La dichiarazione giudiziale di paternità può fondarsi sul rifiuto dei test ematici

Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 novembre 2019, n. 28886
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 863-2018 proposto da:
I.V., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato SPORTELLI MARTINO;
– ricorrente –
contro
R.E., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato PIRRELLI ANTONIO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 795/2017 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 23/06/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24/09/2019 dal Consigliere Relatore Dott. NAZZICONE LOREDANA.
Svolgimento del processo
– che è stato proposto ricorso, sulla base di due motivi, avverso la sentenza della Corte d’appello di Bari n. 795 del 23 giugno 2017 la quale ha respinto l’impugnazione contro la decisione di primo grado, che aveva dichiarato la paternità giudiziale dell’odierno ricorrente e accolto anche le conseguenti domande accessorie avanzate da R.E., aventi ad oggetto l’obbligo di mantenimento e il risarcimento dei danni patrimoniali e non, subiti a causa dell’assenza della figura paterna;
– che si difende con controricorso R.E.;
– che il ricorrente ha depositato memoria;
– che è stata formulata la proposta per la trattazione ai sensidell’art. 380-bis c.p.c., avverso cui non sono stati espressi rilievi.
Motivi della decisione
– che i motivi di ricorso possono essere così riassunti:
1) violazione e falsa applicazionedell’art. 2946 c.c., poiché il giudice di secondo grado ha riconosciuto all’odierna controricorrente il diritto al mantenimento sin dalla nascita;
2) nullità della sentenza e violazione e falsa applicazionedell’art. 269 c.c., comma 2, edell’art. 116 c.p.c., comma 2, poiché la corte barese ha fondato la propria decisione sul rifiuto del ricorrente di sottoporsi all’esame ematico, senza valutare le ragioni di tale rifiuto (timore del nocumento fisico e psicologico arrecato da un esame così invasivo) e senza consentirgli di provare la propria estraneità alla vicenda attraverso prove testimoniali o, comunque, ricorrendo ad accertamenti che non implicassero prelievi ematici;
– che il primo motivo è inammissibile, poiché la corte di merito non ha operato il riconoscimento del diritto al mantenimento della controparte sin dalla nascita e nessuna domanda risultava formulata a tal titolo;
– che il secondo motivo è manifestamente infondato;
– che la decisione della corte d’appello risulta pienamente conforme ai principi elaborati da questa Corte per cui, “nel giudizio promosso per l’accertamento della paternità, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, exart. 116 c.p.c., comma 2, di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda” (e multis Cass. 16226/2015; Cass. 6025/2015);
– che, peraltro, la corte di appello ha anche dato atto dell’acquisizione di elementi di confronto che suffragano l’attendibilità della ricostruzione fornita dalla R., quali la precedente azione -poi non coltivata – intrapresa diversi anni prima dalla madre della stessa al fine di ottenere una dichiarazione giudiziale di paternità;
– che, pertanto, la corte ha dato atto delle ragioni, conformi ai principi affermati, del proprio convincimento e non è, d’altronde, stato neppure addotto il vizio di cuiall’art. 360 c.p.c.n. 5, comma 1;
– che la condanna alle spese segue la regola della soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore di ciascuna parte costituita, di Euro 3.100 (di cui Euro 100 per esborsi), oltre alle spese forfetarie nella misura del 15% sul compenso ed agli accessori di legge.
In caso di diffusione del presente provvedimento, sono omesse le generalità e gli altri dati identificativi delle parti, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.53.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1-quater, come modificato dallaL. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52, in quanto disposto d’ufficio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 24 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2019

La Cassazione conferma la nuova giurisprudenza in materia di assegno di divorzio (Sezioni Unite, 11 luglio 2018, n. 18287) relativamente alla sua natura complessa ed alla rilevanza del contributo fornito dal coniuge richiedente nella realizzazione della vita familiare

Cass. civ. Sez. VI – 1, 30 ottobre 2019, n. 27771
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da C.A., elettivamente domiciliato in Roma, via della Giuliana 101, presso l’avv. Mario Piselli (p.e.c. mariopiselli.ordineavvocatiroma.org; fax (OMISSIS)) che lo rappresenta e difende, per procura speciale in calce al ricorso per cassazione, unitamente all’avv. Giovanni Boldrini (p.e.c. qiovanni.boldrini.ordineavvocatirimini.it fax n. (OMISSIS));
– ricorrente –
nei confronti di M.C., rappresentata e difesa, per procura speciale in calce al ricorso, dall’avv. Michele Angelo Lupoi ed elettivamente domiciliata in Roma, via Poma 2, presso l’avv.to Gregorio Troilo (fax (OMISSIS) p.e.c. (gregoriotroilo.ordineavvocatiroma.org);
– controricorrente –
E sul ricorso incidentale proposto da:
M.C., come sopra rappresentata e difesa;
– ricorrente incidentale –
nei confronti di C.A.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 5422/17 della Corte di appello di Milano, emessa il 4.10.2017 e depositata il 27.12.2017 R.G. n. 39655/16;
sentita la relazione in camera di consiglio del relatore cons. Giacinto Bisogni.
Svolgimento del processo
CHE:
1. Con ricorso del 6 ottobre 2014 il sig. C. ha chiesto al Tribunale di Milano di pronunciare lo scioglimento del matrimonio contratto il (OMISSIS) con M.C. 2. Il Tribunale di Milano con sentenza n. 3588/2016 ha dichiarato lo scioglimento del matrimonio e ha imposto al sig. C. il pagamento di un assegno divorzile mensile di 3.500 Euro.
3. La Corte di appello di Milano con sentenza n. 5422/2017 ha ridotto la misura dell’assegno a 2.500 Euro, con decorrenza dal mese di novembre 2017 confermando nel resto la impugnata sentenza del Tribunale. Ha compensato per metà le spese del giudizio di appello e ha condannato il sig. C. al pagamento della residua quota in favore della sig.ra M..
4. Ricorre per cassazione il sig. C. secondo il quale il parametro dell’autosufficienza di cui alla sentenza n. 11504/2017 della Corte di Cassazione in materia di assegno divorzile non è stato interpretato in maniera rigorosa dalla Corte di appello che ha così violato e falsamente applicato laL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6. Rileva il ricorrente che la sig.ra M. gode di una pensione per complessivi Euro 12.192 annui, è proprietaria della sua abitazione in (OMISSIS) e dispone di un ulteriore immobile in (OMISSIS). Nell’ottobre 2015 ha estinto il mutuo ipotecario che comportava il pagamento di una rata mensile di 946,51 Euro. E’ quindi in possesso di mezzi adeguati di sussistenza. Il ricorrente censura poi con il secondo motivo il mancato esame della produzione documentale relativa ai redditi della sig.ra M.. 5. M.C. si difende con controricorso e deposita memoria difensiva. Propone ricorso incidentale articolato in due motivi con i quali deduce: a) la violazione e falsa applicazione di legge con riferimento allaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, per ciò che concerne il criterio di determinazione dell’an dell’assegno divorzile; b) la violazione e falsa applicazione di legge con riferimento allaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, per ciò che concerne la mancata e comunque non corretta applicazione dei criteri per la determinazione del quantum dell’assegno divorzile posti da tale norma.

Motivi della decisione

Che:
6. La controversia deve essere esaminata alla luce della nuova giurisprudenza in materia di assegno divorzile compendiata nella sentenza n. 18287 dell’11 luglio 2018 delle Sezioni Unite Civili di questa Corte che, come è noto, ha affermato che il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dellaL. n. 898 del 1970,art.5, comma 6, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto. Infatti all’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate e senza che la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, venga finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma piuttosto al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi.
7. Alla luce di questa nuova giurisprudenza il primo motivo del ricorso principale si rivela infondato perché teso a far valere una interpretazione della L. sul divorzio, art. 5, comma, tutta costruita sulla giurisprudenza introdotta con la sentenza n. 11504/2017, della rigida ripartizione bifasica della determinazione dell’an e del quantum dell’assegno divorzile, della riaffermazione della funzione unicamente assistenziale dell’assegno di divorzio, della perimetrazione del quantum nei limiti della attribuzione di una somma idonea a garantire l’autosufficienza economica al coniuge beneficiario dell’assegno. Principi che la citata sentenza delle Sezioni Unite ha ritenuto non coerenti alla funzione complessa dell’assegno e alla rilevanza del contributo fornito dal coniuge richiedente al fine di realizzare quella solidarietà post-coniugale che la Costituzione intende garantire al coniuge che ha apportato un contributo rilevante al benessere familiare e che ha sacrificato le proprie potenzialità e aspirazioni lavorative e professionali per dedicarsi alla cura del nucleo familiare. In questa prospettiva è invece fondato il ricorso incidentale così come il secondo motivo di quello principale perché entrambi sono intesi alla rivalutazione del materiale probatorio da parte del giudice del rinvio alla luce della funzione tripartita dell’assegno di divorzio e presuppongono una adeguata valutazione della capacità reddituale ed economica delle parti.
8. Va pertanto respinto il primo motivo del ricorso principale mentre va accolto il ricorso incidentale e il secondo motivo del ricorso principale con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte di appello di Milano che, in diversa composizione, rivaluterà la controversia alla luce dei principi indicati dalla citata sentenza delle Sezioni Unite n. 18287/2018 e deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso incidentale e il secondo motivo del ricorso principale di cui rigetta il primo motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Milano che, in diversa composizione, deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
Dispone che in caso di pubblicazione della presente sentenza siano omesse le generalità e le indicazioni identificative delle parti.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2019

L’omessa diagnosi della malattia è fonte di risarcimento del danno subito dai familiari del paziente

