedicato per gli scopi di tutela programmati. Il contratto di affidamento fiduciario richiede, appunto, un programma che mira a realizzare da parte del soggetto fiduciario interessi meritevoli di tutela e di protezione. L’inadempimento del fiduciario potrà dare luogo alla nomina di altro fiduciario ed eventualmente a una azione per il risarcimento del danno. Il soggetto affidante – parte del contratto – può legittimamente intervenire nell’esecuzione del contratto per la migliore realizzazione del programma e potrà anche agire in giudizio contro il fiduciario. L’attuazione del programma è affidata al fiduciario al quale debbono essere trasferiti i mezzi necessari per attuarlo che formano il “patrimonio dedicato” separato, naturalmente, dai sui beni personali, ed aggredibile dai soli creditori della destinazione.
Giurispudenza
Cass. civ. Sez. III, 23 marzo 2017, n. 7416 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di negozio fiduciario, la prova per testimoni del “ pactum fiduciae” è sottratta alle preclusioni stabilite dagli artt. 2721 e ss. c.c. soltanto nel caso in cui detto patto sia volto a creare obblighi connessi e collaterali rispetto al regolamento contrattuale, onde realizzare uno scopo ulteriore in rapporto a quello naturalmente inerente al tipo di contratto stipulato, senza direttamente contraddire il contenuto espresso di tale regolamento, mentre ove il patto si ponga in antitesi con quanto risulta dal contratto, la qualificazione dello stesso come fiduciario non è sufficiente ad impedire l’applicabilità delle disposizioni che vietano la prova testimoniale dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento.
Trib. Massa, Sez. Unica, 3 febbraio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le norme che determinano i termini di prescrizione dei diritti vanno lette ed interpretate alla luce dell’art. 2935 c.c., secondo il quale il termine di prescrizione inizia a decorrere dalla data in cui il diritto può essere fatto valere; va da sé che nell’ipotesi di intestazione fiduciaria di quote societarie, il diritto del fiduciante ad ottenere il “ritrasferimento della quota” da parte del fiduciario può essere fatto valere, in difetto di diversa previsione nel pactum fiduciae, dal giorno in cui il fiduciario riceve la richiesta di restituzione e rifiuta l’adempimento, considerato che prima di tale data sussiste solo un obbligo di trasferimento a richiesta del fiduciante e non una obbligazione inadempiuta.
Trib. Modena, 22 novembre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con il trust alcuni beni vengono posti sotto il controllo di un “fiduciario” detto trustee, nell’interesse di uno o più beneficiari e per un fine determinato. La Convenzione de L’Aja del 1° luglio 1985, prevede che il vincolo di destinazione mantiene i beni in trust distinti dal patrimonio del trustee, cui è demandato di “amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee”. Benché il trust non abbia personalità giuridica, dunque, il trustee è l’unico soggetto legittimato nei rapporti con i terzi, in quanto dispone in esclusiva del patrimonio vincolato alla predeterminata destinazione. Riceve quindi, relativamente a tali beni, un diritto di proprietà segregato e temporaneo nell’interesse altrui, diritto che non corrisponde in alcun modo ad un suo arricchimento o tutela, essendo preordinato ad una diversa destinazione la cui attuazione è rimessa al disponente stesso. Pertanto, quando il trustee in una istauranda causa sia interessato in proprio contro il trust, sussistendo nel caso di specie un conflitto “d’interesse processuale”, va disposta la nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c.
Cass. civ. Sez. III, 28 dicembre 2016, n. 27180 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di locazione di immobili ad uso diverso da quello abitativo, l’obbligo di vendita dell’immobile, assunto dal locatore in forza di un patto fiduciario stipulato con un terzo anche anteriormente alla conclusione del contratto di locazione, non è idoneo a sopprimere il diritto di prelazione del conduttore, che trova fondamento nella salvaguardia del suo interesse – dotato di rilessi pubblicistici – alla prosecuzione dell’attività svolta per tutta la durata del rapporto, così che il diritto di prelazione del conduttore prevale sull’interesse delle parti del negozio fiduciario.
Trib. Vicenza Sez. II, 13 aprile 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario rientra nella categoria più generale dei negozi indiretti, destinato a realizzare un determinato effetto giuridi¬co non in via diretta, ma in via indiretta: il negozio, che è realmente voluto dalle parti, viene infatti posto in essere in vista di un fine pratico diverso da quello suo tipico, e corrispondente in sostanza alla funzione di un negozio diverso. Pertanto, l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento in favore del fiduciario, limitato però dagli obblighi stabiliti “inter partes”, compreso quello del trasferimento al fiduciante, in cui si ravvisa il contenuto del “pactum fiduciae”.
Cass. civ. Sez. I, 8 settembre 2015, n. 17785 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Realizzandosi il negozio fiduciario mediante il collegamento di due negozi, parimenti voluti, l’uno di carattere esterno, efficace verso i terzi, e l’altro, “inter partes” ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo, l’intestazione fiduciaria di quote di partecipazione societaria integra gli estremi dell’interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista (diversamente dal caso d’interposizione fittizia o simulata) la titolarità delle quote, pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interponente, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, ed a ritrasfe¬rirgliele ad una scadenza concordata, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che l’alienazione di quote societarie dal padre ai figli, con contestuale rilascio di procura irrevo¬cabile alla retrocessione o al trasferimento a terzi, realizzasse un “pactum fiduciae” volto ad attribuire ai figli i poteri gestionali della società e a lasciare al genitore quelli di controllo).
Cass. civ. Sez. II, 14 luglio 2015, n. 14695 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’intestazione fiduciaria di un bene – frutto della combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti obbligatori a vantag¬gio del fiduciante – comporta che il trasferimento vero e proprio in favore del fiduciario sia limitato dall’obbligo, “inter partes”, del ritrasferimento al soggetto fiduciante, oppure al beneficiario da lui indicato, in ciò esplicandosi il contenuto del “pactum fidu¬ciae”, laddove manca in detta figura qualsiasi intento liberale del fiduciante verso il fiduciario e la posizione di titolarità creata in capo a quest’ultimo si rivela soltanto provvisoria e strumentale al ritrasferimento a vantaggio del fiduciante.
Trib. Milano, 20 maggio 2015 (Trust, 2016, 7, 380)
Il trustee è litisconsorte necessario nel giudizio promosso dal terzo creditore del disponente per sentir dichiarare la simulazione o, in subordine, l’inefficacia ex art. 2901 c.c. dell’atto di conferimento di beni in trust, in considerazione del fatto che il trustee è il soggetto che amministra il patrimonio nell’interesse dei beneficiari, nonché il proprietario fiduciario del bene o del diritto il cui trasferimento è impugnato.
Trib. Monza Sez. I, 11 maggio 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di obbligazioni e contratti, il “negozio fiduciario “ rientra nella categoria più generale dei negozi indiretti, caratterizzati dal fatto di realizzare un determinato effetto giuridico non in via diretta, ma in via indiretta: il negozio, che è realmente voluto dalle parti, viene infatti posto in essere in vista di un fine pratico diverso da quello suo tipico, e corrispondente, in sostanza, alla funzione di un negozio diverso. Pertanto, l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento in favore del fiduciario, limitato però dagli obblighi stabiliti inter partes, in cui si ravvisa il contenuto del pactum fiduciae.
Trib. Taranto Sez. II, 27 novembre 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In considerazione del rapporto fiduciario che caratterizza il contratto di prestazione d’opera intellettuale, ciascuna parte può recedere dal contratto indipendentemente dalla presenza di giusti motivi a carico del prestatore d’opera, permanendo in capo a quest’ultimo il diritto ad ottenere il rimborso delle spese sostenute ed a percepire il compenso per l’opera svolta fino al momento del recesso. Ciò non esclude, tuttavia, che, ove si inseriscano nel contratto clausole estranee al contenuto tipico del negozio di prestazione d’opera, alle stesse possano applicarsi le ordinarie regole in tema di inadempimento contrattuale con la conseguente possibilità, nel caso di contratti a prestazioni corrispettive, di azionare la forma di autotutela rappresentata dall’eccezione di inadempimento.
Cass. civ. Sez. III, 31 ottobre 2014, n. 23158 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In assenza di una norma che vieti, in via generale, di porre in essere attività negoziali pregiudizievoli per i terzi, il negozio lesivo dei diritti o delle aspettative dei creditori non è, di per sé, illecito, sicché la sua conclusione non è nulla per illiceità della causa, per frode alla legge o per motivo illecito determinante comune alla parti, apprestando l’ordinamento, a tutela di chi risulti dan¬neggiato da tale atto negoziale, dei rimedi speciali che comportano, in presenza di particolari condizioni, l’applicazione della sola sanzione dell’inefficacia
Trib. Roma Sez. III, 30 luglio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, costituito da un negozio reale traslativo realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure effettivamente voluto – ed obbliga¬torio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio (il vero e proprio “pactum fiduciae”) per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o a un terzo; l’intestazione fiduciaria di titoli azionari (o di quote di partecipazione societaria) integra gli estremi della interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista (a differenza che nella in¬terposizione fittizia o simulata) la titolarità delle azioni o delle quote, pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interpo¬nente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, nonché a ritrasferire i titoli a quest’ultimo, ad una scadenza convenuta ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario.
Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2014, n. 11757 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il “pactum fiduciae” con il quale il fiduciario si obbliga a modificare la situazione giuridica a lui facente capo a favore del fiduciante o di altro soggetto da costui designato, richiede, qualora riguardi beni immobili, la forma scritta “ad substantiam” e la prova per testimoni di tale patto è sottratta alle preclusioni stabilite dagli artt. 2721 e segg. cod. civ. – sempre che non comporti, il trasfe¬rimento, sia pure indiretto, di beni immobili – soltanto nel caso in cui detto patto sia volto a creare obblighi connessi e collaterali rispetto al regolamento contrattuale, al fine di realizzare uno scopo ulteriore rispetto a quello naturalmente inerente al tipo di accordo, senza direttamente contraddire il contenuto espresso di tale regolamento. Qualora, invece, il patto si ponga in antitesi con quanto risulta altrimenti dal contratto, la mera qualificazione dello stesso come fiduciario non è sufficiente ad impedire l’ap¬plicabilità delle disposizioni che vietano la prova testimoniale dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito osservando che il “pactum fiduciae” comportante il trasferimento indiretto di beni immobili attraverso l’intestazione di quote di partecipazione della società proprietaria di tali beni deve essere stipulato per iscritto e non può essere provato con testimoni)
Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2014, n. 10633 (Giur. It., 2015, 3, 582 nota di STEFANELLI)
L’obbligo di ritrasferimento che trae le sue origini da un pactum fiduciae concluso oralmente, può rinvenire autonoma fonte in una dichiarazione unilaterale, qualora essa contenga la chiara enunciazione dell’impegno attuale del soggetto ad effettuare una determinata prestazione in favore di altro soggetto, ai sensi dell’art. 1174 c.c. Il riferimento alla causa di questo impegno, indicata nel negozio fiduciario intercorso tra le parti, non rileva ai soli fini dell’astrazione processuale, ma è idoneo a dare liceità causale e meritevolezza all’impegno assunto con l’atto unilaterale.
La dichiarazione unilaterale scritta con cui un soggetto si impegna a trasferire ad altri la proprietà di uno o più beni immobili in esecuzione di un precedente accordo fiduciario non costituisce semplice promessa di pagamento ma autonoma fonte di obbligazioni se contiene un impegno attuale e preciso al ritrasferimento, e, qualora il firmatario non dia esecuzione a quanto contenuto nell’impegno unilaterale, è suscettibile di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 cod. civ., purché l’atto unilaterale contenga l’esatta individuazione dell’immobile, con l’indicazione dei confini e dei dati catastali. (Cassa con rinvio, App. Catania, 28/09/2009)
In tema di negozio fiduciario una dichiarazione scritta contenente un impegno che nasce come unilaterale e che come atto uni¬laterale ha una propria autonoma dignità è atto a costituire fonte di obbligazioni in quanto è volto ad attuare l’accordo fiduciario preesistente. Tale atto è quindi idoneo a consentire al giudice di disporre coattivamente il trasferimento del bene fiduciariamente intestato ai sensi dell’art. 2932 c.c.
La dichiarazione unilaterale scritta, con cui un soggetto, in attuazione di un precedente accordo fiduciario stipulato oralmente, si impegna a trasferire ad altri la proprietà di uno o più beni immobili, costituisce autonoma fonte di obbligazione se contiene un impegno attuale e preciso al ritrasferimento, il quale è suscettibile di esecuzione in forma specifica, purché l’atto unilaterale individui con esattezza gli immobili, con l’indicazione dei confini e dei dati catastali.
Cass. civ. Sez. III, 8 aprile 2014, n. 8153 (Danno e Resp., 2014, 12, 1125 nota di SANTORO)
Nel contratto di sponsorizzazione, in quanto rapporto caratterizzato da un rilevante carattere fiduciario, assumono particolare importanza i doveri di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., contribuendo essi ad individuare obblighi, ulteriori o integrativi di quelli tipici del rapporto stesso, il cui inadempimento è patrimonialmente valutabile, ai sensi dell’art. 1174 cod. civ., e tale da giustificare una richiesta di risarcimento danni, purché siano specificati e provati i comportamenti pre¬giudizievoli e i loro concreti effetti lesivi.
Anche se il contratto di sponsorizzazione si caratterizza per il rilevante carattere fiduciario del rapporto, nell’ambito del quale assumono particolare importanza i doveri di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., i quali possono indurre ad individuare obblighi ulteriori o integrativi rispetto a quelli tipici del rapporto, a fini risarcitori non è sufficiente che la società sponsorizzata richiami generici doveri di salvaguardia degli interessi e dell’immagine dello sponsor. Per poter considerare tali doveri oggetto di obblighi di comportamento patrimonialmente valutabili ai sensi dell’art. 1174 c.c., lo sponsor deve addurre, invece, la specifica prova dei comportamenti pregiudizievoli, della loro accessorietà rispetto all’accordo di sponsorizzazione e dei loro concreti effetti lesivi per lo sponsor tali da giustificare una richiesta di risarcimento del danno all’immagine subito, ovvero l’effettiva sussistenza ed entità delle sue perdite di profitti e soprattutto il nesso causale fra dette perdite e le vicende che hanno condotto al preteso inadempimento.
Cass. civ. Sez. III, 20 marzo 2014, n. 6514 (Foro It., 2014, 10, 1, 2884)
È ammissibile, in quanto non risulta privo di causa, il negozio fiduciario statico.
Trib. Milano Sez. IV, 10 giugno 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario 23deve annoverarsi nella più ampia categoria dei negozi indiretti, caratterizzati dal fatto di realizzare un de¬terminato effetto giuridico in via non diretta, ma indiretta. Poiché l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento dello stesso in favore del fiduciario, pertanto, ove il patto abbia ad oggetto beni immobili, esso deve necessaria¬mente risultare da un atto avente forma scritta ad substantiam. Formulata domanda di rilascio dell’immobile occupato dalla con-venuta ed eccepita, da parte di questa, l’intestazione solo fittizia del bene a parte attrice, l’esistenza del contratto asseritamente dissimulato deve essere, pertanto, necessariamente provata per iscritto, con conseguente inammissibilità di tutte le istanze istruttorie eventualmente formulate da parte convenuta al fine di ricostruire in via testimoniale la esistenza del factum fiduciae.
Cass. civ. Sez. II, 27 agosto 2012, n. 14654 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario è un accordo tra due soggetti, con cui il fiduciante trasferisce, o costituisce, in capo al fiduciario una situa¬zione giuridica soggettiva per il conseguimento di uno scopo pratico ulteriore. Il fiduciario, per la realizzazione di tale obiettivo, assume l’obbligo di utilizzare nei tempi e nei modi convenuti la situazione soggettiva, in funzione strumentale, avendo un com¬portamento coerente e congruo. Ciò premesso, non essendo tale fattispecie contrattuale espressamente disciplinata dalla legge e non essendoci una disposizione esplicita in senso contrario, essa è soggetta al principio generale della libertà della forma. (Nel caso di specie, l’attribuzione di titoli di credito oggetto di contestazione è stata giustificata, stante le risultanze istruttorie, alla luce di un obbligo che la resistente aveva assunto con un dato soggetto (fiduciante) e non, invece, per spirito di liberalità, come sostenuto dal ricorrente).
La cessione di titoli senza corrispettivo non è sempre sorretta dall’animus donandi, atteso che non ogni attribuzione patrimoniale gratuita integra una donazione, ma solo quella fatta per spirito di liberalità. È configurabile, invece, un negozio fiduciario allorché un soggetto (fiduciante) trasferisce ad un altro soggetto (fiduciario) la titolarità di un diritto il cui esercizio viene limitato da un accordo tra le parti (pactum fiduciae) per uno scopo che il fiduciario si impegna a realizzare, ritrasferendo poi il diritto allo stes¬so fiduciante o ad un terzo beneficiario. La fattispecie si sostanzia in un accordo tra due soggetti, con cui il primo trasferisce (o costituisce) in capo al secondo una situazione giuridica soggettiva (reale o personale) per il conseguimento di uno scopo pratico ulteriore, ed il fiduciario, per la realizzazione di tale risultato, assume l’obbligo di utilizzare nei tempi e nei modi convenuti la situazione soggettiva, in funzione strumentale, e di porre in essere un proprio comportamento coerente e congruo. Trattandosi di fattispecie non espressamente disciplinata dalla legge, e, in mancanza di una disposizione espressa in senso contrario, il pactum fiduciae non può che essere affidato al principio generale della libertà di forma.
Cass. civ. Sez. II, 30 marzo 2012, n. 5160 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rimedio previsto dall’art. 2932 cod. civ., al fine di ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, è applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra fattispecie dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o fatto dai quali detto obbligo possa discendere “ex lege”.
Cass. civ. Sez. II, 29 febbraio 2012, n. 3134 (Trust, 2012, 6, 633)
L’intestazione fiduciaria di un bene, frutto della combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti obbligatori a vantaggio del fiduciante, ha luogo solo ove il trasferimento vero e proprio in favore del fiduciario sia limitato dall’obbligo, inter partes, del ritrasferimento al fiduciante o al beneficiario da lui indicato, in ciò esplicandosi il contenuto del pactum fiduciae. Manca, dunque, nell’istituto qualsiasi intento liberale del fiduciante verso il fiduciario e la posizione di titolarità creata in capo a quest’ultimo è soltanto provvisoria e strumentale al ritrasferimento a vantaggio del fiduciante. Qualora, dunque, l’effetto reale non risulta esse¬re accompagnato da alcun patto contenente l’obbligo della persona nominata di modificare la posizione ad essa facente capo a favore dello stipulante o di altro soggetto da costui designato, non può intendersi posto in essere il menzionato negozio. Stante quanto innanzi, la fattispecie dell’acquisito di un’azienda da parte del nominato con denaro del preteso fiduciante, stipulante, deve correttamente qualificarsi come donazione indiretta e non come intestazione fiduciaria.
Affinché si verifichi l’intestazione fiduciaria di un bene, che deriva dalla combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti obbligatori a vantaggio del fiduciante, è necessario che il trasferimento in favore del fiduciario sia limitato dall’obbligo, inter partes, del ritrasferimento al fiduciante o al beneficiario da lui indicato, in ciò esplicandosi il contenuto del pactum fiduciae, in mancanza del quale non si può ritenere sussistente l’intestazione fiduciaria del bene, bensì una donazione indiretta.
In tema di modificazioni della domanda giudiziale, laddove l’atto di citazione sia diretto ad ottenere il trasferimento di un de¬terminato bene in favore dell’attore in forza dell’obbligo assunto dall’intestatario fiduciario , costituisce domanda nuova – e non semplice precisazione o modificazione della domanda già proposta, consentita in virtù della facoltà concessa alle parti dall’art. 183 cod. proc. civ. – la richiesta volta al riconoscimento della proprietà dello stesso bene, sul presupposto del carattere fittizio dell’intestazione, discendente dalla simulazione tanto della dichiarazione di nomina da parte dello stipulante, quanto dell’accet¬tazione della persona nominata, e ciò data la diversità tra le due anzidette fattispecie, deducendosi con la prima l’esistenza di un contratto valido ed efficace, sia pure con la costituzione a carico del fiduciario dell’obbligo di ritrasferire il bene a vantaggio del fiduciante, e con la seconda, invece, un’ipotesi di divergenza tra volontà e manifestazione. (Rigetta, App. Roma, 14/07/2009)
Cass. civ. Sez. III, 14 novembre 2011, n. 23728 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il fiduciario è obbligato a ritrasferire il bene al fiduciante prescindendo dalla sua eventuale richiesta. Il fiduciario risulta privo della legittimazione sostanziale a disporre del bene sia inter vivos che mortis causa.
Nel contratto fiduciario di compravendita immobiliare l’obbligo di ritrasferimento del bene deve essere adempiuto dal fiduciario acquirente a prescindere dalla relativa eventuale richiesta da parte del fiduciante venditore. Ne consegue che, in caso di ina¬dempimento all’anzidetto obbligo, ove le parti non abbiano stipulato al riguardo una clausola risolutiva espressa determinante la risoluzione dello stesso contratto di trasferimento, il fiduciario è tenuto, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., al risarcimento del danno ed è privo di legittimazione sostanziale a disporre del bene sia “inter vivos” che “mortis causa”.
App. Napoli Sez. II bis, 14 settembre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito di un negozio fiduciario, un soggetto-fiduciante trasferisce in proprietà un bene ad un altro soggetto fiduciario non già per realizzare uno scambio, quanto piuttosto per conseguire uno scopo diverso dall’effetto traslativo, con l’obbligo del fi¬duciario di ritrasferire la proprietà del bene a semplice richiesta al fiduciante o ad un terzo indicato dal medesimo. Ne deriva, dunque, che l’effetto traslativo è limitato nei rapporti interni da un patto obbligatorio, che non richiede la forma scritta e che può essere provato liberamente, non comportando alcun ampliamento o modificazione del contenuto del contratto stipulato fiduciariamente.
Trib. Trieste, 10 agosto 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non sono soggetti a revoca ai sensi dell’art. 2901 c.c. gli atti posti in essere in adempimento di un’obbligazione e, conseguen¬temente, anche i contratti conclusi in esecuzione di un contratto preliminare o di un negozio fiduciario. Quanto detto non trova applicazione nel caso in cui sia provato il carattere fraudolento del negozio, con cui il debitore ha assunto l’obbligo poi eseguito, essendo la stipulazione del negozio definitivo l’esecuzione doverosa di un factum de contraendo validamente posto in essere cui il promissario non potrebbe unilateralmente sottrarsi.
Cass. civ. Sez. II, 9 maggio 2011, n. 10163 (Giur. It., 2012, 5, 1045 nota di PERROTTA, MICHETTI)
Il negozio fiduciario come specie del più ampio genere dei negozi indiretti si contraddistingue per il fatto di realizzare un determina¬to effetto giuridico non in via diretta, bensì indiretta. Pertanto, poiché l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento in favore del fiduciario, ove tale patto abbia a oggetto beni immobili, esso deve risultare da un atto avente forma scritta ad substantiam, atteso che esso è sostanzialmente equiparabile a un contratto preliminare; né l’atto scritto può essere so¬stituito da una dichiarazione confessoria proveniente dall’altra parte, non valendo tale dichiarazione né quale elemento integrante il contratto né – anche quando contenga il preciso riferimento a un contratto concluso per iscritto – come prova del medesimo.
Il negozio fiduciario rientra nella categoria più generale dei negozi indiretti, caratterizzati dal fatto di realizzare un determinato effetto giuridico non in via diretta, ma in via indiretta: il negozio, che è realmente voluto dalle parti, viene infatti posto in essere in vista di un fine pratico diverso da quello suo tipico, e corrispondente in sostanza alla funzione di un negozio diverso. Pertanto, l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento in favore del fiduciario, limitato però dagli obblighi stabiliti “inter partes”, compreso quello del trasferimento al fiduciante, in cui si ravvisa il contenuto del “pactum fiduciae”. Ne consegue come necessario corollario che se il “pactum fiduciae” riguardi beni immobili, occorre che esso risulti da un atto in forma scritta “ad substantiam”, atteso che la “ratio” dell’art. 1351 c.c., dettato in tema di contratto preliminare, è invocabile anche in caso di negozio fiduciario.
Cass. civ. Sez. II, 7 aprile 2011, n. 8001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il “pactum fiduciae” con il quale il fiduciario si obbliga a modificare la situazione giuridica a lui facente capo a favore del fidu¬ciante o di altro soggetto da costui designato, richiede, allorché riguardi beni immobili, la forma scritta ad “substantiam”, atteso che esso è sostanzialmente equiparabile al contratto preliminare per il quale l’art. 1351 cod. civ. prescrive la stessa forma del contratto definitivo.
Trib. Roma Sez. X, 10 febbraio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario, allorché si riferisca al trasferimento di beni immobili, deve rivestire la forma scritta ad substantiam, quale elemento essenziale di sua validità ex art. 1350 c.c. Tale forma non può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti, non potendo siffatta dichiarazione essere utilizzata né come elemento integrante del contratto, né come prova dello stesso, tenuto conto che il medesimo non può essere dimostrato mediante la prova testimoniale, all’infuori dell’ipotesi eccezio¬nale di perdita incolpevole del documento.
Trib. Milano, 1 febbraio 2001 (Società, 2001, 8, 973 nota di DI MAIO)
La simulazione si concretizza nella divergenza tra volontà e manifestazione, mentre la fiducia consiste nella effettività del con¬tratto, valido ed efficace, che costituisce a carico del fiduciario l’obbligo di provvedere al ritrasferimento al fiduciante.
Trib. Roma Sez. X, 6 luglio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con il negozio fiduciario si opera il trasferimento della titolarità di un diritto dal fiduciante al fiduciario o l’acquisto da terzi di un diritto da parte del fiduciario stesso con danaro fornito dal fiduciante, il cui esercizio viene disciplinato da un’intesa interna, con la quale l’interposto si obbliga a comportarsi in una maniera determinata. Il negozio fiduciario si realizza mediante il collega¬mento dei due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto e avente efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno e obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del negozio esterno, per cui il fiduciario è tenuto a trasferire, in tutto o in parte, la cosa o il diritto attribuitogli con il negozio reale all’altro contraente o a un terzo. Il negozio fiduciario che inerisca al trasferimento di beni immobili deve rivestire necessariamente la forma scritta ad substantiam, quale elemento essenziale della sua validità, ai sensi dell’ art. 1350 c.c., forma che assolutamente non può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti, non potendo tale dichiarazione essere utilizzata né come elemento integrante il contratto, né come prova dello stesso il quale, peraltro, non è dimostrabile tramite testimonianze, all’infuori della sola ed eccezionale ipotesi di perdita incolpevole del documento. Ciò posto, nel caso di specie, relativo all’accertamento dell’esistenza di un negozio fiduciario tra le parti in causa con conseguente trasferimento del 50% delle quote di proprietà dell’immobile acquistato in favore dell’appellante, il Tribunale, difettando il requisito della forma scritta ad substantiam, definitivamente pronunciando, rigetta la domanda di parte attrice.
Cass. civ. Sez. III, 17 maggio 2010, n. 11974 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Affinché possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico, che impone la considerazione unitaria della fattispecie, è necessario che ricorra sia un requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell’ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia un re¬quisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l’effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale. Accertare la natura, l’entità, le modalità e le conseguenze del collegamento negoziale realizzato dalle parti rientra nei compiti esclusivi del giudice di merito, il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici.
Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2010, n. 11314 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’acquisto di una quota di società di persone operato dal fiduciante non produce effetti reali immediati nel patrimonio del fidu¬ciario: infatti il negozio fiduciario si qualifica come una combinazione di due fattispecie negoziali collegate, l’una costituita da un negozio reale traslativo, a carattere esterno, realmente voluto ed avente efficacia verso i terzi, e l’altra (il vero e proprio pactum fiduciae) avente carattere interno ed effetti meramente obbligatori, diretta a modificare il risultato finale del negozio esterno mediante l’obbligo assunto dal fiduciario di ritrasferire al fiduciante il bene o il diritto che ha formato oggetto dell’acquisto.
Il “pactum fiduciae” avente ad oggetto la cessione di quota di società di persone con patrimonio immobiliare non richiede la forma scritta, non comportando essa anche un trasferimento, dal cedente al cessionario, dei diritti immobiliari, che restano vi¬ceversa nella titolarità della società, che non è essa stessa parte del negozio di cessione.
Trib. Roma Sez. X, 29 aprile 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il pactum fiduciae con il quale il fiduciario si obbliga a modificare la situazione giuridica a lui facente capo a favore del fiduciante o di altro soggetto da costui designato richiede, allorché immobili, la forma scritta ad substantiam atteso che essa è sostanzial¬mente equiparabile al contratto preliminare per il quale l’art. 1351 c.c., prescrive la stessa firma del contratto definitivo.
Trib. Gallarate, 5 febbraio 2010 (Contratti, 2010, 4, 375)
A norma dell’art. 2901, comma 3, c.c., non sono soggetti a revoca i c.d. atti dovuti ovvero gli atti compiuti in adempimento di un’obbligazione, ed in particolare, i contratti conclusi in esecuzione di un preliminare o di un negozio fiduciario, salvo che sia provato il carattere fraudolento del negozio con cui il debitore abbia assunto l’obbligo poi adempiuto. E ciò perché la stipulazione del negozio definitivo non è che l’esecuzione doverosa di un “pactum de contraendo”, validamente posto in essere – “sine fraude” – cui il promissario non potrebbe unilateralmente sottrarsi.
Cass. civ. Sez. III, 3 aprile 2009, n. 8127 (Contratti, 2009, 8-9, 761 nota di SCARPA)
Qualora un soggetto acconsenta, su richiesta di un altro, ad intestarsi un conto corrente in via fiduciaria, cioè con l’intesa che le somme che su di esso transitino sono di pertinenza dell’altro soggetto, che costui avrà in concreto la gestione del conto e che esso sarà, però, utilizzato per lo svolgimento di un’attività lecita di detto soggetto, l’intestatario del conto (fiduciario) è tenuto, per il fatto stesso di apparire verso i terzi come intestatario del conto ed a maggior ragione per il fatto di non averne la concreta gestione, ad esercitare la necessaria vigilanza sul rispetto da parte di quel soggetto della finalizzazione dell’utilizzo del conto corrente esclusivamente all’esercizio della detta attività, conforme agli accordi presi. Ne consegue che, qualora l’intestatario ometta di esercitare tale vigilanza, disinteressandosi completamente della gestione del conto (astenendosi, come nella specie, dal controllare gli estratti conto e rimettendoli senza leggerli all’altro soggetto, firmando assegni in bianco che venivano riempiti dal medesimo e non preoccupandosi neppure di conoscere quale fosse l’importo accreditato), e l’altro soggetto utilizzi il conto corrente per realizzare un illecito in danno di terzi, l’intestatario del conto corrente può rispondere sul piano causale a titolo di imprudenza e negligenza, ai sensi dell’art. 2043 c.c., del danno cagionato ai terzi per effetto dell’illecito.
Nell’ambito del negozio fiduciario il soggetto che assume nei confronti dei terzi la titolarità di una posizione giuridica (nella specie, intestazione di un conto corrente), non è esonerato dal controllo verso l’altro contraente del factum fiduciae affinché lo svolgimento del rapporto sia costantemente mantenuto entro i limiti del regolamento negoziale giusta le motivazioni che hanno dato luogo alla stipulazione del patto.
Cass. civ. Sez. III, 2 aprile 2009, n. 8024 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero trasferimento in favore del fiduciario. Tuttavia, l’efficacia del detto tra¬sferimento può essere limitata dagli obblighi pattiziamente stabiliti. Quindi deve ritenersi valido il negozio in cui si afferma che l’acquisto di un immobile da parte di un fratello è fatto anche quale fiduciario dell’altro, nel caso in cui l’effettivo trasferimento debba effettuarsi oltre il temine decennale del divieto di alienazione previsto in materia di edilizia popolare.
L’intestazione fiduciaria di un bene determina sin da subito un vero trasferimento in favore del fiduciario, limitato però dagli obblighi stabiliti tra le parti, compreso per primo quello del trasferimento al fiduciante. Il negozio fiduciario, infatti, rientra nella categoria dei negozi indiretti con cui un certo contratto viene posto in essere in vista di un fine pratico diverso da quello suo tipico e corrispondente in sostanza alla funzione di un altro negozio.
Trib. Bari Sez. IV, 17 dicembre 2008 (Trust, 2009, 6, 652)
Il negozio fiduciario costituisce una figura negoziale atipica retta dal principio della libertà delle forme. Non essendo richiesta la forma scritta né “ad substantiam né ad probationem” la sussistenza del “pactum fiduciae” può essere provata con qualsiasi mezzo, anche con prova testimoniale.
Il trasferimento di quote societarie in favore del fiduciante che ne abbia fatto richiesta può essere ordinato ex art. 2932 c.c. a fronte del rifiuto del fiduciario di provvedervi.
Cass. civ. Sez. I, 13 giugno 2008, n. 16022 (Corriere Giur., 2009, 2, 215 nota di GALLUZZO)
Violazioni dell’incarico fiduciario da parte del “trustee” – quali la cattiva gestione dei beni oggetto di trust, atti di gestione per¬fezionati in conflitto d’interessi, omesso rendiconto, depauperamento del patrimonio destinato – costituiscono presupposti suffi¬cienti all’accoglimento della domanda di revoca del “trustee” infedele.
Cass. civ. Sez. III, 16 aprile 2008, n. 9970 (Nuova Giur. Civ., 2008, 11, 1, 1352 nota di MARTONE)
Non sono soggetti a revoca ai sensi dell’art. 2901 c.c. gli atti compiuti in adempimento di un’obbligazione (cosiddetti atti dovuti) e, quindi, anche i contratti conclusi in esecuzione di un contratto preliminare o di un negozio fiduciario, salvo che sia provato il carattere fraudolento del negozio con cui il debitore abbia assunto l’obbligo poi adempiuto, essendo la stipulazione del negozio definitivo l’esecuzione doverosa di un “pactum de contrahendo” validamente posto in essere (“sine fraude”) cui il promissario non potrebbe unilateralmente sottrarsi.
Non sono soggetti a revoca ai sensi dell’art. 2901 cod. civ. gli atti compiuti in adempimento di un’obbligazione (cosiddetti atti dovuti) e, quindi, anche i contratti conclusi in esecuzione di un contratto preliminare o di un negozio fiduciario, salvo che sia provato il carattere fraudolento del negozio con cui il debitore abbia assunto l’obbligo poi adempiuto, essendo la stipulazione del negozio definitivo l’esecuzione doverosa di un “pactum de contrahendo” validamente posto in essere (“sine fraude”) cui il promissario non potrebbe unilateralmente sottrarsi. (Nella specie la S.C., in applicazione del riportato principio, ha confermato la sentenza impugnata di rigetto della domanda ex art. 2901 cod. civ. proposta in relazione ad un contratto di vendita di un immobile stipulato in esecuzione di un precedente contratto preliminare, evidenziando che la verifica della sussistenza dell’”e¬ventus damni” va compiuta con riferimento alla stipulazione definitiva mentre il presupposto soggettivo del “consilium fraudis” va valutato con riferimento al contratto preliminare).
Cass. civ. Sez. III, 18 marzo 2008, n. 7282 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Giusta quanto assolutamente pacifico presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, si osserva – infatti – che la frode fiscale, diretta ad eludere le norme tributarie trova soltanto nel sistema delle disposizioni fiscali la sua sanzione, la quale non è sanzione di nullità o di annullabilità del negozio (Cass. 5 novembre 1999, n. 12327; Cass. 24 ottobre 1981, n. 5571).
Proprio con specifico riguardo alla materia locatizia, del resto, in molteplici occasioni questa Corte ha enunciato il principio se¬condo cui la violazione della normativa fiscale non incide sulla validità o efficacia di un contratto, ma ha rilievo esclusivamente tributario (cfr., ad esempio, Cass. 22 luglio 2004, n. 13621, resa in una fattispecie anteriore all’approvazione dello statuto del contribuente e della L. n. 431 del 1998, in cui per motivi fiscali erano stati redatti due originali del contratto di locazione recanti importi diversi).
Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 2007, n. 16992 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di negozio fiduciario, la prova per testimoni del “pactum fiduciae” è sottratta alle preclusioni stabilite dagli artt. 2721 e ss. cod. civ. soltanto nel caso in cui detto patto sia volto a creare obblighi connessi e collaterali rispetto al regolamento con¬trattuale, al fine di realizzare uno scopo ulteriore rispetto a quello naturalmente inerente al tipo di contratto stipulato, ma senza direttamente contraddire il contenuto espresso di tale regolamento; qualora, invece, il patto si ponga in antitesi con quanto ri¬sulta altrimenti dal contratto, la mera qualificazione dello stesso come fiduciario non è sufficiente ad impedire l’applicabilità delle disposizioni che vietano la prova testimoniale dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento
App. Napoli Sez. III, 17 febbraio 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto ed avente efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del negozio esterno, per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire la cosa o il diritto attribuitogli con il negozio reale all’altro contraente o ad un terzo.
Trib. Modena, 16 dicembre 2005 (Obbl. e Contr., 2006, 6, 560 nota di SCHIAVONE)
Il carattere fiduciario della titolarità di un diritto non può costituire il fondamento di una domanda di accertamento della pro¬prietà esclusiva del fiduciante, in quanto l’intestazione del fiduciario è reale. Può invece fondare l’azione di carattere obbligatorio mirante ad ottenere il ritrasferimento del diritto.
Trib. Genova, 13 ottobre 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario, quando inerisca al trasferimento di beni immobili, deve rivestire la forma scritta ad substantiam, quale elemen¬to essenziale di sua validità ex art. 1350 c.c. Tale forma non può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti, non potendo essa dichiarazione essere utilizzata né come elemento integrante il contratto, né come prova dello stesso contratto.
Trib. Genova Sez. IV, 20 giugno 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure effettivamente voluto – ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o ad un terzo.
Trib. Genova, 23 maggio 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La cessione di azioni tra l’intestatario fiduciario e un terzo, avvenuta con l’intento comune alle due parti di rendere possibile al fiduciario di sottrarsi al proprio obbligo di trasferimento a favore del fiduciante, va dichiarata inefficace nei confronti del fiducian¬te, mentre resta accertato l’obbligo in capo al fiduciario di trasferimento delle dette azioni, siccome conseguente all’accertamento della intestazione fiduciaria da cui tale obbligo consegue.
Cass. civ. Sez. II, 6 maggio 2005, n. 9402 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Tenuto conto che il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure effettivamente voluto – ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o ad un terzo, l’intestazione fiduciaria di titoli azionari (o di quote di partecipazione societaria) integra gli estremi dell’interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista (a differenza che nel caso d’interposizione fittizia o simulata) la titolarità delle azioni o delle quote, pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l’interponente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, nonché a ritrasferire i titoli a quest’ultimo ad una scadenza conve¬nuta, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario. (Nella specie, è stata negata la natura fiduciaria dell’intestazione a favore della moglie del ricorrente delle quote societarie alla medesima cedute dalla madre di quest’ultimo, essendo stata esclusa l’esistenza di un “pactum fiduciae” fra la cessionaria e il marito, che era risultato peraltro estraneo al negozio di cessione).
Cass. civ. Sez. II, 13 ottobre 2004, n. 20198 (Contratti, 2005, 5, 437 nota di VALENTINI)
La possibilità di attribuire efficacia costitutiva ad una dichiarazione ricognitiva dell’altrui diritto dominicale su un bene immobile (nella specie, contenuta in un contratto di compravendita di altro immobile) presuppone che anche la causa della dichiarazione risulti dall’atto, atteso che, trattandosi di un bene immobile per il cui trasferimento è necessaria la forma scritta “ad substan¬tiam”, tutti gli elementi essenziali del negozio debbono risultare per iscritto.
Cass. civ. Sez. II, 1 aprile 2003, n. 4886 (Corriere Giur., 2003, 8, 1041 nota di MARICONDA)
Il negozio fiduciario di natura traslativa si articola in due distinti ma collegati negozi, dei quali, il primo, avente carattere esterno, realmente voluto dalle parti ed efficace verso i terzi; l’altro, interno ed a contenuto obbligatorio, volto a modificare il risultato finale del negozio esterno, per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire al fiduciante o ad un terzo il bene o il diritto acquistato col negozio reale.
Il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure effettivamente voluto – ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o a un terzo. La Corte, nel formulare il surrichiamato principio, ha confermato la correttezza della pronuncia di merito, la quale aveva ritenuto l’esistenza di un negozio fiduciario nella scrittura privata con la quale l’acquirente di un bene immobile, riconoscendo la natura fiduciaria dell’intestazione e – conseguen¬temente – la relativa proprietà a favore di un terzo, aveva contestualmente assunto l’obbligo di trasferirgli il diritto.
Trib. Milano, 19 novembre 2001 (Giur. It., 2002, 1438 nota di FIORIO)
Deve ritenersi ammissibile il contratto fiduciario, riconducibile alla “fiducia germanistica”, con cui un fiduciante attribuisca ad una società fiduciaria la legittimazione all’esercizio dei diritti inerenti le quote di s.r.l. ma non la titolarità delle quote.
Cass. civ. Sez. I, 16 novembre 2001, n. 14375 (Contratti, 2002, 2, 186)
Il diritto del fiduciante alla restituzione dei beni intestati al fiduciario si prescrive con il decorso dell’ordinario termine decenna¬le, che decorre, in difetto di una diversa previsione nel pactum fiduciae, dal giorno in cui il fiduciario, avutane richiesta, abbia rifiutato il trasferimento del bene.
Trib. Roma, 30 maggio 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario è una categoria non espressamente disciplinata dalla legge, e pur tuttavia tutelata dalla legge in base ai principi dell’autonomia contrattuale, che si realizza mediante il collegamento tra due negozi, uno di carattere esterno, realmente voluto (a differenza del contratto assolutamente o relativamente simulato) e spiegante i suoi effetti nei confronti dei terzi – com¬portante il trasferimento di un diritto in capo ad un soggetto ( fiduciario ) e l’altro, di carattere interno ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato del negozio esterno, comportante l’obbligo per il fiduciario di trasferire il diritto attribuitogli con negozio esterno all’altra parte del negozio interno (fiduciante).
Cass. civ. Sez. II, 13 aprile 2001, n. 5565 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio, fiduciario quando inerisce al trasferimento di beni immobili deve rivestire la forma scritta “ad substantiam” quale elemento essenziale di sua validità ex art. 1350 c.c. Detta forma non può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria di una delle parti, non potendo detta dichiarazione essere utilizzata nè come elemento integrante il contratto, nè come prova dello stesso il quale, peraltro, non è dimostrabile tramite testimonianze, all’infuori dell’ipotesi eccezionale di perdita incolpevole del documento (art. 2725, comma 2, c.c., in relazione all’art. 2724 n. 3 c.c.).
Cass. civ. Sez. II, 19 luglio 2000, n. 9489 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il “pactum fiduciae” con il quale il fiduciario si obbliga a modificare la situazione giuridica a lui facente capo a favore del fiducian¬te o di altro soggetto da costui designato, richiede, allorché riguardi beni immobili, la forma scritta “ad substantiam” atteso che essa è sostanzialmente equiparabile al contratto preliminare per il quale l’art. 1351 c.c. prescrive la stessa forma del contratto definitivo.
Cass. civ. Sez. I, 19 febbraio 2000, n. 1898 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudice, nel procedere all’identificazione del rapporto contrattuale, alla sua denominazione ed all’individuazione della disci¬plina che lo regola, deve procedere alla valutazione “in concreto” della causa, quale elemento essenziale del negozio, tenendo presente che essa si prospetta come strumento di accertamento, per l’interprete, della generale conformità a legge dell’attività negoziale posta effettivamente in essere, della quale va accertata la conformità ai parametri normativi dell’art. 1343 c.c. (causa illecita) e 1322, comma 2, c.c. (meritevolezza di tutela degli interessi dei soggetti contraenti secondo l’ordinamento giuridico) (Nell’enunciare il principio di diritto in questione la Corte ha annullatio la sentenza impugnata per avere omesso di accertare la conformità di un siffatto contratto ai parametri di liceità e meritevolezza previsti dalle citate disposizioni normative).
Cass. civ. Sez. II, 5 febbraio 2000, n. 1289 (Giur. It., 2000, 2289 nota di FORCHINO)
Il “pactum fiduciae” può configurarsi in relazione a situazioni giuridiche soggettive di natura reale o personale, assumendo rilie¬vo decisivo solo l’obbligo del fiduciario di ritrasferire il bene o il diritto acquistato al fiduciante o a terzi. è, pertanto, ravvisabile nell’ipotesi in cui il ritrasferimento al fiduciante concerna i diritti derivanti al fiduciario dal contratto preliminare di compravendita immobiliare già stipulato con terzi.
Trib. Cagliari, 10 dicembre 1999 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rapporto fiduciario, ove si consideri che il “pactum fiduciae”, oltre che per la dissociazione tra titolarità ed interesse, si caratte¬rizza soprattutto per l’obbligo del compimento di attività giuridica per conto del fiduciante, deve essere ricondotto alla fattispecie tipica del mandato senza rappresentanza.
La categoria del negozio fiduciario – da inquadrarsi nell’ambito più generale della fattispecie di interposizione reale di persona – ricomprende sia l’accordo con cui un soggetto trasferisce ad un altro la titolarità di un bene con il patto che ne faccia un uso determinato nel suo interesse, ed eventualmente lo ritrasferisca a lui stesso o ad un terzo (cd. fiducia dinamica), sia l’accordo con cui il fiduciario acquista in nome proprio da un terzo un bene con danaro fornito, anche in parte, dal fiduciante e con l’intesa di riconoscerlo successivamente come titolare, anche “pro quota”, del bene acquistato (cd. fiducia statica).
La categoria del negozio fiduciario – da inquadrarsi nell’ambito più generale della fattispecie di interposizione reale di persona – ricomprende sia l’accordo con cui un soggetto trasferisce ad un altro la titolarità di un bene con il patto che ne faccia un uso determinato nel suo interesse, ed eventualmente lo ritrasferisca a lui stesso o ad un terzo (cd. fiducia dinamica), sia l’accordo con cui il fiduciario acquista in nome proprio da un terzo un bene con danaro fornito, anche in parte, dal fiduciante e con l’intesa di riconoscerlo successivamente come titolare, anche “pro quota”, del bene acquistato (cd. fiducia statica).
Cass. civ. Sez. I, 27 novembre 1999, n. 13261 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di intestazione fiduciaria di azioni, ed in base al principio secondo cui, nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, prevale “l’effettiva” proprietà del fiduciante rispetto alla titolarità “formale” del fiduciario , non può considerarsi affetta da nullità la specifica convenzione con la quale – all’interno del pactum fiduciae – il fiduciante si obblighi a tenere indenne il fiduciario dalle imposizioni fiscali gravanti su quest’ultimo in conseguenza dell’intestazione dei titoli azionari, non integrando tale traslazione dell’obbligazione tributaria gli estremi del pagamento di imposta da parte di soggetto diverso dal materiale percettore del cor¬rispondente reddito.
Cass. civ. Sez. II, 30 gennaio 1995, n. 1086 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di negozio fiduciario, relativo a beni immobili, la designazione da parte del fiduciante della persona a favore della quale deve essere fiduciante il bene, in virtù dell’obbligo assunto dal fiduciario di modificare la situazione giuridica a lui facente capo, deve rivestire ad substantiam la forma scritta ( art. 1350 n. 1 e 1351 c.c.), non bastando a tal fine la prova presuntiva. Tale designazione, pur non richiedendo l’uso di formule sacramentali, deve risultare chiaramente dalla scrittura documentale.
Cass. civ. Sez. I, 28 settembre 1994, n. 7899 (Nuova Giur. Civ., 1995, I, 959 nota di GIAMPAOLINO)
Integra una fattispecie di negozio fiduciario stipulato mediante interposizione reale di persona, e non già di simulazione relativa per interposizione fittizia, l’accordo con il quale due o più persone convengono di dare vita ad una società di capitali il cui capitale sociale sia stato conferito effettivamente da uno solo di essi, mentre gli altri sono solo apparentemente e fiduciariamente intesta¬tari di azioni o quote sociali ed hanno assunto l’obbligo di trasferire dette azioni o quote a chi ne ha somministrato i relativi mezzi economici; pertanto, a tale negozio non si applicano le limitazioni di prova previste dal c.c., qualora non venga in considerazione il trasferimento di diritti per i quali la legge richieda l’atto scritto “ad substantiam”.
Cass. civ. Sez. II, 29 maggio 1993, n. 6024 (Corriere Giur., 1993, 855 nota di CARBONE)
Il negozio fiduciario (categoria non disciplinata legislativamente, ma elaborata dalla giurisprudenza e dalla dottrina e nella quale possono essere compresi alcuni contratti atipici) è vero e reale, sia quando si realizzi mediante il collegamento tra due negozi, l’uno di carattere esterno effettivamente voluto comportante il trasferimento di un diritto oppure il sorgere di una situazione giuridica in capo ad un soggetto ( fiduciario ), l’altro di carattere interno ed obbligatorio comportante l’obbligo del fiduciario di ritrasferire alla controparte o ad un terzo la cosa o il diritto attribuitogli; sia nell’ipotesi in cui, preesistendo una situazione giu¬ridica attiva facente capo ad un soggetto, questi, in forza di apposita pattuizione, s’impegni a modificarla a richiesta e nel senso voluto dall’altro contraente (fiduciante).
Il patto di fiducia che prevede l’obbligo del fiduciario di modificare la situazione giuridica a lui facente capo, a favore del fiduciante o di un altro soggetto da quest’ultimo designato, è soggetto, qualora riguardi beni immobili, alla forma scritta “ad substantiam”.
Cass. civ. Sez. II, 3 maggio 1993, n. 5113 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il patto con il quale si conviene che uno dei contraenti acquisti un fondo in proprietà comune e trasferisca agli altri contraenti la quota ad essi rispettivamente spettante non può essere qualificato come negozio fiduciario di tipo traslativo, che è stipula¬to tra l’alienante e l’acquirente in vista di uno scopo pratico ulteriore rispetto a quello proprio della alienazione, né come una situazione di c.d. fiducia di tipo statico, che si innesta in una situazione giuridica preesistente in testa alla persona che, con il pactum fiduciae, accetta di dirottarla dal suo naturale esito, ma deve essere ricondotto alla figura giuridica del mandato senza rappresentanza ed, avendo per oggetto un bene immobile, deve essere stipulato per iscritto.
Trib. Napoli, 16 gennaio 1993 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La fiducia comprende sia il negozio fiduciario, in cui il fiduciante trasferisce al fiduciario il diritto reale con il patto meramente obbligatorio e interno che l’acquirente ne faccia un uso determinato nell’interesse dell’alienante e/o lo ritrasferisca poi a quest’ul¬timo o ad un terzo (c.d. fiducia dinamica), sia la c.d. fiducia statica, in cui il fiduciario acquista in nome proprio da un terzo un bene con danaro fornito, almeno in parte, dal fiduciante e con l’intesa di riconoscere quest’ultimo come proprietario o compro¬prietario del bene acquistato. Mentre, nel primo caso, l’originaria proprietà del fiduciante consente, se si considera l’alienazione fiduciaria come investitura della mera legittimazione formale relativa al bene, di continuare a riconoscere la titolarità effettiva in capo al fiduciante stesso, al contrario, nel secondo caso, l’acquisto del fiduciante non può che trovare la sua fonte nel “pactum fiduciae”; pertanto, relativamente al trasferimento di beni immobili, e almeno in questa specifica situazione, il “pactum fiduciae” deve rivestire forma scritta “ad substantiam”.
Cass. civ. Sez. II, 18 ottobre 1991, n. 11025 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché il negozio fiduciario, nella parte contenente il pactum fiduciae, non è trascrivibile, in considerazione della sua natura ob¬bligatoria, nulla impedisce al fiduciario di trasferire, in sua violazione, il diritto cedutogli ad un terzo, il cui acquisto è pienamente valido ed efficace anche nei confronti del fiduciante.
Il negozio fiduciario, sia quando venga preceduto da un atto di trasferimento del diritto del fiduciante al fiduciario (cosiddetta fi¬ducia dinamica) sia quando non lo sia, per essere il fiduciario già titolare del diritto che si obblighi a trasferire all’altro contraente o al terzo (cosiddetta fiducia statica), è sempre un atto realmente dovuto, con la conseguenza che ad esso non sono estensibili le norme che prevedono l’inopponibilità del negozio simulato ai creditori del titolare apparente.
App. Bologna, 14 giugno 1991 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La stipulazione di un patto fiduciario avente ad oggetto il trasferimento di un immobile deve essere effettuata con il rispetto della forma scritta ad substantiam; la prova di tale negozio fiduciario non può essere data per testimoni (ad eccezione dell’ipotesi consacrata nel n. 3 dall’art. 2724 c.c.), né mediante giuramento e nemmeno mediante confessione, cui tende essenzialmente l’interrogatorio formale.
Trib. Chiavari, 30 aprile 1991 (Nuova Giur. Civ., 1992, I, 415 nota di GAGGERO)
La prova dell’esistenza di un negozio fiduciario, relativo a beni immobili, ascrivibile alla categoria dell’interposizione reale di per¬sona (tanto nell’ipotesi della fiducia statica che dinamica), può essere (tra le parti) soltanto documentale e non anche per testi, in applicazione dell’art. 2725 c. c.
Lo schema del negozio fiduciario si colloca interamente nell’ambito delle ipotesi dell’interposizione reale di persona, sia esso di tipo traslativo ovvero caratterizzato dalla cosiddetta.
Cass. civ. Sez. II, 18 ottobre 1988, n. 5663 (Corriere Giur., 1988, 1268 nota di CATALANO)
Il negozio fiduciario (categoria non disciplinata legislativamente, ma elaborata dalla giurisprudenza e dalla dottrina e nella quale possono essere compresi alcuni contratti atipici) è vero e reale, sia quando si realizzi mediante il collegamento tra due negozi, l’uno di carattere esterno effettivamente voluto comportante il trasferimento di un diritto oppure il sorgere di una situazione giuridica in capo ad un soggetto ( fiduciario ), l’altro di carattere interno ed obbligatorio comportante l’obbligo del fiduciario di ritrasferire alla controparte o ad un terzo la cosa o il diritto attribuitogli; sia nell’ipotesi in cui, preesistendo una situazione giu¬ridica attiva facente capo ad un soggetto, questi, in forza di apposita pattuizione, s’impegni a modificarla a richiesta e nel senso voluto dall’altro contraente (fiduciante).
Deve rivestire ad substantiam forma scritta il negozio traslativo che prevede l’obbligo del fiduciario di trasferire beni immobili al fiduciante o ad altro soggetto, da quest’ultimo designato.
Cass. civ. Sez. II, 29 novembre 1985, n. 5958 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il divieto di alienazione, posto a carico dell’acquirente in forza di pactum fiduciae, spiega effetti meramente interni (art. 1379 c. c.); l’inosservanza di tale divieto, pertanto, non interferisce sulla validità del contratto con il quale il fiduciario abbia trasferito il bene ad un terzo, indipendentemente dalla buona o mala fede di quest’ultimo, salvo restando il diritto del fiduciante di essere risarcito del danno derivantegli dall’inadempimento di quel patto.
Cass. civ. Sez. II, 30 gennaio 1985, n. 560 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Deve rivestire ad substantiam forma scritta il negozio traslativo di beni immobili dal fiduciario al fiduciante in esecuzione del pactum fiduciae, ma non anche quest’ultimo.
Cass. civ. Sez. II, 7 agosto 1982, n. 4438 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto ed avente efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del negozio esterno, per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire la cosa o il diritto attribuitogli con il negozio reale all’altro contraente o ad un terzo (nella specie: il supremo collegio, enunciando il surriportato principio, ha cassato la decisione di merito che aveva ritenuto l’esistenza di un negozio fiduciario, senza accertare l’esistenza del collegamento tra i due negozi, dei quali quello di carattere interno era risultato posteriore all’altro).
Negli schemi del pactum fiduciae rientra, oltre il negozio fiduciario di tipo traslativo, anche la cosiddetta fiducia statica i cui estre¬mi sono rappresentati dalla preesistenza di una situazione giuridica attiva facente capo ad un soggetto che venga poi assunto come fiduciario e si dichiari disposto ad attuare un certo scopo del fiduciante mediante l’utilizzazione non già di una situazione giuridica all’uopo creata (come nel negozio fiduciario di tipo traslativo), ma di quella preesistente, che viene così dirottata dal suo naturale esito, a ciò potendosi determinare proprio perché a lui fa capo la situazione giuridica di cui si tratta.
Cass. civ. Sez. II, 17 febbraio 1961, n. 339 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In base al principio dell’autonomia contrattuale, il negozio fiduciario è riconosciuto dalla legge quale contratto innominato, in quanto si proponga di realizzare interessi leciti. Invece esso deve essere dichiarato nullo al pari di ogni altro negozio, che adem¬pia alla stessa funzione se, è diretto ad eludere la legge, ponendo in essere un risultato vietato e sanzionato da nullità.

Sentenza dichiarativa della paternità

Di Gianfranco Dosi
I
La natura dichiarativa della sentenza di accertamento della paternità
Secondo quanto dispone il primo comma dell’art. 277 c.c. (Effetti della sentenza) “La sentenza che dichiara la filiazione produce gli effetti del riconoscimento”, il che significa che la sentenza del tribunale produce gli stessi effetti del riconoscimento spontaneo.
Proprio per questo motivo la giurisprudenza riconosce la natura dichiarativa della sentenza (che è, quindi, sentenza di accertamento) e quindi la decorrenza retroattiva degli effetti al momento della nascita (ex tunc). Si tratta degli stessi effetti retroattivi riconosciuti alla sentenza che dichiara per esempio la nullità. Viceversa se fosse attribuita alla sentenza natura costitutiva gli effetti decorrerebbero dalla data della sentenza (ex nunc).
Il principio è stato sempre pacificamente riconosciuto (Cass. civ. Sez. VI , 14 luglio 2016, n. 14417;Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652; Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2010, n. 22506; Cass. civ. Sez. I, 6 novembre 2009, n. 23630; Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 2007, n. 24409; Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328; Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2003, n. 7386; Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2007, n. 26575; Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2005, n. 15100; Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2003, n. 2196; Cass. civ. Sez. I, 14 agosto 1998, n. 8042; Cass. civ. Sez. I, 26 giugno 1987, n. 5619). Tutte le decisioni in questione affermano in sostanza che l’obbligo del genitore di concorrere al mantenimento del figlio sorge con la nascita dello stesso, anche nell’ipotesi in cui la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza. La sentenza dichiarativa della filiazione produce perciò gli effetti del riconoscimento e, pertanto, implica per il genitore tutti i doveri tipici della procreazione, incluso quello del mantenimento, ricollegandosi tale obbligazione allo status genitoriale ed assumendo, di conseguenza, efficacia retroattiva. Anche la giurisprudenza di merito non si è mai discostata da questi principi (Trib. Treviso Sez. I, 10 marzo 2017; Trib. Cassino, 15 giugno 2016; Trib. Napoli Sez. I, 18 settembre 2012; App. Bologna Sez. minori, 5 dicembre 2011; Trib. Trani, 27 settembre 2007; Trib. L’Aquila, 6 giugno 2007).
Solo Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006 n. 23596 ha qualificato in passato la sentenza dichiarativa della paternità come costitutiva, ma non ne ha fatto derivare conseguenze sostanziali diverse. Può essere quindi accettata la terminologia tradizionale che parla di sentenza dichiarativa con effetti costitutivi.

II
Gli effetti costitutivi della sentenza relativamente all’accertamento della paternità
La sentenza che dichiara la paternità, pur avendo natura dichiarativa, produce effetti solo dal giudicato. Si parla a tale proposito di effetti costitutivi, nel senso che prima del giudicato non possono realizzarsi gli effetti collegati alla pronuncia sullo status.
La sentenza di accertamento della filiazione potrà quindi essere trascritta nei registri di stato civile solo dopo il suo passaggio in giudicato.
Il terzo comma dell’art. 48 del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Ordinamento di stato civile) prescrive, infatti, che “La dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, dopo il passaggio in giudicato, è comunicata, a cura del procuratore della Repubblica, o è notificata dagli interessati, all’ufficiale dello stato civile che ne fa annotazione nell’atto di nascita).
III
I provvedimenti conseguenziali connessi all’affidamento e al mantenimento
Alla dichiarazione della paternità conseguono evidentemente effetti in senso ampio connessi al rapporto genitori-figli nel campo personale, alimentare, economico, patrimoniale, successorio. Effetti che possono realizzarsi su richiesta dell’altro genitore (che abbia agito ex art. 273 c.c. in sostituzione e nell’interesse del figlio minore1) o dello stesso figlio maggiorenne (che abbia egli stesso agito in giudizio per la dichiarazione di paternità), in en¬trambi i casi anche nell’ipotesi in cui – essendo defunto il presunto padre – siano stati convenuti in giudizio gli eredi di lui (art.276 c.c.).
Il secondo comma dell’art. 277 c.c. prescrive che “Il giudice può anche dare i provvedimenti che stima utili per l’affidamento, il mantenimento, l’istruzione e l’educazione del figlio e per la tutela degli interessi patrimoniali di lui”. Questa norma consente quindi che domande di natura economica possano essere proposte e prese in con¬siderazione insieme alle domande sullo status.
1 L’azione di paternità promossa in base all’art. 273 c.c. dall’altro genitore (o dal tutore) costituisce un caso in cui il genitore (o il tutore) agisce non nella qualità di esercente la responsbailità genitoriale ma in sostituzione del figlio minore, in applicazione della regola di cui all’art. 81 c.p.c. secondo cui “Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge [uno dei quali è, appunto, l’art. 273 c.c.] nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui”.
Per quanto concerne i possibili provvedimenti sull’affidamento (evidentemente del figlio minore di età), si tratta di una novità introdotta dall’art. 34, comma 1, lett. b, del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154.
Per quanto concerne, invece, l’eventuale mantenimento, si tratta di due tipi di provvedimenti:
a) i provvedimenti relativi al mantenimento futuro del figlio (in genere, ma non necessariamente, minore) da parte del genitore dichiarato tale dalla sentenza;
b) i provvedimenti relativi alla richiesta dell’altro genitore di rimborso pro quota delle spese di mantenimento sostenute per il figlio in passato2.
Il diritto al rimborso (in sede di accertamento della paternità) delle spese sostenute dalla nascita dall’altro geni¬tore dipende strettamente dalla circostanza – alla quale si riferiscono tutte le sentenze sopra richiamate – che gli effetti del riconoscimento, come si è detto, retroagiscono alla nascita. Secondo alcune decisioni si tratterebbe di un diritto di natura indennitaria da determinare anche in via equitativa (Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2014, n. 16657; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2004, n. 11351).
Le differenti caratteristiche procedurali tra i due tipi di provvedimenti sono riconducibili alla circostanza che mentre per l’affidamento e il mantenimento futuro il giudice ha un potere di ufficio, potendolo esercitare indi¬pendentemente dalla domanda dell’altro genitore (Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2004, n. 13296), per i prov¬vedimenti di rimborso pro quota delle spese sostenute in passato, è necessaria la domanda di parte (da ultimo Cass. civ. Sez. I, 21 maggio 2014, n. 11211).
Benché non indicato espressamente nell’art. 277 c.c. è considerata ammissibile anche la domanda di risarcimento dei danni in relazione a quell’orientamento che ammette tale risarcimento in caso di mancato riconoscimento alla nascita (Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205 o da Cass. civ. Sez. VI, 16 febbraio 2015, n. 3079)3.
IV
La prescrizione dei diritti relativi al mantenimento e al rimborso delle spese
pregresse sostenute da un genitore
Il diritto al mantenimento del figlio minore è un diritto indisponibile e quindi imprescrittibile (art. 2943, co. 2, c.c.) per tutto il corso della minore età. In caso pertanto di riconoscimento o di sentenza dichiarativa della filia¬zione nel corso della minore età, la prescrizione (decennale, ex art. 2946 c.c.) comincia a decorrere dal compi¬mento della maggiore età.
Il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne, in caso di riconoscimento o di sentenza dichiarativa della filia¬zione di figlio maggiore di età, si prescrive nel termine ordinario di dieci anni (art. 2946 c.c.) oppure di cinque anni se connesso ad una decisione che ne ha già riconosciuto la spettanza periodica (art. 2948, n. 4, c.c.).
Il diritto al rimborso delle spese pregresse sostenute dall’altro genitore ha invece natura di diritto disponibile e pertanto sui prescrive nel termine ordinario di prescrizione di dieci anni (art. 2946 c.c.).
In caso di accertamento giudiziario della filiazione i termini di prescrizione dei diritti relativi al mantenimento, decorrono dalla data della dichiarazione giudiziale, e perciò dal passaggio in giudicato della sentenza sullo status, trovandosi il figlio, precedentemente, nell’impossibilità giuridica di far valere i diritti dipendenti dallo status non ancora accertato; e questo in applicazione della regola generale contenuta nell’art. 2934 c.c. secondo cui “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”. Lo hanno affermato Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986; Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596; Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328, Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124, precisando che in materia di mantenimento del figlio (naturale), il diritto al rimborso pro quota delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che se ne è occupato in via esclusiva, sarebbe azio¬nabile dal momento della sentenza di accertamento della paternità, che conseguentemente costituisce il dies a quo della decorrenza della ordinaria prescrizione decennale.
Questa conclusione viene espressamente riferita nelle sentenze sopra indicate alle (sole) domande di rimborso delle spese pregresse, ancorché anche i provvedimenti sull’affidamento e sul mantenimento futuro nel loro com¬plesso possano considerarsi richiamate nel secondo comma dell’art. 277 c.c.
Dovendo necessariamente individuarsi un termine di decorrenza della prescrizione, questo orientamento può dirsi giustificato, non essendoci altrimenti alcun termine iniziale certo di decorrenza del termine prescrizionale. Tuttavia questo non comporta – secondo quanto si dirà in materia di provvisoria esecuzione dei capi di condanna delle sentenze costitutive e dichiarative – che gli interessati non possano utilmente azionare e porre in esecuzio¬ne anche prima del giudicato sullo status, le pretese conseguenziali di natura economica.

