La Corte conferma la statuizione secondo cui il tenore di vita goduto durante il matrimonio, unitamente ad altri aspetti ovvero l’età avanzata, l’assenza di attività lavorativa ed altri redditi, unitamente alla mancanza di prospettive lavorative, incidono sulla determinazione dell’assegno

Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2019, n. 4523
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 14337/2017 proposto da:
V.S., elettivamente domiciliato in Roma, V.le Giuseppe Mazzini 142 presso lo studio dell’avvocato Pennisi Vincenzo Alberto, rappresentato e difeso dall’avvocato Sanfilippo Dario, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
C.M., domiciliata in Roma, P.zza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Cimino Maria Teresa, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 630/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 06/04/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/12/2018 dal cons. MARULLI MARCO.
Svolgimento del processo
1.1. La Corte d’Appello di Catania con sentenza 630/17 del 6.4.2017 ha respinto l’appello proposto da V.S. avverso la sentenza di primo grado che aveva provveduto, tra l’altro, a liquidare l’assegno divorzile in favore di C.M., confermando, come già il primo giudice, anche nella determinazione del quantum, l’assunto che, alla luce delle condizioni personali della resistente – prossima a compiere i sessanta anni di età, priva di attività lavorativa e di fonti di reddito alternative e con remote possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro – nonché del pacifico orientamento giurisprudenziale in materia, “non può dubitarsi del diritto in capo alla C…. a godere dell’assegno divorzile, posto che è processualmente certo che la stessa non gode di alcun reddito e ancor mero gode di un reddito adeguato al tenore di vita (molto elevato in ragione delle potenzialità economiche del coniuge…) tenuto durante il matrimonio”.
1.2. Per la cassazione di detta sentenza il V. si affida a due motivi di ricorso, al quale ha fatto seguire istanza di sospensione dell’odierno giudizio a mentedell’art. 295 cod. proc. civ.in considerazione della pendenza avanti alla Corte d’Appello di Catania del giudizio di delibazione della sentenza pronunciata dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Siculo il 25.3.2011, confermata dal Tribunale Apostolico della Rota Romana il 9.2.2016, dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario con la C..
Al proposto ricorso replica la C. con controricorso e memoria.
Motivi della decisione
2. Va previamente disattesa la richiesta di sospensione, sebbene non per le ragioni che vi oppone la controricorrente.
Seguendone il ragionamento il collegio non potrebbe in effetti dubitare che, stante la diversità di petitum e causa petendi che contrassegna rispettivamente il giudizio di divorzio e quello di nullità del matrimonio concordatario, il fatto che della sentenza emessa in quest’ultimo sia pendente la delibazione non è di per sé preclusivo del giudizio che abbia ad oggetto la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non ne sovverte perciò gli eventuali giudicati che in quella sede si fossero formati, anche con riguardo alle statuizione aventi natura patrimoniale (Cass., Sez. 1, 23/03/2001, n. 4202). Tuttavia, qui, il giudicato rilevabile riguarda solo la cessazione degli effetti civili del matrimonio, non avendo il relativo capo della sentenza di primo grado costituito oggetto di impugnazione per gli effetti argomentabili dall’art. 324 e dell’art. 329 c.p.c., comma 2; ne restano perciò escluse le statuizioni economiche pure adottate nell’occasione, rispetto alle quali il V. si è appunto gravato dell’appello chiedendone la riforma, e riguardo ad esse non sarebbe per questo opponibile l’efficacia ostativa del giudicato.
Ciò, malgrado, è tuttavia convinzione del collegio che nella direzione auspicata dall’istanza del V. si frapponga la preclusione indirettamente eccepibiledall’art. 372 cod. proc. civ., in guisa della quale, non essendo producibili in questa sede altri documenti se non quelli che riguardino la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso, l’istanza si rivela priva del necessario riscontro documentale atto a dimostrare la sussistenza dei presupposti che ne consentano l’apprezzamento e non risulta per questo scrutinabile (Cass., Sez. 3, 18/05/2012, n. 7932).
3.1. Nel merito, il ricorso – la cui disamina non è impedita dalle preclusioni fatte valere dalla controricorrente giacché il quadro giurisprudenziale sotteso alla materia è stato oggetto di recente rimodulazione a seguito dell’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite, non è ravvisabile, in relazione alla natura delle questioni sollevate e all’esaustività della loro illustrazione, il dedotto difetto di autosufficienza, così come non sussiste, in considerazione della chiara identità di ciascuna doglianza, l’indebita mescolanza dei motivi di impugnazione – allega col primo motivo l’erroneità dell’impugnata decisione perché, laddove essa ha inteso confermare l’entità dell’assegno divorzile nella misura già decretata in sede di separazione, si è appellata ad un criterio smentito dal recente pronunciamento di questa Corte con la sentenza 11504 del 10/05/2017, che innovando il pregresso orientamento di legittimità in materia all’esito di un percorso argomentativo che mette al centro il principio dell’autoresponsabilità dei coniugi sulla sfondo di una concezione dell’istituto matrimoniale in linea con i tempi e con il sentire comune della collettività sociale ha abbandonato il parametro del pregresso tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio per adottare quale “nuovo e differente parametro”, cui rapportare il giudizio sull’adeguatezza-inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio e sulla possibilità-impossibilità per ragioni oggettive dello stesso di procurarseli, quello impostato sul “raggiungimento dell’indipendenza economica del richiedente”.
3.2. E’ opinione del collegio che il motivo – che non incorre nel difetto di autosufficienza eccepito dalla controricorrente, risultando puntualmente e compiutamente declinato -, quantunque l’indirizzo interpretativo cui si è richiamato la Corte etnea sia superato, non meriti comunque adesione, giacché gli esiti a cui è pervenuto il decidente del grado appaiono coerenti ed in linea con il più recente pensiero di questa Corte.
3.3. Le SS.UU. con la sentenza 11/07/2018, n. 18287, come accennato, rivisitando funditus la questione – in ciò sollecitate segnatamente dall’ampio clamore destato dalla citata sentenza 11504/2017 che, enunciando il parametro “dell’indipendenza o autosufficienza economica” aveva sovvertito un più che consolidato panorama di diritto vivente, da oltre un trentennio orientato a commisurare l’entità dell’assegno divorzile al “tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio” – pur senza disperdere la fecondità culturale del nuovo approccio, indubbiamente impegnato a raccogliere anche nella ponderazione degli aspetti della solidarietà post-matrimoniale aventi più diretta incidenza patrimoniale i riflessi di una mutata valorizzazione delle scelte personali e delle loro conseguenze sotto il profilo dell’autoresponsabilità, da valutarsi nel contesto costituzionale all’interno del quale tali scelte e la loro protezione giuridica si collocano, e quindi non mancando pure di prendere le distanze dall’orientamento dominante, ha ritenuto, tuttavia, di dover abbandonare la rigida distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio, alla luce di una interpretazione dellaL. 1 dicembre 1970, n. 898,art.5, comma 6, nel testo risultante dalla novellazione operatane dallaL. 6 marzo 1987, n. 74,art.10più coerente con il quadro costituzionale di riferimento costituito dagliartt. 2, 3 e 29 Cost..
In questa cornice è maturata la convinzione, suggerita dalla constatazione che il parametro dell’adeguatezza enunciato dall’art. 5 ha carattere intrinsecamente relativo e che esso impone perciò una valutazione comparativa condotta in armonia con i criteri indicatori che figurano nell’incipit della norma, che “la funzione assistenziale dell’assegno di divorzio si compone di un contenuto perequativo-compensativo che discende direttamente dalla declinazione costituzionale del principio di solidarietà e che conduce al riconoscimento di un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei due coniugi, deve tener conto non soltanto del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l’autosufficienza, secondo un parametro astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente”. Si è così, di riflesso, affermato che “il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto”.
3.4. Posto, perciò, che, come ancora precisato nell’occasione, il parametro sulla base del quale deve essere fondato l’accertamento del diritto alla percezione dell’assegno “ha natura composita, dovendo l’inadeguatezza dei mezzi o l’incapacità di procurarli per ragioni oggettive essere desunta dalla valutazione, del tutto equiordinata degli indicatori contenuti nella prima parte dell’art. 5, comma 6, in quanto rivelatori della declinazione del principio di solidarietà”, è opinione del collegio, scrutinando la sentenza impugnata, che la Corte etnea, pur non facendo mistero di orientare l’asse del proprio deliberato sul criterio del tenore di vita goduto dalla C. in costanza di matrimonio, ha tuttavia proceduto in questa direzione seguendo un percorso argomentativo che guarda con prudenza al criterio del tenore di vita e volutamente ne evita ogni forzatura, non a caso annotando che “esso concorre e va poi bilanciato, caso per caso, con tutti gli altri criteri indicati nel denunciato art. 5”; ma nello stesso tempo non si è astenuta dal valorizzare i fattori che nel caso concreto sfavoriscono la C. e la rendono nel rapporto con il V. il coniuge economicamente più debole (“è pacifico che la C., oggi prossima a compiere 60 anni… non ha svolto attività lavorativa durante la convivenza coniugale né dopo, così come è pacifico che la stessa – impossidente – non gode di fonti di reddito diverse dal lavoro”; “la possibilità, poi, per la stessa di inserirsi oggi nel mondo del lavoro e di trovare un’occupazione da cui trarre un reddito adeguato… appare una possibilità assolutamente remota ed astratta”).
La Corte d’Appello non sembra perciò rifuggire in tal modo da un’attenta ponderazione dei valori che la tematica dell’assegno divorzile, nei profili afferenti segnatamente al riconoscimento del diritto, mette in gioco secondo l’innovativa lettura delle SS.UU. Ancorché lo scenario ideale del suo ragionamento non sia più attuale, nondimeno il giudizio che essa declina nel caso concreto anche alla luce della durata non breve del vincolo matrimoniale contratto il 24.10.1991 e sciolto il 5.12.2014 – si mostra in singolare sintonia con la “natura composita” che le SS.UU. hanno inteso rivendicare quale prius qualificante al parametro sulla base del quale procedere al riconoscimento del diritto. Ed anzi, laddove opera la diretta saldatura, nell’accertamento del diritto della C., del criterio dell’adeguatezza agli altri indicatori enunciati dalla norma, ne ricalca, sia pur se inconsapevolmente, le linee, assecondando una chiave di lettura dell’istituto non incoerente con quella delle SS.UU. e perciò non suscettibile della pretesa cassazione.
4. Rigettato perciò il primo motivo di ricorso, il secondo, volto a confutare, sotto il profilo motivazionale, il ragionamento decisorio seguito dal decidente d’appello nella valutazione della condizione patrimoniale del V., si espone previamente ad un rilievo di inammissibilità poiché, oltre a risolversi nella perorazione di un nuovo giudizio di fatto, la censura non trova più riscontro nel nuovo dettato dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
5. Il ricorso va dunque conclusivamente respinto.
6. Le spese in ragione dei mutamenti giurisprudenziali intervenuti possono essere integralmente compensate.
Ricorrono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1-quater.
P.Q.M.
Respinge il ricorso e compensa le spese del presente giudizio.
Dispone omettersi in caso di pubblicazione della presente sentenza ogni riferimento ai nominativi e agli altri elementi identificativi delle parti.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1-quater, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 1 sezione civile, il 13 dicembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2019

L’ abbandono del domicilio coniugale connesso alla interruzione della erogazione dei contributi economici per la famiglia comporta l’addebito della separazione

Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 febbraio 2019, n. 3877
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1859-2017 proposto da:
M.U., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VALADIER 36, presso lo studio dell’avvocato RICCARDO GOZZI, rappresentato e difeso dall’avvocato BENEDETTA COLLERONE RUSSO;
– ricorrente –
contro
T.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE PARIOLI 98, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO GIOVANNI POLLARI MAGLIETTA, rappresentata e difesa dall’avvocato TIZIANA DA ROS;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2071/2016 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 20/09/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 15/01/2019 dal Consigliere Relatore Dott. LAURA TRICONII.
Svolgimento del processo
che:
La Corte di appello di Venezia, ritenuta la nullità della sentenza di primo grado in controversia concernente la separazione personale dei coniugi T.P. e M.U. e le domande accessorie, pronunciava la separazione con addebito al marito, in ragione dell’unilaterale abbandono del domicilio coniugale connesso alla interruzione della erogazione dei contributi economici per la famiglia, e poneva a carico del M. un assegno di mantenimento per la moglie di Euro 400,00 mensili e per le due figlie di Euro 800,00, somme tutte rivalutabili, oltre la partecipazione al 50% delle spese straordinarie riguardanti le figlie.
Il ricorso per cassazione è stato proposto con quattro mezzi dal M.; la moglie ha replicato con controricorso.
Sono stati ritenuti sussistenti i presupposti per la trattazione camerale ex art. 380 bis c.p.c..
Motivi della decisione
che:
1. Il Collegio condivide la proposta di definizione della controversia notificata alla parte costituita nel presente procedimento, alla quale non sono state mosse osservazioni critiche, nei termini di seguito precisati.
2. Il primo motivo – con il quale si denuncia la violazione delle disposizioni che disciplinano la pronuncia di addebito, per avere erroneamente ritenuto, la Corte di appello, ammissibile la domanda di addebito, da qualificarsi come domanda riconvenzionale, senza considerare che la stessa era stata proposta tardivamente solo nelle note di precisazione delle conclusioni e che non erano state nemmeno articolati mezzi probatori con le memorie istruttorie – è infondato.
Invero, il motivo prospetta circostanze – relative al momento della proposizione della domanda di addebito – che contrastano con quanto accertato dalla Corte di appello in merito all’epoca della sua tempestiva formulazione, avvenuta con la memoria depositata il 13/4/2012, oltre venti giorni prima dell’udienza exart. 183 c.p.c.fissata dal Presidente avanti al giudice istruttore: questa Corte ha riscontrato, quale giudice del fatto processuale, tali esatte circostanze di fatto mediante il diretto esame degli atti di parte e dei verbali di udienza del primo grado, rilevando che la originaria prima udienza fissata davanti all’istruttore per l’8/3/2012 venne rinviata d’ufficio, per questioni connesse alla notifica dell’ordinanza presidenziale, al 10.5.2012 con concessione di nuovi termini, fissati al 29/3/2012 per il ricorrente ed al 14/4/2012 per la contro ricorrente, che risultano rispettati anche per la proposizione della domanda di addebito.
3. Il secondo motivo – con il quale si lamenta che la non esatta valutazione del nesso di causalità tra l’abbandono del tetto coniugale e l’irreversibile crisi coniugale (a dire del ricorrente effetto, e non già causa, in ragione della preesistente intollerabilità della vita coniugale) – è inammissibile perché non coglie la ratio conseguente alla congiunta valutazione dell’abbandono della casa coniugale da parte del M. e della contestuale interruzione del mantenimento familiare, circostanza quest’ultima che il ricorrente trascura totalmente nel motivo.
4. Il terzo motivo – con il quale si censura la statuizione di nullità della prima decisione pronunciata dalla Corte di appello – è inammissibile, perché non coglie la ratio decidendi. La tesi sostenuta dal ricorrente, circa la ricorrenza di un mero errore materiale nell’indicazione dell’organo giudicante quale giudice unico, invece che come collegio di primo grado, non considera che la Corte di appello ha appositamente sottolineato che dalla sentenza non era evincibile l’indicazione dei componenti del collegio e su questo specifico profilo – non intercettato dalla doglianza – ha fondato la sua pronuncia. Tale statuizione peraltro è immune da vizi in quanto conforme al principio secondo il quale “Con riguardo al contenuto della sentenza civile,l’art. 132 c.p.c., comma 2, lett. a), che prescrive l’indicazione del giudice che l’ha pronunciata, comporta che, dalla formulazione dell’atto, si possa individuare con certezza il giudice decidente (monocratico o collegiale), per desumerne sia l’esatta collocazione gerarchica e territoriale nella struttura organizzativa dell’autorità giudiziaria ordinaria, sia il nome delle persone fisiche in concreto deliberanti.” (Cass. n.9625 de120/09/1993).
Infine le considerazioni svolte dal ricorrente circa la partecipazione del PM al primo grado risultano irrilevanti in quanto la questione non appare affrontata dalla Corte di appello.
5. Il quarto motivo – con il quale si lamenta la illogicità e la contraddittorietà della motivazione in merito alla determinazione dell’ammontare degli assegni di mantenimento – è inammissibile perché prospetta, come riconosciuto dallo stesso ricorrente, un vizio revocatorio, relativo alla errata attribuzione della effettiva proprietà di un appartamento in Bibione e non concerne l’omesso esame di un fatto storico, da intendersi principale o secondario, bensì l’errata valutazione, non inquadrabile nel paradigmadell’art. 360 c.p.c., n. 5, come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83,art.54, convertito dallaL. 7 agosto 2012, n. 134(ex plurimis, Cass. Sez. U. 07/04/2014, n. 8053).