Cass. civ. Sez. III, 4 novembre 2019, n. 28220
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 5667-2017 proposto da:
T.B., in proprio e quale erede di G.V. e di T.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA EMILIO DE’ CAVALIERI 11, presso lo studio dell’avvocato ALDO FONTANELLI, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
UNIVERSITA’ CATTOLICA DEL SACRO CUORE, in persona del Rettore e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE, 38, presso lo studio dell’avvocato PIERFILIPPO COLETTI, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
e contro
B.F.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 4556/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/07/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/07/2019 dal Consigliere Dott. DANILO SESTINI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE Alessandro, che ha concluso per accoglimento motivo 3;
udito l’Avvocato FONTANELLI ALDO;
udito l’Avvocato COLETTI PIERFILIPPO;
Svolgimento del processo
G.V., il marito T.A. e i figli T.R. e B. convennero in giudizio l’Università Cattolica del Sacro Cuore e il prof. B.F., primario dell’Istituto di Cardiologica del Policlinico Universitario Gemelli, chiedendo il risarcimento dei danni conseguenti alla mancata diagnosi di un’endocardite infettiva da cui era risultata affetta la G. al momento in cui era stata dimessa dal Policlinico dopo un intervento di valvuloplastica mitralica percutanea; dedussero che la tardiva diagnosi aveva comportato un progressivo peggioramento delle condizioni di salute della paziente, con necessità di numerosi ricoveri ospedalieri, nel corso dei quali era stato effettuato un intervento invasivo (a cuore aperto) di sostituzione della valvola mitralica ed era stata eseguita una tracheotomia; precisarono che la G. aveva avuto bisogno di assistenza costante, sia domiciliare che presso le strutture sanitarie in cui era stata ricoverata, e che all’inabilità temporanea (protrattasi per tredici mesi) era residuata una invalidità permanente del 50%; aggiunsero che la malattia e l’invalidità della congiunta avevano determinato un gravissimo turbamento e un mutamento delle abitudini di vita della famiglia T..
I convenuti si costituirono in giudizio contestando le domande attoree.
Deceduta in corso di causa la G., gli altri attori proseguirono il giudizio anche in qualità di eredi della congiunta.
Espletata una consulenza medico-legale, il Tribunale di Roma accertò la responsabilità del B. e quella della struttura ospedaliera e accolse la domanda svolta iure hereditatis, liquidando un importo di poco superiore a 50.000,00 Euro; respinse, invece, le domande proposte dai T. iure proprio.
La Corte di Appello di Roma, confermato l’accertamento di responsabilità, ha riconosciuto ai T. l’ulteriore risarcimento di Euro 3.772,20 a titolo di rimborso di spese mediche, rigettando -per il resto-le loro richieste.
Ha proposto ricorso per cassazione T.B., in proprio e quale erede di G.V. e di T.A., affidandosi a tre motivi; hanno resistito, con unico controricorso illustrato da memoria, l’Università Cattolica del Sacro Cuore e B.F..
Motivi della decisione
1. Il primo motivo denuncia “violazione e falsa applicazionedell’art. 2059 c.c.in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”: i ricorrenti contestano la quantificazione del danno biologico (per invalidità permanente e per inabilità temporanea assoluta e parziale) assumendo che la Corte di merito non ha tenuto conto che la c.t.u. aveva errato nell’affermare che l’insufficienza renale cronica era in parte presente al momento del primo intervento e non aveva considerato fra i postumi la ridotta efficienza della pompa cardiaca e il maggior danno valvolare.
1.1. Il motivo è inammissibile in quanto non deduce effettivamente alcun error iuris in cui la Corte sarebbe incorsa in relazione all’applicazionedell’art. 2059 c.c., ma si limita a prospettare un vizio motivazionale secondo il paradigma del vecchio testodell’art. 360 c.p.c., n. 5, che non è più applicabile ratione temporis; peraltro, quand’anche volesse intendersi la censura come proposta ai sensi del testo novellato della norma, la censura risulterebbe comunque infondata, giacché – per un verso – la Corte ha mostrato di avere esaminato i risultati della relazione di c.t.u. e – per altro verso – non è deducibile sotto la specie dell’omesso esame di un fatto decisivo la mera difformità fra gli accertamenti e le valutazioni compiute dalla c.t.u. (recepita dalla sentenza impugnata) e le conclusioni di una consulenza tecnica di parte.
2. Il secondo motivo deduce “violazione e falsa applicazionedell’art. 2059 c.c.in relazione agliartt. 2, 29 e 30 Cost.e dell’art. 360, comma 1, n. 5, per insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”: i ricorrenti censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha respinto la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale richiesto dal marito e dai figli della G. in ragione dello sconvolgimento delle loro abitudini di vita conseguente alla necessità di assistere la congiunta sia durante la malattia che nel periodo successivo, in cui la G. era risultata affetta da postumi gravemente invalidanti; contestano l’affermazione secondo cui gli attori avrebbero soltanto allegato, ma non provato il danno, lamentando la mancata ammissione delle prove orali (richieste in primo grado e reiterate in sede di appello) e invocando anche l’applicazione di criteri presuntivi consentiti dalla natura del legame familiare; evidenziano come la Corte abbia contraddittoriamente escluso il risarcimento del danno anche in riferimento alla assistenza prestata durante i ricoveri ospedalieri che pure ha ritenuto provata.
2.1. Al riguardo, la Corte di Appello ha affermato che “il prospettato grave stato di salute, che avrebbe reso la donna del tutto dipendente dai familiari, non è compatibile con i postumi accertati dal ctu” e che, “in ogni caso, si tratta di un’assistenza familiare, per quanto faticosa sul piano psicologico, evidentemente condivisa ed avvenuta principalmente durante i ricoveri ospedalieri”.
2.2. Il motivo è fondato.
Secondo i principi consolidati di questa Corte, il risarcimento del danno non patrimoniale può spettare anche ai prossimi congiunti della vittima di lesioni personali invalidanti, “non essendo ostativo il dispostodell’art. 1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso (Cass., S.U. n. 9556/2002; conformi, ex multis, Cass. n. 8827/2003 e Cass. n. 11001/2003);
E’ pacifico, altresì, che “la prova del danno non patrimoniale, patito dai prossimi congiunti di persona resa invalida dall’altrui illecito, può essere desunta anche soltanto dalla gravità delle lesioni, sempre che l’esistenza del danno non patrimoniale sia stata debitamente allegata nell’atto introduttivo del giudizio” (Cass. n. 2228/2012) e che “il danno non patrimoniale, consistente nella sofferenza morale patita dal prossimo congiunto di persona lesa in modo non lieve dall’altrui illecito, può essere dimostrato con ricorso alla prova presuntiva, che deve essere cercata anche d’ufficio, se la parte abbia dedotto e provato i fatti noti dai quali il giudice, sulla base di un ragionamento logico-deduttivo, può trarre le conseguenze per risalire al fatto ignorato” (Cass. n. 17058/2017; cfr. anche Cass. n. 2788/2019 e Cass. n. 11212/2019).
Tanto premesso, deve ritenersi che la Corte di merito abbia errato quando ha escluso il danno patito dai congiunti per il fatto che la G. non fosse risultata “del tutto dipendente dai familiari” e quando ha mostrato di ritenere che, per il fatto di rivestire natura “familiare”, l’assistenza prestata (anche durante i ricoveri ospedalieri) non giustificasse il risarcimento del danno; deve considerarsi -al contrario- che anche un’invalidità parzialmente invalidante possa comportare, oltre al dolore per la menomazione del congiunto, anche la necessità di un impegno di assistenza (e, quindi, un apprezzabile mutamento peggiorativo delle abitudini di vita di chi la presti) a carico degli stretti congiunti; né -per altro verso- la circostanza che l’assistenza sia motivata da vincoli di affetto e solidarietà propri dei rapporti familiari vale ad escludere che il congiunto non subisca concreto pregiudizio per la necessità di adattare la propria vita alle sopravvenute esigenze del familiare menomato.
Rileva -in altri termini- il fatto che il familiare di una persona lesa dall’altrui condotta illecita può subire uno stato di sofferenza soggettiva e un necessitato mutamento peggiorativo delle abitudini di vita (incidente sul profilo dinamico della propria esistenza): entrambi i pregiudizi debbono essere risarciti, laddove rivestano i caratteri della serietà del danno e della gravità della lesione, senza che possano valere ad escludere la sussistenza del pregiudizio la circostanza che l’invalidità del congiunto non sia totale o il fatto che l’assistenza possa essere stata ripartita fra più familiari (trattandosi di elementi rilevanti al solo fine della quantificazione del danno).
Del pari, la Corte ha errato laddove ha considerato tout court irrilevante la prova orale (“in questo ambito è superflua l’articolazione della prova orale”), senza valutare se la stessa potesse fornire elementi idonei ad apprezzare l’esistenza e l’entità del “sacrificio” imposto dalla malattia ai familiari della G. e, altresì, laddove non ha considerato la possibilità di apprezzare in via presuntiva l’esistenza del danno non patrimoniale pacificamente allegato dagli attori; tanto più che l’esclusione di qualsiasi pregiudizio non risulta congruente, sul piano logico e giuridico, con l’affermazione dell’effettuazione dell’assistenza (“faticosa anche sul piano psicologico, evidentemente condivisa, principalmente durante ricoveri ospedalieri”).
La sentenza va dunque cassata sul punto, con rinvio alla Corte territoriale per un nuovo esame, alla luce dei principi e delle considerazioni che precedono.
3. Col terzo motivo (“violazione e falsa applicazione degliartt. 1228, 1218, 1173 e 1460 c.c.”), i ricorrenti si dolgono del mancato riconoscimento del rimborso delle spese mediche (per 1.896,96 Euro) sostenute per il primo ricovero presso l’Ospedale Gemelli (dal 12 al 25 gennaio 2001), al termine del quale la G. era stata dimessa senza diagnosi di endocardite infettiva; premesse considerazioni sulla natura contrattuale del rapporto intercorso fra la paziente e la struttura, i ricorrenti rilevano che “il diritto al compenso è giuridicamente ed economicamente collegato all’esatto adempimento del professionista”, col corollario che “nel caso in cui la prestazione del professionista non venga eseguita correttamente, il pagamento dei compensi perde la propria ragione giustificativa, quindi, non è dovuto dal cliente”; concludono pertanto che, essendo stato accertato che la prestazione della struttura ospedaliera e dei suoi medici non era stata esattamente adempiuta, la Corte avrebbe dovuto disporre la restituzione di tutte le somme “versate a titolo di compensi e spese per le prestazioni non correttamente eseguite”; aggiungono che non risulta neppure condivisibile la statuizione di compensazione delle spese di lite, in quanto basata sull’erroneo assunto di una “sostanziale soccombenza” dei T..
3.1. Il motivo è inammissibile in quanto non attinge adeguatamente la ratio decidendi che -diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti- è basata sul rilievo che l’errore diagnostico si era verificato “solo in una in una fase successiva” alla prestazione per cui era stata sostenuta la spesa (con adesione, quindi, alla distinzione operata sul punto dai consulenti); il tutto a prescindere dal rilievo che, in ogni caso, la pretesa sarebbe infondata alla luce del principio secondo cui, “nel contratto d’opera intellettuale, qualora il committente non abbia chiesto la risoluzione per inadempimento, ma solo il risarcimento dei danni, il professionista mantiene il diritto al corrispettivo della prestazione eseguita, in quanto la domanda risarcitoria non presuppone lo scioglimento del contratto e le ragioni del committente trovano in essa adeguata tutela” (Cass. n. 6886/2014; cfr. anche Cass. n. 23820/2010 e Cass. n. 6009/2012): atteso, infatti, che la somma non rimborsata attiene alle spese sostenute per il primo ricovero e che, rispetto ad esso, non risulta proposta alcuna domanda di risoluzione per inadempimento, deve ritenersi che la tutela risarcitoria richiesta dagli attori non potesse estendersi al recupero delle somme versate a titolo di compenso per il primo intervento.
4. La Corte di rinvio provvederà sulle spese di lite.
P.Q.M.
La Corte, rigettati gli altri motivi, accoglie il secondo, cassa in relazione e rinvia, anche per le spese di lite, alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 2 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2019

L’assegno divorzile oltre alla natura assistenziale, ha anche natura perequativo-compensativa.