2 La domanda relativa al rimborso delle spese di mantenimento sostenute è una domanda personale del genitore che la propone; non è una domanda collegata alla qualità di genitore esercente la responsabilità genitoriale.
3 cfr la voce RISARCIMENTO DEI DANNI PER OMESSO RICONOSCIMENTO DEL FIGLIO
V
Il rapporto tra il giudizio sull’accertamento della paternità e quello sulle domande conseguenziali
a) La possibile contestualità tra domanda di accertamento e domande conseguenziali: pluralità di domande e pluralità di capi della sentenza
Le domande conseguenziali relative all’affidamento e al mantenimento sono in genere proposte (dall’interessato o dal genitore che agisce il sostituzione del figlio minore) nella stessa causa di accertamento della paternità, sebbene, naturalmente, possano senz’altro essere proposte anche separatamente.
A tale proposito si deve osservare che, così come una stessa causa può avere a fondamento più domande con¬cernenti diversi aspetti (ciascuna con un petitum diverso ancorché rivolti al perseguimento di un unitario risul¬tato complessivo), anche la sentenza può conseguentemente occuparsi di più aspetti. L’art. 104 c.p.c. dispone che “Contro la stessa parte possono proporsi nel medesimo processo più domande, anche non altrimenti con¬nesse…” e l’art. 346 aggiunge, nell’ambito delle impugnazioni, che “Le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate”. L’art. 329 c.p.c. (acquiescenza totale o parziale) mette bene in evidenza il concetto chiarendo che “L’impugnazione parziale [cioè di una parte della sentenza] importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnata” e ugualmente fa l’art. 336 c.p.c. dove si precisa che “la riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sen¬tenza dipendenti dalla parte riformata o cassata”.
Quindi una stessa causa può pacificamente contenere più domande e una sentenza può contenere più parti.
Nello specifico l’azione per l’accertamento della paternità naturale può comprendere insieme la domanda sullo status e le domande conseguenziali di natura economica. Ed ugualmente la sentenza dichiarativa della paternità può contenere insieme alla pronuncia sullo status anche le statuizioni economiche a cui si riferisce il secondo comma dell’art.277 c.c. (“Il giudice può anche dare i provvedimenti che stima utili per l’affidamento, il manteni¬mento, l’istruzione e l’educazione del figlio e per la tutela degli interessi patrimoniali di lui”). Le conseguenze successorie sono ovviamente previste nella parte del codice che concerne le successioni.
Anche le domande di rimborso delle spese pregresse sostenute da un genitore in via esclusiva o le domande di risarcimento del danno possono essere proposte insieme alla domanda principale sull’accertamento della pater¬nità, ma – con riguardo agli effetti necessariamente costitutivi delle sentenze attributive di uno status – possono trovare accoglimento, come si dirà, solo se lo status è passato in giudicato. La contestualità può anche sussistere tra domanda di accertamento della paternità promossa nei confronti degli eredi di un defunto e domande di natu¬ra ereditaria collegate all’accertamento dello status, ma anche in questo caso per l’accoglimento delle domande ereditarie sarà necessario il previo passaggio in giudicato sull’accertamento della paternità.
In queste ultime ipotesi di domande conseguenziali il cui accoglimento dipende dal giudicato sull’accertamento della paternità, se la domanda è proposta nello stesso giudizio sull’accertamento della paternità l’accoglimento delle domande non potrà che avvenire dopo il giudicato formatosi sulla inevitabile sentenza non definitiva sull’ac¬certamento della paternità.
Sia nel caso di contestualità tra domande sullo status e domande conseguenziali, sia nel caso in cui le domande conseguenziali fossero separatamente azionate prima del formarsi del giudicato sull’accertamento della paterni¬tà, si pone il problema del rapporto tra il giudizio sull’accertamento della paternità e le domande conseguenziali.
In particolare si pone il problema della eventuale sospensione del procedimento sulle domande economiche in attesa della definitività della domanda sullo status proposta in sede di accertamento giudiziale della paternità.
b) La natura eccezionale della sospensione del processo civile
Come più diffusamente esaminato in altra parte 4 il codice di procedura civile prevede la possibile sospensione del processo civile (di cognizione) nel caso in cui la decisione da prendere in una causa dipende dalla soluzione di una controversia di cui si discute in un’altra causa (sospensione necessaria: art. 295) ovvero nel caso in cui in una causa – di cui, appunto si chiede la sospensione – si invoca l’autorità di una sentenza pronunciata in altra causa e impugnata, e quindi non ancora passata in giudicato (sospensione discrezionale: art. 337). Si tratta di due situazioni omogenee in quanto in entrambi i casi in sostanza si chiede di sospendere un processo, cosiddetto pregiudicato, in attesa che la situazione cosiddetta pregiudicante (cioè, nel nostro caso, il processo sull’accerta¬mento della paternità ovvero la sentenza ex art. 277 c.c. impugnata di cui si invoca l’autorità) possa considerarsi definitivamente certa.
4 cfr la voce SOSPENSIONE DEL PROCESSO CIVILE
L’art. 295 (sospensione necessaria) prescrive che “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”. L’art. 337 (sospensione dell’esecuzione e dei processi) nell’ambito delle norme sull’impugnazione, dopo aver precisato al primo comma che “l’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione…”, al secondo comma prevede che “quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo, questo può essere sospeso se la sentenza è impugnata”.
Sennonché la sospensione del processo viene oggi considerata come avente senz’altro natura eccezionale, in virtù di quanto indicato nel secondo comma dell’art. 111 della Costituzione (inserito dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2) dove il disfavore verso ogni ipotesi di sospensione è espresso dalla previsione che la legge non deve tollerare una irragionevole durata del processo. L’esigenza di una maggiore celerità del processo era stata anche perseguita dalla riforma del 1990 del processo civile (legge 26 novembre 1990, n. 353) che aveva eliminato la sospensione ex lege dell’efficacia della sentenza di primo grado, salva la richiesta di provvisoria esecuzione. Il testo vigente dell’art. 282 (riformato appunto nel 1990) dichiara la sentenza di primo grado prov¬visoriamente esecutiva salvo richiesta di sospensione al giudice di appello (art. 283). Analogamente è avvenuto più di recente per i provvedimenti camerali in materia di famiglia (art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile a seguito delle modifiche apportate dall’art 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219) che ugualmente “sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente”.
Costituisce orientamento pacifico della giurisprudenza di legittimità (a partire da Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027) che l’ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due diversi giudici del giudizio sul “se dovuto” e di quello sul “quanto dovuto” non comporta che il secondo debba rimanere sospeso in attesa della decisione del primo e che, per converso, quante volte nel primo sia pronunciata sentenza che afferma esistente il diritto, il giudice del secondo giudizio possa porre a base della propria decisione ciò che è stato già deciso, ancorché la sentenza sia stata impugnata, l’unica alternativa essendo per contro quella di sospendere il giudizio di liquidazione del dovuto (come affermato a suo tempo da Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2004 n. 14060 che aveva fatto proprie in larga misura le argomentazioni svolte in precedenza da Cass. civ. Sez. lavoro, 25 maggio 1996 n. 4844 incentrate su una lettura restrittiva dell’istituto della sospensione necessaria, appunto ripudiata dalle Sezioni Unite nel 2012).
Il principio affermato da Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 è stato poi ribadito successivamente da Cass. civ. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 6207 e da Cass. civ. Sez. VI, 20 gennaio 2015, n. 798.
Determinante, ai fini di tale conclusione, è la considerazione che l’art. 295 c.p.c. potrebbe “determinare l’arresto del processo dipendente per un tempo indeterminato e certamente non breve, poiché la paralisi del processo sa¬rebbe destinata a protrarsi fino al passaggio in giudicato della decisione sulla causa pregiudiziale (art. 297 c.p.c., comma 1), onde evitare il rischio di conflitto tra giudicati. In tal modo, in funzione della realizzazione del valore processuale dell’armonia dei giudicati, viene sacrificato il valore processuale della sollecita definizione dei giudizi”.
Le Sezioni unite in Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2004 n. 14060 avevano messo in rilievo che una serie di interventi normativi – tra gli altri il ridimensionamento in senso restrittivo della pregiudizialità penale (espunto dallo stesso precedente testo dell’art. 295) e la modifica dell’art. 42 c.p.c. (con l’estensione del regolamento necessario di competenza all’intera area dei provvedimenti applicativi della sospensione del processo) – stava a dimostrare l’emersione di una linea di tendenza sfavorevole alla sospensione. Aggiunsero poi che la sopravvenu¬ta modifica dell’art. 111 Cost. attuata con la legge costituzionale 29 novembre 1999, n. 2 (nella parte prescrittiva di una ragionevole durata del processo) doveva essere considerata determinante nel senso di imporre una lettura restrittiva dell’art. 295.
Naturalmente tutto ciò non significa che l’art. 295 c.p.c. sia da considerare abrogato, perché sopravvive in tutti i casi in cui la sospensione appare da un punto della pregiudizialità in termini tecnico giuridici plausibile (Cass. civ. Sez. lavoro, 24 giugno 2014, n. 14274 secondo cui l’art. 295 c.p.c. fa esclusivo riferimento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giudice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico – giuridico e non già in senso meramente logico).
Tale tipo di legame è stato ritenuto sussistente da Cass. civ. Sez. VI, 9 dicembre 2014, n. 25861 in caso di pendenza di una lite sulla validità dell’accordo giustificativo della separazione consensuale tra coniugi che pre¬giudica, in senso tecnico giuridico, l’esito del giudizio, contemporaneamente pendente, di cessazione degli effetti civili del loro matrimonio, e ne comporta la sospensione ex art. 295 cod. proc. civ. perché l’eventuale annul¬lamento di quell’accordo determinerebbe il venir meno, con effetto “ex tunc”, di un presupposto indispensabile della pronuncia di divorzio.
c) L’inapplicabilità dell’istituto della sospensione necessaria delle domande conseguenziali (econo-miche o ereditarie) in caso di dichiarazione giudiziale della paternità
Tutto ciò premesso, tra le numerose questioni che si sono finora presentate in ambito civilistico in tema di rapporti tra più cause tra loro collegate da un rapporto di pregiudizialità (e che pongono quindi un problema di sospensione della causa pregiudicata), quello del tema dei rapporti tra domanda (e processo) di accertamento della paternità e domande (e processo) di natura patrimoniale o ereditaria connesse allo status, è uno dei più affrontati in giurisprudenza.
Soprattutto perché l’art. 277 del codice civile, occupandosi degli effetti della sentenza che dichiara la filiazione, prescrive al secondo comma – come si è visto – che con la sentenza “il giudice può anche dare i provvedimenti che stima utili per l’affidamento, il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figlio e per la tutela degli inte¬ressi patrimoniali di lui” tra cui anche i provvedimenti economici chiesti in regresso dal genitore che abbia fino a quel momento mantenuto da solo il figlio.
Questa norma attribuisce perciò plausibilità giuridica al fatto che domande di natura economica possono essere proposte e prese in considerazione insieme alle domande sullo status.
Ebbene, le domande di natura economica o ereditaria possono essere esaminate prima che si sia formato il giu¬dicato sullo status? O il relativo giudizio deve essere sospeso?
A queste domande ha dato risposta molto chiara, escludendo la sospensione necessaria di cui all’art, 295 e ridi¬mensionando quella ex art. 337, Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 occupandosi proprio del rap¬porto tra due cause pendenti in appello una sullo status di filiazione e l’altra sulle conseguenti domande ereditarie.
La sentenza fa proprio l’orientamento già espresso in passato perentoriamente – ma in ambiti diversi da quello del rapporto tra accertamento sulla filiazione e causa di natura ereditaria – da Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924 (rapporto tra un giudizio di responsabilità professionale intentato contro un notaio e una cau¬sa tributaria azionata dal notaio stesso) e di Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435 (domanda di diniego di rinnovazione di un contratto di locazione e processo in appello relativo al riscatto della proprietà sull’immobile) le quali entrambe avevano precisato che “Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, comma secondo, cod. proc. civ. e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ.. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimento è di per sé illegittimo, a prescindere da qualsiasi accertamento di merito circa la sussi¬stenza del rapporto di pregiudizialità).
Ad invocare l’intervento delle Sezioni Unite era stata la sesta sezione della Corte di cassazione di fronte alla quale si discuteva di un ricorso contro un provvedimento di sospensione del processo, concesso dalla corte d’appello di Torino in una causa di petizione ereditaria in relazione alla pendenza sempre in appello di una causa di rico¬noscimento di paternità.
Si tratta quindi di stabilire – afferma Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 – allorché pendono in grado di appello sia il giudizio in cui è stata pronunciata sentenza di accertamento della paternità, sia il giudizio che su tale base ha accolto la domanda di petizione di eredità, ed impugnate dai convenuti entrambe le sentenze – se il secondo giudizio debba essere sospeso in attesa che nel primo si formi il giudicato sulla dichiarazione di paternità o invece possa proseguire ovvero non debba essere sospeso necessariamente, ma solo possa esserlo se il giudice del secondo giudizio non intenda riconoscere l’autorità dell’altra decisione”.
La sentenza in questione si occupa quindi, dell’interpretazione sia dell’art. 295 c.p.c. che dell’art. 337 c.p.c. e proprio per tale ragione costituisce, relativamente a queste due norme, un approfondimento di decisiva e stra¬ordinaria importanza.
Affermato il principio generale che spetta solo al giudice il compito di valutare se l’efficacia della sentenza pro¬nunciata sulla lite pregiudicante debba essere sospesa (art. 283 cod. proc. civ.) o se la sua autorità debba essere provvisoriamente rifiutata (art. 337 c.p.c., comma 2) la sentenza delle Sezioni Unite lo applica al rapporto tra domanda di accertamento della filiazione naturale ed azione di petizione di eredità, affermando che salvi sol¬tanto i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica ed in modo che debba attendersi che sulla causa pregiudicante sia pronunciata sentenza passata in giudicato (come, esemplificando, nel caso previsto dall’art. 75 c.p.c., comma 3), “pare alla Corte che nell’interpretazione sistematica della disciplina del processo sia da riconoscere un ruolo decisivo alla disposizione che, a seguito della legge 26 novembre 1990, n. 353, si trova ora ad essere dettata dall’art. 282 del codice di rito. Col riconoscere provvisoria esecutività tra le parti alla sentenza di primo grado il legislatore ha determinato una cesura tra la posizione delle parti in controversia tra loro nel giudizio di primo grado – che è tendenzialmente paritaria e solo provvisoriamente alterabile da misure anticipatorie o cautelari – e la situazione in cui le stesse parti vengono poste dalla decisione del giudice di primo grado, che conosciuta la controversia, dichiara lo stato del diritto tra loro. L’ordinamento, anche allo scopo di scoraggiare il protrarsi della lite, che al contrario risulterebbe favorito, se all’impugnazione si attribuisse l’effetto d’un ripristino delle posizioni di partenza, proclama il valore del modo di composizione della controversia, che è dichiarato conforme a diritto dal giudice, terzo ed imparziale (art. 111 Cost., comma 2). Il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo diver¬so da quello dello stato originano di lite e giustifica sia l’esecuzione provvisoria, quando a quel diritto si tratti di adeguare la realtà materiale, sia l’autorità della sentenza di primo grado nell’ambito della relazione tra lite sulla causa pregiudiziale e lite sulla causa pregiudicata”.
L’idoneità della decisione sulla causa pregiudicante a condizionare quella della causa che ne dipende dovrebbe giustificare che questa causa resti sospesa a prescindere dal segno che potrà avere la decisione sull’altra. Lo impone prima di tutto l’esigenza che il sistema giudiziario non sia gravato dalla duplicazione dell’attività di cogni¬zione nei due processi pendenti. Ma quando nel processo sulla causa pregiudicante la decisione è sopravvenuta, quello sulla causa pregiudicata è in grado di riprendere il suo corso, perché ormai il sistema giudiziario è in grado di pervenire al giudizio sulla causa pregiudicata fondandolo sull’accertamento che sulla questione comune alle due cause si è potuto raggiungere nell’altro processo tra le stesse parti, attraverso l’esercizio della giurisdizione. Non dipende più da esigenze di ordine logico che il processo sulla causa dipendente resti sospeso.
Salvo, quindi, che l’ordinamento non esprima in casi specifici una valutazione diversa, imponendo che la compo¬sizione della lite pregiudicata debba attendere il giudicato sull’elemento di connessione tra le situazioni giuridiche collegate e controverse, è da ritenere che spetta al giudice il compito di valutare se l’efficacia della sentenza pronunciata sulla lite pregiudicante debba essere sospesa (art. 283 cod. proc. civ.) o se la sua autorità debba essere provvisoriamente rifiutata (art. 337 c.p.c., comma 2) in questo caso attribuendo al giudice del giudizio sulla lite pregiudicata il potere di sospenderlo
d) È possibile la sospensione discrezionale ex art. 337 c.p.c. del giudizio sulle domande di natura economica se la sentenza sull’accertamento della paternità è impugnata?
Secondo l’impostazione delle Sezioni Unite, quindi, venuta meno la possibilità di sospensione ex art. 295 c.p.c. che determinerebbe una paralisi inammissibile della cognizione, il processo civile cosiddetto pregiudicato po¬trebbe essere astrattamente sospeso soltanto ex art, 337 c.p.c. ove la sentenza del procedimento pregiudicante venisse impugnata. Si ricorda che secondo l’art. 337 c.p.c. “l’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione…”, al secondo comma prevede che “quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo, questo può essere sospeso se la sentenza è impugnata”.
A tale proposito le già richiamate Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924 e Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435 avevano entrambe precisato che “Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudi¬zialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, comma secondo, cod. proc. civ., e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ.. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimento è di per sé illegittimo, a prescindere da qualsiasi accertamento di merito circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità”.
Trattandosi di una sospensione facoltativa (“…può essere sospeso se la sentenza è impugnata”) si deve verificare in che cosa si sostanzia questo potere facoltativo (di sospendere il processo in cui è invocata la sentenza impu¬gnata), per evitare che il potere di sospensione diventi un arbitrio.
Ed allora ci si accorge che l’astratta possibilità di sospensione ex art. 337 c.p.c. viene ad essere in concreto quasi annullata, dal momento che la giurisprudenza richiede che il giudice debba verificare “l’efficacia persuasiva della sentenza” (come molto bene ha affermato per esempio Cass. civ. Sez. III, 4 luglio 2007, n. 15111). L’interpretazione quindi che i giudici della Cassazione hanno dato a partire dalle tre sentenze sopra richiamate (Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924; Cass. civ. Sez. III, 4 luglio 2007, n. 15111; Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435) è che quando tra due giudizi esiste rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non ancora passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, comma 2, c.p.c. e non ex art. 295 c.p.c. ma è compito del giudice valutare la forza della sentenza di primo grado per verificare con adeguata motivazione se sia plausibile che il giudizio pregiudicato venga sospeso. In definitiva tanto più alta è la forza (cioè la validità, la plausibilità) della sentenza di primo grado non ancora passata in giudicato, tanto più il giudice dovrà negare la sospensione.
L’ordinamento rimette quindi al giudice – secondo queste sentenze – il compito di valutare, tenuto conto degli elementi in base ai quali la controversia è riaperta con l’impugnazione, quale sia la forza e l’efficacia della senten¬za emessa nel giudizio pregiudicante (causa di paternità naturale) attribuendo al giudice della causa pregiudicata (causa ereditaria) il potere di sospenderla.
Quando la sentenza (appellata), asseritamente pregiudicante, è una sentenza dichiarativa della paternità, essa si fonda sul dato acquisito in genere con CTU genetica (di fatto incontrovertibile). E si tratta quindi di una sentenza do¬tata di così significativa efficacia persuasiva da non consentire una motivazione plausibile circa la sua sospensione.
Tutti questi principi sono stati più recentemente ribaditi e rafforzati da Cass. civ. Sez. VI, 12 novembre 2014, n. 24046 in cui si legge che “l’ordinanza con la quale viene disposta la sospensione discrezionale del processo ai sensi dell’art. 337, cpv., c.p.c. deve indicare le ragioni per le quali il giudice non intende riconoscere l’autorità della prima sentenza, già è intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante, chiarendo perché non ne condi¬vide il merito e le ragioni giustificatrici.
Perciò, ai fini del legittimo esercizio del potere di sospensione discrezionale del processo, previsto dall’art. 337, secondo comma, c.p.c. è indispensabile un’espressa valutazione di plausibile controvertibilità della decisione di cui venga invocata l’autorità in quel processo, sulla base di un confronto tra la decisione stessa e le critica che ne è stata fatta. Ne consegue che la sospensione discrezionale in parola è ammessa ove il giudice del secondo giudizio motivi esplicitamente le ragioni per le quali non intende riconoscere l’autorità della prima sentenza, già intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante. Si legge nella sentenza che “il potere discrezionale può bene essere esercitato a condizione che si dia conto, purché in modo non meramente apparente, di tali indispensabili valutazioni”. Occorre cioè, con tutta evidenza, che di tale intenzione di non riconoscimento si dia comunque, per quanto sommariamente, espressamente conto, altrimenti risolvendosi la sospensione nell’esercizio immotivato di un potere – che da discrezionale diverrebbe arbitrario ed incontrollabile – e finendo con il sovrapporsi meccani¬cisticamente alla diversa, ma non configurabile, ipotesi della sospensione necessaria ai sensi dell’art. 295 c.p.c.” Perciò è rimessa al giudice la scelta – anche ex art. 111 Cost sulla ragionevole durata del processo – tra l’ade¬guarsi all’autorità della pronuncia pregiudicante di primo grado, decidendo in base alla stessa ove sia fondata su una particolare plausibilità della decisione, ovvero discostarsene sospendendo il giudizio pregiudicato nell’attesa della pronuncia del processo di impugnazione.
VI
La disciplina processuale delle domande conseguenziali
a) Il giudicato sull’accertamento della paternità come presupposto processuale dell’accoglimento delle domande di rimborso delle spese pregresse e del risarcimento del danno
Secondo l’orientamento consolidato espresso dalla prima sezione civile della Corte di cassazione, attesa la natura dichiarativa della pronuncia che accerta la filiazione, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese soste¬nute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che se ne è occupato in via esclusiva, non sarebbe utilmente esercitabile e se esercitato non potrebbe essere accolto, se non successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986; Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596; Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328, Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124 le quali tutte hanno fatto affermazione di questo orientamento per farne conseguire il principio che il giudicato sullo status costituisce il dies a quo della decorrenza della prescrizione).
Pertanto secondo questa impostazione non sarebbe proponibile – e se proposta, non può essere accolta – una domanda di rimborso delle spese pregresse se non dopo il giudicato sull’accertamento della paternità.
Una di queste decisioni (Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006 n. 23596) qualifica, peraltro, la sentenza di accertamento della paternità come costitutiva, traendone tuttavia le stesse conseguenze che non dipendono quindi dalla qualificazione come dichiarativa o costituiva della sentenza ma dal fatto in sé dell’essere la sentenza considerata di fatto un presupposto condizionate le domande di natura economica.
Questo orientamento tradizionale è stato ripreso espressamente anche nella giurisprudenza di merito da Trib. Sulmona, 26 novembre 2012 secondo cui le domande a contenuto economico correlate alla domanda di di¬chiarazione giudiziale di paternità naturale possono essere svolte e decise in un unico processo, fermo restando che il credito derivante dall’accoglimento delle prime potrebbe essere azionato soltanto all’esito del passaggio in giudicato del capo relativo all’accertamento dello status di figlio.
Queste conclusioni – espressamente riferite alle sole domande di rimborso per le spese pregresse sostenute da un genitore dalla nascita del figlio, possono considerarsi applicabili anche alle domande di risarcimento del danno che, perciò, in applicazione dei medesimi principi, non possono essere proposte prima del giudicato sullo status e, in ogni caso, ove proposte prima, non potrebbe essere accolte prima del formarsi del giudicato sullo status. Si ricorda che è ammessa la domanda risarcitoria dei danni in caso di mancato riconoscimento alla na¬scita (Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205; Cass. civ. Sez. VI, 16 febbraio 2015, n. 30795 dove si ribadisce il principio secondo cui il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti del figlio (naturale) integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli articoli 2 e 30 della Costituzione un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell’illecito civile e legittima l’esercizio, ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., di un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole.
b) La contestuale proposizione e il possibile contestuale accoglimento della domanda di accertamen¬to della paternità con le domande sull’affidamento e sul mantenimento
Nella prassi dei tribunali italiani si ammette pacificamente la contestuale proposizione delle domande di accer¬tamento della paternità con quelle sull’affidamento e sul mantenimento futuro (esattamente come sono consi¬derate proponibili insieme alla domanda principale sullo status le domande relative al rimborso delle spese di mantenimento pregresse sostenute da un genitore, delle domande risarcitorie e di quelle di natura ereditaria).
5 cfr la voce RISARCIMENTO DEI DANNI PER OMESSO RICONOSCIMENTO DEL FIGLIO
Questa prassi è ampiamente riconosciuta e richiamata nella più volte citata Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 che proprio sul rapporto tra le due domande (quella sullo status e quella sulle questioni econo¬miche) fonda il suo ragionamento contrario alla sospensione del processo concernente le questioni economiche.
Alla contestualità tra domanda principale sullo status e domande conseguenziali si accompagna la possibilità di una medesima sentenza definitiva del tribunale che dispone su entrambi gli aspetti, quello relativo all’accerta¬mento e quello sulle domande conseguenziali relative all’affidamento e al mantenimento del figlio.
E opportuno ripetere che questa possibile contestualità nella medesima sentenza tra accertamento dello status e provvedimenti conseguenziali non può, però, includere i provvedimenti relativi al rimborso delle spese pregres¬se, al risarcimento dei danni e alle questioni ereditarie che tutte presuppongono il passaggio in giudicato della sentenza sullo status. In questi ultimi tre casi, ove le domande fossero state proposte nello stesso giudizio, vi saranno due sentenze: una non definitiva sullo status e una definitiva sulle questioni economiche.
VII
Il problema della provvisoria esecuzione (art. 282 c.p.c.) dei capi della sentenza
concernenti le domande relative al mantenimento
a) L’orientamento degli anni Novanta che nega la possibilità della provvisoria esecuzione in caso di condanne accessorie a sentenze dichiarative e costitutive
Acquisito che le sentenze dichiarative sullo status e perciò anche quelle di accertamento della paternità hanno effetti costitutivi, nel senso che non possono essere considerate esecutive se non dopo il loro passaggio in giu¬dicato (non si può certo trascrivere una sentenza di riconoscimento della paternità nei registri di stato civile se questa non è passata in giudicato), occorre ora chiedersi se i capi della sentenza concernenti l’affidamento e il mantenimento futuro possano essere considerati provvisoriamente esecutivi.
L’art. 282 c.p.c. prescrive che “La sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti”.
La precedente formulazione prevedeva, per converso, quale facoltà per il giudice, la concessione, su espressa richiesta della parte, della “clausola” di provvisoria esecuzione qualora la domanda fosse fondata su atto pub¬blico o scrittura privata o se, con riferimento alla parte vittoriosa, il ritardo nell’esecuzione avesse creato una situazione di “pericolo”. Peraltro, la concessione della clausola, salvo casi eccezionali, era sempre prevista nel caso di sentenza di condanna al pagamento di provvisionali o di prestazioni alimentari e l’esecutività ex lege delle decisioni di primo grado era già stata introdotta, tra l’altro, nell’ambito del rito del lavoro, per le condanne al pagamento di crediti in favore del lavoratore, secondo il sistema di cui all’art. 431 c.p.c., ed estesa ai “riti speciali” collegati, relativi alle controversie in materia di locazione e a quelle di competenza delle sezioni specia¬lizzate agrarie. Tutti elementi da cui è possibile desumere, peraltro, anche argomenti a favore della provvisoria esecuzione nei casi di cui stiamo discutendo di condanne accessorie a sentenze costitutive o dichiarative.
Può l’art. 282 c.p.c. essere interpretato nel senso, quindi, di ritenere che le pronunce di condanna accessorie ad un accertamento ovvero alla costituzione, modificazione o estinzione di un rapporto giuridico siano qualificabili come provvisoriamente esecutive?
Intanto vi è da dire che il riferimento alle sentenze di condanna ha fatto sorgere il dubbio se la provvisoria ese¬cuzione secondo il disposto dell’art. 282 nel testo vigente, che non contiene alcuna precisazione (parlando solo di “sentenza di primo grado”), vada ascritta a tutte le sentenze o solo a quelle di primo grado che pronuncino una condanna. Si ritiene in dottrina che il riferimento della norma tout court alla sentenza di primo grado sia il frutto di una scelta di rifiutare un più circoscritto e qualificato richiamo, tanto più che, in sede di lavori prepara¬tori, l’emendamento volto a puntualizzare il riferimento alle sole sentenze di condanna venne criticato e respinto, soprattutto con la considerazione che si sarebbe svuotata di molto l’utilità che era lecito ripromettersi dalla nuova soluzione a favore della generalizzata esecutività, applicabile anche a certe sentenze dichiarative o costitutive, specie in tema di diritto di famiglia. Nonostante tali indicazioni dei lavori preparatori (preziosa per l’interpretazio¬ne comunque favorevole alla provvisoria esecuzione nell’ambito delle cause sugli status familiae), la soluzione di segno restrittivo è prevalsa nella giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. Sez. II, 12 luglio 2000, n. 9236 e Cass. civ. Sez. I, 6 febbraio 1999, n. 1037 nelle quali si afferma che la disciplina dell’esecuzione provvisoria di cui all’art. 282 c.p.c. trova legittima attuazione soltanto con riferimento alle sentenze di condanna, le uniche idonee, per loro natura, a costituire titolo esecutivo.
Pertanto la giurisprudenza si è assestata per lungo tempo sulla considerazione che il concetto di esecutorietà non può essere riferito alle sentenze dichiarative (di accertamento) e costitutive e che le sentenze aventi tale natura, ai sensi dell’interpretazione restrittiva dell’art. 282 c.p.c., acquistano efficacia (intesa, in senso lato, come produzione degli effetti ad esse propri) solo con il passaggio in giudicato (Cass. civ. Sez. II, 24 marzo 1998, n. 3090).
La giurisprudenza di legittimità e di merito ha conseguentemente sostenuto, negli anni Novanta, la tesi secondo cui tutte le pronunce di condanna ancorché accessorie e consequenziali, compresa quella relativa alla regolamentazione delle spese processuali (Cass. civ. Sez. III, 24 maggio 1993, n. 5837 sono inidonee a costituire titolo esecutivo fino a quando non diventi efficace la pronuncia principale di accertamento o costitutiva. Non si potrebbe pertanto procedere all’esecuzione forzata sul capo di condanna consequenziale in difetto dell’efficacia del capo che ne costituisce il presupposto. Non potrebbe, pertanto, essere data rilevanza autonoma a tali statu¬izioni accessorie, il cui regime deve adeguarsi a quello della statuizione principale.
b) Il cambio di rotta di una parte della giurisprudenza degli anni Duemila: tutte le sentenze sono provvisoriamente esecutive, anche quelle dichiarative e costitutive
A partire dal 2005 una parte della giurisprudenza di legittimità ha cambiato orientamento, arrivando a sostenere la provvisoria esecuzione di tutte le sentenze di primo grado, ivi comprese quelle dichiarative e quelle costitutive.
Dapprima Cass. civ. Sez. III, 26 gennaio 2005, n. 1619 ha ritemuto che non solo le sentenze di condanna ma anche quelle costitutive possono essere provvisoriamente esecutive indipendentemente da una esplicita statuizio¬ne in tal senso del giudice se contengono una condanna implicita, desumibile anche dalla sola motivazione o dalla funzione stessa che il titolo è destinato a svolgere e successivamente, soprattutto Cass. civ. Sez. III, 3 set¬tembre 2007, n. 18512 ha affermato che anche i capi delle sentenze di natura dichiarativa e costitutiva hanno efficacia in senso lato immediata e che non ha senso la distinzione tra pronunce di condanna pure e consequenziali poiché tutte le condanne presuppongono un accertamento, quand’anche implicito. Con la conseguenza che tutte le declaratorie di condanna (ivi comprese quelle inerenti alle spese di lite) sono provvisoriamente esecutive. Con quest’ultima sentenza si stabilisce che, nel caso di pronuncia di sentenza costitutiva ai sensi dell’art. 2932 c.c., le statuizioni di condanna consequenziali, dispositive dell’adempimento delle prestazioni a carico delle parti tra le quali la sentenza determina la conclusione del contratto, sono da ritenere immediatamente esecutive, ai sensi dell’art. 282 c.p.c., di modo che, qualora l’azione ex art. 2932 c.c. sia stata proposta dal promittente venditore, la statuizione di condanna del promissario acquirente al pagamento del prezzo è da considerare provvisoriamente esecutiva. Perciò, la pronuncia sancisce l’estensione degli effetti dell’art. 282 c.p.c. a tutte le statuizioni di condan¬na di primo grado, siano esse principali o accessorie e strumentali a pronunce dichiarative o costitutive.
Questo orientamento elimina ogni differenza tra condanne principali e condanne accessorie ad una declaratoria dichiarativa o costitutiva e afferma in ogni caso che non esisterebbe nel nostro ordinamento alcun principio in forza del quale al riconoscimento della tutela costitutiva, nella sua funzione tipica, non possano conseguire effetti prima del passaggio in giudicato della sentenza che ne acclari i presupposti. Dunque, il principio è quello secondo cui le sentenze dichiarative e costitutive sono provvisoriamente efficaci prima del passaggio in giudicato, salvo che la legge disponga altrimenti.
Il nuovo corso aperto da questa parte della giurisprudenza di legittimità suggerisce allora di interpretare l’art. 282 c.p.c. nel senso che tutte le sentenze di primo grado sono provvisoriamente efficaci (sempre che non vi sia una previsione speciale che stabilisca per singoli casi il contrario).
Pertanto in base a questo orientamento non solo è pacifico che siano provvisoriamente esecutive le sentenze di condanna accessorie ad una decisione dichiarativa o costituiva ma sarebbero immediatamente esecutive anche tutte le sentenze dichiarative o costitutive.
c) L’intervento delle Sezioni Unite (n. 4059/2010) e il ritorno alla tesi della esecutività condizionata al giudicato in caso di sentenze costitutive ma limitatamente alle controprestazioni corrispettive
I principi affermati nella sentenza 18512/2007 non trovarono successiva conferma nella giurisprudenza di le¬gittimità successiva, la quale è rimasta nel complesso ferma nel propendere per la soluzione negativa in ordine soprattutto all’ammissibilità della provvisoria esecutività delle sentenze costitutive ex art. 2932 c.c..
In particolare, con la pronuncia Cass. civ. Sez. II, 6 aprile 2009, n. 8250 – nettamente contrapposta alla n. 18512/2007 – la Corte confermava che la sentenza che dispone l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, ex art. 2932 c.c., produce i propri effetti solo dal momento del passaggio in giudicato; ne consegue che, quando detta sentenza abbia subordinato l’effetto traslativo al pagamento del residuo prezzo, l’obbligo di pagamento in capo al promissario acquirente non diventa attuale prima dell’irretrattabilità della pronuncia giudiziale, essendo tale pagamento la prestazione corrispettiva destinata ad attuare il sinallagma contrattuale.
Riferita alle sole sentenze costitutive questa interpretazione in chiave contrattualistica e dubbio che possa esten¬dersi al di fuori del terreno del contratto e in particolare nel terreno degli status.
In ogni caso sul terreno sempre delle sentenze costitutive (specificamente nel campo delle sentenze relative all’esecuzione dell’obbligo di trasferire la proprietà) venne sollecitato un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite per comporre il contrasto determinatosi in giurisprudenza.
Le Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. Unite, 22 febbraio 2010, n. 4059) ritennero di disattendere l’orientamento radicale di cui alla sentenza 18512/2007 e di dare, invece, continuità all’orientamento seguito dalla sentenza 8250/2009 dichiarando di condividere gli argomenti sviluppati dalla dottrina maggioritaria a sostegno della tesi secondo cui, nel caso di preliminare di compravendita e di pronuncia ex art. 2932 c.c. l’effetto traslativo della proprietà del bene si produce solo con l’irretroattività della sentenza che determina l’effetto sostitutivo del con¬tratto definitivo. La sentenza di primo grado di accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c. non può pertanto produrre, prima del passaggio in giudicato, gli effetti del contratto definitivo con la conseguente impossibilità di scissione, nelle sentenze ex art. 2932 c.c. in tema di contratto preliminare di compravendita, tra capi costitutivi principali e capi di condanna consequenziali, con riferimento specifico a quelli cosiddetti sinallagmatici le cui relative statuizioni fanno parte integrante della pronuncia costitutiva nel suo complesso.
Affermano in sostanza le Sezioni Unite che l’esecutività provvisoria ai sensi dell’art. 282 c.p.c. della sentenza di accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica ai sensi dell’art. 2932 c.c. dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita è limitata ai capi della decisione compatibili con la produzione dell’effetto trasla¬tivo del bene in un momento successivo e non si estende ai capi condannatori che si collocano in un rapporto di stretta interdipendenza con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale.
Si legge nella sentenza: va precisato che la possibilità di anticipare l’esecuzione delle statuizioni condannatorie contenute nella sentenza costitutiva va riconosciuta in concreto, volta a volta, a seconda del tipo di rapporto tra l’effetto condannatorio da anticipare e l’effetto costitutivo producibile solo con il giudicato. A tal fine occorre differenziare le statuizioni condannatorie meramente dipendenti dal detto effetto costitutivo, dalle statuizioni che invece sono a tale effetto legate da un vero e proprio nesso sinallagmatico ponendosi come parte – talvolta “corrispettiva” – del nuovo rapporto oggetto della domanda costitutiva.
Così, ad esempio, nel caso di condanna del promissario acquirente al pagamento del prezzo della vendita, non è possibile riconoscere effetti esecutivi a tale condanna altrimenti si verrebbe a spezzare il nesso tra il trasfe¬rimento della proprietà derivante in virtù della pronuncia costitutiva ed il pagamento del prezzo della vendita.
L’effetto traslativo della proprietà del bene si produce solo con l’irretrattabilità della sentenza per cui è da esclu¬dere che prima del passaggio in giudicato della sentenza sia configurabile un’efficacia anticipata dell’obbligo di pagare il prezzo: si verificherebbe un’alterazione del sinallagma. Ritenere diversamente consentirebbe alla parte promittente venditrice – ancora titolare del diritto di proprietà del bene oggetto del preliminare – di incassare il prezzo prima ancora del verificarsi dell’effetto, verificabile solo con il giudicato, del trasferimento di proprietà.
Possono quindi ritenersi anticipabili i soli effetti esecutivi dei capi che sono compatibili con la produzione dell’effet¬to costitutivo in un momento temporale successivo, ossia all’atto del passaggio in giudicato del capo di sentenza propriamente costitutivo. Così la condanna al pagamento delle spese processuali contenuta nella sentenza che accoglie la domanda. La provvisoria esecutività non può invece riguardare quei capi condannatori che si collocano in un rapporto di stretta sinallagmaticità con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale.
Le indicazioni delle Sezioni Unite hanno trovato applicazione esplicita nelle decisioni successive della giurispru¬denza di legittimità.
Così per esempio Cass. civ. Sez. I, 29 luglio 2011, n. 16737 ha affermato che l’anticipazione in via provvisoria , ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie contenute in sentenze costitutive, non è consentita, essendo necessario il passaggio in giudicato, soltanto nei casi in cui la statuizione condannatoria è le¬gata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico (come nel caso di condanna al pagamento del prezzo della compravendita nella sentenza sostitutiva del contratto definitivo non concluso); è invece consentita quando la statuizione condannatoria è meramente dipendente dall’effetto costitutivo, essendo detta anticipazione compatibile con la produzione dell’effetto costitutivo nel momento temporale successivo del passaggio in giudi¬cato (come nel caso di specie riguardante la condanna di un istituto di credito alla restituzione delle somme di denaro ricevute da un istituto di credito a seguito di atti solutori dichiarati inefficaci ai sensi dell’art. 67 legge fall.).
Nella giurisprudenza di merito analogamente si è espresso Trib. Pordenone, 9 febbraio 2017.
d) La provvisoria esecuzione delle statuizioni di condanna al mantenimento in caso di sentenze di-chiarative della paternità
Le sentenze dichiarative come quelle sull’accertamento della paternità condividono con quelle costitutive la na¬tura costituiva degli effetti: prima del giudicato non è possibile l’attribuzione di effetti alla relativa pronuncia che potrà essere trascritta nei registri di stato civile soltanto dopo il passaggio in giudicato.
Come si è visto – dall’illustrazione dell’elaborazione giurisprudenziale sul punto – non vi sono motivi ostativi all’esecuzione provvisoria dei capi di condanna contenuti nella sentenza costitutiva o dichiarativa in generale. Le Sezioni Unite intervenute nel dibattito (Cass. civ. Sez. Unite, 22 febbraio 2010, n. 4059) hanno precisato, appunto, che l’esecutività provvisoria ai sensi dell’art. 282 c.p.c. della sentenza costitutiva (nel caso di obbligo specifico di concludere un contratto) non è affatto impedita, ma è limitata ai capi della decisione compatibili con la produzione dell’effetto traslativo del bene in un momento successivo e non si estende ai capi condannatori che si collocano in un rapporto di stretta interdipendenza (sinallagmaticità) con i capi costitutivi relativi alla modifi¬cazione giuridica sostanziale.
Come si è visto anche Cass. civ. Sez. I, 29 luglio 2011, n. 16737 ha affermato che l’anticipazione in via prov-visoria, ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie contenute in sentenze costitutive non è consentita soltanto nei casi in cui la statuizione condannatoria è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico (come nel caso di condanna al pagamento del prezzo della compravendita nella sentenza sostitutiva del contratto definitivo non concluso).
Il sinallagma è un elemento costitutivo implicito del contratto a obbligazioni corrispettive. È il rapporto di inter¬dipendenza contrattuale tra una prestazione ed una controprestazione. In tanto una parte diventa proprietaria in quanto paga il prezzo del bene. Non si può essere condannati a pagare il prezzo di un bene se non si diventa contestualmente proprietari di quel bene.
In tutti i casi in cui la statuizione di condanna, invece, non ha questo collegamento sinallagmatico con la pro¬nuncia principale, è consentito attribuire alla condanna l’effetto esecutivo provvisorio (così per esempio in caso di condanna al pagamento delle spese di giudizio).
Ebbene in caso di sentenze dichiarative di accertamento della paternità non è possibile parlare di sinallagmati¬cità non essendoci alcun rapporto contrattuale tra figlio e genitore dichiarato tale, con la conseguenza che non vi sono ostacoli a considerare possibile l’esecuzione provvisoria delle statuizioni di condanna, non solo per il capo della sentenza sulle spese processuali (come è pacifico in giurisprudenza, per esempio Cass. civ. Sez. I, 15 dicembre 2011, n. 27090; Tribunale, Reggio Emilia, 6 settembre 2012) ma anche per gli altri capi contenenti una condanna.
Sarebbe strano il contrario, cioè che la regolamentazione del mantenimento per esempio del figlio minore ve¬nisse posticipata ad un tempo successivo al giudicato che potrebbe sopraggiungere solo dopo molti anni con evidenti ripercussioni negative sul diritto del figlio ad essere salvaguardato nelle sue esigenze primarie.
Sussistono quindi tutte le coordinate giuridiche e logiche della concessione ex lege della provvisoria esecuzione: il fumus e il periculum.
Esemplare in tale direzione è la decisione (proprio in un caso di accertamento della paternità) con cui le Sezioni Unite nel 2012 hanno affermato – come si è visto (Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2004 n. 14060) – il prin¬cipio generale che “salvi soltanto i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica ed in modo che debba attendersi che sulla causa pregiudicante sia pronunciata sen¬tenza passata in giudicato pare alla Corte che nell’interpretazione sistematica della disciplina del processo sia da riconoscere un ruolo decisivo alla disposizione che, a seguito della legge 26 novembre 1990, n. 353, si trova ora ad essere dettata dall’art. 282 del codice di rito. Col riconoscere provvisoria esecutività tra le parti alla sentenza di primo grado (e, si ripete, si trattava proprio di un accertamento della paternità) il legislatore ha determinato una cesura tra la posizione delle parti in controversia tra loro nel giudizio di primo grado – che è tendenzialmente paritaria e solo provvisoriamente alterabile da misure anticipatorie o cautelari – e la situazione in cui le stesse parti vengono poste dalla decisione del giudice di primo grado, che conosciuta la controversia, dichiara lo stato del diritto tra loro. L’ordinamento, anche allo scopo di scoraggiare il protrarsi della lite, che al contrario risul¬terebbe favorito, se all’impugnazione si attribuisse l’effetto d’un ripristino delle posizioni di partenza, proclama il valore del modo di composizione della controversia, che è dichiarato conforme a diritto dal giudice, terzo ed imparziale (art. 111 Cost., comma 2). Il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originano di lite e giustifica sia l’esecuzione provvisoria, quando a quel diritto si tratti di adeguare la realtà materiale, sia l’autorità della sentenza di primo grado nell’ambito della relazione tra lite sulla causa pregiudiziale e lite sulla causa pregiudicata”.
VIII
La provvisoria esecuzione dei capi della sentenza concernenti l’affidamento del figlio
Il principio della provvisoria esecuzione di tutte le decisioni che concernono l’affidamento dei figli minori è stato riaffermato dalla recente riformulazione dell’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile riformato dall’art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 come modificato dall’art. 96 lett. c del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 1546.
6 Art.38
Sono di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, del codice civile. Per i procedimenti di cui all’articolo 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni per l’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’articolo 316 del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario.
Sono altresì di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 251 e 317-bis del codice civile *
Sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria. Nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applica, in quanto compatibile, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile.
Fermo restando quanto previsto per le azioni di stato, il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sen¬tito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente.
Sulla base di questa riformulazione l’art. 38 disp. att. c.c. contiene ora un principio generale di immediata ese¬cutività di tutti i provvedimenti che concernono l’affidamento di minori, che sarebbe del tutto irragionevole non applicare anche ai provvedimenti sull’affidamento conseguenziali alla sentenza di accertamento della paternità.
Quando il provvedimento è emesso dal tribunale per i minorenni, il reclamo si propone davanti alla sezione di corte di appello per i minorenni.
Giurisprudenza
Trib. Treviso Sez. I, 10 marzo 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa del rapporto di filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento (tardivo) e quindi, a norma dell’art. 261 c.c., comporta da parte del genitore tutti i doveri e tutti i diritti propri della procreazione legittima.
Trib. Pordenone, 9 febbraio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’anticipazione in via provvisoria , ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie contenute in sentenze costitutive, non è consentita, occorrendo il passaggio in giudicato, soltanto nei casi in cui la statuizione condannatoria è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico; è invece consentita quando la statuizione condannatoria è me¬ramente dipendente dall’effetto costitutivo, essendo detta anticipazione compatibile con la produzione dell’effetto costitutivo nel momento temporale successivo del passaggio in giudicato.
Cass. civ. Sez. VI, 14 luglio 2016, n. 14417 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento da cui conseguono tutti i doveri propri della procreazione legittima tra i quali l’obbligo di mantenimento. La relativa obbligazione si collega allo status genitoriale e assume decorrenza dalla nascita del figlio, con la conseguenza che l’altro genitore, il quale nel frattempo ha sostenuto l’onere di manteni¬mento anche per la porzione di pertinenza del figlio dichiarato giudizialmente, ha diritto di regresso per la corrispondente quota.
Trib. Cassino, 15 giugno 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio nasce al momento della sua nascita, anche se la procrea¬zione sia stata successivamente accertata con sentenza. La sentenza dichiarativa della filiazione naturale, invero, produce gli effetti del riconoscimento comportando per il genitore, ai sensi dell’art. 261 c.c., tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ai sensi dell’art. 148 c.c. Conseguentemente, anche nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, per ciò stesso non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o mater¬nità naturale. Su tale base, la violazione dei relativi doveri non trova la sua sanzione, necessariamente e soltanto, nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, in quanto la natura giuridica di tali obblighi implica che la relativa violazione, nell’ipotesi in cui provochi la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo ad un’au¬tonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c. (Nel caso di specie, Il Tribunale ha condannato il padre naturale di una ragazzina di tredici anni a risarcirle i danni non patrimoniali conseguiti al totale disinteresse dimostrato nei suoi confronti, tale da avere determinato una vera e propria lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione, i quali trovano negli artt. 2 e 30 della carta costituzionale, oltre che in normative internazionali recepite nel nostro ordinamento, un elevato grado di riconoscimento e tutela. Di conseguenza, considerata anche la giovane età della figlia, il giudice di merito ha condannato il padre a versare, a titolo di danno non patrimoniale per abbandono morale della minore, la somma di 52.000 euro, liquidata in via equitativa).
Cass. civ. Sez. VI, 16 febbraio 2015, n. 3079 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di una figlia naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli articoli 2 e 30 della Costituzione – oltre che nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento – un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell’illecito civile e legittima l’esercizio, ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., di un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole.
Cass. civ. Sez. VI, 9 dicembre 2014, n. 25861 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La pendenza di una lite sulla validità dell’accordo giustificativo della separazione consensuale tra coniugi pregiudica, in senso tecnico giuridico, l’esito del giudizio, contemporaneamente pendente, di cessazione degli effetti civili del loro matrimonio, e ne comporta la sospensione ex art. 295 cod. proc. civ., perché l’eventuale annullamento di quell’accordo determinerebbe il venir meno, con effetto “ex tunc”, di un presupposto indispensabile della pronuncia di divorzio.
È configurabile la sospensione ex art. 295 cod. proc. civ. del giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio che penda contemporaneamente a quello riguardante l’annullamento della separazione consensuale omologata tra gli stessi coniugi.
Cass. civ. Sez. VI, 20 gennaio 2015, n. 798 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato la sospensione del giudizio pregiudicato può essere disposto soltanto ai sensi dell’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ., sicché ove il giudice abbia provveduto ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., il relativo provvedimento, a prescindere da ogni accertamento circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità, è illegittimo e va annullato, ferma restando la possibilità, da parte del giudice di merito dinanzi al quale il giudizio andrà riassunto, di un nuovo e motivato provvedimento di sospensione ai sensi dell’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ. (In applicazione del detto principio, la S.C. ha accolto il ricorso proposto av¬verso l’ordinanza di sospensione, ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., del giudizio introdotto dall’INAIL in surroga, nei confronti dei responsabili dell’infortunio sul lavoro occorso al lavoratore, pendendo in appello il giudizio tra i danneggiati e i responsabili del sinistro stradale.
Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2014, n. 16657 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di filiazione naturale, il diritto al rimborso delle spese a favore del genitore che ha provveduto al mantenimento del figlio fin dalla nascita, ancorché trovi titolo nell’obbligazione legale di mantenimento imputabile anche all’altro genitore, ha natu¬ra in senso lato indennitaria, in quanto diretto ad indennizzare il genitore, che ha riconosciuto il figlio, degli esborsi sostenuti da solo per il mantenimento della prole. Ne consegue che il giudice di merito, ove l’importo non sia altrimenti quantificabile nel suo preciso ammontare, legittimamente provvede, per le somme dovute dalla nascita fino alla pronuncia, secondo equità trattandosi di criterio di valutazione del pregiudizio di portata generale, fermo restando che, essendo la richiesta di indennizzo assimilabile ad un’azione di ripetizione dell’indebito, gli interessi, in assenza di un precedente atto stragiudiziale di costituzione in mora, decorrono dalla data della domanda giudiziale.
Cass. civ. Sez. VI, 12 novembre 2014, n. 24046 (Giur. It., 2015, 6, 1395 nota di BERTILLO)
L’ordinanza con la quale viene disposta la sospensione discrezionale del processo ai sensi dell’art. 337, cpv., c.p.c. deve anche indicare le ragioni per le quali il giudice non intenda riconoscere l’autoritaè della prima sentenza, giaè intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante, chiarendo perché non ne condivide il merito e le ragioni giustificatrici.
Ai fini del legittimo esercizio del potere di sospensione discrezionale del processo, previsto dall’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ., è indispensabile un’espressa valutazione di plausibile controvertibilità della decisione di cui venga invocata l’autorità in quel processo, sulla base di un confronto tra la decisione stessa e le critica che ne è stata fatta. Ne consegue che la sospensione discrezionale in parola è ammessa ove il giudice del secondo giudizio motivi esplicitamente le ragioni per le quali non intende riconoscere l’autorità della prima sentenza, già intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante, chiarendo perché non ne condivide il merito o le ragioni giustificatrici.
Cass. civ. Sez. lavoro, 24 giugno 2014, n. 14274 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 295 c.p.c., la cui ragione fondante è quella di evitare il rischio di un conflitto tra giudicati, fa esclusivo riferimento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giudice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico – giuridico e non già in senso meramente logico, la sospensione necessaria del processo non è configurabile nell’ipotesi di con¬temporanea pendenza davanti a due giudici diversi del giudizio sull’”an debeatur” e di quello sul “quantum”, fra i quali esiste un rapporto di pregiudizialità solamente in senso logico, essendo in tal caso applicabile l’art. 337, secondo comma, c.p.c., il quale, in caso di impugnazione di una sentenza la cui autorità sia stata invocata in un separato processo, prevede soltanto la possibilità della sospensione facoltativa di tale processo.
Cass. civ. Sez. I, 21 maggio 2014, n. 11211 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di accertamento della paternità naturale, mentre la condanna al rimborso della quota del genitore che, prima della pro¬nuncia, abbia provveduto integralmente al mantenimento della prole, presuppone la domanda di parte, non è necessaria alcuna specifica richiesta in ordine ai provvedimenti relativi al mantenimento del minore per il periodo successivo alla proposizione dell’azione, in relazione ai quali il giudice è dotato di poteri ufficiosi.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di mantenimento del figlio naturale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente azionabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, che conseguentemente costituisce il “dies a quo” della decorrenza della ordinaria prescrizione decennale.
Cass. civ. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 6207 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando fra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato – salvo nel caso in cui la sospensione sia imposta da una dispo¬sizione specifica fino al passaggio in giudicato – soltanto ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., come si trae dall’interpretazione sistematica della disciplina del processo, in cui un ruolo decisivo riveste l’art. 282 cod. proc. civ. e il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originario di lite, giustificando sia l’esecuzione provvisoria, sia l’autorità della sentenza di primo grado. (Nella specie, la S.C. ha cassato l’ordinanza di sospensione ex art. 295 cod. proc. civ. emesso dal tribunale affermando che la pendenza in appello di un giudizio in cui era stata accolta, in primo grado, la domanda di una società volta all’accertamento della validità dell’acquisto di un complesso immobiliare non era necessariamente pregiudiziale al procedimento introdotto in primo grado dalla medesima società e volto a far valere l’acquisto immobiliare per usucapione abbreviata per effetto dell’immissione in possesso conseguente all’aggiudicazione, potendo tale se¬condo procedimento essere sospeso solo ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., ove il giudice avesse inteso riconoscere l’autorità della prima decisione).
Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo dei genitori di educare e mantenere i figli (artt. 147 e 148 cod. civ.) è eziologicamente connesso esclusivamente alla procreazione, prescindendo dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così determinandosi un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore. Il presupposto di tale responsabilità e del conseguente diritto del figlio al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali è costituito dalla consapevolezza del concepimento, che non si identifica con la certezza assoluta derivante esclusi¬vamente dalla prova ematologica, ma si compone di una serie di indizi univoci, quali, nella specie, la indiscussa consumazione di rapporti sessuali non protetti all’epoca del concepimento.
Trib. Sulmona, 26 novembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le domande a contenuto economico correlate alla domanda di dichiarazione giudiziale di paternità naturale possono essere svol¬te e decise in un unico processo, fermo restando che il credito derivante dall’accoglimento delle prime potrebbe essere azionato soltanto all’esito del passaggio in giudicato del capo relativo all’accertamento dello status di figlio.
Trib. Napoli Sez. I, 18 settembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligazione di mantenimento del figlio riconosciuto da entrambi i genitori, per effetto della sentenza dichiarativa della filiazione naturale, collegandosi allo status genitoriale, sorge con decorrenza dalla nascita del figlio, con la conseguenza che il genitore, che nel frattempo abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento del minore anche per la quota di pertinenza dell’altro genitore, ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla base delle regole dettate dagli artt. 148 e 261 c.c., da interpretarsi tuttavia alla luce del regime delle obbligazioni solidali sancito dall’art. 1229 c.c.
Tribunale, Reggio Emilia, 6 settembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza con natura dichiarativa oppure costitutiva (e non di condanna) è provvisoriamente esecutiva solamente con riferi¬mento al capo che concerne le spese di lite.
Gli effetti dichiarativi e costitutivi, invece, diventano esecutivi (solamente) con il passaggio in giudicato della stessa sentenza.
Ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 282 c.p.c. la sentenza è provvisoriamente esecutiva tra le parti.
Tale norma non può essere letta (ed interpretata) con l’indiscriminata attribuzione della provvisoria esecutività alla integralità delle sentenze di primo grado, con il “pericolo” di alterazione del rapporto giuridico tra le parti.
Cass. civ. Sez. Unite 19 giugno 2012, n. 10027 (Famiglia e Diritto, 2013, 5, 450 nota di VANZ)
Salvi soltanto i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica ed in modo che debba attendersi che sulla causa pregiudicante sia pronunciata sentenza passata in giudicato, quando fra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., come si trae dall’interpretazione sistematica della disciplina del processo, in cui un ruolo decisivo riveste l’art. 282 cod. proc. civ.: il diritto pronunciato dal giudice di primo grado, invero, qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originario di lite, giustificando sia l’esecu¬zione provvisoria, sia l’autorità della sentenza di primo grado. Pertanto, allorché penda, in grado di appello, sia il giudizio in cui è stata pronunciata una sentenza su causa di riconoscimento di paternità naturale e che l’abbia dichiarata, sia il giudizio che su tale base abbia accolto la domanda di petizione di eredità, ed entrambe le sentenze siano state impugnate, il secondo giudizio non deve di necessità essere sospeso, in attesa che nel primo si formi la cosa giudicata sulla dichiarazione di paternità naturale, ma può esserlo, ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., se il giudice del secondo giudizio non intenda riconoscere l’autorità dell’altra decisione. Non ostano, a tale conclusione, le disposizioni degli artt. 573 e 715 cod. civ., non essendo in questione il momento dal quale si producono gli effetti della dichiarazione di filiazione naturale, ma il potere del giudice, cui la seconda domanda sia proposta, di conoscerne sulla base della filiazione naturale già riconosciuta con sentenza, pur non ancora passata in giudicato.
Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio insorge con la nascita dello stesso, anche nell’ipotesi in cui la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza. Ciò in virtù del fatto che la sentenza dichiarativa della fi¬liazione naturale produce gli effetti del riconoscimento e, quindi, in base all’art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri tipici della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento di cui all’art. 148 c.c., ricollegandosi tale obbligazioni allo status genitoriale ed assumendo, di conseguenza, efficacia retroattiva. Al riguardo, si precisa come l’obbligo di mantenimento dei figli sussiste per il solo fatto di averli generati, prescindendo da qualsiasi domanda in tal senso, con la conseguenza che, laddove al momento della nascita il figlio sia stato riconosciuto da uno solo dei genitori, l’altro è comunque obbligato al mantenimento per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale.
Cass. civ. Sez. I, 15 dicembre 2011, n. 27090 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ancorché la pronuncia non contenga una condanna nel merito della domanda la statuizione in materia di condanna alle spese fruisce dell’efficacia esecutiva di cui al codice di rito.
App. Bologna Sez. minori, 5 dicembre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligazione di mantenimento del figlio, per effetto della sentenza dichiarativa della filiazione naturale, collegandosi allo sta¬tus genitoriale, sorge con decorrenza dalla nascita del figlio. Ne consegue che il genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento del minore anche per la porzione di pertinenza dell’altro genitore, ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dagli artt. 148 e 261 c.c. da interpretarsi alla luce del regime delle obbligazioni solidali stabilito nell’art. 1229 c.c.
Cass. civ. Sez. I, 29 luglio 2011, n. 16737 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’anticipazione in via provvisoria , ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie contenute in sentenze costitutive, non è consentita, essendo necessario il passaggio in giudicato, soltanto nei casi in cui la statuizione condannatoria è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico (come nel caso di condanna al pagamento del prezzo della compravendita nella sentenza sostitutiva del contratto definitivo non concluso); è invece consentita quando la statuizione con¬dannatoria è meramente dipendente dall’effetto costitutivo, essendo detta anticipazione compatibile con la produzione dell’effet¬to costitutivo nel momento temporale successivo del passaggio in giudicato (come nel caso di specie riguardante la condanna di un istituto di credito alla restituzione delle somme di denaro ricevute da un istituto di credito a seguito di atti solutori dichiarati inefficaci ai sensi dell’art. 67 legge fall.).
Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2010, n. 22506 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligazione di mantenimento del figlio riconosciuto da entrambi i genitori, per effetto della sentenza dichiarativa della fi¬liazione naturale, collegandosi allo “status” genitoriale, sorge con decorrenza dalla nascita del figlio, con la conseguenza che il genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento del minore anche per la porzione di pertinenza dell’altro genitore, ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dagli artt. 148 e 261 del cod. civ. da interpretarsi però alla luce del regime delle obbligazioni solidali stabilito nell’art. 1299 cod. civ. Pertanto, il “quantum” dovuto in restituzione nel periodo di mantenimento esclusivo non può essere determinato sulla base dell’importo stabilito per il futuro nella pronuncia relativa al riconoscimento del figlio naturale, via via devalutato, in quanto l’ammontare dovuto trova limite negli esborsi presumibilmente sostenuti in concreto dal genitore che ha per intero sostenuto la spesa senza però prescindere né dalla considerazione del complesso delle specifiche e molteplici esigenze effettivamente soddisfatte o notoriamente da soddisfare nel periodo in considerazione né dalla valorizzazione delle sostanze e dei redditi di ciascun genitore quali all’epoca goduti ed evidenziati, eventualmente in via presuntiva, dalle risultanze processuali, né infine dalla correlazione con il tenore di vita di cui il figlio ha diritto di fruire, da rapportare a quello dei suoi genitori.
Cass. civ. Sez. Unite, 22 febbraio 2010, n. 4059 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di preliminare di compravendita e di pronuncia ex art. 2932 c.c. l’effetto traslativo della proprietà del bene si produce solo con l’irretroattività della sentenza che determina l’effetto sostitutivo del contratto definitivo. La sentenza di primo grado di accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c. non può pertanto produrre, prima del passaggio in giudicato, gli effetti del con¬tratto definitivo con la conseguente impossibilità di scissione, nelle sentenze ex art. 2932 c.c. in tema di contratto preliminare di compravendita, tra capi costitutivi principali e capi di condanna consequenziali, con riferimento specifico a quelli cosiddetti sinallagmatici le cui relative statuizioni fanno parte.
Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 26435 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, comma secondo, cod. proc. civ., e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ.. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimento è di per sé illegittimo, a prescindere da qualsiasi accertamento di merito circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità).
Cass. civ. Sez. I, 6 novembre 2009, n. 23630 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nella determinazione del contributo previsto dall’art. 277, secondo comma, cod. civ. per il mantenimento del figlio minore nato fuori del matrimonio, a seguito della dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il giudice, ai sensi dell’art. 155 cod. civ., appli¬cabile anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati in virtù del rinvio contenuto nell’art. 4 della legge n. 54 del 2006, deve tener conto non solo delle esigenze attuali del figlio, ma anche del tenore di vita goduto dallo stesso nel corso della convivenza con entrambi i genitori, nonché delle risorse economiche di questi, in modo da realizzare il principio generale di cui all’art. 148 cod. civ., secondo cui i genitori devono concorrere al mantenimento dei figli in proporzione delle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo.
Cass. civ. Sez. II, 6 aprile 2009, n. 8250 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza che dispone l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, ex art. 2932 c.c., produce i propri effetti solo dal momento del passaggio in giudicato; ne consegue che, quando detta sentenza abbia subordinato l’effetto traslativo al paga¬mento del residuo prezzo, l’obbligo di pagamento in capo al promissario acquirente non diventa attuale prima dell’irretrattabilità della pronuncia giudiziale, essendo tale pagamento la prestazione corrispettiva destinata ad attuare il sinallagma contrattuale.
Cass. civ. sez. III, 29 agosto 2008, n. 21924 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337, comma secondo, cod. proc. civ., e non ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ.. Ne consegue che se il giudice disponga la sospensione del processo ai sensi di tale ultima norma, il relativo provvedimento è di per sé illegittimo, a prescindere da qualsiasi accertamento di merito circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità).
Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2007, n. 26575 (Famiglia e Diritto, 2008, 6, 563 nota di RUSSO)
La sentenza di accertamento della filiazione naturale dichiara ed attribuisce uno status che conferisce al figlio naturale i diritti che competono al figlio legittimo con efficacia retroattiva, sin dal momento della nascita, con la conseguenza che dalla stessa data decorre anche l’obbligo di rimborsare pro quota l’altro genitore che abbia integralmente provveduto al mantenimento del figlio; peraltro, la condanna al rimborso di detta quota, per il periodo precedente la proposizione dell’azione, non può prescindere da un’espressa domanda della parte, attenendo tale pronunzia alla definizione dei rapporti pregressi tra debitori solidali in relazione a diritti disponibili.
Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 2007, n. 24409 (Famiglia e Diritto, 2008, 12, 1133 nota di MISEFARI)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento ai sensi dell’art. 277 c.c. e quindi implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento.
Trib. Trani, 27 settembre 2007 (Famiglia e Diritto, 2008, 6, 564 nota di RUSSO)
La domanda di risarcimento del danno esistenziale conseguente al mancato riconoscimento del figlio naturale va rigettata ove sfornita di prova, in quanto, premesso che la legge non prevede l’obbligatorietà del riconoscimento del figlio naturale, il figlio ha l’onere di provare che, benché alla soddisfazione dei suoi bisogni avesse provveduto la sola madre, quest’ultima non è riuscita a garantirgli un diverso tenore di vita, che altrimenti sarebbe stato raggiunto attraverso la regolare corresponsione dell’assegno di mantenimento da parte del padre. D’altra parte – anche in considerazione dell’elevato lasso di tempo fatto decorrere dal di¬retto interessato per la richiesta di risarcimento del danno derivante dal mancato riconoscimento e mantenimento (ventiquattro anni) – non può affatto presumersi che la prova del danno esistenziale sia “in re ipsa”, ovvero che derivi, automaticamente, dal solo mancato riconoscimento. Infatti, non può essere risarcito un danno che prescinda completamente dalla prospettazione e dimostrazione di una qualche conseguenza negativa in capo alla vittima, in quanto disancorare il risarcimento del danno dall’ac¬certamento dell’esistenza di un qualche riflesso negativo, di carattere personale e patrimoniale nella sfera del soggetto leso, significa costruire una categoria di danno “automatico”, direttamente innescato da un fatto illecito senza che vi sia dimostrazione alcuna della modificazione, “in peius”, della vita della vittima.
Cass. civ. Sez. III, 3 settembre 2007, n. 18512 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 282 c.p.c., nel conferire la provvisoria esecutorietà alla sentenza di primo grado, si riferisce alle statuizioni condannatorie della sentenza, sia che essa abbia a presupposto un’azione di condanna, sia che essa abbia a presupposto un’azione costitutiva, sicché la sentenza di primo grado può comunque venire utilizzata come titolo esecutivo.
Nel caso di pronuncia della sentenza costitutiva ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., le statuizioni di condanna consequenziali, dispo¬sitive dell’adempimento delle prestazioni a carico delle parti fra le quali la sentenza determina la conclusione del contratto, sono da ritenere immediatamente esecutive ai sensi dell’art. 282 cod. proc. civ., di modo che, qualora l’azione ai sensi dell’art. 2932 c.c. sia stata proposta dal promittente venditore, la statuizione di condanna del promissario acquirente al pagamento del prezzo è da considerare immediatamente esecutiva.
Cass. civ. Sez. III, 4 luglio 2007, n. 15111 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando la legge prevede un potere del giudice, il cui esercizio si deve concretare nell’adozione di un provvedimento avente la forma dell’ordinanza ed un determinato contenuto, l’adozione del provvedimento con quel contenuto e con l’espressa indicazione della sua pronuncia, ai sensi della norma che prevede il potere di emissione del provvedimento, comporta che, nel giudizio di impugnazione che sia previsto in ordine al provvedimento, il giudice dell’impugnazione debba scrutinare il provvedimento con-siderandolo pronunciato in forza dell’esercizio del potere previsto dalla norma indicata nel provvedimento, restando preclusa la possibilità di qualificarlo come provvedimento che avrebbe potuto o dovuto essere pronunciato ai sensi di altra norma, che pure preveda un potere di emissione di un provvedimento di analogo contenuto, ma basato su presupposti e ragioni diverse, salvo il caso in cui proprio queste ultime siano espressamente esplicitate nel provvedimento sì da indurre a far ritenere che, al di là della formale invocazione di una norma, in realtà il giudice abbia in concreto esercitato il potere previsto dall’altra (Principio enunciato dalla S.C. in sede di regolamento di competenza avverso pronuncia di sospensione del processo adottata ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., che il ricorrente pretendeva fosse considerata adottata ai sensi dell’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ.).
Trib. L’Aquila, 6 giugno 2007 (Famiglia e Diritto, 2007, 10, 950)
La dichiarazione giudiziale di paternità produce gli effetti del riconoscimento e ciò determina, a carico del genitore, tutti i do¬veri derivanti dalla procreazione legittima, incluso quello del mantenimento del figlio, gravante in solido su entrambi i genitori a decorrere dal momento della nascita; di conseguenza, in base alla disciplina dell’obbligazione solidale, il genitore che abbia sostenuto il mantenimento del figlio fino alla dichiarazione di paternità ha diritto di regresso nei confronti dell’altro.
Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006 n. 23596 (Famiglia e Diritto, 2007, 11, 1007 nota di ORTORE)
Nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per in¬tero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato da parte di entrambi i genitori. Da ciò consegue, per un verso, che il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non può sottrarsi alla obbligazione nei confronti del figlio per la quota parte posta a suo carico, ma è tenuto a provvedere, sin dal momento della nascita, e, per altro verso, che il genitore il quale ha provveduto in via esclusiva al mantenimento del figlio ha azione nei confronti dell’altro per ottenere il rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita. Tale azione non è tuttavia utilmente esercitabile se non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione naturale (atteso che soltanto per effetto della pronuncia si costituisce lo “status” di figlio naturale, sia pure con effetti retroagenti alla data della nascita), con la conseguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 cod. civ., e, quindi, a norma dell’art. 261 cod. civ., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del manteni¬mento ex art. 148 cod. civ.. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale e assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 cod. civ.), ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 cod. civ. nei rapporti fra condebitori solidali. Tuttavia, in considerazione dello stato di incertezza che precede la dichiarazione giudiziale di paternità natu¬rale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente esercitabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la conseguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328 (Famiglia e Diritto, 2006, 5, 504 nota di FIGONE)
Il diritto al rimborso delle spese sostenute, spettante a genitore naturale che ha allevato il figlio, può essere esercitato solo al momento della emissione della sentenza che accerta il vincolo di filiazione con l’altro genitore, con la conseguenza che tale mo¬mento segna il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2005, n. 15100 (Foro It., 2006, 2, 1, 476)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 cod. civ., e, quindi, a norma dell’art. 261 cod. civ., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del manteni¬mento ex art. 148 cod. civ.. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale e assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 cod. civ.), ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 cod. civ. nei rapporti fra condebitori solidali. Peraltro, la condanna al rimborso di detta quota per il periodo precedente la proposizione dell’azione non può prescindere da un’espressa domanda della parte, attenendo tale pronunzia alla definizione dei rapporti pregressi tra debitori solidali, ossia a diritti disponibili, e quindi non incidendo sull’interesse superiore del minore, che soltanto legittima l’esercizio dei poteri officiosi attribuiti al giudice dall’art. 277, comma secondo, cod. civ. La necessità di analoga domanda non ricorre riguardo ai provvedimenti da adottare in relazione al periodo successivo alla proposizione dell’azione, atteso che, durante la pendenza del giudizio, resta fermo il potere del giudice adito, in forza della norma suindicata, di adottare di ufficio i provvedimenti che stimi opportuni per il mantenimento del minore. (In applicazione di detti principi, la S.C. ha confermato la decisione di merito la quale aveva escluso, rigettando la contraria pretesa, che nell’esercizio dei poteri officiosi conferitigli dall’art. 277, comma secondo, cod. civ., il giudice potesse disporre per il periodo antecedente la proposizione del giudizio, in assenza di domanda dell’altro genitore, peraltro nella specie non proponibile non avendo la ricorrente agito in proprio, ma solo in nome e per conto del figlio minorenne).
Cass. civ. Sez. III, 26 gennaio 2005, n. 1619 (Corriere Giur., 2005, 9, 1229 nota di PETRILLO)
Non solo le sentenze di condanna ma anche quelle costitutive possono essere provvisoriamente esecutive indipendentemente da una esplicita statuizione in tal senso del giudice se contengono una condanna implicita, desumibile anche dalla sola motivazione o dalla funzione stessa che il titolo è destinato a svolgere.
Cass. civ. Sez. Unite, 27 luglio 2004 n. 14060 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché l’articolo 295 del c.p.c., la cui ragione fondante è quella di evitare il rischio di un conflitto di giudicati, fa esclusivo riferi¬mento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giudice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico e non già in senso meramente logico, la sospensione necessaria del processo non può essere disposta nell’ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due giudici diversi del giudizio sull’”an debeatur” e di quello sul quantum, fra i quali esiste un rapporto di pregiudizialità solamente in senso logico, essendo in tal caso applicabile l’articolo 337, comma 2, del c.p.c., il quale, in caso di impugnazione di una sentenza la cui autorità sia stata invocata in un separato processo, prevede soltanto la possibilità della sospensione facoltativa di tale processo, e che, a norma dell’articolo 336, comma 2, del c.p.c., la riforma o la cassazione della sentenza sull’”an debeatur” determina l’automatica caducazione della sentenza sul quantum anche se su quest’ultima si sia formato un giudicato apparente, con conseguente esclusione del conflitto di giudicati.
Cass. civ. Sez. I, 17 luglio 2004, n. 13296 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di azione di accertamento della paternità naturale e di conseguente determinazione del contributo al mantenimento del minore figlio naturale per il periodo successivo alla proposizione dell’azione stessa, ove la parte attrice, nell’atto introduttivo del giudizio, dopo aver indicato quale “petitum” un certo importo di tale contributo, abbia usato l’espressione “ovvero la minore o maggiore somma dovuta” o altra espressione equivalente, il giudice di merito che liquidi un importo maggiore di quello richiesto non viola il principio di cui all’art. 112 c.p.c., sia perchè deve ritenersi che la parte attrice, con l’uso dell’espressione predetta, non abbia posto un limite preciso all’ammontare della somma richiesta, ma si sia rimessa agli elementi probatori da acquisire nel corso del giudizio ed alla loro valutazione ad opera del giudice, sia perchè, in ordine alla condanna del padre naturale al pagamento del contributo, il giudice che ha accertato il rapporto di paternità non è vincolato alla domanda della parte, in quanto l’art. 277, comma 2, c.c. conferisce a detto giudice il potere di adottare di ufficio, in ragione dell’interesse superiore del minore, i provvedimenti che stimi opportuni per il mantenimento del minore stesso.
Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2004, n. 11351 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale, il rimborso delle spese spettanti al genitore che ha prov¬veduto al mantenimento del figlio fin dalla nascita, ancorché trovi titolo nell’obbligazione legale di mantenimento imputabile anche all’altro genitore, ha natura in senso lato indennitaria, essendo diretta ad indennizzare il genitore, che ha riconosciuto il figlio, a causa degli esborsi sostenuti da solo per il mantenimento della prole; poiché è principio generale (desumibile da varie norme, quali ad esempio gli articoli 379, secondo comma, 2054, 2047 cod. civ.) che l’equità costituisca criterio di valutazione del pregiudizio non solo in ipotesi di responsabilità extracontrattuale ma anche quando la legge si riferisca in genere ad indennizzi o indennità, il giudice di merito può utilizzare il criterio equitativo per determinare le somme dovute a titolo di rimborso.
Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento di figlio naturale, il diritto al rimborso delle spese sostenute, spettante al genitore che ha allevato il figlio nei confronti del genitore che procede al riconoscimento, non è utilmente esercibile se non dal giorno del riconoscimento stesso (soltanto il riconoscimento comportando, ex art. 261 c.c., gli effetti tipici connessi dalla legge allo status giuridico di figlio naturale), con la conseguenza che detto giorno segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2003, n. 7386 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di accertamento della filiazione naturale pone a carico del genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, compreso quello del mantenimento; tale obbligazione decorre dalla data della nascita, e non da quella della relativa domanda
Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2003, n. 2196 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza di accertamento della filiazione naturale, in quanto ha natura dichiarativa dello stato biologico di procreazione, fa sorgere a carico del genitore tutti i doveri di cui all’art. 147 c.c. propri della procreazione legittima, compreso quello di mante¬nimento che, unitamente ai doveri di educare ed istruire i figli, obbliga i genitori ex art. 148 c.c. a far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale. A tal fine, il criterio di quantificazione dell’assegno può essere adottato dal giudice di merito anche in termini complessivi ed unitari (anziché in termini di ripetibilità separata della quota delle spese straordinarie), nell’esercizio di una valutazione discrezionale insindacabile in sede di legittimità, ove logicamente e correttamente motivata.
Cass. civ. Sez. II, 12 luglio 2000, n. 9236 (Foro It., 2001, I, 159 nota di SCARSELLI)
La condanna alle spese del giudizio, contenuta nella sentenza di primo grado, può costituire titolo esecutivo a norma dell’art. 474 c.p.c., soltanto nel caso in cui sia accessoria ad una pronuncia di condanna, provvisoriamente esecutiva ai sensi dell’art. 282 c.p.c. (oppure per espressa previsione di legge), ma non quando sia conseguente alla decisione di rigetto della domanda oggetto del giudizio.
Cass. civ. Sez. I, 6 febbraio 1999, n. 1037 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’anticipazione dell’efficacia della sentenza rispetto al suo passaggio in giudicato ha riguardo soltanto al momento della esecu¬tività della pronuncia, con la conseguenza (atteso il nesso di correlazione necessaria tra condanna ed esecuzione forzata) che la disciplina dell’esecuzione provvisoria di cui all’art. 282 c.p.c. trova legittima attuazione soltanto con riferimento alle sentenze di condanna, le uniche idonee, per loro natura, a costituire titolo esecutivo, postulando il concetto stesso di esecuzione un’esi¬genza di adeguamento della realtà al decisum che, evidentemente, manca sia nelle pronunce di natura costitutiva che in quelle di accertamento (principio affermato dalla S.C. per negare che la provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado resa in sede di accoglimento di un’azione ex art. 2932 proposta dal promissario acquirente di un immobile potesse risultare ostativa all’esercizio, da parte del curatore del fallimento del promittente venditore, della facoltà di recedere dal contratto preliminare, giusta disposto dell’art. 72 l. fall.).
Cass. civ. Sez. I, 14 agosto 1998, n. 8042 (Famiglia e Diritto, 1999, 3, 271 nota di AMADIO)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli stessi effetti del riconoscimento ed implica pertanto tutti i doveri propri della procreazione legittima, compreso quello di mantenimento; tale obbligo di mantenimento, non avendo natura alimen¬tare, è a carico del genitore a seguito della dichiarazione giudiziale di paternità naturale a decorrere dalla nascita del figlio e non dal giorno della domanda giudiziale, con la conseguenza che dalla stessa data decorre anche l’obbligo di rimborsare “pro quota” l’altro genitore che abbia integralmente provveduto al mantenimento del figlio fino alla pronuncia del giudice.
Cass. civ. Sez. II, 24 marzo 1998, n. 3090 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Una sentenza costitutiva – qual è quella che dispone il trasferimento del passaggio di una servitù ad altro luogo (art. 1068 c.c.) – non è esecutiva finchè non passa in giudicato e pertanto, se la parte vittoriosa la esegue prima, è esperibile nei suoi confron¬ti l’azione di spoglio, mentre avverso la qualificazione della natura giuridica di una sentenza non è esperibile il rimedio della revocazione (art. 391 bis c.p.c., nella specie), perchè non concerne l’esistenza di un fatto, che inoltre, per configurare l’errore revocatorio, deve esser basilare per la “ratio decidendi” e il dictum.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 maggio 1996 n. 4844 (Foro It., 1997, I, 1109 nota di TRISORIO LIUZZI)
Poiché l’art. 295 c.p.c., la cui “ratio” è quella di evitare il rischio di un conflitto tra giudicati, fa esclusivo riferimento all’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giudice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico giuridico e non già in senso meramente logico, la sospensione necessaria del processo non può essere disposta nell’ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due giudici diversi del giudizio sull’”an debeatur” e di quello “sul quantum” (fra i quali esiste un rapporto di pregiudizialità solamente in senso logico); ne consegue che deve essere cassata l’ordinanza con cui il pretore ha disposto la sospensione necessaria del processo “sul quantum” in attesa della definizione del processo sull’”an debeatur”.
Fonti
Cass. civ. Sez. III, 24 maggio 1993, n. 5837 (Giust. Civ., 1994, I, 3248 r. It., 1998)
Per aversi titolo esecutivo, costituito da una sentenza di I grado contenente condanna alle spese del giudizio, è necessario che questa parte della sentenza sia accessoria ad una pronuncia di condanna, dichiarata provvisoriamente esecutiva ai sensi dell’art. 282 c.p.c. oppure esecutiva per legge.
Cass. civ. Sez. I, 26 giugno 1987, n. 5619 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce, ai sensi dell’art. 278 c. c., gli stessi effetti del riconoscimento, per cui pone a carico del genitore, fin dalla nascita del figlio, tutti i doveri inerenti al rapporto di filiazione legittima (art. 261 c. c.), compresi quelli di mantenimento, educazione e istruzione; pertanto, il genitore che ha provveduto al mantenimento del figlio, ha diritto di ripetere la quota delle relative spese nei confronti del soggetto del quale è stata accertata la paternità o la mater¬nità naturale, in applicazione analogica dell’art. 1299 c. c., che prevede il regresso tra condebitori solidali quando l’obbligazione sia stata adempiuta da uno solo di essi, alla stregua del principio che si trae dall’art. 148 (richiamato dall’art. 261 c. c. per la filiazione naturale) che, prevedendo l’azione giudiziaria contro il genitore inadempiente, postula il diritto di quello adempiente di agire in regresso nei confronti dell’altro.

Il punto di vista di Gianfranco Dosi

Presupposti dell’assegno divorzile e condizione femminile: perché la prima sezione della Cassazione non è convincente

La prima sezione della Cassazione ha deciso, ma in modo non convincente, di abbandonare per il divorzio il riferimento al pregresso tenore di vita quale parametro finalizzato all’attribuzione dell’assegno, agganciando il diritto del coniuge richiedente al parametro dell’indipendenza economica (Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504). Con una sentenza di poco successiva la stessa prima sezione ribadisce che il riferimento al pregresso tenore di vita continua a valere per l’assegno di separazione (Cass, civ. sez. I, 16 maggio 2017, n. 12196).

I. Il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento
1. L’assegno di separazione
L’art. 156 del codice civile prevede che il coniuge al quale la separazione non è addebitata ha “diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”. L’entità di questa somministrazione – avverte poi la stessa disposizione – “è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato”.
Si tratta dell’unica norma giuridica che disciplina gli effetti della separazione nei rapporti patrimoniali tra coniugi.
Sulla base di questa disposizione – risalente alle modifiche introdotte nel codice con la riforma del 1975 – sono stati definiti nel tempo i contorni di una teoria generale delle obbligazioni di mantenimento coniugale in sede di separazione che si è mantenuta fino ad oggi sostanzialmente inalterata.
Gli elementi di questa teoria generale sono soprattutto i seguenti.
Il primo e fondamentale elemento può essere considerato il fatto che la condizione giuridica dei coniugi in sede di separazione, da un punto di vista delle obbligazioni di contribuzione e sostegno economico reciproco, è sostanzialmente la stessa di quella sussistente nel corso del matrimonio, sia pure trasformata in obbligazione di somministrazione del mantenimento. La separazione, d’altro lato, non scioglie il matrimonio ma ne elimina solo i vincoli giuridici di natura personale di coabitazione, fedeltà e collaborazione. Con la conseguenza che l’obbligazione di mantenimento in sede di separazione ha sostanzialmente la stessa natura di quella che ai sensi dell’art. 143 c.c. costituisce la regole contributiva primaria del vincolo matrimoniale. L’obbligo di contribuzione, quindi, permane, trasformandosi in obbligo di somministrazione del mantenimento, sempre che si verifichino i presupposti indicati nell’art. 156 che condizionano in sede di separazione il permanere di questa obbligazione. Il divorzio, viceversa, comportando il venir meno del vincolo matrimoniale dovrebbe rendere più plausibile e quasi scontata una discontinuità tra la funzione e la natura delle obbligazioni di mantenimento reciproco matrimoniali e post matrimoniali, tanto che in materia di assegno divorzile il dibattito ha avuto modo di articolarsi nel corso dei decenni passati in contrasti e orientamenti difformi. Un dibattito altrettanto vivace, invece, non si è verificato in materia di assegno di separazione, dove è sostanzialmente visibile continuità e omogeneità tra obbligazioni contributive nel corso del matrimonio e in sede di separazione.
Questi principi compaiono spesso nella giurisprudenza. Per esempio molto esplicitamente Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2003, n. 18920 afferma che “la separazione instaura un regime il quale, a differenza del divorzio, tende a conservare il più possibile tutti gli effetti propri del matrimonio, compatibili con la cessazione della convivenza e, quindi, anche il tenore e il tipo di vita di ciascuno dei coniugi, nel senso esattamente che solo con il divorzio la situazione muta radicalmente, tanto da far residuare tra gli ex coniugi solo un vincolo di solidarietà di tipo preminentemente assistenziale” e Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2000, n. 5253 avverte che “durante la separazione personale non viene meno la solidarietà economica che lega i coniugi durante il matrimonio, la quale comporta la condivisione dei reciproci mezzi economici”. In Cass. civ. Sez. I, 22 aprile 1998, n. 4094 e Cass. civ. Sez. I, 10 marzo 1994, n. 2349 si legge che “durante la separazione personale non viene meno la solidarietà economica che lega i coniugi durante il matrimonio e che comporta la condivisione delle reciproche fortune nel corso della convivenza”. La recente sopra richiamata Cass, civ. sez. I, 16 maggio 2017, n. 12196 conferma questa impostazione.

Il secondo elemento di una teoria generale sul mantenimento coniugale in sede di separazione è costituito dal principio (di elaborazione soprattutto giurisprudenziale) che l’assegno di mantenimento di separazione non ha altre funzioni se non quella di continuare a garantire al coniuge debole dopo la separazione lo stesso tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale. Quasi, quindi, senza nessuna discontinuità. L’art. 156 c.c. esprime questo principio attribuendo al coniuge incolpevole, appunto “il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”. Si tratta di un principio, d’altra parte, del tutto comprensibile considerato che non si può pretendere che un coniuge possa essere privato da un giorno all’altro del sostegno di chi nel corso del matrimonio aveva, fino al giorno prima, garantito il suo sostentamento.

Il terzo aspetto di una teoria generale concerne la quantificazione del mantenimento. Nel nostro ordinamento giuridico non esiste alcun criterio di quantificazione; solo la vaga indicazione normativa (art. 156, secondo comma, c.c.) che “l’entità di tale somministrazione è determinata in relazione alla circostanze e ai redditi dell’obbligato”.
Alla teoria generale appartiene anche il presupposto fondamentale del diritto al mantenimento coniugale – esplicitato nell’art. 156 c.c. – costituito dalla previsione dell’esclusione del mantenimento per il coniuge al quale è addebitata la separazione. Principi generali di solidarietà coniugale hanno impedito finora di risolvere in altro modo il problema dell’addebito della separazione e paradossalmente sono però anche alla base della previsione che in ogni caso anche il coniuge colpevole ha diritto a ricevere gli alimenti se si trova in stato di bisogno. Connessa a quest’ultimo tema è l’ultima caratteristica del mantenimento coniugale di separazione costituito dalla distinzione teorica tra il diritto al mantenimento e il diritto agli alimenti, ma al tempo stesso l’attribuzione ad entrambi questi diritti della stessa natura in senso ampio alimentare (Corte cost. 21 gennaio 2000, n. 17).

2. L’assegno di divorzio
a) L’art. 5, comma 6, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 sul divorzio, nel testo modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74 prevede che “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.( )
Perciò il presupposto legale per l’attribuzione sia dell’assegno di separazione che di quello divorzile è oggi identico e consiste nel non avere mezzi/redditi adeguati (condizione che in sede di divorzio la legge considera equivalente al non poterseli procurare per ragioni oggettive).
Vi è, perciò, secondo il legislatore, una sostanziale continuità tra vita coniugale e vita post-coniugale che poggia su legami di assistenza e di solidarietà reciproca, connessi alla formazione di una famiglia e alla vita nella famiglia per un tempo che può essere limitato nel tempo ovvero anche molto lungo e che permangono anche oltre la crisi dei rapporti interpersonali.
b) Ad interpretare il significato dell’espressione “mezzi adeguati” utilizzata nell’art. 5, sesto comma, della legge sul divorzio (nel testo modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74) – in difetto di una chiara indicazione del legislatore – si era mossa la giurisprudenza subito dopo la riforma operata con tale legge.
Due orientamenti si contrapposero immediatamente in questa disputa. Cass. civ. Sez. I, 17 marzo 1989, n. 1322 (Relatore Finocchiaro) aveva ritenuto che sulla base del nuovo dato normativo l’obbligo di un coniuge, di somministrare periodicamente a favore dell’altro coniuge un assegno, in tanto sorge in quanto il coniuge preteso beneficiario sia privo di mezzi adeguati oppure non possa procurarseli per ragioni oggettive. Ritiene il Collegio che con l’aggettivo “adeguato” occorre far capo alla dottrina ed alla giurisprudenza che, nell’interpretare l’espressione equivalente mancanza di “adeguati redditi propri” usata in tema di separazione dall’art. 156 c.c. hanno ritenuto che il difetto dei redditi adeguati sussiste quando il coniuge preteso beneficiario dell’assegno non abbia redditi propri che gli consentano il mantenimento di un tenore di vita analogo a quello che aveva in costanza di matrimonio. Analoga interpretazione può seguirsi in relazione alla formula usata nel novellato somma sesto dell’art. 5 c.c. della legge sul divorzio, non essendovi argomenti per attribuire all’aggettivo “adeguati” una accezione diversa da quella riconosciutagli in sede di separazione personale.
Una interpretazione radicalmente diversa aveva invece successivamente proposto Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1990, n. 1652 (Relatore Senofonte) sostenendo che nel giudizio per l’attribuzione dell’assegno di divorzio, la valutazione relativa all’adeguatezza dei mezzi economici di cui dispone il richiedente deve essere compiuta con riferimento non al tenore di vita da lui goduto durante il matrimonio, ma ad un modello di vita economicamente autonomo e dignitoso, quale, nei casi singoli, configurato dalla coscienza sociale. È, dunque, l’autonomia economica (o il suo contrario) del richiedente che, nella filosofia della riforma, assume un ruolo decisivo, nel senso che l’altro coniuge tenuto ad “aiutarlo” solo se egli non sia economicamente indipendente e nei limiti, quindi, in cui l’aiuto si renda necessario per sopperire alla carenza dei mezzi conseguente alla dissoluzione del matrimonio. Questa conclusione – chiarisce la sentenza – aderisce, da un lato, ad una ricostruzione del sistema che non lascia spazio alla improbabile sopravvivenza di uno “status” economico connesso ad un rapporto personale definitivamente estinto (ma, se fosse vero il contrario, patrimonialmente indissolubile) e soddisfa, dall’altro, quelle esigenze solidaristiche che trovano non nel suo fittizio prolungamento, ma nella sua cessazione la propria ragione giustificatrice, liberando, ad un tempo, la condizione coniugale da connotazioni marcatamente patrimonialistiche, che, dando per acquisite e fornite di ultrattività posizioni, molte volte, di “pura rendita” (come si esprime la citata relazione parlamentare), oltre a stravolgere l’essenza del matrimonio, ne possono favorire la disgregazione, deresponsabilizzando il beneficiario, e, una volta che questa si sia verificata, assolverlo dall’obbligo di attivarsi per realizzare con le proprie risorse la sua personalità e acquisire, cosi, una dignità sociale effettiva e condivisa.
Chiamate a risolvere il contrasto le Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. Unite, 29 novembre 1990, n. 11490) lo risolsero aderendo all’interpretazione della prima decisione sopra ricordata e precisando che l’assegno periodico di divorzio – come modellato dalla riforma del 1987 – ha carattere esclusivamente assistenziale, atteso che la sua concessione trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di bisogno, e rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio.
Pertanto dal 1990 è prevalso in giurisprudenza l’orientamento che – proponendo una continuità tra assegno di separazione a assegno di divorzio – rapporta il giudizio di adeguatezza dei redditi al pregresso tenore di vita della vita coniugale.
c) Nell’ambito del sistema normativo sopra sintetizzato la giurisprudenza ha precisato nel tempo che il giudizio relativo all’accertamento richiesto dalla legge del divorzio, si articola in due fasi (due operazioni): quella del riconoscimento del diritto e quella della determinazione in concreto dell’assegno.
Nella prima fase/operazione il giudice è chiamato a verificare l’esistenza del diritto in relazione all’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente raffrontati al tenore di vita esistente in costanza di matrimonio (individuando una misura tendenzialmente capace di superare quella inadeguatezza), mentre nella seconda fase/operazione deve procedere ad una più concreta determinazione quantitativa dell’assegno, attraverso una valutazione ponderata dei vari criteri previsti (…condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi… valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio,…) che operano come fattori di moderazione della somma considerata in astratto e possono, se del caso, addirittura azzerarla in ipotesi estreme, quando, cioè, la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione (giurisprudenza consolidata a partire da Cass. civ. Sez. I, 13 maggio 1998, n. 4809).
Naturalmente questo percorso operativo che la Cassazione richiede al giudice di compiere non è così semplice come potrebbe apparire. E verosimilmente nessun giudice segue questo percorso nel modo con cui viene esplicitato. Il giudice si pone certamente il problema del raffronto tra l’assegno e il tenore di vita pregresso, ma compie in genere un’unica operazione contabile in cui tutti gli elementi si sovrappongono in una valutazione di fatto equitativa (per non dire approssimativa). Insomma la prassi è un po’ diversa e meno scientifica di quanto la Cassazione pretenderebbe. In ogni caso è certo che il riferimento attributivo dell’assegno sia, nella testa del giudice, il pregresso tenore di vita. Ed altrettanto avviene quando sono le parti con i loro avvocati a concordare un assegno.
d) La questione dell’interpretazione dell’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio è stata portata anche all’attenzione della Corte costituzionale che l’ha risolta – rifacendosi alla giurisprudenza vivente e confermando la plausibilità e la validità delle due operazioni/fasi a cui si è fatto sopra riferimento – e sostenendo, appunto, che “il parametro del tenore di vita rileva soltanto per determinare in astratto il tetto massimo della misura della prestazione assistenziale, da determinare poi in concreto, caso per caso, con gli altri criteri di diminuzione indicati nell’art. 5 della legge sul divorzio (condizione e reddito dei coniugi, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla formazione del patrimonio comune, durata del matrimonio, ragioni della decisione) sino al loro eventuale azzeramento” (Corte Cost. 11 febbraio 2015 n. 11).
Era avvenuto che nel corso di un giudizio civile di divorzio, il tribunale di Firenze aveva ritenuto rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, sesto comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, come modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, nell’interpretazione, secondo cui in presenza di una disparità economica tra coniugi, “l’assegno divorzile … deve necessariamente garantire al coniuge economicamente più debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio”. Ad avviso del giudice rimettente, questa interpretazione si porrebbe, infatti, in contrasto con la Costituzione in quanto l’assegno di divorzio, pur avendo una finalità meramente assistenziale, finirebbe con l’attribuire l’obbligo di garantire per tutta la vita un tenore di vita agiato in favore del coniuge ritenuto economicamente più debole. Ricondurre l’assegno divorzile al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, sarebbe non solo anacronistico ma anche irragionevole per la “contraddizione logica” ravvisabile “tra l’istituto del divorzio, che ha come scopo proprio quello della cessazione del matrimonio e dei suoi effetti, e la disciplina del divorzio che di fatto proietta oltre l’orizzonte matrimoniale il “tenore di vita” in costanza di matrimonio”.
La Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la questione, affermando che nella giurisprudenza vivente il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non costituisce affatto l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile. In effetti – ricorda la Corte costituzionale – la Corte di cassazione, in sede di esegesi della normativa impugnata, ha sempre ribadito il proprio “consolidato orientamento”, secondo il quale il parametro del “tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” rileva, bensì, per determinare “in astratto … il tetto massimo della misura dell’assegno” (in termini di tendenziale adeguatezza al fine del mantenimento del tenore di vita pregresso), ma, “in concreto”, quel parametro concorre, e va poi bilanciato, caso per caso, con tutti gli altri criteri indicati nello stesso denunciato art. 5.