6. In conclusione il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003,art.52.
Sussistono i presupposti di cui al D.P.R. del 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater.
P.Q.M.
– Rigetta il ricorso;
– Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.100,00=, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed accessori di legge;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003,art.52. – Dà atto, ai sensi del D.P.R. del 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2019

Il perdono giudiziale del minore in sede penale non preclude il risarcimento in sede civile

Cass. civ. Sez. III, 13 febbraio 2019, n. 4152
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 25339/2016 proposto da:
D.B.E., elettivamente domiciliato in ROMA, P.LE CLODIO 56, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI BONACCIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato M. EUGENIA VALAZZI giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
M.B., considerata domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati CLAUDIA CHIARINI, GABRIELE CHIARINI giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
e contro
D.B.F., P.L.M.L.;
– intimati –
nonché da:
D.B.F., elettivamente domiciliato in ROMA, P.LE CLODIO 56 QUARTO PIANO INT. 8, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI BONACCIO, rappresentato e difeso dall’avvocato ANNUNZIATA CERBONI BAJARDI giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;
– ricorrente incidentale –
contro
M.B., considerata domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DEILA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati CLAUDIA CHIARINI, GABRIELE CHIARINI giusta procura a margine del controricorso principale;
– controricorrente all’incidentale –
e contro
P.L.M.L., D.B.E.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 140/2016 del TRIBUNALE di URBINO, depositata il 30/03/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 28/11/2018 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi principale e incidentale.
Svolgimento del processo
che:
1. D.B.E. ricorre, affidandosi a nove motivi illustrati anche da memoria ex art. 380 bis c.p.c., per la cassazione della sentenza del Tribunale di Urbino che, riformando la pronuncia di inammissibilità della domanda del giudice di pace, lo aveva condannato – rigettando l’appello principale sulla compensazione delle spese di lite ed accogliendo quello incidentale proposto da M.B. – al risarcimento del danno in favore della stessa, bidella di un liceo di (OMISSIS), per le scritte ingiuriose che il figlio B.B.F., minore all’epoca dei fatti, aveva vergato sulla sua scrivania con un pennarello, durante una illegittima incursione nella scuola con altri ragazzi minorenni.
2. Gli intimati hanno resistito e D.B.F. ha proposto ricorso incidentale sulla scorta di otto motivi e memoria.
Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte.
Motivi della decisione
che:
Sul ricorso principale di D.B.E..
1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, exart. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazionedell’art. 132 c.p.c., nn. 3 e 4.
Contesta l’impostazione logica della motivazione del Tribunale che aveva dapprima esaminato la capacità di intendere e di volere del figlio minore con riferimento al fatto commesso e, solo dopo, gli aveva attribuito la materiale responsabilità di esso, con percorso argomentativo viziato ed invertito anche in relazione alla fattispecie concreta individuata, ricondottaall’art. 2048 c.c.e nonart. 2047 c.c..
1.2. Con il secondo motivo, exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 115, nonché del D.P.R. n. 488 del 1988, art. 10, in relazione agliartt. 40, 43 e 594 c.p.: censura la progressione logica della sentenza, fondata sulla erronea applicazione delle norme di diritto richiamate in quanto la dichiarazione “di non doversi procedere” pronunciata in sede penale pur consentendo una complessiva rivalutazione del fatto e della responsabilità del minore non poteva prescindere dall’osservanza dell’ordinario criterio di ripartizione degli oneri probatori in relazione al quale il Tribunale avrebbe dovuto rilevare che la M. non aveva dedotto alcuna prova.
Aggiunge, al riguardo, che la sentenza penale era stata emessa a seguito di udienza preliminare e, quindi, senza un’istruttoria dibattimentale svolta nel contraddittorio delle parti.
1.3. Con il terzo motivo, exart. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 132, n. 4 e D.P.R. n. 488 del 1988, art. 10: lamenta che il giudice d’appello aveva indicato solo genericamente gli elementi su cui era fondato il proprio convincimento ed in base ai quali il figlio F. sarebbe stato autore del fatto.
1.4. Con il quarto motivo, deduce, exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degliartt. 2046 e 2697 c.c.edell’art. 115 c.p.c.: contesta la valutazione del Tribunale circa la sussistenza della capacità di intendere e di volere del minore in assenza di prova.
1.5. Con il quinto motivo, lamenta, exart. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione degliartt. 2048 e 2729 c.c.e degli artt. 183 e 115 c.pc.., per l’immotivato rigetto dell’ammissione delle prove da lui dedotte che erano state ingiustamente ritenute superflue.
1.6. Con il sesto motivo, exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2059, 2697, 2729, 115 e 132 c.p.c., anche in relazioneall’art. 594 c.c.: contesta, al proposito, la valutazione di offensività dello scritto statuita dal Tribunale.
1.7. Con il settimo motivo, lamenta, exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazionedell’art. 1126 c.c., con riferimento alla liquidazione equitativa del danno, in totale assenza di prova.
1.8. Con l’ottavo motivo, exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deduce la violazionedell’art. 116 c.p.c., in relazione agliartt. 1126, 2046, 2048, 2059 c.c., edall’art. 594 c.p.: lamenta la mancata ammissione delle prove dedotte.
1.9. Con il nono motivo, infine, exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente contesta la violazionedell’art. 91 c.p.c., con riferimento alla condanna alle spese di cui chiede la riforma, in vista dell’accoglimento del ricorso.
Sul ricorso incidentale di D.B.F..
2. Con il primo motivo, exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente incidentale deduce la violazione e falsa applicazionedell’art. 100 c.c.,art. 2047 c.c., comma 2 eart. 2048 c.c.: contesta l’esistenza dell’ interesse ad agire della M. nei suoi confronti, visto che era stata ritenuta la sussistenza del presupposto di cuiall’art. 2048 c.c., per il quale era sufficiente la vocatio in ius dei genitori; lamenta, inoltre, la violazionedell’art. 2047 c.c., comma 1, perchè la domanda di indennità prevista dalla norma non poteva ritenersi implicitamente ricompresa nella domanda di risarcimento nè poteva intendersi proposta in difetto dell’esperimento dell’azione risarcitoria di cui alla norma testè richiamata.
2.1. Con il secondo motivo, deduce, exart. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazionedell’art. 132 c.p.c., nn. 3 e 4: contesta l’impostazione logica della motivazione che aveva dapprima esaminato la sua capacità di intendere e di volere con riferimento al fatto e solo dopo gli aveva attribuito la materiale responsabilità di esso.
2.3. Con il terzo ed il quarto motivo, lamenta, exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazionedell’art. 2697 c.c.,art. 115 c.p.c.e D.P.R. n. 488 del 1988, art. 10, anche in relazione agliartt. 40, 43 e 594 c.p.c., nonché ex art. 360, nn. 3 e 4, la violazione dell’art. 132, n. 4 e del D.P.R. n. 488 del 1988, art. 10: si duole, ricalcando il terzo motivo del ricorso principale, del fatto che il Tribunale aveva reso una motivazione apparente, in quanto non aveva compiutamente indicato gli elementi in base ai quali aveva ritenuto che fosse stato proprio lui l’autore del fatto.
2.4. Con il quinto motivo, deduce la violazionedell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione degliartt. 2046 e 2697 c.c.edell’art. 115 c.p.c.: contesta la valutazione del giudice d’appello concernente la sussistenza della sua capacità di intendere e di volere, in assenza di prova e senza alcuna indagine sull’elemento psicologico del reato.
2.5. Con il sesto motivo, lamenta exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’artt. 2059, 2697, 2729, 115 e 132 c.p.c., anche in relazioneall’art. 594 c.c.: assume la totale assenza di valutazione circa la concreta offensività dello scritto ed assume che il Tribunale aveva statuito sul punto sulla base di un “fatto notorio”.
2.6. Con il settimo motivo, deduce exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazioneart. 116 c.p.c., in relazione agliartt. 2046, 2048, 2059 c.c.edall’art. 594 c.p.: assume che l’affermazione di responsabilità a suo carico era stata fondata non su elementi concreti ma sulla base di un apprezzamento discrezionale ed opinabile.
2.7 Con l’ottavo motivo, infine, lamenta, exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazionedell’art. 91 c.p.c., in relazione alla liquidazione delle spese a suo carico, non essendo stata avanzata alcuna domanda nei suoi confronti in relazione alla quale potesse essere valutato il principio di soccombenza.
3. Deve essere preliminarmente esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso incidentale per tardività, sollevata dalla controricorrente M. che, ritenendo che l’impugnazione di D.B.F. abbia natura adesiva, assume che l’ordinario termine per la proposizione del ricorso sarebbe spirato, essendo stato notificato il 5.12.2016, a fronte del passaggio in giudicato della sentenza in data 31.10.2016.
3.1. Il rilievo è fondato.
Il ricorrente incidentale, infatti, con il primo motivo contesta la propria legittimazione passiva, assumendo che la M. non aveva interesse ad agire nei suoi confronti, visto che l’azione, ricondotta dal Tribunaleall’art. 2048 c.c., legittimava passivamente solo i suoi genitori; e con gli altri motivi proposti aderisce espressamente alle critiche avanzate dal padre nel ricorso principale, di cui ricalca integralmente i contenuti.
Conseguentemente, deve desumersi che il suo interesse all’impugnazione non sia sorta per effetto del ricorso principale ma abbia natura autonoma.
Il ricorso incidentale doveva, quindi, essere proposto entro il termine di decadenza ordinario, non ricorrendo l’ipotesi di cuiall’art. 334 c.p.c..
3.2. Questa Corte ha affermato, sulla specifica questione, che “le regole sull’impugnazione tardiva, sia ai sensidell’art. 334 c.p.c., che in base al combinato disposto di cui agliartt. 370 e 371 c.p.c., si applicano esclusivamente a quella incidentale in senso stretto e, cioè, proveniente dalla parte contro cui è stata proposta l’impugnazione, mentre per il ricorso di una parte che abbia contenuto adesivo a quello principale si deve osservare la disciplinadell’art. 325 c.p.c., cui è altrettanto soggetto qualsiasi ricorso successivo al primo che abbia valenza d’impugnazione incidentale qualora investa un capo della sentenza non impugnato o lo investa per motivi diversi da quelli fatti valere con il ricorso principale (cfr. Cass. 20040/2015); ed, ancora, che “l’impugnazione incidentale tardiva, da qualunque parte provenga, va dichiarata inammissibile laddove l’interesse alla sua proposizione non possa ritenersi insorto per effetto dell’impugnazione principale” (cfr. Cass. 12387/2016; Cass. 6156/2018).
3.3. Il Collegio intende dare seguito all’orientamento sopra riportato, con la conseguenza che il ricorso incidentale deve essere dichiarato inammissibile.
4. In ordine all’impugnazione principale si osserva che i primi tre motivi proposti devono essere congiuntamente esaminati per la stretta connessione logica e la sostanziale sovrapponibilità di molti argomenti prospettati.
Con essi il ricorrente contesta, deducendo in primis la nullità della motivazione (cfr. il richiamo all’art. 360, comma 1, n. 4, contenuto nel primo e nel terzo motivo), l’illogico percorso argomentativo del giudice d’appello e l’omessa rivalutazione delle emergenze processuali, sia in ordine all’ascrivibilità al figlio F. (allora minore) dell’evento dannoso, sia in ordine all’esistenza di validi e concreti elementi che potessero essere contrapposti alle valutazioni, sostenute dalle relazioni dei servizi sociali e dalle certificazioni mediche, del Tribunale per i Minorenni e del giudice di pace che si era pronunciato in sede civile in primo grado, affermando entrambi la sua incapacità di intendere e di volere al momento del fatto.
4.1. Tutti e tre i motivi sono infondati.
Il ricorrente, infatti, non ha colto la ratio decidendi della pronuncia impugnata che, con motivazione sintetica ma sufficiente, ha affermato che il fatto per il quale era stata avanzata la domanda risarcitoria riguardava la responsabilità dei genitori regolatadall’art. 2048 c.c., ed in particolare del padre convivente con il figlio, tenuto conto della sicura ascrivibilità al minore F. di una condotta ingiuriosa, caratterizzata da disvalore sociale.
4.2. Il Tribunale ha applicato il principio secondo il quale, in sede civile, il giudice di merito ha il potere di rivalutare in piena autonomia il medesimo fatto già vagliato nella sede penale minorile, dove, notoriamente, è preclusa la costituzione di parte civile (cfr.D.P.R. n. 448 del 1988,art.10) e, conseguentemente, non è applicabile la previsionedell’art. 652 c.p.p., riguardante i rapporti fra giudizio penale e giudizio civile nelle cause in cui si controverta di risarcimento danni.
4.3. Al riguardo, questa Corte ha chiarito che “la sentenza penale di non luogo a procedere per concessione del perdono giudiziale nei confronti di imputato minorenne non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile risarcitorio, perché esula dalle ipotesi previste negliartt. 651 e 652 c.p.p., non suscettibili di applicazione analogica per il loro contenuto derogatorio del principio di autonomia e separazione tra giudizio penale e civile. Ne consegue che il giudizio civile deve interamente ed autonomamente rivalutare il fatto in contestazione, sebbene, nel rispetto del contraddittorio, possa tener conto di tutti gli elementi di prova acquisiti in sede penale, al fine di ritenere provato il nesso causale fra la condotta del minore e la lesione subita dall’attore (cfr. Cass. 24475/2014).
4.4. Il Tribunale ha fatto corretta applicazione dei principi sopra richiamati che possono certamente essere estesi al caso in esame in cui la dichiarazione di non doversi procedere è stata determinata dalla mancanza di imputabilità per incapacità di intendere e di volere di un soggetto ultraquattordicenne.
La motivazione criticata resiste, pertanto, alle censure proposte: il giudice d’appello, infatti, dopo aver precisato che la pronuncia del Tribunale per i Minorenni, pur non avendo efficacia di giudicato, è liberamente apprezzabile (cfr. pag. 9 della sentenza impugnata) afferma anche che “a fronte di precisi riferimenti contenuti nella sentenza e negli altri atti prodotti, le altre parti si sono limitate a contestazioni generiche in ordine ” alla sussistenza del fatto”; ed aggiunge che la stessa circostanza “che anche nel presente giudizio si continui a sminuire l’operato di D.B.F. definendolo una “goliardata” testimonia che, rispetto alla specifica condotta contestata, non vi è stata sufficiente educazione del figlio a concetti elementari quali quelli del rispetto del prossimo e dell’intima connessione fra i concetti di libertà e responsabilità” (cfr pag. 10 della sentenza) con ciò desumendo – con una motivazione che, sia pur sintetica, risulta essere logica ed al di sopra della sufficienza costituzionale – che non fosse stato messo in discussione neanche dal genitore che il figlio minore fosse l’autore del fatto dal quale erano derivate le richieste risarcitorie della M..
5. E, tanto premesso in ordine alle prime tre censure, si osserva che quelle formulate dal quarto all’ottavo motivo si risolvono in reiterate ed inammissibili richieste di rivalutazione di merito della controversia su questioni di fatto già vagliate dal giudice d’appello che ha reso una decisione supportata da argomentazioni congrue e logiche, sia in ordine all’imputabilità del minore (quarto motivo, in relazione al quale la sentenza argomenta a pag. 7 u. cpv, pag. 8 e pag. 9 primo cpv.), sia in relazione all’offensività della scritta ingiuriosa (sesto motivo, in relazione al quale cfr. pag. 11, primo, secondo e terzo cpv.), sia in ordine alla liquidazione equitativa del danno (settimo motivo, in relazione al quale cfr. pag. 11 quarto e quinto cpv.): quanto, poi, al quinto ed all’ottavo motivo, contenenti censure sulla mancata ed immotivata ammissione delle prove che secondo il ricorrente sono state ritenute “ingiustamente” superflue, si osserva che le doglianze violano il principio di autosufficienza regolatodall’art. 366 c.p.c., nn. 4 e 6, non essendo state specificamente indicate le richieste istruttorie che sarebbero state pretermesse dal giudice d’appello.
6. Infine il nono motivo (concernente la condanna alle spese di lite), condizionato all’esito degli altri, deve ritenersi logicamente assorbito.
7. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza del ricorrente principale e di quello incidentale.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile quello incidentale. Condanna il ricorrente principale e quello incidentale al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente M.B., spese che liquida, a carico di ciascuno, in Euro 1500,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso forfettario spese generali nella misura di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 28 novembre 2018.