Cass. civ. Sez. VI – 1, Ord., 30 ottobre 2019, n. 27771 – Pres. Genovese, Rel Cons. Bisogni
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da C.A., elettivamente domiciliato in Roma, via della Giuliana 101, presso
l’avv. Mario Piselli (p.e.c. mariopiselli.ordineavvocatiroma.org; fax (OMISSIS)) che lo rappresenta
e difende, per procura speciale in calce al ricorso per cassazione, unitamente all’avv. Giovanni
Boldrini (p.e.c. qiovanni.boldrini.ordineavvocatirimini.it fax n. (OMISSIS));
– ricorrente –
nei confronti di M.C., rappresentata e difesa, per procura speciale in calce al ricorso, dall’avv.
Michele Angelo Lupoi ed elettivamente domiciliata in Roma, via Poma 2, presso l’avv.to Gregorio
Troilo (fax (OMISSIS) p.e.c. (gregoriotroilo.ordineavvocatiroma.org);
– controricorrente –
E sul ricorso incidentale proposto da:
M.C., come sopra rappresentata e difesa;
– ricorrente incidentale –
nei confronti di C.A.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 5422/17 della Corte di appello di Milano, emessa il 4.10.2017 e depositata il
27.12.2017 R.G. n. 39655/16;
sentita la relazione in camera di consiglio del relatore cons. Giacinto Bisogni.
Svolgimento del processo
CHE:
1. Con ricorso del 6 ottobre 2014 il sig. C. ha chiesto al Tribunale di Milano di pronunciare lo
scioglimento del matrimonio contratto il (OMISSIS) con M.C. 2. Il Tribunale di Milano con
sentenza n. 3588/2016 ha dichiarato lo scioglimento del matrimonio e ha imposto al sig. C. il
pagamento di un assegno divorzile mensile di 3.500 Euro.
3. La Corte di appello di Milano con sentenza n. 5422/2017 ha ridotto la misura dell’assegno a
2.500 Euro, con decorrenza dal mese di novembre 2017 confermando nel resto la impugnata
sentenza del Tribunale. Ha compensato per metà le spese del giudizio di appello e ha condannato il
sig. C. al pagamento della residua quota in favore della sig.ra M..
4. Ricorre per cassazione il sig. C. secondo il quale il parametro dell’autosufficienza di cui alla
sentenza n. 11504/2017 della Corte di Cassazione in materia di assegno divorzile non è stato
interpretato in maniera rigorosa dalla Corte di appello che ha così violato e falsamente applicato la
L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6. Rileva il ricorrente che la sig.ra M. gode di una pensione per
complessivi Euro 12.192 annui, è proprietaria della sua abitazione in (OMISSIS) e dispone di un
ulteriore immobile in (OMISSIS). Nell’ottobre 2015 ha estinto il mutuo ipotecario che comportava
il pagamento di una rata mensile di 946,51 Euro. E’ quindi in possesso di mezzi adeguati di
sussistenza. Il ricorrente censura poi con il secondo motivo il mancato esame della produzione
documentale relativa ai redditi della sig.ra M.. 5. M.C. si difende con controricorso e deposita
memoria difensiva. Propone ricorso incidentale articolato in due motivi con i quali deduce: a) la
violazione e falsa applicazione di legge con riferimento alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, per
ciò che concerne il criterio di determinazione dell’an dell’assegno divorzile; b) la violazione e falsa
applicazione di legge con riferimento alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, per ciò che concerne
la mancata e comunque non corretta applicazione dei criteri per la determinazione del quantum
dell’assegno divorzile posti da tale norma.
Motivi della decisione
Che:
6. La controversia deve essere esaminata alla luce della nuova giurisprudenza in materia di assegno
divorzile compendiata nella sentenza n. 18287 dell’11 luglio 2018 delle Sezioni Unite Civili di
questa Corte che, come è noto, ha affermato che il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore
dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e
perequativa, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, richiede l’accertamento
dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni
oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono
il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione
dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione
comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo
fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio
comune, nonchè di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del
matrimonio ed all’età dell’avente diritto. Infatti all’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve
attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende
direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al
riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento
dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in
concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita
familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate e senza che la
funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno
divorzile, venga finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma piuttosto al
riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla
formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi.
7. Alla luce di questa nuova giurisprudenza il primo motivo del ricorso principale si rivela infondato
perchè teso a far valere una interpretazione della L. sul divorzio, art. 5, comma, tutta costruita sulla
giurisprudenza introdotta con la sentenza n. 11504/2017, della rigida ripartizione bifasica della
determinazione dell’an e del quantum dell’assegno divorzile, della riaffermazione della funzione
unicamente assistenziale dell’assegno di divorzio, della perimetrazione del quantum nei limiti della
attribuzione di una somma idonea a garantire l’autosufficienza economica al coniuge beneficiario
dell’assegno. Principi che la citata sentenza delle Sezioni Unite ha ritenuto non coerenti alla
funzione complessa dell’assegno e alla rilevanza del contributo fornito dal coniuge richiedente al
fine di realizzare quella solidarietà post-coniugale che la Costituzione intende garantire al coniuge
che ha apportato un contributo rilevante al benessere familiare e che ha sacrificato le proprie
potenzialità e aspirazioni lavorative e professionali per dedicarsi alla cura del nucleo familiare. In
questa prospettiva è invece fondato il ricorso incidentale così come il secondo motivo di quello
principale perchè entrambi sono intesi alla rivalutazione del materiale probatorio da parte del
giudice del rinvio alla luce della funzione tripartita dell’assegno di divorzio e presuppongono una
adeguata valutazione della capacità reddituale ed economica delle parti.
8. Va pertanto respinto il primo motivo del ricorso principale mentre va accolto il ricorso incidentale
e il secondo motivo del ricorso principale con conseguente cassazione della sentenza impugnata e
rinvio alla Corte di appello di Milano che, in diversa composizione, rivaluterà la controversia alla
luce dei principi indicati dalla citata sentenza delle Sezioni Unite n. 18287/2018 e deciderà anche
sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso incidentale e il secondo motivo del ricorso principale di cui rigetta il
primo motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Milano che, in diversa
composizione, deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
Dispone che in caso di pubblicazione della presente sentenza siano omesse le generalità e le
indicazioni identificative delle parti.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi,
a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2019

Il trasferimento in regione diversa e distante da quella di residenza delle minori, la mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento e scarsa partecipazione alle scelte inerenti alle vite dei figli, giustificano l’affidamento esclusivo ad un genitore

Cass. civ. Sez. VI – 1, 4 novembre 2019, n. 28244
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 360-2018 proposto da:
S.L., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato GIULIO PEZCOLLER;
– ricorrente –
contro
F.A.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 144/2017 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositata il 26/05/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24/09/2019 dal Consigliere Relatore Dott. LOREDANA NAZZICONE.
Svolgimento del processo
– che è stato proposto ricorso, sulla base di tre motivi, avverso la sentenza della Corte d’appello di Trento n. 144 del 26 maggio 2017, la quale ha confermato la decisione di primo grado, che aveva disposto l’affido esclusivo alla madre delle due figlie minori e quantificato il contributo dovuto dall’odierno ricorrente per il mantenimento di ciascuna in Euro 350,00 mensili;
– che non svolge difese l’intimata;
– che è stata formulata la proposta per la trattazione ai sensidell’art. 380-bis c.p.c., avverso cui non sono stati espressi rilievi.
Motivi della decisione
– che i motivi di ricorso possono essere così riassunti:
1) violazione e falsa applicazionedell’art. 337-quater c.c., comma 1, poiché il giudice di secondo grado ha disposto l’affidamento esclusivo delle minori operando un giudizio prognostico sul comportamento dell’odierno ricorrente disancorato da basi solide;
2) nullità della sentenza per assenza di motivazione circa le ragioni che hanno condotto la corte di merito a ritenere che le minori non avrebbero tratto beneficio dal perdurare della relazione con il padre, disponendo, dunque, l’affido esclusivo alla madre;
3) omesso esame di un fatto decisivo, non avendo il giudice di secondo grado considerato le dichiarazioni delle figlie minori dalle quali era emersa l’importanza della figura paterna nelle scelte relative la loro vita;
– che i tre motivi sono inammissibili;
– che la decisione censurata risulta conforme ai principi enunciati da questa Corte, secondo cui “in materia di affidamento dei figli minori, il giudice della separazione e del divorzio deve attenersi al criterio fondamentale (…) rappresentato dall’esclusivo interesse morale e materiale della prole, privilegiando quel genitore che appaia il più idoneo a ridurre al massimo i danni derivati dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo della personalità del minore. L’individuazione di tale genitore deve essere fatta sulla base di un giudizio prognostico circa la capacità del padre o della madre di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione di genitore singolo, giudizio che, ancorandosi ad elementi concreti, potrà fondarsi sulle modalità con cui il medesimo ha svolto in passato il proprio ruolo, con particolare riguardo alla sua capacità di relazione affettiva, di attenzione, di comprensione, di educazione, di disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché sull’apprezzamento della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente che è in grado di offrire al minore. La questione dell’affidamento della prole è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice di merito, il quale deve avere come parametro di riferimento l’interesse del minore e, ove dia sufficientemente conto delle ragioni della decisione adottata, esprime un apprezzamento di fatto non suscettibile di censura in sede di legittimità” (Cass. 14840/2006);
– che, nel caso di specie, contrariamente a quanto ritenuto dalla parte ricorrente, dalla motivazione della decisione gravata si evincono agevolmente le ragioni che hanno indotto il giudice di merito a statuire circa l’affido esclusivo delle minori alla madre (trasferimento in regione diversa e distante da quella di residenza delle minori; mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento; scarsa partecipazione alle scelte inerenti le vite delle figlie; trascuratezza dei propri doveri genitoriali) e dalla stessa, ancora, è agevole riscontrare l’effettiva ponderazione e valutazione, ad opera del giudice, delle dichiarazioni rilasciate dalle figlie il cui esame, pertanto, non può di certo definirsi omesso;
– che, in definitiva, i motivi di ricorso risultano essere intesi tutti a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito al diverso convincimento soggettivo del ricorrente e, in particolare, a “proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, ma tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionale valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice” (Cass. 18039/2012), il quale, essendo nel caso di specie compiutamente motivato, non è in questa sede censurabile;
– che, dunque, il ricorso è inammissibile;
– che non occorre provvedere sulle spese.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
In caso di diffusione del presente provvedimento, sono omesse le generalità e gli altri dati identificativi delle parti, a norma dell’art.53D.Lgs. n. 196 del 2003.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2019