II. Separazione, divorzio e condizione femminile
Nel 2015 (ultimo dato istat disponibile) sono stati celebrati in Italia 194.377 matrimoni (di 24.000 tra coppie miste: il 12,4%). Nel 2014 ne erano stati celebrati 189.765). Nel periodo 2008-2014 i matrimoni sono diminuiti in media al ritmo di quasi 10.000 l’anno.
Gli sposi celibi hanno in media 35 anni e le spose nubili 32.
Le seconde nozze, o successive, sono 33.579. L’incidenza sul totale dei matrimoni raggiunge il 17%.

Le separazioni sono state 91.706 (+2,7% rispetto al 2014). Le separazioni in tribunale sono state 74.000 (l’80%). Le altre sono state concordate fuori dai tribunali (5.688 – e quindi il 6,2% – ex art 6 della normativa sulla negoziazione assistita; 11.980 – e quindi il 13% – ex art. 12 davanti all’ufficiale di stato civile).
La durata media del matrimonio al momento della separazione è di circa 17 anni.
Ci si separa oggi ad una età più avanzata rispetto al passato. La classe più numerosa è quella tra i 40 e i 44 anni per le mogli (18.631 separazioni, il 20,3% del totale) mentre per i mariti è quella tra i 45 e i 49 anni (18.055 pari al 19,7%). Nel 2000, invece, il maggior numero delle separazioni ricadeva sia per i mariti sia per le mogli nella classe 35-39 anni.
In media al momento della separazione i mariti hanno 48 anni, le mogli 45 anni.
I divorzi nel 2015 sono stati 82.469 (+57% sul 2014: dato spiegabile con l’introduzione proprio nel 2015 della possibilità di chiedere il divorzio in tempi più ravvicinati alla separazione). L’età al momento del divorzio è più avanzata rispetto a quella della separazione (in media quindi dopo i 48 anni per gli uomini e dopo i 45 anni per donne).
Nel 40% delle separazioni è previsto un assegno per la moglie, solo per lei o anche per i figli (nel 10% delle separazioni per la solo moglie e nel 30% delle separazioni per la moglie e i figli). Nel 30% delle separazioni non è previsto alcun assegno per la moglie. In oltre il 30% delle separazioni è previsto un assegno (a titolo di contributo ordinario) solo per i figli, in genere versato dal padre.
Si tratta si percentuali abbastanza stabili nel tempo, che non hanno subito negli ultimi anni variazioni di rilievo.
Nel 2015 le separazioni con figli in affidamento (condiviso o meno) sono state circa il 90%% di tutte le separazioni. La quota di separazioni in cui la casa coniugale è assegnata alla moglie è di circa il 70%.
In conclusione la donna che, in prime nozze, si separa lo fa dopo un periodo medio di 17 anni e dopo un matrimonio che l’ha impegnata per un periodo di età tra i 32 e i 45 anni. Nel 40% dei casi (quindi ad un flusso stabile di oltre 41.000 donne ogni anno) le viene riconosciuto il diritto ad un assegno coniugale. E in una percentuale che va dal 70% al 90% ha anche figli che ha concorso a crescere in famiglia e che nella stragrande maggioranza dei casi rimangono con lei dopo la separazione.
Non esistono statistiche sull’entità degli eventuali redditi a disposizione delle 41.000 donne che ogni anno si separano e alle quali viene riconosciuto l’assegno di mantenimento. Può trattarsi di donne che non hanno alcun reddito o di donne che pur avendo mezzi economici li hanno di entità tale da non poter garantire il godimento del pregresso tenore di vita (pacificamente considerato in sede di separazione presupposto di attribuzione dell’assegno). Pertanto non è possibile stimare con sufficiente attendibilità il numero di donne che potrebbero vedersi confermato o meno in sede di divorzio l’assegno.
Il tasso di occupazione femminile (46%: ma 56% al nord e 30% al sud) è più basso di quello dell’uomo e sussistono differenze rilevanti di salario e stipendio tra uomini e donne. Il tasso di occupazione femminile in Europa è più alto raggiungendo mediamente il 60%. Il divario diviene molto elevato, superando i 20 punti, con la Germania e l’Olanda. Nelle coppie che si separano, le donne hanno un tasso di occupazione più alto della media; segno evidente che per la donna il reddito lavorativo influenza la scelta stessa di separarsi.
Il regime di comunione legale può in qualche modo favorire il riequilibrio economico tra coniugi nel corso del matrimonio e al momento della separazione ma il regime della separazione die beni non ha alcun meccanismo di riequilibrio a favore del coniuge più debole.

III. L’ineliminabile necessaria valorizzazione del contributo dato da entrambi i coniugi alla vita matrimoniale
Nel contesto sopra delineato della attuale condizione femminile in Italia è ineliminabile l’attribuzione all’assegno divorzile di una funzione che contenga in sé la valorizzazione del contributo dato dalla moglie alla vita matrimoniale, senza correre il rischio che tale contributo resti annullato dalla ritenuta indipendenza economica. L’indipendenza economica è un elemento che può essere preso in considerazione come elemento di moderazione ma non come presupposto attributivo dell’assegno, perché in tal modo potrebbe seriamente mortificare o vanificare il peso del contributo offerto dalla donna alla vita matrimoniale e della famiglia.
Attualmente la funzione di valorizzazione del contributo in questione è assolta dal criterio di attribuzione dell’assegno collegato al pregresso tenore di vita.
Le condizioni e il tenore di vita che due coniugi hanno avuto nel matrimonio sono strettamente dipendenti dal “contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune”.
Perciò, il riferimento al pregresso tenore di vita (cioè alle pregresse condizioni di vita della famiglia) quale presupposto per l’attribuzione dell’assegno (di separazione e di divorzio) contiene in sé oggettivamente una carica compensativa che non può essere eliminata (e che, infatti, la stessa prima sezione della Cassazione dichiara di voler confermare per la separazione). La famiglia ha potuto godere di un certo tenore di vita perché entrambi lo hanno reso possibile con il loro contributo personale, professionale o casalingo. Ed anche con il loro sacrificio personale. Le opportunità di cui la famiglia si è avvantaggiata derivano anche dalla divisione del lavoro che i coniugi hanno concordato o accettato. In tanto il lavoro professionale di un coniuge ha potuto garantire un particolare assetto economico in quanto magari il lavoro dell’altro, che si è dedicato (solo o di più) alla casa e ai figli, ha reso possibile quell’assetto.
Dopo 17 anni di matrimonio (questa è la durata media del matrimonio, come si è visto, vissuto da lei nell’arco medio di età tra i 32 e i 45 anni) – quando lui ha 48 anni e lei 45 – come si può pretendere di non considerare questo fattore l’elemento determinante da cui partire per garantire che quel contributo abbia un ragionevole riconoscimento nell’assetto post-matrimoniale? Soprattutto, come si è detto, in assenza di significativi fattori di riequilibrio connessi al regime patrimoniale sia della comunione legale che della separazione dei beni.
La circostanza che vi possano essere nel corso del matrimonio (e anche dopo) situazioni di parassitismo generate dall’approfittamento da parte di un coniuge delle fortune dell’altro è situazione che può trovare ristoro in sede di quantificazione dell’assegno (“fino ad azzerarlo” come ha sempre riconosciuto la giurisprudenza) ma non per cancellare il riferimento alle condizioni di vita nel corso del matrimonio.
Il riferimento alle pregresse condizioni di vita è, dunque, l’unico criterio capace di garantire un punto di partenza equlibrato per decidere l’assetto economico post-matrimoniale. Non ve ne possono essere altri.
E se questo criterio di riferimento vale per la separazione non può non valere anche per il divorzio. Non vi sono due momenti della crisi o due momenti diversi della condizione femminile, ma un unico momento (al quale il nostro sistema giuridico appresta la duplice sempre più ravvicinata soluzione della separazione e del divorzio.

IV. Le ragioni del dissenso rispetto all’orientamento espresso dalla prima sezione della Cassazione in materia di presupposti dell’assegno divorzio
1. La contraddizione in sé di due diversi criteri attributivi dell’assegno
L’orientamento espresso dalla prima sezione della Cassazione con le due sentenze richiamate (11504/2017 e 12196/2017) è prima di tutto contraddittorio perché fa leva su una distinzione, tipica del nostro Paese, (tra separazione e divorzio) che non può assumere alcuna ragionevole funzione distintiva (che non sia meramente formale) tra criteri di attribuzione dell’assegno di mantenimento. Separazione e divorzio sono espressioni di una medesima condizione post-matrimoniale (che in alcuni Stati sono tra loro condizioni alternative, ma che in quasi tutti confluiscono nella sola condizione divorzile). La funzione dell’assegno post-matrimoniale non può che essere la stessa. In tutti i Paesi del mondo è così.
D’altro lato la distinzione tra separazione e divorzio nel nostro ordinamento si è oggettivamente sdrammatizzata (anche se non è ancora stata superata) in seguito alla legge 55/2015 che ha ravvicinato così tanto i termini minimi di tempo previsti tra la separazione e il divorzio, da rendere la distinzione tra i due istituti quasi solo formale: sei mesi dall’udienza presidenziale di separazione se c’è stata consensuale o consensualizzazione, oppure un anno.
Ed è stata, paradossalmente, proprio la stessa Corte di Cassazione a chiarirlo, suggerendo una sorta di continuità sostanziale tra separazione e divorzio con due sentenze di legittimità (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981 e Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078) nelle quali lo stato di separazione viene praticamente omologato a quello divorzile. Si afferma in queste due sentenze che – contrariamente a quanto si era sempre prima ritenuto nell’interpretazione dell’art. 2941 n. 1 c.c. – non ha senso prevedere la sospensione della prescrizione tra coniugi successivamente alla loro separazione, posto che due coniugi separati sono di fatto in una condizione di reciproca autonomia personale simile a quella del divorzio (dal quale si è sempre fatta ricominciare a decorrere la prescrizione). Un passo, insomma, pienamente consapevole, verso una tendenziale equiparazione sostanziale tra la condizione di separazione e condizione divorzile.
In questo contesto, costruire riferimenti diversi per l’attribuzione dell’assegno di separazione e per quello divorzile è una esercitazione che finisce per essere ideologica perché sulla base del dato formale costituito dalla maggiore o minore continuità con il regime primario del matrimonio (la separazione ne sarebbe solo un indebolimento, mentre il divorzio ne romperebbe del tutto la continuità) spezza la condizione post-matrimoniale in due momenti in cui dal punto di vista della condizione femminile o non si verifica nessuna discontinuità sostanziale (e il coniuge debole rimane tale, continuando ad aver diritto all’assegno) o si creano le condizioni per un cambiamento improvviso del tutto incomprensibile in quanto nell’arco di sei mesi si potrebbe passare – sulla base di questo orientamento – dal diritto all’assegno (garantito dal riferimento al pregresso tenore di vita) al non diritto all’assegno (in ragione della ritenuta indipendenza economica dell’ex coniuge richiedente).
Si pensi al dato paradossale di due coniugi che si separano dopo vent’anni di matrimonio: se il divorzio sopraggiunge dopo sei mesi dalla separazione, la moglie potrebbe aver diritto ad un assegno (necessario per garantire il pregresso tenore di vita) solo per sei mesi!

2. La distinzione tra criteri di attribuzione e criteri di quantificazione potrebbe essere superata solo eliminando il criterio di attribuzione ma non sostituendolo con quello dell’indipendenza economica
La distinzione tra criteri di attribuzione (an) e criteri di quantificazione (quantum) dell’assegno divorzile, si fonda sul testo stesso della legge 898/70 come riformata nel 1987 (in cui diritto è attribuito al coniuge richiedente “…quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati “) in simmetria con quanto previsto in sede di separazione (in cui il diritto è garantito al medesimo ex coniuge richiedente “…qualora egli non abbia adeguati redditi propri”) ed ha rappresentato fino ad oggi la più ragionevole soluzione che i giudici abbiano oggettivamente potuto offrire al problema di come valorizzare il contributo dato dalla donna alla vita matrimoniale.
Come si è già detto, la giurisprudenza afferma per il divorzio a tale proposito, in continuità con quanto previsto in sede di separazione, che il giudice del divorzio è chiamato a verificare dapprima l’esistenza del diritto in relazione all’inadeguatezza dei mezzi raffrontati alla condizione e al tenore di vita in costanza di matrimonio individuando un importo capace di fronteggiare quella inadeguatezza, e poi a procedere alla modulazione quantitativa di quell’importo attraverso una valutazione ponderata dei vari criteri previsti che operano come fattori di moderazione dell’importo come sopra considerato, potendo ridurlo (in presenza, per esempio, di redditi significativi) o addirittura azzerarlo in ipotesi estreme (per esempio quando la separazione era stata addebitata alla moglie).
Pertanto – e salvo quanto si è già detto in merito alla scarsa scientificità di questa operazione concreta affidata al giudice – se due coniugi con un reddito di circa 8.000 euro al mese del marito professionista e i 2.000 euro al mese della moglie insegnante di scuola media, hanno potuto garantirsi per dieci anni un tenore di vita più che accettabile (reso possibile da 10.000 euro di complessivo reddito familiare) il giudice del divorzio dovrebbe ipotizzare astrattamente una misura capace di fronteggiare la inadeguatezza dei redditi della moglie a conservare l’assetto al quale ha anche lei contributo (esattamente come il giudice fa in sede di separazione) e procedere poi ad una quantificazione più precisa dell’assetto economico divorzile tenendo presenti i criteri legali previsti nell’art, 5, comma 6, della legge sul divorzio.
Si deve ricordare che originariamente il testo dell’art. 5 della legge sul divorzio prevedeva solo criteri di quantificazione dell’assegno ( ) lasciando al giudice il compito, in verità difficile, di valutare il quantum dell’assegno sulla base di criteri che, con l’aggiunta di quello della durata del matrimonio” sono poi diventati (con la riforma del 1987) i criteri di quantificazione, utilizzabili dopo la verifica del diritto all’attribuzione di un assegno.
Questi criteri sarebbero destinati a scomparire del tutto – e con essi ogni aspetto compensativo ad essi riferibile – ove con il nuovo orientamento il giudice decidesse che il coniuge è autosufficiente economicamente. Giudizio nel quale gli aspetti compensativi non sarebbero mai in ogni caso recuperabili.
Il riferimento al criterio dell’indipendenza economica quale criterio di attribuzione dell’assegno non è in grado di offrire, perciò, in sede divorzile la possibilità di recupero della dimensione compensativa dell’assegno divorzile. Se, infatti, nella prima fase di valutazione del diritto, il giudizio è quello di indipendenza economica di chi ha redditi di 2.000 euro mensili, non sarà possibile passare alla seconda fase di quantificazione. Il diritto viene negato e tutto finisce lì. Con la scomparsa di ogni possibile recupero di qualsiasi criterio di valutazione “delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio”.

3) I diritti dell’ex coniuge obbligato
Il riferimento nella sentenza 11504/2017 al diritto (evidentemente del marito gravato dall’obbligo dell’assegno) a poter ricostituire una famiglia, non pare del tutto pertinente non potendosi certamente ipotizzare che il diritto di un coniuge a ricostituire una famiglia possa realizzarsi comprimendo i diritti della famiglia precedente.
Il problema di conciliare i doveri che scaturiscono dalla solidarietà post-coniugale con quelli che derivano dalla formazione di una seconda famiglia non possono essere naturalmente ignorati, ma di per sé non richiedono necessariamente l’adozione di una prospettiva generale diversa da quella del riferimento per l’attribuzione dell’assegno divorzile al pregresso tenore di vita familiare, sebbene richiedono semplicemente l’adozione di criteri che nel caso singolo possano essere con ragionevolezza utilizzati per venire incontro a quei problemi, come è avvenuto per il tema della rilevanza della convivenza di fatto sull’assegno divorzile o come avviene per l’ex coniuge obbligato in caso di nascita di un figlio.

V. La concezione della famiglia
E’ proprio, però, sulla concezione della famiglia che l’orientamento della prima sezione della Cassazione finisce per ripercuotersi in senso negativo.
La sentenza11504/2017 considera espressamente la famiglia come una somma di persone singole. Come qualcosa che può morire e rinascere senza problemi. Come un insieme di ostacoli da superare più che un insieme di opportunità da valorizzare. Una concezione che non è accettabile.
La famiglia è, viceversa, una rete di relazioni primarie – sia che la si veda dal punto di vista dei figli che dal punto di vista dei coniugi – la cui caratteristica fondante è la solidarietà. Non è un insieme di persone singole, ma un insieme di relazioni da cui dipende l’equilibrio e il benessere presente e futuro di tutti i suoi componenti.
Devono perciò essere le relazioni al centro dell’interesse del sistema giuridico verso la famiglia. La patrimonialità fa parte di queste relazioni.
La separazione e il divorzio non annullano l’importanza delle relazioni ma ne richiedono il superamento (non la distruzione). Distruggere o ignorare le relazioni familiari è distruggere o ignorare le relazioni primarie e creare le basi per lo squilibrio psicologico e per la sofferenza anche degli individui.
Una concezione della famiglia interessata all’equilibrio e al benessere delle persone dovrebbe proporre di superare i legami familiari (coniugali e generazionali) non distruggendo o ignorando le relazioni primarie ma fondando su quelle relazioni primarie le premesse per la tutela dei diritti che conseguono alla fine dal matrimonio. Il riferimento alla vita in comune e alla relazioni primarie che si sono formate nella vita in comune dovrebbe costituire l’unico riferimento plausibile per verificare il diritto all’attribuzione dell’assegno divorzile, ferma la possibilità in sede di quantificazione di trovare soluzioni compatibili con i diritti e le responsabilità post-matrimoniali.

VI. Quali prospettive per un nuovo modello unitario?
Separazione e divorzio sono aspetti giuridici della medesima crisi della vita matrimoniale che possono e devono essere trattati con un criterio identico.
La Corte di cassazione trattando il tema dei presupposti di attribuzione, mentre con la sentenza 11504/2017 applica al divorzio il criterio dell’indipendenza economica, nella sentenza 12196/2017 conferma, invece, per la separazione il criterio del pregresso tenore di vita, anche se sembra farlo più per evitare una crisi di sistema che per convinzione e lasciando intendere – parlando di autoresponsabilità – che, se potesse, applicherebbe anche alla separazione il criterio dell’indipendenza economica.
Premesso che la soluzione non dovrebbe venire dalla Cassazione ma dal legislatore, ci si può interrogare su quale potrebbe essere una soluzione da applicare all’assegno post-matrimoniale (unitariamente inteso e senza quindi irragionevoli distinzioni tra assegno di separazione e assegno di divorzio).
Il meccanismo francese della prestation compensatorie è il sistema che più si presta ad essere preso come modello. Non c’è in questo meccanismo come presupposto per l’attribuzione dell’assegno l’inadeguatezza dei redditi di una parte (che inevitabilmente porta a chiedersi rispetto a cosa misurarla: se al pregresso tenore di vita o all’indipendenza del coniuge richiedente) ma il solo presupposto della “eventuale disparità di reddito” tra le parti. E’ la disparità di reddito che conta e null’altro. Se vi è disparità tra i redditi il giudice è chiamato ad una operazione di riequlibrio tenendo in considerazione i criteri oggi utilizzati come criteri di quantiifcazione e, soprattutto, la durata del matrimonio.
La prestation compensatorie serve a “compenser, autant qu’il est possible, la disparité que la rupture du mariage crée dans les conditions de vie respectives” ed è prevista nel codice nelle forme della corresponsione di un capitale in un’unica soluzione o trasformato in un assegno periodico per un tempo massimo di 8 anni. E’ determinata sulla base dei bisogni di chi la richiede e delle risorse dell’altro, tenuto conto della situazione al momento del divorzio di entrambi i coniugi e sulla base di criteri sostanzialmente analoghi a quelli di quantificazione previsti dalla nostra legge sul divorzio.
Il vigente art. 270 del codice civile francese prevede che “Le divorce met fin au devoir de secours entre époux” ma che “L’un des époux peut être tenu de verser à l’autre une prestation destinée à compenser, autant qu’il est possible, la disparité que la rupture du mariage crée dans les conditions de vie respectives. Cette prestation a un caractère forfaitaire. Elle prend la forme d’un capital dont le montant est fixé par le juge” sebbene lo stesso giudice la possa per motivi equitativi escludere (“…Toutefois, le juge peut refuser d’accorder une telle prestation si l’équité le commande, soit en considération des critères prévus à l’article 271, soit lorsque le divorce est prononcé aux torts exclusifs de l’époux qui demande le bénéfice de cette prestation, au regard des circonstances particulières de la rupture”).
Secondo l’art. 271 “La prestation compensatoire est fixée selon les besoins de l’époux à qui elle est versée et les ressources de l’autre en tenant compte de la situation au moment du divorce et de l’évolution de celle-ci dans un avenir prévisible” con criteri precisi identificati dalla legge che sono sostanzialmente l’età la salute, la qualificazione professionale, i sacrifici e altro ( ).
Sulla base di quanto dispone l’art. 274 “Le juge décide des modalités selon lesquelles s’exécutera la prestation compensatoire en capital parmi les formes suivantes : 1° Versement d’une somme d’argent, le prononcé du divorce pouvant être subordonné à la constitution des garanties prévues à l’article 277 ; 2° Attribution de biens en propriété ou d’un droit temporaire ou viager d’usage, d’habitation ou d’usufruit, le jugement opérant cession forcée en faveur du créancier. Toutefois, l’accord de l’époux débiteur est exigé pour l’attribution en propriété de biens qu’il a reçus par succession ou donation” ma, – come chiarisce l’art. 275 – “.Lorsque le débiteur n’est pas en mesure de verser le capital dans les conditions prévues par l’article 274, le juge fixe les modalités de paiement du capital, dans la limite de huit années, sous forme de versements périodiques indexés selon les règles applicables aux pensions alimentaires”.

ABITAZIONE

di Gianfranco Dosi

I. In che consiste, come si costituisce e come si estingue il diritto di abitazione?
II. Il diritto di abitazione è strettamente personale ma tutela anche i familiari e il convi¬vente di fatto del suo titolare
III. Le differenze tra il diritto di abitazione e il diritto di usufrutto
IV. Le differenze tra diritto d’uso e diritto di abitazione
V. Il diritto di abitare la casa familiare derivante dall’assegnazione in sede di separazione ha natura reale o personale?
VI. Il diritto di abitazione del coniuge superstite
VII. Il diritto di abitazione del convivente di fatto superstite
VIII. Il diritto di abitazione è suscettibile di autonoma espropriazione?
IX. I rapporti tra il diritto di abitazione e l’espropriazione forzata del bene su cui grava

I
In che consiste, come si costituisce e come si estingue il diritto di abitazione?
Il codice civile all’art. 1022 definisce il diritto di abitazione di un immobile come il diritto di una persona di abitarlo “limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia”. Un diritto il cui limite, però, non deve essere inteso in senso quantitativo, che imporrebbe la difficile determinazione della parte di casa necessaria a soddisfare tali bisogni, ma solo come divieto di utilizzo della casa in altro modo che non sia l’abitazione diretta del titolare e dei suoi familiari (Cass. civ. Sez. II, 27 giugno 2014, n. 14687).
La definizione non deve trarre in inganno. Non si tratta, infatti, di un diritto personale di godimento, naturalmen¬te, ma di un diritto reale limitato su cosa altrui. E quindi anche in questa situazione esistono due soggetti: da un lato il nudo proprietario e dall’altro il titolare del diritto di abitazione il quale ultimo si vede riconosciuto un diritto che limita i diritti del proprietario e che è esteso alla soddisfazione dei bisogni anche della sua famiglia. Ed è proprio questa estensione che giustifica, come si vedrà, una particolare disciplina di protezione del diritto.
Trattandosi di un diritto reale, il diritto di abitazione può essere costituito mediante testamento, usucapione o contratto, per il quale è richiesta ad substantiam la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata. Il principio è stato affermato molto chiaramente in una lontana decisione (Cass. civ. Sez. II, 21 maggio 1990, n. 4562) in una vicenda nella quale una persona era stata condannata a risarcire i danni in seguito ad una sentenza che ave¬va dichiarato abusiva l’occupazione dell’immobile in cui viveva, nonostante che l’interessato avesse esibito una lettera con cui asseriva che sarebbe stato concesso alla di lui moglie un diritto di abitazione. La Cassazione af¬fermò che la tesi era infondata per la ragione che il diritto di abitazione non può essere costituito con una lettera ma, avendo natura reale, solo mediante testamento, usucapione o contratto. In seguito il principio è stato ripreso e ribadito anche dalla giurisprudenza di merito (Trib. Bari, 23 marzo 2007). Pertanto nessuna manifestazione di benevolenza e di disponibilità, può avere come conseguenza la costituzione di un diritto reale di abitazione.
Se costituito con atto negoziale, ai sensi degli articoli 2643 n. 4 e 2644 c.c. il diritto di abitazione grava sulla pro¬prietà ed è naturalmente opponibile ai successivi acquirenti o aventi causa dal proprietario che abbiano trascritto il proprio titolo successivamente alla sua trascrizione.
Il diritto di abitazione si estingue per morte di chi lo abita e per rinuncia al diritto. Si vedrà più oltre come in base all’art. 2812 c.c. il diritto di abitazione trascritto dopo l’iscrizione di una ipoteca si estingue con l’espropriazione del bene.
II
Il diritto di abitazione è strettamente personale ma tutela anche i familiari
e il convivente di fatto del suo titolare
Non bisogna confondere il problema di cui ora si tratta, con quello, diverso, del diritto del convivente di fatto superstite a continuare ad abitare nella casa di cui era proprietario il convivente deceduto. Questo problema (risolto dal comma 42 dell’art. 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze).
Qui il problema che si discute è, invece, se i familiari e nello specifico il convivente di fatto del titolare del diritto di abitazione abbiano o meno titolo per pretendere la stessa tutela garantita al titolare del diritto, dal momento che non essendo essi titolari potrebbe essere loro per esempio chiesto il pagamento di una indennità di occupa¬zione da parte del nudo proprietario.
Secondo quanto dispone l’art. 1023 c.c. nella famiglia sono compresi non solo i familiari esistenti al momento della costituzione del diritto (coniuge e figli già esistenti) ma anche i figli nati dopo che il diritto ha avuto inizio “quantunque nel tempo in cui il diritto è sorto la persona non avesse contratto matrimonio” e comunque i figli nati anche fuori dal matrimonio o successivamente adottati. Si tratta di una norma risalente alla versione origi¬naria del codice non toccata dalla riforma del diritto di famiglia del 1975). Con l’espressione “familiari” la norma certamente non si riferiva all’epoca della compilazione del codice civile ai “conviventi di fatto” ma l’estensione è oggi obbligata. D’altro lato l’ultima parte della stessa disposizione annovera nell’”ambito della famiglia” (questa è la rubrica della norma) anche “le persone che convivono con il titolare del diritto per prestare a lui o alla sua famiglia i loro servizi”. Come potrebbe essere possibile che il diritto di abitazione offra tutela alla badante alla baby-sitter o ai domestici (cioè a chi convive per prestare determinati servizi di tipo familiare) ma non ai con¬viventi di fatto? E quindi come avviene per il coniuge, anche il partner dell’unione civile e il convivente di fatto possono essere considerati “familiari” e quindi tutelati dalla norma.
Quindi il diritto di abitazione tutela anche il coniuge del titolare, il suo partner di una unione civile e il convivente di fatto. Non però verosimilmente fino al punto da consentire a questi soggetti l’usucapione del diritto stesso (come ritenuto, invece, da Trib. Torino, 14 marzo 2002 secondo cui il diritto di abitazione sull’appartamento del convivente potrebbe essere usucapito in relazione al cogodimento con il defunto per oltre vent’anni) e questo perché quel cogodimento potrebbe dargli titolo per la nascita di un autonomo diritto di abitazione dopo la mor¬te del titolare (come oggi prevede il comma 42 della riforma sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto), ma non certo per il periodo in cui il titolare era ancora vivo dal momento che in questa situazione il convivente del titolare è solo considerato familiare del titolare (art. 1023 c.c.) e quindi non occupante abusivo, ma non come titolare di un diritto autonomo. In altre parole il nudo proprietario non potrebbe espellerlo dall’abitazione perché egli appartiene alla famiglia del titolare, e solo dal momento della morte del titolare la sua occupazione potrebbe dare luogo al decorso del termine per l’usucapione.
Come avviene per l’usufrutto (art. 979 cui rinvia l’art. 1026 c.c.) anche la durata del diritto di abitazione non può eccedere la durata della vita del suo titolare e pertanto il diritto di estingue per morte del titolare. In tal caso anche le persone che sono inglobate nell’ambito della famiglia del titolare del diritto di abitazione (cioè il coniuge o il partner dell’unione civile, i domestici, le badanti, i conviventi di fatto) perderanno il titolo giustificativo della tutela loro garantita.
Se muore, invece, il nudo proprietario, il diritto di abitazione continua nella sua esistenza gravando sugli eredi del nudo proprietario, salvo che la sua durata non sia stata limitata per testamento o per accordo tra le parti – come certamente è possibile – alla durata della vita del nudo proprietario.
III
Le differenze tra il diritto di abitazione e il diritto di usufrutto
Dalla definizione stessa del diritto di usufrutto e del diritto di abitazione si comprende bene come i due diritti siano fortemente differenziati.
L’usufruttuario ha diritto di godere della cosa potendone trarre sostanzialmente ogni utilità che sia capace e in grado di trarne (art. 981 c.c.), viceversa il titolare del diritto di abitazione può solo abitare nell’immobile per di più limitatamente ai suoi bisogni e a quelli della sua famiglia (art. 1022 c.c.). Il primo può trarre dalla cosa quindi ogni utilità economica possibile per esempio affittando l’immobile o concedendolo in locazione; il secondo può solo pretendere di abitare nell’immobile. Entrambi sono tenuti alle riparazioni ordinarie e al pagamento dei tributi (art. 1025 c.c.).
La giurisprudenza ha chiarito, a tale proposito, che i tributi sull’immobile sono considerati imposte sul patrimonio e che, pertanto, gravano sul proprietario a prescindere da chi abbia il godimento esclusivo dell’appartamento. Da ultimo Cass. civ. Sez. III, 10 febbraio 2016, n. 2675; Cass. civ. Sez. V, 13 ottobre 2011, n. 21135 hanno affermato che il coniuge separato ed assegnatario della casa coniugale non è da considerarsi soggetto passivo dei tributi sulla casa. Pertanto, come tale, non è tenuto a pagare l’imposta comunale in luogo del coniuge proprietario dell’immobile. Ciò perché l’assegnazione della casa coniugale integra un atipico “diritto di godimen¬to” e non un diritto reale. Infatti, in capo al coniuge solo assegnatario, non è ravvisabile la titolarità di un diritto di proprietà o di un diritto di godimento previsti dalla norma che regola l’imposta sulla casa e che dà obbligo al pagamento dell’imposta.
A differenza dell’usufrutto che, se non è vietato espressamente dal titolo costitutivo, può essere oggetto di ces¬sione (art. 980 c.c.), il diritto di abitazione non è cedibile né può essere dato in locazione (art.1024 c.c.).
A proposito del diritto d’uso la giurisprudenza ha però precisato che il divieto di cessione del diritto di uso (ma non di abitazione), sancito dall’art. 1024 c.c., non ha natura pubblicistica e quindi carattere di inderogabilità nei confronti del nudo proprietario, ma attiene piuttosto ai diritti patrimoniali di carattere disponibile; con la con¬seguenza che il nudo proprietario e l’usuario possono convenire di derogare al divieto, ed il relativo negozio è perfettamente valido ed operante in quanto riflette un diritto di cui i titolari possono liberamente disporre (Cass. civ. Sez. II, 27 aprile 2015, n. 8507).
L’art. 1026 c.c. dichiara applicabile al diritto di abitazione le norme sull’usufrutto in quanto compatibili.
IV
Le differenze tra diritto d’uso e diritto di abitazione
In genere il diritto di abitazione è accostato al diritto d’uso. La stessa intitolazione del capo II del titolo V lo con¬ferma (“Dell’uso e dell’abitazione”). Quali sono, quindi, le differenze?
Innanzitutto, a differenza del diritto di abitazione che può avere ad oggetto solo immobili, il diritto di uso può avere ad oggetto mobili o immobili, fruttiferi o meno che siano. “Chi ha il diritto d’uso di una cosa – prescrive l’art. 1021 c.c. – può servirsi di essa e, se è fruttifera può raccogliere i frutti per quanto occorre ai bisogni suoi e della sua famiglia. I bisogni si devono valutare secondo la condizione sociale del titolare del diritto”.
Quindi l’usuario – così viene chiamato il titolare del diritto di uso – può avvantaggiarsi dei frutti naturali. Vice¬versa né l’usuario né l’habitator possono trarre dalla cosa frutti civili vigendo per entrambi il divieto ex art. 1024 c.c. di “cedere o dare in locazione” la cosa. In altre parole sia il diritto di abitazione che il diritto di uso consen¬tono solo il godimento diretto del bene a differenza dell’usufrutto che consentono anche il godimento indiretto attraverso per esempio la locazione del bene.
L’uso è, quindi, il diritto di natura reale temporaneo – attribuito dal proprietario della cosa ad un’altra persona – di trarre dalla cosa (usandola o raccogliendone i frutti naturali) quanto necessario ai propri bisogni e a quelli della propria famiglia. Una particolare specie di usufrutto, quindi, consistente nel diritto di godimento di una cosa, mobile o immobile, limitatamente ai bisogni del titolare e della sua famiglia.
Non si tratta perciò, per definizione, di un diritto che può avere natura perpetua (Cass. civ. Sez. II, 12 ottobre 2012, n. 17491 dove si afferma che ai sensi dell’art. 1026 c.c. si applica al diritto d’uso, non essendovi ragione di incompatibilità, la disposizione relativa all’usufrutto di cui all’art. 979 secondo il quale la durata di questo non può eccedere la vita dell’usufruttuario. Anche Trib. Padova Sez. I, 8 gennaio 2015).
L’ampiezza di tale potere, se può incontrare limitazioni derivanti dalla natura e dalla destinazione economica del bene, non può soffrire condizionamenti maggiori o ulteriori derivanti dal titolo (Cass. civ. Sez. II, 31 agosto 2015, n. 17320)
Secondo Cass. civ. Sez. II, 26 febbraio 2008, n. 5034 la differenza, dal punto di vista sostanziale e con-tenutistico, tra il diritto reale d’uso e il diritto personale di godimento è proprio costituita dall’ampiezza ed illi¬mitatezza del primo, in conformità al canone della tipicità dei diritti reali, rispetto alla multiforme possibilità di atteggiarsi del secondo che, in ragione del suo carattere obbligatorio, può essere diversamente regolato dalle parti nei suoi aspetti di sostanza e di contenuto.
Il carattere poi strettamente personale del diritto di uso si traduce nella necessità che il diritto di uso sulla cosa venga esercitato effettivamente da chi ne è titolare, esigenza che la legge rafforza con il vincolo di incedibilità posto dall’art. 1024 c.c., limite peraltro che, non risultando dettato per motivi di ordine pubblico, è ritenuto libe¬ramente derogabile in sede di atto costitutivo del diritto; il limite quantitativo legato ai bisogni propri dell’usuario e della propria famiglia è invece posto dalla legge soltanto con riguardo al percepimento dei frutti. La possibilità della costituzione del diritto reale di uso in favore della persona giuridica deve essere pertanto pienamente rico¬nosciuta, non trovando essa alcun ostacolo nel carattere personale del relativo diritto, rettamente inteso.
La prestazione che costituisce il contenuto del diritto non è l’abitazione di un immobile ma l’uso di qualcos’altro: per esempio la corte circostante di un immobile (Cass. civ. Sez. II, 31 agosto 2015, n. 17320), un’area di parcheggio (Cass. civ. Sez. II, 17 dicembre 1997, n. 12736), un immobile destinato ad uso non abitativo (Cass. civ. Sez. III, 26 settembre 1995, n. 10155), una cappella all’interno di una chiesa (Cass. civ. Sez. I, 14 settembre 1991, n. 9593).
Sia il titolare del diritto di abitazione che quello del diritto di uso non possono modificare unilateralmente la de¬stinazione economica della cosa (art. 1026 in relazione all’art. 981 c.c.).
Anche il diritto di uso, come quello di abitazione, si estingue per morte del titolare del diritto (Cass. civ. Sez. II, 12 ottobre 2012, n. 17491).
V
Il diritto di abitare la casa familiare derivante dall’assegnazione in sede di separazione ha natura reale o personale?
L’art. 337-sexies c.c. – intitolato “assegnazione della casa familiare e prescrizioni in tema di residenza” – prevede che in sede di separazione “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’inte¬resse dei figli” e, più oltre, che “il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare…”. Inoltre “il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili ai terzi ai sensi dell’art. 2643”. In senso pressoché analogo si esprime l’art. 6 della legge sul divorzio.
Come si vede, quindi, nelle disposizioni in materia di assegnazione della casa familiare in separazione o divorzio sono sovrapposti aspetti collegati in senso ampio al diritto di abitazione, con espressioni, tuttavia, che da un lato richiamano i diritti personali di godimento (“il godimento della casa familiare…”) e dall’altro anche i diritti reali (trascrizione ex art. 2643 c.c.).
Come ha avuto modo di precisare e ribadire anche recentemente la giurisprudenza il diritto di abitazione della casa familiare derivante dall’assegnazione in sede di separazione o divorzio è un atipico diritto personale di godimento (e non un diritto reale), previsto nell’esclusivo interesse dei figli e non nell’interesse del coniuge affi¬datario (Cass. civ. Sez. II, 9 settembre 2016, n. 17843; Cass. civ. Sez. III, 10 febbraio 2016, n. 2675).
La differenza, dal punto di vista sostanziale e contenutistico, tra il diritto reale d’uso e il diritto personale di godimento è costituita dall’ampiezza ed illimitatezza del diritto reale, in conformità al canone della tipicità dei diritti reali, rispetto alla multiforme possibilità di atteggiarsi dei diritti personali che, in ragione del loro carattere obbligatorio, possono essere diversamente regolato dalle parti nella sostanza e nel contenuto (Cass. civ. Sez. II, 26 febbraio 2008, n. 5034).
Sulla base del principio generale che colloca l’istituto dell’assegnazione della casa familiare in sede di separazio¬ne e divorzio nell’area dei diritti personali di godimento e non dei diritti reali, si afferma, in giurisprudenza che il coniuge affidatario dei figli al quale sia assegnata la casa di abitazione di proprietà dell’altro coniuge, non è soggetto passivo dell’imposta comunale sugli immobili per la quota dell’immobile stesso sulla quale non vanti il diritto di proprietà, ovvero un qualche diritto reale di godimento, in quanto “con il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa coniugale, in sede di separazione personale o di divorzio viene riconosciuto al coniuge un atipico diritto personale di godimento e non un diritto reale, sicché in capo ad esso non è ravvisabile la titolarità di un diritto di proprietà o di uno di quei diritti reali di godimento, specificamente previsti dalla norma, costituenti l’unico elemento di identificazione del soggetto tenuto al pagamento dell’imposta sugli immobili” (Cass. civ. Sez. III, 10 febbraio 2016, n. 2675).
In senso analogo in passato si erano espressa anche Cass. civ. Sez. V, 13 ottobre 2011, n. 21135; Cass. civ. Sez. I, 11 novembre 1986, n. 6570).
Gli stessi concetti sono ripresi e confermati dalla giurisprudenza tributaria (Commiss. Trib. Prov. Emilia-Romagna Reggio Emilia Sez. I, 1 giugno 2009, n. 102 e Commiss. Trib. Prov. L’Aquila Sez. V, 26 apile 2004, n. 21 secondo cui nel caso della assegnazione di un bene immobile disposta in sede di provvedimento di separazione consensuale dei coniugi l’Ici rimane a carico del proprietario dell’immobile stesso e non già dell’asse¬gnatario, il quale è titolare di un diritto di abitazione atipico, finalizzato al godimento della casa familiare nell’in¬teresse prioritario dei figli, revocabile, diverso dal diritto di abitazione previsto dall’art. 1022 c.c.).
VI
Il diritto di abitazione del coniuge superstite
Rinviando alle osservazioni più approfondite contenute nella voce dedicata alla riserva del diritto di abitazione a favore del coniuge superstite1, si può qui ricordare che il secondo libro del codice civile – dedicato alle succes¬sioni – colloca al primo posto tra i successibili il coniuge superstite (art. 565 c.c.), inserendolo anche, sempre al primo posto, nella categoria degli eredi necessari (art. 536 c.c.).
Nel contesto proprio dei diritti successori l’art. 540, secondo comma, del codice civile riconosce al coniuge super¬stite il “diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredono”.
Si tratta di un diritto riconosciuto soltanto sulla casa familiare (Cass. civ. Sez. II, 14 marzo 2012, n. 4088; Cass. civ. Sez. II, 27 febbraio 1998, n. 2159), se di proprietà del coniuge defunto o in comproprietà con il coniuge defunto.
A tale diritto non si applicherebbero, secondo la giurisprudenza, gli art. 1021 e 1022 c.c. nella parte in cui limi¬tano il diritto in relazione al fabbisogno del titolare (Cass. civ. Sez. II, 13 marzo 1999, n. 2263). Il principio era stato affermato in passato anche dalla giurisprudenza di merito (Trib. Palermo, 13 giugno 2003 e App. Venezia, 3 febbraio 1982)
La giurisprudenza aveva affermato la natura di diritto reale del diritto di abitazione ex art. 540 c.c. (Cass. civ. Sez. III, 24 giugno 2003, n. 10014) esattamente come quello di cui tratta l’art. 1022, e non deve trarre in inganno quanto affermato da Cass. civ. Sez. II, 9 settembre 2016, n. 17843 circa la natura di atipico diritto personale di godimento del diritto di abitazione che si riferisce al diritto derivante dall’assegnazione della casa familiare.
Inoltre è stato precisato che il diritto di abitazione è devoluto automaticamente al coniuge del de cuius in base ad un meccanismo assimilabile al prelegato ex lege, sicché la concreta attribuzione di tale diritto non è subordi¬nata alla domanda del coniuge, cui il diritto medesimo deve essere riconosciuto – nell’ambito della controversia avente ad oggetto lo scioglimento della comunione ereditaria – senza necessità di espressa richiesta (Cass. civ. Sez. II, 31 luglio 2013, n. 18354).
La collocazione dell’art. 540 c.c. nel titolo dedicato ai “diritti riservati ai legittimari” e la sua stessa denomina¬zione, potrebbe far ritenere che la riserva a favore del coniuge del “diritto di abitazione” sia prevista esclusi¬vamente per il caso di successione testamentaria. Invece le Sezioni unite della Cassazione con una decisione storica (Cass. civ. Sez. Unite, 27 febbraio 2013 n. 4847) e in adesione all’interpretazione prevalente data in dottrina all’istituto in questione, hanno ritenuto di estenderne l’applicazione anche al di fuori della successione testamentaria e quindi in tutte le ipotesi in cui si apre la successione. Analogamente di recente il principio è stato ribadito da Cass. civ. Sez. VI, 16 novembre 2015, n. 23406.
Il valore del diritto di abitazione e di uso dei mobili che la corredano va determinato con una specifica stima che faccia riferimento al loro valore venale al tempo dell’apertura della successione e per l’intera prevedibile durata della vita del beneficiario.
Essendo il diritto di abitazione un diritto reale di contenuto sostanzialmente analogo a quello di usufrutto per la stima si possono utilizzare i coefficienti previsti nella tabella allegata al DPR 26 aprile 1986, n. 131 (Testo Unico delle imposte di registro) predisposta per il pagamento delle imposte proporzionali di registro, catastale e ipote¬caria nel caso di atti che concernono l’attribuzione, appunto, dell’usufrutto.
È pacifico in giurisprudenza che la riserva del diritto di abitazione non è riconosciuta in caso di convivenza more uxo¬rio (Cass. civ. Sez. II, 13 giugno 1994, n. 5731; Corte cost., 26 maggio 1989, n. 310) anche se la riforma del 2016 sulle unioni civili e le convivenze di fatto la inserisce come diritto non solo del partner dell’unione civile (com¬ma 21 dell’art. 1 della legge di riforma) ma anche come diritto temporeneo pe ril convivente di fatto (comma 42).
La riserva opera di diritto, al momento dell’apertura della successione, senza necessità di accettazione (Cass. civ. Sez. V, 29 gennaio 2008, n. 1920) sia quando il coniuge superstite è l’unico chiamato all’eredità, sia quando concorre con altri chiamati.
Pertanto il coniuge superstite non deve fare nulla. Può tranquillamente continuare nel godimento dell’immobile del quale acquista ex lege il diritto di abitazione, ancorché ne sia comproprietario e ancorché alla successione vi siano altri chiamati. L’acquisizione di un diritto reale limitato sull’intera proprietà dell’immobile si spiega per il fatto che su di esso potrebbero vantare diritti successori di natura reale altri soggetti (chiamati all’eredità o semplici legatari).
Come si è detto, la problematica connessa alla riserva a favore del coniuge del diritto di abitazione è contras¬segnata dal fatto che l’art. 540 c.c. è collocato nel titolo della successione necessaria e che nella disposizione si utilizza conseguentemente la terminologia della successione necessaria (“riserva”, “disponibile”). Ciò potrebbe indurre a ritenere che il meccanismo che si sta esaminando operi solo in presenza di un lascito testamentario, come tutte le problematiche concernenti la successione necessaria. E’ invece oggi pacifico il giurisprudenza che il meccanismo di cui si parla opera anche nell’ambito della successione senza testamento.
In dottrina prevale l’orientamento secondo cui i diritti abitazione e di uso dei mobili, pur non essendo espressa¬mente menzionati negli artt. 581 e 582 c.c. (che indicano le quote ereditarie nella successione senza testamen¬to) spettano al coniuge anche nella successione legittima, anche se gli orientamenti sono contrastanti sia circa la fonte normativa di tale diritto, sia sui criteri di calcolo del valore della quota del coniuge, se cioè il valore del diritto di abitazione si aggiunga o sia compreso nella quota dell’eredità attribuita per legge.
In presenza di orientamenti contrastanti in giurisprudenza la questione è stata decisa dalle Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. Unite, 27 febbraio 2013, n. 4847) che hanno innanzitutto riconosciuto anche nella successione legittima i diritti di abitazione ed uso riservati espressamente al coniuge superstite dal secondo comma dell’art. 540 del codice civile, “conformemente all’opinione espressa ormai unanimemente dalla dottrina” e richiaman¬dosi alla ratio che aveva ispirato il legislatore della riforma del diritto di famiglia del 1975 che era quella “di re¬alizzare anche nella materia successoria una nuova concezione della famiglia tendente ad una completa parifica¬zione dei coniugi non solo sul piano patrimoniale ma anche sotto quello etico e sentimentale” e “sul presupposto che la ricerca di un nuovo alloggio per il coniuge superstite potrebbe essere fonte di un grave danno psicologico e morale per la stabilità delle abitudini di vita della persona”. Ciò premesso, affermano i giudici, “ è evidente che tale finalità dell’istituto è valida per il coniuge supersite sia nella successione necessaria che in quella legittima, cosicché i diritti in questione trovano necessariamente applicazione anche in quest’ultima”, anche se poi il legi¬slatore ne ha disciplinato l’effettiva realizzazione per il caso di successione necessaria, con la finalità di incidere soltanto entro ristretti limiti sulle quote di riserva di altri legittimari.
Per i criteri di calcolo del valore della quota si rinvia alla voce ridedicata alla riserva del diritto di abitazione a favore del coniuge superstite.
VII
Il diritto di abitazione del convivente di fatto superstite
Come giustamente ha sottolineato una recente decisione di merito, la convivenza fuori dal matrimonio, nel caso in cui uno dei conviventi sia possessore iure proprio dell’abitazione, dà luogo, come i rapporti nella famiglia fondata sul matrimonio, ad un vero e proprio possesso giuridicamente tutelabile della casa di abitazione, sia in considerazione dei principi costituzionali di tutela della funzione sociale del bene- abitazione , sia in considera¬zione che nel rapporto di fatto con il bene (Trib. Padova Sez. I, 21 marzo 2017).
A tale proposito il comma 42 dell’art. 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), prescrive che in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. Ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni.
Il comma 43 prevede che il diritto di cui al comma 42 viene meno nel caso in cui il convivente superstite cessi di abitare stabilmente nella casa di comune residenza o in caso di matrimonio, di unione civile o di nuova con¬vivenza di fatto.
Le scadenze indicate sono automatiche e pertanto non è necessario il ricorso da alcun procedimento. Eventuali contestazioni da parte degli eredi potranno essere risolte in un normale giudizio contenzioso avente ad ogget¬to l’accertamento dell’estensione del diritto di godimento dell’immobile ovvero, ove necessario, l’occupazione senza titolo2.
La riforma del 2016 risolve, quindi, per legge le problematiche sui diritti di abitazione che la giurisprudenza non ha potuto finora risolvere.
In caso di morte del proprietario della “casa adibita a residenza comune dei conviventi” (perifrasi con cui il le¬gislatore indica quella che anche tra conviventi può essere certamente chiamata la “casa familiare”) il comma 42 introduce pertanto una sorta di riserva del diritto di abitazione per il convivente superstite, prevedendo che quest’ultimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa in questione per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni.
Nonostante le simmetrie con la riserva a favore del coniuge superstite il diritto di continuare ad abitare nella resi¬denza già comune di cui si è detto non appare riconducibile ai diritti di natura reale ma ad un diritto personale di godimento di natura atipica analogo a quello del coniuge assegnatario dell’abitazione (qualificato come diritto di natura personale: da ultimo Cass. civ. Sez. II, 9 settembre 2016, n. 17843) che limita temporalmente, senza oneri a carico del convivente superstite, il diritto di proprietà sull’immobile degli eredi del convivente deceduto.
La disposizione fa espressamente salvo “quanto previsto dall’articolo 337-sexies del codice civile” (Assegnazio¬ne della casa familiare e prescrizioni in tema di residenza) a mente del quale il giudice attribuisce il godimento della casa familiare, in caso di separazione dei genitori, tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli. La norma fa quindi riferimento all’ipotesi in cui in caso di rottura della convivenza, essendovi uno o più figli comuni, il giudice abbia già attribuito al convivente superstite un diritto di assegnazione che cesserà solo quando il figlio sarà autosufficiente e che quindi potrebbe anche superare le scadenze sopra indicate.
VIII
Il diritto di abitazione è suscettibile di autonoma espropriazione?
Il diritto di abitazione, anche acquistato mortis causa, è strettamente legato alla persona a favore della quale è costituito ed è insuscettibile di autonoma espropriazione, come si ricava dalle norme che lo dichiarano incedibile (art. 1024 codice civile: “i diritti di uso e di abitazione non si possono cedere o dare in locazione”) e non ipoteca¬bile (art. 2810 codice civile che dichiara oggetto di ipoteca, tra i diritti reali limitati, solo l’usufrutto, la superficie e l’enfiteusi). Se non è possibile iscrivere ipoteca non sono possibili neanche il sequestro e il pignoramento che per loro natura sono destinati a vincolare determinati beni per la soddisfazione di un determinato credito.
In un recente studio del (n. 21-2013/E) del Consiglio nazionale del notariato si precisa che l’opinione che nega l’espropriabilità autonoma del diritto di abitazione è uniforme e consolidata, essendo considerati inammissibili tutti i negozi giuridici o gli atti che importino un trasferimento, volontario o coattivo, del diritto. Tale inespropria¬bilità troverebbe anche fondamento nel principio di tipicità e numerus clausus dei diritti reali; principio che non tutela solo l’interesse privato dei soggetti del rapporto ma che sarebbe rivolto anche a circoscrivere le modalità attraverso le quali il diritto di proprietà può essere compresso, così da assumere una valenza di tipo pubblicistico.
La conclusione è quindi che la sottrazione alla disponibilità (vendita o locazione) da parte del suo titolare stabilita nell’art. 1024 c.c. si colloca, insieme alla non ipotecabilità del diritto (art. 2810 c.c.) in una cornice di assoluta impossibilità di circolazione autonoma del diritto reale per atto del suo titolare o dei suoi aventi causa.
Pertanto il creditore del titolare del diritto di abitazione non può sottoporre ad espropriazione forzata il diritto di abitazione spettante al proprio debitore.
Anche in sede tributaria siè ritenuto che non è ammessa l’adozione della misura cautelare dell’iscrizione ipote¬caria su diritti non suscettibili di esecuzione forzata quale il diritto di abitazione, ai sensi degli artt. 1024 e 2810 c.c..(Commiss. Trib. Prov. Puglia Bari Sez. XV, 25 giugno 2010).
IX
I rapporti tra il diritto di abitazione e l’espropriazione forzata del bene su cui grava
Come si è più volte detto l’immobile su cui grava il diritto di abitazione può essere certamente espropriato dai creditori del nudo proprietario.
In che liniti il diritto di abitazione in questi casi è opponibile ai creditori che procedono e quindi ai terzi acquirenti del bene immobile?
Nel caso di diritto di abitazione attribuito con atto negoziale, in base alle norme sulla trascrizione che espressa¬mente lo prevedono (articoli 2643 n. 4, 2644 e 2645 c.c.), è pacifica l’opponibilità ai terzi acquirenti del bene su cui il diritto è costituito che abbiano trascritto il loro titolo successivamente alla trascrizione dell’atto negoziale attributivo del diritto di abitazione.
Ugualmente il diritto di abitazione è opponibile al creditore ipotecario che abbia iscritto ipoteca successivamente alla trascrizione del negozio attributivo del diritto di abitazione (art. 2812 c.c.) ed altrettanto avviene, in base alle norme relative agli effetti del pignoramento (art. 2913, 2914, 2915 c.c.), relativamente all’opponibilità ai creditori pignoranti degli atti negoziali trascritti anteriormente al pignoramento oltre che all’opponibilità all’ac¬quirente da vendita forzata (art. 2919 c.c.); in tal caso il titolare del diritto di abitazione è terzo rispetto al pro¬cedimento esecutivo e il suo diritto non sarà pregiudicato dalla vendita forzata della proprietà.
Il diritto di abitazione è invece inopponibile al creditore ipotecario anteriore il quale può far “subastare”, cioè vendere all’asta, la proprietà del bene come libera da vincoli (art. 2812, secondo comma c.c.). In tal caso – come prevede la norma citata – il diritto di abitazione si estingue con l’espropriazione.
In sede di merito Trib. Monza, 27 dicembre 2011 ha precisato che il diritto di abitazione, gravante sull’immo¬bile in favore della coniuge superstite, per averlo adibito a residenza familiare, ai sensi dell’art. 540, 2 comma c.c., non preclude l’azione esecutiva promossa sull’immobile da terzi soggetti, creditori del comproprietario. La titolarità da parte di un terzo di un diritto reale sul bene pignorato, se opponibile, incide sul prezzo di vendita dell’immobile, determinandone la riduzione a causa del vincolo gravante sul bene, ma non impedisce la prose¬cuzione dell’azione esecutiva e la vendita del bene. L’esistenza di un diritto reale sul bene pignorato non può, invero, paralizzare l’azione esecutiva, pregiudicando il soddisfacimento di crediti da parte di soggetti che hanno legittimamente pignorato il bene di proprietà del debitore esecutato.
Se il de cuius in vita aveva disposto della proprietà con atto regolarmente trascritto – per esempio se aveva tra¬sferito il diritto anche parzialmente o aveva sottoposto ad ipoteca il bene – anche il diritto di abitazione acquisito mortis causa ex art. 540 c.c. dal coniuge superstite subirà gli effetti di quell’atto. Il coniuge superstite – fatta sempre salva l’applicazione dell’art. 540 c.c. – vedrà quindi intaccato il godimento del diritto nei limiti dell’atto dispositivo del de cuius, fino alla possibile estinzione del diritto con l’espropriazione (Cass. civ. Sez. III, 13 gennaio 2009, n. 463). Perché sì verifichi questo effetto di inopponibilità del legato ex lege rispetto all’atto an¬teriore è sufficiente che l’atto sia anteriore all’apertura della successione non essendo ritenuta in giurisprudenza necessaria la trascrizione del legato ex lege (Cass. civ. Sez. II, 30 aprile 2012, n. 6625; in senso contrario si sono espressi però Trib. Monza, 27 dicembre 2011; Trib. Bologna Sez. IV, 30 agosto 2004 che hanno ritenuto necessaria la trascrizione del legato ex lege).
Se invece è l’erede a disporre dopo l’apertura della successione del diritto di proprietà? Come è regolamentato il conflitto tra gli aventi causa dell’erede e il coniuge superstite?
Il problema è stato al centro di una vicenda giudiziaria nella quale la giurisprudenza in passato si è espressa indicando i principi e le norme applicabili.
Era avvenuto – dopo il decesso di un uomo che aveva lasciato come eredi la moglie e il figlio – che il figlio avesse concesso sull’immobile ipoteca ad una banca a garanzia di un mutuo. La banca, cioè, aveva acquistato, in segui¬to alla concessione del mutuo, il diritto di iscrivere ipoteca. Aveva acquistato tale diritto dall’erede apparente, cioè da colui che appariva titolare della piena proprietà del bene e che si era comportato come se fosse erede di un diritto di proprietà pieno. Alla fattispecie i giudici (Cass. civ. Sez. III, 24 giugno 2003, n. 10014) hanno applicato non le norme sugli effetti della trascrizione tra più aventi causa da un medesimo soggetto (per i motivi di cui tra breve si dirà) ma l’art. 534 del codice civile il cui secondo comma prevede che “sono salvi i diritti acqui¬stati per effetto di convenzione a titolo oneroso con l’erede apparente dai terzi i quali provino di aver contrattato in buona fede”. La buona fede è esclusa, in caso di beni immobili – come prevede il terzo comma della stessa disposizione – solo se l’erede (o il legatario) abbiano trascritto il proprio acquisto mortis causa (trascrizione im¬posta dal primo comma dell’art. 2648 c.c.) prima della trascrizione dell’acquisto del terzo (nell’esempio prima dell’iscrizione di ipoteca da parte della banca).
Tuttavia, sulla base dell’orientamento di cui si è detto – che considera non necessaria la trascrizione del legato ex lege, a differenza del legato testamentario (Cass. civ. Sez. II, 30 aprile 2012, n. 6625) – la buona fede del terzo deve sempre essere oggetto di prova e non potrà considerarsi esclusa per la mancanza in sé della tra¬scrizione del legato ex lege.
I giudici non hanno applicato alla fattispecie le norme generali sulla trascrizione perché, nonostante che l’erede (cioè il figlio) e il legatario (cioè il coniuge superstite) abbiano acquistato il proprio diritto sullo stesso bene dal comune dante causa, il diritto di proprietà si trasmette all’erede per effetto della legge come gravato dal diritto di abitazione, mentre l’articolo 2644 del codice civile, disciplinando gli effetti della trascrizione, lo fa con riguardo alla situazione rappresentata dal fatto che due soggetti acquistano successivamente (e non contestualmente) dallo stesso autore diritti tra loro incompatibili.
In definitiva mentre il conflitto tra atti dispositivi effettuati in vita dal de cuius e diritti del legatario ex lege (co¬niuge superstite) va risolto in base all’art. 2644 c.c. sull’anteriorità della trascrizione, viceversa il conflitto tra il coniuge superstite e l’erede (apparente: che si comporta, cioè, come se avesse un titolo pieno e non gravato dal diritto di abitazione) è regolato dall’art. 534, 2° e 3° comma, c.c. e cioè in base alla buona fede degli aventi causa dall’erede apparente; quindi accertando se l’acquisto del terzo dall’erede apparente sia stato fatto o meno in buona fede. Se vi è buona fede l’acquisto è salvo e prevale sul legato ex lege.
Giurisprudenza
Trib. Padova Sez. I, 21/03/2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convivenza more uxorio, come i rapporti della famiglia legittima, danno luogo, nel caso in cui uno dei conviventi sia posses¬sore iure proprio, ad un vero e proprio possesso giuridicamente tutelabile della casa di abitazione , e ciò sia in considerazione dei principi costituzionali di tutela della funzione sociale del bene- abitazione , sia in considerazione che nel rapporto di fatto con il bene, costituito dal possesso tutelato ex lege, il convivente non può essere discriminato rispetto ai componenti della famiglia legittima, pur se contitolari del diritto di proprietà.
Cass. civ. Sez. II, 9 settembre 2016, n. 17843 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto di abitazione della casa familiare (derivante dall’assegnazione in sede di separazione o divorzio) è un atipico diritto personale di godimento (e non un diritto reale), previsto nell’esclusivo interesse dei figli e non nell’interesse del coniuge affidatario, che viene meno con l’assegnazione della casa familiare in proprietà esclusiva al coniuge affidatario dei figli, non avendo più ragione di esistere. L’assegnazione del godimento della casa familiare, ex art. 337-sexies c.c., non può essere presa in considerazione in occasione della divisione dell’immobile in comproprietà tra i coniugi, al fine di determinare il valore di mercato dell’immobile, allorquando l’immobile venga attribuito al coniuge che sia titolare del diritto al godimento stesso.
Cass. civ. Sez. III, 10 febbraio 2016, n. 2675 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di imposta comunale sugli immobili, il coniuge affidatario dei figli al quale sia assegnata la casa di abitazione posta nell’immobile di proprietà dell’altro coniuge, non è soggetto passivo dell’imposta per la quota dell’immobile stesso sulla quale non vanti il diritto di proprietà, ovvero un qualche diritto reale di godimento, come previsto dall’art. 3, D.Lgs. n. 504 del 1992. Con il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa coniugale, in sede di separazione personale o di divorzio, invero, viene riconosciuto al coniuge un atipico diritto personale di godimento e non un diritto reale, sicché in capo ad esso non è ravvisabile la titolarità di un diritto di proprietà o di uno di quei diritti reali di godimento, specificamente previsti dalla norma, costituenti l’unico elemento di identificazione del soggetto tenuto al pagamento dell’imposta in parola sull’immobile.
Cass. civ. Sez. VI, 16 novembre 2015, n. 23406 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La permanenza, dopo il decesso di un coniuge, da parte dell’altro nella casa familiare è qualificabile “come esercizio del diritto di abitazione e di uso dei mobili che la corredano, spettante al coniuge superstite quale legatario ex lege art. 540 c.c.) in ogni caso, anche nell’ipotesi di successione legittima, e quindi a prescindere dalla sua ulteriore qualità di chiamato all’eredità.
Cass. civ. Sez. II, 31 agosto 2015, n. 17320 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il titolare del diritto reale d’uso ha diritto di servirsi della cosa e di trarne i frutti per il soddisfacimento dei bisogni propri e della propria famiglia, sì da poter ricavare dal bene, nel suo concreto esercizio, ogni utilità ricavabile. Ne consegue che l’ampiezza di tale potere, se può incontrare limitazioni derivanti dalla natura e dalla destinazione economica del bene, non può soffrire con¬dizionamenti maggiori o ulteriori derivanti dal titolo. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso l’esistenza di qualunque diritto d’uso su una corte circostante un immobile oggetto di alienazione, senza però tener conto della natura rurale del fabbricato, della specifica distinta individuazione anche dei dati catastali di tale corte, nonché della facoltà di utilizzo attribuita al bene).
Cass. civ. Sez. II, 27 aprile 2015, n. 8507 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il divieto di cessione del diritto di uso, sancito dall’art. 1024 c.c., non ha natura pubblicistica e quindi carattere di inderogabilità nei confronti del nudo proprietario, ma attiene piuttosto ai diritti patrimoniali di carattere disponibile; con la conseguenza che il nudo proprietario e l’usuario possono convenire di derogare al divieto, ed il relativo negozio è perfettamente valido ed operante in quanto riflette un diritto di cui i titolari possono liberamente disporre.
In tema di diritto d’uso, il divieto di cessione sancito dall’art. 1024 cod. civ. non è inderogabile, non avendo natura pubblicistica e attenendo a diritti patrimoniali disponibili, sicché nell’atto costitutivo del diritto il nudo proprietario e l’usuario possono derogare al vincolo d’incedibilità.
Trib. Padova Sez. I, 8 gennaio 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il termine diritto di uso esclusivo e perpetuo confligge con il diritto reale disciplinato dall’art. 1021 c.c., concretandosi, quest’ul¬timo, nel diritto del titolare di servirsi di un bene per i propri bisogni e quelli della propria famiglia.
Cass. civ. Sez. II, 27 giugno 2014, n. 14687 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di diritto di abitazione, il limite sancito dall’art. 1022 cod. civ. riguardo ai bisogni del titolare e della sua famiglia non deve essere inteso in senso quantitativo, che imporrebbe l’ardua determinazione della parte di casa necessaria a soddisfare tali bisogni, ma solo come divieto di utilizzo della casa in altro modo che per l’abitazione diretta dell’”habitator” e dei suoi familiari.
Cass. civ. Sez. II, 31 luglio 2013, n. 18354 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di successione legittima, il diritto di abitazione ed uso, ai sensi dell’art. 540, secondo comma, cod. civ. è devoluto al coniuge del de cuius in base ad un meccanismo assimilabile al prelegato ex lege, sicché la concreta attribuzione di tale diritto non è subordinata alla domanda del coniuge, cui il diritto medesimo deve essere riconosciuto – nell’ambito della controversia avente ad oggetto lo scioglimento della comunione ereditaria – senza necessità di espressa richiesta.
Cass. civ. Sez. Unite, 27 febbraio 2013, n. 4847 (Famiglia e Diritto, 2013, 11, 983, nota di GRAGNANI)
Nella successione legittima spetta al coniuge del de cuius il diritto di abitazione sulla cosa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano previsti dall’art. 540, comma secondo.
Cass. civ. Sez. II, 12 ottobre 2012, n. 17491 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di morte dell’usuario di un immobile, con conseguente estinzione del diritto d’uso dovuta alla sua intrasferibilità “mortis causa” è inapplicabile, in favore degli eredi che siano subentrati nel godimento del bene, la successione nel possesso, agli effetti dell’art. 1146 cod. civ.
Ai sensi dell’art. 1026 cod. civ., si applica al diritto d’uso, non essendovi ragione di incompatibilità, la disposizione relativa all’u¬sufrutto di cui all’art. 979 cod. civ., secondo il quale la durata di questo non può eccedere la vita dell’usufruttuario.
Cass. civ. Sez. II, 30 aprile 2012, n. 6625 (Famiglia e Diritto, 2012, 10, 869, nota di CALVO)
Il diritto di abitazione, riservato dall’art. 540, secondo comma, cod. civ. al coniuge superstite sulla casa adibita a residenza familiare, si configura come un legato ex lege, che viene acquisito immediatamente da detto coniuge, secondo la regola di cui all’art. 649, secondo comma, cod. civ., al momento dell’apertura della successione. Ne consegue che non può porsi un conflitto, da risolvere in base alle norme sugli effetti della trascrizione, tra il diritto di abitazione, che il coniuge legatario acquista diretta¬mente dall’ereditando, ed i diritti spettanti agli aventi causa dall’erede.
Il diritto di abitazione di cui all’art. 540 c.c., il quale si configura come legato ex lege, che viene immediatamente acquisito dal coniuge superstite direttamente dall’ereditando, in base alla regola dei legati di specie di cui al secondo comma dell’art. 649 c.c. al momento dell’apertura della successione, non è soggetto a trascrizione.
Cass. civ. Sez. II, 14 marzo 2012, n. 4088 (Famiglia e Diritto, 2012, 6, 619)
Il diritto di abitazione, che la legge riserva al coniuge superstite (art. 540, secondo comma, cod. civ.), può avere ad oggetto sol¬tanto l’immobile concretamente utilizzato prima della morte del “de cuius” come residenza familiare. Il suddetto diritto, pertanto, non può mai estendersi ad un ulteriore e diverso appartamento, autonomo rispetto alla sede della vita domestica, ancorché ricompreso nello stesso fabbricato, ma non utilizzato per le esigenze abitative della comunità familiare.
Trib. Monza, 27 dicembre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di successione legittima, il diritto di abitazione del coniuge superstite sussiste in aggiunta alla quota di eredità legittima spettante al coniuge. Poiché il diritto reale di abitazione è acquistato in forza di un legato stabilito dalla legge e si trasmette al coniuge superstite al momento della morte del coniuge, l’erede acquista su tale immobile un diritto di proprietà gravato dal diritto reale limitato di abitazione. I diritti di abitazione e di uso, in quanto diritti reali, devono essere soggetti a trascrizione. Se non viene trascritto, il diritto di abitazione non è opponibile ai terzi, che a qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in base ad un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione dell’atto da cui il diritto di abitazione discende. Quanto al titolo idoneo alla trascrizione, in assenza di testamento, sono idonei sia il certificato di denunciata successione che la presentazione al conservare di una nota, accompagnata dal certificato di morte in cui sia indicato lo stato di coniuge e l’operare ex lege del secondo comma dell’art. 540 del codice
Cass. civ. Sez. V, 13 ottobre 2011, n. 21135 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il coniuge affidatario dei figli al quale sia assegnata la casa di abitazione posta nell’immobile di proprietà (anche in parte) dell’al¬tro coniuge non è soggetto passivo dell’Ici per la quota dell’immobile stesso sulla quale non vanti il diritto di proprietà ovvero un qualche diritto reale di godimento.
Il coniuge affidatario dei figli al quale sia assegnata la casa di abitazione posta nell’immobile di proprietà (anche in parte) dell’al¬tro coniuge non è soggetto passivo dell’Ici per la quota dell’immobile stesso sulla quale non vanti il diritto di proprietà ovvero un qualche diritto reale di godimento.
Trib. Monza, 27 febbraio 2011
ESECUZIONE FORZATA
Esecuzione forzata, in genere
SEPARAZIONE DEI CONIUGI
Alloggio
Il diritto di abitazione, gravante sull’immobile in favore della coniuge superstite, per averlo adibito a residenza familiare, ai sensi dell’art. 540, 2 comma c.c., non preclude l’azione esecutiva promossa sull’immobile da terzi soggetti, creditori del com¬proprietario. La titolarità da parte di un terzo di un diritto reale sul bene pignorato, se opponibile, incide sul prezzo di vendita dell’immobile, determinandone la riduzione a causa del vincolo gravante sul bene, ma non impedisce la prosecuzione dell’azione esecutiva e la vendita del bene. L’esistenza di un diritto reale sul bene pignorato non può, invero, paralizzare l’azione esecuti¬va, pregiudicando il soddisfacimento di crediti da parte di soggetti che hanno legittimamente pignorato il bene di proprietà del debitore esecutato.
FONTI
Sito Il caso.it, 2012
Commiss. Trib. Prov. Puglia Bari Sez. XV, 25 giugno 2010
ESECUZIONE FORZATA
Pignoramento
(pignorabilità ed impignorabilità)
IMPOSTE E TASSE IN GENERE
Esecuzione fiscale, in genere
Non è ammessa l’adozione della misura cautelare dell’iscrizione ipotecaria su diritti non suscettibili di esecuzione forzata quale il diritto di abitazione, ai sensi degli artt. 1024 e 2810 c.c..
FONTI
Fisco on line, 2010
Commiss. Trib. Prov. Emilia-Romagna Reggio Emilia Sez. I, 1 giugno 2009, n. 102 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso della assegnazione di un bene immobile disposta in sede di provvedimento di separazione consensuale dei coniugi, ancorché erroneamente trascritta, l’Ici rimane a carico del proprietario dell’immobile stesso e non già dell’assegnatario, il quale è titolare di un diritto di abitazione atipico, finalizzato al godimento della casa familiare nell’interesse prioritario dei figli, revo¬cabile, diverso dal diritto di abitazione previsto dall’art. 1022 c.c., non trascrivibile e, pertanto, privo delle caratteristiche del diritto reale.
Cass. civ. Sez. III, 13 gennaio 2009, n. 463 (Famiglia e Diritto, 2009, 5, 525)
L’ipoteca dà diritto ai creditori ad espropriare i beni su cui è stata iscritta, anche se questi pervengono per effetto della succes¬sione a soggetto diverso dall’erede, in quanto oggetto di legato. Se i diritti parziari in questione costituiscano oggetto di legato disposto dalla legge a favore del coniuge superstite oppure vadano ricondotti nel novero dei diritti oggetto di riserva a favore dei legittimari, ciò non fa differenza rispetto al dato costituito dal fatto che l’immobile su cui i diritti in questione insistono entra a far parte dell’eredità gravato da ipoteca a favore di un creditore ereditario. Orbene, tra i presupposti perché l’acquisto dei diritti di cui si tratta si realizzi in sede di successione a favore del coniuge superstite è che l’immobile, che sia stato e si trovi ad essere destinato ad abitazione della famiglia, appartenga all’ereditando e non pure ad altri, che non sia lo stesso coniuge superstite. Se alla morte dell’ereditando sulla proprietà dell’immobile persiste un’ipoteca, siccome ciò consente al creditore ipotecario di assoggettare ad espropriazione forzata tale diritto, l’azione esecutiva già intrapresa nei suoi confronti e la successiva vendita non possono risultare impedite dai diritti attribuiti al coniuge superstite dall’art. 540, secondo comma, c.c.. Gli spetterà, invece, all’esito del processo esecutivo, in corrispondenza del valore dei diritti rimasti estinti, l’eventuale residuo.
Il creditore ipotecario può opporre il proprio titolo al coniuge del debitore che, alla morte di questi, abbia acquistato ex art. 540 cod. civ. il diritto di abitazione sulla casa familiare. Ne consegue che la procedura esecutiva già iniziata prima della morte del debitore può validamente proseguire nei confronti del coniuge di quest’ultimo, al quale spetta solo l’attribuzione del controvalore monetario del suo diritto, nel caso di eccedenza del ricavato della vendita forzata.
Cass. civ. Sez. II, 26 febbraio 2008, n. 5034 (Nuova Giur. Civ., 2008, 11, 1, 1266 nota di TESSERA)
La differenza, dal punto di vista sostanziale e contenutistico, tra il diritto reale d’uso e il diritto personale di godimento è costituita dall’ampiezza ed illimitatezza del primo, in conformità al canone della tipicità dei diritti reali, rispetto alla multiforme possibilità di atteggiarsi del secondo che, in ragione del suo carattere obbligatorio, può essere diversamente regolato dalle parti nei suoi aspetti di sostanza e di contenuto (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale – in relazione al conferimen¬to di attrezzature sciistiche e di uso di terreni nell’ambito del patrimonio di una società in fase di costituzione – aveva ritenuto che tale conferimento avesse il carattere di un diritto personale di godimento e non di un diritto reale di uso, in considerazione della stretta connessione tra l’uso dei terreni ed il mantenimento degli impianti sciistici in questione).
Il carattere personale del diritto di uso si traduce nella necessità che il diritto di uso sulla cosa venga esercitato effettivamente da chi ne è titolare, esigenza che la legge rafforza con il vincolo di incedibilità posto dall’art. 1024 c.c., limite peraltro che, non risultando dettato per motivi di ordine pubblico, è ritenuto liberamente derogabile in sede di atto costitutivo del diritto; il limite quantitativo legato ai bisogni propri dell’usuario e della propria famiglia è invece posto dalla legge soltanto con riguardo al per-cepimento dei frutti. La possibilità della costituzione del diritto reale di uso in favore della persona giuridica deve essere pertanto pienamente riconosciuta, non trovando essa alcun ostacolo nel carattere personale del relativo diritto, rettamente inteso.
Cass. civ. Sez. V, 29 gennaio 2008, n. 1920 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di imposta di registro, non sussistono le condizioni per l’applicazione dell’aliquota proporzionale nei confronti del coniuge del “de cuius” che abbia dichiarato tardivamente di rinunciare all’eredità, in relazione all’abitazione coniugale in possesso del me¬desimo e di proprietà del “de cuius”. Ed infatti in primo luogo non può ritenersi che il possesso di detto bene comporti “ope legis” l’acquisizione della qualità di erede con conseguente effetto traslativo dell’atto abdicativo sottoponibile ad imposta di registro, posto che il coniuge, con l’apertura della successione, diviene titolare del diritto reale di abitazione della casa adibita a residenza familiare, ai sensi del combinato disposto degli artt. 540 e 1022 cod. civ., e quindi non a titolo successorio-derivativo bensì a diverso titolo costitutivo, fondato sulla qualità di coniuge, che prescinde dai diritti successori. In secondo luogo quand’anche la rinunzia all’eredità fosse da ritenersi tardiva per mancato rispetto del termine di cui all’art. 485 cod. civ., la qualità di erede così assunta sarebbe improduttiva dell’effetto traslativo della proprietà, in quanto il trasferimento del bene potrebbe conseguire unicamente ad un valido atto di rinunzia con effetti traslativi, nella specie insussistente.
Trib. Bari, 23 marzo 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto reale di abitazione si costituisce per testamento, usucapione o contratto scritto a pena di nullità. Nell’ipotesi di costitu¬zione del diritto di abitazione a titolo gratuito non è necessaria la forma della donazione, ma solo l’atto scritto. (In virtù di tale principio il Tribunale ha affermato che la costituzione di un diritto di abitazione a favore di un terzo, effettuata all’interno di un atto di donazione della nuda proprietà del bene, è valida anche senza la accettazione del terzo).
Commiss. Trib. Prov. L’Aquila Sez. V, 26 aprile 2004, n. 21 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché la posizione del coniuge assegnatario, in caso di separazione personale, della casa coniugale è pacificamente riconducibile alla categoria dei diritti personali di godimento (non confondibile con il diritto reale di abitazione di cuiall’art. 1022 del codice civile), tale soggetto, ove non sia anche proprietario dell’intero immobile, non può qualificarsi come debitore per esso dell’impo¬sta comunale sugli immobili, il cui presupposto è il possesso di immobile a titolo di proprietà o di altro diritto reale di godimento (numerus clausus), con esclusione di ogni altra situazione giuridica soggettiva non connotata di realità.
Cass. civ. Sez. III, 24 giugno 2003, n. 10014 (Corriere Giur., 2004, 11, 1490, nota di NAPOLITANO)
Rispetto ad un immobile, destinato ad abitazione familiare e su cui il coniuge del defunto abbia acquistato il diritto di abitazione sulla base dell’art. 540, 2° comma, c.c., l’ipoteca iscritta dal creditore sulla piena proprietà dello stesso bene, in forza del diritto concessogli dall’erede, è opponibile al legatario alle condizioni stabilite dall’art. 534, 2° e 3° comma, c.c.; non è invece utilizzabi¬le come regola di risoluzione del conflitto quella dell’anteriorità della trascrizione dell’acquisto dell’erede rispetto alla trascrizione dell’acquisto del legatario, perché la norma sugli effetti della trascrizione, dettata dall’art. 2644 c.c. non riguarda il rapporto del legatario con l’erede e con gli aventi causa da questo: infatti, il legatario acquista il diritto di abitazione direttamente dall’e¬reditando, e perciò non si verifica né in rapporto all’acquisto dell’erede dall’ereditando né in rapporto all’acquisto del creditore ipotecario dall’erede la situazione del duplice acquisto, dal medesimo autore, di diritti tra loro confliggenti
Trib. Palermo, 13 giugno 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto di abitazione del coniuge superstite non incontra le limitazioni di cui agli artt. 1021 e 1022 c.c. per i quali tale diritto è rivolto alla soddisfazione del mero fabbisogno del titolare.
Trib. Bologna, 18 marzo 2002 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai diritti reali di abitazione della casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che l’arredano, attribuiti al coniuge super¬stite dall’art. 540, comma 2, c.c., non si applicano gli artt. 1021 e 1022 c.c. nella parte in cui limitano il diritto in relazione al fabbisogno del titolare. Tali diritti si configurano, pertanto, come diritti esclusivi e non comprimibili del coniuge superstite, con la conseguenza che, così come non potrà trovare accoglimento la domanda di riconoscimento di un diritto di coabitazione o di coutilizzazione dei beni da parte di un coerede, al contrario dovrà essere accolta la domanda di esclusione dall’uso dei beni e dal diritto di abitazione della casa già residenza familiare, di un terzo, per quanto contitolare dell’immobile per diritto ereditario.
Trib. Torino, 14 marzo 2002 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto di abitazione sull’appartamento del convivente può essere usucapito (il tribunale, nel caso di specie, ha ammesso che il convivente “more uxorio” del defunto comproprietario dell’immobile avesse usucapito, per averne avuto il cogodimento esclusivo con il defunto per oltre vent’anni, il diritto di abitazione dell’intera casa in cui aveva convissuto con il “de cuius”).
Cass. civ. Sez. II, 13 marzo 1999, n. 2263 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai diritti reali di abitazione della casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che l’arredano, attribuiti al coniuge su¬perstite dall’art. 540 comma 2 c.c. non si applicano gli art. 1021 e 1022 c.c. nella parte in cui limitano il diritto in relazione al fabbisogno del titolare.
Cass. civ. Sez. II, 27 febbraio 1998, n. 2159 (Famiglia e Diritto, 1998, 4, 390)
I diritti reali di abitazione e di uso dei mobili che l’arredano, riservati per legge, a titolo di legato, al coniuge superstite (art. 540 c.c.), hanno ad oggetto la casa coniugale, ossia quella che in concreto era adibita a residenza familiare, e non quella ove i coniugi, prima del decesso di uno di essi, avrebbero voluto fissare la residenza della famiglia (art. 144 c.c.).
Cass. civ. Sez. II, 17 dicembre 1997, n. 12736 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto all’uso dell’area pertinente ad un fabbricato per parcheggio dell’auto è di natura reale (art. 18 l. 6 agosto 1967 n. 765 e 26 l. 28 febbraio 1985 n. 47), e pertanto si prescrive dopo vent’anni dall’acquisto dell’unità immobiliare.
Cass. civ. Sez. III, 26 settembre 1995, n. 10155 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è viziato da nullità, ai sensi dell’art. 79 l. 27 luglio 1978, n. 392, il contratto con il quale il proprietario locatore di un immo¬bile urbano destinato a uso non abitativo e il conduttore convengono la costituzione temporanea a favore di quest’ultimo di un diritto reale di uso sulla cosa locata, con l’effetto di determinare la cessazione del rapporto locativo per la costituzione del diritto reale e la perdita da parte di chi era conduttore del diritto all’indennità di avviamento, che non gli compete più avendo continuato a utilizzare il bene perché titolare di un diritto reale dopo la cessazione del rapporto locativo. (Nel caso di specie il conduttore era obbligato in forza di verbale di conciliazione al rilascio dell’immobile a una data, anteriore di un giorno alla stipulazione del contratto con il quale era stata convenuta per la durata di un anno la costituzione del diritto di uso).
Cass. civ. Sez. II, 13 giugno 1994, n. 5731 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il coniuge che continua ad abitare la casa di abitazione coniugale in comune proprietà, dopo la morte dell’altro (coniuge), anche per la quota di questo, in forza del diritto di abitazione che è a lui riservato dall’art. 540 c.c., acquista il possesso solo rappre¬sentativo della quota trasferita in proprietà agli eredi del coniuge deceduto i quali, conseguentemente subentrano egualmente, ai sensi dell’art. 1146 c.c., nel possesso del bene senza necessità di materiale apprensione.
Cass. civ. Sez. I, 14 settembre 1991, n. 9593 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto d’uso, così come disciplinato dal codice civile, è un diritto reale di natura temporanea, al quale non può essere attribuito carattere di perpetuità.
Con riguardo al godimento di una cappella gentilizia all’interno di una chiesa, la perpetuità del godimento medesimo, ove debba escludersi una situazione proprietaria, ovvero una situazione di in virtù di concessione canonica, non può essere riconosciuto sulla base di titolo costitutivo di un diritto d’uso, a norma degli art. 1021 e segg. c. c., attesa la temporaneità di tale diritto.
Cass. civ. Sez. II, 21 maggio 1990, n. 4562 (Pluris, Wolters Kluwer Italia Il diritto di abitazione è un diritto reeale che può essere costituito solo mediante testamento, usucapione o contratto, per il quale è richiesta ad substantiam la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata. Pertanto nessuna manifestazione di benevolenza e di disponibilità, per esempio una lettera privata, può avere come conseguenza la costituzione di un diritto reale di abitazione.
Corte cost., 26 maggio 1989, n. 310 (Foro It., 1991, I, 446)
È inammissibile, richiedendosi un’innovazione del sistema normativo riservata al legislatore, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 540, 2° comma, c. c., nella parte in cui non prevede il convivente more uxorio tra i componenti della famiglia del defunto aventi diritto di abitazione sull’alloggio comune, in riferimento agli art. 2 e 3 costituzione
Cass. civ. Sez. I, 11 novembre 1986, n. 6570 (Nuova Giur. Civ., 1987, I, 361 nota di DI NARDO)
L’art. 155 c. c., secondo le modifiche apportate dall’art. 36, l. 19 maggio 1975, n. 151, ha accentuato e accresciuto i poteri di¬screzionali del giudice della separazione e, nel regolare con disposizione innovativa l’assegnazione della casa familiare al coniuge cui sono affidati i figli, ha posto non una regola assoluta e inderogabile, ma una norma direttiva, rimettendo al giudice stesso l’applicazione discrezionale; ne consegue che il giudice, non solo ha il potere di non effettuare quell’assegnazione, ove non ne¬cessaria o comunque, non opportuna, ma anche quello di limitarla alla parte occorrente ai bisogni delle persone conviventi della famiglia, in analogia alla definizione del diritto di abitazione di cui all’art. 1022 c. c., ancorché di diversa natura (reale) e origine (negoziale).
App. Venezia, 3 febbraio 1982 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I diritti di abitazione e di uso riservati al coniuge superstite non sono soggetti alla disciplina dei corrispondenti diritti reali di godimento nella parte in cui il contenuto di questi ultimi è commisurato ai bisogni del titolare e della sua famiglia, perché il legi¬slatore ha voluto garantire al coniuge superstite la continuità nel godimento dell’ambiente in cui si era svolta la vita familiare e tale esigenza può soddisfarsi solo con la conservazione dello stato di fatto esistente al momento dell’apertura della successione.