Amministrazione di sostegno (nomina del difensore di fiducia dell’indagato/imputato amministrato nel processo penale)

Cass. pen. Sez. III, 25 gennaio 2018, n. 3659
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
P.R., n. (OMISSIS);
avverso la sentenza della Corte d’appello di TRIESTE in data 17/03/2016;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Scarcella Alessio;
udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa Filippi P., che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso;
udite, per le parti civili, le conclusioni del difensore, Avv. A. Verallo in sostituzione dell’Avv. C. Tapparo, che si è richiamato alle conclusioni scritte ed alla nota spese che deposita.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 17.03.2016, depositata in data 1.06.2016, la Corte d’appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza del tribunale di Udine del 21.07.2011, appellata dal P.G. presso la Corte d’appello, dichiarava il P. colpevole dei reati di violenza sessuale continuata ed aggravata ai danni di tre minori, due dei quali non avevano ancora compiuto all’epoca dei fatti gli anni dieci e, il terzo, non ancora quattordicenne, reati commessi secondo le modalità esecutive e spazio – temporali meglio descritte nei capi di imputazione, in relazione a fatti contestati come commessi in epoca antecedente e prossima al (OMISSIS) (capo a) e fino al (OMISSIS) (capo b), condannandolo alla pena di 4 anni di reclusione, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e dell’attenuante del vizio parziale di mente, dichiarate prevalenti sulle contestate aggravanti e ritenuta la continuazione tra gli episodi ascritti, oltre alle pene accessorie di legge ed al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.
2. Contro la sentenza emessa dalla Corte d’appello di Trieste ha proposto ricorso per cassazione il P., a mezzo del difensore di fiducia iscritto all’albo exart. 613 c.p.p., deducendo tre motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione exart. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cuiall’art. 606 c.p.p., lett. b) e c) per violazione di legge in relazione agliartt. 70 e 96 c.p.p., nonché in relazioneall’art. 24 Cost., e CEDU, art. 6.
In sintesi, sostiene la difesa del ricorrente che questi non avrebbe mai potuto nominare il proprio difensore di fiducia, in quanto il processo è iniziato in primo grado con la nomina a difensore dell’avv. F. Vespasiano, con mandato sottoscritto dall’amministratore di sostegno all’epoca nominato nel sig. Ma.Cl.; quest’ultimo era stato nominato in data (OMISSIS) e nel relativo verbale di nomina, si attribuiva all’amministratore di sostegno anche la facoltà di nominare un difensore a beneficio del ricorrente nell’odierno procedimento penale; sostiene la difesa del ricorrente che detto mandato abilitava l’amministratore di sostegno solo a concludere con un legale un contratto di difesa in tale procedimento penale, ma non avrebbe potuto autorizzarlo a sottoscrivere la nomina di un difensore in quel procedimento in luogo dell’amministrato; la nomina del difensore di fiducia, infatti, e la elezione di domicilio, costituiscono atti di natura personalissima dell’imputato, sicché, ove egli non sia in condizioni di effettuare consapevolmente la scelta, questi non avrebbe nemmeno potuto essere processato, sicché il processo avrebbe dovuto essere sospeso exart. 70 c.p.p.; in definitiva, sostiene la difesa del ricorrente, che ove si fosse accertato che difettavano le condizioni di partecipare scientemente al processo, quest’ultimo avrebbe dovuto essere sospeso, laddove, ove si fosse invece accertato che questi fosse stato capace, allora la nomina del difensore di fiducia avrebbe dovuto essere effettuata unicamente dall’imputato e non dall’amministratore di sostegno; ciò comporta, a giudizio della difesa, la radicale nullità di tutti gli atti processuali posti in essere successivamente alla “nomina”, ivi inclusa la sentenza impugnata, violandosi anche la CEDU, art. 6, per essere stato privato della facoltà di scegliersi un proprio difensore di fiducia, atteso che, ove tale diritto fosse stato esercitato personalmente, il processo avrebbe potuto avere altra istruttoria ed altri esiti.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cuiall’art. 606 c.p.p., lett. c), per violazione di legge in relazioneall’art. 157 c.p.p..
In sintesi, sostiene la difesa del ricorrente che la citazione dell’imputato in grado di appello è stata notificata al domicilio eletto con la nomina a difensore sottoscritta dall’amministratore di sostegno di allora; essendo illegittimo, per le ragioni indicate al primo motivo, il mandato rilasciato all’Avv. Vespasiano, in cui era indicata anche l’elezione di domicilio, quest’ultima non potrebbe avere alcuna efficacia, con conseguente nullità delle notifiche eseguite ai sensidell’art. 157 c.p.p., comma 8-bis.
2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di cuiall’art. 606 c.p.p., lett. b) e c), per violazione di legge in relazione agliartt. 96 e 97 c.p.p., eart. 24 Cost..
In sintesi, sostiene la difesa del ricorrente che attesa la dichiarazione di rinuncia al mandato dell’Avv. F. Vespasiano, il Presidente della Corte d’appello aveva provveduto a nominare quale nuovo difensore d’ufficio l’Avv. M. Perna, mai presentatosi ad alcuna delle udienze in cui si era celebrato il processo di appello; in tal fase processuale, si era altresì disposta la rinnovazione dell’istruttoria con l’ammissione di una perizia, svolgendosi anche una serie di udienze, a nessuna delle quali ha mai partecipato l’avvocato nominato d’ufficio; si sostiene che la Corte d’appello avrebbe dovuto nominare un difensore d’ufficio “stabile ed efficiente”, sostituendo quello nominato e rimasto sempre assente, in quanto il motivo di sostituzione era ampiamente giustificato.
Motivi della decisione
3. Premessa la ritualità dell’avviso dell’odierna udienza al difensore fiduciario, eseguita nei termini, con l’indicazione del r.g. impugnazione davanti a questa Corte nonché con l’indicazione degli estremi della sentenza impugnata (ciò che rende irrilevante l’indicazione erronea nell’avviso del cognome dell’imputato come Pu. anziché P.), osserva il Collegio che il ricorso, con cui si svolgono esclusivamente censure afferenti alla violazione della legge processuale, è infondato e dev’essere rigettato.
4. La questione giuridica su cui il Collegio è chiamato a pronunciarsi è se l’imputato, assistito da un amministratore di sostegno, conservi – in presenza di un decreto del giudice tutelare che autorizzi l’amministratore di sostegno a nominare un difensore ad assisterlo in un determinato procedimento penale in cui l’amministrato è sottoposto – il proprio diritto di nomina del difensore di fiducia, ove, a tal uopo, vi abbia provveduto, in forza dell’autorizzazione del giudice, l’amministratore di sostegno; la soluzione di tale questione, ovviamente, riflette le proprie conseguenze anche sulla ritualità della notifica eseguita al domicilio eletto presso il difensore fiduciario nominato dall’amministratore di sostegno.
La questione dev’essere risolta negativamente.
5. Al fine di rendere intelligibile la soluzione cui è pervenuto il Collegio, si osserva. L’amministrazione di sostegno – introdotta nell’ordinamento dallaL. 9 gennaio 2004, n. 6,art.3- ha la finalità di offrire a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali l’interdizione e l’inabilitazione, non soppressi, ma solo modificati dalla stessa legge attraverso la novellazione degliartt. 414 e 427 c.c..Rispetto ai predetti istituti, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa. Appartiene all’apprezzamento del giudice di merito la valutazione della conformità di tale misura alle suindicate esigenze, tenuto conto essenzialmente del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario e considerate anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell’impedimento, nonchè tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie (Cass. Civ. Sez. 1, Sentenza n. 22332 del 26/10/2011, Rv. 619848).
6. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 440/2005, ha avuto, in particolare, modo di chiarire che “la complessiva disciplina inserita dallaL. n. 6 del 2004sulle preesistenti norme del codice civile affida al giudice il compito di individuare l’istituto che, da un lato, garantisca all’incapace la tutela più adeguata alla fattispecie e, dall’altro, limiti nella minore misura possibile la sua capacità; e consente, ove la scelta cada sull’amministrazione di sostegno, che l’ambito dei poteri dell’amministratore sia puntualmente correlato alle caratteristiche del caso concreto. Solo se non ravvisi interventi di sostegno idonei ad assicurare all’incapace siffatta protezione, il giudice può ricorrere alle ben più invasive misure dell’inabilitazione o dell’interdizione, che attribuiscono uno status di incapacità, estesa per l’inabilitato agli atti di straordinaria amministrazione e per l’interdetto anche a quelli di amministrazione ordinaria”.
7. La persona beneficiaria non è, quindi, considerata dal legislatore incapace di intendere e di volere, essendo estranee in linea di principio all’istituto dell’amministrazione di sostegno specifiche situazioni di infermità mentale che rendano la persona totalmente incapace.
L’art. 409 c.c., ha, infatti, cura di precisare che il beneficiario “conserva” la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno. Questo significa che la capacità di agire residua della persona con disabilità consta di una semplice “limitazione”, escludendosi dalla stessa solamente gli atti che, a tenore di decreto, possono essere compiuti unicamente dall’amministratore di sostegno. In ogni caso, la nomina dell’amministratore di sostegno non richiude il beneficiario nello status di amministrato di sostegno.
8. E’ opportuno osservare che la valutazione della congruità e conformità del contenuto dell’amministrazione di sostegno alle specifiche esigenze del beneficiario appartiene all’apprezzamento del giudice il quale deve tenere conto essenzialmente del tipo di attività che deve essere compiuta per conto dell’interessato, della gravità e durata della malattia o della situazione di bisogno in cui versa l’interessato, nonché di tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie (v. Cass. Civ. nn. 13584/2006, 22332/2011); fermo restando che l’ambito dei poteri dell’amministratore deve puntualmente correlarsi alle caratteristiche del caso concreto (v. Corte cost. n. 440/2005 cit.).
Vi è, quindi, un onere di valutare l’eventuale conformità dell’amministrazione di sostegno alle esigenze del destinatario, alla stregua della peculiare flessibilità del nuovo istituto, della maggiore agilità della relativa procedura applicativa, nonché della complessiva condizione psico-fisica del soggetto e di tutte le circostanze caratterizzanti il caso di specie.
9. Dal momento che l’amministratore di sostegno può essere autorizzato al compimento di atti sia in rappresentanza esclusiva del soggetto sia in sua assistenza, non può, invero, non considerarsi che nella fattispecie in esame, secondo quanto si evince dal verbale di giuramento dell’allora amministratore di sostegno, Ma.Cl., formato in data (OMISSIS), che, a parte alcune attribuzioni che esulano dal procedimento conclusosi con la condanna dell’attuale ricorrente, all’amministratore di sostegno era stata, specificamente, attribuita “la facoltà di conferire mandato a difesa per rappresentanza penale del beneficiario nel procedimento penale n. 2025/08 r.g.n.r. della Procura della Repubblica di Udine e/o nomina di periti per difesa”.
Il difensore di fiducia del ricorrente (che anche in questa fase di legittimità è stato nominato dall’amministratore di sostegno, giusta quanto disposto dal giudice tutelare del tribunale di Udienza che, con decreto del 22.07.2016, autorizzava con efficacia immediata l’amministratore di sostegno succeduto, Avv. Me., a nominare all’amministrato un difensore di fiducia per questa fase di legittimità nell’avv. Missera, sottoscrittore del ricorso unitamente all’imputato ed all’amministratore di sostegno, non svolge tuttavia censure avverso il provvedimento con cui il (OMISSIS) all’allora amministratore di sostegno venne conferita la facoltà di nominare un difensore fiduciario all’amministrato (né documenta eventuali impugnazioni avverso detto decreto di nomina, essendo noto che l’art. 720 bis c.p.c., commi 2 e 3, prevedono, in materia di amministrazione di sostegno, un sistema di impugnazioni articolato su due rimedi: precisamente, il decreto del giudice tutelare è reclamabile davanti alla corte d’appello ai sensidell’art. 739 c.p.c.; il decreto con cui la corte d’appello decide sul reclamo è a sua volta ricorribile in cassazione, così come stabilisce lo stesso art. 720 bis c.p.c., u.c.). Né, del resto, questa Corte, in considerazione del proprio, limitato, ambito cognitivo in questa sede di legittimità, può spingersi sino a sindacare tale provvedimento autorizzativo (come non potrebbe farlo con quello che in data (OMISSIS) ha consentito la nomina fiduciaria al nuovo amministratore di sostegno), trattandosi di valutazione di esclusiva spettanza del giudice tutelare cui, come già detto in precedenza, compete di conformare i poteri dell’amministratore e le limitazioni da imporre alla capacità del beneficiario in funzione delle esigenze di protezione della persona e di gestione dei suoi interessi patrimoniali, ricorrendo eventualmente all’ausilio di esperti e qualificati professionisti del settore (v., in termini: Sez. 1, Sentenza n. 17962 del 11/09/2015, Rv. 637102 – 01).
10. Alla luce di quanto sopra, dunque, essendo stato autorizzato dal giudice tutelare l’amministratore di sostegno dell’epoca alla nomina di un difensore fiduciario per il procedimento penale in questione, del tutto legittima era stata l’investitura quale difensore di fiducia del ricorrente dell’Avv. F. Vespasiano, che ha provveduto ad assisterlo giudizialmente in quel processo. Nessuna violazione del diritto di difesa può dirsi dunque intervenuta, né tantomeno della norma processuale evocata (art. 96 c.p.p.).E’ ben vero che il diritto di nominare un difensore è strettamente personale e riservato al solo imputato (o indagato), salvo quanto eccezionalmente previstodall’art. 96 c.p.p., comma 3, ove si configura un’ipotesi di legittimazione alla designazione fiduciaria in capo a soggetti diversi dal diretto interessato. L’interposizione dei prossimi congiunti nell’atto di nomina del patrocinatore del soggetto arrestato, fermato o in stato di custodia cautelare, risulta contemplata sia al fine di sopperire alle difficoltà pratiche che la persona in vinculis può incontrare nell’individuazione di un legale di fiducia, sia per scongiurare possibili suggerimenti o condizionamenti (Rei. testo def., 175).
La disciplina processuale dettatadall’art. 96 c.p.p., tuttavia, dev’essere contemperata con la disciplina civilistica dettata in relazione alla particolare figura del soggetto “amministrato” e, in particolare, in ossequio alle disposizioni previste dagliartt. 412 e 413 c.c..Dette disposizioni, infatti, confermano il regime di protezione dianzi delineato per evitare che il beneficiario danneggi sé stesso con atti che non passino per il filtro dell’amministrazione di sostegno e l’autorizzazione del Giudice tutelare. Nella specie, dunque, il giudizio preventivo svolto dal giudice tutelare, tenuto conto del grado di “capacità” dell’amministrato-imputato, era stato espresso nel senso di conformare i poteri dell’amministratore attribuendogli espressamente la facoltà di nominare un difensore fiduciario all’amministrato nel presente procedimento, in quanto ritenuto necessario in relazione alla capacità del beneficiario in funzione delle esigenze di protezione di quest’ultimo, garantendogli una scelta del professionista maggiormente idoneo a curarne gli interessi nel processo penale, come avvenuto del resto nel corso del giudizio.
Non può quindi ritenersi violato nél’art. 96 c.p.p., nél’art. 24 Cost., né la CEDU, art. 6. A tal ultimo proposito, va del resto ricordato che è la stessa Corte Costituzionale ad aver delimitato il diritto all’assistenza di un difensore di propria scelta, riconosciuto dalle disposizioni pattizie (CEDU, art. 6, lett. c), e Patto ONU, art. 14, lett. d), affermando che “né la legge processuale né, tantomeno la Costituzione assicurano incondizionatamente all’imputato il diritto ad essere assistito da un determinato difensore: se ciò fosse, non potrebbe mai farsi ricorso…alla sostituzione del difensore non comparso” (Corte Cost., sentenza 31 maggio 1996, n. 175).
11. Deve, pertanto, essere affermato il seguente principio di diritto:
“In tema di nomina del difensore fiduciario, ove l’indagato (o l’imputato) sia sottoposto all’istituto dell’amministrazione di sostegno, ove la nomina del difensore di fiducia venga effettuata dall’amministratore dell’imputato espressamente autorizzato in tal senso dal giudice tutelare, non sussiste alcuna violazione del diritto di difesa; ne consegue che, competendo al giudice tutelare conformare i poteri dell’amministratore, eventualmente attribuendogli espressamente la facoltà di nominare un difensore fiduciario all’amministrato nel processo penale ove ritenuto necessario in relazione alla capacità del beneficiario in funzione delle esigenze di protezione di quest’ultimo, la nomina fiduciaria eseguita dall’amministratore garantisce al beneficiario la scelta del professionista maggiormente idoneo a curarne gli interessi nel processo”.