Il ruolo dei nonni nell’affidamento dei minori

Cass. civ. Sez. I, Sent., 4 novembre 2019, n. 28257 – Pres. Giancola, Rel. Cons. Scalia
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso n. 26110/2018 proposto da:
L.D., I.L., L.A., elettivamente domiciliati in Roma, Via Antonio Bertoloni n. 44, presso lo studio
dell’avvocato Marco Petitto, rappresentati e difesi dall’avvocato Paolo Ferri, giusta procura a
margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
Azienda Ulss n. (OMISSIS) e Procuratore Generale presso Corte Appello di Venezia;
– intimati –
contro
R.L., elettivamente domiciliata in Roma, Via G. Pisanelli n. 2, presso lo studio dell’avvocato
Daniele Ciuti, rappresentata e difesa dall’avvocato Luisa Gatto, giusta procura in calce al
controricorso;
– controricorrente –
avverso il decreto n. 74/2018 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, del 27/08/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/09/2019 dal Cons. Laura Scalia;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. ZENO Immacolata, che ha
concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito, per il ricorrente, l’avvocato Paolo Ferri che si è riportato;
udito, per il controricorrente, l’avvocato Daniele Ciuti, con delega, che si è riportato.
Svolgimento del processo
1. Con decreto del 16.7.2018, il Tribunale per i minorenni di Venezia disponeva, d’ufficio, il
collocamento dei minori, L.N. (nata il (OMISSIS)), La.Ni. (nato il (OMISSIS)) e La.As. (nata il
(OMISSIS)), in ambiente protetto etero-familiare nella ritenuta inadeguatezza delle competenze di
genitori, L.D. e R.L., e nonni paterni, L.A. e I.L., e con incarico ai servizi sociali di disciplinarne gli
incontri anche in forma protetta.
Su reclamo del padre e dei nonni paterni, la Corte di appello di Venezia, sezione per i minorenni,
provvedeva alla fissazione del termine di durata del provvedimento impugnato che fissava in quello
di diciotto mesi, nel resto confermando il giudizio di inadeguatezza dei genitori: il padre per le
violenze perpetrate in pregiudizio della madre alla presenza dei figli e, entrambi, per avere picchiato
i minori.
La Corte di merito escludeva altresì la materiale capacità del padre di occuparsi dei figli, svolgendo
egli il lavoro di autista, e formulava identico giudizio quanto ai nonni per l’età avanzata,
l’atteggiamento di giustificazione della condotta violenta del figlio, il ricorso del nonno a metodi
educativi violenti rispetto ad uno dei nipoti e l’atteggiamento fortemente critico della nonna con la
madre dei minori.
Ricorrono per la cassazione dell’indicato decreto, nei termini di cui all’art. 111 Cost., L.D., L.A. e
I.L.. Resiste con controricorso R.L..
L’Azienda ULSS n. (OMISSIS) ed il Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia
sono rimasti intimati.
I ricorrenti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione ai sensi dell’art. 360
c.p.c., comma 1, n. 3 della L. n. 183 del 1984, agli artt. 1, 2 e 4, per la mancanza di una “accurata
valutazione” da parte della Corte di merito, esito, a sua volta, di un’ “accurata istruzione”, circa la
ritenuta non idoneità dei nonni – facenti parte del cerchio parentale più ristretto, deputato, come tale,
allo svolgimento del percorso di recupero del ruolo genitoriale – a rendersi affidatari dei minori
nonostante costoro fossero già stati designati quali affidatari, ai sensi dell’art. 403 c.c., dal Sindaco
del Comune di Gorgo al Monticano nel luglio del medesimo arino.
La nonna avrebbe criticato la madre dei nipoti in una sola occasione. Il nonno solo in qualche
occasione avrebbe schiaffeggiato il nipote Ni., perchè maleducato ed indisponente.
I nonni non sarebbero stati sentiti in giudizio nonostante fossero già affidatari dei minori ai sensi
dell’art. 403 c.c. e a sostegno del mancato affidamento non era stata disposta c.t.u..
2. Con il secondo motivo i ricorrenti fanno valere l’omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360
c.p.c., comma 1, n. 5 integrato dal rapporto affettivo in essere tra nonni e nipoti e dal desiderio dei
primi di occuparsi dei minori. Dalla stessa relazione dell’Ulss n. (OMISSIS) del 5.7.2018 sarebbe
emersa la preoccupazione della nonna e la disponibilità, più volte manifestata durante il colloquio, a
prendersi cura dei nipoti nel rapporto di confidenza e fiducia con loro instaurato.
Il provvedimento adottato nei termini di cui all’art. 403 c.c. avrebbe affidato i minori ai nonni
all’esito di un’istruttoria da cui erano emerse le migliori capacità del padre, in quanto sostenuto da
“una rete familiare sufficientemente adeguata”, rispetto alla madre.
3. In via preliminare va affermata l’impugnabilità per cassazione, ai sensi dell’art. 111 c.c., comma
7, del decreto dei giudici di appello che si trovi a confermare, revocare o modificare il
provvedimento ablativo della responsabilità genitoriale che sia stato emesso dal giudice minorile ai
sensi degli artt. 330 e 336 c.c., nell’attitudine al giudicato rebus sic stantibus di quest’ultimo per il
principio reso da questa Corte di legittimità a Sezioni Unite (SU n. 32359 del 13/12/2018) che resta,
agli effetti di cui all’art. 374 c.p.c., comma 3, condiviso da questo Collegio nella sua piena
apprezzata ragionevolezza.
4. Nel resto.
Vanno congiuntamente esaminati il primo ed il secondo motivo di ricorso venendo per gli stessi in
valutazione profili di violazione di legge e di vizio di motivazione diretti a censurare dell’impugnata
decisione l’inosservanza del principio cardine cui si ispira la materia dell’affido dei minori, anche
ove limitato nel tempo e finalizzato al superamento di condotte pregiudizievoli dei genitori ai sensi
dell’art. 333 c. c., ovverosia il diritto del minore ad una crescita equilibrata all’interno della famiglia
di origine.
Segnatamente, precede ogni altra valutazione il rilievo da riconoscersi alla posizione fatta valere dai
familiari dei minori -nella fattispecie in esame, i nonni – rispetto allo strumento dell’affido
temporaneo etero-familiare, inteso quale misura offerta ad un bambino che versa in difficoltà,
determinate dalla malattia di un genitore, isolamento sociale, trascuratezza, fenomeni di violenza
fisica e psichica, relazioni disfunzionali, e quindi in casi che, temporaneamente, possono ostacolare
la funzione educativa o la convivenza tra genitore e figlio.
L’affido temporaneo etero-familiare è un intervento “ponte”, destinato a rimuovere situazioni di
difficoltà e di disagio familiare all’esercizio della responsabilità genitoriale ed a porsi in funzione
strumentale alla tutela riconosciuta, con carattere prioritario, dall’ordinamento al diritto del minore a
crescere nella propria famiglia d’origine.
La misura rientra tra i provvedimenti convenienti per l’interesse del minore, di cui all’art. 333 c.c., in
quanto volta a superare la condotta pregiudizievole di uno o di entrambi i genitori senza dar luogo
alla pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale ex art. 330 c.c. e ben può declinarsi
nelle forme dell’affidamento interfamiliare, ovverossia ai membri della cosiddetta “famiglia
allargata”, nell’esigenza, prioritaria, di evitare al minore, insieme al trauma conseguente
all’allontanamento dai genitori, quello di vedersi deprivato del contesto familiare in cui è cresciuto.
Alla capacità dell’affido temporaneo di porsi quale misura diretta a superare gli esiti di condotte
pregiudizievoli dei genitori deve quindi accompagnarsi, con carattere di priorità, l’esigenza di non
allentare – ove l’affido etero-familiare abbia un’apprezzabile distensione temporale che rifugga,
come tale, dal definire una situazione di stretta urgenza – il legame del minore con la famiglia di
origine, di cui i nonni sono chiara espressione e tanto in strumentale tutela del diritto, finale e
personalissimo, del primo a crescere nella famiglia naturale a salvaguardia del suo sano ed
equilibrato sviluppo psico-fisico (in senso più ampio, sul ruolo dei nonni nei percorsi di affido e
frequentazione dei minori: in tema di adozione vd., Cass. n. 23979 del 24/11/2015; in tema di
rapporti con il minore, in genere, ex art. 317-bis c.c., vd., Cass. n. 19780 del 25/07/2018).
5. Deve quindi in materia trovare applicazione il principio per il quale: “Il giudizio e l’eventuale
istruttoria da svolgersi dal giudice del merito in ordine all’adeguatezza, o meno, del familiare
prescelto quale affidatario in via temporanea, ai sensi dell’art. 333 c.p.c., a soddisfare le esigenze
del minore ed a salvaguardarne il sano ed equilibrato sviluppo psico-fisico, va accuratamente
svolto, valorizzando delle figure vicarianti inter-familiari il contributo al mantenimento del
rapporto con la famiglia di origine che è criterio guida di ogni scelta in materia di affido, anche
temporaneo, dei minori”.
6. L’impugnato decreto non ha fatto applicazione dell’indicato principio valorizzando, piuttosto, nel
negare l’affido temporaneo ai nonni dei minori, evidenze in fatto che in nessun modo ha posto in
valutazione, per saggiarne la resistenza, rispetto al diritto dei minori a crescere ed a permanere nella
famiglia di origine, anche allargata a figure vicarianti, al fine di non allentare, seppure
temporaneamente, i legami con la stessa.
7. Il provvedimento impugnato va pertanto cassato con rinvio alla Corte di appello di Venezia, in
altra composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie i motivi di ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e rinvia la
causa alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione, anche per la regolazione delle
spese del presente giudizio.
Ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52 vanno omessi le generalità e gli altri dati identificativi in
caso di diffusione del presente provvedimento.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 19 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2019

Il giudice in materia di affido dei minori, deve valorizzare le figure vicarianti inter-familiari come i nonni quali espressione dell’esigenza di salvaguardia del legame del minore con la famiglia di origine a salvaguardia del suo sano ed equilibrato sviluppo psico-fisico

Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2019, n. 28257
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso n. 26110/2018 proposto da:
L.D., I.L., L.A., elettivamente domiciliati in Roma, Via Antonio Bertoloni n. 44, presso lo studio dell’avvocato Marco Petitto, rappresentati e difesi dall’avvocato Paolo Ferri, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
Azienda Ulss n. (OMISSIS) e Procuratore Generale presso Corte Appello di Venezia;
– intimati –
contro
R.L., elettivamente domiciliata in Roma, Via G. Pisanelli n. 2, presso lo studio dell’avvocato Daniele Ciuti, rappresentata e difesa dall’avvocato Luisa Gatto, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso il decreto n. 74/2018 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, del 27/08/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/09/2019 dal Cons. Laura Scalia;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. ZENO Immacolata, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito, per il ricorrente, l’avvocato Paolo Ferri che si è riportato;
udito, per il controricorrente, l’avvocato Daniele Ciuti, con delega, che si è riportato.
Svolgimento del processo
1. Con decreto del 16.7.2018, il Tribunale per i minorenni di Venezia disponeva, d’ufficio, il collocamento dei minori, L.N. (nata il (OMISSIS)), La.Ni. (nato il (OMISSIS)) e La.As. (nata il (OMISSIS)), in ambiente protetto etero-familiare nella ritenuta inadeguatezza delle competenze di genitori, L.D. e R.L., e nonni paterni, L.A. e I.L., e con incarico ai servizi sociali di disciplinarne gli incontri anche in forma protetta.
Su reclamo del padre e dei nonni paterni, la Corte di appello di Venezia, sezione per i minorenni, provvedeva alla fissazione del termine di durata del provvedimento impugnato che fissava in quello di diciotto mesi, nel resto confermando il giudizio di inadeguatezza dei genitori: il padre per le violenze perpetrate in pregiudizio della madre alla presenza dei figli e, entrambi, per avere picchiato i minori.
La Corte di merito escludeva altresì la materiale capacità del padre di occuparsi dei figli, svolgendo egli il lavoro di autista, e formulava identico giudizio quanto ai nonni per l’età avanzata, l’atteggiamento di giustificazione della condotta violenta del figlio, il ricorso del nonno a metodi educativi violenti rispetto ad uno dei nipoti e l’atteggiamento fortemente critico della nonna con la madre dei minori.
Ricorrono per la cassazione dell’indicato decreto, nei termini di cuiall’art. 111 Cost., L.D., L.A. e I.L.. Resiste con controricorso R.L..
L’Azienda ULSS n. (OMISSIS) ed il Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia sono rimasti intimati.
I ricorrenti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 dellaL. n. 183 del 1984, agli artt. 1, 2 e 4, per la mancanza di una “accurata valutazione” da parte della Corte di merito, esito, a sua volta, di un’ “accurata istruzione”, circa la ritenuta non idoneità dei nonni – facenti parte del cerchio parentale più ristretto, deputato, come tale, allo svolgimento del percorso di recupero del ruolo genitoriale – a rendersi affidatari dei minori nonostante costoro fossero già stati designati quali affidatari, ai sensidell’art. 403 c.c., dal Sindaco del Comune di Gorgo al Monticano nel luglio del medesimo arino.
La nonna avrebbe criticato la madre dei nipoti in una sola occasione. Il nonno solo in qualche occasione avrebbe schiaffeggiato il nipote Ni., perché maleducato ed indisponente.
I nonni non sarebbero stati sentiti in giudizio nonostante fossero già affidatari dei minori ai sensidell’art. 403 c.c.e a sostegno del mancato affidamento non era stata disposta c.t.u..
2. Con il secondo motivo i ricorrenti fanno valere l’omesso esame di un fatto decisivo exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 integrato dal rapporto affettivo in essere tra nonni e nipoti e dal desiderio dei primi di occuparsi dei minori. Dalla stessa relazione dell’Ulss n. (OMISSIS) del 5.7.2018 sarebbe emersa la preoccupazione della nonna e la disponibilità, più volte manifestata durante il colloquio, a prendersi cura dei nipoti nel rapporto di confidenza e fiducia con loro instaurato.
Il provvedimento adottato nei termini di cuiall’art. 403 c.c.avrebbe affidato i minori ai nonni all’esito di un’istruttoria da cui erano emerse le migliori capacità del padre, in quanto sostenuto da “una rete familiare sufficientemente adeguata”, rispetto alla madre.
3. In via preliminare va affermata l’impugnabilità per cassazione, ai sensidell’art. 111 c.c., comma 7, del decreto dei giudici di appello che si trovi a confermare, revocare o modificare il provvedimento ablativo della responsabilità genitoriale che sia stato emesso dal giudice minorile ai sensi degliartt. 330 e 336 c.c., nell’attitudine al giudicato rebus sic stantibus di quest’ultimo per il principio reso da questa Corte di legittimità a Sezioni Unite (SU n. 32359 del 13/12/2018) che resta, agli effetti di cuiall’art. 374 c.p.c., comma 3, condiviso da questo Collegio nella sua piena apprezzata ragionevolezza.
4. Nel resto.
Vanno congiuntamente esaminati il primo ed il secondo motivo di ricorso venendo per gli stessi in valutazione profili di violazione di legge e di vizio di motivazione diretti a censurare dell’impugnata decisione l’inosservanza del principio cardine cui si ispira la materia dell’affido dei minori, anche ove limitato nel tempo e finalizzato al superamento di condotte pregiudizievoli dei genitori ai sensidell’art. 333 c.p.c., ovverosia il diritto del minore ad una crescita equilibrata all’interno della famiglia di origine.
Segnatamente, precede ogni altra valutazione il rilievo da riconoscersi alla posizione fatta valere dai familiari dei minori -nella fattispecie in esame, i nonni – rispetto allo strumento dell’affido temporaneo etero-familiare, inteso quale misura offerta ad un bambino che versa in difficoltà, determinate dalla malattia di un genitore, isolamento sociale, trascuratezza, fenomeni di violenza fisica e psichica, relazioni disfunzionali, e quindi in casi che, temporaneamente, possono ostacolare la funzione educativa o la convivenza tra genitore e figlio.
L’affido temporaneo etero-familiare è un intervento “ponte”, destinato a rimuovere situazioni di difficoltà e di disagio familiare all’esercizio della responsabilità genitoriale ed a porsi in funzione strumentale alla tutela riconosciuta, con carattere prioritario, dall’ordinamento al diritto del minore a crescere nella propria famiglia d’origine.
La misura rientra tra i provvedimenti convenienti per l’interesse del minore, di cuiall’art. 333 c.c., in quanto volta a superare la condotta pregiudizievole di uno o di entrambi i genitori senza dar luogo alla pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale exart. 330 c.c.e ben può declinarsi nelle forme dell’affidamento interfamiliare, ovverossia ai membri della cosiddetta “famiglia allargata”, nell’esigenza, prioritaria, di evitare al minore, insieme al trauma conseguente all’allontanamento dai genitori, quello di vedersi deprivato del contesto familiare in cui è cresciuto.
Alla capacità dell’affido temporaneo di porsi quale misura diretta a superare gli esiti di condotte pregiudizievoli dei genitori deve quindi accompagnarsi, con carattere di priorità, l’esigenza di non allentare – ove l’affido etero-familiare abbia un’apprezzabile distensione temporale che rifugga, come tale, dal definire una situazione di stretta urgenza – il legame del minore con la famiglia di origine, di cui i nonni sono chiara espressione e tanto in strumentale tutela del diritto, finale e personalissimo, del primo a crescere nella famiglia naturale a salvaguardia del suo sano ed equilibrato sviluppo psico-fisico (in senso più ampio, sul ruolo dei nonni nei percorsi di affido e frequentazione dei minori: in tema di adozione vd., Cass. n. 23979 del 24/11/2015; in tema di rapporti con il minore, in genere, exart. 317-bis c.c., vd., Cass. n. 19780 del 25/07/2018).
5. Deve quindi in materia trovare applicazione il principio per il quale: “Il giudizio e l’eventuale istruttoria da svolgersi dal giudice del merito in ordine all’adeguatezza, o meno, del familiare prescelto quale affidatario in via temporanea, ai sensidell’art. 333 c.p.c., a soddisfare le esigenze del minore ed a salvaguardarne il sano ed equilibrato sviluppo psico-fisico, va accuratamente svolto, valorizzando delle figure vicarianti inter-familiari il contributo al mantenimento del rapporto con la famiglia di origine che è criterio guida di ogni scelta in materia di affido, anche temporaneo, dei minori”.
6. L’impugnato decreto non ha fatto applicazione dell’indicato principio valorizzando, piuttosto, nel negare l’affido temporaneo ai nonni dei minori, evidenze in fatto che in nessun modo ha posto in valutazione, per saggiarne la resistenza, rispetto al diritto dei minori a crescere ed a permanere nella famiglia di origine, anche allargata a figure vicarianti, al fine di non allentare, seppure temporaneamente, i legami con la stessa.
7. Il provvedimento impugnato va pertanto cassato con rinvio alla Corte di appello di Venezia, in altra composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie i motivi di ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e rinvia la causa alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del presente giudizio.
Ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52 vanno omessi le generalità e gli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 19 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2019