Dubbi a seguito della recente sentenza della S.C. sull’assegno di divorzio

A cura del Prof. Avv. Claudio Cecchella, Università di Pisa – Presidente dell’Osservatorio Nazionale sul diritto di famiglia.

Il revirement della Suprema Corte sul tenore di vita matrimoniale ai fini della determinazione dell’assegno divorzile.
La sentenza n. 11504 del 2017 della Corte di Cassazione, 1^ sezione civile, Presidente Di Palma e relatore Lamorgese, pur avendo nella risonanza mediatica il sapore della fine di un’epoca e dell’inizio di una nuova, costituisce per gli specialisti della materia un esito ampiamente previsto e prevedibile, che pone l’Italia (finalmente) in linea con gli identici indirizzi di altri ordinamenti, in particolare europei.
Nel nostro ordinamento, infatti, il vincolo matrimoniale aveva modo di permanere nel tempo, anche dopo lo scioglimento – determinato, non si dimentichi, da un atto unilaterale di uno dei coniugi che chiede prima la separazione e poi lo scioglimento del vincolo – attraverso un assegno divorzile che conservava in capo ad uno dei coniugi un “odioso” obbligo, che impediva la ricostituzione di una vita autonoma sul piano affettivo ed economico.
E’ ben noto l’effetto di depauperamento del coniuge obbligato all’assegno divorzile, discendente dall’obbligo di versamento di un assegno commisurato al tenore di vita preesistente durante il matrimonio, depauperamento destinato ad incidere sui principi di libertà ed autonomia nella riscostruzione di un nuovo nucleo familiare.
A seguito della pronuncia del giudice di legittimità del 10 maggio 2017 n. 11504 il “tenore di vita matrimoniale” non è più parametro per la determinazione dell’ ”an” e del “quantum,” essendo attribuito l’assegno esclusivamente per ragioni “assistenziali” dell’ex coniuge, privo di indipendenza o autosufficienza economica. Non si dimentichi che, per altro orientamento consolidato dello stesso giudice di legittimità, il coniuge richiedente dovrà dimostrare di avere ragioni obiettive che impediscono il reperimento di fonti indipendenti di reddito per lavoro od altro.
L’evoluzione degli orientamenti in materia poteva già immaginarsi alla luce della sentenza n. 11 dell’11 febbraio 2015 della Corte costituzionale, la quale aveva dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge sul divorzio in materia di riconoscimento dell’assegno divorzile, in violazione degli artt. 2, 3 e 29 Cost. Già la Corte, pur dichiarando infondata la questione, aveva ammonito il giudice di legittimità sul non essere il tenore di vita goduto durante il matrimonio l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile, evidentemente lasciando spazio ad un’interpretazione diversa della norma.
Già la Corte di Cassazione con la sentenza 3 aprile 2015 n. 6855 aveva iniziato l’opera di ridimensionamento della norma sull’assegno divorzile negando a chi avesse costituito, dopo lo scioglimento del matrimonio, una convivenza, ancorché questa convivenza fosse cessata, di poter pretendere il versamento dell’assegno divorzile. Afferma il Giudice Supremo che l’instaurazione della convivenza interrompe definitivamente il cordone ombelicale con il matrimonio precedente assumendo l’avente diritto in tal modo il rischio in relazione alle vicende successive della famiglia di fatto instaurata, circa la possibilità di una cessazione del rapporto tra conviventi, della definitiva perdita dell’assegno divorzile. Perduto l’assegno per la convivenza, l’assegno non poteva più resuscitare per l’interruzione della stessa convivenza.
Oggi, con la pronuncia in commento, la Suprema Corte compie un passo più lungo eliminando definitivamente il parametro del “tenore di vita” e indirizzando il giudice del merito verso una valutazione, ai fini dell’ “an debeatur” della mancanza di mezzi adeguati o dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, potendo all’esito di tale giudizio, ai fini del quantum, valutarsi gli ulteriori parametri costituiti dalle ragioni della decisione, dal contributo personale ed economico dato da ciascuno, dal reddito di entrambi, valutandoli alla luce della durata del matrimonio sulla base di pertinenti allegazioni, deduzioni e prove ai sensi dell’art. 2697 c.c., esaltando, anche nella materia, e correttamente, i principi di un processo dispositivo.
Anche quest’ultimo aspetto deve evidenziare il segno di un’evoluzione ove, al di fuori dei diritti economici e personali del figlio, che restano ancorati alle caratteristiche di diritto indisponibile (seppure con le attenuazioni dovute alla disciplina della negoziazione assistita), il tema del contributo al mantenimento o dell’assegno divorzile a favore del coniuge acquista quei connotati di piena disponibilità che rendono ragione di un processo civile governato dal principio di disponibilità, cui seguirà un onere particolare per i difensori delle parti che chiedono il riconoscimento di un assegno di mantenimento.

MANTENIMENTO DEI FIGLI MINORENNI

di Gianfranco Dosi
I. L’obbligo dei genitori di mantenere i figli (art. 30 Cost.)
II. Il diritto dei figli di essere mantenuti (art. 315-bis c.c.)
III. Il mantenimento dei figli nel corso della vita familiare (art. 316-bis c.c.)
a) L’art. 316-bis e il suo rapporto con l’art. 337-bis e seguenti del codice civile
b) Lo speciale procedimento monitorio
c) La responsabilità sussidiaria indiretta degli ascendenti
IV. Il mantenimento dei figli minori in caso di separazione dei genitori (art. 337-bis e
seguenti c.c.)
a) Gli accordi tra i genitori sul mantenimento
b) Il trasferimento di diritti reali in favore dei figli
c) Il provvedimento del giudice sul mantenimento dei figli e i criteri previsti
d) I poteri del giudice: l’istruttoria e le indagini tributarie
e) Le diverse regole processuali per i figli nati nel matrimonio e per i figli nati fuori dal
matrimonio in caso di scissione della coppia genitoriale
f) L’intervento obbligatorio del pubblico ministero
g) L’adeguamento automatico degli importi di mantenimento
h) L’estensione ai figli maggiorenni
i) Il trattamento fiscale dell’assegno di mantenimento per i figli
V. Le spese straordinarie
a) La qualificazione delle spese straordinarie
b) L’obbligatorietà della partecipazione di entrambi i genitori alle spese straordinarie
c) Il problema del previo consenso tra i genitori: il nuovo orientamento della giurisprudenza
d) Giudice competente e questioni processuali nelle controversie sul mancato rimborso
delle spese straordinarie
VI. Le nuove garanzie del diritto al mantenimento dei figli: l’art. 3, comma 2, della legge
10 dicembre 2012, n. 219
a) Le garanzie reali e personali e il sequestro
b) L’iscrizione di ipoteca
c) L’immediata esecutività della decisione
VII. L’ordine al terzo di versamento dell’assegno in caso di inadempimento da parte dell’obbligato
VIII. I contrasti tra genitori sul mantenimento dei figli
IX. La revisione delle obbligazioni di mantenimento
X. La prescrizione
XI. Le conseguenze penali e civili dell’inadempimento
a) La sanzione penale
b) I riflessi dell’inadempimento sulla responsabilità genitoriale
c) Il risarcimento dei danni
°°° °°° °°°
I
L’obbligo dei genitori di mantenere i figli (art. 30 Cost.)
L’affermazione costituzionale che “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio” (art. 30 Cost.) a prima vista potrebbe apparire una chiarissima indicazione. In verità è stata al centro negli ultimi anni di una discussione anche in giurisprudenza in ordine al problema se il dovere di mantenere i figli inizi dalla nascita del figlio o dall’acquisizione dello status.
Secondo l’insegnamento tradizionale il confine di inizio dovrebbe coincidere con l’acquisizione dello status (con la denuncia di nascita se il figlio è nato da genitori coniugati o con il riconoscimento se è nato fuori del matrimonio).
Pertanto non si è mai dubitato del fatto che i genitori sono investiti della potestà/responsabilità con la formazione del titolo di stato della filiazione.
Tuttavia da alcuni anni la giurisprudenza che si è occupata della filiazione fuori dal matrimonio ha voluto richiamare, appunto, l’art. 30 della Costituzione per farne conseguire l’affermazione del principio che la responsabilità genitoriale è collegata non all’acquisizione dello status ma alla procreazione. I doveri cui fa riferimento l’art. 30 della Costituzione non sarebbero cioè condizionati al riconoscimento del figlio ma deriverebbero dalla nascita in sé.
In passato Corte cost. 13 maggio 1998, n. 166 aveva avuto modo di richiamare la solennità del dovere di
mantenere i figli affermando che “Il primo obbligo enunciato dall’art. 147 c.c. consiste in quello di mantenimento della prole: è questo un dovere inderogabile, che nella sua concreta attuazione è commisurato in proporzione alle rispettive sostanze dei genitori e alle capacità di lavoro di ciascuno”. Ne è conseguita nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione che la sentenza di accertamento della filiazione naturale, in quanto ha natura dichiarativa dello stato biologico di procreazione, fa sorgere a carico del genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, compreso quello di mantenimento.
Il figlio riconosciuto tardivamente (spontaneamente o in sede giudiziale) ha perciò diritto al mantenimento con decorrenza dalla nascita. Naturalmente il mantenimento si suddividerà tra entrambi i genitori, essendo entrambi tenuti al dovere di mantenere il figlio.
È stato anche più volte affermato che la sentenza di accertamento della paternità o maternità naturale ha natura dichiarativa nel senso che la sentenza accerta uno status che attribuisce al figlio naturale tutti i diritti con efficacia retroattiva, sin dal momento della nascita. L’esercizio dei diritti connessi a tale status non può peraltro prescindere dall’accertamento giudiziale o dal riconoscimento effettuato dal genitore. In quanto attributiva di uno status e dei diritti ad esso connessi, la sentenza va pertanto qualificata come costitutiva, nel senso che senza di essa lo status di figlio naturale non sorge e non vi può essere rivendicazione utile dei diritti che a tale status si accompagnano, ancorché per effetto della pronuncia il godimento di tali diritti retroagisca alla data della nascita.
Si parla in giurisprudenza a tale proposito di “natura costitutiva della sentenza dichiarativa della filiazione”
(Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596).
La sentenza che accerta e dichiara la filiazione ha quindi natura costituiva anche se i suoi effetti retroagiscono al momento della nascita, garantendo così al figlio minore una copertura completa del suo diritto al mantenimento dalla nascita in poi. Sulla decorrenza dalla nascita dell’obbligazione di mantenimento in seguito alla sentenza che accerta la filiazione, la giurisprudenza è copiosa e assolutamente consolidata. In molte decisioni espressamente il dovere di mantenimento viene collegato all’avvenuto accertamento della paternità, e si precisa che i doveri genitoriali sorgono con decorrenza dalla nascita ma in seguito al riconoscimento ancorché tardivo oppure in seguito alla sentenza. Il principio può essere considerato ormai del tutto pacifico come anche di recente ribadito da Cass. civ. Sez. VI – 1, 14 luglio 2016, n. 14417 secondo cui la sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento da cui conseguono tutti i doveri propri della procreazione legittima tra i quali l’obbligo di mantenimento.
Ciò premesso, solo negli ultimi anni la giurisprudenza si è interrogata sul problema se l’obbligazione di mantenimento prescinda o meno dall’avvenuto, sia pure tardivo riconoscimento, e sorga, invece, per il fatto in sé della procreazione. A questo interrogativo, dopo qualche presa di posizione iniziale più sfocata o contraria, viene data oggi una risposta sostanzialmente positiva e la più recente giurisprudenza ha così affermato il principio della anticipazione della responsabilità genitoriale al momento della procreazione indipendentemente dal riconoscimento.
Ed anzi, la violazione dell’obbligo di mantenimento è stata ritenuta fonte di risarcimento del danno alla cui base vi sarebbe il fatto illecito costituito dalla violazione del dovere di mantenimento.
In Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328 si legge per esempio che “l’obbligo di mantenere i figli sussiste
per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori.
Più articolata si presenta Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596 dove si legge: “Nell’ipotesi in cui
al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato da parte di entrambi i genitori… La legge pone a carico dei genitori l’obbligo di mantenere i figli per il solo fatto di averli generati …Da ciò consegue che il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non può sottrarsi alla sua obbligazione nei confronti del figlio per la quota posta a suo carico, ma è tenuto a provvedere, sin dal momento della nascita”.
Da queste affermazioni tuttavia non sembra ancora potersi indurre che l’obbligo di mantenimento esiste a prescindere dall’accertamento della paternità.
Soltanto nel 2012 una sentenza affrontava per la prima volta espressamente il tema del risarcimento del danno (Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652). Un uomo si era rifiutato di riconoscere il figlio nonostante numerose richieste dell’altro genitore. All’esito della causa di accertamento giudiziale della paternità azionata dal figlio quarantenne, il Tribunale di Catania dichiarava la paternità e condannava l’uomo al risarcimento dei danni cagionati al figlio dal mancato tempestivo riconoscimento. La Corte d’Appello confermava la decisione. Il figlio e il padre ricorrevano entrambi per Cassazione sostenendo il figlio che il risarcimento era stato del tutto inadeguato e chiedendo, invece, il padre l’annullamento della sentenza perché erroneamente aveva accolto la domanda di risarcimento. Il ricorso del padre viene rigettato con questa motivazione: “Viene in primo luogo in considerazione la tesi secondo cui il riconoscimento della paternità, o, come sembra di capire, quanto meno la proposizione della relativa domanda, costituiscano il presupposto della responsabilità aquiliana scaturente dalla violazione dei doveri inerenti al rapporto di filiazione. Tale assunto è all’evidenza infondato, in quanto contrastante con il principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo cui l’obbligo del genitore naturale di concorrere nel mantenimento del figlio insorge con la nascita dello stesso, ancorché la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza (Cass., 20 dicembre 2011, n. 27653; Cass., 3 novembre 2006. n. 23596), atteso che la sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento e quindi, ai sensi dell’art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ricollegandosi tale obbligazione allo status genitoriale e assumendo, di conseguenza, efficacia retroattiva”.
Conclude la decisione nel senso che “la sussistenza di tale obbligo, raccordata alla consapevolezza del concepimento, come sopra evidenziata, esclude la fondatezza della tesi secondo cui la responsabilità del D. dovrebbe escludersi in assenza di specifiche richieste provenienti dalla S. o dal figlio… L’obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori (Cass., 2 febbraio 2006, n. 2328). Deve ribadirsi come la violazione di obblighi cui corrispondono, nel destinatario, diritti primari della persona, costituzionalmente garantiti, comporta la sussistenza di un illecito civile certamente riconducibile nelle previsioni dell’art. 2043 c.c. e seguenti”.
Quindi Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652 sostiene che l’illecito fonte di obbligazione risarcitoria è la
violazione del dovere di mantenimento.
Una successiva decisione ha riaffermato lo stesso principio all’interno di una ricostruzione ancora più assertiva.
Si tratta di Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205 secondo la quale “l’obbligo dei genitori di educare
e mantenere i figli è eziologicamente connesso esclusivamente alla procreazione, prescindendo dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così determinandosi un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore. Il presupposto di tale responsabilità e del conseguente diritto del figlio al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali è costituito dalla consapevolezza del concepimento, che non si identifica con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, ma si compone di una serie di indizi univoci, quali, nella specie, la indiscussa consumazione di rapporti sessuali non protetti all’epoca del concepimento”.
Quindi, secondo queste decisioni, l’obbligo dei genitori di educare e mantenere i figli è connesso esclusivamente alla procreazione, prescindendo dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così determinandosi un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore.
In conclusione, secondo quanto emerge dalla giurisprudenza più recente, non riconoscere un figlio fuori dal matrimonio consapevolmente procreato costituirebbe illecito fonte di risarcimento, con la conseguenza che l’inizio della responsabilità genitoriale dovrebbe considerarsi anticipata alla procreazione consapevole.
L’art. 30 della Costituzione viene quindi interpretato nel senso che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio” ancorché non li abbiamo riconosciuti ed a condizione che abbiano consapevolezza di averli procreati.
II
Il diritto dei figli di essere mantenuti (art. 315-bis c.c.)
Il principio che il figlio ha diritto di essere educato, istruito e mantenuto è sempre stato un principio fondante del diritto di famiglia ed aveva originariamente la sua disciplina legale nel codice civile riformato nel 1975 (originari articoli 147 e 148) e nelle norme sulla separazione (originario art. 155 c.c.) e sul divorzio (art. 6 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificata dalla legge 6 marzo 1987, n. 74).
La legge 8 febbraio 2006, n. 54 sull’affidamento condiviso dei figli, che riformulò tutti i principi sull’affidamento e sul mantenimento dei figli, ne unificò con l’art. 4 la regolamentazione, prescrivendo che “Le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”.
L’estensione della disciplina ai figli nati fuori dal matrimonio determinò nel 2006 il passaggio di tutte le competenze giudiziarie in questo ambito al tribunale ordinario (che per quanto attiene al mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio l’aveva comunque sempre avuta).
La riforma sulla filiazione operata con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 e con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 ha cancellato ogni ulteriore differenziazione tra filiazione all’interno del matrimonio e filiazione fuori dal matrimonio mettendo in atto una operazione di razionalizzazione che si è tradotta nella unificazione normativa della disciplina normativa sia con riguardo alla famiglia unita, sia in seguito alla scissione della coppia genitoriale.
Questa operazione di razionalizzazione è stata realizzata intorno alla piattaforma fondamentale costituita dai diritti e doveri del figlio (art. 315-bis 2) e dalla responsabilità genitoriale (art. 316 3).
Ed è proprio l’art. 315-bis che afferma, in apertura della nuova sistematica (ribadendo sostanzialmente il contenuto del previgente art. 147 c.c.), che “Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni”.
Il mantenimento si conferma, quindi, innanzitutto come un diritto del figlio,
2 Art. 315-bis. (Diritti e doveri del figlio)
Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni.
Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti.
Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.
Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa.
3 Art. 316. (Responsabilità genitoriale)
Entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale che è esercitata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio. I genitori di comune accordo stabiliscono la residenza abituale del minore.
In caso di contrasto su questioni di particolare importanza ciascuno dei genitori può ricorrere senza formalità al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più idonei.
Il giudice, sentiti i genitori e disposto l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare. Se il contrasto permane il giudice attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene il più idoneo a curare l’interesse del figlio.
Il genitore che ha riconosciuto il figlio esercita la responsabilità genitoriale su di lui. Se il riconoscimento del figlio, nato fuori del matrimonio, è fatto dai genitori, l’esercizio della responsabilità genitoriale spetta ad entrambi.
Il genitore che non esercita la responsabilità genitoriale vigila sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio.
MANTENIMENTO DEI FIGLI MINORI
III
Il mantenimento dei figli nel corso della vita familiare (art. 316-bis c.c.)
a) L’art. 316-bis e il suo rapporto con l’art. 337-bis e seguenti del codice civile
La collocazione sistematica dell’art. 316-bis c.c.4 (previgente art. 148 c.c.) pone alcuni problemi che richiedono di essere affrontati e risolti.
La norma indica principi generali tra cui, in primo luogo, quello secondo cui “I genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo”.
Questo principio è espresso come regola primaria per il rapporto genitori-figli sia che tale rapporto si svolga
nell’ambito della famiglia unita, sia in caso di scissione della coppia genitoriale in cui la disciplina del mantenimento dei figli è poi specificamente regolata dagli accordi dei genitori (raggiunti in sede giudiziaria o in sede di negoziazione) o dai provvedimenti del giudice (art. 337-bis ss c.c.). Per famiglia unita va intesa anche la famiglia composta dal figlio nato fuori dal matrimonio e dal solo genitore che lo abbia riconosciuto o con cui il figlio convive.
Se in linea generale il principio che si è richiamato previsto nel primo comma dell’art. 316-bis funziona come principio generale anche in sede di separazione dei genitori (art. 337-bis ss c.c.), occorre però precisare che non è così per tutto il contenuto della norma.
Infatti certamente la speciale procedura monitoria prevista nel secondo e nel terzo comma della disposizione, così come il procedimento ordinario a cui si allude nell’ultimo comma, non possono considerarsi procedure utilizzabili allorché il mantenimento sia stato disciplinato dagli accordi o dai provvedimenti giudiziari in seguito alla scissione della coppia genitoriale. In altre parole, una volta intervenuta una regolamentazione in materia di scissione della coppia genitoriale (art. 337 ss c.c.) saranno applicabili solo le regole della separazione (per esempio le procedure di revisione degli accordi o dei provvedimenti) ma non certamente le procedure monitorie previste nell’art. 316-bis o il procedimento ordinario a cui si allude nell’ultimo comma della norma. Ciò significa che i procedimenti sull’esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero i procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio si pongono come procedure eccezionali rispetto alla procedura monitoria prevista nell’art. 316-bis di cui in questi casi non è possibile fare applicazione e che non è, quindi, possibile sovrapporre alle procedure previste all’art. 337-bis e seguenti.
Ma questa conclusione vale anche se la coppia genitoriale si separa senza accedere alle procedure legali (giudiziarie o di negoziazione)? Nel caso di una coppia separata di fatto sarà possibile l’attivazione della speciale procedura monitoria? La risposta dovrebbe in linea teorica essere positiva dal momento che le procedure legali di separazione non possono essere considerate obbligatorie o imposte a chi non desidera.
Ugualmente la speciale procedura monitoria potrebbe essere utilizzata se il figlio nato fuori dal matrimonio convive con un solo genitore, finché non intervenga una regolamentazione dell’affidamento e del mantenimento. Il genitore può quindi scegliere di promuovere una procedura ex art. 316-bis ovvero, a sua scelta, la procedura di affidamento (art. 337-bis e seguenti). Ma una volta scelta la seconda strada non potrà in seguito utilizzare la procedura monitoria o il procedimento ordinario.
L’art. 316-bis, inoltre, prevede un altro principio generale e cioè quello in base al quale “Quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli”. Trova applicazione questi principio anche nel caso in cui siano state attivate le procedure di cui all’art. 337-bis e seguenti? La risposta è certamente positiva dal momento che nell’ambito delle norme sulla separazione non è indicata alcuna diversa soluzione.
Pertanto, in conclusione, ferma in ogni caso l’applicazione dei principi espressi nel primo comma (proporzionalità tra i genitori nel mantenimento e responsabilità sussidiaria degli ascendenti), l’attivazione delle procedure di cui all’art. 337-bis e seguenti del codice civile esclude l’applicazione delle restanti parti dell’art. 316-bis (speciale procedura monitoria e revisione del mantenimento con procedimento ordinario).
Infine va aggiunto che il procedimento di cui all’art. 316-bis c.c. ha una portata più ampia delle procedure di
4 Art. 316-bis. (Concorso nel mantenimento)
I genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo. Quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli.
In caso di inadempimento il presidente del tribunale, su istanza di chiunque vi ha interesse, sentito l’inadempiente ed assunte informazioni, può ordinare con decreto che una quota dei redditi dell’obbligato, in proporzione agli stessi, sia versata direttamente all’altro genitore o a chi sopporta le spese per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione della prole.
Il decreto, notificato agli interessati ed al terzo debitore, costituisce titolo esecutivo, ma le parti ed il terzo debitore possono proporre opposizione nel termine di venti giorni dalla notifica.
L’opposizione è regolata dalle norme relative all’opposizione al decreto di ingiunzione, in quanto applicabili.
Le parti ed il terzo debitore possono sempre chiedere, con le forme del processo ordinario, la modificazione e la revoca del provvedimento di separazione perché può essere utilizzato da chiunque vi ha interesse (per esempio un parente con cui il minore convive) oppure dallo stesso figlio maggiorenne.
b) Lo speciale procedimento monitorio
Il procedimento di cui all’articolo 316-bis c.c. (già articolo 148) prevede che “su istanza di chiunque vi ha interesse” il presidente del tribunale, sentite le parti inadempienti e il figlio, e assunte informazioni, possa determinare le modalità e il quantum del mantenimento.
Interessato ad azionare questo speciale procedimento – che è alternativo al procedimento ordinario e non ne esclude, quindi, l’applicazione – potrebbe essere uno dei genitori (come avviene nella prassi) o un parente che ospita il figlio minore, ma anche lo stesso figlio maggiorenne (non il pubblico ministero che non ha potere di azione in questa materia, ma solo un dovere di intervento se il figlio è minore).
Il presidente del tribunale può emettere un decreto che indichi l’importo del mantenimento a carico dei genitori (come nella prassi per lo più avviene) ovvero può porre l’obbligo a carico di terze persone. Il terzo può essere il datore di lavoro (terzo debitore in senso stretto) del genitore inadempiente ovvero anche gli stessi ascendenti – allorché entrambi i genitori non abbiano mezzi sufficienti – i quali dovranno corrispondere l’importo previsto ai genitori stessi per rendere possibile l’adempimento dell’obbligazione di mantenimento.
Il decreto emesso dal presidente del tribunale costituisce, dopo la notifica agli interessati, titolo esecutivo affinché il genitore che sopporta le spese di mantenimento del figlio possa pretendere il mantenimento dall’altro genitore o dalla terza persona (ascendente con esecuzione diretta o datore di lavoro con esecuzione presso terzi).
La parte obbligata e il terzo debitore possono fare opposizione entro venti giorni dalla notifica del provvedimento, dando inizio ad un giudizio ordinario di competenza del tribunale in composizione monocratica. È espressamente previsto, poi, che per ottenere la revoca o una modifica del provvedimento adottato con il procedimento di cui si è detto, si possa fare ricorso anche alle forme del processo ordinario.
È pacifico che l’opposizione è regolata dalle norme relative all’opposizione al decreto di ingiunzione con la sola differenza, rispetto alla procedura monitoria, che il termine per proporre opposizione non è di 40 giorni ma di 20 giorni. Tale normativa ha introdotto uno speciale rimedio avverso il provvedimento presidenziale in punto mantenimento, che esclude pertanto l’applicabilità degli artt. 669-bis e ss. (Trib. Perugia Sez. I, 23 luglio 2014)
Avverso il decreto del Presidente del Tribunale reso agli effetti degli articoli 315-bis e 316-bis del codice civile è inammissibile il reclamo alla Corte d’Appello ai sensi degli articoli 739 e 742-bis del codice di procedura civile (App. Bologna Sez. I, 20 febbraio 2015). Il decreto presidenziale emesso a causa dell’inadempimento, da parte del genitore, dei propri doveri verso il figlio, ed in particolare di quello attinente al suo mantenimento, è impugnabile esclusivamente con opposizione – secondo quanto previsto dal chiaro dettato dell’articolo 316 bis del codice civile – avanti il Tribunale, nel termine di venti giorni dalla notificazione del provvedimento, operando – a tal fine – le forme proprie dell’opposizione a decreto ingiuntivo. La tipicità del potere d’impugnazione riconosciuto, all’egida dell’indirizzo giurisprudenziale formatosi con riguardo all’articolo 148 del codice civile, ed il carattere esclusivo che connota la formula normativa che quel potere prevede, conducono ad affermare l’unicità del mezzo d’impugnazione esperibile avverso il provvedimento presidenziale – individuandolo nell’opposizione al decreto – e stabiliscono l’insussistenza di alternative applicative operanti a favore delle parti, e in particolare l’estraneità della norma al riconoscimento di una facoltà di proposizione ed esercizio di diversi mezzi d’impugnazione
che rientri nella disponibilità delle parti stesse.
Come sopra detto, naturalmente, gli interessati – figlio maggiorenne compreso – sono sempre liberi di adottare le forme del processo ordinario se intendono chiedere il mantenimento (anche chiedendo un provvedimento di urgenza) senza avvalersi dello speciale procedimento monitorio. E’ lo stesso art. 316-bis che non esclude l’applicazione del rito ordinario. Nel corso del procedimento potrebbero anche essere chiamati in causa gli ascendenti.
ll decreto di cui all’art. 316-bis costituisce titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (Corte cost., 14 giugno
2002, n. 236).
c) La responsabilità sussidiaria indiretta degli ascendenti
Come si è detto l’articolo 316-bis dà disposizioni sul modo con cui i genitori devono adempiere in generale il loro dovere di mantenimento e riproduce il previgente articolo 148 del codice. Dopo aver premesso che i genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo, il primo comma dell’articolo 316-bis precisa che “quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli”.
Non avere mezzi sufficienti significa non poter ottemperare all’obbligo di mantenimento. S’intende che ove l’inottemperanza dei genitori non sia collegata alla mancanza di mezzi sufficienti saranno utilizzabili nei confronti dei genitori gli ordinari strumenti di garanzia per l’adempimento e gli ordinari mezzi di tutela esecutiva diretta.
Parte della giurisprudenza di merito riconosce, tuttavia, ammissibile l’azione verso gli ascendenti anche in caso di omissione volontaria del mantenimento da parte dei genitori.
La legge prevede, quindi, in caso di impossibilità da parte dei genitori una obbligazione a carico dei nonni (e più specificamente degli ascendenti, in ordine di prossimità: quindi i nonni e poi i bisnonni, se esistenti e così via).
MANTENIMENTO DEI FIGLI MINORI
L’obbligazione non è, però, quella di mantenere i nipoti, ma di “fornire ai genitori” i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri verso i figli. L’obbligo ha quindi due caratteristiche: è sussidiario, e quindi emergente solo allorché i genitori non abbiano mezzi sufficienti; ed è indiretto, cioè si sostanzia non nel mantenimento dei nipoti ma nell’assicurare ai genitori i mezzi affinché essi possano adempiere al mantenimento verso i figli. Il diritto dei nipoti ha le medesime caratteristiche: può essere azionato solo in via sussidiaria e non può consistere nella pretesa di essere mantenuti in via diretta dagli ascendenti.
Considerato che le disposizioni del codice civile in materia di alimenti prevedono che gli ascendenti sono tenuti in modo diretto all’obbligazione alimentare – sia pure in via sussidiaria rispetto all’obbligazione dei genitori (articolo 433 codice civile) – si può dire che la legge 219/2012 ha perso un’occasione per riformulare in modo diretto l’obbligazione di mantenimento dei nonni verso i nipoti. Nulla avrebbe impedito, infatti, di prevedere la natura diretta dell’obbligazione che costituisce la modalità più ragionevole della prestazione di mantenimento, in quanto attribuisce ai nipoti direttamente un vero e proprio diritto nei confronti degli ascendenti, come avviene in materia alimentare. Le differenze giuridiche tra la natura dell’obbligazione di mantenimento (somministrazione dei mezzi necessari a garantire le esigenze materiali, educative e di socializzazione) e quella meno ampia dell’obbligazione alimentare (diretta a supplire allo stato di bisogno dell’interessato) è molto sfumata, soprattutto per quanto riguarda il mantenimento dei minori e mette in evidenza differenze pressoché solo di tipo definitorio. Ben avrebbe potuto quindi essere superata da una parificazione degli strumenti di tutela.
L’obbligazione sussidiaria indiretta riguarda, per espressa indicazione normativa, gli ascendenti e non quindi i parenti in linea collaterale come gli zii (Cass. civ. Sez. I, 24 novembre 2015, n. 23978)
Quello della natura indiretta dell’obbligo sussidiario di mantenimento verso i nipoti dei nonni (tenuti a prestare i mezzi ai genitori e non a corrispondere direttamente il mantenimento ai nipoti) non è però l’unica contraddizione esistente. Ve n’è un’altra di cui è colpevole, stavolta, non la legge ma la giurisprudenza che ha sempre interpretato la disposizione in questione (il previgente articolo 148 codice civile) nel senso di considerare ammissibile l’azionabilità del diritto al mantenimento verso gli ascendenti solo allorché entrambi i genitori non abbiano mezzi sufficienti per adempiere l’obbligo di mantenimento (Cass. civ. Sez. I, 30 settembre 2010, n. 20509; Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 1995, n. 3402)5. È pur vero che la norma sembra avvalorare questa interpretazione in quanto si esprime al plurale (“I genitori devono adempiere… quando i genitori non hanno mezzi sufficienti….”)
ma finisce per penalizzare irragionevolmente il genitore adempiente – che deve farsi carico da solo del mantenimento del figlio – sottraendo responsabilità al ramo genitoriale e parentale del genitore inadempiente.
Nel settore degli alimenti l’articolo 433 del codice civile non appare interpretabile nello stesso senso con cui la giurisprudenza interpreta la disposizione sul mantenimento.
IV
Il mantenimento dei figli minori in caso di separazione dei genitori (art. 337-bis e seguenti c.c.)
Le norme sull’esercizio della responsabilità genitoriale (e quindi anche l’obbligazione di mantenimento) a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio, sono oggi contenute nel codice civile dall’art. 337-bis all’art. 337-octies inseriti dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154.
Naturalmente è la formulazione attuale delle norme che la riforma della filiazione del 2013 ha riprodotto nel codice civile (unificandone l’applicazione, per i figli nati nel matrimonio e per quelli nati fuori dal matrimonio, all’interno di un medesimo capo del titolo IX) e non certo il contenuto che era già presente da tempo nel codice civile nei suoi principi sostanziali alcuni dei quali testualmente via via riprodotti nelle successive riforme della materia.
Come già detto le norme sul mantenimento in caso di scissione della coppia genitoriale erano originariamente contenute nell’art. 155 del codice civile riformato nel 1975 (per la separazione) e nell’art. 6 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74 (per il divorzio). Il testo dell’art. 155 c.c. venne successivamente modificato dalla riforma del 2006 sull’affidamento condiviso dei figli (legge 8 febbraio 2006, n. 54) e, infine, sostanzialmente riprodotto nelle disposizioni attuali in seguito alla riforma del 2013 sulla filiazione.
Anche i provvedimenti che concernono i figli nati fuori dal matrimonio godono naturalmente dell’esenzione fiscale riconosciuta ai provvedimenti in sede di separazione e divorzio (Corte cost., 11 giugno 2003, n. 202).
Alle obbligazioni di mantenimento fanno riferimento soprattutto gli ultimi tre commi dell’art. 337-ter nei quali si precisa che “Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando:
1) le attuali esigenze del figlio.
2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori.
3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore.
4) le risorse economiche di entrambi i genitori.
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.MANTENIMENTO DEI FIGLI MINORI
L’assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice.
Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi”.
Anche l’assegnazione della casa familiare (art. 337-sexies), essendo disposta nell’esclusivo interesse dei figli e non in funzione sostitutiva o integrativa dell’obbligazione di mantenimento coniugale, può in senso ampio includersi nell’obbligazione di mantenimento verso i figli.
L’affermazione che “…ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità…” ha dato luogo sin dall’indomani dell’entrata in vigore della norma – che risale, come detto, alla riforma dell’affidamento condiviso del 2006 – ad un dibattito molto intenso che vedeva e vede tuttora contrapposti due orientamenti. Da un lato alcuni ritengono che la formulazione della norma preveda il mantenimento diretto dei figli (e cioè non per il tramite di un assegno periodico) da parte di ciascun genitore in modo proporzionale al proprio reddito e che solo in caso di necessità il giudice debba intervenire indicando la misura di un assegno periodico. La giurisprudenza, invece – forzando oggettivamente il senso della disposizione – ha fin da subito interpretato la norma attribuendo al giudice senz’altro il compito di indicare un assegno, presumendo che questa modalità sia ragionevolmente l’unica che possa essere seguita nel caso di genitori che separano le loro vite.
L’intervento del giudice quindi è finalizzato a realizzare il principio di proporzionalità in difetto di accordi diversi tra i genitori.
Secondo Cass. civ. Sez. VI, 18 settembre 2013, n. 21273 in merito ai criteri per la determinazione dell’assegno di mantenimento in favore dei figli minori, sussiste l’obbligo di entrambi i genitori che svolgono attività lavorativa, produttiva di reddito, di contribuire al soddisfacimento dei bisogni dei minori, in ragione delle proprie disponibilità economiche. Il Giudice, quindi, può disporre la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare tale principio di proporzionalità e, nel determinare l’importo dell’assegno, deve valutare le “attuali esigenze del figlio”, ovvero i bisogni, le abitudini, le legittime aspirazioni che non possono non essere condizionate dal livello economico sociale dei genitori.
A seguito della separazione i figli hanno, in sostanza, diritto ad un mantenimento tale da garantire un tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della famiglia ed analogo per quanto possibile a quello goduto in precedenza, continuando a trovare applicazione l’art. 147 cod. civ. che, imponendo il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, obbliga i genitori a far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario e sociale, all’assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione, fin quando l’età dei figli stessi lo richieda, di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione.
Significativa nella giurisprudenza di merito è Trib. Novara, 21 luglio 2011 dove si legge che in tema di obbligo di mantenimento del minore, e posto che la realizzazione del principio di proporzionalità costituisce la finalità primaria dell’assegno di mantenimento, va precisato che la determinazione dell’ammontare di tale assegno deve tenere in considerazione le attuali esigenze del figlio, il tenore di vita voluto da questi in costanza di convivenza con entrambi i genitori, i tempi di permanenza presso ciascun genitore, le risorse economiche di entrambi i genitori e la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascuno. Una valutazione sinottica di detti criteri conduce a ritenere che, per realizzare le finalità perequative cui è destinato l’istituto dell’assegno di mantenimento, si debba procedere, innanzitutto, all’accertamento delle complessive disponibilità economiche del nucleo familiare; tale accertamento, da condurre unitamente alla valutazione del tenore di vita concretamente mantenuto dal medesimo nucleo in corso in costanza di matrimonio, consente, per un verso, di quantificare la parte delle risorse economiche che la famiglia è in grado di destinare alle esigenze di mantenimento dei figli e, per altro verso, le proporzioni dell’apporto che ciascun coniuge può fornire per il soddisfacimento di tali esigenze.
Acquisiti tali dati di valutazione, andrà, quindi, considerata l’effettiva misura dell’apporto dato dai singoli genitori al soddisfacimento delle esigenze della prole, valutata sia con riferimento ai tempi di permanenza dei figli presso ciascun settore, sia con riferimento a tutti gli ulteriori dati probatori acquisiti nel corso del giudizio circa i concreti atti di accudimento dei genitori, ivi compresi i compiti domestici e di cura materiale.
a) Gli accordi tra i genitori sul mantenimento
L’affermazione contenuta nel terzo comma dell’art. 337-ter secondo cui “Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito…” ha comunque l’efficace significato di indicare ai genitori che la prospettiva di un accordo sul mantenimento dei figli è sempre preferibile ad una decisione imposta dal giudice.
L’abrogato art. 155 c.c. esprimeva già in passato questa prospettiva indicando al settimo comma che “Nell’emanare i provvedimenti relativi all’affidamento dei figli e al contributo al loro mantenimento, il giudice deve tener conto dell’accordo fra le parti…”. e l’attuale norma (in seguito alle modifiche prima di cui alla legge 54/2006 e poi della riforma del 2013 sulla filiazione) prevede molto chiaramente al secondo comma che il giudice “Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori”.
MANTENIMENTO DEI FIGLI MINORI
Quindi la prospettiva dell’accordo rimane quella preferibile secondo le chiare indicazioni contenute nella legge.
E pur tuttavia rimane un atteggiamento nel suo complesso della prassi giudiziaria ancora fortemente incline a non riconoscere pienamente questa autonomia. Segnale preoccupante di un atteggiamento della giurisprudenza nei confronti dell’affidamento e del mantenimento dei figli ancora molto centrato sulla piena indisponibilità dei diritti in questione e poco incline a riconoscere autonomia ai genitori. Il rapporto tra indisponibilità dei diritti (indisponibilità relativa, tuttavia, dopo l’introduzione della negoziazione assistita anche in sede di separazione e divorzio) e autonomia privata dei genitori, andrebbe ripensato in chiave soprattutto di promozione, di garanzia e di rispetto della negozialità dei genitori. D’altro lato l’ordinamento mette a disposizione del giudice su richiesta delle parti strumenti correttivi (come l’art. 709 ter c.p.c. oltre che le disposizioni di contrasto agli abusi sui minori) che hanno la precipua funzione di non lasciare privi di protezione comportamenti che cagionano una prevaricazione di un genitore sull’altro o comportamenti che provocano sui figli effetti pregiudizievoli.
La possibile mortificazione dell’autonomia negoziale si evidenzia proprio nel problema interpretativo che riguarda il senso dell’espressione di apertura della norma “Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito…”.
La norma, secondo l’interpretazione più ragionevole delle espressioni usate, consente ai genitori di derogare al principio di proporzionalità rispetto ai redditi, in funzione della salvaguardia di altri criteri collegati per esempio ai diversi tempi di cura, in modo che, magari, il genitore che trascorre più tempo con il figlio possa essere soddisfatto da un contributo dell’altro più consistente rispetto a quello strettamente proporzionale ai redditi. E magari i genitori potrebbero anche concordare modalità che non prevedono l’esborso diretto da parte di uno dell’assegno.
Insomma, la norma, intende salvaguardare e promuovere la negozialità dei genitori i quali ben potrebbero scegliere di comune accordo di attuare il principio di corresponsabilità (questo sì inderogabile) attraverso modalità diverse da quelle della proporzionalità (derogabile).
La prospettiva in senso ampio favorevole a riconoscere ai genitori una autonomia di decisione e una negozialità ampia è, però, spesso frustrata nelle aule di giustizia da una applicazione della norma piuttosto stereotipata che privilegia in materia di mantenimento (anche in sede di autorizzazione degli accordi di negoziazione assistita dagli avvocati) le forme tradizionali dell’assegno periodico per i figli corrisposto da un genitore all’altro. La giurisprudenza ritiene sostanzialmente che l’assegno periodico si presta più facilmente a trovare strumenti collaudati di attuazione coattiva in caso di inadempimento (difficilmente ipotizzabili rispetto a forme di mantenimento diverse da quelle realizzate con l’assegno periodico).
In questa prospettiva per esempio, Cass. civ. Sez. I, 1 luglio 2015, n. 13504 ha affermato che l’affidamento
condiviso dei figli minori, in quanto fondato sull’interesse esclusivo di questi ultimi, non elimina l’obbligo patrimoniale di uno dei genitori di contribuire alle esigenze di vita della prole mediante la corresponsione di un assegno di mantenimento a favore del genitore collocatario, dovendo quest’ultimo provvedere in misura più ampia alle spese correnti relative ai minori. Nello stesso senso si è espressa Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2014, n. 26060 secondo cui l’affidamento condiviso dei figli minori, in quanto fondato sull’interesse esclusivo di questi ultimi, non elimina l’obbligo patrimoniale di uno dei genitori di contribuire alle esigenze di vita dei primi mediante la corresponsione di un assegno di mantenimento, ma non implica, come sua conseguenza “automatica”, che ciascuno dei due genitori debba provvedere paritariamente, in modo diretto ed autonomo, alle predette esigenze.
b) Il trasferimento di diritti reali in favore dei figli
Gli accordi tra i genitori relativi al mantenimento dei figli possono anche essere indirizzati all’attribuzione ai figli di diritti reali 6, in aggiunta alla tutela garantita dal mantenimento diretto o attraverso la corresponsione di un assegno.
Vi è da sottolineare come la natura di questo tipo di trasferimenti opera sul piano dei rapporti tra genitori e figli e quindi, ancorché tali trasferimenti siano contenuti in un accordo una tantum tra i genitori, ex art. 5, comma 8 della legge sul divorzio, non resta inibita ad uno dei genitori per il futuro la possibilità di richiedere ulteriori interventi giudiziari a tutela del mantenimento dei figli.
Anche i trasferimenti di diritti reali nei confronti dei figli sono da considerare esenti fiscalmente ai sensi dell’art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74. È appena il caso di ricordare che l’art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74 prescrive l’esenzione fiscale per gli “atti diretti ad ottenere la corresponsione o la revisione degli assegni di cui all’art. 5 e 6 della legge 1° dicembre 1970, n. 898” includendo quindi anche gli atti relativi al mantenimento verso i figli.
Già in Cass. civ. Sez. V, 30 maggio 2005, n. 11458 era stata affrontata la questione. L’amministrazione finanziaria intendeva tassare come atto di liberalità un trasferimento a favore delle figlie effettuato dai genitori in sede di separazione, sostenendo che l’art. 19 della legge 74/87 riguarda tutti gli atti e i provvedimenti relativi al procedimento di separazione tra i coniugi, mentre l’atto in questione coinvolgerebbe altri soggetti, quali le figlie, e, pertanto, non potrebbe rientrare nella citata disposizione normativa. La Corte di cassazione affermava invece che la norma speciale contenuta nell’art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74 in base alla sentenza 10 maggio 1999, n. 154, della Corte costituzionale, estensiva dell’orientamento da essa già assunto con la sentenza 15 aprile 1992, n. 176, dea ‘essere interpretata nel senso che l’esenzione si applica a tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi, in modo da garantire l’adempimento delle obbligazioni che i coniugi separati hanno assunto per conferire un nuovo assetto ai loro interessi economici anche con atti i cui effetti siano favorevoli ai figli.
Il principio venne poi ribadito da Cass. civ. Sez. II, 21 febbraio 2006, n. 3747 in cui ai precisa che l’obbligo
di mantenimento dei figli minori, o maggiorenni non autosufficienti, può essere adempiuto dai genitori
in sede di separazione personale o divorzio mediante un accordo il quale, anziché attraverso una prestazione patrimoniale periodica, od in concorso con essa, attribuisca o li impegni ad attribuire ai figli la proprietà di beni mobili od immobili, e che tale accordo non realizza una donazione, in quanto assolve ad una funzione solutoria e compensativa dell’obbligazione di mantenimento, e costituisce applicazione del principio, stabilito dall’art. 1322 c.c., della libertà dei soggetti di perseguire con lo strumento contrattuale interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.
L’accordo, recepito e condizionato dal provvedimento di separazione o di divorzio, non si limita in tale caso a determinare le concrete modalità della prestazione periodica di mantenimento, ma comporta l’immediata e definitiva acquisizione al patrimonio dei figli della proprietà dei beni che i genitori, od il genitore, abbiano loro attribuito o si siano impegnati ad attribuire e, in questo secondo caso, il correlativo obbligo, sanzionato in forma specifica dall’art. 2392 c.c., è trasmissibile agli eredi del promittente, giacché trova il suo titolo non già nella prestazione di mantenimento, che, nei limiti costituiti dal valore dei beni attribuiti o da attribuire, è convenzionalmente liquidata e sostituita dall’impegno negoziale, ma nell’accordo che l’ha estinta.
L’interpretazione è stata poi confermata da molte decisioni che hanno pacificamente ritenuto estesa l’esenzione ai trasferimenti immobiliari verso i figli precisando che l’esenzione deve in sostanza garantire l’adempimento delle obbligazioni che i coniugi separati hanno assunto per conferire un nuovo assetto ai loro interessi economici, anche con atti i cui effetti siano favorevoli ai figli (cfr Cass. civ. Sez. VI, 8 marzo 2013, n. 5924 e Cass. civ. Sez. II, 23 settembre 2013, n. 21736 che riproducono quasi testualmente il punto di vista della decisione precedente del 2005; Cass. civ. Sez. V, 28 giugno 2013, n. 16348 secondo cui “le attribuzioni patrimoniali in favore dei figli, realizzate in occasione del divorzio o della separazione personale dei genitori beneficiano delle agevolazioni previste dall’art. 19 della legge n. 74 del 1987, tenuto presente che il beneficio fiscale in questione è volto a tutelare anche l’esigenza di agevolare e promuovere, nel più breve tempo, una soluzione idonea a garantire l’adempimento delle obbligazioni che gravano, ad esempio, sul coniuge non affidatario della prole, cioè a assolvere i doveri di mantenimento della prole, nel cui ambito si iscrivono – quali plausibili modalità solutorie – anche le attribuzioni aventi carattere reale”; Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18066).
Recentemente lo stesso principio è stato ribadito con forza da Cass. civ. Sez. V, 3 febbraio 2016, n. 2111 e
Cass. civ. Sez. V, 17 febbraio 2016, n. 3110 che hanno affermato il carattere di negoziazione globale tipica
di tutti gli accordi di separazione o divorzio anche comportanti trasferimenti patrimoniali dall’uno all’altro coniuge o in favore dei figli.
L’attribuzione a favore dei figli configura giuridicamente un contratto a favore di terzo (art. 1411 c.c.) e quindi il figlio acquista il diritto contro i genitori stipulanti per effetto della stipulazione.
L’esenzione fiscale concerne anche i trasferimenti in sede di accordi tra i genitori della crisi familiare effettuati nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio.
Benché nessuna norma, infatti, preveda l’esenzione fiscale per i trasferimenti effettuati in sede di scioglimento della convivenza di fatto (tra conviventi) ancorché possano avere le medesime finalità di definizione di un assetto familiare successivo alla crisi di coppia, la Corte costituzionale ha ritenuto contrastante con l’art. 3 della Costituzione la mancata estensione dell’esenzione fiscale prevista nella normativa divorzile ai procedimenti relativi ai figli di genitori non uniti in matrimonio (Corte cost. 11 giugno 2003, n. 202) con la conseguenza che l’esenzione di cui all’art. 19 della legge 74/87 troverà applicazione anche ai trasferimenti immobiliari effettuati dai genitori nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio.
La Commissione tributaria provinciale di Pordenone aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, della Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), in riferimento all’art. 3 della Costituzione, laddove è “interpretata in modo da comprendere nella tassazione i provvedimenti giudiziari emessi in applicazione dell’articolo 148 del codice civile, nell’ambito dei rapporti tra genitori e figli”, per disparità di trattamento rispetto agli stessi provvedimenti adottati nell’ambito dei procedimenti di separazione e divorzio.
La Corte ritenne la questione fondata richiamando la propria sentenza n. 154 del 1999, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74, nella parte in cui non estende l’esenzione in esso prevista a tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi. Nel motivare quella la decisione la Corte si fondò su quanto affermato dalla sentenza n. 176 del 1992 che ha dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 della citata legge n. 74 del 1987 nella parte in cui non comprende nell’esenzione dal tributo anche le iscrizioni di ipoteca effettuate a garanzia delle obbligazioni assunte dal coniuge nel giudizio di separazione, testualmente affermando che “il parallelismo, le analogie e la complementarità funzionale dei procedimenti di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e del procedimento di separazione dei coniugi sotto i profili che rilevano ai presenti fini, già sottolineati da questa Corte nella decisione richiamata, portano anche in questo caso a concludere che il profilo tributario non può ragionevolmente
riflettere un momento di diversificazione delle due procedure, atteso che l’esigenza di agevolare
l’accesso alla tutela giurisdizionale, che motiva e giustifica il beneficio fiscale con riguardo agli atti del giudizio divorzile, è con ancor più accentuata evidenza presente nel giudizio di separazione”, anche “in considerazione dell’esigenza di agevolare, e promuovere, nel più breve tempo, una soluzione idonea a garantire l’adempimento delle obbligazioni che gravano, ad esempio, sul coniuge non affidatario della prole”. Perciò concludeva affermando che l’esenzione tributaria disposta in materia di procedimenti relativi ai giudizi di separazione e divorzio ricomprende anche i provvedimenti relativi alla prole, come è dimostrato dal richiamo, nell’art. 19 della legge n. 74 del 1987, all’art. 6 della legge n. 898 del 1970, e da ciò deriva che è irragionevole la mancata estensione di tale esenzione anche ai provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 148 cod. civ., in tema di determinazione del contributo di mantenimento fissato a carico del genitore naturale obbligato ed a favore del genitore affidatario. La mancanza del rapporto di coniugio fra le parti non può giustificare la diversità di disciplina tributaria del provvedimento,
c) Il provvedimento del giudice sul mantenimento dei figli e i criteri previsti
Alle obbligazioni di mantenimento fanno riferimento soprattutto gli ultimi tre commi dell’art. 337-ter nei quali si precisa che “Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando: 1) le attuali esigenze del figlio.
2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori.
3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore.
4) le risorse economiche di entrambi i genitori.
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
L’assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice.
d) I poteri del giudice: l’istruttoria e le indagini tributarie
L’art. 337-octies, dedicato proprio ai poteri del giudice, prescrive che “Prima dell’emanazione, anche in via
provvisoria, dei provvedimenti di cui all’articolo 337-ter, il giudice può assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova”.
L’ultimo comma invece dell’art. 337-ter chiarisce poi che “Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi”.
Quindi la legge attribuisce al giudice in materia di determinazione del mantenimento per i figli un ampio potere di istruttoria – da esercitarsi anche prima dell’emanazione di eventuali provvedimenti provvisori – anche a mezzo della polizia tributaria.
Proprio in ordine agli accertamenti di polizia tributaria 7 vi è da dire che, sebbene l’art. 337-ter si esprima in
termini di doverosità, secondo la giurisprudenza il potere di disporre accertamenti anche attraverso la polizia tributaria non è considerato un obbligo del giudice. L’esercizio di tale potere – ad avviso della giurisprudenza – “rientra nella discrezionalità del giudice di merito che non è tenuto ad avvalersene ove ritenga provata compiutamente aliunde la situazione economica delle parti” (Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2009, n. 14081) e “non può essere considerato come un dovere imposto sulla base della semplice contestazione delle parti in ordine alle loro rispettive condizioni economiche” (Cass. civ. Sez. I, 28 aprile 2006, n. 9861; Cass. civ. Sez. I, 7 febbraio
2006, n. 2625; Cass. civ. Sez. I, 17 maggio 2005, n. 10344; Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 2003,
n. 18391, Trib. Napoli Sez. I, 4 giugno 2012).
Tuttavia la discrezionalità di cui è munito il giudice di merito nel disporre indagini attraverso la polizia tributaria non può ritenersi di carattere assoluto, trovando un limite nell’impossibilità da parte del giudice di basare il proprio convincimento in ordine all’assegno su valutazioni prive del necessario riscontro (Cass. civ. Sez. I, 24 febbraio 2010, n. 4519). Sostanzialmente nello stesso senso Cass. civ. Sez. I., 18 giugno 2008, n. 16575 secondo cui l’eventuale omissione di motivazione sul diniego di esercizio del relativo potere non è censurabile in sede di legittimità, ove, sia pure per implicito, tale diniego sia logicamente correlabile ad una valutazione sulla superfluità dell’iniziativa per ritenuta sufficienza dei dati istruttori acquisiti.
Il punto centrale però è il seguente. Seppure il potere di disporre indagini a mezzo della polizia tributaria sia
considerato come avente natura discrezionale – nel senso che il giudice può valutare come superfluo ricorrervi in presenza evidentemente di elementi di convincimento tratti aliunde – il giudice “non può rigettare le istanze delle parti relative al riconoscimento e alla determinazione dell’assegno sotto il profilo della mancata dimostrazione degli assunti sui quali si fondano” facendo capo in tal caso al giudice l’obbligo di disporre accertamenti d’ufficio
(Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2009, n. 14081; Cass. civ. Sez. I, 17 maggio 2005, n. 10344; Cass. sez.
I, 2 dicembre 2003, n. 18391).
MANTENIMENTO DEI FIGLI MINORI
Quindi costituisce violazione di legge non avvalersi delle indagini di polizia tributaria ove il giudice poi rigetti le domande di natura economica sul presupposto che non vi sarebbero elementi dimostrativi dei reali redditi e del reale patrimonio delle parti.
e) Le diverse regole processuali per i figli nati nel matrimonio e per i figli nati fuori dal matrimonio in
caso di scissione della coppia genitoriale
Il tribunale ordinario è l’unico giudice che si occupa del mantenimento di figli, minori o maggiorenni che siano.
Prima della riforma sulla filiazione del 2012 residuava una competenza del tribunale per i minorenni in ordine ai provvedimenti sul mantenimento connessi all’accertamento della paternità in caso di minore età del figlio (art. 277 c.c.), ma anche questa competenza è passata, con la riforma in questione, al tribunale ordinario quale giudice competente per tutte le azioni di stato.
Nonostante questa unitarietà delle competenze giudiziarie, sopravvivono diversità nella tipologia del procedimento e delle regole del processo.
Infatti, il testo attuale del secondo comma dell’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile (che distribuisce le competenze giudiziarie in materia di minori tra tribunale ordinario e tribunale per i minorenni) dopo aver affermato il principio generale che “Sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria” afferma che “Nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile” così individuando il rito camerale come rito elettivo ove non siano previste altre regole procedurali.
Principio ribadito anche nel terzo comma della medesima disposizione dove si stabilisce che “Fermo restando quanto previsto per le azioni di stato, il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente”.
Pertanto questa norma dispone che in tutti i procedimenti in materia di affidamento e mantenimento dei figli minori (salvo quelli che accertano o disconoscono lo status filiationis) dovrebbe applicarsi il rito camerale (articoli 737 e seguenti c.p.c.). Sennonché questo principio generale trova una significativa deroga in caso di separazione e divorzio dove le norme che disciplinano questi istituti, prevedono un rito speciale (presidenziale e poi a cognizione piena) e in appello un rito camerale. Il rito camerale torna ad essere poi il rito delle procedure di revisione delle condizioni di separazione e di divorzio (anche relative ai figli e al loro mantenimento). Cosicché oggi coesistono in materia di provvedimenti sul mantenimento dei figli in caso di scissione della coppia genitoriale, tre diversi tipi di procedimento:
1) Procedimenti di separazione e divorzio (nella prima fase presidenziale il rito è camerale e nella seconda fase è a cognizione piena; in appello il rito è camerale).
2) Procedimenti relativi all’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio e procedimenti di revisione delle condizioni (anche di mantenimento dei figli) della separazione e del divorzio (rito camerale).
f) L’intervento obbligatorio del pubblico ministero
Art. 70 c.p.c. 8 prescrive l’intervento obbligatorio del pubblico ministero9, a pena di nullità tra l’altro nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione personale dei coniugi e nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone.
Con l’espressione “cause matrimoniali” in cui al pubblico ministero viene attribuito il potere di impugnazione, l’art. 70 del codice di procedura civile (il cui testo si deve alla legge 30 luglio 1950, n. 534) non avrebbe potuto certamente riferirsi alle cause di divorzio (introdotto successivamente con la legge 1° dicembre 1970, n. 898) ma a tutti i procedimenti in cui si discute del vincolo matrimoniale (per esempio le nullità del matrimonio) ivi compresa la separazione personale tra i coniugi sia pure (come è stato giustamente sottolineato in dottrina) solo dopo la fase presidenziale, considerato che l’art. 709, primo comma, c.p.c. prevede che l’ordinanza presidenziale con la quale si chiude la prima fase del procedimento va comunicata al pubblico ministero, con ciò lasciando intendere che nella fase presidenziale l’intervento non è obbligatorio.
8 Art. 70. (Intervento in causa del pubblico ministero)
Il pubblico ministero deve intervenire, a pena di nullità rilevabile d’ufficio:
1) nelle cause che egli stesso potrebbe proporre;
2) nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione personale dei coniugi;
3) nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone;
(…)
5) negli altri casi previsti dalla legge.
Deve intervenire nelle cause davanti alla corte di cassazione nei casi stabiliti dalla legge.
Può infine intervenire in ogni altra causa in cui ravvisa un pubblico interesse.
ANTENIMENTO DEI FIGLI MINORI
L’intervento è, tuttavia, previsto come obbligatorio anche nelle cause di divorzio che più che cause matrimoniali potrebbero essere certamente considerate cause riguardanti lo stato delle persone (art. 70 n. 3). E’ questa l’opinione anche di Cass. civ. Sez. I, 27 aprile 2004, n. 8010 che qualifica le cause di divorzio come cause di stato (anche se, nello specifico, in contrapposizione con le cause riguardanti rapporti personali e non in contrapposizione alle cause matrimoniali).
Sino considerate cause matrimoniali, ai fini dell’intervento obbligatorio del pubblico ministero quelle che hanno per oggetto le azioni di cui all’art. 316-bis c.c. (già art. 148 c.c.) relative al contributo per il mantenimento del figlio anche minore al quale è tenuto il genitore naturale (Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2000, n. 8382) ma non quelle per il recupero dei crediti di mantenimento del figlio ex art. 156 c.c. (Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2004, n. 23713).
Se in tutte le cause di separazione e di divorzio è sempre previsto come obbligatorio l’intervento del pubblico ministero, ci si deve chiedere se l’intervento è obbligatorio anche nei procedimenti di revisione delle condizioni di separazione e di divorzio. Ebbene, in questi casi, secondo l’orientamento pacifico in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. I, 21 maggio 1988, n. 3541), l’intervento del pubblico ministero è obbligatorio solo se si discute di “provvedimenti relativi ai figli” e in particolare:
a) nei giudizi di revisione delle condizioni di divorzio, in relazione a quanto prescritto espressamente dall’art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 nel testo modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74 (che impone l’intervento del pubblico ministero, appunto, per i “provvedimenti relativi ai figli”);
b) nei procedimenti di modifica delle condizioni di separazione relativamente ai provvedimenti sui figli, in virtù di quanto deciso da Corte cost. 9 novembre 1992, n. 416;
c) nei procedimenti tra genitori non coniugati per l’affidamento e il mantenimento dei figli, in virtù di quanto deciso da Corte cost. 25 giugno 1996, n. 214.
Quindi l’intervento del pubblico ministero è stato ritenuto necessario per i procedimenti relativi a figli minori. Nessun riferimento nelle due citate sentenze della corte costituzionale (che si riferiscono genericamente alla “prole” in vicende, però, come si è detto, relative a figli minori) viene fatto ai figli maggiorenni E d’altro lato la legge sul divorzio prevede che lo stesso pubblico ministero possa impugnare la sentenza “limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci” (art. 5, comma 5, della legge sul divorzio) lasciando intendere che la ragione giustificatrice della norma sia l’interesse superiore del minore. È pacifico in giurisprudenza che questo potere di impugnazione del pubblico ministero si riferisca solo al caso di tutela dei figli minori (Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2007, n. 23379; Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2000, n. 8382; Cass. civ. Sez. I, 29 ottobre 1998, n. 10803 secondo le quali le azioni di cui agli artt. 148 c.c. (oggi 316-bis) relative al contributo per il mantenimento del figlio, al quale è tenuto il genitore non rientrano tra quelle nelle quali il pubblico ministero deve intervenire a pena di nullità.
Se ne deve concludere che l’intervento obbligatorio del pubblico ministero è previsto solo nei procedimenti relativi all’affidamento e al mantenimento dei figli minorenni e non riguarda i giudizi concernenti il mantenimento dei figli maggiorenni.
Singolare la decisione con cui Cass. civ. Sez. I, 3 marzo 2000, n. 2381 ha ritenuto che la mancata partecipazione del pubblico ministero nei giudizi relativi alla revisione dell’assegno per il mantenimento dei figli minori di genitori divorziati può essere fatta valere come motivo di gravame solo da chi intende salvaguardare gli interessi dei figli stessi, e non, quindi, dal genitore che, chiedendo che sia ridotta, o azzerata, la misura dell’assegno posto a suo carico, mira a contrastare quell’interesse, per la cui tutela è disposta la garanzia della partecipazione del pubblico ministero.
g) L’adeguamento automatico degli importi di mantenimento
Nell’art. 337-ter c.c. si prevede espressamente che “L’assegno è automaticamente adeguato agli indici Istat in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice”.
Benché la legge indichi la possibilità di parametri diversi da quello che fa perno sulle variazioni degli indici relativi al costo della vita elaborati dall’istat, il criterio in questione rimane il parametro tradizionale di adeguamento degli importi di mantenimento, finora previsto solo nell’ambito dell’assegno divorzile ma esteso dalla giurisprudenza anche all’assegno coniugale di separazione e ora dalla legge anche al mantenimento dei figli.
Sul tema dell’adeguamento Cass. civ. Sez. VI, 22 aprile 2016, n. 8151 ha ragionevolmente precisato che in
merito alla richiesta di rivalutazione dell’assegno di mantenimento disposto, in sede di divorzio, in favore dei figli minori, in ragione al fatto notorio della crescita dei figli e dell’aumento delle loro esigenze, deve rilevarsi che le esigenze dei figli, in concomitanza con l’aumento della loro età e alla conseguente necessità di un incremento dell’assegno, si può in linea generale consentire; tuttavia, ai fini di un eventuale aumento dell’importo, si dovrà necessariamente effettuare una valutazione concreta delle esigenze dei figli medesimi, sulla base delle condizioni economiche dei genitori.
h) L’estensione ai figli maggiorenni
Ad occuparsi normativamente dei figli maggiorenni è stata per prima la legge sull’affidamento condiviso (legge 8 febbraio 2006, n. 54) che riservava ai figli maggiorenni nell’ambito delle procedure di scissione della coppia genitoriale un intero articolo (art. 155-quinquies, appunto rubricato “Disposizioni in favore dei figli maggiorenni”) nel quale si attribuiva per la prima volta ex lege ai “figli maggiorenni non indipendenti economicamente” un diritto alla titolarità di un assegno periodico di mantenimento. La disposizione in questione non è stata toccata dalla riforma sulla filiazione di cui alla legge 10 dicembre 2012, n. 219 se non per la collocazione sistematica, avendo il decreto di attuazione (decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154) accorpato le disposizioni sull’esercizio della responsabilità genitoriale in caso di scissione della coppia genitoriale in un capo a sé inserendo le disposizioni in favore dei figli maggiorenni nel nuovo articolo 337-septies del codice civile.
L’art. 337-septies c.c. si occupa specificamente dei figli maggiorenni prevedendo che “Il giudice, valutate le
circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto”.
Per le numerose questioni interpretative della norma si può fare riferimento ad altra sede.10
L’art. 337-septies è, quindi, oggi la fonte legislativa delle obbligazioni di mantenimento nei confronti dei figli
maggiorenni, rendendosi pertanto per lo più superfluo il riferimento a quella giurisprudenza che da molto prima delle riforma sull’affidamento condiviso e sulla filiazione (allorché dei figli maggiorenni non vi era traccia nella legislazione) avevano affermato, anticipandoli, gli stessi principi (tra le tante Cass. civ. Sez. I, 7 aprile 2006, n. 8221; Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975; Cass. civ. Sez. I, 18 febbraio 1999, n. 1353; Cass. civ. Sez. I, 8 settembre 1998, n. 8868; Cass. civ. Sez. I, 11 marzo 1998, n. 2670; Cass. civ. Sez. I, 28
giugno 1994, n. 6215).
La legislazione è quindi oggi in piena sintonia con i principi di fondo che la giurisprudenza ha sempre sostenuto e cioè che il dovere dei genitori di provvedere al mantenimento dei figli non cessa automaticamente con il conseguimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura sino a quando i medesimi non abbiano raggiunto un’indipendenza economica, ovvero abbiano concorso colpevolmente alla determinazione della propria non autosufficienza economica.
L’ultimo comma dell’art. 337-septies prevede che al figlio maggiorenne portatore di handicap grave si applicano integralmente le disposizioni previste in favore dei figli minori, come ha avuto modo anche di chiarire la giurisprudenza che ha precisato che trovano applicazione, in tal caso, le disposizioni in tema di cura e di mantenimento da parte dei genitori non conviventi, di assegnazione della casa coniugale, ma non anche quelle sull’affidamento, condiviso od esclusivo (Cass. civ. Sez. I, 24 luglio 2012, n. 12977).
i) Il trattamento fiscale dell’assegno di mantenimento per i figli
Nessuna tassazione o deduzione è collegata alle obbligazioni di mantenimento verso i figli.
II Testo unico delle imposte dirette (D.P.R., 22 dicembre 1986 n. 917) all’art. 3, trattando della base imponibile, prevede che l’imposizione fiscale (irpef) colpisce il reddito complessivo del soggetto ad eccezione degli assegni periodici destinati al mantenimento dei figli (minori o maggiorenni). Il mantenimento dei figli (anche di quelli fuori dal matrimonio) quindi, non costituisce un reddito che deve essere dichiarato.
Parallelamente l’art. 10 del medesimo Testo Unico non consente, naturalmente, a chi corrisponde il mantenimento, la deduzione degli assegni di mantenimento destinati al mantenimento dei figli.
V
Le spese straordinarie
a) La qualificazione delle spese straordinarie
Rinviando l’approfondimento generale alla voce apposita11 si può qui osservare che la giurisprudenza ha costantemente affermato il principio in base al quale il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli impone ai genitori di far fronte ad una molteplicità di esigenze, certamente non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma inevitabilmente estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione, fin quando l’età dei figli stessi lo richieda, di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione (Cass. civ. Sez. I, 18 settembre 2013, n. 21273; Cass. civ. Sez. I, 6 novembre 2009, n. 23630; Cass. civ. Sez. I, 22 marzo 2005, n. 6197; Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2002, n. 3974; Cass. civ. Sez. I, 8 novembre 1997, n. 11025).
Nel corso della vita in famiglia i genitori assolvono a questi oneri concordando in genere tra loro le spese per i figli nella misura resa possibile dalle rispettive capacità economiche e da quelle della famiglia. Viceversa problemi di distribuzione e di suddivisione delle obbligazioni verso i figli per far fronte alle loro esigenze di mantenimento, educazione, istruzione e assistenza si pongono – talvolta numerosi – in caso di scissione della coppia genitoriale.
Come si è detto il sistema più tradizionale e più utilizzato per suddividere tra i genitori le obbligazioni di mantenimento verso i figli è quello in genere di prevedere a carico di uno dei genitori un contributo perequativo per le spese “ordinarie” (che viene versato al genitore con cui il figlio resta domiciliato) e una quota di contribuzione a carico di entrambi i genitori, spesso uguale ma molte volte anche differenziata in percentuali proporzionate ai rispettivi redditi, a titolo di partecipazione alle cosiddette spese “straordinarie”.
Proprio a proposito di quest’ultima classificazione si deve osservare che la legge indica i parametri da seguire per la determinazione del mantenimento verso i figli ma non precisa in alcun modo il concetto di spesa “ordinaria” e quello di spesa “straordinaria”. Per questo motivo non è sempre agevole individuare un criterio condiviso per delimitare i confini delle due categorie di spese.
Tuttavia l’approfondimento dei parametri indicati nell’art. 337-ter c.c. può essere utile per fare qualche prima precisazione in ordine al concetto di spese ordinarie e a quello di spese straordinarie. Infatti alcuni dei parametri in questione sono strettamente legati alla soddisfazione dei bisogni (per esempio le “esigenze del figlio” di tipo alimentare, scolastico, di svago che in genere costituiscono un elemento che potremmo indicare come rigido nel senso che non è condizionato in modo eccessivo dalle condizioni economiche della famiglia, che potrebbe perciò essere allocato nell’area delle spese ordinarie) mentre altri parametri sono più legati alla soddisfazione di diritti ulteriori rispetto alla soddisfazione dei bisogni (così il riferimento, tra i criteri indicati dalla legge, al “tenore di vita” costituisce un tipico elemento che potremmo definire elastico, nel senso che le spese che vi fanno riferimento possono variare anche di molto in ragione delle differenti condizioni economiche della famiglia e che potrebbe perciò richiamare l’area delle spese straordinarie). Non sempre in famiglia si può garantire facilmente la soddisfazione di esigenze ulteriori rispetto a quelle che costituiscono i bisogni quotidiani. L’altra area delle spese che potrebbero essere incluse tra quelle straordinarie è quella delle spese destinate a far fronte ad eventi eccezionali.
A queste considerazioni si ispira l’indirizzo giurisprudenziale assolutamente prevalente che, al fine di fornire un criterio generale di differenziazione tra l’una e l’altra categoria, riconosce che le ‘‘spese ordinarie’’ sono in sostanza quelle destinate a soddisfare i bisogni quotidiani del minore, mentre quelle ‘‘straordinarie’’ costituiscono le spese di non lieve entità rispetto alla situazione economica dei genitori e le altre destinate a far fronte ad eventi non costanti nella vita dei figli ma imprevedibili e non quantificabili e determinabili in anticipo (Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11894).
Le modalità di assolvimento dell’obbligazione relativa alle spese ordinarie (quelle legate soprattutto alla soddisfazione dei bisogni di mantenimento, di educazione, di svago ma anche quelle mediche e scolastiche) possono essere comodamente (anche se non sempre facilmente) indicate attraverso la previsione dell’obbligo di pagamento di un contributo perequativo espresso in un importo predeterminato, mentre le esigenze che sono maggiormente connesse al tenore di vita nelle differenziate condizioni economiche familiari (un corso di studi particolare, un tipo di vacanza, uno sport specifico, la scelta di una clinica privata per un intervento chirurgico) o le altre di natura eccezionale possono essere plausibilmente soddisfatte solo ponendo a carico dei genitori un’ulteriore obbligazione di partecipazione alla spesa, se del caso – come detto – anche attraverso differenti proporzioni in relazione ai diversi redditi di ciascun genitore.
b) L’obbligatorietà della partecipazione di entrambi i genitori alle spese straordinarie
Come si è detto, quindi, non è nella tipologia di spesa – come spesso si usa fare per comprensibili ragioni empiriche – che va rintracciata la differenza tra le spese ordinarie e quelle straordinarie, in quanto il concetto di straordinarietà è piuttosto legato alla particolarità e alla modalità con cui quella spesa si presenta nel corso della vita dei figli.
Proprio a proposito della natura per molti versi eccezionale e imprevedibile delle spese straordinarie è emerso in giurisprudenza gradualmente il principio generale secondo cui il provvedimento relativo alle obbligazioni di mantenimento verso i figli non può omettere di distribuire tra i genitori le spese straordinarie, in modo proporzionale ai rispettivi redditi in quanto l’inclusione delle spese straordinarie in via forfettaria nell’ammontare dell’assegno posto a carico di uno dei genitori può rivelarsi in netto contrasto con il principio di proporzionalità e di adeguatezza del mantenimento (Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11894; Cass. civ. Sez. I, 8 settembre 2014, n. 18869).
Una tra le decisioni recenti che meglio si è impegnata a sintetizzare un criterio differenziale plausibile tra “spese ordinarie” e “spese straordinarie”, indicando anche i confini di legittimità della distinzione, è senz’altro Cass. civ. Sez. I, 8 giugno 2012, n. 9372 che si è occupata della separazione tra due genitori in cui a carico del padre era stato posto un “assegno di mantenimento per il figlio di 500 euro comprensive delle spese straordinarie”. Nel ricorso per cassazione la madre del minore lamentava che la liquidazione in via forfettaria delle spese straordinarie, ricomprese nel contributo determinato a carico del padre, determinava una situazione di incertezza ponendola in condizione di dover affrontare, attesa l’imprevedibilità delle spese, costi superiori alle proprie possibilità economiche, in violazione del principio di proporzionalità. Nella motivazione con cui i giudici hanno accolto il ricorso della moglie si legge che “in tema di mantenimento della prole, devono intendersi spese “straordinarie” quelle che, per la loro rilevanza, la loro imprevedibilità e la loro imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita dei figli, cosicché la loro inclusione in via forfettaria nell’ammontare dell’assegno, posto a carico di uno dei genitori, può
rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità sancito dall’art.155 cod. civ. e con quello dell’adeguatezza del mantenimento, nonché recare grave nocumento alla prole, che potrebbe essere privata, non consentendolo le possibilità economiche del solo genitore beneficiario dell’assegno “cumulativo”, di cure necessarie o di altri indispensabili apporti; pertanto, pur non trovando la distribuzione delle spese straordinarie una disciplina specifica nelle norme inerenti alla fissazione dell’assegno periodico, deve ritenersi che la soluzione di stabilire in via forfettaria ed aprioristica ciò che è imponderabile e imprevedibile, oltre ad apparire in contrasto con il principio logico secondo cui soltanto ciò che è determinabile può essere preventivamente quantificato, introduce, nell’individuazione del contributo in favore della prole, una sorta di alea incompatibile con i principi che regolano la materia”.
Poiché le ‘’spese straordinarie’’ non possano mai ritenersi comprese in modo forfettario all’interno della somma da corrispondersi con l’assegno periodico di mantenimento, ne consegue che è illegittimo un provvedimento che non indichi a chi facciano carico le spese straordinarie o che non contempli criteri di distribuzione o di allocazione tra i genitori di tali spese.
La definizione delle spese straordinarie come spese di rilevante importo o che sono imprevedibili o imponderabili e che per tale ragione esulano dal consueto e ordinario regime di vita dei figli e dal mantenimento ordinario utilizza quindi un criterio differenziale che fa leva non sulla tipologia della spesa (medica, scolastica, ludica, sportiva o altro) ma sulla sua natura ed è il criterio utilizzato in quasi tutte le decisioni di merito.
c) Il problema del previo consenso tra i genitori: il nuovo orientamento della giurisprudenza
Su questo tema si è assistito in giurisprudenza ad una evoluzione, non priva di contraddizioni, che è opportuno segnalare.
– L’orientamento tradizionale: l’obbligo del previo consenso vale per le sole spese che implicano decisioni
di maggiore interesse.
La giurisprudenza anche recente (Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2014, n. 6297) richiama spesso un principio
tradizionale nell’ambito delle problematiche sulle spese straordinarie. Il principio è quello in base al quale un genitore non è gravato dalla previa concertazione delle spese straordinarie con l’altro genitore, a meno che le stesse non implichino l’assunzione di decisioni di maggiore interesse.
L’orientamento in questione risale ad una lontana sentenza (Cass. civ. Sez. I, 5 maggio 1999, n. 4459)
nella quale per la prima volta la Cassazione interveniva sul tema della concertazione delle spese straordinarie.
Nella vicenda trattata in questa sentenza la Corte di merito, sulla base di un rilevantissimo divario tra i redditi dei genitori, aveva posto a carico del padre in sede divorzile tutti gli oneri economici di mantenimento anche straordinario dei figli; il padre si doleva in cassazione (non del fatto che tali oneri non fossero stati posti anche a carico della madre ma) soltanto del fatto che i giudici non avessero previsto l’obbligo della previa concertazione delle spese straordinarie. La Corte di cassazione respingeva il ricorso del padre osservando che la Corte d’appello aveva fatto riferimento al principio in base al quale “le decisioni di maggiore interesse sono adottate dai coniugi”
e che non aveva affatto voluto escludere il padre dal potere di adottare con l’altro genitore le decisioni di maggiore interesse per i figli. E proprio a tale proposito la sentenza distingue tra “spese straordinarie” e “decisioni straordinarie” cioè “di maggiore interesse” affermando che “il concetto di «spese straordinarie» è ben distinto, dal punto di vista ontologico, e da quello delle coerenti implicazioni giuridiche, dalla nozione di «scelte straordinarie » (“decisioni di maggiore interesse”) intese come decisioni che più marcatamente incidono sulla vita, sull’istruzione e sui valori guida nell’educazione dei figli. E se pure è vero che assai di frequente la realizzazione di scelte siffatte comporta esborsi straordinari, ovvero, sotto opposta prospettiva, che l’erogazione di tali esborsi trova il proprio presupposto in momenti decisionali attinenti ad aspetti importanti della vita dei figli, è, tuttavia, altrettanto vero che l’interferenza tra le due categorie non ne determina la coincidenza, ben potendo ipotizzarsi decisioni fondamentali prive di spesa (ad esempio quelle che attengono all’educazione religiosa) e, per converso, decisioni non rilevanti dal punto di vista della vita e dell’educazione dei minori e, tuttavia, assai onerose sul piano economico (si pensi a viaggi all’estero o, per altro aspetto, a necessarie terapie mediche).
Il principio che sono soggette alla regola del previo accordo solo le spese straordinarie che riguardano decisioni di maggiore interesse per i figli ha trovato puntuale applicazione in molte decisioni successive per esempio in Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2009, n. 2182 e Cass. civ. Sez. I, 27 aprile 2011, n. 9376 nelle quali peraltro si è affermato che il principio non è inderogabile essendo sempre possibile che il giudice determini oltre che la misura anche nello specifico i modi con i quali i genitori debbano contribuire al mantenimento dei figli (nella specie la corte territoriale, dopo aver dato atto dell’accordo delle parti sull’assunzione dell’obbligo del padre di provvedere per intero alle spese straordinarie di natura sanitaria, scolastica e ricreativa dei figli, aveva espressamente precisato, che le spese “dovranno essere previamente concordate tra le parti, salvo quelle sanitarie di carattere estremamente urgente”). Ugualmente in Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 2010, n. 8676 secondo cui “il genitore non affidatario non ha diritto di interloquire sulle spese straordinarie a meno che non attengano in concreto a questioni di particolare interesse”.
Vi è da dire, tuttavia, che i principi che si rinvengono nelle decisioni sopra esaminate potrebbero non essere del tutto appaganti. Si consideri – per rimanere nell’esempio proposto proprio dalla decisione della Cassazione del 1999 – di un viaggio all’estero del figlio molto costoso ma che oggettivamente non costituisce una decisione di maggiore interesse da concordare come tale necessariamente. Il fatto che, in relazione a questa configurazione, non ne sia obbligatoria la preventiva concertazione potrebbe certamente creare problemi al genitore poi chiamato a sostenere la spesa. Per cui i principi indicati dalle sentenze di legittimità sopra richiamati sono di solito integrati nel senso – conforme a quanto deciso da Cass. civ. Sez. I, 8 giugno 2012, n. 9372 sopra richiamata – di includere tra le spese straordinarie necessariamente oggetto di previa concertazione non soltanto quelle che attengono a decisioni di maggiore interesse (come tali oggetto necessario di condivisione) ma anche tutte quelle decisioni che importano oneri economici notevoli.
In conclusione, secondo questo orientamento tradizionale, fatta eccezione per le spese mediche indifferibili ed urgenti che possono essere sostenute in assenza di comune accordo dando comunque titolo a conseguire il rimborso pro quota, per le altre spese straordinarie, inerenti questioni di maggiore interesse per i figli, il genitore che ne chieda il rimborso, al fine dell’accoglimento della domanda, ha l’onere di fornire la prova di aver provveduto a consultare preventivamente l’altro: l’assenza di qualsiasi consultazione esclude il rimborso.
– L’orientamento secondo cui l’obbligo di rimborso delle spese straordinarie consegue alla mancata
contestazione delle spese straordinarie
L’orientamento tradizionale della giurisprudenza soprattutto di legittimità che fa leva sulla previa concertazione delle decisioni di maggiore interesse che importano spese straordinarie si è gradualmente modificato nel corso del tempo sostituendosi spesso al previo consenso il mancato dissenso. Si è cioè ritenuto, in altre parole, secondo alcune decisioni sufficiente che il genitore chiamato al rimborso della spesa potesse esservi ritenuto obbligato non avendo dissentito rispetto alla spesa sostenuta dall’altro genitore.
In questa prospettiva, in passato alcune decisioni avevano proprio affermato che di fronte alle scelte di un genitore l’altro avrebbe potuto prestare acquiescenza ovvero avrebbe potuto dare un consenso postumo che poteva essere anche ravvisato nella mancata adozione di specifiche iniziative anche giudiziarie volta a contrastare una decisione non condivisa.
Per esempio Cass. civ. Sez. , 29 maggio 1999, n. 5262 aveva affermato che “in tema di separazione personale, l’art. 155 c.c., nel rimettere alle determinazioni di entrambi i genitori “le scelte di maggior interesse per i figli”, non impone, riguardo ad esse, alcuno specifico onere di informazione al genitore affidatario, dovendo tale onere ritenersi implicitamente gravante su quest’ultimo (sempre che il suo adempimento non rischi di risolversi in un danno per il minore in relazione alla indifferibilità della scelta) nel solo caso in cui l’informazione sia necessaria affinché il genitore non affidatario possa partecipare alla decisione con riguardo ad eventi eccezionali ed imprevedibili.
Ne consegue che, nelle scelte “di maggior interesse” della vita quotidiana del minore – quali, di regola, quelli attinenti alla sua istruzione, in relazione ai quali l’art. 155 citato prevede espressamente un dovere di vigilanza del genitore non affidatario – ciascun genitore, in ogni caso ed in ogni tempo, ha un autonomo potere di attivarsi nei confronti dell’altro per concordarne le eventuali modalità, e, in difetto, ricorrere all’autorità giudiziaria”. Il principio è stato affermato in relazione ad una vicenda in cui il genitore non affidatario, tenuto a corrispondere un contributo pari al 50% delle spese scolastiche del minore – così come disposto dalla sentenza di separazione – aveva contestato il diritto al rimborso della somma pretesa a tal titolo dal coniuge affidatario con riferimento alle spese sostenute per l’iscrizione del figlio presso un istituto scolastico privato non previamente concordata. In questa vicenda la Cassazione, premessa l’irrilevanza della inesistenza di un accordo tra i coniugi circa tale scelta scolastica, ha ritenuto sufficiente, per la sussistenza dell’obbligo di rimborso, l’esistenza del titolo giudiziale e la mancata, tempestiva adduzione da parte del genitore non affidatario di validi motivi di dissenso circa la scelta della scuola, a prescindere dalla circostanza che l’altro genitore gli avesse o meno comunicato tale determinazione.
Questo orientamento – sebbene formatosi nel vigore delle norme che differenziavano il genitore affidatario dal genitore non affidatario – è stato in seguito confermato da altre decisioni (Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2009, n. 2182; Cass. civ. Sez. 1, 27 aprile 2011, n. 9376) successive all’introduzione nel 2006 dell’affidamento condiviso.
L’orientamento è stato, invece, fortemente criticato da Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2012, n. 10174 in una
vicenda in cui era stato previsto l’affidamento congiunto della figlia ad entrambi i genitori e in cui era stato posto a carico del padre l’obbligo di provvedere a tutte le spese di abbigliamento, medico dentistiche e scolastiche senza previsione di alcun previo concerto tra i genitori. In questa vicenda il tribunale e la Corte d’appello avevano confermato un decreto ingiuntivo per svariate migliaia di euro ottenuto dalla madre per spese scolastiche sostenute per la figlia. Il padre si era opposto sostenendo di non aver concordato con la madre della ragazza quelle spese. La Cassazione accoglieva il ricorso del padre censurando la decisione della Corte d’appello che non aveva considerato che in caso di affidamento congiunto le decisioni di maggiore interesse vanno adottate di comune accordo.
– Il nuovo orientamento della giurisprudenza che fa leva sulla valutazione dell’interesse del figlio
anziché sulla previa concertazione delle spese
L’enfasi posta dalla sopra richiamata Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2012, n. 10174 sulle regole dell’affidamento
condiviso introdotte nel 2006 non ha avuto seguito e la giurisprudenza di legittimità ha operato negli ultimi anni una vera e propria svolta facendo decisamente leva (pragmaticamente) sulla valutazione dell’interesse del figlio anziché sulla necessaria previa condivisione delle spese straordinarie.
Già nel 2011 Cass. civ. Sez. I, 26 settembre 2011, n. 19607 aveva avanzato la tesi che “non è configurabile
a carico del genitore affidatario un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l’altro, in ordine alla determinazione delle spese straordinarie (nella specie, spese di soggiorno negli U.S.A. per la frequentazione di corsi di lingua inglese da parte di uno studente universitari di lingue) costituente decisione “di maggiore interesse” per il figlio, sussistendo, pertanto, a carico del coniuge non affidatario un obbligo di rimborso qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso”.
Questo orientamento – consapevolmente contrastante con la giurisprudenza che enfatizza l’affidamento condiviso (come si ricava dal fatto che richiama espressamente Cass. civ. Sez. , 29 maggio 1999, n. 5262 fortemente criticata, come si è detto, da Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2012, n. 10174) – è stato precisato molto chiaramente da Cass. civ. Sez. VI, 30 luglio 2015, n. 16175 che afferma il principio generale che “la mancata preventiva concertazione delle spese straordinarie da sostenere nell’interesse dei figli, in caso di rifiuto di provvedere al rimborso della quota di spettanza da parte del coniuge che non le ha effettuate, impone la verifica giudiziale della rispondenza delle spese all’interesse del minore, mediante la valutazione, riservata al giudice del merito, della commisurazione dell’entità della spesa rispetto all’utilità per il minore e della sostenibilità della stessa rapportata alle condizioni economiche dei genitori”.
A questo orientamento è stata data continuità con le decisioni successive. Così è stato con Cass. civ. Sez. VI,
3 febbraio 2016, n. 2127 che – richiamando espressamente in motivazione Cass. civ. Sez. VI, 30 luglio
2015, n. 16175 – ha ribadito che “non è configurabile a carico del coniuga affidatario o presso il quale sono
normalmente residenti i figli, anche nell’ipotesi di decisioni di maggiore interesse per questi ultimi, un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l’altro genitore, in ordine alla effettuazione e determinazione delle spese straordinarie, che, se non adempiuto, comporta la perdita del diritto al rimborso. Nel caso di mancata concertazione preventiva e di rifiuto di provvedere al rimborso della quota di spettanza da parte del coniuge che non le ha effettuate, il giudice è tenuto a verificare la rispondenza delle spese all’interesse del minore mediante la valutazione della commisurazione dell’entità della spesa rispetto all’utilità derivante ai figli e della sostenibilità della spesa stessa, rapportata alle condizioni economiche dei genitori”.
Nello stesso senso si è espressa Cass. civ. Sez. VI, 8 febbraio 2016, n. 2467 chiarendo che” in tema di spese
straordinarie sostenute nell’interesse dei figli, il mancato preventivo interpello del coniuge divorziato può essere sanzionato nei rapporti tra i coniugi ma non comporta l’irripetibilità delle spese (nella specie, relative all’iscrizione ad un corso sportivo ed all’attività scoutistica) effettuate nell’interesse del minore e compatibili con il tenore di vita della famiglia”.
Ed infine ha condiviso il nuovo orientamento Cass. civ. Sez. VI, 15 febbraio 2017, n. 4060 ribadendo che
in corso di separazione “non è configurabile a carico del coniuge affidatario un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l’altro, in ordine alla determinazione delle spese straordinarie, costituente decisione di maggiore interesse per il figlio”. Ne discende che sussiste, a carico del coniuge non affidatario, un obbligo di rimborso, qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso”. La ratio che la legislazione sull’affido condiviso privilegia – si legge in questa decisione – è sicuramente il raccordo dei genitori in materia di scelte educative che riguardano i figli, tanto è vero che, se agiscono d’intesa, essi possono in molti casi anche modificare di comune accordo le stesse indicazioni fomite dal giudice. Nondimeno, quando il rapporto tra i genitori non consente il raggiungimento di un’intesa, occorre assicurare ancora la tutela del migliore interesse del minore e l’opposizione di un genitore non può paralizzare l’adozione di ogni iniziativa che riguardi un figlio minorenne, specie se di rilevante interesse, e neppure è necessario ritrovare l’intesa prima che l’iniziativa sia intrapresa, fermo restando che compete al giudice, ove ne sia richiesto, verificare se la scelta adottata corrisponde effettivamente all’interesse del minore.
Il principio pertanto che oggi viene oggi applicato è che anche nel caso di spese straordinarie che dovessero
implicare decisioni di maggior interesse per i figli non è configurabile a carico del coniuge che vive con la prole,un obbligo di concertazione preventiva con l’altro genitore, in ordine alla effettuazione e determinazione delle spese straordinarie, fermo restando che compete al giudice, ove ne sia richiesto, verificare se la scelta adottata corrisponde effettivamente all’interesse del minore.
d) Giudice competente e questioni processuali nelle controversie sul mancato rimborso delle spese
straordinarie
La competenza in ordine alle controversie aventi ad oggetto il rimborso delle spese straordinarie relative ai figli sostenute da un genitore va determinata in ragione del valore della causa secondo i criteri ordinari, trattandosi di controversia diversa da quella concernente il regolamento dei rapporti tra i genitori ovvero la modifica delle condizioni della separazione, rientrante nella competenza funzionale del tribunale (Cass. civ. Sez. VI, 25 settembre 2014, n. 20303; Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2014, n. 6297; Cass. civ. Sez. I, 22 agosto 2006, n. 18240).
Nel caso, quindi, in cui il genitore onerato della contribuzione delle spese straordinarie, sia pure pro quota, non adempia, al fine di legittimare l’esecuzione forzata, occorre adire nuovamente l’autorità giudiziaria affinché accertil’effettiva sussistenza delle condizioni di fatto che determinano l’insorgenza stessa dell’obbligo di esborsodi quelle spese, e ne determini l’esatto ammontare (Cass. civ. Sez. I, 7 febbraio 2014, n. 2815; Cass. civ.Sez. I, 28 gennaio 2008, n. 1758).
È stato affermato nella medesima prospettiva da Cass. civ. Sez. I, 24 febbraio 2011, n. 4543 – richiamando
precedenti decisioni (Cass. civ. Sez. I, 29 gennaio 1999, n. 782 e Cass. civ. Sez. I, 29 aprile 1991,
n. 4722) – che l’ordinanza ex art. 708 c.p.c. non costituisce un titolo per l’emanazione di decreto ingiuntivo,
trattandosi di provvedimento (esaminabile soltanto nel contesto del procedimento cui accede) autonomamente presidiato da efficacia esecutiva, che opera in relazione alle somme che in detto titolo risultino determinate o determinabili con un semplice calcolo aritmetico, mentre, ove “l’obbligo inadempiuto di contribuzione afferisce anche alle spese straordinarie, genericamente considerate in quel provvedimento, in conformità ai principi che regolano il processo di esecuzione, è necessario acquisire il titolo esecutivo attraverso un intervento del giudice che accerti l’insorgenza stessa dell’obbligo di quelle spese, e ne determini l’esatto ammontare.
In Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2012, n. 10174 si ricorda molto opportunamente che il giudizio di opposizione
a decreto ingiuntivo si configura come un ordinario giudizio di cognizione, avente ad oggetto l’accertamento non soltanto della sussistenza dei requisiti di ammissibilità e validità del procedimento monitorio, ma anche della fondatezza della pretesa avanzata dal ricorrente, in ordine alla quale trovano applicazione le regole generali in tema di ripartizione dell’onere della prova; l’emissione del decreto ingiuntivo non determina infatti alcuna inversione nella posizione processuale delle parti, con la conseguenza che il ricorrente, pur assumendo formalmente la veste di convenuto, deve essere considerato attore in senso sostanziale, ed è pertanto tenuto a fornire la prova dei fatti costitutivi del credito fatto valere nel procedimento monitorio.
Di particolare interesse – anche se in controtendenza rispetto alle decisioni sopra richiamate – è la posizione assunta da Cass. civ. Sez. III, 23 maggio 2011, n. 11316 secondo cui il principio in base al quale in caso di mancata ottemperanza dell’obbligato il provvedimento che prevede l’obbligo di contribuire alle spese straordinarie richiede un ulteriore intervento del giudice volto ad accertare l’effettiva entità degli specifici esborsi cui si riferisce la condanna “non vale in relazione alle spese mediche e scolastiche ordinarie, il cui esborso deve considerarsi normale, secondo nozioni di comune esperienza; in tali ipotesi, il provvedimento costituisce titolo esecutivo e la determinazione del credito è rimessa al creditore procedente, il quale può provvedervi allegando idonea documentazione di spesa rilasciata da strutture pubbliche, ovvero da altri soggetti che siano specificamente indicati nel titolo o concordati preventivamente tra i coniugi”. La conclusione cui giunge la decisione in questione è che, in definitiva, in adeguamento dei principi generali alle peculiarità delle esecuzioni in materia di diritto di famiglia, la conclusione rigorosa di Cass., n. 1758 del 2008, della necessità di un indefinito reiterato ed ulteriore ricorso al giudice della cognizione per la formazione di una pluralità di nuovi titoli esecutivi, va temperata e mantenuta ferma con riferimento alle sole spese effettivamente straordinarie e diverse da quelle medico-sanitarie e scolastiche, siccome riguardanti eventi il cui accadimento sia oggettivamente incerto: al contrario, il provvedimento con cui in sede di separazione (non importa se consensuale o giudiziale, ovvero se provvisorio o definitivo, oppure se presidenziale o meno) si stabilisca, ai sensi dell’art. 155 c.c. comma 2, quale modo di contribuire al mantenimento dei figli, che il genitore non affidatario paghi, sia pure pro quota, le spese mediche e scolastiche ordinarie relative ai figli, costituisce esso stesso titolo esecutivo e non richiede, nell’ipotesi di non spontanea ottemperanza da parte dell’obbligato ed al fine di legittimare l’esecuzione forzata, un ulteriore intervento del giudice, qualora il genitore creditore possa allegare ed opportunamente documentare l’effettiva sopravvenienza degli specifici esborsi contemplati dal titolo e la relativa entità; ed impregiudicato beninteso il diritto dell’altro genitore di contestare – ex post ed in sede di opposizione all’esecuzione, dopo l’intimazione del precetto o l’inizio dell’espropriazione – la sussistenza del diritto di credito per la non riconducibilità degli esborsi a spese necessarie o per violazione delle modalità di individuazione dei bisogni del minore.
Questo orientamento – in base al quale per le spese mediche e scolastiche ordinarie in caso di mancata ottemperanza non è richiesto un ulteriore intervento del giudice volto ad accertare l’effettiva entità degli specifici esborsi – è stato ribadito di recente da Cass. civ. Sez. VI, 2 marzo 2016, n. 4182 dove si afferma che il provvedimento con il quale, in sede di separazione, si stabilisce che il genitore non affidatario paghi, sia pure “proquota”, le spese mediche e scolastiche ordinarie relative ai figli costituisce idoneo titolo esecutivo e non richiede un ulteriore intervento del giudice in sede di cognizione, qualora il genitore creditore possa allegare e documentare l’effettiva sopravvenienza degli esborsi indicati nel titolo e la relativa entità, salvo il diritto dell’altro coniuge di contestare l’esistenza del credito per la non riconducibilità degli esborsi a spese necessarie o per violazione delle modalità d’individuazione dei bisogni del minore.
Quindi per le spese mediche e scolastiche ordinarie viene invertito il tradizionale orientamento che prevede la previa necessaria richiesta id un decreto ingiuntivo. Il provvedimento che prevede queste spese costituisce titolo esecutivo e il debitore può contestare il diritto del genitore creditore in sede di opposizione all’esecuzione.
VI
Le nuove garanzie del diritto al mantenimento dei figli: l’art. 3, comma 2,
della legge 10 dicembre 2012, n. 219
a) Le garanzie reali e personali e il sequestro
Con una collocazione decentrata (e per questo anche poco visibile e poco conosciuta) rispetto alle norme in materia di affidamento e mantenimento dei figli in caso di scissione della coppia genitoriale (coniugata o meno), il
secondo comma dell’art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 di riforma della filiazione ha introdotto nell’ordinamento
una nuova disposizione di carattere generale a garanzia dei diritti dei figli agli alimenti e al mantenimento.
12
Se non fosse per il fatto che l’art. 3 della legge 219/2012 ha avuto una specifica visibilità in quanto il primo comma
ha modificato in modo significativo l’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile che distribuisce
le competenze tra tribunale ordinario e tribunale per i minorenni, questa nuova disposizione in tema di garanzie
per il mantenimento sarebbe passata del tutto inosservata.
Occorre premettere che, prima di tale riforma, le garanzie per l’esatto adempimento dell’obbligazione di mantenimento
verso i figli erano contenute nell’art. 156, 4° e 5° comma del codice civile per la separazione 13 e nell’art.
12 Legge 10 dicembre 2012, n. 219, art. 3 (Modifica dell’articolo 38 delle disposizioni per l’attuazione del codice civile e disposizioni
a garanzia dei diritti dei figli agli alimenti e al mantenimento)
1. (omissis)
2. Il giudice, a garanzia dei provvedimenti patrimoniali in materia di alimenti e mantenimento della prole, può imporre al genitore
obbligato di prestare idonea garanzia personale o reale, se esiste il pericolo che possa sottrarsi all’adempimento degli obblighi
suddetti. Per assicurare che siano conservate o soddisfatte le ragioni del creditore in ordine all’adempimento degli obblighi di cui
al periodo precedente, il giudice può disporre il sequestro dei beni dell’obbligato secondo quanto previsto dall’articolo 8, settimo
comma, della legge 1º dicembre 1970, n. 898. Il giudice può ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente
somme di denaro all’obbligato, di versare le somme dovute direttamente agli aventi diritto, secondo quanto previsto dall’articolo
8, secondo comma e seguenti, della legge 1º dicembre 1970, n. 898. I provvedimenti definitivi costituiscono titolo per l’iscrizione
dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’articolo 2818 del codice civile.
13 Art. 156 (Effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra i coniugi)
(omissis) 8, 1°, 2° e ultimo comma della legge sul divorzio 14 (in entrambi i casi accomunate a quelle previste per l’esatto adempimento delle obbligazioni di mantenimento coniugale). Nulla era previsto a garanzia dell’adempimento delle obbligazioni di mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio.
La tutela unificata e l’estensione anche alle obbligazioni strettamente alimentari (art. 433 e ss c.c.) costituiscono una novità.
Si tratta di norme che, in tema di obbligazioni verso i figli, sostituiscono quelle previste nell’art. 156 c.c. e
nell’art, 8 della legge sul divorzio che mantengono, naturalmente, validità per le obbligazioni di mantenimento tra coniugi e tra ex coniugi.
Con la nuova norma si prevede a garanzia delle obbligazioni alimentari e di mantenimento dei figli (sia nati nel matrimonio che fuori del matrimonio) che:
a) il giudice può imporre al genitore obbligato di prestare idonea garanzia personale o reale, se esiste il pericolo che possa sottrarsi all’adempimento delle obbligazioni patrimoniali in materia di alimenti e mantenimento dei figli;
b) il giudice può disporre il sequestro dei beni dell’obbligato secondo quanto previsto dall’articolo 8, settimo comma, della legge 1º dicembre 1970, n. 898, per assicurare che siano conservate o soddisfatte le ragioni del creditore in ordine all’adempimento delle obbligazioni sopra indicate
Si ritiene che il provvedimento che impone una garanzia o che dispone il sequestro debba essere adottato con la decisione definitiva ove ricorra il pericolo di inadempimento anche desunto da un eventuale inadempimento già verificatosi.
Per quanto riguarda il sequestro, una significativa caratteristica della nuova disposizione sta, inoltre, nel fatto che mentre nell’art. 156 c.c. il sequestro era possibile solo in caso di inadempimento, qui – come peraltro già nell’art. 8, ultimo comma, della legge sul divorzio – il sequestro è svincolato dall’inadempimento e correlato, invece, al pericolo di inadempimento.
b) L’iscrizione di ipoteca
Fa parte sempre del tema delle garanzie la previsione – ugualmente contenuta nel secondo comma (ultima
parte) dell’art. 3 della Legge 10 dicembre 2012, n. 219 – che i provvedimenti definitivi costituiscono titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’articolo 2818 del codice civile. Qui la legge generalizza in materia di mantenimento dei figli il contenuto dell’art. 156, 5° co. c.c. e 8, 2° co. della legge sul divorzio (“la sentenza costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’art. 2818 c.c.”) estendendolo, inoltre, anche ai decreti camerali che definiscono le procedure di affidamento e mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio.
La competenza è del giudice della causa in corso o, al di fuori della causa, del tribunale in camera di consiglio, adito ai sensi della norma generale di cui all’art. 38, 3° comma, disp. att. c.c.
c) L’immediata esecutività della decisione
Attiene ugualmente al tema delle garanzie la previsione dell’immediata efficacia esecutiva di tutti i provvedimenti (contenuta nell’art. 38, 3° co. disp. att. c.c. nel testo modificato dalla riforma del 2012 sulla filiazione). La nuova previsione (“Fermo quanto previsto per le azioni di stato il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi salvo che il giudici disponga diversamente”) allinea i decreti camerali (per i figli nati fuori dal matrimonio) alle sentenze (di separazione e divorzio) per le quali l’art. 282 c.p.c. e l’art. 4, comma 14, della legge sul divorzio prescrivono la provvisoria esecuzione tra le parti. Viene capovolta, quindi, in materia camerale connessa all’affidamento e al mantenimento la regola procedurale opposta contenuta nell’art. 741 c.p.c. secondo cui i decreti camerali in genere non hanno efficacia immediatamente esecutiva, salvo diverso avviso del giudice.
4. Il giudice che pronunzia la separazione può imporre al coniuge di prestare idonea garanzia reale o personale se esiste il pericolo che egli possa sottrarsi all’adempimento degli obblighi previsti dai precedenti commi e dall’articolo 155.
5. La sentenza costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’articolo 2818.
(omissis)
14 Art. 8, Legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio)
1. Il tribunale che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio può imporre all’obbligato di prestare idonea garanzia reale o personale se esiste il pericolo che egli possa sottrarsi all’adempimento degli obblighi di cui agli articoli 5 e 6.
2. La sentenza costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’art. 2818 del codice civile.
(omissis)
7. Per assicurare che siano soddisfatte o conservate le ragioni del creditore in ordine all’adempimento degli obblighi di cui agli articoli 5 e 6, su richiesta dell’avente diritto, il giudice può disporre il sequestro dei beni del coniuge obbligato a somministrare l’assegno.
Le somme spettanti al coniuge obbligato alla corresponsione dell’assegno di cui al precedente comma sono soggette a sequestro e pignoramento fino alla concorrenza della metà per il soddisfacimento dell’assegno periodico di cui agli articoli 5 e 6.
Ugualmente natura immediatamente esecutiva hanno i provvedimenti sul mantenimento contenuti in un decreto di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio (Cass. civ. Sez. III, 20 marzo 2012, n. 4376)
Ed inoltre, in base all’art. 189 disp. att. c.p.c. (richiamato per il divorzio dall’art. 4, comma 8 della legge 898/70) anche l’ordinanza con la quale il presidente del tribunale dà i provvedimenti provvisori e urgenti, nonché l’ordinanza del giudice istruttore che li dovesse modificare, costituisce titolo esecutivo. Ed ugualmente costituisce titolo esecutivo il verbale omologato di separazione consensuale (art. 711 c.p.c.) che consente anche l’iscrizione di ipoteca (Corte cost., 18 febbraio 1988, n. 186).