12. Né, peraltro, può ritenersi che sia stata violata la previsionedell’art. 70 c.p.p..
Ed infatti, si è già chiarito supra che la persona beneficiaria dell’amministrazione di sostegno non è considerata dal legislatore incapace di intendere e di volere, essendo estranee in linea di principio all’istituto dell’amministrazione di sostegno specifiche situazioni di infermità mentale che rendano la persona totalmente incapace. La capacità processuale dell’imputato consiste nella partecipazione cosciente, cioè nella percezione da parte dello stesso del senso degli avvenimenti in corso, del fatto oggetto del processo, e delle conseguenze dell’eventuale assoluzione o condanna. Si tratta di situazioni (imputabilità exart. 85 c.p., capacità/incapacità di partecipare al processo penale exart. 70 c.p.p.) del tutto distinte ed autonome l’una dall’altra (si veda, ad Sez. 1, n. 1381 del 06/03/1995 – dep. 17/05/1995, Insana, Rv. 201279; Sez. 3, n. 23215 del 26/03/2003 – dep. 27/05/2003, PM in proc. Cusano, Rv. 225375). Si tratta di stati soggettivi accomunati dall’infermità mentale, ma che operano su piani diversi e con finalità diverse che, per quanto riguardal’art. 70 c.p.p., sono la possibilità di autodifesa quale garanzia del giusto processo presidiatadall’art. 24 Cost..Da qui, dunque, la conseguenza che solo una volta che sia stata accertata l’incapacità dell’imputato di partecipare coscientemente al processo, il giudice deve disporre, ai sensidell’art. 71 c.p.p., la sospensione del processo (sempre che l’imputato non debba essere prosciolto o non debba essere pronunziata sentenza di non doversi procedere: v., Sez. 5, n. 47455 del 17/11/2004 – dep. 07/12/2004, P.M. in proc. Velardinelli, Rv. 230418). Ne discende, dunque, l’erroneità del presupposto interpretativo da cui muove la difesa del ricorrente-amministrato nel caso in esame, in quanto la circostanza che la nomina fiduciaria fosse stata eseguita dall’amministratore di sostegno in luogo dell’amministrato-imputato, non determinava automaticamente la incapacità processuale di quest’ultimo, essendo del resto facoltizzato il giudice (“se occorre”, recital’art. 70 c.p.p., comma 1) a disporre anche di ufficio, perizia solo quando “vi è ragione di ritenere che, per infermità mentale (sopravvenuta al fatto: v. Corte cost., sentenza 7-20 luglio 1992, n. 340, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente comma, limitatamente alle predette parole), l’imputato non è in grado di partecipare coscientemente al processo”. Ciò significa che, non essendo stata tale incapacità processuale evocata nel giudizio di merito – e nessun elemento la difesa del ricorrente documenta a sostegno di tale assunto – la relativa doglianza, in sede di legittimità, oltre che generica, si appalesa infondata in quanto basata su una mera “supposizione”, non provata, dell’esistenza di tale stato di incapacità processuale (ciò, del resto, lo si evince anche dal tenore dell’impugnazione, in cui – v. pag. 3 – la difesa del ricorrente afferma “qualora si fosse accertato che mancavano le condizioni di “partecipare scientemente al processo”, lo stesso andava sospeso”, con ciò esprimendo una mera ipotesi, non supportata dal alcun elemento).
13. Deve, quindi, essere affermato il seguente principio di diritto:
“La semplice sottoposizione dell’imputato all’istituto dell’amministrazione di sostegno non determina automaticamente l’incapacità del medesimo a partecipare scientemente al processo (art. 70 c.p.p.), atteso che quest’ultima è diversamente disciplinata rispetto alla mancanza di imputabilità (art. 86 c.p.p.) costituendo stati soggettivi che, pur accomunati dall’infermità mentale, operano su piani del tutto diversi e autonomi: ne consegue che, solo ove sia stata in concreto accertata l’incapacità dell’imputato-amministrato di partecipare coscientemente al processo, il giudice è tenuto disporre, ai sensidell’art. 71 c.p.p., la sospensione del processo”.
14. Non miglior sorte merita il secondo motivo, con cui si deduce la violazionedell’art. 157 c.p.p., per la notifica della citazione per il giudizio d’appello, domicilio eletto presso il difensore fiduciario nominato dall’amministratore di sostegno dell’epoca.
Accertata la ritualità e la legittimità della nomina fiduciaria per le ragioni esposte in precedenza, perde infatti di spessore argomentativo quanto sostenuto dalla difesa del ricorrente-amministrato, circa la presunta nullità della notifica.
Deve, peraltro, aggiungersi che la correttezza di tale assunto e confortata anche dalla lettura data ad una questione analoga da parte della Corte costituzionale. Per inquadrare correttamente la vicenda giurisdizionale presupposta occorre infatti richiamare i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza 11 marzo 2009, n. 116, nella quale veniva esaminata la questione di legittimità costituzionaledell’art. 166 c.p.p., sollevata dal Tribunale di Trieste, con ordinanza emessa il 21/05/2008, in riferimentoall’art. 3 Cost., eart. 111 Cost., commi 1 e 3, nella parte in cui la norma censurata non prevedeva che le notifiche ai soggetti sottoposti ad amministrazione di sostegno venissero effettuate nei confronti dell’amministratore nominato (cfr. C. cost., n. 116 dell’11/03/2009, in C.E.D. Cass., n. 33351).
Secondo il Tribunale di Trieste, la disciplina dell’amministrazione di sostegno, introdotta dallaL. 9 gennaio 2004, n. 6, non era qualitativamente diversa dagli strumenti approntati dal codice civile in materia di sostegno a soggetti deboli, quale l’interdizione e l’inabilitazione, in ragione del fatto che la differenza tra tali istituti non si fondava sulla gravità dell’infermità mentale del soggetto assistito. Ne conseguiva che la limitazione operatadall’art. 166 c.p.p., ai soli casi di interdizione e inabilitazione, con riferimento all’assistenza del soggetto processuale debole nella fase della notificazione, si poneva in contrasto con i principi affermatinell’artt. 3 Cost., eart. 111 Cost., commi 1 e 3.
Alla questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Trieste la Corte costituzionale rispondeva negativamente, affermando un principio di carattere generale, applicabile alle ipotesi di notifiche eseguite nei confronti di soggetti processuali deboli, che deve ritenersi estensibile al caso di specie, individuandosi, con la pronunzia richiamata, i parametri in base ai quali devono essere effettuate le notifiche nei confronti degli imputati interdetti o inabilitati. Con la sentenza n. 116 del 2009, la Corte costituzionale, con specifico riferimento alla posizione del soggetto sottoposto ad amministrazione di sostegno, affermava la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionaledell’art. 166 c.p.p., censurato in riferimentoall’artt. 3 Cost., eart. 111 Cost., commi 1 e 3, nella parte in cui non prevedeva che le notifiche ai soggetti sottoposti ad amministrazione di sostegno siano effettuate “all’amministratore nominato, contrariamente a quanto sarebbe previsto per il tutore dell’interdetto e il curatore dell’inabilitato” (cfr. C. cost., n. 116 dell’11/03/2009, cit.).
Nel valutare la doglianza in esame, invero, occorre tenere presente, nel rispetto di quanto affermato dalla Corte costituzionale (cfr. C. cost., n. 116 dell’11/03/2009, cit.), che se è certamente vero che la disposizionedell’art. 166 c.p.p., prevede, per l’imputato interdetto, la notificazione degli atti processuali nei confronti del suo tutore, tale norma non prende affatto in considerazione l’ipotesi dell’amministrazione di sostegno, in cui versa l’attuale ricorrente, della quale, difatti, la giurisprudenza di questa Corte non si è mai espressamente occupata (si v., da ultimo, con riferimento al soggetto inabilitato: Sez. 1, n. 18141 del 22/03/2017 – dep. 10/04/2017, G, Rv. 269636).
In ipotesi di questo genere, si prevede solamente che, nel caso in cui il processo penale venga sospeso dal giudice perché lo stato mentale dell’imputato è tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento, ai sensidell’art. 71 c.p.p., comma 1, le notificazioni debbano essere effettuate anche al curatore speciale nominato sulla base della stessa disposizione.
Pertanto, per potere effettuare le notifiche integrative previstedall’art. 166 c.p.p.(norma in astratto applicabile al caso di specie), occorre che l’imputato sottoposto ad amministratore di sostegno si trovi nelle condizioni di infermità mentale previstedall’art. 71 c.p.p., comma 1. In altri termini, il presupposto per l’esecuzione della notificazione integrativa previstadall’art. 166 c.p.p., per il curatore speciale dell’imputato sottoposto ad amministrazione di sostegno è costituito dall’esistenza di una condizione patologica tale da compromettere la sua partecipazione cosciente al processo penale che lo riguarda, dovendosi ribadire, in linea con quanto affermato dalla Corte costituzionale, che questa procedura comunicativa rafforzata presuppone in capo agli imputati (sia inabilitati che amministrati) che “il loro stato mentale sia tale da comprometterne effettivamente la loro piena e consapevole partecipazione al processo” (cfr. C. cost., n. 116 dell’11/03/2009, cit.).
Ne discende che, nel caso in esame, tenendo conto di tale principio e della condizione di amministrato del P., rispetto al quale non emergeva una condizione di infermità mentale rilevante ai sensidell’art. 71 c.p.p., comma 1, la notifica della citazione per il giudizio di appello al domicilio eletto presso il difensore di fiducia nominatogli dall’amministratore di sostegno era da considerarsi assolutamente rituale.
Questa ragione processuale impone di pervenire ad un giudizio di infondatezza anche per il secondo motivo di ricorso.
15. Deve, infine, esaminarsi l’ultimo motivo di ricorso, con cui si censura la nomina, quale difensore d’ufficio, a seguito della rinuncia al mandato da parte del difensore di fiducia, dell’Avv. M. Perna da parte del Presidente della Corte d’appello. Non essendosi mai presentato detto legale nel corso del giudizio di secondo grado, in cui si era svolta anche attività istruttoria exart. 603 c.p.p., ne sarebbe derivata una violazione del diritto di difesa, avendo presenziato alle udienze un sostituto volta per volta nominato exart. 97 c.p.p., comma 4. La Corte d’appello, in altri termini, avrebbe dovuto nominare un difensore d’ufficio “stabile ed efficiente”, sostituendo il legale nominato d’ufficio mai comparso.
Anche tale motivo è privo di pregio.
L’art. 97 c.p.p., infatti, prevede che “l’imputato che non ha nominato un difensore di fiducia o ne è rimasto privo è assistito da un difensore di ufficio”. La legge processuale non attribuisce alcuna facoltà discrezionale al giudice in tale nomina, ma prevede una ben determinata procedura, stabilendo al comma 2 della richiamata disposizione che “Il difensore d’ufficio nominato ai sensi del comma 1 è individuato nell’ambito degli iscritti all’elenco nazionale di cuiall’art. 29 disp. att. c.p.p..I Consigli dell’ordine circondariali di ciascun distretto di Corte d’appello predispongono, mediante un apposito ufficio centralizzato, l’elenco dei professionisti iscritti all’albo e facenti parte dell’elenco nazionale ai fini della nomina su richiesta dell’autorità giudiziaria e della polizia giudiziaria. Il Consiglio nazionale forense fissa, con cadenza annuale, i criteri generali per la nomina dei difensori d’ufficio sulla base della prossimità alla sede del procedimento e della reperibilità”.L’art. 97 c.p.p., comma 4, poi, con una disposizione di valenza generale (cioè applicabile tanto al difensore di fiducia che a quello di ufficio nominato a normadell’art. 97 c.p.p., commi 2 e 3), stabilisce poi che quando è richiesta la presenza del difensore e questi non è stato reperito, non è comparso o ha abbandonato la difesa, il giudice designa come sostituto un altro difensore immediatamente reperibile per il quale si applicano le disposizioni di cuiall’art. 102 c.p.p..Non va infine, trascurato che (art. 97 c.p.p., comma 5) il difensore di ufficio ha l’obbligo di prestare il patrocinio e può essere sostituito solo per giustificato motivo, cessando dalle sue funzioni (art. 97 c.p.p., comma 6) se viene nominato un difensore di fiducia.
16. Così richiamata la disciplina processuale vigente, deve rilevarsi l’assoluta ritualità della procedura seguita dalla Corte d’appello. Il Presidente della Corte, come riconosciuto dallo stesso difensore del ricorrente nell’atto di impugnazione, a seguito della rinuncia al mandato del difensore fiduciario, ha provveduto alla designazione di un nuovo difensore di ufficio nella persona dell’Avv. M. Perna; quest’ultimo, per quanto dedotto in ricorso, non si sarebbe mai presentato nel corso delle udienze tenutesi del giudizio di appello, così determinando la Corte territoriale alla nomina del “sostituto” ai sensi del richiamatoart. 97 c.p.p., comma 4.
La difesa del ricorrente si duole per non aver provveduto il giudice di merito alla nomina di un nuovo difensore d’ufficio che garantisse “stabilità ed efficienza”, ricorrendo le condizioni per la sua sostituzione. E’ ben vero, come anticipato, chel’art. 97 c.p.p., comma 5, dopo aver stabilito il principio che il difensore di ufficio ha l’obbligo di prestare il patrocinio, prevede anche la “possibilità” della sua sostituzione, condizionandola però all’esistenza di un “giustificato motivo”.
Alla locuzione “giustificato motivo” può, è vero, ricondursi il prolungato e persistente inadempimento ai doveri dell’ufficio, configurabile nella concreta mancata attivazione di alcuna incombenza difensiva (Sez. 1, n. 24582 del 28/05/2009 – dep. 15/06/2009, Adil e altro, Rv. 243820; Sez. 3, n. 25812 del 07/06/2005 – dep. 14/07/2005, Vitale, Rv. 231816; Sez. 1, n. 1616 del 02/12/2004 – dep. 20/01/2005, P.M. in proc. Abdellah, Rv. 230651; Sez. 3, n. 24334 del 11/05/2004 – dep. 28/05/2004, Fiderio, Rv. 228974; Sez. 2, n. 48238 del 20/11/2003 – dep. 17/12/2003, Palmieri, Rv. 227083; Sez. 2, n. 9815 del 05/12/2001 – dep. 11/03/2002, Lu Zhong Q, Rv. 221520; Sez. 5, n. 8002 del 19/05/1998 – dep. 07/07/1998, Bortolan A, Rv. 211483; Sez. 1, n. 6493 del 10/02/1998 – dep. 03/06/1998, Esposito G. e altri, Rv. 210759, ove si è precisato che in tali casi la sostituzione può avvenire anche attraverso un provvedimento implicito di dispensa dall’incarico, quale la nomina di un diverso difensore d’ufficio nel decreto di irreperibilità), spettando comunque al difensore, ricevuta la comunicazione relativa l’attribuzione dell’incarico, avvertire l’Autorità giudiziaria dell’impossibilità di adempiere all’incarico affinché la stessa provveda alla sostituzione (art. 30 disp. att. c.p.p.) nel rispetto dei turni di reperibilità predisposti.
Tuttavia, e ciò assume valenza dirimente nel caso in esame, il mancato esercizio della “facoltà” previstadall’art. 97 c.p.p., comma 5 (come desumibile dalla chiara indicazione “può essere sostituito”) non comporta alcuna conseguenza processuale, tant’è che la stessa giurisprudenza di questa Corte ha costantemente affermato che l’inosservanzadell’art. 97 c.p.p., comma 5 non dà luogo ad alcuna nullità (Sez. 6, n. 17554 del 26/04/2006 – dep. 22/05/2006, Di Carlo, Rv. 234507; Sez. 1, n. 4347 del 06/10/1994 – dep. 23/11/1994, Motisi, Rv. 199484), così come non si configura alcuna nullità nel caso di omessa indicazione, da parte del giudice, delle ragioni che hanno determinato la sostituzione, non prescrivendo la legge tale indicazione (Sez. 6, n. 4321 del 08/11/1994 – dep. 13/12/1994, Patanè, Rv. 199882).
17. Deve, quindi, essere ribadito il seguente principio di diritto:
“Il mancato esercizio da parte del giudice della facoltà di sostituire il difensore d’ufficio per giustificato motivo, previstadall’art. 97 c.p.p., comma 5, non comporta (come desumibile dalla chiara indicazione può essere sostituito) alcuna conseguenza processuale; ne consegue che l’inosservanza della predetta disposizione processuale non dà luogo ad alcuna nullità”.
18. Alla stregua di quanto sopra il ricorso deve essere, conclusivamente, rigettato con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al pagamento delle spese relative all’azione civile, liquidate in misura media in base ai criteri di cui alD.M. n. 55 del 2014per l’ammontare in dispositivo indicato.
19. Deve, infine, rilevarsi che, in caso di diffusione del presente provvedimento, devono essere omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma delD.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196,art.52, in quanto imposto dalla legge, trattandosi di violenza sessuale, peraltro a danno di minori.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili D.S.T. e S.P., nella qualità di esercenti la potestà genitoriale nei confronti dei figli minori S.G., S.C. e S.E., che liquida in Euro 4.500,00, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 14 novembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 25 gennaio 2018

ORDINI DI PROTEZIONE (in ambito civile)

Di Gianfranco Dosi

I Il quadro normativo
Si deve alla legge 4 aprile 2001, n. 154 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari)1 l’introduzione nel nostro ordinamento giuridico di specifici ordini di protezione contro gli abusi familiari disciplinati sul versante civile dal nuovo titolo IX bis del primo libro del codice civile (articoli 342 bis e 342 ter c.c.) e sul versante penale dalla misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis c.p.p.), cui si è aggiunta, con il decreto legge 23 febbraio 2009 n. 11, la misura del “divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa” (art. 282 ter c.p.p.).