Il coniuge che ha contribuito alle spese di costruzione e di manodopera dell’immobile realizzato su terreno di esclusiva proprietà dell’altro coniuge, avrà diritto alla restituzione delle somme spese a tal fine solo se dimostrate. Ove assolto l’onere probatorio nasce un diritto di credito che esula dai rapporti tra comunione legale dei coniugi e principio dell’accessione.

Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2019, n. 28258
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22523/2016 proposto da:
D.A., elettivamente domiciliata in Roma, Via F. Corridoni n. 23, presso lo studio dell’avvocato Prastaro Ermanno, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Fassetta Bruno, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
A.E., elettivamente domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dagli avvocati Belletti Caterina e Presot Lorenzo, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 336/2016 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, del 01/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19/09/2019 dal cons. MARULLI MARCO.
Svolgimento del processo
1. D.A. ricorre a questa Corte onde sentir cassare l’impugnata sentenza con la quale la Corte d’Appello di Trieste, rigettandone l’appello, ha confermato la decisione di rigetto in prima istanza della domanda della medesima intesa a conseguire il pagamento della metà delle somme impiegate per la costruzione, su un terreno di esclusiva proprietà dell’ex coniuge A.E., con cui era coniugata in regime di comunione legale, della villa destinata ad abitazione familiare.
Il giudice distrettuale, richiamata la giurisprudenza di questa Corte successiva all’arresto delle SS.UU. 651/1996, ha respinto il proposto gravame sull’assunto che “una corretta analisi della motivazione della sentenza delle Sezione Unite… lascia intendere la continuità del principio giurisprudenziale evolutosi nel ventennio successivo, nel senso di ritenere necessaria la prova di aver fornito un sostegno economico alla costruzione”. Nella specie detta condizione non era stata soddisfatta dall’impugnante, che si era difeso argomentando una sorta di automatismo tra acquisto dei materiali ed insorgenza del relativo credito e che in ragione di ciò non solo non si era creduto gravato dell’onere di dover dimostrare il proprio apporto, ma si era pure astenuto dall’allegare la circostanza.
Il mezzo proposto si vale di due motivi di ricorso, cui resiste l’intimato con controricorso. Memorie di entrambe le parti ex art. 380 bis1 c.p.c..
Motivi della decisione
2. Il primo motivo di ricorso, a mezzo del quale la D. lamenta la violazionedell’art. 177 c.c., comma 1, lett. a), per aver il decidente preteso che l’appellante fornisse prova dell’apporto prestato, quantunque anche alla luce del citato precedente si debba ritenere che i materiali e la manodopera impiegati nella costruzione cadano in comunione, è infondato e va pertanto respinto.
Come anche la deducente mostra di credere è stabile convinzione impostasi nella giurisprudenza di questa Corte di seguito al citato pronunciamento delle SS.UU. – in linea peraltro con l’analogo principio affermatosi prima della riforma del diritto di famiglia in relazione al regime della comunione convenzionale (Cass., Sez. I, 14/06/1966, n. 15450) – che, allorché per effetto del principio enunciatodall’art. 934 c.c.il coniuge proprietario esclusivo del suolo acquisti la proprietà dell’immobile realizzato su di esso in regime di comunione legale, la tutela del coniuge non proprietario del suolo, opera non sul piano del diritto reale, nel senso che in mancanza di un titolo o di una norma non può vantare alcun diritto di comproprietà, anche superficiaria, sulla costruzione, ma sul piano obbligatorio, nel senso che a costui compete un diritto di credito relativo alla metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione (Cass., Sez. I, 9/03/2018, n. 5843; Cass., Sez. II, 3/04/2008, n. 8662; Cass. Sez. I, 22/04/1998, n. 4076). L’assunto si legittima, com’è noto, sul presupposto che il principio generale dell’accessione postodall’art. 934 c.c., in base al quale il proprietario del suolo acquista ipso iure al momento dell’incorporazione la proprietà della costruzione su di esso edificata e la cui operatività può essere derogata soltanto da una specifica pattuizione tra le parti o da una altrettanto specifica disposizione di legge, non trova deroga nella disciplina della comunione legale tra coniugi, in quanto l’acquisto della proprietà per accessione avviene a titolo originario senza la necessità di un’apposita manifestazione di volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabilel’art. 177 c.c., comma 1, hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una genesi di natura negoziale (Cass., Sez. II, 29/10/2018, n. 27412; Cass., Sez. II, 8/09/2005, n. 17885; Cass., Sez. II, 11/08/1999, n. 8585).
3. La soggezione della specie in discorso alla disciplina dell’accessione che non è derogata, come visto, da quella in materia di acquisti da parte dei coniugi in regime di comunione legale è foriera, oltre a quella che vede il coniuge non proprietario divenire in dipendenza della costruzione titolare solo di un diritto di credito, anche di un’altra conseguenza. Se, infatti, la sedes materiae cui ricondurre la fattispecie è da individuarsi nell’accessione, l’asse del discorso circa il diritto di credito che compete al coniuge non proprietario si sposta conseguentemente fuori dal perimetro segnatodall’art. 177 c.c.in quanto il diritto di credito del coniuge si sottrae alla disciplina degli acquisti in comunione, sicché non potrà essere riconosciuto riguardo ad esso alcun automatismo rispetto alla realizzazione dell’opera e la sua dimostrazione non si sottrarrà all’applicazione delle norme comunemente vigenti in materia di onere della prova. E’ questo quanto, proprio per soddisfare le esigenze di chiarificazione rappresentate dal ricorrente, ha inteso enunciare la giurisprudenza più recente di questa Corte riaffermando l’enunciato nomofilattico di cui si è detto per l’innanzi e precisando, in uno con esso, che “al coniuge non proprietario, che abbia contribuito all’onere della costruzione spetta, previo assolvimento dell’onere della prova d’aver fornito il proprio sostegno economico, il diritto di ripetere nei confronti dell’altro coniuge le somme spese a tal fine” (Cass., Sez. 3/07/20:113, n. 16670; Cass., Sez. I, 30/09/2010, n. 20508).
4. Dunque del tutto esattamente il decidente del grado ha respinto ex novo la domanda della D., perché essendo essa gravata del relativo onere probatorio, non vi ha dato alcun seguito, negando di esservi tenuta in forza di un’errata esegesi del quadro normativo, diversamente dovendo invece ribadirsi il concetto che il coniuge non proprietario, onde veder riconosciuto il proprio diritto di credito, deve darne prova in conformità ai principi regolanti l’onere della prova.
5. Il rigetto del primo motivo di ricorso assorbe e rende superflua la cognizione del secondo motivo logicamente subordinato alla fondatezza del precedente.
6. Le spese seguono la soccombenza.
Ricorrono le condizioni per l’applicazione delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater.
P.Q.M.
Respinge il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquida in Euro 5200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 19 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2019

E’ ammissibile nel corso del giudizio di divorzio la proposizione della domanda di modifica delle condizioni della separazione