VII
L’ordine al terzo di versamento dell’assegno in caso di inadempimento da parte dell’obbligato
L’inadempimento – considerata, come si è sopra detto, la natura di titolo esecutivo di tutti i provvedimenti che prescrivono l’obbligo del versamento dell’assegno – consente al genitore o al titolare del diritto di mettere in esecuzione il titolo. E questo garantisce l’esecuzione relativamente all’obbligazione rimasta inadempiuta.
Tuttavia l’esecuzione non garantisce di per sé l’adempimento futuro. Ed in questa prospettiva, se i provvedimenti di sequestro dei beni del genitore obbligato e l’imposizione di garanzie reali e personali tutelano il minore e l’altro genitore rispetto al pericolo dell’inadempimento futuro, norme specifiche assicurano anche l’intervento del giudice per garantire in modo diretto e specifico l’adempimento futuro delle obbligazioni di mantenimento.
Le norme in questione sono contenute nel nuovo testo dell’art. 38 disp. att. c.c. che. generalizzano in una nuova disposizione, applicabile anche ai figli nati fuori dal matrimonio, quanto previsto nell’art. 156, 6° co. c.c. 15 e nell’art. 8 (dal 3° al 6° comma) della legge sul divorzio 16 che rimarranno validi per le sole obbligazioni di mantenimento tra coniugi ed ex coniugi.
Si prevede, in particolare, che il giudice può ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di denaro all’obbligato, di versare le somme dovute direttamente agli aventi diritto, secondo quanto previsto dall’articolo 8, secondo comma e seguenti, della legge 1º dicembre 1970, n. 898.
Poiché la norma attribuisce al giudice il potere di disporre la corresponsione diretta a carico del terzo (e non all’interessato di rivolgersi direttamente al terzo come previsto in caso di divorzio) il riferimento a quanto previsto nell’art. 8, sta ad indicare il meccanismo dell’esecuzione.
Anche in questo caso – come per i provvedimenti di natura cautelare di cui si parlato sopra – la competenza per l’adozione dei provvedimenti è del giudice della causa in corso o, al di fuori della causa, del tribunale in camera di consiglio, adito ai sensi della norma generale di cui all’art. 38, 3° comma, disp. att. c.c.
VIII
I contrasti tra genitori sul mantenimento dei figli
Il problema che ci si deve porre è se le questioni connesse all’inadempimento o all’inesatto adempimento in materia di mantenimento dei figli possano considerarsi una controversia in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale e quindi se possano costituire il contenuto delle procedure previste nell’art. 709-ter c.p.c.
A questa domanda nella prassi si dà per lo più risposta negativa, considerandosi controversie sull’esercizio del- 15 Art. 156 (Effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra i coniugi)
(omissis)
6. In caso di inadempienza, su richiesta dell’avente diritto, il giudice può disporre il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato e ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di danaro all’obbligato, che una parte di essa venga versata direttamente agli aventi diritto.
16 Art. 8, Legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio):
(omissis)
3. Il coniuge cui spetta la corresponsione periodica dell’assegno, dopo la costituzione in mora a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento del coniuge obbligato e inadempiente per un periodo di almeno trenta giorni, può notificare il provvedimento in cui è stabilita la misura dell’assegno ai terzi tenuti a corrispondere periodicamente somme di denaro al coniuge obbligato con l’invito a versargli direttamente le somme dovute, dandone comunicazione al coniuge inadempiente.
4. Ove il terzo cui sia stato notificato il provvedimento non adempia, il coniuge creditore ha azione diretta esecutiva nei suoi confronti per il pagamento delle somme dovutegli quale assegno di mantenimento ai sensi degli articoli 5 e 6 .
5. Qualora il credito del coniuge obbligato nei confronti dei suddetti terzi sia stato già pignorato al momento della notificazione all’assegnazione e alla ripartizione delle somme fra il coniuge cui spetta la corresponsione periodica dell’assegno, il creditore procedente e i creditori intervenuti nell’esecuzione, provvede il giudice dell’esecuzione.
6. Lo Stato e gli altri enti indicati nell’art. 1 del testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, con decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1950, n. 180, nonché gli altri enti datori di lavoro cui sia stato notificato il provvedimento in cui è stabilita la misura dell’assegno e l’invito a pagare direttamente al coniuge cui spetta la corresponsione periodica, non possono versare a quest’ultimo oltre la metà delle somme dovute al coniuge obbligato, comprensive anche degli assegni e degli emolumenti accessori.
(omissis) la responsabilità genitoriale soltanto quelle in ordine all’affidamento. Tuttavia, tra i provvedimenti relativi alle “modalità dell’affidamento”, per l’ampiezza della formula usata, dovrebbero rientrare anche i provvedimenti che stabiliscono obblighi suscettibili di una valutazione economica e che incidono sulla consistenza patrimoniale dei genitori, come tutti gli obblighi che possono essere imposti nella sentenza di divorzio o di separazione per il mantenimento dei figli o relativi all’assegnazione della casa familiare. Effettivamente le pronunce di contenuto economico non possono essere considerate separatamente da quelle aventi ad oggetto obblighi di natura più strettamente personale. L’incipit dell’art. 709-ter (“Per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità dell’affidamento…”) non depone, affatto, con certezza a favore della tesi negativa. Ugualmente il procedimento – individuato nella seconda parte della norma 17 – lascerebbe intendere che le controversie possano essere ragionevolmente anche quelle di natura economica.
Ed in effetti stando ad una parte della giurisprudenza le controversie sulla ripartizione delle spese sarebbero di competenza del giudice della crisi genitoriale o della separazione o del divorzio, nei relativi procedimenti o ex art. 710 c.p.c. o anche ex art. 709-ter c.p.c. (Trib. Bologna 19 giugno 2007 secondo cui tra le controversie prese in considerazione dall’art. 709-ter c.p.c. rientrano anche quelle inerenti al mantenimento del minore e alla ripartizione del contributo tra i genitori comportando l’esercizio della potestà l’assunzione anche di decisioni che possono avere riflessi economici). Analogamente ha ritenuto Trib. Roma, 5 giugno 2007.
Anche secondo Trib. Padova, 3 ottobre 2008 e Trib. Varese, 7 maggio 2010 i provvedimenti sanzionatori
di cui all’art. 709-ter, co. 2, c.p.c. possono essere disposti anche nel caso di inadempimento all’obbligo di mantenimento del figlio ed pertanto l’autoriduzione dell’assegno dovuto a titolo di contributo al mantenimento dei figli può comportare l’ammonimento del genitore inadempiente e la condanna alla sanzione pecuniaria, secondo quanto previsto dall’art. 709-ter, co. 2, c.p.c.
Più recentemente l’estensione dell’art. 709-ter c.p.c. alle controversie in materia di mantenimento è stata riproposta da Trib. Nocera Inferiore, 22 maggio 2013 secondo cui l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 709-ter c.p.c. ha, i propri presupposti di fatto nell’inadempimento di uno dei coniugi a quanto stabilito dai provvedimenti presidenziali nonché in comportamenti lesivi degli interessi della prole: ne consegue che tali sanzioni devono essere applicate nelle ipotesi in cui uno dei coniugi non adempia agli obblighi di mantenimento disposti dai suddetti provvedimenti e non visiti regolarmente i figli in modo tale da mantenere e sviluppare con gli stessi un corretto rapporto genitoriale.
IX
La revisione delle obbligazioni di mantenimento
Sul piano sostanziale l’art. 337-quinquies (Revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli) prevede che i genitori hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della responsabilità genitoriale su di essi e delle eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo.
Il contenitore processuale è diverso a seconda che la richiesta di revisione sia fatta in corso di causa (art. 709, ult. comma, c.p.c. o art. 4, comma 8, ultima parte, della legge sul divorzio) o successivamente al giudicato (art. 710 c.p.c. e art. 9, 1° comma, della legge sul divorzio)
X
La prescrizione
Il diritto del figlio ad essere mantenuto ha natura di diritto indisponibile e quindi, ai sensi dell’art. 2934 c.c., è imprescrittibile (Cass. civ. Sez. I, 30 dicembre 2011, n. 30196; Cass. civ. Sez. I, 25 ottobre 2000, n.
14022; Cass. sez. I, 26 febbraio 1988, n. 2043)18.
Stabilita la misura della corresponsione, per provvedimento del giudice o per accordo tra i genitori, la prescrizione del diritto è quinquennale a norma dell’art. 2948 n. 4 secondo cui si prescrivono in cinque anni “gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi” (Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 1998, n. 12333; Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975).
17 Art. 709-ter c.p.c. (Soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni)
(omissis)
2. A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente:
1) ammonire il genitore inadempiente;
2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore;
3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro;
4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un
massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende.
(omissis)
18 cfr la voce PRESCRIZIONE NEL DIRITTO DI FAMIGLIA
MANTENIMENTO DEI FIGLI MINORI
In tal caso, comunque, la prescrizione rimane sospesa ai sensi dell’art. 2941 n. 1 tra coniugi – intendendosi tali, secondo l’orientamento più recente, i coniugi fino al giudicato della separazione (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981 e Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078) e non fino al divorzio come ritenuto in passato – mentre non può trovare applicazione la causa di sospensione prevista nell’art. 2941 n. 2 (sospensione tra chi esercita la responsabilità genitoriale di cui all’articolo 316 o i poteri a essa inerenti e le persone che vi sono sottoposte) in quanto, benché il diritto sia del figlio, il titolare della pretesa è il genitore al quale l’altro deve corrispondere l’assegno di mantenimento per il figlio.
XI
Le conseguenze penali e civili dell’inadempimento
a) La sanzione penale
L’art. 3 della legge 8 febbraio 2006 n. 54 sull’affidamento condiviso dei figli in sede di separazione prevede che “In caso di violazione degli obblighi di natura economica si applica l’articolo 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898”. Il rinvio vale anche per l’inadempimento agli obblighi di mantenimento stabiliti in sede divorzile e per le violazioni verso i figli nati fuori dal matrimonio, in virtù di quanto previsto nell’art. 4, comma 2, della stessa legge (“Le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”)19.
Si comprende dal testo della norma che il reato implica l’omissione del versamento dell’assegno di mantenimento stabilito dal giudice civile (Cass. pen. Sez. VI, 11 dicembre 2015, n. 7764).
Ebbene il richiamato art. 12-sexies della legge sul divorzio prevede che nel caso di sottrazione agli obblighi di mantenimento “si applicano le pene previste dall’art. 570 del codice penale”.
È pacifico che si tratti di un rinvio quoad poenam all’art. 570, e ci si chiede, però, a quale comma dell’articolo 570 del codice penale la norma faccia rinvio. Le pene previste dal primo e dal secondo comma dell’art. 570 c.p.
20 sono diverse e quindi la soluzione di questo problema non è di scarsa rilevanza.
L’opinione interpretativa prevalente sull’articolo 570 del codice penale era, in passato, quella di considerare giuridicamente l’articolo 570 del codice penale come una norma unitaria che prevede due commi in progressione criminosa tra loro: un primo comma (violazione di assistenza in genere) come ipotesi base e un secondo comma (violazione di assistenza materiale) come ipotesi aggravata (Cass. pen. Sez. VI, 21 novembre 1991, n. 479).
Pertanto era piuttosto scontato interpretare il rinvio contenuto nella normativa sul divorzio e sulla separazione come un rinvio al secondo comma, cioè alla disposizione che era considerata specificamente la violazione agli obblighi di assistenza materiale ed economica. Ed infatti la giurisprudenza riteneva pacificamente che il rinvio operato dall’art. 12-sexies all’art. 570 del codice penale si dovesse considerare effettuato al secondo comma della disposizione codicistica “trattandosi di violazione di obbligo di natura economica e non di assistenza morale” (Cass. pen. sez. VI, 28 marzo 2012, n. 12516; Cass. pen. Sez. VI, 24 giugno 2009, n. 28557; Cass.
pen. Sez. VI, 7 dicembre 2006, n. 18450; Cass. pen. Sez. VI, 31 ottobre 1996, n. 1071).
Tuttavia, effettivamente, l’art. 12-sexies della legge sul divorzio, nello stabilire che, nei casi in essa contemplati, si applicano le pene previste dall’art. 570 codice penale, non indica a quale dei due diversi modelli sanzionatori è fatto riferimento: quello del comma 1 (reclusione alternativa alla multa) o quello del comma 2 (reclusione congiunta alla multa).
La questione si impose all’attenzione con forza allorché alcune decisioni misero in discussione l’interpretazione unitaria dell’art. 570 codice penale, ritenendo che il primo e il secondo comma hanno ad oggetto fatti del tutto eterogenei nella loro storicità e considerazione sociale (Cass. pen. Sez. VI, 17 gennaio 2011, n. 3016; Cass. pen. Sez. VI, 20 ottobre 2011, n. 3881; Cass. pen. Sez. VI, 13 marzo 2012, n. 12307) e pertanto integrano due reati autonomi.
E quindi il problema dell’individuazione esatta del comma dell’art. 570 a cui considerare effettuato il rinvio divenne ineludibile e fu affrontato dalle Sezioni Unite con la sentenza Cass. pen. Sez. Unite, 31 gennaio 2013, n. 23866 (riferita espressamente anche alle regole sul mantenimento dei figli) con la quale è stata definitivamente abbandonata la tradizionale interpretazione unitaria sull’articolo 570, e si è aderito alla tesi dell’autonomia dei 19 Cfr la voce VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI DI ASSISTENZA FAMILIARE
20 Art. 570 c.p. (Violazione degli obblighi di assistenza familiare)
Chiunque, abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale, o alla qualità di coniuge, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 103 a euro 1.032.
Le dette pene si applicano congiuntamente a chi:
1) malversa o dilapida i beni del figlio minore o del pupillo o del coniuge;
2) fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa.
Il delitto è punibile a querela della persona offesa salvo nei casi previsti dal numero 1 e, quando il reato è commesso nei confronti dei minori, dal numero 2 del precedente comma.
Le disposizioni di questo articolo non si applicano se il fatto è preveduto come più grave reato da un’altra disposizione di legge.
due commi, considerato che negli obblighi di assistenza rientrano anche quelli di assistenza materiale concernenti la corresponsione dei mezzi economici. Si è concluso quindi che “rientra nella tutela penale apprestata dall’art. 570 codice penale, primo comma, la violazione dei doveri di assistenza materiale di coniuge e di genitore, previsti dalle norme del codice civile”.
Se si rilegge con attenzione l’art. 570 del codice penale – alla luce di queste considerazioni – si può notare come il testo della disposizione conduce facilmente a questa conclusione se i due commi si interpretano effettivamente non come un unico reato (ipotesi base e aggravante) ma come due reati autonomi: il primo comma punisce con pene alternative le violazioni ai doveri assistenziali in genere (ivi comprese quelle di natura economica) mentre il secondo comma punisce con pene congiunte il comportamento più grave di chi lascia i propri familiari senza mezzi di sussistenza. Il principio di diritto affermato è quindi che: “il generico rinvio, quoad poenam, all’art. 570 codice penale, effettuato dall’articolo 12-sexies della legge sul divorzio – e dall’articolo 3 della legge sull’affidamento condiviso – deve intendersi riferito alle pene alternative previste dal comma primo della disposizione codicistica”.
Pertanto il delitto previsto dall’art. 12-sexies della legge sul divorzio si configura per la semplice omissione di corrispondere l’assegno nella misura disposta dal giudice, prescindendo dalla prova dello stato di bisogno dell’avente diritto e senza necessità che tale inadempimento civilistico comporti anche il venir meno dei mezzi di sussistenza per il beneficiario dell’assegno. Il giudice graduerà la sanzione a seconda della gravità. Ove invece il comportamento omissivo comporti anche la privazione dei mezzi di sussistenza troverà applicazione il secondo comma dell’art. 570 del codice penale.
Successivamente alla richiamata decisione delle Sezioni Unite che hanno scisso in due reati autonomi i comportamenti sanzionati rispettivamente nel primo e nel secondo comma dell’art. 570 c.p. la giurisprudenza si è allineata a questa indicazione: così hanno fatto per esempio Cass. pen. Sez. VI, 21 ottobre 2015, n. 535; Cass. pen. Sez. VI, 10 novembre 2015, n. 49465; Cass. pen. Sez. VI, 11 dicembre 2015, n. 7764; Cass. pen. Sez. VI, 8 luglio 2015, n. 36265; Cass. pen. Sez. VI, 27 settembre 2016, n. 43341, precisandosi in sostanza, molto chiaramente, che la mancata osservanza dell’obbligo del versamento dell’assegno di mantenimento per i figli non integra il reato di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, c.p. (come si riteneva per lo più in passato), giacché il generico rinvio, quoad poenam, all’art. 570 c.p., deve intendersi riferito alle pene alternative previste dall’art. 570, comma 1, c.p. Ne deriva che mentre può essere realizzata la violazione dell’art. 12-sexies della legge sul divorzio (richiamato dall’art. 3 della legge 8 febbraio 2006, n. 54) senza che siano fatti mancare i mezzi di sussistenza alle parti offese indicate nell’art. 570, comma 2, n. 2, c.p., viceversa il genitore separato che fa mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori, omettendo di versare l’assegno di mantenimento, commette un unico reato, quello previsto dall’art. 570, comma 2, n. 2, c.p. (così anche App. Roma Sez. III, 11 ottobre 2016).
In tal caso la violazione meno grave (l’omissione di versamento dell’assegno di mantenimento) per il principio di assorbimento, volto ad evitare il bis in idem sostanziale, perde infatti la sua autonomia e viene ricompresa nella accertata sussistenza della più grave violazione della norma prevalente per severità di trattamento sanzionatorio (aver fatto mancare i mezzi di sussistenza nei confronti del beneficiario dell’assegno di mantenimento).
Quindi nell’ambito delle condotte punite dai due commi dell’art. 570 c.p. – cui fa rinvio quoad poenam l’art,
12-sexies della legge sul divorzio (richiamato dalla legge n. 54 del 2006 per i figli) l’inosservanza dell’obbligazione di mantenimento può esaurirsi nel mancato versamento dell’assegno (comma 1) oppure può integrare il più grave comportamento del far mancare i mezzi di sussistenza (comma 2).
Resta aperto il problema della procedibilità.
L’art. 570 del codice penale prevede la procedibilità a querela salvo il caso in cui il reato di cui al secondo comma (malversazione o privazione dei mezzi di sussistenza) sia commesso in danno di minori.
Ebbene, dopo la decisione delle Sezioni Unite sarebbe del tutto ragionevole ritenere che il rinvio all’art. 570 c.p. possa essere anche riferibile al sistema della procedibilità. Pertanto mentre la violazione dell’obbligo di versamento dell’assegno connesso al mantenimento dovrebbe essere punibile a querela della persona offesa (che è il genitore al quale l’assegno viene corrisposto) (primo comma), viceversa il far mancare i mezzi di sussistenza al figlio dovrebbe rientrare senz’altro nei casi di procedibilità d’ufficio a cui si riferisce il secondo comma dell’art. 570 c.p.
Sennonché, benché si tratti di una opinione assolutamente ragionevole, non è stata questa la conclusione a cui è giunta la Corte costituzionale davanti alla quale la questione è stata sollevata proprio dopo la chiarissima posizione espressa dalle Sezioni Unite sulla duplicità dei reati previsti nell’art. 570 del codice penale. La Corte ha affermato che non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898, nella parte in cui non stabilisce per tale reato, come interpretato dal diritto vivente, la procedibilità a querela, in quanto “i tertia comparationis evocati dal giudice rimettente – specificamente artt. 388, co. 2, e 570 c.p., nonché art. 6 legge n. 154 del 2001 – presentano elementi differenziali tali da non rendere automatica la richiesta estensione del regime di perseguibilità a querela alla figura criminosa considerata. Parimenti essi non consentono di ritenere valicato il limite dell’ampia discrezionalità di cui il legislatore fruisce nella scelta del regime di procedibilità dei reati. Ad esso spetterà, comunque, ricomporre eventuali disarmonie presenti nel sistema delle incriminazioni relative ai rapporti familiari, sulla base di una ponderata valutazione degli interessi coinvolti”
(Corte cost. 5 novembre 2015, n. 220).
Ed a questa conclusione si è attenuta immediatamente la giurisprudenza come per esempio Cass. pen. Sez.
VI, 1 aprile 2015, n. 15918 dove si ripete semplicisticamente che per il delitto previsto dall’art. 12-sexies, L.
1 dicembre 1970, n. 898, si procede d’ufficio, in quanto il rinvio all’art. 570 c.p., voluto dal legislatore, si riferisce esclusivamente al trattamento sanzionatorio e non anche al terzo comma, il quale prevede la procedibilità a querela della persona offesa.
La soluzione contraria – e cioè prevedere la procedibilità a querela per il mancato versamento dell’assegno di mantenimento (primo comma dell’art. 570 c.p.) e la procedibilità d’ufficio per la condotta di chi fa mancare i mezzi di sussistenza ai figli (secondo comma) – non deve essere apparsa politicamente corretta ed è lasciata quindi alla responsabilità del legislatore. In ogni caso il giudice è tenuto a valutare se l’omissione incriminata realizza la fattispecie di cui al primo comma o quella di cui al secondo comma, derivandone conseguenze sanzionatorie differenziate. E’ evidente tuttavia che con la previsione della procedibilità d’ufficio resta sempre impedita una conclusione indolore del procedimento per remissione della eventuale querela che vi avesse dato corso.
b) I riflessi dell’inadempimento sulla responsabilità genitoriale
Ci si deve anche chiedere se l’omesso versamento dell’assegno di mantenimento possa integrare un contegno genitoriale a cui possa conseguire la pronuncia di decadenza della responsabilità genitoriale (ai sensi dell’art. 330 c.c in cui si prescrive che “Il giudice può pronunziare la decadenza dalla responsabilità genitoriale quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio”).
La descrizione della condotta (“…quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio”) sembra tassativa ma in realtà può essere riempita dei più vari contenuti.
I comportamenti contrari ai doveri dei genitori possono essere di carattere “commissivo” (maltrattare, minacciare, ingiuriare) ovvero “omissivo” (trascurare, abbandonare). La violazione dei doveri genitoriali o l’abuso di essi sono concetti da intendere in senso ampio, tali da comprendere contegni e comportamenti che rendono inidoneo il genitore a svolgere le funzioni educative che il diritto naturale gli assegna. In verità è quasi impossibile estrarre dai precedenti della giurisprudenza tipologie di comportamenti che legittimano la decadenza, in quanto qualsiasi comportamento in sé potrebbe legittimarla. Quello che rileva è non tanto il tipo di comportamento quanto il pregiudizio in concreto che esso arreca. Per questo motivo non è del tutto appagante soffermarsi sugli esempi tratti dai repertori della giurisprudenza che potrebbero trarre anche in inganno.
Il “grave pregiudizio” sofferto dal figlio deve essere collegato da un nesso causale con il comportamento abusante del genitore. L’espressione “grave pregiudizio” ricorre in altre disposizioni: per esempio nell’art. 342-bis c.c. sugli ordini di protezione (“…la condotta…. causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà….) o nell’art. 151 c.c. sulla separazione giudiziale (…recare grave pregiudizio alla educazione della prole”).
Ciascuna definizione presiede a differenti tipologie di tutela. In tutte queste ipotesi l’unico dato che appare
unificante è quello dell’aggettivazione “grave” che appare tendenzialmente indicativa di un criterio per così dire di “determinatezza” nel senso che non tutti i comportamenti pregiudizievoli verso un figlio minore giustificano l’adozione di un provvedimento ablativo ma solo quei comportamenti che arrecano una sofferenza significativa.
Non è, tuttavia, agevole – né forse possibile – indicare quali sono le disfunzioni della responsabilità genitoriale che legittimano un provvedimento di decadenza, essendo molteplici e non sempre lineari le situazioni riconducibili al comportamento del genitore che in relazione alla responsabilità genitoriale “viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio”.
In questa prospettiva si discute, appunto, se anche le omissioni di natura economica possano fondare una pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale.
Ebbene, la privazione del mantenimento potrebbe essere certamente idonea ad integrare una condizione di grave pregiudizio il figlio ove si traduca in quella malversazione o privazione dei mezzi di sussistenza ai quali fa riferimento il secondo comma dell’art. 570 c.p. ma non è da escludere che anche l’omissione sistematica del mantenimento possa portare ad una condizione di così grave sofferenza e pregiudizio per il figlio del figlio da far ritenere del tutto applicabile l’art. 330 del codice civile.
c) il risarcimento dei danni
Come si è visto all’inizio, la violazione del l’obbligo di mantenimento gravante sui genitori dalla nascita può essere senz’altro fonte di risarcimento dei danni ove inadempiuto (Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652;
Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205 in cui il principio viene affermato con riguardo al problema
del riconoscimento tardivo del figlio nato fuori dal matrimonio).
Altra giurisprudenza si è soffermata anche sul tema del risarcimento dei danni cagionati dalla violazione dei
provvedimenti che dispongono l’obbligo di mantenimento.
In passato già Cass. civ. Sez. I, 7 giugno 2000, n. 7713 in una vicenda dove l’obbligo risarcitorio trovava la
sua fonte nella circostanza che dopo la condanna alla corresponsione del mantenimento in un caso di tardivo riconoscimento, il padre non aveva versato per anni il mantenimento. Questo comportamento venne sanzionato con la condanna al risarcimento dei danni. In questa sentenza la misura risarcitoria conseguiva non all’omissione del riconoscimento spontaneo ma all’illecito consistente nell’aver omesso per anni il pagamento del mantenimento a cui il padre era stato condannato.
Il principio che la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole non trova sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, potendo integrare gli estremi dell’illecito civile, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, è stato riaffermato da Cass. civ. Sez. I, 22/07/2014, n. 16657 secondo cui il danno non patrimoniale da violazione dei doveri di mantenimento, istruzione e educazione dei genitori verso la prole può essere provato per presunzioni e facendo ricorso alle nozioni di comune esperienza e va liquidato in via equitativa potebndosi prendere a riferimento, con gli opportuni correttivi, le somme previste dalle tabelle per la perdita del rapporto parentale e da Cass. civ. Sez. VI, 16 febbraio 2015, n. 3079 dove si ribadisce che nella giurisprudenza di legittimità è stata, infatti, da tempo enucleata la nozione di illecito endofamiliare. Su tale base, la violazione dei relativi doveri non trova la sua sanzione, necessariamente e soltanto, nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia. La natura giuridica di tali obblighi, infatti, comporta che la relativa violazione, nell’ipotesi in cui provochi la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c. Il che vuoi dire che è sempre risarcibile il pregiudizio di natura non patrimoniale, quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale.
Giurisprundenza
App. Roma Sez. III, 11 ottobre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare il totale inadempimento all’obbligo di mantenimento integra senza
dubbio il reato di cui all’art. 570, comma 2, c.p. per il mancato soddisfacimento delle esigenze primarie e vitali della prole e di
quelle complementari della vita quotidiana.
Cass. pen. Sez. VI, 27 settembre 2016, n. 43341 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di violazione degli obblighi di natura economica posti a carico del genitore separato, il disposto di cui all’art. 12-sexies
legge 1 dicembre 1970, n. 898 (richiamato dall’art. 3 della legge 8 febbraio 2006 n. 54) si applica anche all’inadempimento
dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento in favore dei figli minori, stabilito dal Presidente del tribunale tra le
disposizioni conseguenti all’autorizzazione dei coniugi a vivere separati. (In motivazione, la S.C. ha precisato che il citato art. 3
sanziona la violazione degli “obblighi di natura economica”, senza operare alcuna distinzione quanto alla loro fonte).
Cass. civ. Sez. VI, 14 luglio 2016, n. 14417 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento da cui conseguono tutti i doveri propri della
procreazione legittima tra i quali l’obbligo di mantenimento. La relativa obbligazione si collega allo status genitoriale e assume
decorrenza dalla nascita del figlio, con la conseguenza che l’altro genitore, il quale nel frattempo ha sostenuto l’onere di mantenimento
anche per la porzione di pertinenza del figlio dichiarato giudizialmente, ha diritto di regresso per la corrispondente quota.
Cass. civ. Sez. VI, 22 aprile 2016, n. 8151 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In merito alla richiesta di rivalutazione dell’assegno di mantenimento disposto, in sede di divorzio, in favore dei figli minori,
in ragione al fatto notorio della crescita dei figli e dell’aumento delle loro esigenze, deve rilevarsi che le esigenze dei figli, in
concomitanza con l’aumento della loro età e alla conseguente necessità di un incremento dell’assegno, si può in linea generale
consentire; tuttavia, ai fini di un eventuale aumento dell’importo, si dovrà necessariamente effettuare una valutazione concreta
delle esigenze dei figli medesimi, sulla base delle condizioni economiche dei genitori.
Cass. civ. Sez. VI, 2 marzo 2016, n. 4182 (Famiglia e Diritto, 2016, 5, 507)
Il provvedimento con il quale, in sede di separazione, si stabilisce che il genitore non affidatario paghi, sia pure “pro quota”, le
spese mediche e scolastiche ordinarie relative ai figli costituisce idoneo titolo esecutivo e non richiede un ulteriore intervento del
giudice in sede di cognizione, qualora il genitore creditore possa allegare e documentare l’effettiva sopravvenienza degli esborsi
indicati nel titolo e la relativa entità, salvo il diritto dell’altro coniuge di contestare l’esistenza del credito per la non riconducibilità
degli esborsi a spese necessarie o per violazione delle modalità d’individuazione dei bisogni del minore.
Cass. civ. Sez. V, 17 febbraio 2016, n. 3110 (Famiglia e Diritto, 2016, 4, 400)
Gli atti di trasferimento immobiliare contemplati negli accordi di separazione consensuale tra coniugi godono dell’esenzione
fiscale, senza che rilevi che gli stessi siano solo occasionalmente generati dalla separazione ovvero che non siano connessi
all’affidamento dei figli, al loro mantenimento ed a quello del coniuge, o al godimento della casa di famiglia. Deve riconoscersi
il carattere di negoziazione globale a tutti gli accordi di separazione che, anche mediante la previsione di trasferimenti mobiliari
od immobiliari, siano volti a definire in modo tendenzialmente stabile la crisi coniugale, destinata a sfociare, di lì a breve, nella
cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario o nello scioglimento del matrimonio civile, ovvero in un divorzio non
solo prefigurato, ma voluto dalle parti, in presenza delle necessarie condizioni di legge. Ne deriva l’impossibilità di negare che
tali accordi, a prescindere dalla forma che concretamente vengano ad assumere, debbano intendersi quali “atti relativi al procedimento
di separazione o divorzio” e come tali possano usufruire dell’esenzione di cui all’art. 19 della legge n. 74 del 1987,
nel testo conseguente alla pronuncia n. 154 del 1999 della Corte Costituzionale, salvo che l’Amministrazione contesti e provi,
secondo l’onere probatorio cadente su di essa, la finalità elusiva degli atti medesimi. Gli accordi che prevedono, nel contesto di
una separazione tra coniugi, atti comportanti trasferimenti patrimoniali dall’uno all’altro coniuge o in favore dei figli, essendo riconducibili
nell’ambito delle “condizioni della separazione”, debbono intendersi quali “atti relativi al procedimento di separazione
o divorzio”; ne consegue che, in quanto tali, gli stessi ben possono usufruire della esenzione prevista dall’art. 19 della legge n.
74 del 1987, fatto salvo che l’Amministrazione contesti e provi, secondo l’onere probatorio posto a suo carico, la finalità elusiva
degli atti medesimi.
MANTENIMENTO DEI FIGLI MINORI
Cass. civ. Sez. VI, 15 febbraio 2017, n. 4060 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione dei coniugi, riguardo ai rapporti con i figli, non è configurabile a carico del coniuge affidatario un obbligo
di informazione di concertazione preventiva con l’altro, in ordine alla determinazione delle spese straordinarie, costituente decisione
“di maggiore interesse” per il figlio. Ne discende che sussiste, a carico del coniuge non affidatario, un obbligo di rimborso,
qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso”. La ratio che la legislazione sull’affido condiviso privilegia
è sicuramente il raccordo dei genitori in materia di scelte educative che riguardano i figli, tanto è vero che, se agiscono d’intesa,
essi possono in molti casi anche modificare di comune accordo le stesse indicazioni fomite dal giudice. Nondimeno, quando il
rapporto tra i genitori non consente il raggiungimento di un’intesa, occorre assicurare ancora la tutela del migliore interesse del
minore e l’opposizione di un genitore non può paralizzare l’adozione di ogni iniziativa che riguardi un figlio minorenne, specie se
di rilevante interesse, e neppure è necessario ritrovare l’intesa prima che l’iniziativa sia intrapresa, fermo restando che compete
al giudice, ove ne sia richiesto, verificare se la scelta adottata corrisponde effettivamente all’interesse del minore.
Cass. civ. Sez. VI, 3 febbraio 2016, n. 2127 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è configurabile a carico del coniuge affidatario o presso il quale sono normalmente residenti i figli, anche nell’ipotesi di
decisioni di maggiore interesse per questi ultimi, un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l’altro genitore,
in ordine alla effettuazione e determinazione delle spese straordinarie, che, se non adempiuto, comporta la perdita del diritto al
rimborso. Nel caso di mancata concertazione preventiva e di rifiuto di provvedere al rimborso della quota di spettanza da parte
del coniuge che non le ha effettuate, il giudice è tenuto a verificare la rispondenza delle spese all’interesse del minore mediante
la valutazione della commisurazione dell’entità della spesa rispetto all’utilità derivante ai figli e della sostenibilità della spesa
stessa, rapportata alle condizioni economiche dei genitori.
Cass. civ. Sez. V, 3 febbraio 2016, n. 2111 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Gli atti di trasferimento immobiliare contemplati negli accordi di separazione consensuale tra coniugi godono dell’esenzione
fiscale, senza che rilevi che gli stessi siano solo occasionalmente generati dalla separazione ovvero che non siano connessi
all’affidamento dei figli, al loro mantenimento ed a quello del coniuge, o al godimento della casa di famiglia. Deve riconoscersi
il carattere di negoziazione globale a tutti gli accordi di separazione che, anche mediante la previsione di trasferimenti mobiliari
od immobiliari, siano volti a definire in modo tendenzialmente stabile la crisi coniugale, destinata a sfociare, di lì a breve, nella
cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario o nello scioglimento del matrimonio civile, ovvero in un divorzio non
solo prefigurato, ma voluto dalle parti, in presenza delle necessarie condizioni di legge. Ne deriva l’impossibilità di negare che
tali accordi, a prescindere dalla forma che concretamente vengano ad assumere, debbano intendersi quali “atti relativi al procedimento
di separazione o divorzio” e come tali possano usufruire dell’esenzione di cui all’art. 19 della legge n. 74 del 1987,
nel testo conseguente alla pronuncia n. 154 del 1999 della Corte Costituzionale, salvo che l’Amministrazione contesti e provi,
secondo l’onere probatorio cadente su di essa, la finalità elusiva degli atti medesimi. Gli accordi che prevedono, nel contesto di
una separazione tra coniugi, atti comportanti trasferimenti patrimoniali dall’uno all’altro coniuge o in favore dei figli, essendo riconducibili
nell’ambito delle “condizioni della separazione”, debbono intendersi quali “atti relativi al procedimento di separazione
o divorzio”; ne consegue che, in quanto tali, gli stessi ben possono usufruire della esenzione prevista dall’art. 19 della legge n.
74 del 1987, fatto salvo che l’Amministrazione contesti e provi, secondo l’onere probatorio posto a suo carico, la finalità elusiva
degli atti medesimi.
Cass. civ. Sez. VI, 8 febbraio 2016, n. 2467 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di spese straordinarie sostenute nell’interesse dei figli, il mancato preventivo interpello del coniuge divorziato può essere
sanzionato nei rapporti tra i coniugi ma non comporta l’irripetibilità delle spese (nella specie, relative all’iscrizione ad un corso
sportivo ed all’attività scoutistica) effettuate nell’interesse del minore e compatibili con il tenore di vita della famiglia.
Cass. pen. Sez. VI, 11 dicembre 2015, n. 7764 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di aver fatto mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori implica l’omissione del versamento dell’assegno di mantenimento
stabilito dal giudice civile e quest’ultima violazione non integra il reato di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, c.p., giacché il
generico rinvio, quoad poenam, all’art. 570 c.p., operato dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12-sexies, come modificato dalla
L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 21, (ed ora anche dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54, art. 3), deve intendersi riferito alle pene alternative
previste dall’art. 570, comma 1, c.p. Ne deriva che mentre può essere realizzata la violazione dalla L. 1 dicembre 1970, n.
898, art. 12-sexies, o della L. 8 febbraio 2006, n. 54, art. 3, senza che siano fatti mancare i mezzi di sussistenza alle parti offese
indicate nell’art. 570, comma 2, n. 2, c.p., il genitore separato che fa mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori, omettendo
di versare l’assegno di mantenimento, commette un unico reato, quello previsto dall’art. 570, comma 2, n. 2, c.p. La violazione
meno grave (l’omissione di versamento dell’assegno di mantenimento) per il principio di assorbimento, volto ad evitare il bis in
idem sostanziale, perde infatti la sua autonomia e viene ricompresa nella accertata sussistenza della più grave violazione della
norma prevalente per severità di trattamento sanzionatorio (aver fatto mancare i mezzi di sussistenza nei confronti del beneficiario
dell’assegno di mantenimento).
Cass. civ. Sez. I, 24 novembre 2015, n. 23978 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ove i genitori siano privi di mezzi economici, i parenti in linea collaterale (nella specie, le zie paterne) non possono essere condannati
a fornire loro quanto necessario ad adempiere ai doveri imposti dalla legge nei confronti dei figli, atteso che l’art. 148,
comma 2, c.c. (nella formulazione, applicabile “ratione temporis”, antecedente alle modifiche di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 154 del
2013) fa riferimento esclusivamente agli “ascendenti” e, quindi, ai soli parenti in linea retta.
Cass. pen. Sez. VI, 10 novembre 2015, n. 49465 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 570, comma secondo, n. 2, cod. pen., mentre deve escludersi ogni automatica
equiparazione dell’inadempimento dell’obbligo stabilito dal giudice civile alla violazione della legge penale, il giudice deve
accertare, anche nell’ipotesi di integrale corresponsione dell’assegno stabilito per il mantenimento, se la condotta dell’imputato
abbia inciso apprezzabilmente sulla disponibilità dei mezzi economici che lo stesso è tenuto a fornire ai beneficiari. (Nel caso
di specie, la Corte ha ritenuto corretta la decisione di merito secondo cui il mancato pagamento, da parte dell’imputato, della
propria quota del mutuo relativo all’abitazione familiare aveva ridotto le capacità finanziarie dell’altro coniuge affidatario, costretto
a far fronte all’intero debito, così finendo per incidere sui bisogni essenziali di vita del figlio minore, deprivato dei mezzi
di sussistenza primari.
Corte cost., 5 novembre 2015, n. 220 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898, aggiunto dall’art.
21 della L. n. 74/1987, impugnato in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui – nel disporre che al coniuge che si sottrae
all’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto a titolo di contributo al mantenimento di un figlio minore, si applicano le pene
previste dall’art. 570 c.p. – non stabilisce per tale reato, come interpretato dal diritto vivente, la procedibilità a querela. I tertia
comparationis evocati dal giudice rimettente – specificamente artt. 388, co. 2, e 570 c.p., nonché art. 6 legge n. 154 del 2001 –
presentano elementi differenziali tali da non rendere automatica la richiesta estensione del regime di perseguibilità a querela alla
figura criminosa considerata. Parimenti essi non consentono di ritenere valicato il limite dell’ampia discrezionalità di cui il legislatore
fruisce nella scelta del regime di procedibilità dei reati. Ad esso spetterà, comunque, ricomporre eventuali disarmonie presenti
nel sistema delle incriminazioni relative ai rapporti familiari, sulla base di una ponderata valutazione degli interessi coinvolti.
Cass. civ. Sez. VI, 30 luglio 2015, n. 16175 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mancata preventiva concertazione delle spese straordinarie da sostenere nell’interesse dei figli, in caso di rifiuto di provvedere
al rimborso della quota di spettanza da parte del coniuge che non le ha effettuate, impone la verifica giudiziale della rispondenza
delle spese all’interesse del minore, mediante la valutazione, riservata al giudice del merito, della commisurazione dell’entità
della spesa rispetto all’utilità per il minore e della sostenibilità della stessa rapportata alle condizioni economiche dei genitori.
Cass. pen. Sez. VI, 8 luglio 2015, n. 36265 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel reato di omessa corresponsione dell’assegno divorzile previsto dall’art. 12 sexies della legge sul divorzio (legge n. 898 del
1970), come modificato dall’art. 21 della legge n. 74 del 1987, il generico rinvio quoad poenam all’art. 570 c.p. deve intendersi
riferito alle pene alternative previste dal comma primo di quest’ultima disposizione.
Cass. civ. Sez. I, 1 luglio 2015, n. 13504 (Famiglia e Diritto, 2015, 10, 936)
L’affidamento condiviso dei figli minori, in quanto fondato sull’interesse esclusivo di questi ultimi, non elimina l’obbligo patrimoniale
di uno dei genitori di contribuire alle esigenze di vita della prole mediante la corresponsione di un assegno di mantenimento
a favore del genitore collocatario, dovendo quest’ultimo provvedere in misura più ampia alle spese correnti relative ai minori.
Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11894 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Devono intendersi spese straordinarie quelle che, per la loro rilevanza, imprevedibilità e imponderabilità, esulano dall’ordinario
regime di vita dei figli, cosicché la loro inclusione in via forfettaria nell’ammontare dell’assegno, posto a carico di uno dei genitori,
può rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità sancito dalla legge e con quello dell’adeguatezza del mantenimento
, nonché recare pregiudizio alla prole , che potrebbe essere privata di cure necessarie o di altri indispensabili apporti; pertanto,
pur non trovando la distribuzione delle spese straordinarie una disciplina specifica nelle norme inerenti alla fissazione dell’assegno
periodico, deve ritenersi che la soluzione di stabilire in via forfettaria ed aprioristica ciò che è imponderabile e imprevedibile,
oltre ad apparire in contrasto con il principio logico secondo cui soltanto ciò che è determinabile può essere preventivamente
quantificato, introduce, nell’individuazione del contributo in favore della prole, una sorta di alea incompatibile con i principi che
regolano la materia.
Cass. pen. Sez. VI, 1 aprile 2015, n. 15918 (Famiglia e Diritto, 2015, 8-9, 849)
Per il delitto previsto dall’art. 12-sexies, L. 1 dicembre 1970, n. 898, si procede d’ufficio, in quanto il rinvio all’art. 570 c.p.,
voluto dal legislatore, si riferisce esclusivamente al trattamento sanzionatorio e non anche al terzo comma, il quale prevede la
procedibilità a querela della persona offesa.
Per il delitto di omesso versamento dell’assegno divorzile si procede d’ufficio, in quanto il rinvio che ha fatto il legislatore speciale
all’art. 570, comma 3, c.p., si riferisce esclusivamente al trattamento sanzionatorio e non anche alla relativa condizione di
procedibilità, il quale, in deroga ai principi generali, prevede la procedibilità a querela della persona offesa, salvo nei casi previsti
dal numero 1 e, quando il fatto è commesso nei confronti di minori, dal n. 2 del comma 2 della suddetta disposizione contenuta
nel codice penale. Va annullata, pertanto, la sentenza di merito che dichiara l’estinzione del reato per intervenuta remissione
della querela.
App. Bologna Sez. I, 20 febbraio 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Avverso il decreto del Presidente del Tribunale reso agli effetti degli articoli 315-bis e 316-bis del codice civile è inammissibile il
reclamo alla Corte d’Appello ai sensi degli articoli 739 e 742-bis del codice di procedura civile. Il decreto presidenziale emesso
a causa dell’inadempimento, da parte del genitore, dei propri doveri verso il figlio, ed in particolare di quello attinente al suo
mantenimento, è impugnabile esclusivamente con opposizione – secondo quanto previsto dal chiaro dettato dell’articolo 316 bis
del codice civile – avanti il Tribunale, nel termine di venti giorni dalla notificazione del provvedimento, operando – a tal fine – le
forme proprie dell’opposizione a decreto ingiuntivo. La tipicità del potere d’impugnazione riconosciuto, all’egida dell’indirizzo giurisprudenziale
formatosi con riguardo all’articolo 148 del codice civile, ed il carattere esclusivo che connota la formula normativa
che quel potere prevede, conducono ad affermare l’unicità del mezzo d’impugnazione esperibile avverso il provvedimento presidenziale
– individuandolo nell’opposizione al decreto – e stabiliscono l’insussistenza di alternative applicative operanti a favore
delle parti, e in particolare l’estraneità della norma al riconoscimento di una facoltà di proposizione ed esercizio di diversi mezzi
d’impugnazione che rientri nella disponibilità delle parti stesse.
Cass. civ. Sez. VI, 16 febbraio 2015, n. 3079 (Famiglia e Diritto, 2015, 4, 418)
La violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole non trova sanzione solo nelle
misure tipiche previste dal diritto di famiglia, potendo integrare gli estremi dell’illecito civile, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente
protetti.
Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2014, n. 26060 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale dei coniugi, l’affidamento condiviso dei figli minori,in quanto fondato sull’interesse esclusivo
di questi ultimi, non elimina l’obbligo patrimoniale di uno dei genitori di contribuire alle esigenze di vita dei primi mediante la
corresponsione di un assegno di mantenimento, ma non implica, come sua conseguenza “automatica”, che ciascuno dei due
genitori debba provvedere paritariamente, in modo diretto ed autonomo, alle predette esigenze.
Cass. civ. Sez. I, 8 settembre 2014, n. 18869 (Famiglia e Diritto, 2014, 11, 1035)
L’inclusione delle spese straordinarie in via forfettaria nell’ammontare dell’assegno posto a carico di uno dei genitori può rivelarsi
in netto contrasto con il principio di proporzionalità e di adeguatezza del mantenimento.
Cass. civ. Sez. VI, 25 settembre 2014, n. 20303 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di opposizione a precetto intimato per l’adempimento degli obblighi di natura patrimoniale imposti al coniuge in sede
di separazione (nella specie, obbligo del coniuge non affidatario di contribuire alle spese di mantenimento dei figli sostenute
dal coniuge affidatario), la competenza va determinata in ragione del valore della causa secondo i criteri ordinari, trattandosi
di controversia diversa da quella concernente il regolamento dei rapporti tra coniugi ovvero la modifica delle condizioni della
separazione, rientrante nella competenza funzionale del tribunale
Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sospensione della prescrizione non opera tra coniugi separati legalmente.
L’originaria idea che “lo stato di separazione… pur rivelando una incrinatura dell’unità familiare, non ne implica la definitiva
frattura”, rimanendo possibile la “ricostituzione (mediante la conciliazione) della coesione familiare” (così Corte cost. n. 35/1976
cit.), è oggi ampiamente superata, se si considera che la separazione non è più un momento di riflessione e ripensamento prima
di riprendere la vita di coppia, e nemmeno solo l’anticamera del futuro divorzio, ma rappresenta il momento della “sostanziale
esautorazione dei principali effetti del vincolo matrimoniale” (così Cass. n. 7981/2014). I
Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18066 (Famiglia e Diritto, 2015, 4, 357 nota di FILAURO)
La clausola di trasferimento di immobile tra coniugi ovvero da uno dei genitori al figlio minore recepita dalla sentenza di divorzio,
anche sulla base di conclusioni uniformi, è valida tra le parti e nei confronti dei terzi. Essa può essere oggetto di annullamento
per vizio di volontà in un autonomo giudizio di cognizione e non può costituire motivo di impugnazione della sentenza di divorzio.
Tale pattuizione non è modificabile nelle forme e secondo la procedura di cui agli artt. 710 e 711 cod. proc. civ..
Trib. Perugia Sez. I, 23 luglio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento monitorio previsto dall’art 316-bis c..c. l’opposizione è regolata dalle norme relative all’opposizione al decreto
di ingiunzione con la sola differenza, rispetto alla procedura monitoria, che il termine per proporre opposizione non è di 40 giorni
ma di 20 giorni. Tale normativa ha introdotto uno speciale rimedio avverso il provvedimento presidenziale in punto mantenimento,
che esclude pertanto l’applicabilità degli artt. 669-bis e ss.
Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2014, n. 16657 (Foro It., 2015, 6, 1, 2149)
Il danno non patrimoniale da violazione dei doveri di mantenimento, istruzione e educazione dei genitori verso la prole può essere
provato per presunzioni e facendo ricorso alle nozioni di comune esperienza.
Il danno non patrimoniale da violazione dei doveri di mantenimento, istruzione e educazione dei genitori verso la prole va liquidato
in via equitativa e nella liquidazione si possono prendere a riferimento, con gli opportuni correttivi, le somme previste dalle
tabelle del Tribunale di Milano per la perdita del rapporto parentale.
L’obbligazione di mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio, essendo collegata allo status genitoriale, sorge con la nascita
per il solo fatto di averli generati e persiste fino al momento del conseguimento della loro indipendenza economica, con la conseguenza
che nell’ipotesi in cui, al momento della nascita, il figlio sia stato riconosciuto da uno solo dei genitori, il quale abbia
assunto l’onere esclusivo del mantenimento anche per la parte dell’altro genitore, egli ha diritto di regresso nei confronti dell’altro
per la corrispondente quota, sulla base delle regole dettate dagli artt. 148 e 261 c.c., (v. oggi l’art. 316-bis c.c., introdotto
dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154) da interpretarsi alla luce del regime delle obbligazioni solidali stabilito nell’art. 1299 c.c.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981 (Foro It., 2014, 6, 1, 1768)
La sospensione della prescrizione tra coniugi di cui all’art. 2941, n. 1, cod. civ. non trova applicazione al credito dovuto per l’assegno
di mantenimento previsto nel caso di separazione personale, dovendo prevalere sul criterio ermeneutico letterale un’interpretazione
conforme alla “ratio legis”, da individuarsi tenuto conto dell’evoluzione della normativa e della coscienza sociale
e, quindi, della valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto alla conservazione dell’unità familiare
e della tendenziale equiparazione del regime di prescrizione dei diritti post-matrimoniali e delle azioni esercitate tra coniugi separati.
Nel regime di separazione, infatti, non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata
al timore di turbare l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state esperite le relative azioni
giudiziarie, con la conseguente cessazione della convivenza, il venir meno della presunzione di paternità di cui all’art. 232 cod.
civ. e la sospensione degli obblighi di fedeltà e collaborazione.
Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2014, n. 6297 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza in ordine alla controversia avente ad oggetto l’adempimento delle obbligazioni di natura economica, imposte al
coniuge in sede di separazione consensuale (nella specie relative al pagamento delle spese straordinarie relative ai figli sostenute
dal coniuge affidatario), va determinata in ragione del valore della causa secondo i criteri ordinari, trattandosi di controversia
diversa da quella concernente il regolamento dei rapporti tra coniugi ovvero la modifica delle condizioni della separazione, rientrante
nella competenza funzionale del tribunale.
Cass. civ. Sez. I, 7 febbraio 2014, n. 2815 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso in cui il coniuge onerato alla contribuzione delle spese straordinarie, sia pure pro quota, non adempia, al fine di legittimare
l’esecuzione forzata, occorre adire nuovamente il giudice affinché accerti l’effettiva sussistenza delle condizioni di fatto che
determinano l’insorgenza stessa dell’obbligo di esborso di quelle spese, e ne determini l’esatto ammontare.
Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo dei genitori di educare e mantenere i figli è eziologicamente connesso esclusivamente alla procreazione, prescindendo
dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così determinandosi un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione
non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore. Il presupposto di tale responsabilità e del conseguente diritto del figlio al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali è costituito dalla consapevolezza del concepimento, che non si identifica con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, ma si compone di una serie di indizi univoci, quali, nella specie, la indiscussa consumazione di rapporti sessuali non protetti
all’epoca del concepimento.
Cass. civ. Sez. II, 23 settembre 2013, n. 21736 (Famiglia e Diritto, 2013, 11, 1033)
L’accordo tra coniugi in sede di separazione che prevede il trasferimento di immobili anche ai figli ha natura solutoria e non
necessita della forma prevista per le donazioni. L’obbligo di mantenimento dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti,
può essere adempiuto dai genitori in sede di separazione personale o divorzio (mediante un accordo, il quale, anziché attraverso
una prestazione patrimoniale periodica, od in concorso con essa, attribuisca o li impegni ad attribuire ai figli la proprietà di beni
mobili od immobili, e che tale accordo non realizza una donazione, in quanto assolve ad una funzione solutoria-compensativa
dell’obbligazione di mantenimento, in quanto costituisce applicazione del principio, stabilito dall’art. 1322 c.c. della libertà dei
soggetti di perseguire con lo strumento contrattuale interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 18 settembre 2013, n. 21273 (Famiglia e Diritto, 2014, 2, 105, nota di NATALI, PISELLI)
A seguito della separazione personale tra coniugi, la prole ha diritto ad un mantenimento tale da garantire un tenore di vita corrispondente
alle risorse economiche della famiglia ed analogo per quanto possibile a quello goduto in precedenza, continuando a
trovare applicazione l’art. 147 codice civile che, imponendo il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, obbliga i genitori a
far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico,
sportivo, sanitario e sociale, all’assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione, fin quando l’età dei figli stessi lo
richieda, di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione. Ne consegue
che non esiste duplicazione del contributo nel caso sia stabilito un assegno di mantenimento omnicomprensivo con chiaro riferimento
a tutti i bisogni ordinari e, contemporaneamente, si predisponga la misura della partecipazione del genitore alle spese
straordinarie, in quanto non tutte le esigenze sportive, educative e di svago rientrano tra le spese straordinarie.
Cass. civ. Sez. V, 28 giugno 2013, n. 16348 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per l’ipotesi di trasferimento di immobili in adempimento di obbligazioni assunte in sede di separazione personale dei coniugi,
l’art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (norma speciale rispetto a quella di cui all’art. 26 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131), alla
luce delle sentenze della Corte costituzionale 11 giugno 2003, n. 202, 10 maggio 1999, n. 154 e 15 aprile 1992, n. 176, deve
essere interpretato nel senso che l’esenzione si estende “a tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento
di separazione personale dei coniugi”, in modo da garantire l’adempimento delle obbligazioni che i coniugi separati hanno assunto
per conferire un nuovo assetto ai loro interessi economici, anche con atti i cui effetti siano favorevoli ai figli. Le attribuzioni
patrimoniali in favore dei figli, realizzate in occasione del divorzio o della separazione personale dei genitori beneficiano delle
agevolazioni previste dall’art. 19 della legge n. 74 del 1987, tenuto presente che il beneficio fiscale in questione è volto a tutelare
anche l’esigenza di agevolare e promuovere, nel più breve tempo, una soluzione idonea a garantire l’adempimento delle obbligazioni
che gravano, ad esempio, sul coniuge non affidatario della prole, cioè a assolvere i doveri di mantenimento della prole,
nel cui ambito si iscrivono – quali plausibili modalità solutorie – anche le attribuzioni aventi carattere reale.
Trib. Nocera Inferiore, 22 maggio 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 709-ter c.p.c. ha, i propri presupposti di fatto nell’inadempimento di uno dei coniugi
a quanto stabilito dai provvedimenti presidenziali nonché in comportamenti lesivi degli interessi della prole: ne consegue
che tali sanzioni devono essere applicate nelle ipotesi in cui uno dei coniugi non adempia agli obblighi di mantenimento disposti
dai suddetti provvedimenti e non visiti regolarmente i figli in modo tale da mantenere e sviluppare con gli stessi un corretto
rapporto genitoriale. L’inadempimento degli obblighi patrimoniali non integra gli estremi delle gravi inadempienze o degli atti che
comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, e dunque non è
punibile con alcuna delle sanzioni previste nel comma 2 dello stesso art. 709-ter.
Cass. civ. Sez. VI, 8 marzo 2013, n. 5924 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di trasferimento di immobili, in adempimento di obbligazioni assunte in sede di separazione personale dei coniugi,
l’art. 19 della legge n. 74/1987, alla luce delle sentenze della Corte costituzionale n. 154/1999 e n. 176/1992, deve essere
interpretato nel senso che l’esenzione dall’imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa, di tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti
relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio si estende a
tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi, in modo da garantire
l’adempimento delle obbligazioni che i coniugi separati hanno assunto per conferire un nuovo assetto ai loro interessi economici,
anche con atti i cui effetti siano favorevoli ai figli.
Cass. pen. Sez. Unite, 31 gennaio 2013, n. 23866 (CED Cassazione, 2013)
Rientra nella tutela penale apprestata dall’art. 570 codice penale, comma 1, la violazione dei doveri di assistenza materiale
di coniuge e di genitore, previsti dalle norme del codice civile.
Nel reato di omessa corresponsione dell’assegno divorzile previsto dall’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898,
come modificato dall’art. 21 della legge 6 marzo 1987, n. 74, il generico rinvio, “quoad poenam”, all’art. 570 codice penale deve
intendersi riferito alle pene alternative previste dal comma primo di quest’ultima disposizione.
La condotta sanzionata dall’art. 570, comma secondo, cod. pen. presuppone uno stato di bisogno, nel senso che l’omessa assistenza
deve avere l’effetto di far mancare i mezzi di sussistenza, che comprendono quanto è necessario per la sopravvivenza,
situazione che non si identifica né con l’obbligo di mantenimento né con quello alimentare, aventi una portata più ampia.
Il reato di omessa corresponsione dell’assegno divorzile è procedibile d’ufficio e non a querela della persona offesa, in quanto
il rinvio contenuto nell’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 all’art. 570 cod. pen. si riferisce esclusivamente al
trattamento sanzionatorio previsto per il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare e non anche al relativo regime
di procedibilità.
Cass. civ. Sez. I, 24 luglio 2012, n. 12977 (Foro It., 2013, 4, 1, 1193)
In tema di separazione giudiziale dei coniugi, trovano applicazione, ai figli maggiorenni portatori di handicap, ai sensi della
legge 104/92, le sole disposizioni previste in favore dei figli minori, quali quelle in tema di visite, di cura e di mantenimento
da parte dei genitori non conviventi, di assegnazione della casa coniugale, ma non anche quelle sull’affidamento, condiviso od
esclusivo.
Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2012, n. 10174 (Famiglia e Diritto, 2013, 2, 114, nota di ARCERI)
La scelta del tipo di scuola rientra senza dubbio tra le decisioni di maggior importanza che devono esser assunte di comune
accordo tra i genitori. Pertanto, anche se, nel disciplinare il regime delle cosiddette spese straordinarie, ivi comprese quelle scolastiche,
gli accordi intervenuti tra le parti, recepiti nella sentenza di divorzio, omettessero di subordinarne il rimborso a carico
del genitore che le avesse anticipate al preventivo concerto, è da ritenersi che tale condizione sia immanente ed implicita laddove
le spese straordinarie afferiscano a decisioni di maggior interesse.
Cass. civ. Sez. I, 8 giugno 2012, n. 9372 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di mantenimento della prole, devono intendersi spese “straordinarie” quelle che, per la loro rilevanza, la loro imprevedibilità
e la loro imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita dei figli, cosicché la loro inclusione in via forfettaria
nell’ammontare dell’assegno, posto a carico di uno dei genitori, può rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità sancito
dall’art.155 cod. civ. e con quello dell’adeguatezza del mantenimento, nonché recare grave nocumento alla prole, che potrebbe
essere privata, non consentendolo le possibilità economiche del solo genitore beneficiario dell’assegno “cumulativo”, di cure
necessarie o di altri indispensabili apporti; pertanto, pur non trovando la distribuzione delle spese straordinarie una disciplina
specifica nelle norme inerenti alla fissazione dell’assegno periodico, deve ritenersi che la soluzione di stabilire in via forfettaria ed