L’art. 342 bis c.c. esplicita i presupposti per l’emissione degli ordini di protezione in ambito civile prevedendo (nel testo modificato dalla legge 6 novembre 2003, n. 3042) che “Quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente, il giudice, su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui all’articolo 342-ter”.
A sua volta l’art. 342 ter individua il contenuto degli ordini di protezione, la sua durata e le moda¬lità per la sua attuazione3.
1 Cfr il testo in appendice
2 La legge 304/2003 ha abolito la condizione di applicabilità della misura civile, prevista nel testo originario dell’art 342, che la condotta non costituisse reato procedibile di ufficio.
3 Art. 342-ter (Contenuto degli ordini di protezione)
Con il decreto di cui all’articolo 342-bis il giudice ordina al coniuge o convivente, che ha tenuto la condotta pre¬giudizievole, la cessazione della stessa condotta e dispone l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole prescrivendogli altresì, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall’istante, ed in particolare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d’ori¬gine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia, salvo che questi non debba frequentare i medesimi luoghi per esigenze di lavoro.

Statisticamente le misure civili hanno incontrato nella prassi meno fortuna rispetto alle misure cautelari penali di cui all’art. 282 bis c.p.p. (e 282 ter c.p.p. Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa) più largamente utilizzate, soprattutto negli ultimi anni, per il contrasto alla violenza soprattutto di genere. Tra le tante ragioni della miglior fortuna delle misure penali certamente vi è l’aumentata sensibilità, tempestività ed efficienza, rispetto al passato, del sistema penale a tutela delle vittime di abusi domestici.
II I presupposti per l’emanazione da parte del giudice civile degli ordini di protezione
Come si è detto, l’art. 342 bis c.c. consente l’emanazione in ambito civile delle misure di protezione previste nell’art. 342 ter c.c. quando “la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente”.
Originariamente, come si è sopra detto, il testo dell’art. 342 bis c.c. attribuiva competenza al giu¬dice civile solo nei casi in cui la condotta violenta non costituisse anche reato procedibile d’ufficio, così distribuendo in ambiti predeterminati la competenza tra il giudice civile e quello penale. L’art. 1 del decreto legge 6 novembre 2003, n. 304 ha abolito questa precisazione e di fatto quindi oggi la competenza del giudice civile costituisce una giurisdizione generale potendo portare all’emana¬zione di un ordine di protezione per ogni tipo di condotta. Si è creata, quindi, una sovrapposizione di competenze e di procedimenti (anche se, come si dirà, le misure penali subiscono il condiziona¬mento dei presupposti specifici di applicazione delle misure cautelari mentre in ambito civile non sussistono condizionamenti analoghi) che potrebbero portare in alcuni casi anche a sovrapposizione di provvedimenti.
La finalità della misura civilistica è, però, quella di reagire all’abuso familiare non nella prospettiva di una futura sanzione (come in ambito penale dove la misura cautelare si accompagna all’avvio di un procedimento penale) ma con un intervento che si esaurisce in una misura il più possibile rapida e in senso lato cautelare e preventiva che possa assicurare l’interruzione dell’abuso domestico e la riduzione dei rischi di reiterazione della violenza.
La natura in senso ampio cautelare è stata affermata da Cass. civ. Sez. I, 5 gennaio 2005, n. 208; Cass. civ. Sez. I, 15 gennaio 2007, n. 625; Trib. Bari 1 aprile 2008; Trib. Reggio Emilia, 10 maggio 2007; Trib. Padova, 31 maggio 2006; Trib. Terni, 26 settembre 2003; Trib. Bari, 18 luglio 2002; Trib. Napoli, 1 febbraio 2002 Trib. Bari, 11 dicembre 2001.
a) I presupposti oggettivi
Presupposto oggettivo dell’ordine di protezione civile è una condotta (commissiva4) che causa ad un’altra persona della famiglia “grave pregiudizio5 all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà”.
L’abuso familiare si connota quindi per queste semplici e ragionevoli caratteristiche oggettive. Deve trattarsi di una condotta che lede gravemente l’integrità fisica o morale o la libertà di un altro soggetto (non gli interessi patrimoniali). Nonostante la formulazione tutto sommato generica (con¬siderata la impossibilità di una elencazione tipica delle condotte), è chiaro dal testo della legge che non è sufficiente il pericolo di un pregiudizio, ma occorre che vi sia stato un grave pregiudizio (non un pregiudizio imminente o non attuale) ad uno dei tre beni giuridici indicati che sostanzialmente possono essere ricondotti alla lesione dei diritti della personalità. L’esclusione – stando al testo della norma – delle condotte che determinano solo un pericolo di pregiudizio costituisce certamente un limite della normativa dal momento che spesso proprio le condotte antecedenti, pur non causa di grave pregiudizio, possono essere considerate presagi del comportamento violento. Tuttavia bisogna prendere atto del testo abbastanza univoco della norma ed interpretarla in tal senso.
Certamente se la condotta integra gli estremi di un reato (minacce, percosse, lesioni gravi o gra¬vissime, mutilazioni, abbandono di incapaci; maltrattamenti, sequestro di persona, violenza priva¬ta) si è in presenza di una lesione dei diritti della persona tutelati dall’ordinamento che è possibile considerare in sé fonte di “grave pregiudizio”, a prescindere dal fatto che si tratti di reati per i quali il giudice penale possa emettere la misura cautelare prevista negli articoli 282 bis e 282 ter c.p.p. che presuppongono, una pena edittale superiore nel massimo ai tre anni di reclusione (art. 280 c.p.p.). Il giudice civile ha quindi competenza di fatto esclusiva per gli abusi domestici che, se
Il giudice può disporre, altresì, ove occorra l’intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di media¬zione familiare, nonché delle associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e l’accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati; il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dei provvedimenti di cui al primo comma, rimangono prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia versata direttamente all’avente diritto dal datore di lavoro dell’obbligato, detraendola dalla retribuzione allo stesso spettante.
Con il medesimo decreto il giudice, nei casi di cui ai precedenti commi, stabilisce la durata dell’ordine di pro¬tezione, che decorre dal giorno dell’avvenuta esecuzione dello stesso. Questa non può essere superiore ad un anno [all’origine “sei mesi”, portati ad un anno da una riforma del 2009] e può essere prorogata, su istanza di parte, soltanto se ricorrano gravi motivi per il tempo strettamente necessario.
Con il medesimo decreto il giudice determina le modalità di attuazione. Ove sorgano difficoltà o contestazioni in ordine all’esecuzione, lo stesso giudice provvede con decreto ad emanare i provvedimenti più opportuni per l’attuazione, ivi compreso l’ausilio della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario.
4 La grave trascuratezza e perfino la connivenza rispetto a condotte poste in essere da terze persone non appa¬iono riconducibili al tipo di condotta richiesto ai fini dell’emissione degli ordini di protezione.
5 L’espressione “grave pregiudizio” compare spesso nel primo libro del codice civile (per esempio art. 151, 330 c.c.).

connotati come reato, prevedono una pena detentiva più bassa, come per esempio le percosse o le lesioni lievi, non potendo in questi casi il giudice penale emettere la misura cautelare.
Secondo una decisione di merito (Trib. Trani, 17 gennaio 2004) non costituiscono comporta¬menti integranti grave pregiudizio le condotte scortesi, inurbane e irriguardose. L’ostilità, la fred¬dezza, la diffidenza di una persona verso un’altra per essere presupposto dell’ordine di protezione devono tradursi in condotte che causano grave pregiudizio, anche se isolate e non continuative. Hanno torto pertanto alcune isolate e lontane pronunce di merito (Trib. Trani, 12 ottobre 2001; Trib. Bari, 10 aprile 2004) che hanno ritenuto che soltanto le condotte abituali, e non quelle solate ed occasionali, possono essere poste a fondamento di una richiesta di un ordine di prote¬zione. Anche quindi condotte isolate, purché gravi, possono essere un presupposto dell’ordine di protezione (Trib. Palermo, 4 giugno 2001).
1. Il concetto di “integrità fisica” – come è stato ragionevolmente suggerito in dottrina – va con¬siderato come “integrità psicofisica”, essendo evidentemente impensabile che il legislatore abbia voluto escludere il danno all’integrità psichica. Si tratta di una semplice conseguenza del concetto unitario di salute a cui fa riferimento l’art. 32 della Costituzione. Spesso un referto medico po¬trebbe essere sufficiente per considerare esistente il danno all’integrità psicofisica della persona, ma non è escluso che la parte istante possa produrre altra documentazione specifica, come per esempio una consulenza medico legale più approfondita. Non sembra di dover escludere la possi¬bilità per il giudice di disporre anche una consulenza tecnica medico-legale, considerato che l’art. 336 bis c.p.c. – che disciplina il procedimento per l’emissione dell’ordine di protezione – prevede che “il giudice, sentite le parti, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione necessari” sebbene la norma individui poi solo specifiche “indagini sui redditi, sul tenore di vita e sul patrimonio personale e comune delle parti”. Gli obiettivi di tutela della persona e di contrasto alla violenza, così come il rito camerale previsto, inducono a ritenere esistenti poteri ufficiosi del giudice tesi all’accertamento della verità materiale.
2. La lesione dell’”integrità” morale presuppone una condotta lesiva della dignità e della reputa¬zione di una persona. Si tratta di condotte che possono essere lesive del diritto al nome, del diritto all’immagine, del diritto alla riservatezza. In concreto ben difficilmente queste condotte potranno essere oggetto di un ordine di protezione dal momento che il pregiudizio grave potrebbe essere difficile da accertare. In giurisprudenza è stata, per esempio, negata la tutela per difetto di prova della lesione dell’integrità morale a condotte quali i pedinamenti, i controlli telefonici, l’uso di epi¬teti dispregiativi (Trib. Bari, 18 luglio 2002; Trib. Bari, 10 aprile 2004).
3. Il grave pregiudizio alla libertà può essere ricondotto a comportamenti contro la libertà persona¬le, la libertà di corrispondenza, la libertà di circolazione, la libertà di manifestazione del pensiero, la libertà di religione, la libertà legata alla sessualità. Tutte condotte a cui spesso può accompa¬gnarsi comunque anche il grave pregiudizio alla integrità psicofisica.
A differenza di quanto avviene in ambito penale, né l’imputabilità, né l’elemento soggettivo del dolo, costituiscono, stando al dato normativo, un presupposto della condotta richiesta per l’emis¬sione di un ordine di protezione in ambito civile (che potrebbe, quindi, essere richiesto e ottenuto di fronte a condotte messe in atto da persona affetta da disturbi psichici). Viceversa, certamente e ragionevolmente l’esistenza di una causa di giustificazione (si pensi alla legittima difesa), esclu¬dendo l’antigiuridicità della condotta, escludono anche l’emissione dell’ordine di protezione.
b) I presupposti soggettivi
Volendo ora individuare quali sono i soggetti (autori o vittime) che la legge prende in considera¬zione ai fini dell’applicazione della normativi in tema di ordini di protezione, occorre precisare che la condotta in relazione alla quale si può chiedere al giudice l’ordine di protezione è quella com¬messa da un qualsiasi componente della comunità familiare nei confronti di un altro componente della comunità familiare stessa (secondo l’art. 342 bis c.c. dal “coniuge” o da “altro convivente”, in danno “dell’altro coniuge o convivente” e secondo l’art. 5 della legge 154/2001 nei casi in cui “la condotta pregiudizievole sia stata tenuta da altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente, ovvero nei confronti di altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente”.
L’ambito della tutela apprestata dalla normativa introdotta con la legge 4 aprile 2001, n. 154, è quindi la comunità familiare. Sia quella che nasce del matrimonio sia quella che costituisce la fami¬glia di fatto. Questo è stato certamente l’intendimento chiaro del legislatore che, appunto, ha qua¬lificato la legge come insieme di norme di contrasto alla violenza “nelle relazioni familiari”. Questo dato che sostanzialmente fa riferimento al nucleo familiare di persone coabitanti, si desume anche molto chiaramente dalla principale misura che è quella dell’allontanamento “dalla casa familiare”.
So capisce anche che ogni tipo di coabitazione familiare è rilevante ai fini dell’applicabilità della disciplina. D’altro lato l’espressione “casa familiare” – che indica il luogo in cui le persone legate da relazioni familiari abitano insieme – è adoperata proprio con riferimento ai procedimenti che si occupano della separazione della coppia coniugale o dei conviventi di fatto (eterosessuali o omosessuali). Nessun dubbio circa l’applicabilità anche alle unioni civili regolamentate dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154.
Per l’individuazione dell’estensione del concerto di ”relazioni familiari” tutelabili con le misure di protezione fondamentale, come si è detto, è l’art. 5 della legge (Pericolo determinato da altri fami¬liari), dove si prevede che “Le norme di cui alla presente legge si applicano, in quanto compatibili, anche nel caso in cui la condotta pregiudizievole sia stata tenuta da altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente, ovvero nei confronti di altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente”.
Si fa indubbiamente riferimento a tutti coloro che – oltre al coniuge o al convivente (anche se pro¬prietari dell’abitazione: Trib. La Spezia, 4 dicembre 2002) – compongono il nucleo familiare. Si pensi non solo ai figli (salvo quanto si dirà con riferimento ai figli minori) ma agli altri parenti o agli affini che vivono nel nucleo familiare (Cass. civ. Sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828).
In verità la clausola di compatibilità contenuta nella norma (“…si applicano, in quanto compatibi¬li…”) potrebbe consentire l’estensione della tutela al coniuge, al convivente, ai parenti e agli affini offerta dall’art. 342 ter c.c. anche oltre il vincolo di coabitazione, considerato che la misura dell’al¬lontanamento dalla casa familiare (comunque adottabile anche nel significato di “tenersi lontano dalla casa da cui ci si è allontanati”: Trib. Bologna, 25 maggio 2007, Tribunale Napoli, 19 dicembre 2007; Tribunale Padova, 31 maggio 2006 in un caso di conflittualità tra fratelli di cui uno si era già allontanato per timore dell’altro; Tribunale Bologna Sez. I, 22 marzo 2005) non è l’unica misura adottabile. Gli abusi familiari possono infatti continuare anche in seguito all’allontanamento da casa (spontaneo o forzato) dell’autore (Trib. Milano, 27 novembre 1992).
III Gli abusi familiari commessi da minori di età
Si è sopra detto che l’art. 5 della legge (Pericolo determinato da altri familiari) prevede l’applicabi¬lità delle norme sugli ordini di protezione, “in quanto compatibili, anche nel caso in cui la condotta pregiudizievole sia stata tenuta da altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente…”.
Tuttavia se l’autore della condotta è un soggetto minorenne (si pensi all’adolescente in condizione di grave conflitto con i genitori) devono trovare applicazione – secondo la tesi che qui si sostie¬ne – non le norme della legge 154/2001 ma le norme specifiche previste per i minorenni in sede penale e civile.
Pertanto in sede penale troveranno applicazione le sole misure cautelari previste nel DPR 22 set¬tembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati mi¬norenni) per il principio di tassatività indicato nell’art. 19 del DPR medesimo6 e quindi le “prescri¬zioni”, la “permanenza in casa”, il collocamento in comunità” e la custodia cautelare”: E’ evidente che queste ultime due misure, ove adottabili in relazione ai limiti di pena edittale prevista dalla legge, presuppongono di fatto l’allontanamento da casa del minore. Di per sé non è però prevista l’applicabilità della misura cautelare dell’ordine di allontanamento da casa. Se il fatto è commesso da persona minore dei quattrodici anni troveranno applicazione le specifiche misure di sicurezza previste per i minorenni.
In sede civile non è previsto uno specifico procedimento di contrasto al comportamento del minore che causa grave pregiudizio ad un familiare. Non troverà applicazione quindi il procedimento pre¬visto nell’art. 736 bis c.p.c. introdotto dalla legge 154/2001 (di contrario avviso Tribunale Mo¬dena, 30 maggio 2006). Sarà il tribunale per i minorenni che potrà intervenire ai sensi dell’art. 25 (competenza amministrativa) del R. Decreto 1404/1939 (istitutivo, appunto, del tribunale per i minorenni) a seguito del ricorso della vittima o del Pubblico ministero (allertato per esempio da una segnalazione dei servizi sociali). L’intervento – sostanzialmente civilistico deliberato in camera di consiglio – prevede il possibile affidamento del minore al servizio sociale, eventualmente con prescrizioni specifiche.
IV Gli abusi familiari commessi contro persone minori di età
L’art. 5 della legge 154/2001 prevede che le disposizioni sugli ordini di protezione trovano appli¬cazione anche nei casi in cui l’abuso è commesso in danno di persona diversa dal genitore o dal convivente e quindi per esempio in danno del figlio.