Cass. civ. Sez. I, Sent., 23 ottobre 2019, n. 27205; Pres. Giancola, Cons. Rel. Lamorgese
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 21343/2017 proposto da:
M.G., elettivamente domiciliato in Roma, Via Conca D’Oro n. 184/190, presso lo studio
dell’avvocato Discepolo Maurizio, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del
ricorso;
– ricorrente –
contro
Me.Ti.Ch., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di
Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Vergari Massimo Maria, giusta procura a margine
del controricorso;
– controricorrente –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ANCONA, del 20/06/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/09/2019 dal cons. LAMORGESE
ANTONIO PIETRO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ZENO Immacolata, che ha
concluso per il rigetto del ricorso;
udito, per il ricorrente, l’avvocato Perucca Diego che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
CHE:
M.G. ha chiesto al Tribunale di Ancona la modifica delle condizioni della separazione personale da
Me.Ti.Ch. e, in particolare, di essere esonerato dall’obbligo di corrisponderle l’assegno di
mantenimento (già fissato in Euro 200,00) e di ridurre il contributo per la figlia a Euro 150,00
(fissato a Euro 300,00).
Il Tribunale ha dichiarato il ricorso inammissibile, rilevando che pendeva tra le parti il giudizio di
divorzio nel quale entrambe le parti avevano proposto le medesime richieste (il M. aveva chiesto di
essere esonerato dall’obbligo di corrispondere l’assegno e di ridurre l’importo del contributo per la
figlia, mentre la Ch. aveva chiesto di elevare l’assegno per sé a Euro 250,00 e il contributo per la
figlia a Euro 450,00) e che il M. nel giudizio di divorzio aveva formulato le medesime istanze già
proposte nel giudizio di modifica delle condizioni della separazione, le quali erano precluse in base
al principio del ne bis in idem.
La Corte d’appello di Ancona ha rigettato il reclamo per le ragioni esposte dal primo giudice.
Il M. ha proposto ricorso per cassazione, resistito dalla Ch..
Motivi della decisione
CHE:
Con un unico motivo il ricorrente denuncia erronea applicazione del principio del ne bis in idem,
avendo la Corte di merito erroneamente confermato la statuizione di inammissibilità del ricorso per
la modifica delle condizioni di separazione.
Il ricorso è fondato.
Secondo ius receptum è ammissibile nel corso del giudizio di divorzio la proposizione della
domanda di modifica delle condizioni della separazione – qual è quella del ricorrente di ridurre il
contributo in favore della figlia e di essere esonerato dall’obbligo di corrispondere al coniuge
l’assegno di mantenimento – la cui debenza trova il proprio limite temporale nel passaggio in
giudicato della sentenza di divorzio, la quale fa venir meno il vincolo matrimoniale che è il
presupposto dei provvedimenti di mantenimento in regime separativo.
La sentenza di divorzio (definitiva o non definitiva che sia), operando ex nunc, non comporta la
cessazione della materia del contendere nel giudizio di separazione personale che sia iniziato
anteriormente e sia tuttora in corso, ove esista l’interesse di una delle parti all’operatività della
pronuncia di separazione e dei conseguenti provvedimenti patrimoniali (in tal senso Cass. n. 5062
del 2017, n. 17825 e 19555 del 2013, n. 21091 del 2005).
La richiamata sentenza di questa Corte n. 28990 del 2008, la quale ha osservato che la domanda di
modifica delle condizioni della separazione deve ritenersi in pendenza del giudizio di divorzio
preclusa dal divieto del ne bis in idem, va intesa – contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte
anconetana – nel senso che la preclusione opera nel solo caso in cui si richiedano entrambi gli
assegni (di mantenimento e divorzile in favore del coniuge) per lo stesso periodo (in tal senso Cass.
n. 16127 del 2011, n. 7488 del 1994).
Al di fuori di questa ipotesi non è invocabile il divieto di bis in idem, neppure nel caso in cui il
mantenimento dei figli e del coniuge in regime di separazione sia richiesto in pendenza del giudizio
di divorzio, non rilevando (contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito) che il coniuge
si sia opposto ai provvedimenti economici richiesti dall’altro coniuge nel giudizio di divorzio o
abbia aderito alla domanda di scioglimento del vincolo. E ciò, tuttavia, sempre che il giudice del
divorzio non abbia provveduto diversamente, adottando provvedimenti temporanei ed urgenti nella
fase presidenziale o istruttoria, nel qual caso vi sarebbe una impropria sovrapposizione tra
provvedimenti incompatibili riguardanti lo stesso periodo temporale seppure a titolo diverso.
Nella specie, non risultando adottati nel giudizio divorzile provvedimenti di contenuto patrimoniale
interferenti con quelli emessi dal (o richiesti al) giudice della separazione, il Tribunale e la Corte
d’appello in fase di reclamo avrebbero dovuto provvedere sulla domanda del M. di modifica delle
condizioni di separazione.
Ne consegue l’accoglimento del ricorso e, di conseguenza, la cassazione del decreto impugnato e il
rinvio alla Corte di merito che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia alla Corte d’appello di Ancona, in
diversa composizione, anche per le spese.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi
delle parti e dei soggetti menzionati.
Così deciso in Roma, il 19 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2019

È dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale del decreto legislativo 10 aprile 2018, n. 36, nella parte in cui non prevede la procedibilità a querela anche per i delitti previsti dall’art. 590-bis, comma 1, c.p..