aprioristica ciò che è imponderabile e imprevedibile, oltre ad apparire in contrasto con il principio logico secondo cui soltanto ciò
che è determinabile può essere preventivamente quantificato, introduce, nell’individuazione del contributo in favore della prole,
una sorta di alea incompatibile con i principi che regolano la materia.
Trib. Napoli Sez. I, 4 giugno 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione giudiziale dei coniugi, l’esercizio del potere di espletamento delle indagini di polizia tributaria, costituisce
una deroga alle regole generali sull’onere della prova, rientrando nella discrezionalità del giudice di merito e non potendo essere
considerato come un dovere imposto sulla base della semplice contestazione delle parti in ordine alle loro rispettive condizioni
economiche. Detta discrezionalità però, è limitata dalla possibilità, per il giudice, di rigettare la richiesta delle parti ove non risultino
dimostrati gli assunti sui quali essa si fonda. Vale a dire che l’esercizio del potere discrezionale del giudice non può sopperire
alla carenza probatoria della parte onerata dovendo piuttosto costituire uno strumento per assumere informazioni integrative del
bagaglio istruttorio già fornito, ove incompleto o non completabile attraverso gli ordinari mezzi di prova.
Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 cod. civ.) sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da
qualsivoglia domanda, sicché nell’ipotesi in cui, al momento della nascita, il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto
perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro per il periodo anteriore alla dichiarazione
giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto,
istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori.
Cass. pen. sez. VI, 28 marzo 2012, n. 12516 (Famiglia e Diritto, 2012, 8-9, 826)
Il primo comma dell’art. 570 c.p. punisce unicamente le condotte che violano gli obblighi di “assistenza morale”, che si concretizzano
nella violazione ingiustificata dell’obbligo di coabitazione ovvero in comportamenti, attivi od omissivi, comunque riconducibili
alla nozione di “ordine morale famigliare”. La fattispecie dell’aver fatto mancare i mezzi di sussistenza non richiede, per
la sua configurabilità, la previa esistenza di un provvedimento giurisdizionale. Tuttavia, dalla struttura complessiva della norma,
si ricava che non è penalmente rilevante una condotta di omessa “assistenza materiale” che non si risolva nel far venire meno
i mezzi di sussistenza.
Cass. civ. Sez. III, 20 marzo 2012, n. 4376 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il provvedimento che modifica le condizioni di separazione tra i coniugi, pronunciato ai sensi dell’art. 710 cod. proc. civ., è immediatamente
esecutivo, in quanto ad esso non si applica il differimento dell’efficacia esecutiva previsto in via generale dall’art.
741 cod. proc. civ. per gli altri provvedimenti camerali.
Cass. pen. Sez. VI, 13 marzo 2012, n. 12307 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le fattispecie prevista dai ai commi primo e secondo dell’art. 570 cod. pen. configurano due reati autonomi e non una progressione
criminosa che possa far ritenere assorbita la contestazione del comma primo nella seconda disposizione.
Cass. civ. Sez. I, 30 dicembre 2011, n. 30196 (Famiglia e Diritto, 2013, 2, 174 nota di SERRA)
Il provvedimento relativo al mantenimento del figlio minore delle parti separande può essere assunto d’ufficio e, pertanto, la
domanda del genitore, per la prima volta, nel giudizio di secondo grado, non contrasterebbe con il disposto dell’art. 345 c.p.c.,
trattandosi di allegazione di omessa pronuncia (il principio non estensibile ai figli maggiorenni non economicamente autosufficienti).
Cass. pen. Sez. VI, 20 ottobre 2011, n. 3881 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La condotta di sottrazione agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà genitoriale nei confronti dei figli minori e quella di
omessa prestazione dei mezzi di sussistenza, previste, rispettivamente, nel primo e secondo comma dell’art. 570 cod. pen. non
sono in rapporto di continenza o di progressione criminosa, ma hanno ad oggetto fatti del tutto eterogenei nella loro storicità e
considerazione sociale.
Cass. civ. Sez. I, 26 settembre 2011, n. 19607 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è configurabile a carico del coniuge affidatario un obbligo di informazione di concertazione preventiva con l’altro, in ordine
alla determinazione delle spese straordinarie (nella specie, spese di soggiorno negli U.S.A. per la frequentazione di corsi di lingua
inglese da parte di uno studente universitari di lingue) costituente decisione “di maggiore interesse” per il figlio, sussistendo,
pertanto, a carico del coniuge non affidatario un obbligo di rimborso qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi
di dissenso.
Trib. Novara, 21 luglio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di obbligo di mantenimento del minore, e posto che la realizzazione del principio di proporzionalità costituisce la finalità
primaria dell’assegno di mantenimento , va precisato che la determinazione dell’ammontare di tale assegno deve tenere in
considerazione le attuali esigenze del figlio, il tenore di vita voluto da questi in costanza di convivenza con entrambi i genitori,
i tempi di permanenza presso ciascun genitore, le risorse economiche di entrambi i genitori e la valenza economica dei compiti
domestici e di cura assunti da ciascuno. Una valutazione sinottica di detti criteri conduce a ritenere che, per realizzare le finalità
perequative cui è destinato l’istituto dell’assegno di mantenimento , si debba procedere, innanzitutto, all’accertamento
delle complessive disponibilità economiche del nucleo familiare; tale accertamento, da condurre unitamente alla valutazione del
tenore di vita concretamente mantenuto dal medesimo nucleo in corso in costanza di matrimonio, consente, per un verso, di
quantificare la parte delle risorse economiche che la famiglia è in grado di destinare alle esigenze di mantenimento dei figli e,
per altro verso, le proporzioni dell’apporto che ciascun coniuge può fornire per il soddisfacimento di tali esigenze. Acquisiti tali
dati di valutazione, andrà, quindi, considerata l’effettiva misura dell’apporto dato dai singoli genitori al soddisfacimento delle
esigenze della prole, valutata sia con riferimento ai tempi di permanenza dei figli presso ciascun settore, sia con riferimento a
tutti gli ulteriori dati probatori acquisiti nel corso del giudizio circa i concreti atti di accudimento dei genitori, ivi compresi i compiti
domestici e di cura materiale.
Cass. civ. Sez. III, 23 maggio 2011, n. 11316 (Giur. It., 2012, 1, 49)
Il provvedimento con cui in sede di separazione (non importa se consensuale o giudiziale, ovvero se provvisorio o definitivo,
oppure se presidenziale o meno) si stabilisca, quale modo di contribuire al mantenimento dei figli, che il genitore non affidatario
paghi, sia pure pro quota, le spese mediche e scolastiche ordinarie relative ai figli, costituisce esso stesso titolo esecutivo e
non richiede, nell’ipotesi di non spontanea ottemperanza da parte dell’obbligato ed al fine di legittimare l’esecuzione forzata, un
ulteriore intervento del giudice, qualora il genitore creditore possa allegare ed opportunamente documentare l’effettiva sopravvenienza
degli specifici esborsi contemplati dal titolo e la relativa entità.
Cass. civ. Sez. I, 27 aprile 2011, n. 9376 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di divorzio, poiché l’art. 6, quarto comma della legge 1 dicembre 1970, n. 898, modificata dalla legge 6 marzo 1987,
n. 74, consente al coniuge non affidatario d’intervenire nell’interesse dei figli solo con riguardo alle “decisioni di maggiore interesse”,
non è configurabile a carico del coniuge affidatario un obbligo di concertazione preventiva con l’altro in ordine alla
determinazione delle spese straordinarie (nella specie spese sostenute per il trattamento ortodontico del figlio) nei limiti in cui
esse non implichino decisioni di maggior interesse per i figli; tuttavia tale principio non è inderogabile, essendo possibile che il
giudice stabilisca oltre che la misura, anche i modi (tra i quali la previa concertazione), in modo difforme da quanto previsto, in
linea di principio, dalla legge.
Cass. civ. Sez. I, 24 febbraio 2011, n. 4543 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ordinanza con la quale il presidente del tribunale pronunci, ai sensi dell’art. 708 cod. proc. civ. i provvedimenti temporanei ed
urgenti di contenuto economico nell’interesse dei coniugi e della prole non costituisce titolo per la emanazione di una successiva
ingiunzione di pagamento ai sensi dell’art. 633 cod. proc. civ. trattandosi di provvedimento (esaminabile soltanto nel contesto del
procedimento cui accede) autonomamente presidiato da efficacia esecutiva con riguardo alle somme che risultino determinate
ovvero determinabili con un semplice calcolo aritmetico. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza che aveva revocato il
decreto ingiuntivo relativo sia a crediti per spese straordinarie della prole non quantificate, per le quali era necessario acquisire
il titolo esecutivo, sia a crediti per i quali avrebbe già potuto procedersi esecutivamente).
Cass. pen. Sez. VI, 17 gennaio 2011, n. 3016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La fattispecie di abbandono del domicilio domestico e quella di omessa prestazione dei mezzi di sussistenza, previsti, rispettivamente,
nel primo e secondo comma dell’art. 570 cod. pen., non sono in rapporto di continenza o di progressione criminosa, ma
hanno ad oggetto fatti del tutto eterogenei nella loro storicità.
Cass. civ. Sez. I, 30 settembre 2010, n. 20509 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I genitori hanno l’obbligo di mantenere i propri figli, secondo il disposto di cui all’articolo 147 del codice civile. Tale obbligo grava
su entrambi i genitori in senso primario ed integrale, con la conseguenza che, laddove uno di essi, non volesse o non potesse
ottemperarvi, l’altro è tenuto a farvi fronte, ricorrendo a tutte le proprie risorse economiche, sfruttando le proprie capacità di
lavoro, salvo poi agire contro l’inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle sue condizioni economiche. Ne deriva
che l’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari per adempiere al loro dovere di mantenimento ha natura
sussidiaria, dunque, succedanea e che trova applicazione non già perché uno dei due genitori è inadempiente all’obbligo de quo,
ma se ed in quanto l’altro genitore non è in grado di provvedervi.
L’obbligo di mantenimento dei figli minori ex articolo148 codice civile spetta primariamente e integralmente ai loro genitori
sicché, se uno dei due non possa o non voglia adempiere al proprio dovere, l’altro, nel preminente interesse dei figli, deve far
fronte per intero alle loro esigenze con tutte le sue sostanze patrimoniali e sfruttando tutta la propria capacità di lavoro, salva
la possibilità di convenire in giudizio l’inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle condizioni economiche globali
di costui; pertanto l’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei
confronti dei figli – che investe contemporaneamente tutti gli ascendenti di pari grado di entrambi i genitori – va inteso non solo
nel senso che l’obbligazione degli ascendenti è subordinata e, quindi, sussidiaria rispetto a quella, primaria, dei genitori, ma anche
nel senso che agli ascendenti non ci si possa rivolgere per un aiuto economico per il solo fatto che uno dei due genitori non
dia il proprio contributo al mantenimento dei figli, se l’altro genitore è in grado di mantenerli; così come il diritto agli alimenti
ex art.433 cod. civ., legato alla prova dello stato di bisogno e dell’impossibilità di reperire attività lavorativa, sorge solo qualora
i genitori non siano in grado di adempiere al loro diretto e personale obbligo.
Trib. Varese, 7 maggio 2010 (Fam. Pers. Succ., 2010, 6, 472)
L’autoriduzione dell’assegno dovuto a titolo di contributo al mantenimento dei figli può comportare l’ammonimento del genitore
inadempiente e la condanna alla sanzione pecuniaria, secondo quanto previsto dall’art. 709-ter, co. 2, c.p.c., ma di per sé non
consente, in mancanza di prova sul danno, l’applicazione della misura risarcitoria di cui al n. 3, mentre il risarcimento del danno
in favore del minore previsto dal n. 2 può essere chiesto solo da un curatore speciale (nella specie, il giudice ha ammonito il
padre e lo ha condannato a pagare la somma di euro 75 alla cassa delle ammende ex art. 709-ter, co. 2, n. 4, c.p.c.).
Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 2010, n. 8676 (Famiglia e Diritto, 2010, 10, 889, nota di FLORIO)
Ai sensi dell’art. 6, comma 4, legge n. 898/1970, l’esercizio della potestà genitoriale è affidato in via esclusiva al coniuge affidatario
e comprende anche le decisioni sui “costi” di carattere straordinario che non necessariamente coincidono con quelle di
maggior interesse. Il genitore non affidatario non ha diritto di interloquire sulle spese straordinarie a meno che non attengano
in concreto a questioni di particolare interesse.
È inammissibile il ricorso per Cassazione qualora, poiché ricadente sotto il regime processuale introdotto dal D. Lgs n. 40 del
2006, il quesito di diritto formulato si risolva nella mera richiesta di accoglimento del motivo, o comunque nell’intervento della
Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura, senza tuttavia contenere la sintetica indicazione della regola di diritto
applicata dal Giudice del merito e di quella diversa che si sarebbe dovuta applicare al caso a parere del ricorrente. (Nel caso specifico,
avuto riguardo alla censura della impugnata sentenza per aver posto a carico del ricorrente in misura prevalente le spese
straordinarie concernenti il mantenimento della figlia, il quesito formulato consisteva nello stabilire la Corte di legittimità se,
tenuto conto del contributo già dovuto per il mantenimento della figlia e delle attuali condizioni economiche, era da lui dovuto,
tra l’altro in misura prevalente, il concorso nel sostenere le spese straordinarie per la prole).
Cass. civ. Sez. I, 24 febbraio 2010, n. 4519 (Famiglia e Diritto, 2010, 6, 607)
In tema di determinazione dell’assegno di mantenimento, la discrezionalità di cui è munito il giudice di merito nel disporre indagini
attraverso la polizia tributaria non può ritenersi di carattere assoluto, trovando un limite nell’impossibilità da parte del giudice
di basare il proprio convincimento in ordine all’assegno su valutazioni prive del necessario riscontro.
Cass. civ. Sez. I, 6 novembre 2009, n. 23630 (Famiglia e Diritto, 2010, 2, 196)
Nella determinazione del contributo previsto dall’art. 277, secondo comma, cod. civ. per il mantenimento del figlio minore nato
fuori del matrimonio, a seguito della dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il giudice, ai sensi dell’art. 155 cod. civ., applicabile
anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati in virtù del rinvio contenuto nell’art. 4 della legge n. 54 del
2006, deve tener conto non solo delle esigenze attuali del figlio, ma anche del tenore di vita goduto dallo stesso nel corso della
convivenza con entrambi i genitori, nonché delle risorse economiche di questi, in modo da realizzare il principio generale di cui
all’art. 148 cod. civ., secondo cui i genitori devono concorrere al mantenimento dei figli in proporzione delle rispettive sostanze
e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo.
Cass. pen. Sez. VI, 24 giugno 2009, n. 28557 (Corriere del Merito, 2013, 7, 774)
Il rinvio all’art. 570 del codice penale operato dall’art. 12-sexies legge n. 898 del 1970 e succ. modif. che punisce l’inadempimento
del coniuge all’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile, deve intendersi alla disposizione del comma secondo, con
applicazione quindi della pena congiunta della reclusione sino ad un anno e della multa da Euro 103,00 a Euro 1032,00.
Cass. civ. sez. I, 17 giugno 2009, n. 14081 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche in materia di separazione dei coniugi deve ritenersi applicabile in via analogica la norma dell’articolo 5, comma 9, l. n.
898/70, come modificato dall’articolo 10 l. n. 74/87, il quale prevede, in tema di riconoscimento e quantificazione dell’assegno
divorzile, che in caso di contestazioni il tribunale possa disporre indagini sui redditi e patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo
tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria. Peraltro, l’esercizio di tale potere rientra nella discrezionalità
del giudice di merito, che non è tenuto ad avvalersene ove ritenga provata compiutamente “aliunde” la situazione economica
delle parti, ma ove non se ne avvalga non può rigettare le domande per la mancata dimostrazione della situazione economica
delle parti (nella specie, la Corte ha confermato la decisione dei giudici del merito, che avevano respinto la richiesta d’indagini a
mezzo della polizia tributaria sui beni del marito avanzata dalla moglie, affermando che la cospicua documentazione allegata agli
atti, costituita dalle dichiarazione dei redditi, fosse del tutto sufficiente per una completa conoscenza della situazione economica
dell’uomo).
Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2008, n. 28987 (Giur. It., 2009, 10, 2182)
Il carattere sostanzialmente alimentare dell’assegno di mantenimento per i figli maggiorenni comporta che la normale retroattività
della statuizione giudiziale di riduzione dello stesso al momento della domanda – salvo che il giudice non ritenga di dover
graduare la modifica nel tempo – deve essere contemperata con i principi d’irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità di
dette prestazioni.
Trib. Padova, 3 ottobre 2008 (Resp. civ., 2008, 12, 1047)
I provvedimenti sanzionatori di cui all’art. 709-ter, co. 2, c.p.c. possono essere disposti anche nel caso di inadempimento all’obbligo
di mantenimento del figlio.
Cass. civ. Sez. I., 18 giugno 2008, n. 16575 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di determinazione dell’assegno di mantenimento, l’esercizio del potere di disporre indagini patrimoniali avvalendosi della
polizia tributaria, che costituisce una deroga alle regole generali sull’onere della prova, rientra nella discrezionalità del giudice di
merito; l’eventuale omissione di motivazione sul diniego di esercizio del relativo potere, pertanto, non è censurabile in sede di
legittimità, ove, sia pure per implicito, tale diniego sia logicamente correlabile ad una valutazione sulla superfluità dell’iniziativa
per ritenuta sufficienza dei dati istruttori acquisiti.
Cass. civ. Sez. I, 28 gennaio 2008, n. 1758 (Famiglia e Diritto, 2008, 3, 297)
Nel caso in cui il genitore divorziato non affidatario non corrisponde quanto fissato in sede di separazione personale a titolo di spese straordinarie mediche e scolastiche per il figlio minore, l’ex coniuge affidatario deve rivolgersi nuovamente al giudice per
far accertare l’effettivo verificarsi e l’entità di tali esborsi.
Il provvedimento giudiziario con cui in sede di separazione personale si stabilisca, si sensi dell’art. 155, comma 2, c.c. quale
modo di contribuire al mantenimento dei figli, che il genitore non affidatario paghi, sia pure pro quota, le spese straordinarie
relative ai figli, richiede, nell’ipotesi di non spontanea attuazione da parte dell’obbligato, al fine di legittimare l’esecuzione forzata,
stante il disposto dell’art. 155 c.c. e dell’art. 474, comma 1, c.p.c. un ulteriore intervento del giudice, volto ad accertare
l’avveramento dell’evento futuro e incerto cui è subordinata l’efficacia della condanna, ossia la effettiva sopravvenienza degli
specifici esborsi contemplati dal titolo e la relativa entità, non suscettibili di essere desunte sulla base degli elementi di fatto
contenuti nella prima pronuncia.
In materia di assegno di mantenimento, nel caso in cui il coniuge onerato alla contribuzione delle spese straordinarie, sia pure
pro quota, non adempia, al fine di legittimare l’esecuzione forzata, occorre adire nuovamente il giudice affinché accerti l’effettiva
sopravvenienza degli specifici esborsi contemplati dal titolo e la relativa entità.
Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2007, n. 23379 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di divorzio fra i coniugi con figli minori o incapaci, a norma degli artt.4 e 5 legge n. 989 del 1970 (come novellati
dalla legge n. 74 del 1987), il P.M. è litisconsorte necessario in concorrenza con le parti private ed è titolare di un autonomo
potere
Trib. Bologna, 19 giugno 2007 (Famiglia e Diritto, 2008, 12, 1159, nota di CILIBERTO)
Tra le controversie prese in considerazione dall’art. 709-ter c.p.c. rientrano anche quelle inerenti al mantenimento del minore e
alla ripartizione del contributo tra i genitori: l’esercizio della potestà comporta l’assunzione di decisioni che possono avere riflessi
economici; il nuovo art. 155 c.c. considera come strettamente connessi il profilo dell’affidamento e quello del mantenimento del
minore, anche il contrasto su questioni economiche può comportare un pregiudizio per il minore (Nella specie, il giudice del merito,
in applicazione del riferito principio di diritto, ha sostenuto che la controversia tra le parti in ordine alla misura ed alle modalità
di ripartizione delle spese straordinarie sostenute nell’interesse del figlio minore rientrava nella previsione dell’art. 709-ter c.p.c.)
L’art. 709-ter c.p.c. attribuisce al giudice della separazione (o del divorzio) appositi poteri il cui esercizio è finalizzato alla risoluzione
delle controversie tra i genitori e risponde al criterio secondo cui dell’attuazione dei provvedimenti relativi alla prole
si occupa il giudice del merito. La nuova disposizione è volta ad agevolare la soluzione dei contrasti relativi all’attuazione (e
dunque anche all’interpretazione) dei provvedimenti (provvisori o meno) adottati nell’interesse della prole; a consentire il ricorso
a misure di coazione indiretta; a porre rimedio a inconvenienti determinati da una non appropriata o non più adeguata
regolamentazione dei rapporti.
Tra le controversie prese in considerazione dall’art. 709-ter c.p.c. rientrano anche quelle inerenti al mantenimento del minore
e alla ripartizione del contributo tra i genitori, tenuto conto che l’esercizio della potestà comporta l’assunzione di decisioni che
possono avere riflessi economici; che il nuovo art. 155 c.c. considera come strettamente connessi il profilo dell’affidamento e
quello del mantenimento del minore; che anche il contrasto su questioni economiche può comportare un pregiudizio per il minore
(nella specie, il tribunale, qualificato il ricorso in base al combinato disposto degli artt. 709-ter e 710 c.p.c., ha modificato
la regolamentazione delle spese straordinarie prevista, su accordo delle parti, dalla sentenza di separazione ma che negli anni
aveva dato origine a ripetute contestazioni e a vari procedimenti giudiziari).
Trib. Roma, 5 giugno 2007 (Fam. Pers. Succ., 2008, 7, 661)
Le misure previste dall’art. 709-ter c.p.c., aventi natura prevalentemente sanzionatoria, sono applicabili anche in caso di inadempienze
meramente patrimoniali in considerazione della loro incidenza sul corretto svolgimento dell’affidamento (nella specie,
su istanza formulata dalla madre in udienza, il giudice istruttore ha ammonito e condannato a versare la somma di euro 2.500
su libretto intestato ai figli il padre che in violazione di provvedimenti provvisori aveva sottovalutato la condizione allergica del
figlio più piccolo e aveva omesso di rimborsare la quota di spese straordinarie e di pagare l’adeguamento Istat).
Cass. pen. Sez. VI, 7 dicembre 2006, n. 18450 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il generico rinvio, “quoad poenam”, all’art. 570 codice penale dell’art. 12-sexies legge 1° dicembre 1970 n. 898 (disciplina dei
casi di scioglimento del matrimonio), come modificato dall’art. 21 legge 6 marzo 1987 n. 74, deve intendersi riferito alle pene
previste dal comma secondo e non a quelle indicate nel primo comma della disposizione codicistica, avendo ad oggetto il citato
art. 12-sexies la violazione di obbligo di natura economica e non di assistenza morale.
Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596 (Foro It., 2007, 1, 1, 86)
Il termine decennale di prescrizione del diritto del genitore naturale al rimborso da parte dell’altro genitore, coobbligato, delle
spese sostenute per il mantenimento del figlio decorre dal riconoscimento da parte di detto coobbligato ovvero dal passaggio in
giudicato della sentenza di accertamento giudiziale della paternità o della maternità che, in quanto attributiva dello “status” di
figlio naturale, costituisce il presupposto per l’accoglimento della domanda in oggetto.
Cass. civ. Sez. I, 22 agosto 2006, n. 18240 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza in ordine alla controversia avente ad oggetto l’adempimento delle obbligazioni assunte dal coniuge in sede di
separazione consensuale circa il pagamento delle spese straordinarie relative ai figli sostenute dal coniuge affidatario, va determinata
in ragione del valore della causa secondo i criteri ordinari, trattandosi di controversia diversa da quella concernente la
modifica delle condizioni della separazione, rientrante nella competenza funzionale del tribunale.
Cass. civ. sez. I, 28 aprile 2006, n. 9861 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di divorzio, il giudice del merito, ove ritenga aliunde raggiunta la prova dell’insussistenza dei presupposti che condizionano
il riconoscimento dell’assegno di divorzio, può direttamente procedere al rigetto della relativa istanza, anche senza aver
prima disposto accertamenti d’ufficio attraverso la polizia tributaria, atteso che l’esercizio del potere officioso di disporre, per
il detto tramite, indagini sui redditi e sui patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo tenore di vita rientra nella discrezionalità del
giudice del merito e non può essere considerato come un dovere imposto sulla base della semplice contestazione delle parti in
ordine alle loro rispettive condizioni economiche.
Cass. civ. Sez. I, 7 aprile 2006, n. 8221 (Giur. It., 2007, 2, 337)
Il dovere dei genitori di provvedere al mantenimento dei figli non cessa automaticamente con il conseguimento della maggiore
età da parte di questi ultimi, ma perdura sino a quando i medesimi non abbiano raggiunto un’indipendenza economica, ovvero
abbiano concorso colpevolmente alla determinazione della propria non autosufficienza economica.
Cass. civ. Sez. II, 21 febbraio 2006, n. 3747 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale tra coniugi, l’obbligo di mantenimento dei figli minori (ovvero maggiorenni non autosufficienti)
può essere legittimamente adempiuto dai genitori mediante un accordo che, in sede di separazione personale o di divorzio,
attribuisca direttamente – o impegni il promittente ad attribuire – la proprietà di beni mobili o immobili ai figli, senza che tale
accordo (formalmente rientrante nelle previsioni, rispettivamente, degli artt. 155, 158, 711 cod. civ. e 4 e 6 della legge n. 898
del 1970 e sostanzialmente costituente applicazione della “regula iuris” di cui all’art. 1322 cod. civ., attesa la indiscutibile meritevolezza
di tutela degli interessi perseguiti) integri gli estremi della liberalità donativa, ma assolvendo esso, di converso, ad una
funzione solutorio-compensativa dell’obbligo di mantenimento. Esso, comporta l’immediata e definitiva acquisizione al patrimonio
dei figli della proprietà dei beni che i genitori abbiano loro attribuito o si siano impegnati ad attribuire, di talché, in questa
seconda ipotesi, il correlativo obbligo, suscettibile di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 cod. civ., è senz’altro trasmissibile
agli eredi del promittente, trovando titolo non già nella prestazione di mantenimento – che, nei limiti costituiti dal valore
dei beni attribuiti o da attribuire, risulta ormai convenzionalmente liquidata in via definitiva, – ma nell’accordo che l’ha estinta.
Cass. civ. Sez. I, 7 febbraio 2006, n. 2625 (Foro It., 2006, 6, 1, 1751)
Nel giudizio di separazione, disporre nuove indagini di polizia tributaria rientra nella discrezionalità del giudice di merito e non
può essere considerato anche come un dovere imposto sulla base della semplice contestazione delle parti in ordine alle loro
rispettive condizioni economiche.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328 (Mass. Giur. It., 2006)
L’obbligo di mantenere i figli sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché nell’ipotesi
in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo
mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di
paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato
nei confronti di entrambi i genitori. Conseguentemente, il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice,
non può sottrarsi alla sua obbligazione nei confronti del figlio per la quota posta a suo carico, ma è tenuto a provvedere sin dal
momento della nascita, attesa la natura dichiarativa della pronuncia che accerta la filiazione naturale. Il diritto al rimborso “pro
quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è tuttavia utilmente esercitabile
se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la conseguenza che detto momento segna
altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. V, 30 maggio 2005, n. 11458 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nelle ipotesi di trasferimento di immobili in adempimento di obbligazioni assunte in sede di separazione personale dei coniugi,
l’art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74, alla luce delle sentenze della Corte costituzionale 10 maggio 1999, n. 154 e 15 aprile
1992, n. 176, deve essere interpretato nel senso che l’esenzione “dall’imposta di bollo, di registro e da ogni tassa” di “tutti gli
atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili
del matrimonio” si estende “a tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale
dei coniugi”, in modo di garantire l’adempimento delle obbligazioni che i coniugi separati hanno assunto per conferire un nuovo
assetto ai loro interessi economici, anche con atti i cui effetti siano favorevoli ai figli.
Cass. civ. sez. I, 17 maggio 2005, n. 10344 (Fam. Pers. Succ., 2007, 7, 621 nota di FANTETTI)
Anche in materia di separazione dei coniugi, con riguardo all’assegno di mantenimento, deve ritenersi applicabile in via analogica
– stante l’identità di ratio, riconducibile alla funzione eminentemente assistenziale dell’assegno in questione – la norma
dell’articolo 5, comma 9, l. 1° dicembre 1970 n. 898, nel testo novellato dall’articolo 10 l. 6 marzo 1987 n. 74, il quale, in tema
di riconoscimento e determinazione dell’assegno divorzile, stabilisce che “in caso di contestazioni, il tribunale dispone indagini sui
redditi e patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria”. L’esercizio
di tale potere di disporre indagini patrimoniali con l’avvalimento della polizia tributaria, che costituisce una deroga alle regole
generali sull’onere della prova, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, e non può essere considerato anche come un
dovere imposto sulla base della semplice contestazione delle parti in ordine alle loro rispettive condizioni economiche; tale discrezionalità,
tuttavia, incontra un limite nella circostanza che il giudice, potendosi avvalere di siffatto potere, non può rigettare
le istanze delle parti relative al riconoscimento e alla determinazione dell’assegno sotto il profilo della mancata dimostrazione
degli assunti sui quali si fondano, giacché in tal caso il giudice ha l’obbligo di disporre accertamenti d’ufficio, avvalendosi anche
della polizia tributaria.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975 (Guida al Diritto, 2005, 16, 39, nota di FIORINI)
Il diritto di percepire gli assegni di mantenimento riconosciuti, in sede di divorzio, all’ex coniuge da sentenze passate in giudicato
per i figli minori a lui affidati può essere modificato, ovvero estinguersi del tutto, solo attraverso la procedura prevista dall’art.
710 c.p.c. (oltre che per accordo tra le parti), con la conseguenza che la raggiunta maggiore età e la raggiunta autosufficienza
economica del figlio non sono, di per sé, condizioni sufficienti a legittimare, “ipso facto”, la mancata corresponsione dell’assegno.
Il diritto a percepire gli assegni di mantenimento riconosciuti, in sede di separazione, con sentenze passate in giudicato, può
essere modificato o estinguersi, solo attraverso la procedura prevista dall’art. 710 c.p.c. con la conseguenza che la raggiunta
maggiore età del figlio e la raggiunta autosufficienza economica del medesimo non sono condizioni sufficienti a legittimare, ipso
fatto, in mancanza di un accertamento giudiziale, la mancata corresponsione dell’assegno.
In tema di separazione e di divorzio, il diritto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento per il coniuge, così come il diritto
agli assegni di mantenimento per i figli, in quanto aventi a oggetto prestazioni autonome, distinte e periodiche, non si prescrivono
a decorrere da un unico termine rappresentato dalla data della pronuncia della sentenza di separazione o di divorzio, ma dalle
singole scadenze delle prestazioni dovute, in relazione alle quali sorge di volta in volta il diritto all’adempimento.
Cass. civ. Sez. I, 22 marzo 2005, n. 6197 (Guida al Diritto, 2005, 17, 46)
In seguito alla separazione e al divorzio la prole ha diritto a un mantenimento tale da garantirle un tenore di vita corrispondente
alle risorse economiche della famiglia e analogo, per quanto possibile, a quello goduto in precedenza. Il dovere di provvedere al
mantenimento, istruzione ed educazione della prole, inoltre, impone ai genitori, anche in caso di separazione o di divorzio, di far
fronte a una molteplicità di esigenze dei figli, non riconducibili al solo obbligo alimentare ma inevitabilmente estese all’aspetto
abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e materiale, all’adeguata predisposizione – fin quando la
loro età lo richieda – di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le necessità di cura ed educazione. Al
riguardo, ai fini di una corretta determinazione del concorso dei genitori, il parametro di riferimento è costituito non soltanto dalle
rispettive sostanze, in esse ricompresi i cespiti improduttivi di reddito, ma anche dalla capacità di lavoro professionale o casalingo
con espressa valorizzazione non solo delle risorse economiche individuali, ma anche delle accertate potenzialità reddituali.
Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2004, n. 23713 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nelle cause riguardanti la distrazione a favore del coniuge avente diritto, non legalmente separato, di somme dovute da terzi
all’altro coniuge obbligato per il mantenimento, deve escludersi l’obbligatorietà dell’intervento del P.M., vertendosi in controversia
concernente, non il vincolo matrimoniale, bensì l’applicabilità di una speciale agevolazione, prevista dall’art. 156, sesto
comma, cod. civ., per il recupero di crediti per il mantenimento, ed esulando quindi la fattispecie dalla previsione dell’art. 70,
primo comma, numero 2, cod. proc. civ.
Cass. civ. Sez. I, 27 aprile 2004, n. 8010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Correttamente dunque, il giudice di rinvio ha proceduto, come richiesto dalla sent. n. 6664 del 1998 di questa Corte, ad esaminare
la domanda in vista degli effetti che questa era destinata a produrre e ad individuare la legge applicabile alla stregua dell’art.
17 preleggi. E che alla domanda congiunta di divorzio presentata da due coniugi, uno dei quali avente anche la cittadinanza
italiana, dovesse essere applicata la legge italiana, non può revocarsi in dubbio, giacché ai fini dell’applicazione delle norme di
diritto internazionale privato, l’istituto del divorzio va qualificato come attinente non ai rapporti personali tra coniugi (per i quali
trova applicazione l’art. 18 preleggi, vigente al momento di presentazione della domanda), ma allo stato delle persone, in quanto
con la sentenza di scioglimento del vincolo matrimoniale cessa tra le parti la reciproca qualità di coniugi (nel senso che il giudizio
di delibazione delle sentenza straniere di divorzio debba essere condotto alla stregua dell’art. 17 preleggi, v. Cass., S.U., 19
settembre 1978, n. 4189; Cass., 28 luglio 1977, n. 3361; Cass., Cass., 7 maggio 1976, n. 1593).
Cass. civ. sez. I, 2 dicembre 2003, n. 18391 (Guida al Diritto, 2004, 4, 58)
La disposizione di cui all’articolo 5, n. 9, della legge 898/1970, certamente applicabile anche nel procedimento di revisione
dell’assegno, non impone al giudice l’obbligo di disporre indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita sulla
base della mera contestazione delle parti circa le loro rispettive condizioni economiche, ma si traduce in una deroga alle regole
generali in tema di onere della prova, nel senso che il giudice non può rigettare le richieste delle parti relative al riconoscimento
e alla determinazione dell’assegno per la mancata dimostrazione da parte delle stesse degli assunti sui quali le loro richieste si
fondano: ciò comporta che il giudice può avvalersi di tutti gli elementi di prova ritualmente acquisiti, può far ricorso a presunzioni
e a nozioni di comune esperienza per l’accertamento delle condizioni economiche delle parti e non è tenuto ad ammettere o
disporre ulteriori mezzi di prova quando ravvisi elementi sufficienti per la formazione del suo convincimento.
Corte cost. 11 giugno 2003, n. 202 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, lettera b), della Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n.
131, nella parte in cui non esenta dall’imposta ivi prevista i provvedimenti emessi in applicazione dell’art. 148 c.c. nell’ambito
dei rapporti tra genitori e figli. È, infatti, irragionevole e non conforme all’art. 3 della Costituzione sotto il profilo dell’uguaglianza
la mancata estensione ai provvedimenti adottati ai sensi del predetto articolo 148 c.c. – in tema di determinazione del
contributo di mantenimento fissato a carico del genitore naturale obbligato ed a favore del genitore affidatario – dell’esenzione
tributaria disposta in tema di atti recanti condanna al pagamento di somme in materia di procedimenti relativi ai giudizi di separazione
e divorzio ed estesa anche ai provvedimenti relativi alla prole: la mancanza del rapporto di coniugio fra le parti non può
in alcun modo giustificare la diversità di disciplina tributaria del provvedimento di condanna, senza risolversi in un trattamento
deteriore dei figli naturali rispetto a quelli legittimi, in contrasto anche con l’art. 30 della Costituzione.
Corte cost., 14 giugno 2002, n. 236 (Giur. Costit., 2002, 1781)
Il decreto con il quale il giudice, ai sensi dell’art. 148 comma 2 c.c., ordina ad uno dei coniugi di versare parte dei propri redditi
all’altro, al fine di mantenimento della prole, è titolo per iscrivere ipoteca giudiziale sui beni dell’obbligato, ma non già sui beni del
debitore di questi.
Non è fondata, nei sensi di cui in motivazione, in riferimento agli art. 3, 24 e 30 cost., la q.l.c. dell’art. 148, comma 3, c.c., nella parte
in cui non prevede che il decreto ivi contemplato costituisca titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale, in quanto la norma censurata,
nella parte concernente il decreto di ingiunzione per il pagamento delle somme destinate al mantenimento della prole, è una norma
composita, sicchè, se il decreto è emesso nei confronti dell’obbligato inadempiente (genitore o ascendente), segue le regole proprie
del decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo ed è perciò titolo idoneo all’iscrizione di ipoteca giudiziale, mentre, se il decreto
medesimo è emesso nei confronti del terzo debitore dell’obbligato inadempiente, ragionevolmente costituisce titolo esecutivo ma non
è idoneo all’iscrizione di ipoteca giudiziale sui beni del terzo.
Corte cost., 11 giugno 2003, n. 202 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’esenzione prevista dall’art. 19 della legge n. 74 del 1987, seppur posta a favore del destinatario delle somme, in realtà tutela il
figlio minore per il cui mantenimento è disposta, con la conseguenza che la sua omessa previsione, quando si è in presenza di prole
naturale, oltre ad essere irragionevole, con violazione dell’art. 3 della Costituzione, si risolve in un trattamento deteriore dei figli
naturali rispetto a quelli legittimi in contrasto con l’art. 30 della Costituzione.
Cass. civ. Sez. I, 19 marzo 2002, n. 3974 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
A seguito della separazione personale tra coniugi, la prole ha diritto ad un mantenimento tale da garantirle un tenore di vita corrispondente
alle risorse economiche della famiglia ed analogo, per quanto possibile, a quello goduto in precedenza, continuando
a trovare applicazione l’art. 147 c.c. che, imponendo il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, obbliga i genitori a far
fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico,
MANTENIMENTO DEI FIGLI MINORI
sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione – fin quando l’età dei figli lo richieda
– di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione, mentre il parametro
di riferimento, ai fini della determinazione del concorso negli oneri finanziari, è costituito, secondo il disposto dell’art. 148 c.c.,
non soltanto dalle sostanze, ma anche dalla capacità di lavoro, professionale o casalingo, di ciascun coniuge, ciò che implica una
valorizzazione anche delle accertate potenzialità reddituali.
Cass. civ. Sez. I, 25 ottobre 2000, n. 14022 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rito adottato dal legislatore, con l’art. 9 della legge sul divorzio, ai fini della modificazione dell’assegno divorzile, risulta regolato,
in via generale, dagli art. 737 e ss. del c.p.c., e, quanto alle forme, in parte risulta disciplinato espressamente da tale
normativa, mentre, nella parte non regolata, risulta rimesso nel suo svolgimento – che è attuato con impulso di ufficio – alla
disciplina concretamente dettata dal giudice la quale dovrà garantire il rispetto del principio del contraddittorio e di quello del diritto
di difesa. Da ciò deriva, quanto al procedimento di primo grado, che in esso non vigano le preclusioni previste per il giudizio
di cognizione ordinario, con la conseguenza che in esso: 1) potranno essere proposte per tutto il corso di esso domande nuove,
anche riconvenzionali, in conformità delle direttive dettate dal giudice nella gestione del processo, senza con ciò peraltro che la
loro eventuale mancata proposizione possa impedirne la proposizione in separato giudizio; 2) potranno essere ammesse altresì
prove nuove, anche in correlazione con i fatti sopravvenuti dedotti nel corso del processo; fatti che – peraltro – anche in questo
caso il giudice dovrà e potrà prendere in esame se ed ove dedotti e sempre nei limiti delle domande proposte. Più in particolare
trattasi di un procedimento svolgentesi nell’interesse delle parti ed anche nel quale – diversamente da quanto accade nel caso in
cui si tratti di modifica dell’assegno di mantenimento di figli minori – vige il principio della domanda e della corrispondenza fra il
“chiesto” ed il “pronunciato”, investendo l’”officiosità del procedimento” unicamente il profilo dell’impulso al suo svolgimento, ed,
in certa misura (ai sensi dell’art. 738, comma 3) l’acquisizione di materiale probatorio. Quanto poi al giudizio di secondo grado
nascente dal “reclamo”, fermo che quest’ultimo costituisce un mezzo di impugnazione avente carattere “devolutivo” e come tale
ha per oggetto la revisione della decisione di primo grado nei limiti del “devolutum” e delle censure formulate ed in correlazione
alle domande formulate in quella sede, in esso giudizio, mentre possono essere allegate – stante la libertà di forme proprie del
procedimento – fatti nuovi, non possono essere proposte domande nuove, in quanto queste ultime snaturerebbero la natura del
reclamo quale mezzo di impugnazione e, come tale, avente la funzione di rimuovere vizi del precedente provvedimento.
Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2000, n. 8382 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le cause nelle quali il pubblico ministero deve intervenire a pena di nullità sono indicate dall’art. 70 c.p.c. ovvero, come tale
norma a sua volta prevede, dalla legge caso per caso. Tra esse non rientrano quelle che hanno per oggetto le azioni di cui agli
artt. 261 e 148 c.c. relative al contributo per il mantenimento del figlio al quale è tenuto il genitore naturale.
Cass. civ. Sez. I, 7 giugno 2000, n. 7713 (Foro It., 2001, I, 187 nota di D’ADDA)
La condotta del genitore, tale riconosciuto a seguito di dichiarazione giudiziale, che per anni aveva ostinatamente rifiutato di
corrispondere al figlio i mezzi di sussistenza, dà luogo da una “lesione in sé” di fondamentali diritti della persona inerenti alla
qualità di figlio e di minore, e conseguentemente può costituire il presupposto per una condanna al risarcimento del danno,
indipendentemente dall’esistenza di perdite patrimoniali del danneggiato.
Posto che la lesione di diritti di rilevanza costituzionale va incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sé della lesione (danno
– evento) indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare (danno – conseguenza), va
confermata la decisione di merito che abbia riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, liquidato in via equitativa, del figlio
naturale in conseguenza della condotta del genitore, tale riconosciuto a seguito di dichiarazione giudiziale, che per anni aveva
ostinatamente rifiutato di corrispondergli i mezzi di sussistenza.
Cass. civ. Sez. I, 3 marzo 2000, n. 2381 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mancata partecipazione del p.m. nei giudizi relativi alla revisione dell’assegno per il mantenimento dei figli minori di genitori
divorziati può essere fatta valere come motivo di gravame solo da chi intende salvaguardare gli interessi dei figli stessi, e non,
quindi, dal genitore che, chiedendo che sia ridotta, o azzerata, la misura dell’assegno posto a suo carico, mira a contrastare
quell’interesse, per la cui tutela è disposta la garanzia della partecipazione del p.m.
Cass. civ. Sez. I, 29 maggio 1999, n. 5262 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale, l’art. 155 c.c. nel rimettere alle determinazioni di entrambi i coniugi “le scelte di maggior
interesse per i figli”, non impone, riguardo ad esse, alcuno specifico onere di informazione al genitore affidatario, dovendo tale
onere ritenersi implicitamente gravante su quest’ultimo (sempre che il suo adempimento non rischi di risolversi in un danno
per il minore in relazione alla indifferibilità della scelta) nel solo caso in cui l’informazione sia necessaria affinché il genitore non
affidatario possa partecipare alla decisione con riguardo ad eventi eccezionali ed imprevedibili. Ne consegue che, nelle scelte “di
maggior interesse” della vita quotidiana del minore – quali, di regola, quelli attinenti alla sua istruzione, in relazione ai quali l’art.
155 citato prevede espressamente un dovere di vigilanza del coniuge non affidatario – ciascun genitore, in ogni caso ed in ogni
tempo, ha un autonomo potere di attivarsi nei confronti dell’altro per concordarne le eventuali modalità, e, in difetto, ricorrere
all’autorità giudiziaria.
Cass. civ. Sez. I, 5 maggio 1999, n. 4459 (Famiglia e Diritto, 1999, 4, 318, nota di DELCONTE)
Il genitore cui sono affidati i figli ha l’esercizio esclusivo della potestà, mentre soltanto le decisioni di maggiore interesse devono
essere adottate da entrambi i genitori. Occorre dunque distinguere il concetto di “spese straordinarie” da quello di “scelte straordinarie”
(rectius “decisioni di maggiore interesse”) per cui soltanto nel secondo caso il coniuge non affidatario può intervenire
nell’interesse dei figli. Di conseguenza non vi è a carico del coniuge affidatario alcun obbligo di previa concertazione con l’altro
coniuge sulla determinazione delle spese straordinarie, nei limiti in cui esse non implichino decisioni di maggiore interesse dei figli.
La statuizione giudiziale, con la quale venga posto a carico del coniuge non affidatario l’onere delle spese straordinarie documentate
sostenute nell’interesse dei figli, non contrasta, in sé considerata, con la regola che sancisce il concorso di entrambi i
genitori nelle decisioni di maggiore interesse per la prole.
Non sussiste, alcun obbligo a carico del coniuge affidatario di concordare anticipatamente con l’altro coniuge, l’ammontare delle
spese straordinarie, nei limiti in cui esse non implichino decisioni di maggiore interesse.
Il concetto di “spese straordinarie” è ben distinto dalla nozione “decisioni di maggiore interesse” per i figli (che, a norma dell’art.
6, comma 4, legge n. 898 del 1970 vanno adottate da entrambi i genitori anche allorché il genitore affidatario abbia l’esercizio
esclusivo della potestà sugli stessi). Pertanto, il provvedimento con il quale il tribunale, nel determinare il modo e la misura
con cui il genitore non affidatario deve contribuire al mantenimento dei figli, ponga a carico di detto genitore l’intero importo delle spese straordinarie, adeguatamente documentate, sostenute dall’altro coniuge nell’interesse dei figli, deve considerarsi
legittimo qualora pur, escludendo un obbligo di concertazione con il padre in ordine alle predette spese, non lo estrometta dalle
decisioni di maggiore interesse per i figli, in quanto, per le erogazioni involgenti siffatte decisioni, resta salvo il diritto del padre
di concorrere ad assumerle.
Cass. civ. Sez. I, 18 febbraio 1999, n. 1353 (Famiglia e Diritto, 1999, 5, 455, nota di MORELLO DI GIOVANNI)
L’obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora
questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, sia tuttavia ancora dipendente dai genitori. Ne consegue che, in tale ipotesi, il
coniuge separato o divorziato, già affidatario è legittimato, iure proprio (ed in via concorrente con la diversa legittimazione del
figlio, che trova fondamento nella titolarità, in capo a quest’ultimo, del diritto al mantenimento), ad ottenere dall’altro coniuge
un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne.
Cass. civ. Sez. I, 29 gennaio 1999, n. 782 (Famiglia e Diritto, 1999, 3, 295)
L’ordinanza con la quale il presidente del tribunale pronunci, ai sensi dell’art. 708 c.p.c., i provvedimenti temporanei ed urgenti
di contenuto economico nell’interesse dei coniugi e della prole non costituisce titolo per la emanazione di una successiva ingiunzione
di pagamento ai sensi dell’art. 633 stesso codice, trattandosi di provvedimento (esaminabile soltanto nel contesto
del procedimento cui accede) autonomamente presidiato da efficacia esecutiva, tale da assicurare sufficiente garanzia di realizzazione
dell’interesse del creditore. Non induce a diverse conclusioni la circostanza che i provvedimenti temporanei emessi
dal presidente del tribunale ai sensi dell’art. 708 citato non hanno natura di sentenza e non sono, pertanto idonei a formare
regiudicata, atteso che anche in relazione ai giudizi di separazione ed ai provvedimenti in essi adottati si configura un sistema di
preclusioni (litispendenza per il credito oggetto di pronuncia non ancora passata in giudicato, preclusione da regiudicata quando
la litispendenza sia cessata a seguito di sentenza che assorbe i precedenti provvedimenti interinali ovvero per estinzione del
processo) non rimuovibili se non con i mezzi e nelle forme previste dalla legge (revisione ex art. 710 c.p.c. avverso la sentenza
definitiva, emissione di altri provvedimenti a seguito di un nuovo ricorso per separazione personale in caso di estinzione del
primo processo ex art. 189 disp. att. c.p.c.).
Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 1998, n. 12333 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione dei coniugi e di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il diritto alla corresponsione dell’assegno
di mantenimento, in quanto avente ad oggetto più prestazioni autonome, distinte e periodiche, si prescrive non a decorrere da
un unico termine rappresentato dalla data della pronuncia della sentenza di separazione o di cessazione degli effetti civili del
matrimonio, bensì dalle singole scadenze di pagamento, in relazione alle quali sorge, di volta in volta, l’interesse del creditore
a ciascun adempimento.
Cass. civ. Sez. I, 29 ottobre 1998, n. 10803 (Famiglia e Diritto, 1999, 3, 263, nota di CAMPUS)
Nel procedimento di divorzio fra coniugi con figli minori o incapaci, a norma degli art. 4 e 5 legge n. 898 del 1970 (come novellati
dalla legge n. 74 del 1987), il p.m. è litisconsorte necessario in concorrenza con le parti private ed è titolare di un autonomo
potere di impugnazione in relazione agli interessi dei suddetti figli.
Cass. civ. Sez. I, 8 settembre 1998, n. 8868 (Giur. It., 1999, 916, nota di BARBIERA)
Se una sentenza attribuisce a uno dei coniugi separati col quale convivono i figli minori un assegno per il loro mantenimento, il
raggiungimento della maggiore età dei figli senza l’acquisizione di indipendenza economica non estingue il diritto del genitore
convivente a pretendere l’assegno di mantenimento in concorso alternativo coi figli.
Il principio generale di tutela della prole, desumibile da varie norme dell’ordinamento ( art. 30 cost., art. 147, 148, 155, comma
4, c.c., art. 6, l. n. 898 del 1970, come modificato dalla l. n. 74 del 1987) che porta ad assimilare la posizione del figlio divenuto
maggiorenne, ma tuttora dipendente non per sua colpa dai genitori, a quella del figlio minore, e che impone di ravvisare
la protrazione dell’obbligo di mantenimento, oltre che di educazione e di istruzione, fino al momento in cui il figlio stesso abbia
raggiunto una propria indipendenza economica, ovvero versi in colpa per non essersi messo in condizione di conseguire un titolo
di studio o di procurarsi un reddito mediante l’esercizio di un’idonea attività lavorativa, o per avere detta attività ingiustificatamente rifiutato comporta che il coniuge separato o divorziato è legittimato (in via concorrente con la diversa legittimazione del figlio maggiorenne, che trova il suo fondamento nella titolarità del diritto al mantenimento) ad ottenere “iure proprio” dall’altro coniuge un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne con esso convivente e che non sia ancora in grado di procurarsi autonomi mezzi di sostentamento.
Corte cost. 13 maggio 1998, n. 166 (Giur. Cost., 1998, 1419)
Il primo obbligo enunciato dall’art. 147 del codice civile consiste in quello di mantenimento della prole: è questo un dovere inderogabile, che nella sua concreta attuazione è commisurato in proporzione alle rispettive sostanze dei genitori e alle capacità di lavoro di ciascuno.
Cass. civ. Sez. I, 11 marzo 1998, n. 2670 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo dei genitori di concorrere tra loro secondo le regole dell’art. 148 c.c. al mantenimento dei figli non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma continua invariato finché i genitori o il genitore interessato non provi che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica oppure che è stato da loro posto nella concreta posizione di poter essere autosufficiente, ma non ne abbia tratto profitto per sua colpa. Ne consegue che il genitore il quale contesta la sussistenza del proprio obbligo di mantenimento nei confronti di figli maggiorenni che non svolgono attività lavorativa retribuita, è tenuto a fornire la prova della condotta colpevole del figlio che persista in un atteggiamento d’inerzia nella ricerca di un lavoro compatibile con le sue attitudini e la sua professionalità, ovvero di rifiuto di corrispondenti occasioni di lavoro.
Cass. civ. Sez. I, 8 novembre 1997, n. 11025 (Famiglia e Diritto, 1998, 2, 182)
Il dovere di mantenere, istruire ed educare la prole, secondo il precetto di cui all’art. 147 c.c., impone ai genitori, anche in caso di separazione, di far fronte ad una molteplicità di esigenze dei figli, certamente non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma inevitabilmente estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, alla assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione – fin quando la loro età lo richieda – di una stabile organizzazione domestica, adeguata a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione, mentre il parametro di riferimento, ai fini della corretta determinazione del rispettivo concorso negli oneri finanziari, è costituito, giusto disposto dell’art. 148, non soltanto dalle “rispettive sostanze”, ma anche dalla rispettiva capacità di lavoro, professionale o casalingo, di ciascun coniuge, con espressa valorizzazione non soltanto delle risorse economiche individuali, ma anche delle accertate potenzialità reddituali. Ne deriva che la fissazione, da parte del giudice di merito, di una somma quale contributo per il mantenimento di un figlio minore può legittimamente venir correlata non tanto alla quantificazione delle entrate derivanti dall’attività professionale svolta dal genitore non convivente, quanto piuttosto ad una valutazione complessiva del minimo essenziale per la vita e la crescita di un bambino dell’età suindicata.
Cass. pen. Sez. VI, 31 ottobre 1996, n. 1071 (Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 1999, 1111 nota di ZAGNONI BONILINI)
Il rinvio dell’art. 12 sexies l. 1 dicembre 1970, n. 898 (disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), come modificato dall’art. 21 della legge 6 marzo 1987, n. 74, deve intendersi fatto alle pene previste dal comma 2 dell’art. 570 c.p., trattandosi di violazione di obbligo di natura economica e non di assistenza morale. Ne consegue l’obbligo di irrogare anche la pena pecuniaria prevista congiuntamente a quella detentiva.
Corte cost., 25 giugno 1996, n. 214 (Famiglia e Diritto, 1996, 5, 424, nota di CARBONE)
È costituzionalmente illegittimo – per contrasto con l’art. 30, comma 3 della costituzione l’art. 70 c.p.c. nella parte in cui non prescrive l’intervento obbligatorio del pubblico ministero nei giudizi tra genitori naturali che comportino “provvedimenti relativi ai figli”, nei sensi di cui all’articolo 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 e 710 c.p.c., come risulta a seguito della sentenza n. 416 del 1992.
Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 1995, n. 3402 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli – che investe contemporaneamente tutti gli ascendenti di pari grado di entrambi i genitori – va inteso non solo nel senso che l’obbligazione degli ascendenti è subordinata e, quindi, sussidiaria rispetto a quella, primaria, dei genitori, ma anche nel senso che agli ascendenti non ci si possa rivolgere per un aiuto economico per il solo fatto che uno dei due genitori non dia il proprio contributo al mantenimento dei figli, se l’altro genitore è in grado di mantenerli.
Cass. civ. Sez. I, 28 giugno 1994, n. 6215 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il principio generale di tutela della prole, desumibile da varie norme dell’ordinamento ( art. 30 cost., art. 147, 148, 155 comma 4 c.c., art. 6 legge n. 898 del 1970, come modificato dalla legge n. 74 del 1987) – che porta ad assimilare la posizione del figlio divenuto maggiorenne, ma tutt’ora dipendente non per sua colpa dai genitori, a quella del figlio minore, e che impone di ravvisare la protrazione dell’obbligo di mantenimento, oltre che di educazione e di istruzione, fino al momento in cui il figlio stesso abbia raggiunto una propria indipendenza economica, ovvero versi in colpa per non essersi messo in condizione di conseguire un titolo di studio o di procurarsi un reddito mediante l’esercizio di un’idonea attività lavorativa, o per avere detta attività ingiustificatamente rifiutato – comporta che il coniuge separato o divorziato è legittimato (in via concorrente con la diversa legittimazione del figlio maggiorenne, che trova il suo fondamento nella titolarità del diritto al mantenimento) ad ottenere “iure proprio” dall’altro coniuge un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne con esso convivente e che non sia ancora in grado di procurarsi autonomi mezzi di sostentamento.
Corte cost., 9 novembre 1992, n. 416 (Giur. It., 1993, I,1, 1152, nota di DALMOTTO)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 710 c.p.c., nel testo sostituito dall’art. 1 della legge 29 luglio 1988, n. 331, nella parte in cui non prevede la partecipazione del pubblico ministero per la modifica dei provvedimenti riguardanti la prole dei coniugi separati.
Cass. pen. Sez. VI, 21 novembre 1991, n. 479 (Riv. Pen., 1992, 449 nota di ALIBRANDI)
In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, le diverse ipotesi previste dall’art. 570 c. p. non configurano una pluralità di reati distinti, ma pur nella varietà dei fatti incriminabili, si riferiscono ad un unico titolo di reato, avente come contenuto fondamentale tipico l’inosservanza cosciente e volontaria dei vari obblighi di assistenza familiare scaturenti dal vincolo matrimoniale e dal rapporto di parentela; da ciò consegue che è erroneo voler far rientrare nella previsione di cui al 1° comma, del suddetto art. 570 c. p. il comportamento di colui che corrisponda al coniuge separato l’assegno di mantenimento per il figlio minore a questi affidato in una misura leggermente inferiore a quella fissata all’atto della separazione e comunque sufficiente a garantire al predetto minore i mezzi di sussistenza in quanto, in base alla formulazione complessiva dell’articolo di legge in questione, l’unico comportamento penalmente rilevante del coniuge obbligato al versamento di un assegno di mantenimento in favore dell’altro coniuge dal quale viva separato, o dei figli minori od inabili a questi affidati, si realizza allorché il versamento dell’assegno venga del tutto omesso, o ne sia ridotto l’importo in misura tale da non garantire i mezzi di sussistenza ai beneficiari dell’assegno.
Cass. civ. Sez. I, 29 aprile 1991, n. 4722 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ordinanza con la quale il presidente del tribunale dà, ai sensi dell’art. 708 c.p.c. i provvedimenti temporanei ed urgenti di contenuto economico nell’interesse dei coniugi e della prole, non costituisce titolo per la pronuncia di ingiunzione di pagamento ai sensi dell’art. 633 c.p.c., trattandosi di provvedimento che può formare oggetto di esame soltanto nel contesto del procedimento cui accede e che è autonomamente presidiato da efficacia esecutiva che assicura sufficiente garanzia di realizzazione dell’interesse del creditore.
Cass. civ. Sez. I, 21 maggio 1988, n. 3541 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nelle controversie riguardanti la modificazione, circa il mantenimento della prole, delle condizioni della separazione dei coniugi, che spettano per ragioni di materia alla cognizione non del tribunale per i minorenni, ma del tribunale ordinario (da individuarsi secondo le comuni regole sulla competenza territoriale fissate dagli art. 18 segg. c. p. c.), deve escludersi l’obbligatorietà dell’intervento del pubblico ministero, in difetto di espressa previsione.
Cass. civ. Sez. I, 26 febbraio 1988, n. 2043 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il contributo di mantenimento cui il coniuge non affidatario è tenuto a favore dei figli in caso di separazione o di divorzio non è governato né dal principio di disponibilità né dal principio della domanda, presupposti dell’ordinario processo civile, essendo ilgiudice titolare al riguardo di un potere-dovere improntato a difesa di un superiore interesse dello stato alla tutela e alla cura dei minori; nell’esercizio di tale potere, pertanto, il giudice non ha bisogno di domanda, né è vincolato dagli accordi fra i coniugi, sia per la determinazione dell’assegno, sia per la sua eventuale indicizzazione, potendo procedere d’ufficio alla sua rivalutazione anche in appello.
Corte cost., 18 febbraio 1988, n. 186 (Dir. Famiglia, 1988, 700 nota di MOROZZO DELLA ROCCA)
È in contrasto col principio di eguaglianza la predisposizione, per i coniugi separati consensualmente, di garanzie patrimoniali minori di quelle previste per i coniugi separati con sentenza del giudice; pertanto, l’art. 158 c. c. è incostituzionale, per violazione dell’art. 3 cost., nella parte in cui non prevede che il decreto di omologazione della separazione consensuale dei coniugi costituisca titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale, ai sensi dell’art. 2818 c. c., come lo costituisce, ai sensi dell’art. 156, 5° comma, cod. cit., la sentenza che pronunzia la separazione personale dei coniugi.