Problemi si pongono, però, se il figlio vittima della condotta violenta in famiglia è un minore. In tal caso si pone l’interrogativo se fare applicazione della disciplina che il nostro ordinamento prevede in caso di abusi sui minori in famiglia (articoli 330 e seguenti del codice civile) oppure se ritenere possibile anche l’applicazione delle disposizioni della legge 154/2001.
Occorre considerare che le norme (art. 330, 333 c.c.) che prevedono l’intervento del tribunale per i minorenni a tutela dei minori vittime di abusi della responsabilità genitoriale7 sono azionabili (ad
6 L’art. 19 prescrive che “Nei confronti dell’imputato minorenne non possono essere applicate misure cautelari personali diverse da quelle previste nel presente capo”.
7 Art. 330 (Decadenza dalla responsabilità genitoriale sui figli)
Il giudice può pronunziare la decadenza dalla responsabilità genitoriale quando il genitore viola o trascura i do¬veri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio.
In tale caso, per gravi motivi, il giudice può ordinare l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore.
Art. 333 (Condotta del genitore pregiudizievole ai figli)
Quando la condotta di uno o di entrambi i genitori non è tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza prevista dall’articolo 330, ma appare comunque pregiudizievole al figlio, il giudice, secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l’allontanamento di lui dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore.
Tali provvedimenti sono revocabili in qualsiasi momento.
8 Art. 336 (Procedimento)
I provvedimenti indicati negli articoli precedenti sono adottati su ricorso dell’altro genitore, dei parenti o del pubblico ministero e, quando si tratta di revocare deliberazioni anteriori, anche del genitore interessato.
Il tribunale provvede in camera di consiglio, assunte informazioni e sentito il pubblico ministero; dispone, inoltre, l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento. Nei casi in cui il provvedimento è richiesto contro il genitore, questi deve essere sentito.
In caso di urgente necessità il tribunale può adottare, anche d’ufficio, provvedimenti temporanei nell’interesse del figlio.
Per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti da un difensore.
9 E’ stata prospettata anche la tesi che con l’espressione “convivente” la legge abbia inteso riferirsi alla persona che convive con il figlio. In altre parole la norma consentirebbe l’allontanamento del genitore o di chi comunque, autore dell’abuso, convive con il figlio. Di fatto però non pare che questa ricostruzione possa dirsi sostanzialmen¬te diversa da quella sopra prospettata dal momento che il “convivente” del genitore è certamente anche di fatto convivente con il figlio.

istanza dei genitori, dei parenti o del pubblico ministero) anche quando l’abuso non è direttamente riferibile alla condotta commissiva dei genitori ma alla loro condotta omissiva, cioè al fatto che i genitori non sono in grado o in condizioni di contrastarlo. Pertanto l’utilizzazione del procedimento di volontaria giurisdizione previsto nell’art. 336 c.c.8 per le condotte indicate negli articoli 330 e 333 c.c., anziché quelle del procedimento di cui all’art. 736 bis c.p.c. introdotto dalla legge 154/2001, appare del tutto plausibile attesa la competenza per materia esclusiva del tribunale per i minorenni in materia di abusi nei confronti dei minori (art. 38 disposizioni di attuazione del codice civile).
È stata la legge 28 marzo 2001, n. 149 (di poco precedente alle legge 154/2001) ad additare questa soluzione allorché ha modificato gli ultimi commi dell’art. 333 c.c. (condotta del genitore pregiudizie¬vole ai figli) e dell’art. 330 c.c. (Decadenza dalla responsabilità genitoriale sui figli). Il testo vigente delle norme, dopo queste modifiche, prescrive che in caso, appunto, di condotte pregiudizievoli commesse in danno dei figli minori, il giudice può anche disporre “l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore”. Per convivente si intende la persona che convive con il genitore del minore (more uxorio come nuovo partner o come coniuge nella famiglia ricomposta)9. L’ordine di allontanamento in tal caso è rivolto al genitore ovvero al convivente (more uxorio del genitore) che maltrattta o abusa del minore. Naturalmente l’allontanamento appare condizionato al fatto che in casa con il minore possa poi restare un altro componente del nucleo familiare.
Si deve considerare che prima di tali modifiche le due norme prevedevano irragionevolmente la possibilità per il giudice di disporre il solo “allontanamento del minore dalla residenza familiare”. La tutela del minore si realizzava, insomma, allontanandolo da casa!
In ogni caso, certamente il tribunale per i minorenni nell’esercizio del potere di individuare l’inter¬vento di protezione più adeguato per il minore, può senz’altro fare anche riferimento oltre che alla misura dell’allontanamento dell’adulto abusante, alle misure indicate nell’art. 342 ter c.c. ulteriori rispetto all’ordine di allontanamento dell’autore dell’abuso (Trib. Min. Milano, 20 giugno 2001 che ha ritenuto applicabili per analogia tutte le specifiche misure indicate nell’art. 342 ter c.c.).
Non è condivisibile la posizione assunta da Tribunale Piacenza, 23 ottobre 2008 che ha ritenu¬to sovrapponibili i due procedimenti affermando , in un caso di violenza assistita, la competenza del giudice civile monocratico ad ordinare al padre, a sensi degli artt. 342-bis e 342-ter c.c., di versare periodicamente una somma per il mantenimento del figlio “atteso il difetto di coordina¬mento in proposito tra la disciplina degli artt. 342-bis e 342-ter c.c. (quali introdotti dalla legge n. 154/2001) e gli artt. 330 e 333 c.c., così come modificati dalla legge n. 149/2001. Altro giudice (Tribunale Reggio Emilia, 10 maggio 2007) ha comunque espresso una opinione contraria ritenendo le competenze del giudice civile concorrenti con quelle del tribunale per i minorenni.
La soluzione che qui si prospetta è quindi quella di considerare competente all’adozione di misure di protezione di un minore di età il tribunale per i minorenni (ai sensi delle norme di cui agli articoli 330 e 333 c.c. aventi come presupposto o la condotta commissiva o quella omissiva dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale) e non il giudice civile ordinario monocratico (indicato nella legge 154/2001 che presupporrebbe comunque che sia lo stesso minore, rappresentato dal geni¬tore o da un curatore speciale, a richiedere la misura). Le misure di protezione che il tribunale per i minorenni potrà adottare saranno sia quella dell’allontanamento dell’adulto abusante (genitore o convivente di lui) che, sempre ai sensi dell’art. 333 c.c. le altre previste nell’art. 342 ter c.c. recla¬mabili, ove definitivi, in corte d’appello secondo quanti previsto dalle disposizioni del rito camerale.
Il problema relativo alla competenza di cui si è parlato non è stato mai adeguatamente trattato ed anche in dottrina si dà sempre per scontato che la legge 154/2001 possa costituire il riferimento per l’applicazione delle norme ivi contenute anche nel caso in cui la vittima dell’abuso sia un minore di età.
V Gli ordini di protezione previsti dalla legge
L’art. 342 ter c.c. (nel tes to, appunto, introdotto dalla legge 4 aprile 2001, n. 154) individua gli ordini di protezione possibili:
1. L’ordine di cessazione della condotta pregiudizievole. In verità si tratta di una misura che non appare autonoma e che dovrebbe essere considerata un presupposto implicito degli altri provvedimenti di protezione (così è stato per esempio interpretato da Trib. Palermo, 4 giugno 2001). In ogni caso, un po’ come nell’art. 709 ter c.p.c. avviene per l’ammonimento, non può dirsi che si tratti di una misura del tutto inutile.
2. L’ordine di allontanamento dalla casa familiare dell’autore della condotta.
Costituisce certamente la misura di protezione più significativa che può essere adottata anche se l’abitazione da cui un soggetto viene allontanato è di sua proprietà ed anche in caso di convivenza more uxorio. Ai fini dell’ordine di protezione è sufficiente che le parti abitino in comune l’immobile (Tribunale Prato, 8 giugno 2009).
La temporaneità dell’allontanamento incide solo in misura relativa sul titolo di proprietà del co¬niuge o del convivente che ne è stato allontanato. La possibilità di garantirsi una anticipazione della tutela derivante dall’eventuale successiva assegnazione della casa familiare al coniuge che ha richiesto e ottenuto l’allontanamento non può essere motivo per negare la tutela alla vittima dell’abuso ma semmai motivo per esaminare la sua istanza con maggiore prudenza.
Nel caso di abitazione di proprietà del coniuge allontanato non esiste una norma che preveda l’opponibilità dell’ordine di protezione ai terzi acquirenti, Né appare per analogia applicabile l’op¬ponibilità garantita in sede di assegnazione della casa familiare.
Ove la detenzione dell’immobile avvenga per un titolo diverso (comodato, locazione) non vi sono ragioni ostative a considerare per analogia quanto previsto in caso di assegnazione in sede di separazione e cioè a considerare l’ordine di protezione come evento che legittima la successione temporanea nel contratto di comodato o di locazione del beneficiario dell’ordine di protezione.
Logicamente l’ordine di protezione dell’allontanamento dalla casa coniugale presuppone che en¬trambi i coniugi vi abitino ancora insieme. Tuttavia Tribunale Napoli, 19 dicembre 2007, come si è detto, ha ritenuto ammissibile l’ordine di allontanamento anche se il coniuge colpevole si è già allontanato, sul presupposto che l’ordine confermerebbe comunque il divieto di far rientro in casa.
3. L’ordine di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima, ed in particolare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d’origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia, salvo che questi non debba frequentare i medesimi luoghi per esigenze di lavoro.
4. L’ordine di intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e l’accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati.
5. L’ordine di pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto del provvedimento di allontanamento dell’autore dell’abuso, rimangono prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia versata direttamente all’avente diritto dal datore di lavoro dell’obbligato, detraendola dalla retribuzione allo stesso spettante.
Si tratta id una misura di protezione per certi versi “eversiva” soprattutto se adottata nei con¬fronti del convivente more uxorio autore della condotta violenta considerato che neanche nella legge 20 maggio 2016, n. 76 si prevedono forme di obbligatoria reciproca assistenza materiale tra conviventi, fatta salva l’ipotesi cui al comma 65 dell’unico articolo della legge dove si prevede un diritto di natura alimentare alla cessazione della convivenza, per il convivente che si trovi in stato di bisogno. Naturalmente il presupposto comune è costituito dal fatto che sia il coniuge che i con¬vivente vittima della condotta violenta, per poter beneficiare questo ordine di protezione di natura economica devono trovarsi, per effetto dell’allontanamento dell’altro, privi di mezzi adeguati.
Gli ordini di protezione esaminati esauriscono il novero dei provvedimenti possibili.
Va anche considerato che l’art. 342 bis c.c. prescrive che il giudice può pronunciare “uno o più dei provvedimenti di cui all’art. 342 ter” con ciò volendo intendere che i provvedimenti in questione possono certamente cumularsi nello stesso decreto ma non escludendo che possano anche essere pronunciati in diversi momenti e anche se l’allontanamento è stato già pronunciato in precedenza. In altre parole l’allontanamento dell’autore della condotta lesiva non esaurisce il potere del giudi¬ce di adottare su istanza di parte, ove necessario, altri tipi di ordini di protezione. Una conferma di quanto sopra si ha nel testo dell’art. 282 c.p.p. dove si prevede che “I provvedimenti di cui ai commi 2 e 3 [cioè le misure accessorie all’ordine di allontanamento] possono essere assunti anche successivamente al provvedimento di cui al comma 1 [cioè l’ordine di allontanamento], sempre che questo non sia stato revocato o non abbia comunque perduto efficacia”.
Come è stato osservato da diversi autori deve sempre sussistere un criterio di adeguatezza e cioè di proporzionalità tra la condotta tenuta dal soggetto, la gravità del pregiudizio inferto, la misura irrogata e la sua durata. Tutti profili sui quali si può esercitare certamente il potere di controllo del giudice del reclamo.
Una particolare attenzione dovrebbe essere riservata alla circostanza che l’ordine di protezione interessa i rapporti coniugali o tra i partner della coppia e non dovrebbe ostacolare la prosecuzione del rapporto tra ciascuno dei genitori e i figli comuni, tenendo naturalmente conto che l’ordine potrebbe essere stato adottato anche in relazione a condotte indirettamente lesive della serenità dei figli (cosiddetta violenza indiretta o assistita: Trib. Min. L’Aquila, 19 luglio 2002; Tribu¬nale Reggio Emilia, 10 maggio 2007). Si consideri che nel 2013 nell’art. 61 del codice penale concernente le circostanze aggravanti è stata inserita l’aggravante specifica (11-quinquies) dell’ “avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza”.
VI Il procedimento
La legge 154/2001 ha anche previsto un apposito procedimento camerale (ma di competenza del giudice monocratico), disciplinandolo nell’art. 736-bis del codice di procedura civile (intitolato inadeguatamente “Provvedimenti di adozione degli ordini di protezione contro gli abusi familiari”).
La norma prevede che l’istanza per l’ordine di protezione si propone, anche dalla parte personal¬mente, con ricorso da depositare nella cancelleria tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell’istante (competenza inderogabile per materia ex art. 28 c.p.c.), che provvede in camera di consiglio in composizione monocratica. Si tratta di uno dei casi di deroga espressa alla regola indicata nell’art. 50 bis c.p.c. di composizione collegiale nei procedimenti in camera di consiglio10.
Nel ricorso è evidente che l’istante dovrà indicare non solo i fatti e cioè la condotta violenta nei suoi confronti ma anche i provvedimenti richiesti.
Il ricorso deve essere presentato dalla parte che richiede per sé l’ordine di protezione. Come ha precisato Tribunale Milano, 18 marzo 2015 l’ordine di protezione ex art. 342-bis c.c. deve es¬sere richiesto direttamente dal titolare del diritto soggettivo leso, giusta la disposizione generale di cui all’art. 81 c.p.c. In particolare, il figlio maggiorenne non convivente, non può presentare istanza di protezione al fine di tutelare la condizione soggettiva della madre, oggetto di turbative e molestie da parte di terzi. In questo caso, il ricorso è inammissibile per difetto di legitimatio ad causam, rilevabile d’ufficio. In caso di persona sottoposta ad amministrazione di sostegno, l’ordine di protezione ex art. 342-bis c.c.può essere richiesto dall’amministratore previamente autorizzato dal giudice tutelare.
La parte che ha subìto la condotta pregiudizievole e che instaura il procedimento non ha, in linea teorica, l’obbligo di assistenza legale (potendo presentare il ricorso “anche personalmente”) ma nella prassi è assai difficile che l’accesso al tribunale venga effettuato senza un mandato al difen¬sore. Anche il convenuto in giudizio, cioè l’autore dell’abuso, in linea teorica potrebbe non essere assistito da un difensore, non essendo previsto neanche per lui l’obbligo della rappresentanza in giudizio da parte di un difensore. A tale proposito, però, si deve ricordare che l’art. 7 della legge 154/2001 – con l’evidente intento di non scoraggiare la proposizione del ricorso da parte della vittima – prevede che “tutti gli atti, i documenti e i provvedimenti relativi all’azione civile contro la violenza nelle relazioni familiari, nonché i procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti a ottene¬re la corresponsione dell’assegno di mantenimento previsto dal comma 3 dell’articolo 282-bis del codice di procedura penale e dal secondo comma dell’articolo 342-ter del codice civile, sono esenti dall’imposta di bollo e da ogni altra tassa e imposta, dai diritti di notifica, di cancelleria e di copia nonché dall’obbligo della richiesta di registrazione, ai sensi dell’articolo 9, comma 8, della legge 23 dicembre 1999, n. 488, e successive modificazioni”.
Il presidente del tribunale designa il giudice a cui è affidata la trattazione del ricorso.
Per quanto non previsto dalla norma in questione si applicano al procedimento, in quanto compa¬tibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile.
Il giudice, sentite le parti, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ne¬cessari, disponendo, ove occorra, anche per mezzo della polizia tributaria, indagini sui redditi, sul tenore di vita e sul patrimonio personale e comune delle parti, e provvede con decreto motivato immediatamente esecutivo.
Nel caso di urgenza, il giudice, assunte ove occorra sommarie informazioni, può adottare imme-diatamente l’ordine di protezione (Trib. Reggio Emilia, 6 maggio 2002, ha motivato l’urgenza con il rischio del compimento di ulteriori condotte di abuso), fissando l’udienza di comparizione delle parti davanti a sé [da tenersi] entro un termine non superiore a quindici giorni ed assegnan¬do all’istante un termine non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. All’udienza il giudice conferma, modifica o revoca l’ordine di protezione.
Come si vede il giudice può adottare un decreto di rigetto (in rito o nel merito) o di accoglimento nel merito, potendo anche provvedere sulle spese processuali (Trib. Barletta, 1 aprile 2008).
Il decreto in questione non è provvisoriamente esecutivo ma segue le regole dell’art. 741 c.p.c. ed acquista efficacia quando sono decorsi termini per il reclamo; se vi sono ragioni di urgenza il giudice stesso può, però, dichiararlo provvisoriamente esecutivo.