Corte cost., 24 ottobre 2019, n. 223
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale delD.Lgs. 10 aprile 2018, n. 36, recante “Disposizioni di modifica della disciplina del regime di procedibilità per taluni reati in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 16, lettere a) e b), e 17, dellaL. 23 giugno 2017, n. 103”, nella parte in cui non prevede la punibilità a querela anche per i delitti previstidall’art. 590-bis, primo comma, del codice penale, promosso dal Tribunale ordinario di La Spezia, sezione penale, nel procedimento penale a carico di C.S. S., con ordinanza dell’8 ottobre 2018, iscritta al n. 3 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 25 settembre 2019 il Giudice relatore Francesco Viganò.
1.- Con ordinanza dell’8 ottobre 2018, iscritta al n. 3 del registro ordinanze 2019, il Tribunale ordinario di La Spezia, sezione penale, ha sollevato, in riferimentoall’art. 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale delD.Lgs. 10 aprile 2018, n. 36, recante “Disposizioni di modifica della disciplina del regime di procedibilità per taluni reati in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 16, lettere a) e b), e 17, dellaL. 23 giugno 2017, n. 103”, nella parte in cui non prevede la procedibilità a querela anche per i delitti previstidall’art. 590-bis, primo comma, del codice penale, in contrasto con quanto stabilito dall’art.1, comma 16, lettera a), dellaL. 23 giugno 2017, n. 103(Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario).
1.1.- Il rimettente premette di dover giudicare della responsabilità penale di C.S. S., imputata del reato previsto dall’art. 590-bis (Lesioni personali stradali gravi o gravissime), primo e ottavo comma, cod. pen., per avere, alla guida della propria autovettura, omesso di concedere la precedenza a un motociclo, in violazione dell’art.145, commi 4 e 10, delD.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285(Nuovo codice della strada), così cagionando al conducente del motociclo F. N. e al passeggero N. F. lesioni personali gravi.
1.2.- In punto di rilevanza della questione di legittimità costituzionale, il giudice a quo riferisce che C.S. S., tratta a giudizio con citazione diretta, è stata ammessa al rito abbreviato condizionato all’espletamento di perizia medico-legale sulla persona di F. N.; che secondo le risultanze dell’esame peritale – esteso anche alle lesioni riportate da N. F. – F. N. ha sofferto, in conseguenza del sinistro stradale oggetto di imputazione, una malattia di durata inferiore a venti giorni, mentre N. F. ha patito una malattia guarita in settanta giorni; che dagli atti processuali emerge inequivocabilmente la responsabilità colposa dell’imputata; che le vittime del sinistro non hanno sporto querela.
Il rimettente osserva che, con riferimento alla persona offesa F. N., la contenuta durata della malattia impone la riqualificazione del fatto di reato nell’ipotesi di cuiall’art. 590 cod. pen.(lesioni personali colpose), con conseguente pronuncia, nei confronti dell’imputata, di sentenza di non doversi procedere per difetto di querela della vittima. Diversamente, in relazione alla persona offesa N. F., essendo la malattia di quest’ultima durata settanta giorni, si configura il reato di cuiall’art. 590-bis, primo comma, cod. pen., perseguibile d’ufficio; di talché, sussistendo la responsabilità di C.S. S., il processo non potrebbe che concludersi con una sentenza di condanna. Un diverso esito sarebbe conseguibile solo ove il reato di cuiall’art. 590-bis, primo comma, cod. pen.fosse punibile a querela, che, in specie, non è stata presentata.
1.3.- Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo evidenzia che l’art.1, comma 16, lettera a), dellaL. n. 103 del 2017aveva delegato il Governo, entro un anno dall’entrata in vigore del provvedimento, a “prevedere la procedibilità a querela per i reati contro la persona puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, fatta eccezione per il delitto di cuiall’articolo 610 del codice penale, e per i reati contro il patrimonio previsti dal codice penale, salva in ogni caso la procedibilità d’ufficio qualora ricorra una delle seguenti condizioni: 1) la persona offesa sia incapace per età o per infermità; 2) ricorrano circostanze aggravanti ad effetto speciale ovvero le circostanze indicatenell’articolo 339 del codice penale; 3) nei reati contro il patrimonio, il danno arrecato alla persona offesa sia di rilevante gravità”.
Nell’esercitare la delega con l’adozione delD.Lgs. n. 36 del 2018, il Governo ha omesso di annoverarel’art. 590-bis, primo comma, cod. pen.tra le fattispecie oggetto della modifica del regime di procedibilità, con la conseguenza che il reato in questione è tuttora procedibile d’ufficio e non a querela, benché punito con una pena (reclusione da tra mesi a un anno per le lesioni gravi e da uno a tre anni per le lesioni gravissime) compresa nella forbice edittale per la quale il legislatore delegante aveva previsto l’introduzione della condizione di procedibilità della querela.
Il rimettente sostiene che la mancata previsione della procedibilità a querela per il reato di cuiall’art. 590-bis, primo comma, cod. pen.sarebbe frutto non di una mera dimenticanza, ma di una specifica scelta del legislatore delegato. Ciò emergerebbe inequivocabilmente dalla relazione illustrativa alD.Lgs. n. 36 del 2018, nella quale si sosteneva che il delitto in questione rientrasse nelle ipotesi eccettuate dalla punibilità a querela in forza dell’art. 1, comma 16, lettera a), numero 1), dellaL. n. 103 del 2017, essendo la malattia derivante da lesioni gravi e gravissime commesse in violazione delle norme di disciplina della circolazione stradale equiparabile all’infermità che cagioni incapacità della vittima.
Il giudice a quo ritiene non condivisibile tale assunto del Governo, poiché il legislatore delegante avrebbe escluso la procedibilità a querela per i soli reati contro la persona che, pur puniti con una pena detentiva non superiore a quattro anni, siano posti in essere ai danni di una persona offesa la quale, già prima della commissione del reato, si trovi in stato di incapacità per età o infermità e sia, pertanto, impossibilitata a sporgere querela. Colui che subisce lesioni gravi o gravissime in conseguenza di un sinistro stradale potrebbe non versare affatto in stato di incapacità, ad esempio ove subisca lesioni traumatiche quali il cosiddetto “colpo di frusta” o l’amputazione di un arto, che pur possono determinare una malattia di lunga durata. Non sussisterebbe, dunque, alcuna “correlazione diretta e costante” tra le lesioni gravi o gravissime riportate a seguito di un sinistro stradale e lo stato di incapacità.
Ad avviso del rimettente, la lettura della delega data dal Governo, secondo cui le vittime di un sinistro stradale che abbiano riportato lesioni gravi o gravissime sarebbero “di per sé incapaci per infermità”, si risolverebbe in una violazione dei principi e criteri direttivi impartiti dal legislatore delegante, con conseguente vulnusdell’art. 76 Cost.
La scelta “eccessivamente rigorosa” del legislatore delegato frustrerebbe la finalità deflattiva del contenzioso penale sottesa alla delega e rischierebbe altresì di “vanificare e depotenziare” il ricorso allo strumento risarcitorio, quale forma di ristoro del pregiudizio subito dalla vittima. Secondo il giudice a quo, infatti, “la remissione della querela e l’estinzione del reato per condotte riparatorie ai sensi dell’art. 162 ter c.p.c.ostituiscono una spinta formidabile al risarcimento dei danni e quindi ad una rapida definizione dei procedimenti, in un contesto in cui alla persona offesa non interessa la condanna di colui che ha causato (o contribuito a causare in caso di concorso di colpa della stessa vittima) il sinistro stradale, ma ottenere il giusto ristoro economico per i danni subiti”.
Il rimettente osserva infine che i delitti di lesioni personali stradali gravi e gravissime, commessi da persona che non abbia fatto uso di sostanze alcooliche o stupefacenti, susciterebbero minore allarme sociale rispetto alle medesime condotte, perpetrate sotto l’effetto di dette sostanze. Si giustificherebbe quindi la previsione di un diverso regime di procedibilità – a querela nell’un caso, d’ufficio in tutti gli altri – in relazione alle fattispecie incriminatrici di cui al primo commadell’art. 590-bis cod. pen.da un lato, e a quelle di cui al quarto, quinto e sesto comma della medesima disposizione, dall’altro lato.
2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile o infondata.
2.1.- L’interveniente rammenta anzitutto che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il controllo di conformità della norma delegata alla norma delegante richiede un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l’uno, relativo alle norme che determinano l’oggetto, i principi ed i criteri direttivi indicati dalla delega, da svolgere tenendo conto del complessivo contesto in cui si collocano ed individuando le ragioni e le finalità poste a fondamento della legge di delegazione; l’altro, relativo alle norme poste dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi ed i criteri direttivi della delega (è citata la sentenza n. 250 del 2016).
Secondo la giurisprudenza costituzionale, poi, il legislatore delegato disporrebbe di margini di discrezionalità nell’attuazione della delega, sempre che ne rispetti la ratio e che la sua attività si inserisca in modo coerente nel complessivo quadro normativo (sono richiamate le sentenze n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015, n. 119 del 2013), e senza che il libero apprezzamento del legislatore delegato possa assurgere a principio o criterio direttivo (è citata la sentenza n. 293 del 2010).
Nel caso di specie, qualificabile come “ipotetico eccesso di delega in minus”, il rimettente avrebbe omesso di considerare i “margini di delega” spettanti al legislatore delegato, così prospettando una questione manifestamente inammissibile.
2.2.- La questione sarebbe, comunque, infondata nel merito, poiché il legislatore delegato si sarebbe attenuto ai principi e criteri direttivi di cui all’art.1, comma 16, lettera a), dellaL. n. 103 del 2017.
L’assimilazione tra lo stato di malattia conseguente alle lesioni personali stradali gravi o gravissime e lo stato di incapacità, posta a base della scelta del legislatore delegato di non rendere procedibile a querela il delitto di cuiall’art. 590-bis, primo comma, cod. pen., si giustificherebbe in quanto – come rilevato anche nella Relazione illustrativa alD.Lgs. n. 36 del 2018- nel sistema del codice penale la malattia è già equiparata alla “incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni”, come reso palese dal disposto dell’art. 583, primo comma, numero 1), cod. pen., relativo alle aggravanti al delitto di lesioni. Il delitto di lesioni “si connota, quindi, per l’evento, che ben può consistere in uno stato di incapacità”. L’assimilazione della malattia allo stato di incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni, per effetto della previsione di cuiall’art. 583, primo comma, cod. pen., non potrebbe che valere anche per l’ipotesi delittuosa di cuiall’art. 590-bis cod. pen., “nella misura in cui la gravità delle lesioni si ricava per relationem, mediante il rinvioall’art. 583 c.p.”.
Del resto, la delega legislativa, nell’individuare lo stato di incapacità della vittima quale condizione ostativa al passaggio dal regime di procedibilità d’ufficio a quello di procedibilità a querela di parte, si riferirebbe in termini generali all’incapacità, senza specificare se essa debba essere intesa come temporanea o permanente, piena oppure parziale, sicché il legislatore delegato “non avrebbe potuto che accoglierne la nozione più ampia”. E, su tali presupposti, ilD.Lgs. n. 36 del 2018non avrebbe previsto la procedibilità a querela né per il delitto di lesioni personali di cuiall’art. 582, primo comma, cod. pen., né per quello di lesioni personali stradali gravi e gravissime di cuiall’art. 590-bis, primo comma, cod. pen.; quest’ultimo, peraltro, oggetto di recente novella legislativa a opera dellaL. 23 marzo 2016, n. 41(Introduzione del reato di omicidio stradale e del reato di lesioni personali stradali, nonché disposizioni di coordinamento alD.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, e alD.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274).
Il reato di lesioni personali derivanti da violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale integrerebbe, poi, una fattispecie criminosa grave e connotata da particolare allarme sociale, “posto che l’evento lesivo risulta essere conseguenza della violazione di una regola cautelare di condotta posta a presidio proprio della sicurezza della circolazione stradale”, di talché la scelta del legislatore delegato di non prevedere la procedibilità del delitto a querela di parte sarebbe rispettosa dei principi e criteri della delega contenuta nell’art.1, comma 16, lettera a), dellaL. n. 103 del 2017.
Non sarebbe, infine, condivisibile il presupposto interpretativo del giudice rimettente, secondo cui lo stato di incapacità della persona offesa, condizione ostativa alla modifica del regime di procedibilità, dovrebbe necessariamente preesistere alla commissione del reato, e non potrebbe essere a questo conseguente o collegato.
In senso contrario deporrebbe la circostanza che il legislatore delegato abbia scelto di mantenere la procedibilità d’ufficio per il delitto di abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 cod. pen.), nel quale la persona offesa versa in condizioni di “minorata autonoma difesa” e, pertanto, come osservato nella Relazione illustrativa alD.Lgs. n. 36 del 2018, in “uno stato di incapacità del tutto equiparabile a quello della infermità, dal momento che ben può inibire le normali reazioni difensive come accade per il soggetto affetto da un qualche stato patologico”.
Ancora, come emerge dalla citata Relazione illustrativa, in accoglimento di alcune delle condizioni poste dalle Commissioni giustizia di Camera e Senato, il legislatore delegato non ha previsto la procedibilità a querela in relazione ai delitti di arresto illegale (art. 606 cod. pen.), di indebita limitazione della libertà personale (art. 607 cod. pen.), di perquisizione e ispezione personale arbitrarie (art. 609 cod. pen.), per ragioni di coerenza sistematica con la procedibilità d’ufficio mantenuta per il reato di cuiall’articolo 608 cod. pen., trattandosi, in tutti i casi, di ipotesi delittuose commesse in danno di persona affidata alla custodia dell’autore delle condotte abusive e, dunque, in condizione di minorata difesa.
Una lettura sistematica delD.Lgs. n. 36 del 2018smentirebbe, quindi, l’assunto del giudice rimettente, secondo cui l’incapacità ostativa alla procedibilità a querela dovrebbe preesistere alla commissione del reato, e confermerebbe la coerenza della scelta del legislatore delegato di non prevedere la procedibilità d’ufficio in relazione ai delitti di cuiall’art. 590-bis, primo comma, cod. pen.
Dovrebbe dunque, in conclusione, escludersi che il legislatore delegato abbia “”tradito” o applicato in minus” i principi della delega di cui all’art.1, comma 16, lettera a), dellaL. n. 103 del 2017.
Motivi della decisione
1.- Il Tribunale ordinario di La Spezia, sezione penale, ha sollevato, in riferimentoall’art. 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale delD.Lgs. 10 aprile 2018, n. 36, recante “Disposizioni di modifica della disciplina del regime di procedibilità per taluni reati in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 16, lettere a) e b), e 17, dellaL. 23 giugno 2017, n. 103”, nella parte in cui non prevede la procedibilità a querela anche per i delitti previstidall’art. 590-bis, primo comma, del codice penale, in contrasto con quanto stabilito dall’art.1, comma 16, lettera a), dellaL. 23 giugno 2017, n. 103(Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario).