MANTENIMENTO DEI FIGLI M

Impresa familiare

IMPRESA FAMILIARE
Di Gianfranco Dosi

I. La tutela del lavoro prestato da un familiare a favore dell’imprenditore
a) La tutela nella famiglia matrimoniale
b) La tutela nelle unioni civili
c) La tutela tra conviventi di fatto
II. L’impresa familiare come impresa individuale
III. I diritti attribuiti al collaboratore
IV. I presupposti per la determinazione della partecipazione agli utili
V. Le caratteristiche del credito del collaboratore dell’impresa familiare
VI. Come si determina la quota degli utili spettanti al familiare collaboratore dell’impresa familiare?
VII. La quota di utili attribuita al familiare collaboratore costituisce reddito a fini fiscali?

I
La tutela del lavoro prestato da un familiare a favore dell’imprenditore
a) La tutela nella famiglia matrimoniale
L’art. 230-bisdel codice civile – intitolato impresa familiare e introdotto per la famiglia fondata sul matrimonio con la riforma del 1975 – ha la pacifica funzione di garantire che l’attività lavorativa prestata con continuità a vantaggio dell’imprenditore da un suo familiare sia adeguatamente remunerata. Non può essere considerata un’attività lavorativa svolta gratuitamente.
Ed in effetti, l’art. 230-bis prescrive molto chiaramente che “Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato”. In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda i familiari in questione hanno diritto di prelazione sull’azienda.
Non solo. Ove si configuri questo tipo di rapporto, il familiare ha anche diritto a prendere parte alle decisioni che influiscono sull’insieme di quei diritti (anche se, come si vedrà, la giurisprudenza non applica alla lettera questa indicazione, effettivamente contrastante con i poteri necessariamente pieni di indirizzo dell’impresa, unicamente appartenenti all’imprenditore). Prevede a tale proposito l’art. 230-bische “Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa. I familiari partecipanti all’impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi”.
Naturalmente – come la disposizione in parola precisa molto bene – “Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo”.
Nel testo introdotto dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 –che riguarda la famiglia matrimoniale – la norma prevede che “Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo”.
La tutela assicurata è personalissima e quindi intrasferibile. Infatti, come conclude l’art. 230-bis “Il diritto di partecipazione di cui al primo comma è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a favore di familiari indicati nel comma precedente col consenso di tutti i partecipi. Esso può essere liquidato in danaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione del lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell’azienda. Il pagamento può avvenire in più annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice”.
b) La tutela nelle unioni civili
La legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina della convivenza di fatto) all’art. 1, comma 21, estende anche alla unioni civili la disposizione di cui all’art. 230-bis c. c. nell’ambito di un rinvio complessivo e generale alla maggior parte delle disposizioni sul regime patrimoniale della famiglia fondata sul matrimonio (tra le quali, appunto, l’art. 230-bis c.c.).
Tuttavia, poiché il comma 20 dell’art.1 della legge esclude l’applicazione alle unioni civili delle norme del codice civile non espressamente richiamate e poiché non è richiamato l’art. 78 sul vincolo di affinità (avendo voluto escludere il legislatore per le unioni civili una concezione allargata dei legami di natura familiare riservata illogicamente alla sola famiglia cosiddetta matrimoniale) ne deriva che la tutela assicurata dall’art. 230-bis alle parti dell’unioni civile è limitata all’attività di lavoro prestata a favore del partner o dei propri parenti entro il terzo grado.
c) La tutela tra conviventi di fatto
La nozione di “familiari” legati alla famiglia matrimoniale aveva sempre lasciato fuori dalla tutela offerta dall’art. 230-bis del codice civile i componenti della famiglia di fatto dell’imprenditore che collaborano nella sua impresa (Cass. civ. Sez. II, 29 novembre 2004, n. 22405 e Cass. civ. Sez. lavoro, 2 maggio 1994, n. 4204 che aveva ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 230-bis nella parte in cui esclude dall’ambito dei soggetti tutelati il convivente more uxorio) anche se una parte della giurisprudenza più recente aveva espresso un orientamento favorevole al riconoscimento della tutela tra conviventi more uxorio (per esempio Cass. civ. Sez. lavoro, 15 marzo 2006, n. 5632 aveva sostenuto che“l’art. 230-bis c.c. è applicabile anche in presenza di una famiglia di fatto, che costituisce una formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale”).Qualche apertura, seppure con riferimento alla comunione tacita familiare, era contenuto già in Cass. civ. Sez. lavoro, 19 dicembre 1994, n. 10927.
È stata la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina della convivenza di fatto) ad operare una svolta in questo ambito sostanzialmente estendendo alla convivenza di fatto il principio che il lavoro prestato a vantaggio di un familiare non può considerarsi effettuato a titolo gratuito.
La legge in questione non ha però semplicemente richiamato per i conviventi di fatto l’art. 230-bis c.c., ma ha introdotto nel codice civile (con l’art. 1, comma 46) un apposito art. 230-ter (diritti del convivente) secondo cui “Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”.
A parte qualche distinzione di tipo lessicale – ed a parte l’omesso riferimento al diritto al mantenimento che tra conviventi non è prevedibile – sostanzialmente la norma riproduce la tutela indicata nell’art. 230-bis che riguarda qui, però, il solo rapporto tra i due conviventi di fatto con la conseguente esclusione del meccanismo di partecipazione alle decisioni dell’imprenditore da adottare a maggioranza, e del principio di trasferibilità ai familiari del diritto di partecipazione (in entrambi i casi illogicamente esclusi, però, in caso per esempio di eventuali figli della coppia che partecipino all’attività di impresa).
II
L’impresa familiare come impresa individuale
L’impresa familiare – alla quale fa riferimento l’art. 230-bis del codice civile – è una realtà organizzativa delle attività commerciali, di media e piccola dimensione, molto diffusa, attraverso la quale l’imprenditore gestisce la sua azienda con la collaborazione continuativa dei propri familiari.
L’impresa ha pacificamente natura non collettiva, ma individuale dell’imprenditore.
Il principio è stato più volte affermato in giurisprudenza, per esempio Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 2015, n. 24560 secondo cui l’impresa familiare appartiene solo al suo titolare anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, a differenza dell’impresa collettiva che appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone; Cass. civ. Sez. lavoro, 13 ottobre 2015, n. 20552 per cui l’esercizio dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria; Cass. civ. Sez. lavoro, 18 gennaio 2005, n. 874 secondo cui il familiare titolare dell’impresa è l’unico soggetto passivo obbligato in relazione al diritto di credito spettante a ciascuno dei familiari che collaborano e il diritto del singolo prestatore di lavoro non è condizionato dall’analogo diritto che spetta agli altri familiari, in quanto esso è commisurato alla qualità e quantità del lavoro prestato; Cass. civ. Sez. lavoro, 25 luglio 1992, n. 8959 che giustamente richiama a questo proposito la disposizione tributaria che ai fini esclusivamente fiscali limita nella misura del quarantanove per cento la possibilità di imputazione ai familiari compartecipanti dei redditi dell’impresa familiare; Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 1992, n. 4030 dove si afferma che l’impresa familiare, così come disciplinata dall’art. 230-bis c.c. ha natura di impresa individuale, con la conseguenza che la qualifica di imprenditore spetta solamente al titolare della stessa non potendo essa essere attribuita anche ai collaboratori familiari; Cass. civ. Sez. I, 27 giugno 1990, n. 6559 che del tutto coerentemente ritiene che nell’ambito dell’impresa familiare, caratterizzato dall’assenza di un vincolo societario e dall’insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra i familiari e la persona dell’imprenditore distingue un aspetto interno, costituito dal rapporto associativo del gruppo familiare quanto alla regolamentazione dei vantaggi economici di ciascun componente, ed un aspetto esterno, nel quale ha rilevanza la figura del familiare-imprenditore, effettivo gestore dell’impresa, che assume in proprio i diritti e le obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi e risponde illimitatamente e solidalmente con i suoi beni personali, con la conseguenza che il fallimento di detto imprenditore non si estende automaticamente al semplice partecipante all’impresa familiare.
Dalla natura individuale dell’impresa familiare si è anche dedotto che il familiare partecipante all’impresa familiare in caso di alienazione dell’azienda non ha diritto ad una quota del ricavato dei proventi della vendita (Trib. L’Aquila, 21 gennaio 2016).
Il carattere individuale dell’impresa familiare – come ha bene chiarito Trib. Bari Sez. lavoro, 24 settembre 2015 – sintetizza lo scopo dell’istituto che è quello di apprestare una tutela effettiva al familiare che presta la propria attività a favore di un altro familiare.
Il principio della natura individuale dell’impresa familiare è confermato dagli stessi criteri di tassazione per i quali è soggetto passivo unicamente l’imprenditore familiare e non anche i familiari collaboratori (Cass. civ. Sez. VI, 24 novembre 2016, n. 24060; Cass. civ. Sez. VI, 17 giugno 2016, n. 12616)
Essendo questo della natura individuale dell’impresa familiare un dato che appare storicamente acquisito, stupisce una definizione recente dell’impresa familiare coltivatrice come impresa collettiva (Cass. civ. Sez. lavoro, 4 ottobre 2013, n. 22732) nella quale “obbligati in relazione al credito per gli utili, se ed in quanto esistenti, spettanti a ciascuno dei familiari che abbia prestato la propria attività lavorativa nella famiglia, sono l’impresa familiare e gli altri familiari consorziati”.
III
I diritti attribuiti al collaboratore
L’elemento della collaborazione lavorativa dei familiari con il titolare dell’impresa è al centro del contenzioso che riguarda i diritti patrimoniali dei familiari.
Intanto va detto che al fine di dimostrare la partecipazione del coniuge o di uno stretto parente del titolare all’impresa familiare ex art. 230-bis del codice civile è necessario che gli stessi abbiano fornito un contributo all’organizzazione dell’impresa stessa mediante la prova sia di uno svolgimento di tipo continuativo ovvero non saltuario ma regolare e costante anche se non necessariamente a tempo pieno, sia dell’accrescimento della produttività procurato dal lavoro del partecipante quale elemento indispensabile al fine di determinare la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi (Trib. Bari Sez. lavoro, 20 novembre 2014).
Le controversie sono di competenza del giudice del lavoro, sussistendo il requisito della parasubordinazione nell’attività svolta (conformi in questo senso sono numerose pronunce da Cass. civ. Sez. lavoro, 23 novembre 1984, n. 6069 a Cass. civ. Sez. lavoro, 26 agosto 1997, n. 8033).
L’elemento della subordinazione dei familiari rispetto al titolare che gestisce l’azienda distingue l’impresa familiare dall’azienda coniugale – prevista nell’art. 177 lett. d del codice civile – che è invece cogestita dai coniugi e le cui problematiche appartengono al regime della comunione legale (Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390).
Il secondo comma dell’art. 230-bis del codice civile richiama i principi di parità precisando opportunamente che “il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo”.
Al familiare, perciò, che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nell’impresa familiare [o nella famiglia se questo lavoro assume rilievo diretto nella gestione dell’impresa: Cass. sez. Unite 4 febbraio 1995, n. 89] – e sempre che non sia configurabile un diverso rapporto disciplinato in altro modo dalla legge (per esempio rapporto societario o di lavoro subordinato) – l’art. 230-bis attribuisce il “diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia” e la partecipazione “agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato”.
Secondo quanto precisa il quarto comma dell’art. 230-bis (per la famiglia matrimoniale e per l‘unione civile) – e s’intende anche con riguardo all’impresa familiare ex art. 230-ter c.c. tra conviventi di fatto – la liquidazione dei diritti di partecipazione (agli utili dell’impresa ed ai beni acquistati con essi) può essere effettuata (e quindi le parti possono pattuire modalità diverse) in denaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione di lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell’azienda; il pagamento può avvenire anche in più annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice.
Per ciò che attiene all’impresa familiare nella famiglia matrimoniale o nell’unione civile diritto al mantenimento e di partecipazione agli utili – e quindi la tutela del familiare collaboratore – è ovviamente intrasferibile, salvo che il trasferimento non avvenga a favore di un altro familiare e con il consenso di tutti i familiari collaboratori (art. 230-bis quarto comma). Si è già detto che appare illogica la mancata previsione di questo diritto anche ai conviventi di fatto per esempio con riferimento alla trasferibilità del diritto ad un figlio comune.
Così richiamato il quadro normativo di riferimento, occorre osservare subito che quasi mai nella pratica si pone il problema del “diritto al mantenimento” (escluso in ogni caso nell’impresa familiare ex art. 230-ter c.c. tra conviventi di fatto) del familiare collaboratore, giacché in genere questo diritto è garantito nella vita matrimoniale in comune dall’art. 143 c.c. (e analogamente avviene per le unioni civili) o, in caso di separazione, dalle misure relative al contributo di sostentamento coniugale o per i figli. L’affermazione contenuta nella norma – limitatamente al mantenimento – ha, quindi, un significato storico che si potrebbe considerare superato (la norma fu inserita nel codice nel 1975 quando la condizione della vita familiare era ben diversa da oggi). Ne residua, tuttavia, una qualche rilevanza proprio nella problematica relativa al calcolo degli utili – come si dirà – dal momento che secondo l’orientamento della giurisprudenza che si è occupata dell’impresa familiare in ambito matrimoniale “gli utili da attribuire ai partecipanti all’impresa familiare vanno calcolati al netto delle spese di mantenimento, pure gravanti sul familiare che esercita l’impresa” (Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650 Cass. civ. Sez. lavoro, 2 aprile 1992, n. 4057). Ed è del tutto ragionevole che sia così perché mantenimento e partecipazione agli utili sono due voci che, dovendo trovare soddisfazione da un’unica fonte di reddito, sono inevitabilmente da computare insieme nel medesimo diritto di credito del collaboratore.
IV
I presupposti per la determinazione della partecipazione agli utili
Per la soluzione del problema relativo ai criteri di determinazione della partecipazione “agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi” è necessario in via preliminare richiamare innanzitutto una norma tributaria capace di imprimere tutele differenziate alle pretese creditorie dei familiari collaboratori partecipanti.
Ed è opportuno subito avvertire che la norma tributaria in questione andrà aggiornata dal legislatore con riferimento all’estensione dell’art. 230-bis alle unioni civili e all’introduzione per i conviventi di fatto dell’art. 230-ter c.c. in quanto l’attuale normativa tributaria fa riferimento alla sola famiglia matrimoniale.
La norma in questione è l’art. 5 del DPR 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo unico delle imposte sui redditi) riproduttivo di precedenti analoghe disposizioni contenute nella normativa fiscale (in particolare dell’articolo 5 del DPR 29 settembre 1973, n. 597).
L’art.5 del Testo Unico – trattando delle modalità di tassazione dei redditi prodotti in forma associata così si esprime al quarto comma: “I redditi delle imprese familiari di cui all’art. 230-bis del codice civile, limitatamente al 49 per cento dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili.
La presente disposizione si applica a condizione:
a) che i familiari partecipanti all’impresa risultino nominativamente, con l’indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo d’imposta, recante la sottoscrizione dell’imprenditore e dei familiari partecipanti; b) che la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore rechi l’indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l’attesta¬zione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa, in modo continuativo e prevalente, nel periodo d’imposta; c) che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell’impresa in modo continuativo e prevalente.
Il quinto comma dell’articolo 5 – richiamandosi ai presupposti già individuati dal codice civile – ribadisce che “si intendono per familiari, ai fini delle imposte sui redditi, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado”.
Ebbene il significato della norma tributaria (dichiarata conforme a costituzione da Corte cost. 6 luglio 1987, n. 251) è molto chiaro. Essa afferma due principi: in primo luogo che i redditi dell’impresa possono essere imputati ai familiari collaboratori in misura complessivamente non superiore al 49% (in quanto l’imprenditore, essendo il titolare, deve necessariamente imputare a se stesso una quota non inferiore al 51%) e secondo luogo che questa imputazione – su cui ciascun familiare collaboratore calcolerà l’imposta dovuta – deve avvenire in modo proporzionale alla quota concordata di partecipazione agli utili. Così per esempio due coniugi potranno decidere di suddividere la loro partecipazione prevedendo che il coniuge imprenditore imputi i redditi dell’impresa a se stesso per l’80% e il coniuge collaboratore per il 20%. Oppure che l’imprenditore abbia nell’impresa familiare il 51% di quota di utili mentre il coniuge e il figlio si suddivideranno a metà il restante 49%. E così via secondo la decisione che l’imprenditore e i collaboratori ritengono di dover adottare.
Tutto ciò però alle tre condizioni precisate dall’articolo 5 e cioè in sostanza: a) che l’impresa familiare sia costituita con atto pubblico o scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo d’imposta e con l’indicazione e la sottoscrizione dei familiari partecipanti, b) che le quote rispettive siano tutte stabilite in proporzione al lavoro effettivamente prestato; c) che ognuno lo attesti nella propria dichiarazione dei redditi. Per poter, quindi, beneficiare del meccanismo di imputazione dei redditi (e quindi degli utili) sopra indicato, sarà necessario che l’impresa familiare venga sempre costituita con atto pubblico o scrittura privata autenticata. Altrimenti l’impresa – che può risultare da un qualsiasi negozio giuridico tra i partecipanti, ovvero sussistere anche per fatti concludenti e cioè da atti dai quali si possa desumere l’esistenza della volontà di dare vita all’impresa familiare (Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003, n. 9683; Cass. civ. Sez. Unite, 4 gennaio 1995, n. 89; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650; Cass.civ. 23 novembre 1984, n. 6069) – non potrà beneficiare della norma tributaria.
Si avranno quindi sul mercato due tipi di imprese familiari: a) quelle “costituite con atto pubblico o scrittura privata autenticata” nelle quali l’indicazione delle quote di suddivisione degli utili sarà preventivamente stabilita nell’atto costitutivo e successivamente confermata nelle dichiarazioni fiscali dei partecipanti; b) le imprese familiari che possiamo chiamare “di fatto”, alle quali pur sempre sarà riferibile la tutela offerta dall’art. 230-bis del codice civile, ma che non potranno giovarsi del sistema di imputazione dei redditi (e degli utili) proporzionale alle quote prestabilite e per le quali quindi il problema della prova della quantità è della qualità della partecipazione sarà meno agevole.
Il problema della determinazione degli utili si deve affrontare, quindi, in modo diverso a seconda del tipo di impresa familiare implicata.
V
Le caratteristiche del credito del collaboratore dell’impresa familiare
Bisogna innanzitutto ricordare che l’istituto dell’impresa familiare ha natura residuale rispetto ad ogni altro tipo di rapporto negoziale eventualmente configurabile ed è incompatibile con la disciplina delle società di qualunque tipo. Nel contesto letterale della disposizione di riferimento, costituita dall’art. 230-bis c.c., mentre la scelta del legislatore di utilizzare costantemente il lemma impresa, di carattere oggettivo, significativo dell’attività economica organizzata, piuttosto che fare riferimento all’imprenditore come soggetto obbligato, resta di per sé neutra, ciò che si palesa irriducibile ad una qualsiasi tipologia societaria è la disciplina patrimoniale concernente la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato e non, quindi, in proporzione alla quota di partecipazione (Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 2015, n. 24560; Cass. civ. Sez. lavoro, 13 ottobre 2015, n. 20552; Cass. civ. Sez. Unite, 6 novembre 2014, n. 23676). Tutto ciò sempre che il giudice non ritenga che si debba applicare la normativa sul lavoro subordinato ove ve ne siano i presupposti (Cass. civ. Sez. lavoro, 22 settembre 2014, n. 19925).
Ciò premesso la prima caratteristica della pretesa creditoria del familiare collaboratore è quella che gli utili a lui spettanti sono in genere liquidati (spontaneamente o in via giudiziale) alla cessazione della prestazione di lavoro. E’ quanto prevede, come si è visto, il quarto comma dell’art. 230-bis codice civile (App. Bologna Sez. lavoro, 21 marzo 2013).
È fatta salva naturalmente una volontà contraria dei partecipanti all’impresa per esempio per la liquidazione periodica degli utili o perché una certa quota di utili è stata già ripartita. E’ evidente che in questi casi la determinazione degli utili spettanti alla cessazione della prestazione di lavoro riguarda solo gli utili che non sono stati già liquidati (Cass. civ. Sez. lavoro, 8 marzo 2011, n. 5448).
Va inoltre precisato che normalmente le dimensioni medio-piccole dell’impresa familiare, consentono di ipotizzare che ciascuno dei collaboratori si avvalga dei risultati proprio mentre l’impresa li realizza. Non c’è – come avviene nelle società – un momento formale di divisione degli utili, ma c’è viceversa un avvantaggiarsi di ciascuno dei risultati conseguiti – anche attraverso il reimpiego degli utili nell’azienda – proprio via via che vengono conseguiti. Ciò significa in sostanza che i redditi prodotti servono anche al mantenimento continuativo di tutti i collaboratori.
Questo comporta che la determinazione degli utili da liquidare è una operazione con una particolarità specifica che deriva dal fatto che il collaboratore si è già avvantaggiato di una quota della redditività prodotta in azienda. Per questo – come si è sopra anticipato – la giurisprudenza ritiene giustamente che gli utili da attribuire ai partecipanti all’impresa familiare vanno calcolati al netto delle spese di mantenimento (Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650; Cass. civ. Sez. lavoro, 2 aprile 1992, n. 4057). Ugualmente si ritiene che, poiché all’imprenditore spettano i poteri di gestione e di organizzazione del lavoro, in sede di ripartizione degli utili in favore dei familiari compartecipanti non deve tenersi conto degli incrementi del capitale (Cass. civ. Sez. lavoro, 6 marzo 1999, n. 1917). La tesi è convincente dal momento che l’aumento del capitale costituisce certamente una voce di spesa sopportata dal solo titolare dell’azienda.
La liquidazione degli utili al momento della cessazione della prestazione di lavoro ne fa anche un diritto qualificabile solo a posteriori (Cass. civ. Sez. lavoro, 6 settembre 2016, n. 17639; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 marzo 2016, n. 5224; Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057; Cass. civ. Sez. lavoro, 22 ottobre 1999, n. 11921) condizionato dai risultati raggiunti. Effettivamente la partecipazione agli utili nell’impresa familiare non avviene di anno in anno, come è logico che sia essendo il reimpiego nell’azienda – e non la loro distribuzione – la naturale destinazione degli utili. Gli utili da liquidare saranno perciò determinati dall’accrescimento della produttività dell’impresa alla data della cessazione della prestazione lavorativa rispetto alla data dell’inizio della collaborazione (Cass. civ. Sez. lavoro, 8 marzo 2011, n. 5448) detratte le spese di mantenimento dei familiari collaboratori e quelle relative all’eventuale aumento di capitale. Un’operazione di una certa complessità – dovendosi calcolare l’incremento del valore dell’azienda dovuto al lavoro del collaboratore – che il giudice, acquisite le fonti di prova, non può che effettuare con l’ausilio di un commercialista o di un altro esperto.
La seconda caratteristica è che si tratta di un credito pecuniario da lavoro e quindi, dal momento della maturazione del diritto, decorreranno altresì la rivalutazione e gli interessi (Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057; Cass. civ. Sez. lavoro, 22 ottobre 1999, n. 11921).
La terza fondamentale caratteristica è che la partecipazione agli utili e agli incrementi di produttività dell’azienda (e quindi anche all’avviamento) deve essere proporzionale e quindi parametrata “alla quantità e alla qualità del lavoro prestato” dal collaboratore, come specificamente prescrive l’art. 230-bis del codice civile. Quindi non possono essere utilizzati criteri diversi, come per esempio l’importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività, che prescindono del tutto dall’entità dei risultati conseguiti a cui invece è commisurato il diritto del componente dell’impresa familiare (Cass. civ. Sez. V, 15 settembre 2008, n. 23617; Cass. civ. Sez. lavoro, 29 luglio 2008, n. 20574; Cass. civ. Sez. lavoro, 8 aprile 2015, n. 7007; Cass. civ. Sez. lavoro, 9 ottobre 1999, n. 11332; Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390). Nel rapporto di lavoro il metro di valutazione dell’attività lavorativa è la retribuzione; nella società l’utile si di¬stribuisce in relazione alle quote sociali quale che si l’impegno del singolo compartecipe; nell’impresa familiare, invece, si deve fare riferimento specifico alla qualità e alla quantità del lavoro prestato dal collaboratore.
Al familiare che partecipa con la propria attività lavorativa all’impresa, va riconosciuta non soltanto la partecipazione agli utili ed ai beni acquistati con essi, ma anche la partecipazione agli incrementi dell’azienda, dovendosi intendere per incremento di azienda ogni aumento di valore che non sia determinato dai beni acquistati con l’impiego degli utili. Tale diritto sorge solo al momento della cessazione dell’azienda o dell’attività lavorativa del singolo familiare, sempre in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato (Trib. Modica, 10 marzo 2015).
L’ultima caratteristica è che si tratta di un credito prescrivibile in dieci anni – fatta salva l’eventuale sospensione della prescrizione tra coniugi (art. 2941, n. 1, cod. civ.) – giacché deve trovare applicazione, in assenza di una disposizione diversa, la regola generale stabilita dall’art. 2946 cod. civ. per la prescrizione ordinaria (Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2010, n. 20273; Cass. civ. Sez. lavoro, 15 luglio 2009, n. 1647).
VI
Come si determina la quota degli utili spettanti al familiare collaboratore dell’impresa familiare?
Il valore della quota del familiare collaboratore alla cessazione della sua attività lavorativa nell’impresa familiare, anche per recesso, è determinato da plusvalenze latenti, dal valore patrimoniale e dalla determinazione dell’incremento di valore di avviamento conseguito dalla data di costituzione dell’impresa familiare, elementi che – come si è detto – un consulente tecnico può facilmente attingere dai bilanci e dalla documentazione aziendale. Trattandosi spesso di somme rilevanti è molto opportuna la precisazione contenuta nell’art. 230-bis del codice civile secondo cui questi importi possono essere liquidati in più annualità.
Come si è sopra visto il problema della determinazione degli utili va affrontato tenendo conto che l’impresa familiare può essere stata costituita con atto pubblico o scrittura privata autenticata (ed in tal caso, secondo le norme tributarie sopra richiamate, potrà giovarsi del sistema di imputazione dei redditi e di partecipazione agli utili proporzionale alle quote predeterminate) o può esistere di fatto per la semplice volontà dell’imprenditore e dei partecipanti di volere questo tipo di organizzazione del lavoro nell’azienda.
Le agevolazioni delle norme tributarie hanno finito per rendere ormai visibili nel mercato la maggioranza delle imprese familiari – essendo appetibile fiscalmente la distribuzione del carico fiscale tra più persone – ma ciò non toglie che ove non vi sia stata questa predeterminazione in un atto formale, si possano porre ugualmente problemi di rivendicazione da parte dei collaboratori dei propri diritti.
In questo caso spetterà al partecipante che agisce per il conseguimento della quota “agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi” ,l’onere di provare la consistenza del patrimonio familiare e l’ammontare degli utili da distribuire.
Nel caso invece in cui vi sia stato l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata, la predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili può risultare idonea, in difetto di prova contraria, ad assolvere, mediante presunzioni, l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa stessa che dell’entità della propria quota di partecipazione. Quindi secondo la giurisprudenza le percentuali indicate nella scrittura di costituzione dell’impresa hanno una portata certamente indiziaria e presuntiva (Cass. civ. Sez. lavoro, 16 marzo 2016, n. 5224; Cass. civ. Sez. lavoro, 5 settembre 2012, n. 14908; Cass. sez. lavoro, 29 luglio 2008, n. 20574; Cass. civ. Sez. lavoro, 20 marzo 2007, n. 6631; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003 n. 9683; Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390; Cass. civ. Sez. lavoro, 25 luglio 1992, n. 8959; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650), ma non sostitutiva rispetto alla prova dell’apporto lavorativo effettivamente prestato, dal momento che la determinazione della partecipazione effettiva ai redditi dell’impresa, deve essere compiuta in relazione alla qualità e quantità del lavoro prestato in concreto nell’ambito dell’impresa stessa indipendentemente dalla predeterminazione compiuta a fini fiscali (Cass. civ. Sez. lavoro, 25 luglio 1992, n. 8959).
Inoltre il giudice non può disattendere il valore probatorio delle scritture formate ai fini fiscali, accertando l’insussistenza dell’impresa familiare, senza motivare adeguatamente sul carattere simulato dell’atto stesso (Cass. civ. Sez. lavoro, 5 settembre 2012, n. 14908; Cass. civ. Sez. lavoro, 20 giugno 2003, n. 9897; Cass. civ. Sez. lavoro, 4 agosto 1998, n. 7655).
Il significato pratico di queste affermazioni è ben spiegato in Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003 n. 9683 dove si legge che la predeterminazione delle quote di utili non è priva di effetti giuridici processuali in quanto può risultare idonea, in difetto di prova contraria, ad assolvere l’onere – a carico del partecipante, che agisca per ottenere la propria quota di utili dell’impresa familiare – di dimostrare non solo la fattispecie costitutiva dell’impresa stessa, ma anche la propria quota, appunto, di partecipazione a quegli utili. Resta, tuttavia, l’onere del familiare imprenditore – gravato dell’obbligo di corrispondere gli utili pretesi dal partecipante all’impresa familiare – di offrire la prova contraria, cioè di dimostrare – in contrasto con le presunzioni desumibili dalla esaminata predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili, l’esistenza di un rapporto giuridico diverso dalla dedotta impresa familiare (o, comunque, l’inesistenza della medesima) nonché, eventualmente, il diritto del partecipante ad una quota di utili inferiore – rispetto a quella risultante dalla citata predeterminazione – in dipendenza della minore quantità e/o qualità del lavoro effettivamente prestato.
La predeterminazione delle quote – e talvolta perfino la stessa costituzione dell’impresa familiare – sono simulate, al solo fine di poter usufruire delle possibilità dell’imputazione fiscale proporzionale prevista nelle norme tributarie. Di questo potrebbe volersi avvantaggiare il collaboratore familiare al quale quindi la giurisprudenza contrappone la linea interpretativa indicata prevedendo che il valore di quelle predeterminazioni è meramente indiziario nel senso che l’imprenditore è ammesso a provarne la non corrispondenza alla realtà.
D’altro lato, come si è visto, la costituzione dell’impresa familiare potrebbe avvenire attraverso un qualsiasi negozio giuridico (non riprodotto in un atto pubblico o una scrittura privata autenticata) o addirittura per il solo fatto che un imprenditore utilizza consapevolmente e volutamente l’apporto lavorativo di un familiare – come riconosce anche la giurisprudenza già indicata (Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003, n. 9683; Cass. civ. Sez. Unite, 4 gennaio 1995, n. 89; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650; Cass.civ., 23 novembre 1984, n. 6069) – e in questo caso è evidente che il familiare collaboratore potrà sempre provare liberamente l’esistenza dell’impresa familiare, il proprio apporto lavorativo e la propria pretesa creditoria (Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2012, n. 433).
In proposito, come ebbe a chiarire una delle prime decisioni più significative sull’impresa familiare (Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650) “ad integrare la fattispecie dell’impresa familiare è sufficiente il fatto giuridico dell’esercizio continuativo di attività economica da parte di un gruppo familiare, non essendo a detto fine necessaria una dichiarazione di volontà, o, addirittura, un negozio giuridico; peraltro l’esistenza di un atto negoziale, che ribadisca o precisi la disciplina legale dell’impresa familiare, non esclude la configurabilità della medesima, ferma comunque la necessità di verificare se le clausole di tale atto (pur compatibili con la configurabilità dell’impresa familiare) siano o no in contrasto con norme imperative del cit. art. 230-bis, con la conseguenza, nel primo caso, della loro nullità e della loro sostituzione da parte delle norme imperative che ne risultino violate”.
Quindi – secondo questa pronuncia già lontana nel tempo ma sempre attuale – nemmeno nell’ipotesi in cui il titolare voglia far figurare un’impresa familiare a proprio uso e consumo, cioè costruita negozialmente con deroghe alla disciplina legale, sarà impedita l’applicazione delle disposizioni di garanzia previste nell’art. 230-bis del codice civile.
VII
La quota di utili attribuita al familiare
collaboratore costituisce reddito a fini fiscali?
Con una risoluzione del 28 aprile 2008 (n. 176/E) l’Agenzia delle Entrate, dopo aver ricordato che il legislatore con le disposizioni sull’impresa familiare ha voluto tutelare il lavoro e il diritto di partecipazione agli utili dell’impresa del familiare collaboratore e che le norme di tutela si applicano allorché non sia configurabile un diverso rapporto tra imprenditore e familiare collaboratore, ha ribadito che la partecipazione del familiare ha rilevanza solo interna nei rapporti tra imprenditore e familiari collaboratori perché il fondamento dell’istituto va individuato nella solidarietà che deve legare i familiari e nell’esigenza di tutela e di valorizzazione del lavoro prestato dai collaboratori componenti della famiglia. In ragione di tutto ciò l’imprenditore attribuisce parte del suo reddito ai componenti della famiglia che collaborano con lui.
Ciò premesso ha escluso che il familiare collaboratore debba dichiarare fiscalmente le somme liquidate come proprio reddito e che l’imprenditore possa dedurre dal proprio reddito d’impresa la quota di utili che versa al collaboratore.
I diritti del collaboratori – ha ricordato l’Agenzia delle Entrate – non toccano la titolarità dell’azienda e secondo una interpretazione logico-sistematica, quindi, le somme corrisposte dall’imprenditore non sono collegabili all’esercizio della sua attività ma diretta a soddisfare esigenze estranee alle finalità e alla logica dell’impresa. In tale contesto, pertanto – conclude la circolare – la liquidazione al coniuge del diritto di partecipazione all’impresa familiare afferisce alla sfera personale dei soggetti del rapporto e non è riconducibile a nessuna delle categorie reddituali previste nel Testo unico delle imposte sui redditi e non va pertanto assoggettato ad IRPEF in capo al soggetto percipiente. Come ulteriore conseguenza discende che la somma in questione non rileva come componente negativa e non è deducibile dal reddito di impresa, non ricorrendo il requisito dell’inerenza previsto dall’articolo 109, comma 5, del Testo unico delle imposte sui redditi, che si configura per le spese riferite ad attività da cui derivano proventi che concorrono a formare il reddito.
Sempre in relazione agli aspetti fiscali dell’impresa familiare va messo in evidenza l’orientamento che appare sufficientemente pacifico secondo cui l’Irap (imposta regionale sulle attività produttive), afferendo essa non al reddito o al patrimonio in sé, ma allo svolgimento di un’attività autonomamente organizzata per la produzione di beni e servizi, è dovuta anche dall’imprenditore familiare (nella specie: agente di commercio), mentre non sono soggetti all’imposta i familiari collaboratori cui viene imputato, a determinate condizioni e proporzionalmente alla rispettive quote di partecipazione, il reddito derivante dall’impresa familiare. (Cass. civ. Sez. VI, 24 novembre 2016, n. 24060; Cass. civ. Sez. VI, 17 giugno 2016, n. 12616; Cass. civ. Sez. V, 27 gennaio 2014, n. 1537; Cass. civ. Sez. V, 8 maggio 2013, n. 10777).
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI, 24 novembre 2016, n. 24060 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’imprenditore familiare, non i familiari collaboratori, è anche soggetto passivo IRAP, in quanto detta imposta colpisce il valore della produzione netta dell’impresa, e la collaborazione dei partecipanti all’impresa familiare integra quel quid pluris dotato di attitudine a produrre una ricchezza ulteriore (o valore aggiunto) rispetto a quella conseguibile con il solo apporto lavorativo personale del titolare (c.d. etero-organizzazione dell’esercente l’attività).
Cass. civ. Sez. lavoro, 6 settembre 2016, n. 17639 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di lavoro familiare, ai fini dell’individuazione del limite temporale del perdurare del diritto di prelazione e riscatto di cui al comma 5 dell’art. 230-bis c.c. deve aversi riguardo, in virtù del rinvio all’art. 732 c.c. al momento della liquidazione della quota, il quale coincide con il consolidarsi, alla cessazione del rapporto con l’impresa familiare, del diritto di credito del partecipe a percepire la quota di utili e di incrementi patrimoniali riferibili alla sua posizione, restando irrilevante la data del passaggio in giudicato della sentenza che su quel diritto ha statuito, in ragione del prodursi degli effetti della medesima alla data dello scioglimento del rapporto.
Cass. civ. Sez. VI, 17 giugno 2016, n. 12616 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’IRAP afferisce non al reddito o al patrimonio in sé, ma allo svolgimento di un’attività autonomamente organizzata per la produzione di beni e servizi, sicché ne è soggetto passivo pure l’imprenditore familiare ma non anche i familiari collaboratori atteso che la collaborazione dei partecipanti integra quel “quid pluris” dotato di attitudine a produrre una ricchezza ulteriore (o valore aggiunto) rispetto a quella conseguibile con il solo apporto lavorativo personale del titolare ed è, quindi, sintomatica del relativo presupposto impositivo.
Cass. civ. Sez. lavoro, 16 marzo 2016, n. 5224 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impresa familiare, la predeterminazione, ai sensi dell’art. 9 della l. n. 576 del 1975 e nella forma documentale prescritta, delle quote di partecipazione agli utili, sia essa oggetto di una mera dichiarazione di verità, come è sufficiente ai fini fiscali, o di un negozio giuridico, può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere mediante presunzioni l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere gli utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa familiare che dell’entità della propria quota di partecipazione ai proventi in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
La partecipazione agli utili per la collaborazione nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa (“beni acquistati” con essi, “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, atteso che i proventi – in assenza di un patto di distribuzione periodica – non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni.
Trib. L’Aquila, 21 gennaio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il familiare partecipante all’impresa familiare di cui all’art. 230-bis c.c. non può ritenersi titolare pro quota dell’impresa stessa, che, invece, appartiene solo al suo titolare, di talché in caso di alienazione dell’azienda non ha diritto ad una quota del ricavato dei proventi della vendita.
Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre2015, n. 24560 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’impresa familiare appartiene solo al suo titolare anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, a differenza dell’impresa collettiva che appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone. Nello schema dell’impresa di cui all’art. 230-bis c.c., gli utili non sono determinati in proporzione alla quota di partecipazione, ma alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato, e, in assenza di un patto di distribuzione periodica, non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda all’acquisto di beni. Pertanto, l’esclusione di una società implica l’inesistenza di quote e utili da ripartire tra i pretesi soci.
La costituzione di un’impresa familiare, di cui all’art. 230-bis c.c., presuppone che gli utili ricavati dall’attività siano reimpiegati nell’azienda o nell’acquisto di beni e non ripartiti tra i partecipanti, a meno che tra gli stessi non sia intercorsa una pattuizione che preveda una distribuzione periodica.
Cass. civ. Sez. lavoro, 13 ottobre 2015, n. 20552 (Foro It., 2016, 5, 1, 1840)
Posto che l’esercizio dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria, essa non si può configurare nemmeno tra due coniugi di cui uno eserciti un’attività commerciale in qualità di socio di una società di persone, difettando la sua qualità di imprenditore, propria esclusivamente della società.
L’esercizio dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria, essenzialmente per la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato e non alla quota di partecipazione, oltre che per il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio in conflitto con le regole imperative del sistema societario.
Trib. Bari Sez. lavoro, 24 settembre 2015 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
L’impresa familiare si ritiene abbia carattere individuale; infatti, scopo dell’istituto è quello di apprestare una tutela per il familiare che espleti la propria attività a favore di un altro familiare, individuati sia il primo che il secondo fra i soggetti specificati nel terzo comma dell’art. 230-bis c.c. Tale norma regola soltanto il rapporto obbligatorio fra familiare imprenditore e i familiari prestatori di lavoro (non necessariamente conviventi con il primo), ai quali compete il diritto di credito al mantenimento, da intendersi non solo nel senso dei mezzi indispensabili per il sostentamento, ma di mezzi in grado di assicurare un’esistenza libera e dignitosa, con riferimento alle condizioni patrimoniali della famiglia, e, per la parte eccedente, il diritto agli utili (o ai beni acquistati con essi) e agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 8 aprile 2015, n. 7007 (Famiglia e Diritto, 2015, 12, 1080 nota di BARILLA’)
La partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., deve essere determinata sulla base sia degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella dell’apporto del singolo familiare, sia dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, considerato che gli stessi utili non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti, ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni.
Trib. Modica, 10 marzo 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impresa familiare, al familiare che partecipa con la propria attività lavorativa all’impresa, va riconosciuta sia la partecipazione agli utili ed ai beni acquistati con essi, sia agli incrementi dell’azienda, dovendosi intendere per incremento di azienda ogni aumento di valore che non sia determinato dai beni acquistati con l’impiego degli utili. Tale diritto sorge solo al momento della cessazione dell’azienda o dell’attività lavorativa del singolo familiare, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Trib. Bari Sez. lavoro, 20 novembre 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al fine di dimostrare la partecipazione del coniuge o di uno stretto parente del titolare all’impresa familiare ex art. 230-bis del codice civile è necessario che gli stessi abbiano fornito un contributo all’organizzazione dell’impresa stessa mediante la prova sia di uno svolgimento di tipo continuativo ovvero non saltuario ma regolare e costante anche se non necessariamente a tempo pieno, sia dell’accrescimento della produttività procurato dal lavoro del partecipante quale elemento indispensabile al fine di determinare la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi.
Cass. civ. Sez. Unite, 6novembre 2014, n. 23676 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’istituto dell’impresa familiare, di natura residuale rispetto ad ogni altro tipo di rapporto negoziale eventualmente configurabile, è incompatibile con la disciplina delle società di qualunque tipo. La relativa disciplina sussidiaria deve intendersi, dunque, recessiva, nel sistema delle tutele approntato, allorché non valga a riempire un vuoto normativo, stante la presenza di un rapporto tipizzato, dotato di regolamentazione compiuta ed autosufficiente. Nel contesto letterale della disposizione di riferimento, costituita dall’art. 230-bis c.c., mentre la scelta del legislatore di utilizzare costantemente il lemma impresa, di carattere oggettivo, significativo dell’attività economica organizzata, piuttosto che fare riferimento all’imprenditore come soggetto obbligato, resta di per sé neutra, ciò che si palesa irriducibile ad una qualsiasi tipologia societaria è la disciplina patrimoniale concernente la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato e non, quindi, in proporzione alla quota di partecipazione. Confliggente con regole imperative del sottosistema societario è, altresì, il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio, tale da introdurre un inedito metodo collegiale maggioritario nelle decisioni concernenti l’impego degli utili, degli incrementi, nonché la gestione societaria e gli indirizzi produttivi e financo la cessazione dell’impresa stessa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 settembre 2014, n. 19925 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’istituto dell’impresa familiare, per il carattere residuale emergente dall’”incipit” dell’art. 230-bis cod. civ., concerne l’apporto lavorativo all’impresa del congiunto che non rientri nell’archetipo del lavoro subordinato o per il quale non sia raggiunta la prova dei connotati tipici della subordinazione, sicché l’ipotesi del lavoro familiare gratuito resta confinata in un’area limitata. Pertanto, qualora un’attività lavorativa sia stata svolta nell’ambito dell’impresa, il giudice di merito deve valutare le risultanze di causa per distinguere tra lavoro subordinato e compartecipazione all’impresa familiare, escludendo, comunque, la gratuità della prestazione per solidarietà familiare. (Nella specie, applicando l’enunciato principio, la S.C. ha respinto il ricorso avverso la decisione di merito che aveva dichiarato sussistere il rapporto di lavoro subordinato attesa la continuativa presenza della nuora, quale commessa, presso il negozio della suocera).
Cass. civ. Sez. V, 27 gennaio 2014, n. 1537 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di Irap, afferendo essa non al reddito o al patrimonio in sé, ma allo svolgimento di un’attività autonomamente organizzata per la produzione di beni e servizi, ne è soggetto passivo anche l’imprenditore familiare (nella specie: agente di commercio), mentre non lo sono i familiari collaboratori – cui viene imputato, a determinate condizioni e proporzionalmente alla rispettive quote di partecipazione, il reddito derivante dall’impresa familiare.
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 ottobre 2013, n. 22732 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’impresa familiare coltivatrice è una specie del più ampio genus dell’impresa familiare disciplinata dall’art. 230-bis c.c. Alla prima sono quindi applicabili i principi relativi alla seconda in quanto compatibili; essa si configura come un organismo collettivo formato dai familiari dei consorziati, il cui fine è l’esercizio in comune dell’impresa agricola. Dalla natura collettiva dell’impresa familiare discende che obbligati in relazione al credito per gli utili, se ed in quanto esistenti, spettanti a ciascuno dei familiari che abbia prestato la propria attività lavorativa nella famiglia, sono l’impresa familiare e gli altri familiari consorziati e di tale obbligazione essi ne rispondono con i beni comuni. Ne deriva che la domanda volta alla liquidazione della quota di partecipazione agli utili dell’impresa familiare coltivatrice, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro in essa prestato, deve rivolgersi nei confronti di costoro e non invece nei riguardi degli eredi del capofamiglia defunto.
Cass. civ. Sez. V, 8 maggio 2013, n. 10777 (Giur. It., 2013, 8-9, 1949 nota di FREGNI)
Le imprese familiari di cui all’art. 230-bis c.c. sono soggette all’imposta regionale sulle attività produttive, istituita con D. Lgs. n. 446 del 1997, alla quale, se non espressamente esentati, sono sottoposti tutti coloro che producono reddito di impresa, commerciale o agricola. Presupposto indefettibile del rilievo ai fini fiscali è la formalizzazione dell’impresa familiare anteriormente al periodo di imposta, attraverso la redazione di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata, dal quale risultino nominativamente i familiari partecipanti, con la indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore.
I soggetti che producono reddito di impresa, commerciale od agricola, e quindi anche le imprese familiari, di cui all’art. 230-bis c.c., sono colpiti dall’imposta regionale sulle attività produttive, laddove non espressamente esentati; debitore è solo l’imprenditore familiare, non i familiari collaboratori.
App. Bologna Sez. lavoro, 21 marzo 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto agli utili dell’impresa familiare, previsto dall’art. 230-bis c.c., è condizionato dai risultati raggiunti dall’azienda, essendo poi gli stessi utili naturalmente destinati al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni. Di talché, la maturazione di siffatto diritto, da cui decorre la prescrizione ordinaria decennale, coincide, in assenza di un patto di distribuzione periodica, con la cessazione dell’impresa familiare o della collaborazione del singolo partecipante.
Cass. civ. Sez. lavoro, 5 settembre 2012, n. 14908 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impresa familiare la predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili – quantificata dalle parti nelle scritture private – può risultare idonea, in difetto di prova contraria, ad assolvere, mediante presunzioni, l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa stessa che dell’entità della propria quota di partecipazione.
Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2012, n. 433 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il criterio dell’apporto incrementativo del partecipante alla produttività dell’azienda non serve per accertare gli utili bensì la quota di partecipazione allorquando non sia consensualmente preventivamente stabilita dalle parti.
Cass. civ. Sez. lavoro, 8 marzo 2011, n. 5448 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis cod. civ., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa (“beni acquistati” con gli utili, “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, atteso che gli stessi utili – in assenza di un patto di distribuzione periodica – non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni.
Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2010, n. 20273 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema d’impresa familiare i crediti del lavoratore familiare al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e alla partecipazione agli utili dell’impresa familiare si prescrivono in dieci anni, giacché, in relazione ad essi, deve trovare applicazione, in assenza di una disposizione diversa, la regola generale stabilita dall’art. 2946 cod. civ.
Cass. civ. Sez. lavoro, 15 luglio 2009, n. 16477 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto agli utili dell’impresa familiare, previsto dall’art. 230-bis cod. civ. è condizionato dai risultati raggiunti dall’azienda, essendo poi gli stessi utili naturalmente destinati (salvo il caso di diverso accordo) non alla distribuzione tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni. Ne consegue che la maturazione di tale diritto – dalla quale decorre la prescrizione ordinaria decennale – coincide, in assenza di un patto di distribuzione periodica, con la cessazione dell’impresa familiare o della collaborazione del singolo partecipante.
Cass. civ. Sez. V, 15 settembre 2008, n. 23617 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 230-bis cod. civ. prevede che il familiare che collabora in modo continuativo nell’impresa familiare ha diritto, al momento della sua cessazione, a partecipare agli utili non ancora ripartiti ed agli incrementi di produttività dell’azienda (“beni acquistati” con gli utili ed “incrementi d’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla qualità e quantità del lavoro prestato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 29 luglio 2008, n. 20574 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 230-bis cod. civ. prevede che il familiare che collabora in modo continuativo nell’impresa familiare ha diritto, al momento della cessazione, a partecipare agli utili e agli incrementi di produttività dell’azienda (“beni acquistati” con gli utili ed “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato; ne consegue che, da un lato, per la determinazione della quota spettante non può essere utilizzato come parametro l’importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività (che prescinde dall’entità dei risultati conseguiti, a cui, invece, è commisurato il diritto del componente dell’impresa familiare), mentre, dall’altro, quanto al criterio di ripartizione delle quote, le percentuali indicate nella scrittura di costituzione dell’impresa hanno una portata meramente indiziaria e non sostitutiva rispetto all’apporto lavorativo effettivamente prestato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto di partecipazione previsto dall’art. 230-bis cod. civ. (che ne prevede espressamente, tranne il caso di accordo per la distribuzione periodica degli utili, la liquidazione alla cessazione della prestazione di lavoro o in caso di alienazione dell’azien¬da) non rappresenta un vero e proprio compenso dotato del carattere di corrispettività, ma assume il carattere di un diritto qualificabile solo a posteriori, in quanto condizionato dai risultati raggiunti dall’azienda; la destinazione naturale degli utili (in assenza di diverso accordo) non è la distribuzione tra i partecipanti, ma il loro reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni ai quali il familiare partecipa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2008, n. 17057 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 230-bis cod. civ., gli utili da attribuire ai partecipanti all’impresa familiare vanno calcolati al netto delle spese di mantenimento, pure gravanti sul familiare che esercita l’impresa, restando a carico del partecipante che agisce per il conseguimento della propria quota l’onere di provare la consistenza del patrimonio familiare e l’ammontare degli utili da distribuire (nella specie, la S.C. ha rilevato che la sentenza di merito aveva accertato, con adeguata istruttoria, che il mantenimento del partecipante – e dell’intera famiglia – era assicurato con redditi diversi da quelli provenienti dall’impresa familiare di rivendita di tabacchi e, in ispecie, dall’attività di idraulico svolta continuativamente e dai proventi di due immobili in comproprietà).
Dalla maturazione del diritto agli utili nell’impresa familiare decorrono altresì rivalutazione e interessi.
Cass. civ. Sez. lavoro, 20 marzo 2007, n. 6631 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Agli effetti del riparto dei conferimenti all’impresa familiare assume valore indiziario, se non smentita da dati probatori difformi, la scrittura effettuata ai fini fiscali, ai sensi dell’art.9 della legge n. 576 del 1975, ricognitiva dell’apporto effettivo di ciascun partecipante.
Cass. civ. Sez. lavoro, 15 marzo 2006, n. 5632 (Fam. Pers. Succ., 2006, 12, 995 nota di STOPPIONI)
Le prestazioni lavorative tra conviventi “more uxorio” rientrano tra le prestazioni di cortesia gratuite e sfornite di valore contrattuale, fatta salva la prova di un contratto di lavoro subordinato o di un rapporto d’impresa familiare. L’art. 230-bis c.c. è applicabile, infatti, anche in presenza di una famiglia di fatto, che costituisce una formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 gennaio 2005, n. 874 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Attesa la natura individuale dell’impresa familiare (configurabile come rapporto associativo di lavoro a rilevanza interna) il familiare titolare dell’impresa è l’unico soggetto passivo obbligato in relazione al diritto di credito spettante a ciascuno dei familiari che collaborano e il diritto del singolo prestatore di lavoro non è condizionato dall’analogo diritto che spetta agli altri familiari, in quanto esso è commisurato alla qualità e quantità del lavoro prestato.
Cass. civ. Sez. II, 29 novembre 2004, n. 22405 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Presupposto per l’applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare è l’esistenza di una famiglia legittima e, pertanto, l’art. 230-bis c.c. non è applicabile nel caso di mera convivenza, ovvero alla famiglia cosiddetta “di fatto”, trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica.
Cass. civ. Sez. lavoro, 20 giugno 2003, n. 9897 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’impresa familiare, ove la ripartizione degli utili sia stata stabilita dalle parti con atto scritto, come richiesto dalla normativa fiscale in materia, il giudice non può disattendere il valore probatorio della scrittura, in difetto di prova della simulazione.
A differenza dell’impresa collettiva esercitata per mezzo di società semplice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone (art. 2251 segg. c.c.), l’impresa familiare di cui all’art. 230-bis cod. civ. appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno diritto ad una quota degli utili, e ciò anche nel caso in cui uno dei beni aziendali sia di proprietà di alcuno dei familiari; ne consegue che, mentre nel caso di società semplice con due soli soci, l’esclusione di uno di loro è pronunciata dal tribunale su istanza dell’altro (art. 2287, 3° comma, c.c.), il diritto potestativo di recedere dall’impresa familiare spettante al titolare, e quello eventuale di determinarne la cessazione, è esercitabile attraverso una semplice manifestazione di volontà, salvo il diritto degli altri familiari alla liquidazione della loro quota e, in caso di recesso privo di giustificazione, al risarcimento del danno.
Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2003, n. 9683 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili dell’impresa familiare, oggetto di una mera dichiarazione di verità (come è sufficiente ai fini fiscali) o di un negozio giuridico (non incompatibile con la configurabilità dell’impresa familiare), può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere mediante presunzioni l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa stessa che dell’entità della propria quota di partecipazione (in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato) agli utili dell’impresa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 ottobre 1999, n. 11921 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto agli utili dell’impresa familiare, previsto dall’art. 230-bis c.c., è condizionato dai risultati raggiunti dall’azienda, essendo poi gli stessi utili naturalmente destinati (salvo il caso di diverso accordo) non alla distribuzione tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni; la maturazione di tale diritto – dalla quale decorrono rivalutazione monetaria ed interessi ex art. 429 cod. proc. civ., in relazione alla riconducibilità della collaborazione continuativa all’impresa familiare ad uno dei rapporti di cui all’art. 409 n. 3 cod. proc. civi. – coincide di regola, in assenza di un patto di distribuzione periodica, con la cessazione dell’impresa familiare o della collaborazione del singolo partecipante.
Cass. civ. Sez. lavoro, 9 ottobre 1999, n. 11332 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione, nonché dell’accrescimento della produttività dell’impresa (“beni acquistati” con gli utili, “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, mentre non può essere utilizzato come parametro l’importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività, il cui ammontare prescinde dall’entità dei risultati conseguiti, ai quali è invece commisurato il diritto del componente dell’impresa familiare.
Cass. civ. Sez. lavoro, 6 marzo 1999, n. 1917 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis c.c. i diritti dei collaboratori non toccano la titolarità dell’azienda e rilevano solo sul piano obbligatorio senza comportare alcuna modifica nella struttura dell’impresa facente capo al titolare della stessa, che solo ha la qualifica di imprenditore ed al quale spettano i poteri di gestione e di organizzazione del lavoro implicanti la subordinazione dei familiari che lo coadiuvano. Consegue, da una parte, che in sede di ripartizione degli utili in favore dei familiari compartecipanti non deve tenersi conto degli incrementi del capitale né delle spese del relativo ammortamento; d’altra parte, che nella quantificazione dell’apporto lavorativo il giudice del merito ben può differenziare quello dell’imprenditore, ove più gravoso per le maggiori responsabilità assunte, da quello del familiare che ha prestato la sua attività in posizione di subordinazione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 agosto 1998, n. 7655 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Con riferimento alla disciplina dell’impresa familiare, ove la ripartizione degli utili sia stata predeterminata tra le parti con atto scritto, come richiesto dalla normativa fiscale in materia il giudice non può disattendere il valore probatorio di tale scrittura, accertando l’insussistenza dell’impresa familiare, senza motivare adeguatamente sul carattere simulato dell’atto stesso.
Cass. civ. Sez. Unite, 4gennaio 1995, n. 89 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 230-bis c.c. la concreta collaborazione del partecipante all’impresa familiare – istituto la cui costituzione non può essere automatica, senza alcuna volontà degli interessati, ma al contrario, quando non avvenga mediante atto negoziale, deve sempre risultare da fatti concludenti, e cioè da atti volontari dai quali si possa desumere l’esistenza della fattispecie, ben potendo l’imprenditore rifiutare la partecipazione del familiare all’impresa, opponendosi all’esercizio di attività lavorativa nell’ambito di essa – se, in mancanza di accordi convenzionali, non può ridursi, nel caso del coniuge, all’adempimento dei doveri istituzionalmente connessi al matrimonio, non viene tuttavia meno qualora l’attività dallo stesso svolta, sebbene diretta, in via immediata, a soddisfare le esigenze domestiche e personali della famiglia, assuma rilievo nella gestione dell’impresa, in quanto funzionale ed essenziale all’attuazione di fini propri di produzione o di scambio di beni o di servizi. Infatti, se è vero che l’art. 230-bis c.c. considera titolo per partecipare a detta impresa la prestazione, in modo continuativo, dell’attività di lavoro nella famiglia, tuttavia, dovendosi tale attività tradurre (in proporzione alla quantità e qualità di lavoro prestato) in una quota di partecipazione agli utili ed agli incrementi dell’azienda, tale quota non può che essere determinata in relazione all’accrescimento della produttività dell’impresa, procurato dall’apporto dell’attività del partecipante.
Cass. civ. Sez. lavoro, 19 dicembre 1994, n. 10927 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In un rapporto lavorativo che si svolga nell’ambito della convivenza “more uxorio” è da escludere la ricorrenza di un rapporto di subordinazione onerosa, mentre è possibile inquadrare il rapporto stesso, in carenza di prove contrarie, nell’ipotesi della comunione tacita familiare come delineata dall’art. 230-bis c.c.
Cass. civ. Sez. lavoro, 2 maggio 1994, n. 4204 (Giur. It., 1995, I,1, 844 nota di BALESTRA)
L’art. 230-bis c.c., che disciplina l’impresa familiare, costituisce norma eccezionale, in quanto si pone come eccezione rispetto alle norme generali in tema di prestazioni lavorative ed è pertanto insuscettibile di interpretazione analogica. Deve peraltro ritenersi manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 230-bis nella parte in cui esclude dall’ambito dei soggetti tutelati il convivente more uxorio, posto che elemento saliente dell’impresa familiare è la famiglia legittima, individuata nei più stretti congiunti, e che un’equiparazione fra coniuge e convivente si pone in contrasto con la circostanza che il matrimonio determina a carico dei coniugi conseguenze perenni ed ineludibili (quale il dovere di mantenimento o di alimenti al coniuge, che persiste anche dopo il divorzio), mentre la convivenza è una situazione di fatto caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale ad nutum.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390 (Dir. Famiglia, 1994, I, 106)
In relazione al disposto dell’art. 230-bis c. c., l’ipotesi di impresa familiare realizzata mediante la partecipazione del coniuge all’attività aziendale si differenzia dalla fattispecie dell’azienda coniugale prevista dall’art. 177, lett. d, c. c., in cui la collaborazione dei coniugi si attua con la gestione comune dell’impresa; ai fini di tale distinzione non ha alcuna rilevanza diretta il regime di comunione dei beni vigente tra i coniugi, che può spiegare effetti solo sul piano della tutela, ex art. 178 cod. civ., dei diritti sui beni destinati all’esercizio di impresa.
Al fine della determinazione delle somme spettanti, ai sensi dell’art. 230-bis c. c., a titolo di partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, non può essere utilizzato come parametro l’importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività, il cui ammontare prescinde dall’entità dei risultati conseguiti, ai quali è invece commisurato il diritto di partecipazione del componente l’impresa familiare; nell’ambito dell’indagine diretta all’accertamento del diritto alla quota di utili, il giudice può liberamente apprezzare come elemento indiziario la dichiarazione relativa alla fissazione delle quote, redatta ai fini della imputazione del reddito a ciascuno dei partecipanti.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 luglio 1992, n. 8959 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La disposizione tributaria che ai fini esclusivamente fiscali limita nella misura del quarantanove per cento la possibilità di imputazione ai familiari compartecipanti dei redditi dell’impresa familiare, non ha alcuna rilevanza ai fini dell’accertamento in ordine alla sussistenza della impresa familiare prevista dall’art. 230-bis c. c. e alla determinazione della partecipazione effettiva ai redditi dell’impresa, che deve essere compiuta in relazione alla qualità e quantità del lavoro prestato in concreto nell’ambito dell’impresa stessa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 16 aprile 1992, n. 4650 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di impresa familiare (art. 230-bis c. c.), la predeterminazione, nella forma documentale prescritta, delle quote di partecipazione agli utili dell’impresa familiare, sia essa oggetto di una mera dichiarazione di verità (come è sufficiente ai fini fiscali) o di un negozio giuridico (non incompatibile con la configurabilità dell’impresa familiare), può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa stessa che dell’entità della propria quota di partecipazione (in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato) agli utili dell’impresa, sul cui credito sono dovuti – con decorrenza dalla maturazione del diritto – interessi e rivalutazione monetaria ai sensi dell’art. 429, 3° comma, c. p. c.
Ad integrare la fattispecie dell’impresa familiare, prevista dall’art. 230-bis c. c., è sufficiente il fatto giuridico dell’esercizio continuativo di attività economica da parte di un gruppo familiare, non essendo a detto fine necessaria una dichiarazione di volontà, o, addirittura, un negozio giuridico (indispensabile, invece, per costituire – in relazione al carattere residuale del detto istituto – un rapporto giuridico diverso); peraltro, l’esistenza di un atto negoziale, che ribadisca o precisi la disciplina legale dell’impresa familiare, non esclude la configurabilità della medesima, ferma comunque la necessità di verificare se le clausole di tale atto (pur compatibili con la configurabilità dell’impresa familiare) siano o no in contrasto con norme imperative del cit. art. 230-bis, con la conseguenza, nel primo caso, della loro nullità e della loro sostituzione da parte delle norme imperative che ne risultino violate.
Cass. civ. Sez. lavoro, 2 aprile 1992, n. 4057 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla quota di utili dell’impresa familiare (art. 230-bis c. c.) è autonomo rispetto al diritto al mantenimento del partecipante all’impresa medesima, ma il calcolo di essi va effettuato al netto (e non al lordo) delle spese di mantenimento, che gravano parimenti sul reddito di impresa.
Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 1992, n. 4030 (Riv. Dir. Trib., 1992, II, 665 nota di BALDASSARI)
L’impresa familiare, così come disciplinata dall’art. 230-bis c. c. ha natura di impresa individuale, conseguentemente la qualifica di imprenditore spetta solamente al titolare della stessa non potendo essa essere attribuita anche ai collaboratori familiari.
Cass. civ. Sez. I, 27 giugno 1990, n. 6559 (Nuova Giur. Civ., 1991, I, 67 nota di LUCCHINI)
Nell’ambito dell’istituto dell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis, c. c., caratterizzato dall’assenza di un vincolo societario e dall’insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra i familiari e la persona del capo (quale riconosciuto dai partecipanti in forza della sua anzianità e/o del suo maggiore apporto all’impresa stessa), vanno distinti un aspetto interno, costituito dal rapporto associativo del gruppo familiare quanto alla regolamentazione dei vantaggi economici di ciascun componente, ed un aspetto esterno, nel quale ha rilevanza la figura del familiare-imprenditore, effettivo gestore dell’impresa, che assume in proprio i diritti e le obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi e risponde illimitatamente e solidalmente con i suoi beni personali, diversi da quelli comuni ed indivisi dell’intero gruppo, anch’essi oggetto della generica garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 cod. civ.; ne consegue che il fallimento di detto imprenditore non si estende automaticamente al semplice partecipante all’impresa familiare.
Corte cost. 6 luglio 1987, n. 251 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In relazione all’obiettiva diversità di situazioni, è legittimo il differente trattamento impositivo disposto nei confronti del coniuge convivente (detrazione fissa) e del coniuge separato (detrazione nella misura effettiva); mentre l’imputazione di una quota del reddito a ciascun componente del nucleo familiare, nel caso di impresa familiare, corrisponde sia alle responsabilità di ciascuno di essi sia al diverso rilievo dell’attività lavorativa prestata, che concorre proporzionalmente al conseguimento del profitto, diversamente dal lavoro casalingo, che influisce soltanto in via mediata sulla produzione del reddito. (Manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4 5, 10 e 15 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 dell’art. 23 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e della legge 2 dicembre 1975, n. 576, sollevate in riferimento agli articoli 3, 29, 30, 31, 35 comma 1 e 53 della costituzione).
Cass. civ. 23 novembre 1984, n. 6069 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’impresa familiare, di cui all’art. 230-bis c. c. anche la collaborazione del coniuge, che si traduca in un’attività personale, continuativa e coordinata, pur senza vincolo di subordinazione, è riconducibile nell’ambito della previsione dell’articolo 409 cod. proc. civ., con la conseguenza che la domanda rivolta a far valere diritti patrimoniali derivanti da detta collaborazione spetta alla competenza per materia del pretore, in funzione di giudice del lavoro.
Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 1992, n. 4030 (Giust. Civ., 1985, I, 18)
L’impresa familiare è una organizzazione familiare che non può prescindere da una cosciente volontà dei vari partecipi di farvi parte e si forma, per l’effetto, o per contratto o per facta concludentia.

SOSPENSIONE DELLA PRESCRIZIONE

SOSPENSIONE DELLA PRESCRIZIONE
(tra coniugi, tra parti dell’unione civile, tra conviventi di fatto)
di Gianfranco Dosi

I. La sospensione della prescrizione tra coniugi (art. 2941, n. 1, c.c.) si applica anche ai coniugi separati?
II. C’è sospensione della prescrizione tra parti dell’unione civile?
III. C’è sospensione della prescrizione tra conviventi di fatto?

La sospensione della prescrizione tra coniugi si applica anche ai coniugi separati?
L’art. 2941 c.c. prevede al n. 1 la sospensione della prescrizione tra coniugi la cui ratio è pacificamente ricondotta alla inopportunità che tra marito e moglie ci si debba fare causa o si debbano compiere atti interruttivi della prescrizione per evitare che un eventuale diritto in contestazione resti prescritto.
Fino al 2014 la giurisprudenza ha monoliticamente ritenuto che la sospensione della prescrizione “trova applicazione anche durante il regime di separazione personale, il quale non implica il venir meno del rapporto di coniugio, ma solo una attenuazione del vincolo” (Cass. civ. Sez. III, 1 aprile 2014, n. 7533; Cass. civ. 23 agosto 1985, n. 4502; Cass. civ. Sez. I, 19 giugno 1971, n. 1883).
Era stata la Corte costituzionale a impostare l’orientamento in questione allorché aveva dichiarato “infondata la questione di costituzionalità dell’art. 2941, n. 1, cod. civ., per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui dispone che rimane sospesa la prescrizione fra coniugi anche se legalmente separati” (Corte cost. 19 febbraio 1976, n. 35). In tale occasione era stata ipotizzata dalla Corte d’appello di Palermo la violazione del precetto costituzionale dell’eguaglianza, sul rilievo dell’ingiustificato privilegio che verrebbe riconosciuto al coniuge separato, nei rispetti della generalità degli altri cittadini, con l’esonero da ogni attività o cura e persino dalla semplice messa in mora per la tutela dei propri diritti nei confronti dell’altro coniuge. La Corte ritenne la questione infondata osservando che, pur tenuto conto delle limitazioni degli effetti del vincolo matrimoniale che il regime di separazione personale comporta, è indubitabile che, nei rapporti reciproci (anche patrimoniali), la posizione dei coniugi, finché il matrimonio non sia dichiarato nullo o sciolto per le cause previste dall’ordinamento giuridico, resta, comunque, qualificata dal perdurante (anche se in forma attenuata) vincolo coniugale. Tale qualificazione – diversificando la situazione esaminata da quella del rapporto che intercorra tra soggetti non coniugati – esclude, evidentemente, che sussista la dedotta violazione dell’art. 3 della Costituzione: in quanto appunto, le situazioni comparate non sono tra loro omogenee. La disciplina impugnata – continuavano i giudici – appare, d’altra parte, pienamente legittima anche sotto il profilo della intrinseca razionalità. Ed infatti lo stato di separazione pur rivelando una incrinatura dell’unità familiare, non ne implica la definitiva frattura: potendo anche evolversi nel senso della ricostituzione (mediante la conciliazione) della coesione familiare. E non è irrazionale che, per salvaguardare, appunto, nei limiti del possibile, tale ultima eventualità, il legislatore comprenda nella disciplina della sospensione della prescrizione dettata dall’art. 2941, n. 1, cod. civ. l’ipotesi che i coniugi siano separati, esonerandoli così dal compiere atti – come quelli necessari ad interrompere la prescrizione dei rispettivi diritti che potrebbero, invece, inasprire le ragioni del contrasto.
A questo orientamento si adeguò anche la giurisprudenza di merito Trib. Bologna Sez. I, 21 maggio 2004; Trib. Milano, 10 febbraio 1999 anche se non sono mancate prese di posizione contraria come Trib. Bari Sez. II, 28 febbraio 2012 secondo cui la sospensione della prescrizione è da considerare sussistente ed operante solo fino a quando lo stato del coniuge coincida con la convivenza coniugale “dovendo ritenersi oramai superata l’interpretazione che riteneva applicabile la sospensione anche dopo l’intervenuta separazione”.
Nel 2014 con due sentenze della prima sezione civile la Corte di cassazione aderisce improvvisamente all’orientamento che limita il periodo di sospensione fino alla separazione.
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Il principio viene affermato dapprima da Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981 secondo cui l’interpretazione della legge deve e può avere anche una funzione evolutiva ed adeguatrice, nel cui ambito ben può realizzarsi un risultato di tipo restrittivo, nel senso di ritenere, con riferimento al caso in esame, che la norma contenuta nell’art. 2941 c.c., n. 1, si riferisca alla vincolo coniugale pienamente inteso, con esclusione del regime della separazione personale.
In sintesi, la Corte ritiene contraddittorio rinvenire la stessa “ratio” nelle diverse ipotesi delle azioni esercitabili fra coniugi nel corso della convivenza matrimoniale e dopo la separazione “in quanto, mentre nel primo caso appare giustificata la riluttanza ad esperire azioni giudiziarie nei confronti del coniuge convivente, così turbando l’armonia familiare, nel secondo, non solo all’armonia – laddove si prescinda da una eventuale riconciliazione, in realtà abbastanza rara – è subentrata una situazione di crisi conclamata, ma, proprio nell’ambito di essa, sono state necessariamente esperite le azioni giudiziarie correlate alla crisi coniugale. Deve anzi porsi in evidenza come negli ultimi anni l’evoluzione del quadro normativo e l’elaborazione giurisprudenziale (si pensi alla responsabilità endo-familiare) abbiano favorito l’accrescersi delle azioni giudiziarie relative alla soluzione di controversie correlate alla crisi familiare, cui ha fatto riscontro, anche sotto il profilo procedurale, un significativo processo di unificazione dei termini e delle modalità di esperimento delle azioni relative alla separazione personale e allo scioglimento del matrimonio o alla cessazione dei suoi effetti civili. Laddove, poi, viene richiamata la mera attenuazione, nel regime di separazione, del vincolo matrimoniale, non sembra che si sia considerato come, al tenue filo della speranza di una riconciliazione, siano da contrapporre effetti di natura giuridica che in realtà depongono nel senza di una sostanziale esautorazione dei principali effetti del vincolo stesso. Non rileva, invero, soltanto il venir meno della convivenza, circostanza già di per sé non ostativa all’instaurazione fra coniugi separati di azioni giudiziarie, che di certo, come già rilevato, non possono determinare una crisi familiare già conclamata, quanto la sopravvenienza alla separazione di rilevanti conseguenze di natura giuridica, tali da consentire una sostanziale assimilazione alla situazione che caratterizza gli ex coniugi, come il venir meno della presunzione di paternità ove la nascita di un figlio intervenga dopo il decorso di trecento giorni, ovvero la sospensione degli obblighi della fedeltà e di collaborazione.
L’interpretazione viene poi ripresa e confermata subito dopo da Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078 la quale, dopo aver ribadito – in sintonia con la giurisprudenza sul punto – che il termine di prescrizione del diritto all’assegno di mantenimento ha ad oggetto più prestazioni autonome, distinte e periodiche, e decorre non unitariamente dal provvedimento che ha previsto quell’assegno, bensì da ciascuna delle singole scadenze di pagamento” aggiungeva “senza che operi tra i coniugi separati la sospensione della prescrizione disposta dall’art. 2941, n. 1, c.c.”. La motivazione di quest’ultima affermazione è che deve prevalere sul criterio ermeneutico letterale un’interpretazione conforme alla “ratio legis”, da individuarsi tenuto conto dell’evoluzione della normativa e della coscienza sociale e, quindi, della valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto alla conservazione dell’unità familiare e della tendenziale equiparazione del regime di prescrizione dei diritti post-matrimoniali e delle azioni esercitate tra coniugi separati. In questa prospettiva nel regime di separazione non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turbare l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state esperite le relative azioni giudiziarie, con la conseguente cessazione della convivenza, il venir meno della presunzione di paternità di cui all’art. 232 cod. civ. e la sospensione degli obblighi di fedeltà e collaborazione.
Pertanto il principio oggi che appare prevalente nella giurisprudenza – senza naturalmente che si possano escludere nuovi cambiamenti interpretativi – è nel senso che dopo la separazione non sussistono più le ragioni che possono giustificare la sospensione della prescrizione tra coniugi. E’ appena il caso di aggiungere che a tal fine si deve evidentemente fare riferimento al giudicato sullo status (anche conseguente a sentenza non definitiva) ovvero alla data dell’accordo di negoziazione. A tale ultimo proposito si ricorda che l’art. 3 della legge sul divorzio come modificata dall’art. 12, comma 4, del Decreto-legge 12 settembre 2014, n.132, con le correzioni apportate dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162 prevede come termine di decorrenza degli effetti della separazione quello della “data certificata nell’accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita dagli avvocati” ovvero quello della “data dell’atto contenente l’accordo di separazione concluso innanzi all’ufficiale dello stato civile”.
II
C’è sospensione della prescrizione tra parti dell’unione civile?
La risposta positiva all’interrogativo se tra le parti dell’unione civile trovi applicazione la sospensione della prescrizione analogamente a quanto per i coniugi prevede l’art. 2941, n. 1, c.c. è abbastanza semplice.
Infatti la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) all’art. 1 comma 18, prevede espressamente che “La prescrizione rimane sospesa tra le parti dell’unione civile”, con ciò eliminando qualsiasi dubbio sulla risposta all’interrogativo.
Un problema analogo a quello visto per i coniugi, se cioè la sospensione operi solo nel corso del rapporto nemmeno si pone per le unioni civili in quanto il legislatore non ha previsto l’istituto della separazione ma solo la morte e il divorzio 1e pertanto si può ritenere che soltanto questi eventi determino la cessazione del periodi di sospensione della prescrizione. In caso di divorzio la sospensione consegue al giudicato sullo status (ovvero coincide con la data certificata dell’accordo di negoziazione o con la data della dichiarazione davanti all’ufficiale di stato civile) e non alla comunicazione ex art. 1, comma 23, legge 76/2016 della volontà di scioglimento effettuata all’ufficiale dello stato civile o alla domanda giudiziale.
III
C’è sospensione della prescrizione tra conviventi di fatto?
Nel 1996 il Tribunale di Bolzano sollevò la questione di costituzionalità dell’art. 2941, n. 1, c.c. nella parte n cui non prevede che la sospensione della prescrizione trovi applicazione ai conviventi di fatto, determinando così una un’irragionevole disparità di trattamento tra coniugi e conviventi more uxorio.
La Corte costituzionale dichiarò la questione non fondata (Corte cost. 29 gennaio 1998, n. 2) osservando che l’istituto della prescrizione è finalizzato ad un obiettivo di primaria importanza, che è quello di garantire certezza dei rapporti giuridici, facendo venir meno il diritto non esercitato per un determinato periodo di tempo. In tale prospettiva la sospensione della prescrizione si caratterizza per la peculiarità costituita dalla tassatività dei casi previsti dalla legge. Se infatti ogni diritto, salvo specifiche eccezioni, “si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge” (art. 2934 cod. civ.), ne deriva coerentemente che non è possibile riconoscere ipotesi di sospensione che non siano espressamente regolate dal codice civile o da altre norme speciali in materia. È per questo che l’art. 2941 cod. civ. contiene un elenco ben determinato di casi, enucleabili in base a rigorosi criteri formali e giustificati dalla particolarità delle situazioni ivi previste.
Ciononostante il carattere eccezionale della sospensione della prescrizione non impedisce di vagliare la legittimità costituzionale di ingiustificate omissioni da parte del legislatore sotto un diverso profilo ed entro precisi limiti. Già in materia di privilegio – istituto assimilabile a quello in esame sotto l’aspetto della eccezionalità – la Corte in passato aveva rilevato (Corte cost. 84/1992) che “mentre è possibile, in tesi, sindacare – all’interno di una specifica norma attributiva di un privilegio – la ragionevolezza della mancata inclusione, in essa, di fattispecie identiche od omogenee a quella cui la causa di prelazione è riferita, certamente non è consentito invece utilizzare lo strumento del giudizio di legittimità per introdurre (…) una causa di prelazione ulteriore”. In altre parole, se esorbita dai compiti del giudice delle leggi quello di creare una nuova fattispecie di sospensione della prescrizione, deve ritenersi lecito sindacare l’omissione legislativa nell’ambito di un’ipotesi già determinata; ma in questo caso, com’è ovvio, la norma richiamata deve costituire un valido tertium comparationis, tale da rendere illegittima l’omissione e conseguentemente doverosa la sentenza additiva della Corte.
Poste queste premesse, la Corte osserva che – anche sotto questo profilo – la questione è infondata per un duplice ordine di considerazioni: a) perché la famiglia legittima, essendo una realtà diversa dalla famiglia di fatto, non costituisce un adeguato tertium comparationis; b) perché la sospensione della prescrizione implica precisi elementi formali e temporali che si ravvisano nel coniugio e non nella libera convivenza.
La Corte ribadisce che il rapporto coniugale implica, secondo quanto previsto dalla legge, una serie di potenzialità che non si esauriscono nel mero dato materiale della convivenza accompagnato dall’affectio pur verificabile anche nel rapporto more uxorio. I diritti e i doveri inerenti al matrimonio si caratterizzano per la certezza e la disciplina legale del rapporto su cui si fondano; e da ciò consegue che la non omogeneità delle due situazioni non consente di estendere dall’una all’altra le regole sulla sospensione della prescrizione.
D’altronde la stessa natura della prescrizione – istituto finalizzato a conferire stabilità a rapporti patrimoniali – impone per il decorso dei termini l’adozione di parametri di riferimento certi ed incontestabili, quali possono essere offerti soltanto dall’esistenza o dal venir meno di un vincolo giuridico quale il matrimonio.
Da quanto esposto deriva che nella norma denunziata non sussiste alcuna violazione dell’art. 3 della Costituzione.
Il giudizio di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2941, n. 1, c.c., nella parte in cui non prevede la sospensione della prescrizione tra conviventi, viene, perciò, fondato, in sostanza, in questa sentenza, sugli stessi principi utilizzati nella stragrande maggioranza dei casi in cui la Corte costituzionale ha tenuto separati matrimonio e convivenza di fatto, ritenendoli due contesti di vita, il primo con proprie regole e il secondo senza regole, tra loro non equiparabili. Pertanto non potrebbe la Corte, in questa situazione, scrutinare la eventuale illegittimità dell’esclusione dell’applicabilità della norma sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza.
Dopo la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) siamo proprio sicuri che questa conclusione possa ancora valere?
Già prima di tale legge la convivenza di fatto era stata al centro negli ultimi decenni di una progressiva attribuzione di rilevanza giuridica come formazione sociale (art. 2 Cost.) all’interno della quale vanno garantiti doveri di solidarietà familiare e diritti fondamentali della persona. Ed è oggi affermazione ormai assolutamente pacifica che l’art. 2 della Costituzione e l’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo tutelano il diritto alla vita familiare non limitatamente alle relazioni basate sul matrimonio.
Nella stessa legislazione, ancorché in maniera disorganica, sono nel tempo emersi segnali sempre più significativi, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto. Sotto tale profilo vanno richiamate naturalmente in primo luogo la riforma della filiazione operata con legge 10 dicembre 2012, n. 219, con cui è stata abolita ogni residua discriminazione tra figli “legittimi” e “naturali”; la legge 8 febbraio 2006, n. 54, che, introducendo l’affidamento condiviso dei figli in sede separazione e divorzio, ha esteso la relativa disciplina ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati; la 1egge 19 febbraio 2004, n. 40, che all’art. 5 prevede l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita da parte delle coppie di fatto; la legge 9 gennaio 2004, n. 6, che, in relazione ai criteri, di cui all’art. 408 c.c., per la scelta dell’amministratore di sostegno, prevede anche che la stessa cada sulla persona stabilmente convivente con il beneficiario, nonché, all’art. 5, prevede, in relazione all’art. 417 c.c., che l’interdizione e l’inabilitazione siano promosse dalla persona stabilmente convivente; la legge 4 aprile 2001, n. 154, che ha introdotto nel codice civile gli artt. 342-bis e 342-ter, estendendo al convivente il regime di protezione contro gli abusi familiari; la legge 28 marzo 2001, n. 149, art. 7, che, sostituendo l’art. 6, comma 4, della legge 4 maggio 1983, n. 184, ha previsto che il requisito della stabilità della coppia di adottanti risulti soddisfatto anche quando costoro abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni.
Ebbene in questo contesto la legge la legge 20 maggio 2016, n. 76 amplia in modo sensibile le tutele e le garanzie già riconosciute, costruendo uno statuto giuridico della convivenza di fatto che, pur differenziandosi rispetto a quello da quello del matrimonio o dell’unione civile, costituisce tuttavia una regolamentazione completa di un assetto di relazioni umane primarie (art. 2 della Costituzione) con proprie “regole giuridiche” e una propria disciplina della “stabilità”, esattamente i due aspetti che la Corte costituzionale ha sempre ritenuto finora mancanti per costruire assonanze con il matrimonio idonee a scrutinare disuguaglianze irragionevoli e pertanto illegittime (art. 3 della Costituzione).
Il legislatore definisce, infatti, i conviventi di fatto come persone unite stabilmente da legami affettivi di “reciproca assistenza morale e materiale” definendone i presupposti e le regole di visibilità e di certezza 2.
Questo è il nuovo statuto giuridico dei conviventi di fatto
1) In primo luogo lo status di convivente di fatto è equiparato a quello di coniuge per tutta una serie diritti connessi alla vita sociale (diritti spettanti al coniuge nell’ordinamento penitenziario e nel settore in senso ampio sanitario: commi 38 – 40).
2) In secondo luogo il convivente di fatto acquisisce un diritto di abitazione – sia pure di durata limitata – in caso di morte del convivente proprietario, nonché un diritto di successione nel contratto di locazione in caso di recesso del convivente conduttore e altri diritti nel settore dell’assegnazione di alloggi di edilizia popolare (commi 43 – 45).
3) Il convivente di fatto acquista il diritto agli utili, agli acquisti e agli incrementi se collabora stabilmente nell’impresa familiare del partner (comma 46 che introduce nel codice civile l’art. 230-ter).
4) Il convivente di fatto è equiparato al coniuge nel settore dell’interdizione e dell’amministrazione di sostegno (commi 47 e 48).
5) Il convivente di fatto è equiparato al coniuge in caso di decesso derivante da fatto illecito altrui quanto ai criteri di risarcimento del danno (comma 49).
6) I conviventi di fatto possono regolamentare alcuni reciproci rapporti patrimoniali (specificamente le sole modalità di contribuzione alla vita in comune e il regime della comunione dei beni) con efficacia erga omnes attraverso un “contratto di convivenza” (commi 50 – 64).
7) Il convivente in stato di bisogno acquisisce al momento della cessazione della convivenza il diritto ad una prestazione alimentare a carico dell’altro sia pure proporzionata alla durata della convivenza (comma 65).
A tutto questo – che è l’effetto della nuova legge – si aggiungono i diritti collegati allo stato di convivente già riconosciuti dalla giurisprudenza.
La nuova legge contiene un’elencazione di diritti che hanno natura inderogabile e che non esauriscono lo statuto giuridico della convivenza di fatto in quanto la legge integra con le nuove norme uno statuto giuridico che è più ampio perché comprende anche diritti di natura personale e patrimoniale già riconosciuti ai conviventi, come su prima detto, da leggi precedenti, oltre che da una cospicua giurisprudenza.
Rimangono perciò confermati tutti i diritti riconosciuti altrove ai conviventi. Per esempio nel settore degli ordini di protezione contro gli abusi familiari, nel campo della procreazione medicalmente assistita, nel settore dei trapianti di organi, nel computo del triennio di vita comune previsto per i coniugi per l’adozione legittimante, e in tutti gli altri contesti in cui alla convivenza è attribuita dall’ordinamento già da tempo rilevanza giuridica.
In particolare rimane certamente confermato il principio, ribadito più volte dalla giurisprudenza, secondo cui la violazione dei diritti fondamentali della persona è configurabile anche all’interno di una convivenza di fatto (nei termini di stabilità precisati dalla nuova legge), in considerazione dell’irrinunciabilità del nucleo essenziale di tali diritti riconosciuti ai sensi dell’art. 2 della costituzione (Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2013, n. 15481).
Ove non siano indicati infatti specifici diritti e doveri e questi non siano o non siano stati ancora riconosciuti o siano stati addirittura negati anche dalla giurisprudenza, non è affatto da escludere una funzione promozionale della nuova legge. Si pensi per esempio, appunto, alla sospensione della prescrizione tra coniugi, ma anche ai patti di famiglia, alla pensione di reversibilità.
I riferimenti al regolamento anagrafico contenuti nella nuova legge sono poi decisivi per ritenere esistenti anche precise regole di visibilità, di certezza e di accertamento della stabilità, anche se, naturalmente, a differenza di quanto previsto per il matrimonio e per le unioni civili l’accesso alla convivenza di fatto non prevede obblighi costitutivi come avviene in altri Paesi dove le convivenze devono obbligatoriamente
L’ordinamento anagrafico (legge 24 dicembre 1954, n. 1228 e regolamento approvato con DPR 30 maggio 1989, n. 223, modificato dal DPR 17 luglio 2015, n. 126) stabilisce che in ogni Comune deve essere tenuta l’anagrafe della popolazione residente e prevede l’obbligo per chiunque di chiedere per sé “e per le persone sulle quali esercita la patria potestà o la tutela”, l’iscrizione nell’anagrafe del Comune di dimora abituale e di dichiarare alla stessa i fatti determinanti mutazione di posizioni anagrafiche. L’ufficiale d’anagrafe che sia venuto a conoscenza di fatti che comportino l’istituzione o la mutazione di posizioni anagrafiche, per i quali non siano state rese le prescritte dichiarazioni, deve invitare gli interessati a renderle. In caso di mancata dichiarazione, l’ufficiale d’anagrafe provvede di ufficio, notificando all’interessato il provvedimento stesso. Contro il provvedimento d’ufficio è ammesso ricorso al prefetto. Il Regolamento anagrafico della popolazione residente prescrive gli adempimento per la “raccolta sistematica dell’insieme delle posizioni relative alle singole persone, alle famiglie ed alle convivenze che hanno fissato nel comune la residenza, nonché delle posizioni relative alle persone senza fissa dimora che hanno stabilito nel comune il proprio domicilio.
L’anagrafe è costituita da schede individuali, da schede di famiglia e dalle schede delle convivenze comunitarie. Le convivenze di fatto cui si riferisce la nuova legge sono quelle indicate nell’art. 4 del regolamento, che precisa il concetto di “famiglia anagrafica” (Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune.
Le dichiarazioni anagrafiche obbligatorie sono quelle per a) trasferimento di residenza da altro comune o dall’estero ovvero trasferimento di residenza all’estero; b) costituzione di nuova famiglia o di nuova convivenza, ovvero mutamenti intervenuti nella composizione della famiglia o della convivenza; c) cambiamento di abitazione; d) cambiamento dell’intestatario della scheda di famiglia o del responsabile della convivenza; e) cambiamento della qualifica professionale; f) cambiamento del titolo di studio.
Per quanto concerne la formazione delle schede anagrafiche l’art. 20 del regolamento prevede che a ciascuna persona residente nel comune deve essere intestata una scheda individuale, sulla quale devono essere obbligatoriamente indicati il cognome, il nome, il sesso, la data e il luogo di nascita, il codice fiscale, la cittadinanza, l’indirizzo dell’abitazione. Da questa scheda sono tratte le indicazioni che vanno riportate nel certificato di residenza. Nella scheda sono altresì indicati altri elementi che rimarranno sempre solo nella scheda e non comunicati a terzi e cioè la paternità e la maternità, gli estremi dell’atto di nascita, lo stato civile, ed eventi modificativi, nonché gli estremi dei relativi atti, il cognome e il nome del coniuge, la professione o la condizione non professionale, il titolo di studio, gli estremi della carta d’identità, il domicilio digitale, la condizione di senza fissa dimora. Per ciascuna famiglia residente l’art. 21 prescrive che “deve essere compilata una scheda di famiglia, nella quale devono essere indicate le posizioni anagrafiche relative alla famiglia ed alle persone che la costituiscono”. Da questa scheda saranno tratte le indicazioni che vanno riportate nel certificato di stato di famiglia.
Da quanto sopra si può dedurre che ai fini probatori e di certezza della stabilità la convivenza di fatto risulta non tanto e non solo dalle certificazioni anagrafiche relative alle schede personali (dichiarazione di residenza) da cui può risultare tuttavia la residenza nella medesima abitazione, ma soprattutto dalle schede di famiglia (certificazioni di stato di famiglia).
Con l’importante precisazione che la scheda di famiglia die conviventi di fatto potrà essere formata soltanto se i conviventi fatto adempiono all’onere di richiedere la loro iscrizione anagrafica come conviventi di fatto. Mai l’ufficiale di anagrafe potrà desumere dal fatto che due persone abitano nella stessa dimora che si tratti di conviventi di fatto uniti da vincoli affettivi e di solidarietà. Gli stessi conviventi dovranno segnalare il termine della convivenza di fatto dichiarando il venir meno dei presupposti che ne consentono l’iscrizione nella medesima scheda di famiglia. Pertanto lo statuto giuridico della convivenza di fatto e gli elementi che ne indicano con certezza i limiti anche temporali di vigenza della stessa convivenza – iscritta nella scheda di “famiglia” – lasciano intendere che il modello legale della convivenza di fatto si differenzia da quello matrimoniale e delle unioni civili per elementi che non alterano al sostanziale comune riconducibilità dei tre modelli al medesimo elemento dell’essere relazioni umane primarie indicative in sostanza di modelli familiari diversi ma pur sempre di natura familiare. Ed in verità, anche nella convivenza di fatto sussiste la medesima ragione giustificatrice della sospensione della prescrizione che, come detto, all’inizio, è pacificamente ricondotta alla inopportunità che tra le parti di un rapporto primario di natura familiare ci si debba fare causa o si debbano compiere atti interruttivi della prescrizione per evitare che un eventuale diritto in contestazione resti prescritto.

SOSPENSIONE DELLA PRESCRIZIONE
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078 (Famiglia e Diritto, 2015, 4, 350 nota di FAROLFI)
La sospensione della prescrizione tra coniugi di cui all’art. 2941, n. 1, c.c. non trova applicazione al credito dovuto per l’assegno di mantenimento previsto nel caso di separazione personale, dovendo prevalere sul criterio ermeneutico letterale un’interpretazione conforme alla ratio legis, da individuarsi tenuto conto dell’evoluzione della normativa e della coscienza sociale e, quindi, della valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto alla conservazione dell’unità familiare e della tendenziale equiparazione del regime di prescrizione dei diritti post-matrimoniali e delle azioni esercitate tra coniugi separati; nel regime di separazione, infatti, non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turbare l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state esperite le relative azioni giudiziarie, con la conseguente cessazione della convivenza, il venir meno della presunzione di paternità di cui all’art. 232 c.c. e la sospensione degli obblighi di fedeltà e collaborazione.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981 (Foro It., 2014, 6, 1, 1768)
In tema di separazione dei coniugi, posto che il diritto all’assegno di mantenimento ha ad oggetto più prestazioni autonome, distinte e periodiche, il termine di prescrizione non decorre, unitariamente, dal provvedimento che ha previsto quell’assegno, bensì da ciascuna delle singole scadenze di pagamento, senza che operi tra i coniugi separati la sospensione della prescrizione disposta dall’art. 2941, n. 1, c.c.
Cass. civ. Sez. III, 1 aprile 2014, n. 7533 (Foro It., 2014, 7-8, 1, 2124)
La sospensione del decorso della prescrizione tra coniugi opera anche quando gli stessi si trovano in stato di separazione per¬sonale (nella specie, è stata cassata la pronuncia di merito in cui si era affermato che il diritto ad ottenere l’assegno di mantenimento disposto a carico del coniuge separato si prescrive dalle singole scadenze delle prestazioni dovute, negando di fatto l’operatività della predetta sospensione).
Cass. civ. Sez. I, 20 giugno 2013, n. 15481 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La violazione dei diritti fondamentali della persona è configurabile anche all’interno di una unione di fatto, che abbia, beninteso, caratteristiche di serietà e stabilità, avuto riguardo alla irrinunciabilità del nucleo essenziale di tali diritti, riconosciuti, ai sensi dell’art. 2 Cost., in tutte le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo Del resto, ferma restando la ovvia diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio, è noto che la legislazione si è andata progressivamente evolvendo verso un sempre più ampio riconoscimento, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto.
Trib. Bari Sez. II, 28 febbraio 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla riscossione dell’assegno alimentare soggiace al termine di prescrizione breve quinquennale, vertendosi in un’ipotesi di prestazioni periodiche in termini inferiori all’anno, disciplinate dall’art. 2948, n. 4 c.c. La sospensione della prescrizione, disciplinata dall’art. 2941 c.c., invece, si ritiene sussistente ed operante solo fino a quando lo stato del coniuge coincida con quello di convivente dovendo ritenersi oramai superata l’interpretazione che riteneva applicabile la sospensione anche dopo l’intervenuta separazione non costituendo la separazione un definitivo momento di rottura dell’unità familiare che poteva sempre ricostituirsi.
Trib. Bologna Sez. I, 21 maggio 2004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’articolo 2941 del c.c. che dispone la sospensione della prescrizione tra coniugi deve applicarsi, attesa la tassatività dei casi di sospensione previsti dagli articoli 2941 e 2942 del c.c., sia nel caso che i coniugi abbiano comunanza di vita sia allorché si trovino in stato di separazione personale. Al coniuge non proprietario dei beni per i quali sono stati effettuati esborsi con denaro comune ovvero con suo esclusivo, compete un diritto di credito quantificabile, in assenza di prova contraria, nella metà della spesa sostenuta a vantaggio del bene non facente parte della comunione ma in proprietà esclusiva dell’altro coniuge, sul quale trattandosi di debito di valuta, sono dovuti i soli interessi legali dalla messa in mora, sino al saldo effettivo.
Trib. Milano, 10 febbraio 1999 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La prescrizione tra coniugi è sospesa di diritto durante il matrimonio e tale regola trova applicazione anche durante la separazione personale, che non implica il venire meno del rapporto di coniugio, ma soltanto un’attenuazione del vincolo.
Corte cost. 29 gennaio 1998, n. 2 (Famiglia e Diritto, 1998, 3, 214 nota di FIGONE)
Non è fondata, con riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2941, n. 1, cod. civ., laddove, stabilendo che il corso della prescrizione resti sospeso tra i coniugi , non contiene analoga previsione per i conviventi “more uxorio”, in quanto – posto che l’istituto della prescrizione è finalizzato all’obiettivo primario di garantire certezza nei rapporti giuridici, impedendo al titolare di un diritto di esercitarlo dopo un determinato periodo di tempo; che, in tale prospettiva, la sospensione della prescrizione si caratterizza per la peculiarità costituita dalla tassatività dei casi previsti dalla legge; e che, se esorbita dalle attribuzioni del giudice delle leggi, quella di creare una nuova fattispecie di sospensione della prescrizione , deve ritenersi legittimo sindacare l’omissione legislativa nell’ambito di un’ipotesi già determinata, a condizione che la norma richiamata costituisca “tertium comparationis”, tale da rendere costituzionalmente illegittima l’omissione stessa e, quindi, doverosa la sentenza additiva della Corte – la famiglia legittima, essendo una realtà diversa dalla famiglia di fatto, non costituisce adeguato “tertium comparationis”, ed in quanto la sospensione della prescrizione implica precisi elementi formali e temporali che si ravvisano nel coniugio e non nella libera convivenza.
Cass. civ. 23 agosto 1985, n. 4502 (Dir. Famiglia, 1985, 934)
L’art. 2941, n. 1 c. c., il quale prevede nei rapporti fra coniugi la sospensione del decorso prescrizionale, trova applicazione anche durante il regime di separazione personale tra gli stessi, regime che non implica il venir meno del rapporto di coniugio, ma soltanto una attenuazione del vincolo.
Corte cost. 19 febbraio 1976, n. 35 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche durante la separazione personale, la situazione di coniuge si differenzia da quella di ogni altro cittadino; pertanto, è infondata la questione di costituzionalità dell’art. 2941, n. 1, cod. civ., per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui dispone che rimane sospesa la prescrizione fra coniugi anche se legalmente separati, atteso che il detto articolo non attribuisce al coniuge separato un ingiustificato privilegio rispetto alla generalità degli altri cittadini.
Cass. civ. Sez. I, 19 giugno 1971, n. 1883 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La norma di cui all’art. 2941 n. 1 c.c., secondo cui la prescrizione è sospesa nei rapporti tra coniugi, trova applicazione anche durante la separazione personale.