Contro il decreto con cui il giudice adotta l’ordine di protezione o rigetta il ricorso, ovvero con¬ferma, modifica o revoca l’ordine di protezione precedentemente adottato è ammesso reclamo al tribunale entro i termini previsti dal secondo comma dell’articolo 739. Il reclamo non sospende l’esecutività dell’ordine di protezione. Il tribunale provvede in camera di consiglio, in composizione collegiale, sentite le parti, con “decreto motivato non impugnabile”. Del collegio non fa parte il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato.
10 Art. 50 bis c.p.c. (cause nelle quali il tribunale giudica in composizione collegiale). Ultimo comma: Il tribunale giudica altresì in composizione collegiale nei procedimenti in camera di consiglio disciplinati dagli articoli 737 e seguenti, salvo che sia altrimenti disposto.
Poiché il reclamo davanti al tribunale in composizione collegiale si conclude con un decreto moti¬vato “non impugnabile” ne deriva che non è neanche ricorribile per cassazione. In questo senso si è espressa peraltro da ultimo Cass. civ. Sez. VI – 1, 7 dicembre 2017, n. 29492, richiamando Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2017, n. 15482; Cass. civ. Sez. I, 6 novembre 2009, n. 23633, Cass. civ. Sez. I, 5 gennaio 2005, n. 208 e Cass. civ. Sez. I, 15 gennaio 2007, n. 625. Il principio affermato è che in tema di ordini di protezione contro gli abusi familiari nei casi di cui all’art. 342-bis c.c., il decreto motivato emesso dal tribunale in sede di reclamo con cui si accolga o si rigetti l’istanza di concessione della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare, non è impugnabile per cassazione né con ricorso ordinario – stante l’espressa previsione di non impugnabilità contenuta nell’art. 736 bis c.p.c., introdotto dalla L. 4 aprile 2001, n. 154, art. 3, né con ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost., giacché detto decreto difetta dei requisiti della decisorietà e della definitività.
Resta ferma la possibilità di richiedere sempre al giudice monocratico competente, in base ai prin¬cipi del rito camerale (art. 742 c.p.c.), la modifica o la revoca del provvedimento.
La non ricorribilità per cassazione dei provvedimenti civili potrebbe essere anche una delle cause per le quale nella prassi si fa più frequentemente ricorso, come si è sopra detto, alle misure cautela¬ri penali in quanto l’art. 311 c.p.p. prevede, invece, la ricorribilità per cassazione delle decisioni del tribunale penale in sede di riesame delle ordinanze che dispongono una misura cautelare coercitiva.
L’art. 4 della legge prevede che il procedimento per l’adozione degli ordini di protezione non è soggetto alla sospensione dei termini e delle cause civili nel periodo feriale (art. 92 ordinamento giudiziario).
VII La durata e l’attuazione dell’ordine di protezione
L’ultima parte dell’art. 342 ter c.c. prevede che il giudice, con il medesimo decreto in cui adotta l’ordine di protezione e gli altri i provvedimenti deve stabilire la durata dell’ordine di protezione (che quindi ha natura temporanea), che decorre dal giorno dell’avvenuta esecuzione dello stesso e che non può essere superiore ad un anno11 e può essere prorogata, su istanza di parte (rivolta al giudice monocratico competente), soltanto se ricorrano gravi motivi per il tempo strettamente necessario. Per esempio Trib. Taranto 1 dicembre 2001 ebbe a prorogare la misura dell’allontanamento fino all’udienza presidenziale di separazione che in base all’art. 8 della legge segna il termine oltre il quale le mi¬sure diventano di competenza del giudice della separazione.
Con il medesimo decreto il giudice determina anche le modalità di attuazione. Si tratta di una di¬sposizione opportuna dal momento che un rinvio alle norme sul processo esecutivo sarebbe stato del tutto fuori luogo. D’altro lato la tendenza in atto nel sistema processuale è quello di affidare l’attuazione dei provvedimenti allo stesso giudice che li ha disposti (come previsto per esempio nell’art. 669 duodecies o nell’art. 709 ter c.p.c.). Ove sorgano difficoltà o contestazioni in ordine all’esecuzione, lo stesso giudice provvede con decreto ad emanare i provvedimenti più opportuni per l’attuazione, ivi compreso l’ausilio della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario.
VIII La possibile concorrenza tra il procedimento civile e la misura cautelare penale dell’allontanamento
E’ possibile che vi sia concorrenza tra il procedimento ex art. 736 bis c.p.c. (azionato dalla vittima) e la misura cautelare dell’allontanamento adottata dal giudice penale su richiesta del pubblico mi¬nistero ai sensi dell’art. 282 c.p.p. e cioè nei casi in cui la pena edittale prevista per il reato per cui procede è superiore nel massimo a tre anni di reclusione (art. 280 c.p.p.) ovvero nei casi in cui si proceda per uno dei delitti previsti dagli articoli 570, 571, 600-bis, 600-ter, 600-quater, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies del codice penale, commesso in danno dei prossimi congiunti o del convivente (casi in cui, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 282 bis c.p.p., la misura può essere disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’articolo 28), ferma sempre l’e¬sistenza degli altri presupposti per l’emissione di una misura cautelare personale (art. 273 c.p.p.).
In dottrina si ritiene che il giudice civile, nel caso di sopravvenienza della misura cautelare penale debba rigettare la richiesta avanzata nel procedimento civile per sopravvenuta carenza di interesse ad agire dell’istante ma la tesi non è condivisa da tutti. Ragionevolmente si dovrebbe ritenere che tra i due sistemi vi sia autonomia senza possibilità di reciproca influenza e che tuttavia al giudice civile (in primo grado o in sede di reclamo) dovrebbe riconoscersi il potere discrezionale di valutare l’esito del procedimento anche in relazione alla sopravvenuta misura cautelare penale.
IX Il raccordo tra il procedimento per l’adozione degli ordini di protezione e il procedimento sul conflitto familiare
a) in caso di separazione e divorzio
Il problema del raccordo tra il procedimento per l’adozione degli ordini di protezione e il procedi¬mento di separazione (o divorzio) è risolto dall’art. 8 della legge 154/2001 dove si prevede che le misure di protezione e il relativo procedimento non trovano applicazione quando la condotta pregiudizievole è tenuta dal coniuge che ha proposto o nei confronti del quale è stata proposta do¬manda di separazione o di divorzio e nel relativo procedimento si è svolta l’udienza di comparizione dei coniugi davanti al presidente. In tal caso si applicano le disposizioni contenute nella normativa sulla separazione e sul divorzio e nei relativi procedimenti possono essere assunti provvedimenti aventi i contenuti indicati nell’articolo 342-ter del codice civile.
In ogni caso l’ordine di protezione adottato dal giudice civile ne procedimento sopra esaminato perde efficacia qualora sia successivamente pronunciata, nel procedimento di separazione perso¬nale o di divorzio promosso dal coniuge istante o nei suoi confronti, l’ordinanza contenente prov¬vedimenti temporanei ed urgenti assunti dal presidente.
Il principio generale che l’art. 8 della legge 154/2001 ha introdotto è che quando l’abuso familiare è causato dalla condotta di un coniuge contro l’altro non può essere instaurato un procedimento civile ai sensi dell’artr. 736 c.p.c. qualora nel giudizio di separazione sia stata già celebrata l’udien¬za presidenziale.
Da questo principio – che attribuisce al giudice della separazione il potere di adottare egli stesso le misure di protezione indicate nell’art. 342 ter c.p.c. – ne discende anche l’altro che prevede la cessazione dell’efficacia dell’eventuale ordine di protezione adottato dal giudice civile qualora sia successivamente pronunciata, nel procedimento di separazione personale o di divorzio promosso dal coniuge istante o nei suoi confronti, l’ordinanza contenente provvedimenti temporanei ed ur¬genti assunti dal presidente.
L’art. 8 è considerata una disposizione del tutto ragionevole (in funzione anche dell’esigenza ge¬nerale di concentrazione delle tutele) considerato peraltro che in assenza del meccanismo indicato si rischierebbe una duplicazione di provvedimenti, peraltro ormai resi inutili dall’autorizzazione a vivere separarti contenuta nell’ordinanza presidenziale.
Va precisato che mentre l’ordinanza presidenziale contenente l’ordine di protezione può essere reclamata ex art. 708, ultimo comma c.p.c., viceversa l’ordine di protezione successivamente eventualmente adottato dal giudice istruttore non è, secondo i principi generali, reclamabile (lo ha precisato Tribunale Bari Sez. I, 3 marzo 2009 dichiarando inammissibile il reclamo avverso l’ordine di protezione adottato dal giudice istruttore nel processo di separazione). Non è mai am¬messo comunque, in caso di separazione, il reclamo previsto nel quarto comma dell’art. 736 bis c.p.c. (Tribunale Catania, 11 novembre 2008).
b) In caso di procedimento per l’affidamento e il mantenimento di figli nati fuori dal matrimonio
Va ricordata una decisione significativa con cui la Corte di cassazione ha ritenuto competente all’emanazione di ordini di protezione anche il tribunale in composizione collegiale adito in ordine all’affidamento e al mantenimento di un figlio nato fuori dal matrimonio., nonostante che la vis actrativa sia stabilita (dall’art. 8 della legge 154/2001) soltanto in caso di separazione e divorzio.
Si tratta di Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2017, n. 15482 che ha enunciato il principio in base al quale in tema di ordini di protezione contro gli abusi familiari, di cui agli artt. 342 bis e 342 ter c.c., l’attribuzione della competenza al tribunale in composizione monocratica, stabilita dall’art. 736 bis, comma 1, c.p.c., non esclude la “vis actrativa” del tribunale in composizione collegiale (nella specie chiamato a giudicare in ordine al conflitto familiare e all’affidamento di un figlio tra due ex con¬viventi more uxorio) che sia stato già incardinato avanti ad esso, atteso che una diversa opzione ermeneutica, che faccia leva sul solo tenore letterale delle citate disposizioni, ne tradirebbe la “ra¬tio”, che è quella di attuare, nei limiti previsti, la concentrazione delle tutele ed evitare, a garanzia del preminente interesse del minore che sia incolpevolmente coinvolto, o del coniuge debole che esiga una tutela urgente, il rischio di decisioni intempestive o contrastanti ed incompatibili con gli accertamenti resi da organi giudiziali diversi.
Il richiamo che viene proposto non è tanto all’art. 8 della legge 154/2001 quanto piuttosto alle regole contenute nell’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile. Infatti si legge nella sentenza che con riferimento all’assetto dei rapporti tra i genitori ed il figlio nato fuori dal matrimonio la Corte (Sez. 1, Sentenza nn. 23032 del 2009 e 6132 del 2015) ha già stabilito il principio di diritto secondo cui, “in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, la legge n. 54 del 2006, dichiarando applicabili ai relativi procedimenti le regole da essa introdotte per quelli in materia di separazione e divorzio, esprime, per tale aspetto, un’evidente assimilazione della posizione dei figli di genitori non coniugati a quella dei figli nati nel matrimonio, in tal modo conferendo una definitiva autonomia al procedimento previsto rispetto a quelli di cui agli artt. 330, 333 e 336 c.c., ed avvicinandolo a quelli in materia di separazione e divorzio con figli minori, senza che assuma alcun rilievo la forma del rito camerale, previsto, anche in relazione a controversie oggettivamente contenziose, per ragioni di celerità e snellezza.
Il principio in questione viene pronunciato ex art 363, co. 3, c.p.c. (ritenuto applicabile anche alle sezioni semplici) nonostante la circostanza che il ricorso (nella specie incidentale) venga poi dichiarato inammissibile.
Occorre evitare – afferma la Corte – evitare la lettura delle disposizioni basate “sul solo tenore letterale della (..) disposizione” (nella specie, dell’art. 38 disp. att. c.c., comma 1, come modificato dalla L. n. 219 del 2012), in quanto essa “ne tradirebbe la ratio di attuare, nei limiti previsti, la concentrazione delle tutele onde evitare, a garanzia del preminente interesse del minore, il rischio di decisioni contrastanti ed incompatibili, tutte temporalmente efficaci ed eseguibili, resi da due organi giudiziali diversi”.
Nella previsione degli artt. 342-bis e 342-ter cod. civ. gli ordini di protezione contro gli abusi fa¬miliari sono attribuiti genericamente alla competenza del “giudice”, la cui specificazione viene data dalla specifica previsione processualistica di cui all’art. 736 bis codice di rito. Alla luce di tale ultima previsione, il provvedimento è adottato “in camera di consiglio” e, dall’organo adito, “in composi¬zione monocratica” (comma 1): secondo quanto stabilito dall’art. 50 bis c.p.c., comma 2, si tratta di una delle ipotesi applicative della riserva di giudizio monocratico, nonostante la disciplina fatta per rinvio all’art. 737 e ss.. Questo, ovviamente, quando la misura sia richiesta principaliter; ma quando la medesima sia domandata nell’ambito di un più ampio conflitto familiare teso a definire anche questioni che sono riservate alla competenza del giudice collegiale (come nella specie, dove – tra le parti – si è discusso anche dell’affidamento del figlio e di altro) allora sarebbe antiecono¬mico ed irrazionale che il giudice collegiale non possa conoscere anche della richiesta misura di protezione, perché questa (ove accolta) non solo giova al coniuge vittima dell’azione violenta o persecutoria ma anche al figlio, che delle condotte antigiuridiche ancor più risente, in quanto privo degli strumenti di elaborazione dei comportamenti propri dell’altro genitore.
X La sanzione penale per l’inosservanza dell’ordine di protezione
L’art. 6 della legge 154/2001 prescrive che “Chiunque elude l’ordine di protezione previsto dall’ar¬ticolo 342-ter del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel proce¬dimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio è punito con la pena stabilita dall’articolo 388, primo comma, del codice penale. Si applica altresì l’ultimo comma del medesimo articolo 388 del codice penale”.
La disposizione penale richiamata (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice) costituisce un reato contro l’attività giudiziaria e la legge 154/2001 ne richiama solo il primo e l’ultimo comma anche se nel 2018 la disposizione è stata riformulata in modo da renderla più in¬tellegibile e autonoma.
Nel primo comma si prevede che “Chiunque, per sottrarsi all’adempimento degli obblighi nascenti da un provvedimento dell’autorità giudiziaria, o dei quali è in corso l’accertamento dinanzi all’auto¬rità giudiziaria stessa, compie, sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti, o commette allo stesso scopo altri fatti fraudolenti, è punito, qualora non ottemperi all’ingiunzione di eseguire il provvedimento, con la reclusione fino a tre anni o con la multa da euro 103 a euro 1.032.
Come detto il D.Lgs. 1° marzo 2018, n. 21, ha poi riformulato l’art. 388 prevedendo al secondo comma che “La stessa pena si applica a chi elude l’ordine di protezione previsto dall’articolo 342-ter del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione per¬sonale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matri¬monio ovvero ancora l’esecuzione di un provvedimento del giudice civile, ovvero amministrativo o contabile, che concerna l’affidamento di minori o di altre persone incapaci, ovvero prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito”.
L’ultimo comma dell’art. 388 c.p. prescrive che “Il colpevole è punito a querela della persona offesa”.
XI Appendice Legge n. 154 del 4 aprile 2001 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari)
Art. 1 (Misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare)
1. Dopo il comma 2 dell’articolo 291 del codice di procedura penale è aggiunto il seguente:
«2-bis. In caso di necessità o urgenza il pubblico ministero può chiedere al giudice, nell’interesse della persona offesa, le misure patrimoniali provvisorie di cui all’articolo 282-bis. Il provvedimento perde efficacia qualora la misura cautelare sia successivamente revocata».
2. Dopo l’articolo 282 del codice di procedura penale è inserito il seguente:
«Art. 282-bis – (Allontanamento dalla casa familiare). – 1. Con il provvedimento che dispone l’allontanamento il giudice prescrive all’imputato di lasciare immediatamente la casa familiare, ovvero di non farvi rientro, e di non accedervi senza l’autorizzazione del giudice che procede. L’e¬ventuale autorizzazione può prescrivere determinate modalità di visita.
2. Il giudice, qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti, può inoltre prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti, salvo che la frequentazione sia necessaria per motivi di lavoro. In tale ultimo caso il giudice prescrive le relative modalità e può imporre limitazioni.
3. Il giudice, su richiesta del pubblico ministero, può altresì ingiungere il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto della misura cautelare disposta, rimangano prive di mezzi adeguati. Il giudice determina la misura dell’assegno tenendo conto delle circostanze e dei redditi dell’obbligato e stabilisce le modalità ed i termini del versamento. Può ordinare, se necessario, che l’assegno sia versato direttamente al beneficiario da parte del datore di lavoro dell’obbligato, detraendolo dalla retribuzione a lui spettante. L’ordine di pagamento ha efficacia di titolo esecutivo.