Secondo il rimettente, il legislatore delegato avrebbe errato nel non prevedere, nell’ambito delD.Lgs. n. 36 del 2018, la punibilità a querela per il delitto di cuiall’art. 590-bis cod. pen., rubricato “Lesioni personali stradali gravi o gravissime”, ove non sussistano le circostanze aggravanti di cui ai commi secondo e seguenti.
L’art.1, comma 16, lettera a), dellaL. n. 103 del 2017aveva delegato il Governo a “prevedere la procedibilità a querela per i reati contro la persona puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, fatta eccezione per il delitto di cuiall’art. 610 del codice penale, e per i reati contro il patrimonio previsti dal codice penale, salva in ogni caso la procedibilità d’ufficio quando ricorra una delle seguenti condizioni: 1) la persona offesa sia incapace per età o per infermità; 2) ricorrano circostanze aggravanti ad effetto speciale ovvero le circostanze indicatenell’articolo 339 del codice penale; 3) nei reati contro il patrimonio, il danno arrecato alla persona offesa sia di rilevante gravità”.
L’art. 590-bis, primo comma, cod. pen.configura un reato contro la persona, punito con la reclusione da tre mesi a un anno laddove il colpevole abbia cagionato lesioni gravi alla persona offesa, e con la reclusione da uno a tre anni laddove le abbia cagionato lesioni gravissime. In entrambe le ipotesi, dunque, la pena detentiva massima non supera nel massimo i quattro anni.
Ad avviso del giudice a quo, il Governo avrebbe pertanto dovuto estendere anche alla fattispecie delittuosa in questione la punibilità a querela, non trovando qui applicazione alcuna delle deroghe previste dalla legge delega al criterio generale basato sulla durata della pena detentiva massima, e in particolare l’eccezione di cui al numero 1) della disposizione poc’anzi citata, relativa alle ipotesi in cui “la persona offesa sia incapace per età o per infermità”.
A tale omissione dovrebbe porre rimedio questa Corte, attraverso la pronuncia additiva sollecitata nell’ordinanza di rimessione.
2.- L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità della questione all’esame, con la quale il rimettente si dorrebbe di un “eccesso di delega in minus”, omettendo così di considerare il margine di discrezionalità spettante al Governo nell’esercizio della delega medesima.
L’eccezione è, in realtà, relativa a un profilo che attiene al merito della questione, anziché alla sua ammissibilità.
La questione in questa sede prospettata – peraltro certamente rilevante nel giudizio a quo, in cui si discute della responsabilità penale di un imputato del delitto di cuiall’art. 590-bis, primo comma, cod. pen., nei cui confronti non risulta essere stata presentata querela – è, dunque, ammissibile.
3.- Prima di esaminare il merito della questione, giova precisare che il giudice rimettente non lamenta qui un mancato esercizio della delega da parte del legislatore, né un suo parziale esercizio: ipotesi, queste, che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte possono sì determinare una responsabilità politica del Governo verso il Parlamento, ma non una violazionedell’art. 76 Cost., a meno che il mancato parziale esercizio della delega stessa non comporti uno stravolgimento della legge di delegazione (sentenze n. 304 del 2011, n. 149 del 2005, n. 218 del 1987, n. 8 del 1977 e n. 41 del 1975; ordinanze n. 283 del 2013 e n. 257 del 2005).
Il giudice a quo lamenta, invece, la non corretta osservanza di uno specifico criterio di delega – quello di cui all’art.1, comma 16, lettera a), dellaL. n. 103 del 2017- che il Governo ha deciso di esercitare mediante ilD.Lgs. n. 36 del 2018, che ha per l’appunto previsto la procedibilità a querela di una serie di delitti contro la persona e contro il patrimonio previsti dal codice penale e puniti con pena detentiva non superiore a quattro anni. Nell’esercitare tale delega, il Governo avrebbe – nella prospettiva del rimettente – arbitrariamente omesso di prevedere la procedibilità a querela del delitto di cuiall’art. 590-bis, primo comma, cod. pen., anche se tale delitto prevede pene detentive inferiori nel massimo al limite di quattro anni indicato dalla legge delega, e nonostante non ricorra – secondo il giudice a quo – alcuna delle ipotesi eccezionali nelle quali doveva, in base al citato art.1, comma 16, lettera a), dellaL. n. 103 del 2017, conservarsi la regola previgente della procedibilità d’ufficio.
Come è accaduto nella recente sentenza n. 127 del 2017, la Corte è dunque chiamata a valutare se il Governo, nell’esercitare in parte qua la delega conferitagli dal Parlamento, abbia o meno errato nel dare applicazione ai principi e ai criteri direttivi il cui rispetto condiziona, in forzadell’art. 76 Cost., la legittimità costituzionale del decreto legislativo.
Ove risultasse che il Governo abbia interpretato e applicato in maniera non corretta il criterio di delega in parola, e abbia quindi indebitamente omesso di prevedere la procedibilità a querela del delitto di cuiall’art. 590-bis, primo comma, cod. pen., tale omissione si risolverebbe in una violazionedell’art. 76 Cost.: non diversamente, del resto, da ciò che accadrebbe ove il Governo avesse previsto la procedibilità a querela di un’ipotesi delittuosa che, secondo le indicazioni del legislatore delegato, doveva invece restare procedibile d’ufficio.
4.- Ciò precisato, la questione non è fondata.
4.1.- Occorre subito sottolineare che, a fronte della previsione di pene detentive massime non superiori a quattro anni nelle due ipotesi delittuose contemplatedall’art. 590-bis, primo comma, cod. pen., il solo thema decidendum nella presente controversia è se il Governo fosse autorizzato a non prevedere la procedibilità a querela di tali fattispecie in ragione dell’operatività di una delle tre eccezioni, previste dall’art.1, comma 16, lettera a), dellaL. n. 103 del 2017, al criterio generale che abbracciava tra l’altro “i reati contro la persona puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria”, diversi dalla violenza privata.
Posta l’ovvia inapplicabilità, nella specie, dell’eccezione prevista dal numero 3) della disposizione – riferita ai soli reati contro il patrimonio -, e considerata l’altrettanto pacifica inapplicabilità dell’ulteriore eccezione prevista al numero 2) – riferita all’ipotesi in cui ricorrano circostanze aggravanti a effetto speciale o taluna delle circostanze di cuiall’art. 339 cod. pen., stante la riconosciuta natura di fattispecie autonome delle ipotesi previstedall’art. 590-bis, primo comma, cod. pen.(Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 11 aprile-6 maggio 2019, n. 18802; sezione terza penale, sentenza 14 febbraio-10 giugno 2019, n. 25538; sezione prima penale, ordinanza 20 dicembre 2018-10 gennaio 2019, n. 1046; sezione quarta penale, sentenza 24 maggio-14 giugno 2018, n. 27425; sezione quarta penale, sentenza 16 maggio-15 settembre 2017, n. 42346; sezione quarta penale, sentenza 1 marzo-14 giugno 2017, n. 29721) -, resta da valutare se la scelta del Governo di non includere le fattispecie delittuose previstedall’art. 590-bis, primo comma, cod. pen.nel novero dei reati procedibili a querela ai sensi delD.Lgs. n. 36 del 2018si giustifichi in relazione all’eccezione prevista dal numero 1), riferita all’ipotesi in cui “la persona offesa sia incapace per età o per infermità”. Profilo, quest’ultimo, su cui effettivamente si incentrano le opposte argomentazioni dell’ordinanza di rimessione e dell’Avvocatura generale dello Stato.
4.2.- La mancata inclusione tra i delitti procedibili a querela tanto della fattispecie di lesioni personali dolose di cuiall’art. 582 cod. pen., nell’ipotesi in cui consegua una malattia di durata superiore a venti giorni, quanto delle fattispecie di lesioni stradali gravi e gravissime di cuiall’art. 590-bis, primo comma, cod. pen., è stata giustificata dal Governo, nella Relazione illustrativa al primo schema di decreto legislativo (A.G. 475), “in ragione della considerazione che il legislatore ha già equiparato, ai fini della descrizione della fattispecie, la malattia allo stato di incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni, come si ricava agevolmente dalla disposizione in punto di aggravante di cuiall’articolo 583, comma 1, n. 1, c.p.Il delitto di lesioni si connota, quindi, per l’evento, che ben può consistere in uno stato di incapacità, e la previsione di delega non qualifica ulteriormente la condizione di incapacità, non specifica se essa debba essere intesa come temporanea o permanente, piena o anche solo parziale, sicché il legislatore delegato non può che accoglierne la nozione più ampia …. Il criterio di delega di cui all’articolo 1, comma 16, lettera a), numero 1),L. n. 103 del 2017impone dunque di preservare la procedibilità d’ufficio quando ricorre la condizione di incapacità della persona offesa per (età o per) infermità”.
La Commissione giustizia della Camera dei deputati, nel formulare il 6 dicembre 2017 il proprio parere favorevole con condizioni allo schema di decreto legislativo, ha espresso sul punto il proprio dissenso, richiedendo alla condizione numero 3) che la procedibilità a querela fosse estesa anche alle fattispecie di cuiall’art. 590-bis, primo comma, cod. pen.Secondo la Commissione, infatti, la condizione di incapacità della vittima, per età o per infermità, dovrebbe “ritenersi riferibile ai casi in cui le particolari condizioni di vulnerabilità della vittima, per età o per infermità, preesistano al comportamento criminoso dell’autore del reato e siano perciò da questo indipendenti. La maggiore gravità del fatto, cui si lega la scelta di mantenere ferma la perseguibilità d’ufficio, sembrerebbe, quindi, essere ancorata alla circostanza che l’agente, per la realizzazione del reato, ha sfruttato una situazione di minorata difesa della vittima, antecedente alla condotta punita, che ha reso più agevole l’esecuzione, piuttosto che ad una situazione di infermità procurata anche a seguito della condotta criminosa”.
Nessun rilievo sul punto specifico è stato invece mosso allo schema dalla Commissione giustizia del Senato della Repubblica.
Lo schema di decreto legislativo (A.G. 475-bis), approvato in secondo esame dal Consiglio dei ministri dell’8 febbraio 2018, non ha ritenuto di accogliere la condizione espressa dalla Commissione giustizia della Camera dei deputati, reiterando gli argomenti già illustrati nella Relazione al primo schema e aggiungendo che il delitto in parola, “peraltro già oggetto di recente intervento normativo”, suscita “particolare allarme sociale”, ed è comunque connotato “da una certa gravità posto che l’evento lesivo risulta essere conseguenza della violazione di una regola cautelare di condotta posta a presidio proprio della sicurezza della circolazione stradale”.
Su tale secondo schema di decreto la Commissione giustizia della Camera dei deputati non ha espresso alcun parere, mentre la Commissione giustizia del Senato della Repubblica ha espresso parere non ostativo il 7 marzo 2018.
4.3.- I rilievi della Commissione giustizia della Camera dei deputati, ripresi in senso adesivo da varie voci dottrinali e riproposti dall’ordinanza di rimessione oggi all’esame, fanno leva essenzialmente sull’argomento testuale – di per sé nient’affatto peregrino – secondo cui l’espressione “sia incapace” alluderebbe a una condizione di incapacità della persona offesa preesistente alla condotta criminosa, e non già a una situazione creata dalla condotta criminosa stessa, come avviene nel caso delle lesioni personali.
A fronte di ciò, va peraltro sottolineato come la formula normativa utilizzata dal legislatore delegante sia in radice ambigua, non risultando chiaro se essa debba essere riferita alla necessaria presenza, nello schema della fattispecie delittuosa, di una persona offesa incapace per età o per infermità – come accade, ad esempio, nelle ipotesi di corruzione di minorenne (art. 609-quinquies cod. pen.) o di circonvenzione di incapaci (art. 643 cod. pen.), peraltro punite con pena detentiva massima superiore a quattro anni e quindi già a priori non comprese nella delega -, ovvero all’ipotesi in cui, nel singolo caso concreto, la persona offesa attinta dalla condotta criminosa sia incapace, magari proprio per effetto dello stesso evento criminoso.
È evidente, peraltro, come la ratio dell’eccezione in parola miri a confermare la regola della procedibilità d’ufficio per le ipotesi in cui la persona offesa sia una persona vulnerabile a causa della propria incapacità, in modo da assicurare che la tutela dell’ordinamento non venga fatta dipendere dalla sua iniziativa giudiziaria: iniziativa il cui esercizio, eventualmente tramite un rappresentante legale o un curatore speciale – la cui esistenza e la cui nomina non può, peraltro, essere data in questi casi per scontata – potrebbe risultare più difficoltoso di quanto normalmente accada rispetto alla generalità delle persone offese.
Ciò posto, era in facoltà del Governo ritenere che una tale esigenza di tutela rafforzata ricorra anche rispetto al delitto di lesioni stradali gravi o gravissime previstodall’art. 590-bis, primo comma, cod. pen., che è produttivo di notevoli conseguenze pregiudizievoli per la salute della vittima, le quali a loro volta possono determinare una situazione di incapacità, transitoria o permanente, tale da renderle più difficoltosa una eventuale iniziativa giudiziaria volta a sollecitare la persecuzione penale del responsabile delle lesioni.
D’altra parte, la previsione della procedibilità a querela delle ipotesi delittuose contemplatedall’art. 590-bis, primo comma, cod. pen., si sarebbe posta in aperta contraddizione con la scelta, compiuta appena due anni prima dal Parlamento con laL. 23 marzo 2016, n. 41(Introduzione del reato di omicidio stradale e del reato di lesioni personali stradali, nonché disposizioni di coordinamento alD.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, e alD.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274), di prevedere la procedibilità d’ufficio di tutte le fattispecie di lesioni stradali di cuiall’art. 590-bis cod. pen., in considerazione del particolare allarme sociale determinato dalle condotte che con la nuova incriminazione si intendevano contrastare; mentre, all’evidenza, la scelta del legislatore delegante appariva volta a prevedere la procedibilità a querela per fatti di modesto contenuto offensivo, come emerge del resto dall’espressa previsione, al numero 3) dell’art. 1, comma 16, lettera a), della legge delega, di un’eccezione alla regola della procedibilità a querela per i reati contro il patrimonio produttivi di un danno alla persona offesa di rilevante gravità.
In conclusione, questa Corte ritiene che il Governo non abbia travalicato i fisiologici margini di discrezionalità impliciti in qualsiasi legge delega, nell’adottare una interpretazione non implausibile – e non distonica rispetto alla ratio di tutela sottesa alle indicazioni del legislatore delegante – del criterio dettato dall’art. 1, comma 16, lettera a), numero 1), dellaL. n. 103 del 2017; e si sia mantenuto così entro il perimetro sancito dal “legittimo esercizio della discrezionalità spettante al Governo nella fase di attuazione della delega, nel rispetto della ratio di quest’ultima e in coerenza con esigenze sistematiche proprie della materia penale” (sentenza n. 127 del 2017). E tanto più nel caso di specie, al cospetto di una delega “ampia” o “vaga”, che interviene per “blocchi” di materie, riferendosi genericamente a due Titoli del codice penale.
Dal che discende la non fondatezza della questione di legittimità in questa sede prospettata.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale delD.Lgs. 10 aprile 2018, n. 36, recante “Disposizioni di modifica della disciplina del regime di procedibilità per taluni reati in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 16, lettere a) e b), e 17, dellaL. 23 giugno 2017, n. 103”, sollevata, in riferimentoall’art. 76 della Costituzione, nella parte in cui non prevede la procedibilità a querela anche per i delitti previstidall’art. 590-bis, primo comma, del codice penale, dal Tribunale ordinario di La Spezia, sezione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 settembre 2019.
Depositata in Cancelleria il 24 ottobre 2019.