Matrimoni misti

MATRIMONI MISTI
Di Gianfranco Dosi
I. I cosiddetti matrimoni misti
II. L’acquisto della cittadinanza italiana da parte dello straniero che contrae matrimonio con un italiano
III. I matrimoni misti simulati
IV. Il regime personale e patrimoniale nei matrimoni misti
V. La disciplina della separazione e del divorzio
VI. Matrimoni misti e disposizioni sull’immigrazione
VII. Il ricongiungimento familiare
I
I cosiddetti matrimoni misti
Il codice civile italiano disciplina il matrimonio del cittadino italiano con uno straniero all’estero (articolo 115 che si riferisce naturalmente anche al caso in cui un cittadino italiano sposi all’estero un altro cittadino italiano) sia il matrimonio dello straniero in Italia con un italiano (articolo 116 che si riferisce anche al caso del matrimonio in Italia dello straniero con un altro straniero). Soni questi i cosiddetti “matrimoni misti”.
Il cittadino italiano che intende contrarre matrimonio all’estero(con uno straniero o con un altro cittadino italiano) è sempre soggetto alle disposizioni del codice che concernono le condizioni necessarie per contrarre matrimonio in Italia. Quindi non vi sono differenze quanto alle condizioni di età (art. 84 cod. civ. che impone il limite minimo di età di 18 anni salva l’autorizzazione del tribunale per i minorenni per chi ha compiuto i sedici anni e intenda contrarre matrimonio) e agli altri divieti matrimoniali (art. 85 sul divieto di contrarre matrimonio per l’interdetto per infermità di mente; art. 86 sul divieto per chi è già vincolato da un matrimonio precedente; art. 97 per gli impedimenti derivanti da parentela, affinità, adozione; art. 88 per l’impedimento derivante da “delitto”). L’articolo 16 dell’ordinamento di stato civile (DPR 3 novembre 2000, n. 396) precisa che il matrimonio all’estero può essere celebrato dall’autorità consolare italiana o dall’autorità dello Stato ospitante che trasmetterà copia dell’atto di matrimonio all’autorità consolare. Quest’ultima, in virtù dell’art. 17 dello stesso ordinamento di stato civile, trasmetterà poi l’atto per la trascrizione in Italia al Comune di residenza in Italia del cittadino italiano o negli altri luoghi indicati dalla disposizione.
La forma del matrimonio sarà quella del luogo in cui viene celebrato. Pertanto se è rispettata la forma prevista nello Stato di celebrazione, quel matrimonio sarà valido anche in Italia (articolo 28 della legge 31 maggio 1995, n. 218) ancorché celebrato con forme inusuali come via Skipe (Cass. civ. Sez. I, 25 luglio 2016, n. 15343).
Gli atti formati all’estero non possono, però, essere trascritti in Italia se sono contrari all’ordine pubblico (art. 18 ordinamento di stato civile).
Il matrimonio contratto all’estero tra due persone dello stesso sesso, non è stato in passato considerato trascrivibile in Italia non perché contrario all’ordine pubblico ma perché “il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è riconoscibile come atto di matrimonio e non può produrre effetti nel nostro sistema giuridico” (Cass. Civ. Sez. I, 15 marzo 2012, n. 4184). Ora in virtù di quanto previsto nel comma 34 dell’art.12 della legge 20 maggio 2016, n. 76 (sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto) sono state emanate e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale del 23 luglio 2016 norme regolamentari di natura transitoria con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. Il decreto prescrive all’art. 9 che presso ciascun Comune deve essere istituito un “registro provvisorio delle unioni civili” dove vanno registrate, appunto, le unioni civili costituite in base alla nuova legge. L’art. 8 del regolamento prevede al terzo comma che “gli atti di matrimonio o di unione civile tra persone dello stesso sesso formati all’estero, sono trasmessi dall’autorità consolare, ai sensi dell’articolo 17 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, ai fini della trascrizione nel registro provvisorio di cui all’articolo 9”. Questo comporta che il matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero, anche da cittadini italiani, potrà essere d’ora in poi trascritto nei registri provvisori delle unioni civili, superando così le ragioni del diniego che fino ad oggi hanno impedito la trascrizione nei nostri registri di stato civile e quindi il riconoscimento in Italia di tali matrimoni. Il fatto è tanto più sorprendente perché avviene non per legge, ma attraverso un decreto di natura regolamentare.
È consolidato il principio che la trascrizione in Italia del matrimonio contratto all’estero (tra cittadini italiani ma anche di un italiano con uno straniero) non ha efficacia costituiva ma dichiarativa e che quindi il matrimonio è pienamente valido in Italia anche senza trascrizione (Cass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17620;Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 1998, n. 10351).
Più articolata è la disciplina del matrimonio contratto in Italia da uno straniero con un cittadino italiano o con un altro straniero. L’articolo 116 del codice civile impone infatti allo straniero che intenda contrarre matrimonio in Italia di presentare all’ufficiale dello stato civile del luogo in cui deve essere contratto il matrimonio, insieme alla richiesta di pubblicazioni, “una dichiarazione dell’autorità competente del proprio paese, dalla quale risulti che giusta le leggi a cui è sottoposto nulla osta al matrimonio”. Ai fini della sua validità è necessario e sufficiente che la dichiarazione rilasciata dall’autorità estera accerti l’assenza di ostacoli al matrimonio, a prescindere dalle formule testuali impiegate Cons. Stato, Sez. I, 9 ottobre 2013, n. 3164).
Spesso la dichiarazione non viene rilasciata per motivi legati all’osservanza della religione islamica, che per esempio vieta alla donna musulmana di unirsi in matrimonio con un uomo non musulmano; oppure per motivi legati ad eventi bellici che impediscono l’acquisizione dei documenti necessari o per altri motivi come per esempio l’assenza di una autorità deputata al rilascio della dichiarazione in questione (come avviene per i cittadini degli Stati Uniti o australiani). La giurisprudenza si è occupata di questi problemi spesso supplendo alla mancanza del nulla osta (Trib. Piacenza, 5 maggio 2011) o negando valore a divieti delle autorità straniere basati su presupposti ritenuti contrari all’ordine pubblico (Trib. Venezia , 4 luglio 2012). La Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale questa disposizione nella parte in cui non prevede che lo straniero, in mancanza di quella dichiarazione, possa provare con ogni mezzo la ricorrenza delle condizioni previste nella legislazione di provenienza, fatto sempre salvo il divieto di condizioni contrarie all’ordine pubblico (Corte cost. 30 gennaio 2003, n. 14). Nella motivazione la Corte richiama la prassi di molti tribunali all’esito del procedimento previsto nell’art. 98 del codice civile (ricorso al tribunale in camera di consiglio contro il rifiuto dell’ufficiale di stato civile di eseguire le pubblicazioni matrimoniali e quindi contro il rifiuto di ammettere lo straniero al matrimonio in Italia) affermando che, del tutto legittimamente, il giudice può autorizzare le pubblicazioni (e quindi il matrimonio) nei casi in cui la mancata autorizzazione avrebbe effetti discrimina¬tori frustrando il diritto primario di tutte le persone di unirsi in matrimonio.
L’art. 116 del codice civile prevedeva anche che insieme al nulla osta dell’autorità del proprio Paese lo straniero dovesse presentare anche “un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano” ma la Corte costituzionale ha eliminato questo obbligo considerandolo lesivo del diritto fondamentale di chiunque di contrarre matrimonio (Corte cost. 25 luglio 2011, n. 245).
Il citato articolo 116 del codice civile, in ogni caso, prescrive che anche lo straniero è soggetto alle disposizioni contenute negli articoli 85, 86, 87 n. 1 , 2 e 4, 88 e 89 del codice. Non è indicato l’art. 84 sul limite minimo di età ai diciotto anni; pertanto uno straniero potrebbe sposarsi in Italia anche se di età inferiore senza chiedere alcuna autorizzazione e sempre che ciò sia ammesso nel suo Stato di provenienza.
II
L’acquisto della cittadinanza italiana da parte dello straniero che contrae matrimonio
con un italiano
La disciplina della cittadinanza italiana è regolata dalla legge 5 febbraio 1992, n. 91 (e relativi regolamenti di esecuzione: in particolare il DPR 12 ottobre 1993, n. 572 e il DPR 18 aprile 1994, n. 362) nel testo modificato dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”. A differenza della legge precedente 13 giugno 1912, n. 555, viene rivalutato il peso della volontà individuale nell’acquisto e nella perdita della cittadinanza, riconoscendo anche il diritto alla titolarità contemporanea di più cittadinanze.
Il testo dell’art. 65 prima della riforma del 2009 prevedeva che il coniuge, straniero di cittadino italiano potesse acquistare la cittadinanza italiana dopo aver risieduto legalmente da almeno sei mesi nel territorio della Repubblica, ovvero dopo tre anni dalla data del matrimonio, se non vi è stato scioglimento, annulla-mento o cessazione degli effetti civili e se non sussiste separazione legale.
Il testo delle norma riformato nel 2009 prevede ora quanto segue:
Art. 5. – 1. Il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano può acquistare la cittadinanza italiana quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica,
2. I termini di cui al comma 1 sono ridotti della metà in presenza di figli nati o adottati dai coniugi».
Il richiamato art. 7 della legge 91 del 1992 prescrive le modalità con cui va presentata l’istanza per ottenere, dopo il matrimonio con un italiano, la cittadinanza, stabilendo che essa si acquista a istanza dell’interessato, presentata al sindaco del comune di residenza o alla competente autorità consolare. L’acquisto non è automatico. L’interessato come sopra detto deve presentare una istanza documentata.
Costituiscono cause preclusive all’acquisto della cittadinanza: a) sentenze di condanna per reati per i quali sia prevista una pena non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione o di sentenze di condanna da parte di un’autorità giudiziaria straniera ad una pena superiore ad un anno per reati non politici; b) condanne per uno dei delitti previsti nel libro secondo, titolo I, capi I, II e III del codice penale (delitti contro la oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all’estero, qualora, al momento dell’adozione del decreto di cui all’articolo 7, comma 1, non sia intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi. personalità dello Stato; c) ragioni di sicurezza.
Ai sensi della direttiva del Ministro dell’Interno del 7 marzo 2012, a partire dal 1° giugno 2012 la competenza ad emanare i decreti di concessione della cittadinanza spetta: al Prefetto per le domande presentate dallo straniero legalmente residente in Italia; al Capo del dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione, qualora il coniuge straniero abbia la residenza all’este¬ro; al Ministro dell’Interno nel caso sussistano ragioni inerenti alla sicurezza della Repubblica.
A partire dal 16 agosto 1992 (data di entrata in vigore della legge n. 91/92) l’acquisto di una cittadinanza straniera non determina la perdita della cittadinanza italiana a meno che il cittadino italiano non vi rinunci formalmente ai sensi dell’art. 11 della legge n. 91/92 (Cass. civ. Sez. VI, 5 novembre 2015, n. 22608).
III
I matrimoni misti simulati
Per l’ipotesi in cui un matrimonio venga celebrato al solo fine di consentire l’acquisto della cittadinanza italiana occorre ricordare che l’art. 123 del codice ci¬vile prevede la possibilità di impugnazione del matri-monio in caso di simulazione (cioè allorché i coniugi abbiano convenuto in sostanza di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti connessi al matri¬monio), ma che l’azione non può essere più proposta decorso un anno dalla celebrazione, ovvero nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi dopo il matrimonio.
Tuttavia, gli unici che potrebbero rilevare la simulazio¬ne sono i coniugi (o i partner dell’unione civile sem-pre ai sensi dell’art. 123 c.c,.richiamato nel comma 5 dell’art.1 della legge 20 maggio 2016, n. 76)
Si tratta in sostanza di u matrimonio celebrato per finalità fraudolente rispetto alla disciplina civilistica, oppure fiscale, previdenziale, giuridica, successoria.
Non possono trovare naturalmente applicazione le norme sulla illiceità del contratto per illiceità della causa (art. 1343 c.c.) o per frode alla legge (art. 1344 c.c.) trattandosi di specifiche norme dettate per il con¬tratto (ad essenziale contenuto patrimoniale).
Per i matrimoni simulati e quindi anche per quelli con¬tratti al solo fine di assicurarsi benefici, appunto in materia di immigrazione o cittadinanza, la dottrina ha fatto notare che la concezione di tipo privatistico del matrimonio simulato non consentirebbe di dichiarare nullo il matrimonio fraudolento celebrato al fine di elu¬dere norme di rilevanza pubblicistica. Viene però citata (nella raccolta di giurisprudenza sul diritto di famiglia a cura di FERRANDO, volume I, pag. 114) una senten¬za inedita della Corte d’appello di Roma del 28 marzo 2000 in cui la Corte ritenne ammissibile la legittima¬zione attiva del Pubblico ministero per l’impugnazione di un matrimonio simulato tra una straniera e un cit¬tadino italiano sul presupposto che si tratterebbe di un matrimonio radicalmente nullo per illiceità della causa. Tuttavia non si può fare allo stato della legislazione, sicuro affidamento su un intervento di riequilibrio azio¬nato dal pubblico ministero, in quanto le norme sul matrimonio (e sull’unione civile tra persone dello stes¬so sesso) prevedono l’impugnativa per nullità da parte del pubblico ministero nelle sole ipotesi previste nel codice e nei termini ivi indicati, tra cui non è compresa la costituzione del vincolo in frode alla legge.
In ogni caso la giurisprudenza,per evitare facili stru¬mentalizzazioni (e richiamando l’art. 19 del Testo unico sull’immigrazione dove si parla espressamen¬te di coniuge convivente) non ammette il rilascio del permesso o della carta di soggiorno allo straniero extracomunitario che contragga matrimonio con un italiano senza che ne segua la convivenza (Cass. civ. Sez. VI, 7 luglio 2016, n. 13831; Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23598; Cass. civ. Sez. I, 22 agosto 2006, n. 18220; Cass. civ. Sez. I, 18 luglio 2006, n. 16452; Cass. civ. Sez. I, 8 feb¬braio 2006, n. 2821; Cass. civ. Sez. I, 25 novem¬bre 2005, n. 25027; Cass. civ. Sez. I, 8 febbraio 2005, n. 2539). La prova della convivenza secondo queste sentenze è a carico dello stesso straniero, non essendo la convivenza presumibile in base al mero vincolo coniugale né alle mere risultanze anagrafiche.
Finché il matrimonio non è dichiarato nullo – per qual¬siasi motivo – esso produce in Italia tutti i suoi effetti (Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2001, n. 5537 che fa riferimento ad un matrimonio celebrato in violazione dell’art. 86 del codice civile da chi non aveva libertà di stato e Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1999, n. 1739 concernente un matrimonio contratto all’estero da un italiano secondo un ordinamento poligamico ma nel rispetto della forma prevista in quello Stato).
IV
Il regime personale e patrimoniale
nei matrimoni misti
La legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale) prevede per quanto concerne i rapporti personali all’art. 29, comma 2, che “I rapporti personali tra coniugi aventi diverse cittadi¬nanza … sono regolati dalla legge dello Stato nel quale la vita matrimoniale è prevalentemente localizzata”.
Per quanto invece attiene ai rapporti patrimoniali, l‘art. 30 dispone ai primi due commi che“I rapporti patrimoniali tra coniugi sono regolati dalla legge ap¬plicabile ai loro rapporti personali. I coniugi possono tuttavia convenire per iscritto che i loro rapporti pa¬trimoniali sono regolati dalla legge dello Stato di cui almeno uno di essi è cittadino o nel quale almeno uno di essi risiede. L’accordo dei coniugi sul diritto appli-cabile è valido se è considerato tale dalla legge scelta o da quella del luogo in cui l’accordo è stato stipulato”.
Tale regime, come chiarisce il terzo comma, sarà op¬ponibile ai terzi solo se questi ne abbiano avuto cono-scenza o lo abbiano ignorato per loro colpa.
Il Regolamento europeo n. 1103 del 24 giugno 2016 (pubblicato sulla GU dell’Unione europea dell’8 luglio 2016 ed in vigore dal 28 luglio 2016) relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia di rapporti patrimoniali tra coniugi, prevede all’art. 22 la possibi¬lità di scelta della legge applicabile, prescrivendo che i coniugi o nubendi possono designare o cambiare di comune accordo la legge applicabile al loro regime pa¬trimoniale, a condizione che tale legge sia una delle leggi seguenti: a) la legge dello Stato della residenza abituale dei coniugi o nubendi, o di uno di essi, al momento della conclusione dell’accordo; o b) la legge di uno Stato di cui uno dei coniugi o nubendi ha la cit¬tadinanza al momento della conclusione dell’accordo.
Il principio di asserita tipicità delle convenzioni matri¬moniali risulta è fortemente ridimensionato se non altro con riferimento alla possibilità per i coniugi di adottare un regime patrimoniale previsto in altri ordinamenti.
Resta fermo il principio che “gli sposi non possono de¬rogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio” e questo è certamente l’unico limite di ordine pubblico che incontrano anche le con¬venzioni matrimoniali atipiche (comprese quelle stra¬niere da considerare atipiche rispetto a quelle indica¬te nel nostro codice civile). L’art. 31 del regolamento prevede, infatti, che “l’applicazione di una disposizione della legge di uno Stato specificata dal presente rego¬lamento può essere esclusa solo qualora tale applica¬zione risulti manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico del foro”.
V
La disciplina della separazione e del divorzio
Per individuare la regolamentazione della separazio¬ne e del divorzio in caso di matrimoni misti bisogna distinguere il matrimonio tra un italiano ed uno stra¬niero non appartenente ad un paese europeo e il ma-trimonio tra cittadini di Stati europei.
Per quanto concerne la legge applicabile trova in en¬trambi i casi applicazione la legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazio¬nale privato) la quale all’art. 31 prevede che per i ma-trimoni misti la legge applicabile è quella dello Stato nel quale la vita matrimoniale è prevalentemente lo-calizzata (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2011, n. 7599; Cass. civ. Sez. Unite, 17 febbraio 2010, n. 3680). La legge sarà quindi quella italiana nel caso in cui i co¬niugi di diversa cittadinanza vivono prevalentemente in Italia. Naturalmente se lo straniero ha acquistato la cittadinanza italiana sposando un italiano la legge applicabile sarà quella italiana perché comune (Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2008, n. 18613).
Per quanto invece concerne la competenza giurisdizio¬nale, nel caso di matrimonio misto extraeuropeo soc¬corrono solo le norme italiane di diritto internazionale privato che individuano come criterio generale quello della residenza del convenuto (art. 3) mentre nel caso di matrimonio contratto tra un italiano e uno stranie¬ro prevede che la giurisdizione del giudice italiano in materia di separazione, divorzio o annullamento del matrimonio (e cioè la possibilità di separarsi in Italia o di divorziare o di chiedere l’annullamento in Italia) sussiste se il matrimonio è stato celebrato in Italia o se almeno uno dei due coniugi è residente in Italia.
Per i matrimoni, invece, contratti tra persone appar¬tenenti all’Unione Europea, troverà applicazione il Re-golamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003 relativo alla competenza, al riconosci-mento e all’esecuzione delle decisioni in materia ma¬trimoniale e in materia di responsabilità genitoriale. Tale Regolamento contiene enorme che derogano alla legge 218/1995 valida invece nei soli rapporti con cit¬tadini di Paesi extraeuropei.
Il Regolamento europeo si applica al divorzio, alla se¬parazione, all’annullamento del matrimonio e a tutte le questioni concernenti la responsabilità genitoriale. Si tratta di un Regolamento che disciplina in sostanza l’individuazione del giudice competente ad occupar¬si sia delle decisioni di divorzio, di separazione e di annullamento del matrimonio (escluse le obbligazioni alimentari e quindi escluse tutte le questioni relative alle obbligazioni di mantenimento che restano fuori dal campo di applicazione del regolamento 2201) sia dei procedimenti concernenti l’affidamento di minori e in genere la responsabilità dei genitori sui figli minori nati nel matrimonio o fuori del matrimonio.
L’individuazione del giudice competente ad occuparsi di una domanda di separazione, divorzio o annulla-mento del matrimonio tra cittadini di differenti paesi europei è determinata in base esclusivamente ad uno dei sei criteri indicati nell’articolo 3 del Regolamento, con la precisazione che i criteri elencati – da seleziona¬re nell’ordine con cui sono elencati – sono i seguenti: 1) residenza abituale dei coniugi; 2) ultima residenza abituale dei coniugi se uno di essi vi risiede ancora; 3) residenza abituale del coniuge convenuto; 4) in caso di domanda congiunta, la residenza abituale di uno dei coniugi; 5) la residenza abituale dell’attore se questi vi ha risieduto per almeno un anno prima della domanda; 6) residenza abituale dell’attore se questi vi ha risieduto per almeno sei mesi immediatamente prima della domanda ed è cittadino di quello Stato.
Il giudice di fronte al quale è presentata quindi una domanda di separazione, di divorzio o di annullamen¬to deve esaminare nell’ordine i criteri e può dichia¬rarsi competente soltanto se uno di questi criteri è soddisfatto.
Per esempio, nel caso di crisi matrimoniale tra il mari¬to italiano e la moglie francese, che vivono in Italia, se uno dei due coniugi presenta domanda di separazione in Italia, il giudice italiano verifica nell’ordine l’esisten¬za di uno dei sei criteri indicati nell’articolo 3 e – veri¬ficato che in Italia vi è la residenza abituale dei coniu¬gi (criterio n. 1) si dichiarerà senz’altro competente, senza passare ai criteri successivi. Se è la moglie che, tornata in Francia, presenta nel suo Paese, per esem¬pio dopo otto mesi dal rientro in patria, domanda di separazione o di divorzio, il giudice francese esamine¬rà anche lui nell’ordine i sei criteri e potrà dichiararsi competente soltanto in base al criterio n. 6 in quanto la Francia è il paese di residenza abituale dell’attore (cioè della moglie) e la moglie francese vi risiede da almeno sei mesi.
Si ricava quindi la regola generale secondo la qua¬le in caso di matrimonio misto il coniuge straniero può presentare domanda di separazione, divorzio o annullamento nel suo Paese solo dopo sei mesi da quando vi ha fatto rientro. Pertanto se il coniuge ita¬liano vuole evitare la causa matrimoniale all’estero deve presentare la sua domanda in Italia entro quel periodo di tempo.
Può verificarsi naturalmente il caso in cui entrambi i coniugi presentino una domanda nel proprio Paese d’origine che risponde correttamente ad uno dei cri¬teri indicati nell’art. 3 del regolamento potendo quindi attivarsi per entrambi la competenza del proprio giu¬dice nazionale. Nell’esempio sopra fatto, ove il marito italiano abbia presentato domanda davanti al giudice italiano e la moglie francese lo presenti davanti al giu¬dice francese dopo sei mesi da quando ha fatto rientro nel suo Stato d’origine, entrambi i giudici (quello ita¬liano e quello francese) potranno dichiararsi compe¬tenti. In tal caso – nel caso cioè in cui entrambi i giu¬dici abbiano competenza – è considerato competente il giudice preventivamente adìto mentre quello adìto successivamente deve sospendere il procedimento e successivamente dichiarare la propria incompetenza (art. 19 del Regolamento).
Vi è da aggiungere che da un punto di vista dei rap¬porti tra diversi Paesi europei si dovrebbe parlare correttamente di competenza mentre nelle sentenze italiane i giudici preferiscono parlare di giurisdizione o al più di competenza giurisdizionale (Cass. civ. Sez. Unite, 12 febbraio 2013, n. 3268; Cass. civ. Sez. Unite, 13 febbraio 2012, n. 1984; Cass. civ. Sez. Unite Ordinanza, 30 novembre 2011, n. 30646).
VI
Matrimoni misti e disposizioni
sull’immigrazione
Per i cittadini di Stati non appartenenti all’Unione eu¬ropea (e per gli apolidi) trova applicazione in Italia il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e delle norme sulla condizione dello straniero ( D. L.vo 25 luglio 1998, n. 286) che ricono¬sce in linea generale allo straniero “regolarmente sog¬giornante” nel territorio dello Stato i “diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano” (art. 3, comma 2) nella prospettiva soprattutto di favorire processi di in¬tegrazione (art. 4-bis inserito dall’art. 1, comma 25, della legge 15 luglio 2009, n. 94 come poi modificato dal D. L.vo 4 marzo 2014, n. 4 che fa obbligo di fornire allo straniero con il permesso di soggiorno ogni infor¬mazione sui diritti a lui riconosciuti).
Si è visto che al matrimonio con un cittadino italia¬no consegue il diritto per lo straniero (quale ne sia l’origine) di acquisto della cittadinanza italiana dopo aver risieduto “legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica” e sempre non sia interve¬nuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la se¬parazione personale dei coniugi (art. 5 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 come modificata dalla legge 15 luglio 2009, n. 94).
Si è ugualmente visto che lo straniero extracomuni¬tario può contrarre matrimonio in Italia anche ove sprovvisto di permesso di soggiorno, ma sempre che possa produrre le certificazioni indicate nell’art. 116 del codice civile. Si è ricordata anche la prassi di molti tribunali all’esito del procedimento previsto nell’art. 98 del codice civile (ricorso al tribunale in camera di consiglio contro il rifiuto dell’ufficiale di stato civile di eseguire le pubblicazioni matrimoniali e quindi contro il rifiuto di ammettere lo straniero al matrimonio in Italia) convalidata da Corte cost. 30 gennaio 2003, n. 14 dove si afferma che del tutto legittimamente il giudice può autorizzare le pubblicazioni (e quindi il matrimonio) nei casi in cui la mancata autorizzazione avrebbe effetti discriminatori frustrando il diritto pri¬mario di tutte le persone di unirsi in matrimonio.
Il cittadino extracomunitario, una volta coniugato con un cittadino italiano, non può essere espulso dal terri¬torio italiano e ha diritto al rilascio di un titolo di soggiorno (art. 19, comma 2, lettera c, del Testo unico sull’immigrazione) e cioè, in sostanza il diritto al rilascio di una «Carta di soggiorno di un familiare di un cittadino” chiama¬ta carta di soggiorno per coesione familiare (Cass. civ. Sez. VI, 2 settembre 2014, n. 18553). L’art. 19, comma 2, lett. c qui richiamato prevede appunto il divieto di espulsione “degli stranieri conviventi con parenti entro il secondo grado o con il coniuge di na¬zionalità italiana”. Non rientra tra le ipotesi del divieto di espulsione la convivenza more uxorio dello stra¬niero con un italiano (Cass. civ. Sez. I, 25 gennaio 2011, n. 1683).
Si tratta in sostanza di un permesso di soggiorno a tempo indeterminato (art. 9 Testo Unico).
Pertanto il matrimonio con un italiano ha per lo stra¬niero extracomunitario lo speciale effetto di consen-tire il soggiorno sul territorio dello Stato (salvi i casi di espulsione sempre ammessa per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato richiamati al primo comma dell’art. 13 del testo unico).
Dopo la celebrazione del matrimonio, pertanto, i due coniugi devono recarsi direttamente in Questura, competente per l’esame delle domande di rilascio e rinnovo delle carte di soggiorno (Cass. civ. Sez. VI, 7 luglio 2016, n. 13831).
VII
Il ricongiungimento familiare
Sono considerati regolarmente soggiornanti gli stra¬nieri extracomunitari che fanno ingresso nel territorio dello Stato in possesso del passaporto e con visto d’in¬gresso rilasciato dalla rappresentanze diplomatiche o consolari italiane nello Stato di origine. Lo straniero entrato regolarmente deve richiedere entro otto giorni al Questore della provincia in cui si trova il permesso di soggiorno la cui durata, nei casi di ricongiungimen¬to familiare ha durata non superiore ai due anni (art. 5, comma 3-sexies, come inserito dalla legge 30 lu¬glio 2002, n. 189). Almeno sessanta giorni prima della scadenza il permesso va rinnovato per una durata non superiore a quella stabilita per il rilascio iniziale, pre¬via verifica delle condizioni previste per il rilascio. Se mancano le condizioni il permesso di soggiorno non viene rilasciato o non viene rinnovato. Agli stranieri in possesso di almeno cinque anni di un permesso di soggiorno in corso di validità e agli stranieri titola¬ri di protezione internazionale può essere rilasciato a determinate condizioni un permesso di soggiorno di lungo periodo (art. 9 TU).
Gli stranieri che fanno ingresso nel territorio italiano al di fuori delle condizioni sopra indicate possono fare domanda di protezione internazionale o possono ot¬tenere il permesso di soggiorno per motivi umanitari (art. 5, comma 6 del TU) a richiesta dell’organo di esame della istanza di riconoscimento dello status di rifugiato (D. L.vo 19 novembre 2007, n. 251).
In seguito al matrimonio con un italiano lo straniero può richiedere come detto la carta di soggiorno a tem-po indeterminato.
In assenza delle condizioni sopra previste lo straniero che fa ingresso o che si intrattiene nel territorio italia¬no è oggetto di respingimento (art. 10) o di espulsio¬ne (art. 131). Contro le immigrazioni clandestine – in sostanza contro l’ingresso effettuato clandestinamen¬te sottraendosi ai controlli di frontiera o contro la per¬manenza senza permesso di soggiorno – sono previste nel Testo unico norme apposite (art. 12) integrate e modificate da numerose successive misure legislative di contrasto.
In questi casi, avverso il provvedimento di espulsione disposto dal prefetto, l’interessato può presentare ri¬corso all’autorità giudiziaria ordinaria (art. 13, comma 8). Il procedimento è regolato dall’art. 18 del decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150 (cosiddette di¬sposizioni sulla semplificazione dei procedimenti civili) che, per le controversie in materia di espulsione dei cittadini di Stati che non sono membri dell’Unione eu¬ropea aventi ad oggetto l’impugnazione del decreto di espulsione, prescrive il rito sommario di cognizione.

1 L’art. 13 comma 5-bis del TU prevede che l’espulsione è di¬sposta dal prefetto ed eseguita da questore il quale comunica immediatamente e, comunque, entro quarantotto ore dalla sua adozione, al giudice di pace territorialmente competente il provvedimento con il quale è disposto l’accompagnamento alla frontiera. L’esecuzione del provvedimento del questore di allontanamento dal territorio nazionale è sospesa fino alla decisione sulla convalida. L’udienza per la convalida si svol¬ge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria di un difensore tempestivamente avvertito. L’interessato è anch’esso tempestivamente informato e condotto nel luogo in cui il giudice tiene l’udienza. Lo straniero è ammesso all’as¬sistenza legale da parte di un difensore di fiducia munito di procura speciale. Lo straniero è altresì ammesso al patrocinio a spese dello Stato, e, qualora sia sprovvisto di un difensore, è assistito da un difensore designato dal giudice nell’ambito dei soggetti iscritti nella tabella di cui all’articolo 29 delle nor¬me di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, nonché, ove necessario, da un interprete. L’autorità che ha adottato il provvedimento può stare in giudizio per¬sonalmente anche avvalendosi di funzionari appositamente delegati. Il giudice provvede alla convalida, con decreto mo¬tivato, entro le quarantotto ore successive, verificata l’osser-vanza dei termini, la sussistenza dei requisiti previsti dal pre¬sente articolo e sentito l’interessato, se comparso. In attesa della definizione del procedimento di convalida, lo straniero espulso è trattenuto in uno dei centri di identificazione ed espulsione, di cui all’articolo 14, salvo che il procedimento possa essere definito nel luogo in cui è stato adottato il prov¬vedimento di allontanamento anche prima del trasferimento in uno dei centri disponibili. Quando la convalida è concessa, il provvedimento di accompagnamento alla frontiera diven¬ta esecutivo. Se la convalida non è concessa ovvero non è osservato il termine per la decisione, il provvedimento del questore perde ogni effetto. Avverso il decreto di convalida è proponibile ricorso per cassazione. Il relativo ricorso non sospende l’esecuzione dell’allontanamento dal territorio na¬zionale. Il termine di quarantotto ore entro il quale il giudice di pace deve provvedere alla convalida decorre dal momento della comunicazione del provvedimento alla cancelleria.

2 Art. 18 (Delle controversie in materia di espulsione dei cit¬tadini di Stati che non sono membri dell’Unione europea)
1. Le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione del de¬creto di espulsione pronunciato dal prefetto ai sensi del de¬creto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, sono regolate dal rito sommario di cognizione, ove non diversamente disposto dal presente articolo.
2. È competente il giudice di pace del luogo in cui ha sede l’autorità che ha disposto l’espulsione.
3. Il ricorso è proposto, a pena di inammissibilità, entro tren¬ta giorni dalla notificazione del provvedimento, ovvero entro sessanta giorni se il ricorrente risiede all’estero, e può essere depositato anche a mezzo del servizio postale ovvero per il tramite di una rappresentanza diplomatica o consolare italia¬na. In tal caso l’autenticazione della sottoscrizione e l’inoltro all’autorità giudiziaria italiana sono effettuati dai funzionari della rappresentanza e le comunicazioni relative al procedi¬mento sono effettuate presso la medesima rappresentanza. La procura speciale al difensore è rilasciata altresì dinanzi all’autorità consolare.
4. Il ricorrente è ammesso al gratuito patrocinio a spese dello Stato, e, qualora sia sprovvisto di un difensore, è assistito da un difensore designato dal giudice nell’ambito dei soggetti iscritti nella tabella di cui all’articolo 29 delle norme di attua¬zione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, nonché, ove necessario, da un interprete.
5. Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato a cura della cancelleria all’autorità che ha emesso il provvedimento almeno cinque giorni prima della medesima udienza.
6. L’autorità che ha emesso il provvedimento impugnato può costituirsi fino alla prima udienza e può stare in giudizio personalmente o avvalersi di funzionari appositamente delegati.
7. Il giudizio è definito, in ogni caso, entro venti giorni dalla data di deposito del ricorso.
8. Gli atti del procedimento e la decisione sono esenti da ogni tassa e imposta.
9. L’ordinanza che definisce il giudizio non è appellabile.
3 Art. 19 (Delle controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale)
1. Le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei prov¬vedimenti previsti dall’articolo 35 del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, sono regolate dal rito sommario di co¬gnizione, ove non diversamente disposto dal presente articolo.
2. È competente il tribunale, in composizione monocratica, del capoluogo del distretto di corte di appello in cui ha sede la Commissione territoriale per il riconoscimento della pro¬tezione internazionale che ha pronunciato il provvedimento impugnato.
Sull’impugnazione dei provvedimenti emessi dalla Commis¬sione nazionale per il diritto di asilo è competente il tribunale, in composizione monocratica, del capoluogo del distretto di corte di appello in cui ha sede la Commissione territoriale che ha pronunciato il provvedimento di cui è stata dichiarata la revoca o la cessazione. Nei casi di accoglienza o trattenimento disposti ai sensi degli articoli 20 e 21 del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, è competente il tribunale, in compo¬sizione monocratica, che ha sede nel capoluogo di distretto di corte di appello in cui ha sede il centro ove il ricorrente è accolto o trattenuto.
3. Il ricorso è proposto, a pena di inammissibilità, entro tren¬ta giorni dalla notificazione del provvedimento, ovvero entro sessanta giorni se il ricorrente risiede all’estero, e può essere depositato anche a mezzo del servizio postale ovvero per il tramite di una rappresentanza diplomatica o consolare italia¬na. In tal caso l’autenticazione della sottoscrizione e l’inoltro all’autorità giudiziaria italiana sono effettuati dai funzionari della rappresentanza e le comunicazioni relative al procedi¬mento sono effettuate presso la medesima rappresentanza. La procura speciale al difensore è rilasciata altresì dinanzi all’autorità consolare. Nei casi di accoglienza o trattenimento disposti ai sensi degli articoli 20 e 21 del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, i termini previsti dal presente comma sono ridotti della metà.
4. La proposizione del ricorso sospende l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, tranne che nelle ipotesi in cui il ricorso viene proposto:
a) da parte di soggetto ospitato nei centri di accoglienza ai sensi dell’articolo 20, comma 2, lettere b) e c), del decreto le¬gislativo 28 gennaio 2008, n. 25, o trattenuto ai sensi dell’ar¬ticolo 21 del medesimo decreto legislativo, ovvero
b) avverso il provvedimento che dichiara inammissibile la do¬manda di riconoscimento dello status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria, ovvero
c) avverso il provvedimento adottato dalla Commissione ter¬ritoriale nell’ipotesi prevista dall’articolo 22, comma 2, del de¬creto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, ovvero
d) avverso il provvedimento adottato dalla Commissione ter¬ritoriale che ha dichiarato l’istanza manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 32, comma 1, lettera b-bis), del citato decreto legislativo.
5. Nei casi previsti dal comma 4, lettere a), b), c) e d), l’ef¬ficacia esecutiva del provvedimento impugnato può essere sospesa secondo quanto previsto dall’articolo 5. Quando l’i¬stanza di sospensione viene accolta, al ricorrente è rilasciato un permesso di soggiorno per richiesta di asilo e ne viene disposta l’accoglienza ai sensi dell’articolo 36 del decreto legi¬slativo 28 gennaio 2008, n. 25.
6. Il ricorso e il decreto di fissazione dell’udienza sono noti¬ficati, a cura della cancelleria, all’interessato e al Ministero dell’interno, presso la Commissione nazionale ovvero presso la competente Commissione territoriale, e sono comunicati al pubblico ministero.
7. Il Ministero dell’interno, limitatamente al giudizio di primo grado, può stare in giudizio avvalendosi direttamente di propri dipendenti o di un rappresentante designato dalla Commis¬sione che ha adottato l’atto impugnato. Si applica, in quanto compatibile, l’articolo 417-bis, secondo comma, del codice di procedura civile.
8. La Commissione che ha adottato l’atto impugnato può de¬positare tutti gli atti e la documentazione che ritiene necessari ai fini dell’istruttoria e il giudice può procedere anche d’ufficio agli atti di istruzione necessari per la definizione della con¬troversia.
9. L’ordinanza che definisce il giudizio rigetta il ricorso ovvero riconosce al ricorrente lo status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria ed è comunicata alle parti a cura della cancelleria.
10. La controversia è trattata in ogni grado in via di urgenza.

Ai fini che qui interessano non è necessario dare con¬to dei diversi adempimenti previsti e delle specifiche norme che regolamentano l’espulsione.
Il testo unico prevede anche, però, che lo straniero possa essere destinatario di misure di carattere uma-nitario e che quindi gli possa essere assicurata la pos¬sibilità di soggiornare sul territorio italiano per moti¬vi di protezione sociale (art. 18 e seguenti del Testo unico). Ciò può avvenire perché sono accertate gravi forme di violenza o di sfruttamento nei suoi confronti oppure perché lo straniero si torva in una particolare condizione di vulnerabilità (come la persecuzione per vari motivi nel suo Paese). In tali casi non è consen¬tita l’espulsione. Ugualmente non è consentita l’espul¬sione, se non per motivi di ordine pubblico o di sicu¬rezza dello Stato, dei minori di 18 anni, fatto salvo il loro diritto di seguire il genitore espulso, nonché degli stranieri conviventi con pare ti entro il secondo grado o con il coniuge italiano. Ugualmente non è consen¬tita l’espulsione delle donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio. Tutte le controversie in materia di diniego di questa protezione internazionale sono regolate dall’art. 19 del Decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150.

Tutto ciò premesso si deve ricordare che l’espressione “ricongiungimento familiare” si riferisce ad un istitu¬to riconosciuto a favore dei cittadini extracomunitari regolarmente soggiornanti sul territorio dello Stato attraverso il quale lo straniero extracomunitario, ti¬tolare del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo o di un permesso di soggiorno con durata non inferiore a un anno rilasciato per lavoro subordinato, autonomo, per asilo, per studio, motivi religiosi, ovvero, come visto, per motivi familiari o per motivi di protezione, può richiedere l’ingresso dei fa¬miliari residenti all’estero, al fine di ristabilire in modo continuativo l’unità della propria famiglia.
Quindi il ricongiungimento opera per lo straniero che deve ancora entrare in Italia.
L’ingresso è consentito a tempo determinato o inde¬terminato – a seconda delle motivazioni – previo visto d’ingresso rilasciato dalla nostra ambasciata situata nel paese d’origine del richiedente. L’ambasciata rila-scia il visto – e quindi consente allo straniero di ricon¬giungersi in Italia con il suo familiare – previo nulla osta rilasciato dalla prefettura del luogo di dimora del familiare in Italia, su richiesta del medesimo fami-liare attraverso la compilazione degli appositi moduli telematici. Quindi il ricongiungimento è richiesto dal familiare straniero che si trova in Italia. A sua volta lo straniero del quale si chiede il ricongiungimento dovrà presentare i documenti necessari a provare il rapporto di parentela direttamente al consolato italia-no nel suo paese d’origine.
Il più volte richiamato decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) riconosce, quindi, agli stranieri – purché presenti legalmente sul territorio nazionale – il diritto all’unità del nucleo familiare (titolo IV: diritto all’unità familiare e tutela dei minori).

La possibilità di esercitare tale diritto è però sottopo¬sta alla condizione naturalmente che lo straniero pre-sente in Italia documentati i legami di parentela con il familiare di cui chiede il ricongiungimento; nel caso in ciò sia reso impossibile dalle condizioni del paese di provenienza, o vi siano dubbi sulla veridicità dei cer-tificati presentati, le autorità consolari italiane sono ammesse a rilasciare la documentazione necessaria sulla base del risultato del test del DNA, effettuato a spese del richiedente.
In linea generale, solo i parenti stretti sono ammes¬si al ricongiungimento. Secondo l’articolo 29, si può chiedere l’ingresso: a) del coniuge non legalmente separato e di età non inferiore ai diciotto anni [situa-zione naturalmente che non riguarda lo straniero che ha contratto matrimonio con un italiano in Italia]; b) dei figli minori (di diciotto anni), anche del coniuge o nati fuori del matrimonio, non coniugati, a condizione che l’altro genitore, qualora esistente, abbia dato il suo consenso. Si considerano equiparati ai figli anche i minori adottati, in affidamento, o sotto tutela; c) dei figli maggiorenni a carico, qualora per ragioni ogget-tive non possano provvedere alle proprie indispen¬sabili esigenze di vita in ragione del loro stato di salute che comporti invalidità totale; d) dei genitori a carico, qualora non abbiano altri figli nel Paese di origine o di provenienza, ovvero genitori ultrasessantacinquenni, qualora gli altri figli siano impossibilitati al loro so-stentamento per documentati, gravi motivi di salute.
Secondo Cons. Stato Sez. III, 3 gennaio 2014, n. 1 i “legami familiari” rilevanti sono quelli indica¬ti dall’art. 29 del D.Lgs. n. 286/1998 (coniugi, figli minori, figli maggiorenni a carico, genitori a carico), con le precisazioni che: (i) non è necessaria la convi¬venza, dal momento che il dispositivo della sentenza della Corte parla di “legami familiari nel territorio dello Stato”, e non di familiari conviventi; (ii) nel rapporto tra genitori e figli non necessita che i figli siano at¬tualmente minorenni; perché se è vero che sono ri¬congiungibili solo i figli minorenni, è anche vero che la sentenza della Corte non fa riferimento alle persone che presentino “attualmente” i requisiti del ricongiun¬gimento, ma (anche) a quelle che a tempo opportuno avrebbero avuto titolo al ricongiungimento, ma non abbiano avuto necessità di avvalersene.
Vi è una ulteriore limitazione: l’art. 1-ter del decre¬to legislativo 286/98prevede che “Non è consentito il ricongiungimento dei familiari di cui alle lettere a) e d) del comma 1 [coniuge e genitori a carico], quando il familiare di cui si chiede il ricongiungimento è co¬niugato con un cittadino straniero regolarmente sog-giornante con altro coniuge nel territorio nazionale”. Si esclude, cioè (per evitare evidentemente gli effetti della bigamia o della poligamia) il ricongiungimento per lo straniero già coniugato con altro straniero le¬galmente residente.
In terzo luogo, il richiedente deve dimostrare di avere le capacità reddituali per il mantenimento del ricon-giunto. Il reddito minimo è pari all’assegno sociale aumentato della metà per ciascun ricongiungendo. Per il 2013 tale cifra è pari ad euro 5.749, 90 (euro 442,30 mensili): di conseguenza si potrà chiedere il ricongiungimento di un familiare se si dimostra un reddito derivante da fonte lecita di 8.624, 85 euro; di due familiari se si dimostra il reddito di 11.499,8 euro e così via. Ai fini della determinazione del reddito si tiene conto, però, del reddito annuo complessivo di tutto il nucleo familiare convivente.
Alle capacità reddituali si aggiungono la necessità di un alloggio considerato idoneo secondo i parametri comunali e, per il ricongiungendo ultra sessantacin¬quenne, la presenza di una assicurazione sanitaria o l’iscrizione al Servizio sanitario nazionale. I requisiti di reddito, idoneità abitativa e assicurazione sanitaria per l’ascendente ultrasessantacinquenne non si appli¬cano nel caso di straniero a cui sia stato riconosciuto lo status di rifugiato.
Il nulla osta per il ricongiungimento viene rilasciato dalla prefettura competente, previa verifica di tutti i requisiti, entro 180 giorni dalla richiesta inviata – esclusivamente – per via telematica. La richiesta è re-spinta se il matrimonio o l’adozione del minore rego¬larmente soggiornante sono state fatte al solo scopo di entrare nel territorio nazionale.
Al nulla osta per ricongiungimento familiare segue il permesso di soggiorno per motivi familiari, che ha la stessa durata del permesso di soggiorno principale, e consente l’iscrizione ai servizi assistenziali, l’iscri-zione a corsi di studio o di formazione professionale, l’iscrizione nelle liste di collocamento, lo svolgimento di lavoro subordinato o autonomo. Lo straniero che abbia compiuto 65 anni e tre mesi di età, in possesso del permesso di soggiorno, che abbia soggiornato in via continuativa in Italia per più di dieci anni, e non provvisto di altri redditi, o con redditi inferiori ai limiti stabiliti dalla legge, è ammesso a richiedere l’assegno sociale o la differenza fra i suoi redditi ed il limite dei 5.749, 90 euro annui.
In caso di morte del titolare del permesso di soggiorno a titolo principale, o di scioglimento del vincolo matri¬moniale, il permesso di soggiorno per motivi familiari si può convertire in permesso di soggiorno per lavoro autonomo, o subordinato, o per studio.
Il Testo unico delle disposizioni concernenti la disci¬plina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero – come modificato dal decreto legislativo 8 gennaio 2007 n.5 (attuazione della direttiva 2003/86/CE relativa al diritto di ricongiungimento familiare) – all’articolo 5 n. 5 e 5-bis prevede, in caso di ricongiun¬gimento familiare, una valutazione più elastica dei requisiti di ingresso e soggiorno rispetto a quella nor¬malmente effettuata. Infatti, la decisione sul rinnovo, rilascio e revoca del permesso di soggiorno deve tene¬re “anche conto della natura e della effettività dei vin¬coli familiari dell’interessato, e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo paese d’origine nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale” (art. 5 n.5). La pericolosità per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato deve essere poi valutata “anche in considerazione di eventuali con¬danne per i reati previsti dagli articoli 380, commi 1 e 2, e 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, ovvero per i reati di cui all’articolo 12, commi 1 e 3” (art. 5, n. 5 bis).
Il fatto che si tratti di una valutazione meno rigida lo si ricava dalla circostanza che lo straniero condanna¬to per alcune tipologie di reati viene considerato pre¬suntivamente pericoloso, senza alcun riferimento ad altre considerazioni. All’amministrazione non è data la possibilità di valutare il comportamento nel caso concreto: alla condanna consegue, automaticamente, la revoca (o il mancato rinnovo, o il mancato rilascio) del permesso di soggiorno.
Più precisamente, l’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 stabilisce che “Non è ammesso in Italia lo straniero che (…) risulti condannato, anche con sen¬tenza non definitiva, compresa quella adottata a se-guito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall’articolo 380, commi 1 e 2, del co¬dice di procedura penale ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emi-grazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prosti¬tuzione o di minori da impiegare in attività illecite. Impedisce l’ingresso dello straniero in Italia anche la condanna, con sentenza irrevocabile, per uno dei reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo III, sezio¬ne II, della legge 22 aprile 1941, n. 633, relativi alla tutela del diritto di autore, e degli articoli 473 e 474 del codice penale”. Poiché l’art. 5 n. 5stabilisce che “il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato, esso è revocato, quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l’ingresso e il soggiorno nel ter-ritorio dello Stato”, ne risulta che lo straniero condan¬nato per i reati predetti non potrà entrare nel paese o dovrà lasciarlo.
Diverso è il caso dello straniero che abbia richiesto il ricongiungimento dei familiari, o che stia per ricon-giungersi lui stesso con parenti residenti in Italia: in tal caso i provvedimenti che incidono sul permesso di soggiorno devono sempre essere oggetto di valuta¬zione in concreto, con esclusione di ogni automatismo a pena di illegittimità (Cass. civ. Sez. VI, 28 mag¬gio 2014, n. 12006). Infatti – al di là della tecnica normativa utilizzata dall’articolo 5 di cui si è sopra detto – per il ricongiungendo, l’art. 4 n. 3 del D.lgs. 286/98 stabilisce “che lo straniero per il quale è ri¬chiesto il ricongiungimento familiare non è ammesso in Italia quando rappresenti una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Sta¬to”. La previsione della concretezza ed attualità del pericolo implica una valutazione discrezionale sulla situazione specifica, che non è richiesta, invece, per colui che chieda di entrare nel territorio nazionale senza ricongiungimento.
Questa differenza di procedura – provvedimento au¬tomatico nel primo caso, valutazione discrezionale nel secondo – costituisce il cuore di una vera e propria tutela rafforzata a garanzia del nucleo familiare. La ga-ranzia si estende fino a differenziare i reati rilevanti nei due casi: infatti, laddove ci sia richiesta di ricongiungi¬mento, non rilevano le condanne per delitti di contraf¬fazione ed in violazione della proprietà intellettuale.
La ragione di tale favor è il contemperamento del¬le esigenze di controllo delle frontiere e di garanzia dell’ordine pubblico con il diritto alla vita familiare ri¬conosciuto allo straniero regolare dalla Costituzione, dalla legge e dagli impegni internazionali.
La giurisprudenza amministrativa e civile più recente, in considerazione della riforma introdotta dal D.lgs. 5/2007, emessa in attuazione della direttiva europea 2003/86/CE, ha sottolineato questa posizione (Cons. Stato Sez. III, 12 novembre 2014, n. 5566; Cons. Stato Sez. III, 23 ottobre 2014, n. 5221; Cons. Stato Sez. III, 23 ottobre 2014, n. 5220; Cass. civ. Sez. VI, 3 settembre 2014, n. 18608; Cons. Stato Sez. III, 26 agosto 2014, n. 4325 e molte altre precedenti).

Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 25 luglio 2016, n. 15343 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il celebrato via Skype secondo le forme e le modalità previste da un ordinamento straniero non contrasta con l’ordine pub¬blico italiano posto che, laddove l’atto matrimoniale è valido per l’ordinamento straniero in quanto da questo considerato idoneo a rappresentare il consenso matrimoniale dei nubendi in modo consapevole, esso non può ritenersi contrastante con l’ordine pubblico solo perché celebrato in una forma non pre¬vista dall’ordinamento italiano. Nell’anzidetta ipotesi, invero, non può intendersi ravvisabile violazione dell’ordine pubblico italiano, giacché il giudizio di compatibilità dell’ordine pubblico deve essere riferito al nucleo essenziale dei valori del nostro ordinamento; inoltre, il rispetto dell’ordine pubblico in sede di delibazione deve essere garantito avendo esclusivo riguardo agli effetti dell’atto straniero , senza possibilità di sottopor¬lo ad un sindacato di tipo contenutistico o di merito, né di correttezza della soluzione adottata alla luce dell’ordinamento straniero o di quello italiano. Di talché se l’atto matrimoniale è valido per l’ordinamento straniero, esso non può ritenersi con¬trastante con l’ordine pubblico solo perché celebrato in una forma non prevista dall’ordinamento italiano.
Cass. civ. Sez. VI, 7 luglio 2016, n. 13831 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il cittadino straniero che abbia contratto matrimonio con un cittadino italiano, dopo aver trascorso nel territorio nazionale il trimestre di soggiorno informale, è tenuto a richiedere la carta di soggiorno prescritta dall’art. 10 del d.lgs n. 30 del 2007, restando soggetto, finché non ottenga tale titolo, alla disciplina dettata dall’art. 19, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 286 del 1998 e dall’art. 28 del d.P.R. n. 394 del 1999, in virtù della quale, ai fini della concessione e del mantenimento del permesso di soggiorno per coesione familiare, è necessario il requisito della convivenza effettiva. (Nella specie, la S.C. ha confermato il provvedimento di merito che ha negato il permesso di soggiorno alla cittadina straniera in ragione del matrimonio contratto con un italiano, in quanto la stessa non aveva mai fatto precedentemente richiesta di analogo titolo e si era allontanata dal territorio nazionale poco tempo dopo la celebrazione delle nozze, rientrandovi dopo oltre nove anni senza mai avere convissuto con il coniuge).
Cass. civ. Sez. VI, 5 novembre 2015, n. 22608 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La perdita della cittadinanza italiana presuppone una rinuncia spontanea e volontaria da parte del cittadino, non potendo dirsi propriamente tale quella dettata dalla necessità, legi¬slativamente imposta, di acquisire la cittadinanza del coniu¬ge straniero e dovendo la volontà abdicativa essere oggetto di approfondito accertamento istruttorio, anche officioso, da parte del giudice.
Cons. Stato Sez. III, 12 novembre 2014, n. 5566 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di immigrazione la valutazione della pericolosità in concreto, da parte del Questore deve essere compiuta solo per quanti abbiano in Italia i legami familiari previsti dall’art. 29 del d.lgs. 286/1998 (T.U. immigrazione), con esclusione di ogni altro vincolo di consanguineità, poiché il superamen¬to dell’automatismo espulsivo e la conseguente necessità di valutare tale pericolosità, che l’art. 5, comma 5, del medesi¬mo T.U. riconosce in favore di chi abbia ottenuto un formale provvedimento di ricongiungimento familiare, può estendersi, pena l’irragionevole disparità di trattamento, solo “a chi, pur versando nelle condizioni sostanziali per ottenerlo, non abbia formulato istanza in tal senso”.
Cons. Stato Sez. III, 23 ottobre 2014, n. 5221 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei confronti dello straniero che si trovi nelle condizioni di aver esercitato il ricongiungimento familiare (o sia familiare ricongiunto) l’eventuale diniego del permesso di soggiorno (o del suo rinnovo) non discende automaticamente dalla presen¬za di una causa ostativa (quale ad es. le condanne penali) ma deve essere sempre preceduto da una valutazione discrezio¬nale che tenga conto dell’interesse dello straniero e della sua famiglia alla conservazione dell’unità familiare, mettendo tale interesse in comparazione con quello della comunità nazio¬nale ad allontanare un soggetto socialmente pericoloso; tale disciplina, benché riferita allo straniero che abbia usufruito di una procedura di ricongiungimento familiare, deve essere applicata (per necessità logico-giuridica) in tutti i casi in cui vi sia un nucleo familiare la cui composizione corrisponda a quella che, ove necessario, darebbe titolo ad una procedura di ricongiungimento, non rilevando in contrario che tale pro¬cedura in effetti non vi sia stata, essendosi il nucleo familiare costituito o ricostituito senza aver dovuto ricorrervi.
Cons. Stato Sez. III, 23 ottobre 2014, n. 5220 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei confronti dello straniero che si trovi nelle condizioni di aver esercitato il ricongiungimento familiare (o sia familiare ricongiunto) l’eventuale diniego del permesso di soggiorno (o del suo rinnovo) non discende automaticamente dalla presen¬za di una causa ostativa (quale ad es. le condanne penali) ma deve essere sempre preceduto da una valutazione discrezio¬nale che tenga conto dell’interesse dello straniero e della sua famiglia alla conservazione dell’unità familiare, mettendo tale interesse in comparazione con quello della comunità nazio¬nale ad allontanare un soggetto socialmente pericoloso; tale disciplina, benché riferita allo straniero che abbia usufruito di una procedura di ricongiungimento familiare, deve essere applicata (per necessità logico-giuridica) in tutti i casi in cui vi sia un nucleo familiare la cui composizione corrisponda a quella che, ove necessario, darebbe titolo ad una procedura di ricongiungimento, non rilevando in contrario che tale pro¬cedura in effetti non vi sia stata, essendosi il nucleo familiare costituito o ricostituito senza aver dovuto ricorrervi.
Cass. civ. Sez. VI, 3 settembre 2014, n. 18608 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di disciplina dell’immigrazione, l’art. 13, comma 2 bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (introdotto dal d.lgs. 8 gennaio 2007, n. 5), nel disporre che qualora debba adottarsi un provvedimento di espulsione, ai sensi del secondo comma, lett. a) e lett. b), della medesima disposizione, nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto, si deve tenere an¬che conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale, nonché dell’esistenza dei legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese di origine, tende a salvaguardare il diritto alla vita familiare dello straniero in ogni caso in cui esso non contrasti con gli interessi pubblici.
Cass. civ. Sez. VI, 2 settembre 2014, n. 18553 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di immigrazione, il divieto di espulsione di cui all’art. 19, comma 2, lett. c), del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, co¬stituisce condizione necessaria per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di coesione familiare, sicché non opera qualora, per ragioni di pericolosità sociale, sia stato revocato il titolo di soggiorno dello straniero, anche se fondato sulla medesima condizione soggettiva produttiva dell’inespellibilità.
Cons. Stato Sez. III, 26 agosto 2014, n. 4325 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei confronti dello straniero che si trovi nelle condizioni di aver esercitato il ricongiungimento familiare (o sia familiare ricongiunto) l’eventuale diniego del permesso di soggiorno (o del suo rinnovo) non discende automaticamente dalla presen¬za di una causa ostativa ma deve essere sempre preceduto da una valutazione discrezionale che tenga conto dell’interesse dello straniero e della sua famiglia alla conservazione dell’u¬nità familiare, mettendo tale interesse in comparazione con quello della comunità nazionale ad allontanare un soggetto socialmente pericoloso.
Cass. civ. Sez. VI, 28 maggio 2014, n. 12006 (Pluris, Wol¬ters Kluwer Italia)
In tema di immigrazione, il decreto di espulsione emesso nei confronti dello straniero che abbia omesso di chiedere, nei termini di legge, il rinnovo del permesso di soggiorno per ri¬congiungimento familiare, è illegittimo per violazione della clausola di salvaguardia della coesione familiare di cui all’art. 5, comma 5, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ove non con¬tenga alcun riferimento alle ragioni per cui non è stata presa in considerazione la sua situazione familiare.
Cass. civ. Sez. VI, 18 marzo 2014, n. 6205 (Pluris, Wol¬ters Kluwer Italia)
Al la luce della natura permanente ed imprescrittibile del di¬ritto al riconoscimento della cittadinanza italiana, i figli minori di una cittadina italiana, che abbia sposato uno straniero e stabilito la propria residenza all’estero, perdono la cittadinan¬za italiana, ai sensi dell’art. 12, terzo comma, della legge 13 giugno 1912, n. 555, esclusivamente nel caso in cui la madre, a seguito del matrimonio, abbia, ai sensi dell’art. 11 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, rinunciato spontaneamente e volontariamente alla cittadinanza italiana, senza che tale ri¬nunzia – alla luce delle sentenze della Corte costituzionale n. 87 del 1975 e n. 30 del 1983 – possa costituire la mera conse¬guenza dell’acquisto della cittadinanza del coniuge straniero (art. 10 della legge n. 555 del 1912) ovvero di una “volontà” abdicativa non liberamente determinata (art. 8 della legge n. 555 cit.). (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito assumendo che il rigetto della domanda di riconosci¬mento della cittadinanza italiana non era stato giustificato dall’accertamento rigoroso in ordine alla effettiva volontarietà della perdita della cittadinanza da parte della madre dei ri¬correnti al momento in cui quest’ultima, già cittadina italiana, nella vigenza del pregresso quadro normativo, aveva perso la cittadinanza in favore di quella libanese a causa del proprio matrimonio).
Cons. Stato Sez. III, 3 gennaio 2014, n. 1 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’applicazione del regime di favore dettato dall’art. 5, comma 5, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, come modi¬ficato per effetto del D.Lgs. n. 5/2007, per i casi ricongiun¬gimento familiare, non è determinante la presenza o meno di una formale procedura di ricongiungimento. I “legami fa¬miliari” rilevanti sono quelli indicati dall’art. 29 del D.Lgs. n. 286/1998 (coniugi, figli minori, figli maggiorenni a carico, ge¬nitori a carico), con le precisazioni che: (i) non è necessaria la convivenza, dal momento che il dispositivo della sentenza della Corte parla di “legami familiari nel territorio dello Stato”, e non di familiari conviventi; (ii) nel rapporto tra genitori e figli non necessita che i figli siano attualmente minorenni; perché se è vero che sono ricongiungibili solo i figli minorenni, è anche vero che la sentenza della Corte non fa riferimento alle persone che presentino “attualmente” i requisiti del ri¬congiungimento, ma (anche) a quelle che a tempo opportuno avrebbero avuto titolo al ricongiungimento, ma non abbiano avuto necessità di avvalersene.
Cons. Stato, Sez. I, 9 ottobre 2013, n. 3164 (Pluris, Wol¬ters Kluwer Italia)
La dichiarazione di cui all’art. 116 c.c., la cui presentazione è prevista come onere in capo allo straniero che vuole con¬trarre matrimonio nello Stato, va valutata con riguardo alla sua connotazione sostanziale. Ai fini della sua validità, dun¬que, è necessario e sufficiente che la dichiarazione rilasciata dall’autorità estera accerti l’assenza di ostacoli al matrimonio, a prescindere dalle formule testuali impiegate.
ass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17620 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 28 della legge 31 maggio 1995, n. 218, il matrimonio celebrato all’estero è valido nel nostro ordina¬mento, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione, o dalla legge nazionale di almeno uno dei nubendi al momento della celebrazione, o dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento; tale principio non è condizionato dall’osservanza delle norme italiane relative alla trascrizione, atteso che questa non ha natura costitutiva, ma meramente certificativa e scopo di pubblicità di un atto già di per sé valido. Ne deriva che in tal caso il figlio va conside¬rato, a tutti gli effetti, nato in costanza di matrimonio, onde competente a decidere della regolamentazione dei rapporti personali ed economici fra questi e i genitori é il tribunale ordinario. (Regola competenza d’ufficio).
Cass. civ. Sez. Unite, 12 febbraio 2013, n. 3268 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 360, comma terzo, cod. proc. civ. come modificato dall’art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006, ostativo al ricorso im¬mediato per cassazione avverso le sentenze che decidono di questioni insorte senza definire neppure parzialmente il giu¬dizio, è applicabile all’ipotesi di litispendenza comunitaria, nel quadro delle regole dettate dagli artt. 19, 22, lett. b) e 24 del regolamento del Consiglio CE 27 novembre 2003, n. 2201, relativo alla competenza, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabi¬lità genitoriale; infatti, da tale sistema normativo emerge che tanto l’accertamento della giurisdizione, quanto la declinato¬ria del giudice successivamente adito e la verifica dell’accet¬tazione della decisione da parte del contumace sono passag¬gi processuali rimessi al regime nazionale e non consentono di ipotizzare una deroga al differimento della ricorribilità per cassazione, nemmeno sotto il profilo della ragionevole durata del processo di accertamento, in difetto di norme che espres¬samente vi facciano riferimento.
Trib. Venezia, 4 luglio 2012 (Famiglia e Diritto, 2012, 12, 1143 nota di GELLI)
La prassi delle competenti autorità marocchine di subordinare il rilascio del nulla osta necessario ex art. 116 c.c. all’ade¬sione alla fede mussulmana dei nubendi risulta contraria ai principi fondamentali dell’ordinamento italiano, contrastando con diritti di rango costituzionale che non consentono di con-dizionare il matrimonio in dipendenza della fede religiosa. In tal caso, l’ufficiale di stato civile deve, pertanto, procedere alla pubblicazione del matrimonio in assenza di nulla osta del Paese d’origine ai sensi dell’art. 98 c.c.
Cass. Civ. Sez. I, 15 marzo 2012, n. 4184 (Giur. It., 2013, 2 nota di MAROTTI)
La non trascrivibilità in Italia del matrimonio tra persone dello stesso sesso non discende dalla sua inesistenza giuridica o in¬validità (per asserita contrarietà all’ordine pubblico), ma dalla inidoneità a produrre effetti giuridici per il nostro ordinamento giuridico.
Cass. civ. Sez. Unite, 13 febbraio 2012, n. 1984 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di giurisdizione sui provvedimenti “de potestate”, l’art. 8 del Regolamento (CE) del 27 novembre 2003, n. 2201 dà rilievo, al fine di stabilire la competenza giurisdizionale di uno stato membro, unicamente al criterio della residenza abi¬tuale del minore al momento della proposizione della doman¬da, intendendo come tale il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale e non quello risultante da un calcolo puramente aritmetico del vissuto.
Cass. civ. Sez. Unite, 30 novembre 2011, n. 30646 (Plu¬ris, Wolters Kluwer Italia)
La giurisdizione sulle domande relative all’affidamento dei figli ed al loro mantenimento, ove pure proposte congiuntamente a quella di separazione giudiziale, appartiene al giudice del luogo in cui il minore risiede abitualmente, a norma dell’art. 8 del Regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio del 27 novembre 2003. Tale criterio, informato all’interesse supe¬riore del minore e, segnatamente, al criterio della vicinanza, riveste una tale pregnanza, da condurre ad escludere che il consenso del genitore alla proroga della giurisdizione quanto alle domande concernenti i minori – pur ammessa dall’art. 12 del citato regolamento, in presenza del consenso di entrambi i coniugi – sia ravvisabile dalla mancata contestazione giuri¬sdizione da parte di un coniuge con riguardo alla domanda di separazione. (Dichiara giurisdizione)
Corte cost., 25 luglio 2011, n. 245 (Famiglia e Diritto, 2012, 3, 233 nota di PASCUCCI )
È costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 3, 29 e 117, primo comma, Cost. l’art. 116, primo comma, del codice civile come modificato dall’art. 1, comma 15, della leg¬ge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole “nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano”. Tale disposizione, infatti – nello stabilire che lo straniero che vuole contrarre matrimonio nella Repubblica deve presentare all’ufficiale dello stato civile, oltre al nulla osta rilasciato dalla competente autorità del proprio Paese, anche un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano – incide su di un diritto fondamentale quale quello di contrarre matrimonio, derivante dagli artt. 2 e 29 Cost., e rappresenta uno strumento non idoneo ad assicurare un ragionevole e pro¬porzionato bilanciamento dei diversi interessi coinvolti, tanto più che il D.Lgs. n. 286 del 1998 (T.U. immigrazione) già disci¬plina alcuni istituti volti a contrastare i cosiddetti “matrimoni di comodo”; oltre a ciò, tale disposizione è lesiva dell’art. 117, primo comma, Cost., perché la libertà matrimoniale è garan¬tita anche dall’art. 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Trib. Piacenza, 5 maggio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Ita¬lia)
In tema di matrimonio dello straniero nello stato italiano, si deve ritenere che il giudice possa supplire alla mancan¬za o alla inadeguatezza del certificato di nulla osta previsto dall’art. 116, comma 2, c.c., il quale rappresenta non una condizione per contrarre matrimonio ma soltanto una formali¬tà probatoria con valore puramente certificativo.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2011, n. 7599 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale dei coniugi non aventi la medesima nazionalità (e di scioglimento del matrimonio), l’art. 31, primo comma, della legge 31 maggio 1995, n. 218, prevede il criterio di collegamento, ai fini dell’accertamento della legge applicabile, del luogo della “vita matrimoniale”, che va inteso in senso dinamico, come centro principale degli interessi e degli affetti dei coniugi, il quale spesso, ma non necessariamente, coincide con la residenza familiare, potendo i componenti della famiglia anche avere residenze diverse; pertanto, ancorché per lungo tempo la vita matrimoniale sia stata localizzata in uno Stato, qualora successivamente, ed anche se da un breve lasso di tempo, si verifichi un mutamen¬to, è alla nuova localizzazione che il giudice deve fare riferi¬mento, rilevando il concreto atteggiarsi dei rapporti familiari al momento della presentazione della domanda.
Cass. civ. Sez. I, 25 gennaio 2011, n. 1683 (Pluris, Wolt¬ers Kluwer Italia)
La convivenza “more uxorio” dello straniero con un cittadi¬no, ancorché giustificata dal tempo necessario affinché uno o entrambi i conviventi ottengano la sentenza di scioglimento del matrimonio dal proprio coniuge, non rientra tra le ipotesi tassative di divieto di espulsione ex art. 19, D.Lgs. 286/1998.
Cass. civ. Sez. Unite, 17 febbraio 2010, n. 3680 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della corretta individuazione della giurisdizione in un giudizio di separazione personale tra coniugi, cittadini di di¬versi Stati membri dell’Unione Europea, secondo i criteri sta¬biliti dall’art. 3 del Regolamento CEe n. 2201 del 2003, per “residenza abituale” della parte ricorrente deve intendersi il luogo in cui l’interessato abbia fissato con carattere di stabilità il centro permanente ed abituale dei propri interessi e relazio¬ni, sulla base di una valutazione sostanziale e non meramente formale ed anagrafica, essendo rilevante, sulla base del diritto comunitario, ai fini dell’identificazione della residenza effetti¬va, il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale ed eventualmente lavorativa alla data di proposi-zione della domanda.
Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2008, n. 18613 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 31, comma 1, della legge 31 maggio 1995, n. 218, la legge regolatrice della separazione personale di due coniugi, l’uno cittadino italiano e l’altro cittadino straniero che ha acquistato anche la cittadinanza italiana, è la legge italiana in quanto legge nazionale comune.
Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23598 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di disciplina dell’immigrazione, ai sensi degli artt. 19 e 30, comma 1-bis, del d.lgs. 25 luglio 1989, n. 286, il matrimonio con un cittadino italiano in tanto conferisce allo straniero il diritto al soggiorno in Italia, sia ai fini del rilascio del relativo permesso che ai fini del divieto di espulsione, in quanto ad esso faccia riscontro l’effettiva convivenza, e fino a quando sussista tale requisito, la cui prova è a carico dello stesso straniero , non essendo la convivenza presumibile in base al mero vincolo coniugale né alle mere risultanze ana¬grafiche. Tale disciplina non contrasta con il principio di dirit¬to comunitario che vieta ad uno Stato membro di negare il permesso di soggiorno e di adottare misure di espulsione nei confronti del cittadino di un Paese terzo che possa fornire la prova della sua identità e del suo matrimonio con un cittadi¬no di uno Stato membro, per il solo motivo che egli è entrato illegalmente nel suo territorio, essendo tale principio volto ad assicurare la tutela della vita familiare dei cittadini degli Sta¬ti membri, la quale postula proprio quella convivenza che il legislatore interno ha legittimamente eretto a parametro di meritevolezza della tutela accordata.
Cass. civ. Sez. I, 22 agosto 2006, n. 18220 (Famiglia e Diritto, 2007, 2, 145 nota di GELLI)
Ai fini del riconoscimento della sussistenza del divieto di espulsione amministrativa, previsto dall’art. 19, comma 2, lettera c), del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, a beneficio dello straniero convivente con il coniuge di nazionalità italiana, il riconoscimento di tale convivenza, la quale non è presu¬mibile in base all’esistenza del matrimonio e deve essere provata dall’espulso, resta escluso dall’accertamento circa la sussistenza di uno stato di separazione sia legale (giudiziale o consensuale, ex art. 150, secondo comma, cod. civ.), sia di fatto, tale da determinare la cessazione dei rapporti materiali e spirituali alla base della comune organizzazione domestica, ovvero del “consortium vitae”. La cessazione dello stato di separazione e dei relativi effetti è integrata solo dalla reale e concreta ripresa degli anzidetti rapporti materiali e spirituali, tale, cioè da possedere i caratteri della riconciliazione, di cui all’art. 157 cod. civ..
Cass. civ. Sez. I, 18 luglio 2006, n. 16452 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di disciplina dell’immigrazione, alla ipotesi di permes¬so di soggiorno contemplata dall’art. 30, comma primo, lett. a), del d.lgs. n. 286 del 1998, in favore dello straniero che abbia fatto ingresso in Italia al seguito del coniuge cittadi¬no italiano, all’epoca convivente, non è applicabile il comma 1-bis dello stesso art. 30 – introdotto dall’art. 29 della legge n. 189 del 2002 -, che stabilisce la revoca del permesso di soggiorno nel diverso caso in cui lo straniero , soggiornante in Italia da almeno un anno, abbia contratto matrimonio con cittadino italiano senza che ad esso sia seguita una effettiva convivenza tra i due, e sempre che dalla unione non siano nati figli. Infatti, nella ipotesi in esame, se la convivenza con il coniuge costituisce condizione per il rilascio del pemesso di soggiorno, la cessazione della stessa, che non dipenda da de¬cesso del coniuge, o da separazione personale o da divorzio, è irrilevante ai fini della legittimità del titolo di permanenza dello straniero nel territorio italiano.
Cass. civ. Sez. I, 8 febbraio 2006, n. 2821 (Famiglia e Diritto, 2006, 5, 487 nota di RAVOT)
L’esistenza del matrimonio, ai fini della concessione del per¬messo di soggiorno, non può essere fittizia. La relativa prova della mancata strumentalità del matrimonio è data anche dall’effettiva convivenza tra i coniugi, per cui la non coabita¬zione tra il coniuge italiano e lo straniero è da sola ostativa alla concessione del permesso di soggiorno.
Cass. civ. Sez. I, 25 novembre 2005, n. 25027 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È legittimo il provvedimento di revoca del permesso di soggiorno concesso a cittadino straniero coniugato con cittadino italiano nel caso in cui venga accertato che lo straniero, dopo aver ottenuto il permesso di soggiorno, si sia trasferito all›estero. Ai sensi dell›art. 30, c. 1, lett. b), D.Lgs. n. 286/1998, infatti, presupposto per il rilascio del permesso di soggiorno allo straniero coniugato con un cittadino italiano è, non solo la stabile convivenza dei coniugi, ma anche che questi ultimi abbiano fissato la residenza in Italia. Presupposto per il rilascio del permesso di soggiorno allo straniero coniugato con cittadino italiano è non soltanto la stabile convivenza dei coniugi (prevista espressamente dall›art. 30, comma primo bis, del d.lgs. n. 286 del 1998), ma anche che i coniugi abbiano fissato la loro residenza in Italia; ne consegue che è legittima la revoca del permesso di soggiorno disposta dal Questore, qualora accerti che lo straniero, dopo aver ottenuto il permesso di soggiorno per motivi familiari, si sia trasferito all›estero.
Cass. civ. Sez. I, 8 febbraio 2005, n. 2539 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il matrimonio contratto con un italiano non attribuisce senz’altro allo straniero il diritto di ottenere il permesso di soggiorno, ma è necessario l’ulteriore presupposto della convivenza con il coniuge, e ciò anche ai sensi dell’originaria formulazione dell’art. 30 D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (antecedente, cioè, all’introduzione, con l’art. 29legge 30 luglio 2002, n. 189, del comma primo bis, che impone la revoca del permesso ove si accerti che al matrimonio non è seguita l’effettiva convivenza), come si ricava dal sistema e dall’esigenza di evitare matrimoni solo formali, strumentali ad ottenere il permesso di soggiorno, nonché dal fatto che l’art. 28, lett. b), D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento di attuazione del T.U. approvato con il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 citato) prevede che il permesso di soggiorno in favore degli stranieri dei quali è vietata l’espulsione a causa del matrimonio con cittadino italiano possa essere rilasciato purché sussistano i requisiti di cui all’art. 19, lett. c), D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 citato, e quindi solo in quanto lo straniero conviva con il coniuge. L’onere della prova del presupposto della convivenza – la quale, nel sistema del T.U., non è presumibile in base all’esistenza del mero matrimonio, né è rilevabile dalle mere risultanze anagrafiche – grava sullo straniero.
Corte cost. 30 gennaio 2003, n. 14 (Riv. Dir. Internaz. Priv. e Proc., 2003, 937)
Poiché è possibile al giudice autorizzare le pubblicazioni disapplicando norme estere contrarie all’ordine pubblico che impediscano il matrimonio dello straniero, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 116, primo comma c.c. sollevata in riferimento all’art. 2 della Costituzione.
Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2001, n. 5537 (Giur. It., 2002, 1624 nota di PETRELLA)
Il matrimonio celebrato all’estero tra cittadini italiani e tra italiani e stranieri, nelle forme previste dalla legge straniera, ha immediata validità nel nostro ordinamento e, benché sia stato contratto in violazione dell’art. 86 c.c. da chi non aveva libertà di stato, è destinato a produrre effetti fino a quando non sia impugnato da uno dei soggetti legittimati e non sia emessa la pronuncia del giudice di nullità. (Nella specie, la Cassazione, dopo aver affermato la validità del matrimonio contratto tra un cittadino italiano, già legato da precedente vincolo matrimoniale, ed una cittadina straniera, non essendo intervenuta, medio tempore, una pronuncia di nullità, ha ritenuto applicabile il divieto di espulsione previsto dall’art. 19, lett. c) della legge n. 40 del 1998 per gli stranieri conviventi con il coniuge di nazionalità italiana).
Cass. civ. Sez. I, 2 marzo 1999, n. 1739 (Famiglia e Diritto, 1999, 4, 327 nota di ZAMBRANO)
Il matrimonio contratto all’estero secondo il rito musulmano, nel rispetto delle forme previste dalla “lex loci” e purché sussistano i requisiti di stato e capacità delle persone stabiliti dal nostro ordinamento è valido ed efficace. Lo status di coniuge acquista rilievo, dal punto di vista interpretativo, quale valutazione della situazione da accertare senza che, per questo, debbano intendersi superati i limiti derivanti dall’ordine pubblico e dal buon costume di cui all’art. 31 disp. prel. abrogate.
Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 1998, n. 10351 (Famiglia e Diritto, 1999, 1, 79)
Le norme di diritto internazionale privato attribuiscono ai matrimoni celebrati all’estero tra cittadini italiani o tra italiani e stranieri immediata validità e rilevanza nel nostro ordinamento, sempre che essi risultino celebrati secondo le forme previste dalla legge straniera (e, quindi, spieghino effetti civili nell’ordinamento dello Stato straniero) e sempre che sussistano i requisiti sostanziali relativi allo stato ed alla capacità delle persone previsti dalla legge italiana. Tale principio non è condizionato dall’osservanza delle norme italiane relative alla trascrizione, atteso che questa non ha natura costitutiva, ma meramente certificativa, e scopo di pubblicità di un atto già di per sé valido sulla base del principio “locus regit actum”.