4. I provvedimenti di cui ai commi 2 e 3 possono essere assunti anche successivamente al prov¬vedimento di cui al comma 1, sempre che questo non sia stato revocato o non abbia comunque perduto efficacia. Essi, anche se assunti successivamente, perdono efficacia se è revocato o perde comunque efficacia il provvedimento di cui al comma 1. Il provvedimento di cui al comma 3, se a favore del coniuge o dei figli, perde efficacia, inoltre, qualora sopravvenga l’ordinanza prevista dall’articolo 708 del codice di procedura civile ovvero altro provvedimento del giudice civile in or¬dine ai rapporti economico-patrimoniali tra i coniugi ovvero al mantenimento dei figli.
5. Il provvedimento di cui al comma 3 può essere modificato se mutano le condizioni dell’obbli¬gato o del beneficiario, e viene revocato se la convivenza riprende.
6. Qualora si proceda per uno dei delitti previsti dagli articoli 570, 571, 600-bis, 600-ter, 600-quater, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies del codice penale, commes¬so in danno dei prossimi congiunti o del convivente, la misura può essere disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’articolo 280».
Art. 2 (Ordini di protezione contro gli abusi familiari)
1. Dopo il titolo IX del libro primo del codice civile è inserito il seguente:
«Titolo IX-bis. ORDINI DI PROTEZIONE CONTRO GLI ABUSI FAMILIARI
Art. 342-bis (Ordini di protezione contro gli abusi familiari)
Quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente, il giudice, su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui all’articolo 342-ter.
Art. 342-ter (Contenuto degli ordini di protezione)
Con il decreto di cui all’articolo 342-bis il giudice ordina al coniuge o convivente, che ha tenuto la condotta pregiudizievole, la cessazione della stessa condotta e dispone l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole prescrivendogli altresì, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall’istante, ed in parti¬colare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d’origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia, salvo che questi non debba frequentare i medesimi luoghi per esigenze di lavoro.
Il giudice può disporre, altresì, ove occorra l’intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano come fine statutario il soste¬gno e l’accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati; il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dei provvedimenti di cui al primo comma, rimangono prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia versata direttamente all’avente diritto dal datore di lavoro dell’obbligato, detraendola dalla retribuzione allo stesso spettante.
Con il medesimo decreto il giudice, nei casi di cui ai precedenti commi, stabilisce la durata dell’ordine di protezione, che decorre dal giorno dell’avvenuta esecuzione dello stesso. Questa non può essere superiore ad un anno e può essere prorogata, su istanza di parte, soltanto se ricorrano gravi motivi per il tempo strettamente necessario.
Con il medesimo decreto il giudice determina le modalità di attuazione. Ove sorgano difficoltà o contestazioni in ordine all’esecuzione, lo stesso giudice provvede con decreto ad emanare i prov-vedimenti più opportuni per l’attuazione, ivi compreso l’ausilio della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario».
Art. 3 (Disposizioni processuali)
1. Dopo il capo V del Titolo II del Libro quarto del codice di procedura civile è inserito il seguente:
«CAPO V-bis.
DEGLI ORDINI DI PROTEZIONE CONTRO GLI ABUSI FAMILIARI
Art. 736-bis.
(Provvedimenti di adozione degli ordini di protezione contro gli abusi familiari).
Nei casi di cui all’articolo 342-bis del codice civile, l’istanza si propone, anche dalla parte perso¬nalmente, con ricorso al tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell’istante, che provvede in camera di consiglio in composizione monocratica.
Il presidente del tribunale designa il giudice a cui è affidata la trattazione del ricorso. Il giudi¬ce, sentite le parti, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione necessari, disponendo, ove occorra, anche per mezzo della polizia tributaria, indagini sui redditi, sul tenore di vita e sul patrimonio personale e comune delle parti, e provvede con decreto motivato imme¬diatamente esecutivo.
Nel caso di urgenza, il giudice, assunte ove occorra sommarie informazioni, può adottare imme-diatamente l’ordine di protezione fissando l’udienza di comparizione delle parti davanti a sé entro un termine non superiore a quindici giorni ed assegnando all’istante un termine non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. All’udienza il giudice conferma, modifica o revoca l’ordine di protezione.
Contro il decreto con cui il giudice adotta l’ordine di protezione o rigetta il ricorso, ai sensi del secondo comma, ovvero conferma, modifica o revoca l’ordine di protezione precedentemente adottato nel caso di cui al terzo comma, è ammesso reclamo al tribunale entro i termini previsti dal secondo comma dell’articolo 739. Il reclamo non sospende l’esecutività dell’ordine di protezione. Il tribunale provvede in camera di consiglio, in composizione collegiale, sentite le parti, con decreto motivato non impugnabile. Del collegio non fa parte il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato.
Per quanto non previsto dal presente articolo, si applicano al procedimento, in quanto compa¬tibili, gli articoli 737 e seguenti».
Art. 4 (Trattazione nel periodo feriale dei magistrati)
1. Nell’articolo 92, primo comma, dell’ordinamento giudiziario, approvato con regio decreto 30 gennaio 1941, n.12, dopo le parole: «procedimenti cautelari,» sono inserite le seguenti: «per l’adozione di ordini di protezione contro gli abusi familiari,».
Art. 5 (Pericolo determinato da altri familiari)
1. Le norme di cui alla presente legge si applicano, in quanto compatibili, anche nel caso in cui la condotta pregiudizievole sia stata tenuta da altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente, ovvero nei confronti di altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente. In tal caso l’istanza è proposta dal componente del nucleo familiare in danno del quale è tenuta la condotta pregiudizievole.
Art. 6 (Sanzione penale)
1. Chiunque elude l’ordine di protezione previsto dall’articolo 342-ter del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio è punito con la pena stabilita dall’articolo 388, primo comma, del codice penale. Si applica altresì l’ultimo comma del medesimo articolo 388 del codice penale.
Art. 7 (Disposizioni fiscali)
1. Tutti gli atti, i documenti e i provvedimenti relativi all’azione civile contro la violenza nelle relazioni familiari, nonchè i procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti a ottenere la corre¬sponsione dell’assegno di mantenimento previsto dal comma 3 dell’articolo 282-bis del codice di procedura penale e dal secondo comma dell’articolo 342-ter del codice civile, sono esenti dall’im¬posta di bollo e da ogni altra tassa e imposta, dai diritti di notifica, di cancelleria e di copia nonché dall’obbligo della richiesta di registrazione, ai sensi dell’articolo 9, comma 8, della legge 23 dicem¬bre 1999, n. 488, e successive modificazioni.
Art. 8 (Ambito di applicazione)
1. Le disposizioni degli articoli 2 e 3 della presente legge non si applicano quando la condotta pregiudizievole è tenuta dal coniuge che ha proposto o nei confronti del quale è stata proposta domanda di separazione personale ovvero di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio se nel relativo procedimento si è svolta l’udienza di comparizione dei coniugi davanti al presidente prevista dall’articolo 706 del codice di procedura civile ovvero, rispettivamente, dall’ar¬ticolo 4 della legge 1º dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni. In tal caso si applicano le disposizioni contenute, rispettivamente, negli articoli 706 e seguenti del codice di procedura civile e nella legge 1º dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, e nei relativi procedimenti pos¬sono essere assunti provvedimenti aventi i contenuti indicati nell’articolo 342-ter del codice civile.
2. L’ordine di protezione adottato ai sensi degli articoli 2 e 3 perde efficacia qualora sia succes¬sivamente pronunciata, nel procedimento di separazione personale o di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio promosso dal coniuge istante o nei suoi confronti, l’ordinanza con¬tenente provvedimenti temporanei ed urgenti prevista, rispettivamente, dall’articolo 708 del codice di procedura civile e dall’articolo 4 della legge 1º dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni.
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI – 1, 7 dicembre 2017, n. 29492 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di ordini di protezione contro gli abusi familiari nei casi di cui all’art. 342-bis c.c., il decreto motivato emesso dal tribunale in sede di reclamo, con cui si accolga o si rigetti l’istanza di concessione della misura caute¬lare dell’allontanamento dalla casa familiare, non è impugnabile per cassazione né con ricorso ordinario – stante l’espressa previsione di non impugnabilità, contenuta nell’art. 736-bis c.p.c., introdotto dall’art. 3 della l. n. 154 del 2001 – né con ricorso straordinario, ai sensi dell’art. 111 Cost., giacché detto decreto difetta dei requisiti della decisorietà e della definitività.
Cass. civ. Sez. I, 15 gennaio 2007, n. 625 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di ordini di protezione contro gli abusi familiari nei casi di cui all’art. 342 bis cod. civ., il decreto motivato emesso dal tribunale in sede di reclamo con cui si accolga o si rigetti l’istanza di concessione della misura caute¬lare dell’allontanamento dalla casa familiare non è impugnabile per cassazione nè con ricorso ordinario – stante l’espressa previsione di non impugnabilità contenuta nell’art. 736 bis cod. proc. civ., introdotto dalla L. 4 aprile 2001, n. 154, art. 3 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari) -, nè con ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost., giacchè detto decreto difetta dei requisiti della decisorietà e della definitività”. Infatti per l’ammissibilità del ricorso ai sensi dell’art. 111 Cost. “non è sufficiente che il provvedimento abbia inciso su diritti soggettivi, ma occorre che esso abbia deciso una controversia su diritti soggettivi con attitudine al giudicato o quanto meno con attitudine “pro iudicato”. Il decreto di concessione dell’ordine di protezione contro gli abusi fa¬miliari non ha le indicate caratteristiche, posto che ha una durata temporanea, prorogabile solo per gravi motivi (art. 2, legge citata), perde di efficacia qualora nel procedimento personale di separazione personale dei coniugi, di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio siano pronunziati i provvedimenti provvisori previ¬sti rispettivamente dall’art. 708 c.p.c. e dalla L. n. 898 del 1970, art. 4 ed è volto a tutelare non interessi indi¬viduali ma l’interesse sociale alla tranquillità delle famiglie. In ipotesi di diniego della invocata misura protettiva, nessuna norma preclude la reiterazione della istanza di adozione dei provvedimenti di cui all’art. 342 ter c.c..
Cass. civ. Sez. I, 6 novembre 2009, n. 23633 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di ordini di protezione contro gli abusi familiari nei casi di cui all’art. 342-bis c.c., il decreto motivato emesso dal tribunale in sede di reclamo, con cui si accolga o si rigetti l’istanza di concessione della misura caute¬lare dell’allontanamento dalla casa familiare, non è impugnabile per cassazione né con ricorso ordinario – stante l’espressa previsione di non impugnabilità, contenuta nell’art. 736-bis c.p.c., introdotto dall’art. 3 della l. n. 154 del 2001 – né con ricorso straordinario, ai sensi dell’art. 111 Cost., giacché detto decreto difetta dei requisiti della decisorietà e della definitività.
Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2017, n. 15482 (Famiglia e Diritto, 2017, 12, 1069 nota di DANOVI)
In tema di ordini di protezione contro gli abusi familiari, di cui agli artt. 342-bis e 342-ter c.c., l’attribuzione della competenza al tribunale in composizione monocratica, stabilita dall’art. 736-bis, comma 1, c.p.c., non esclude la “vis actrativa” del tribunale in composizione collegiale (nella specie chiamato a giudicare in ordine al conflitto familiare e all’affidamento di figli tra due ex conviventi more uxorio) che sia stato già incardinato avanti ad esso, atteso che una diversa opzione ermeneutica, che faccia leva sul solo tenore letterale delle citate disposizioni, ne tradirebbe la “ratio”, che è quella di attuare, nei limiti previsti, la concentrazione delle tutele ed evitare, a garanzia del preminente interesse del minore che sia incolpevolmente coinvolto, o del coniuge debole che esiga una tutela urgente, il rischio di decisioni intempestive o contrastanti ed incompatibili con gli accertamenti resi da organi giudiziali diversi.
Il decreto motivato emesso dal tribunale in sede di reclamo, con cui si accolga o si rigetti l’istanza di concessione della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare, non è impugnabile per cassazione nè con ricorso ordinario stante l’espressa previsione di non impugnabilità contenuta nell’art. 736 bis c.p.c., introdotto dalla L. 4 aprile 2001, n. 154, art. 3, (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari), né con ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost., giacché detto decreto difetta dei requisiti della decisorietà e della definitività.
Tribunale Milano, 18 marzo 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ordine di protezione ex art. 342-bis c.c. deve essere richiesto direttamente dal titolare del diritto soggettivo leso, giusta la disposizione generale di cui all’art. 81 c.p.c. In particolare, il figlio maggiorenne non convivente, non può presentare istanza di protezione al fine di tutelare la condizione soggettiva della madre, oggetto di tur¬bative e molestie da parte di terzi. In questo caso, il ricorso è inammissibile per difetto di legitimatio ad causam, rilevabile d’ufficio. In caso di persona sottoposta ad amministrazione di sostegno, l’ordine di protezione ex art. 342-bis c.c.può essere richiesto dall’amministratore previamente autorizzato dal giudice tutelare.
Tribunale Milano, 17 aprile 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto di famiglia prevede rimedi speciali, tipici e settoriali per porre rimedio a ciascuna delle possibili violazioni che uno dei partners dovesse porre in essere: garanzie per l’assegno di mantenimento (156 c.c.); provvedimenti atipici per le condotte aggressive (342-bis c.c.); sanzioni e risarcimento del danno (709-ter c.p.c.); modifica/re¬voca dei provvedimenti interinali (709, ult. comma, c.p.c.); ingiunzioni di pagamento in ragione delle condizioni di separazione o divorzio, costituenti titolo esecutivo; sequestro dei beni del coniuge allontanatosi (146 c.c.); presentazione della domanda di separazione o divorzio. In particolare, nel caso in cui uno dei coniugi ponga in essere condotte lesive della persona del congiunto, è dato ricorso agli ordini giudiziali ex art. 342-bis c.c., 736- bis c.p.c., nella cui sede sono anche ammesse statuizioni di tipo economico. Ne consegue che, in tutti questi casi, difetta la residualità richiesta dall’art. 700 c.p.c. per l’ammissibilità dello strumento cautelare.
Tribunale Prato, 8 giugno 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi degli artt. 342 bis e 342 ter c.c. gli ordini di protezione contro gli abusi familiari possono essere adottati dal tribunale allorché le parti occupino (anche se in linea di mero fatto) lo stesso immobile, seppur senza formare un unico nucleo familiare; pertanto è irrilevante che sia controverso, tra le parti, se la codentenzione dell’alloggio abbia o meno un fondamento giuridico che la legittimi.
Tribunale Bari Sez. I, 3 marzo 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È inammissibile il reclamo avverso l’ordine di protezione adottato dal giudice istruttore nel processo di separazione.
Tribunale Catania, 11 novembre 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’articolo 8 della legge 154/2001, nel caso in cui penda giudizio di separazione personale fra i coniugi e sia stata celebrata l’udienza di comparizione dinanzi al presidente del tribunale, non sono applicabili gli articoli 342 bis e ter c.c. bensì le disposizioni contenute negli articoli 706 ss. c.p.c., con la conseguenza che saranno il presidente del tribunale – nell’ambito del potere di emanare i provvedimenti provvisori e urgenti nell’interesse del coniuge e della prole – ovvero il giudice istruttore ad adottare i provvedimenti aventi il contenuto degli ordini di protezione. Tali provvedimenti sono sempre revocabili e modificabili dal giudice istruttore e, in sede decisoria, dal Collegio, mentre avverso di essi non è possibile proporre reclamo ex artt. 736 bis ss. c.p.c.
Tribunale Piacenza, 23 ottobre 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi in cui, dopo la pronuncia di decreto di sospensione della patria potestà su figlio minore, da parte del Tribunale per i Minorenni, il giudice designato del Tribunale ordinario abbia ordinato al padre, a sensi degli artt. 342-bis e 342-ter c.c., di versare periodicamente una somma per il mantenimento del figlio medesimo, il problema del conflitto di competenza tra i due predetti tribunali si pone nelle ipotesi di violenza nei confronti dei minori, atteso il difetto di coordinamento tra la disciplina degli artt. 342-bis e 342-ter c.c. (quali introdotti dalla legge n. 154/2001) e gli artt. 330 e 333 c.c., così come modificati dalla legge n. 149/2001. Gli ordini di protezione contro gli abusi familiari, regolati in via generale dagli artt. 342-bis e 342-ter c.c., presuppongono una condotta pregiudizievole alla integrità fisica o morale ovvero alla libertà del coniuge o convivente, posta in esser dall’altro coniuge o da altro convivente; l’ambito di applicazione di tale disciplina -che non fa menzione del minore, secondo la lettera dell’art. 342-bis c.c. predetto – è in realtà ridefinito dall’art. 5 della L. 154/2001, la cui formulazione lascia intendere che, quale componente del nucleo familiare, anche il figlio minore possa essere soggetto attivo o passivo della condotta che legittima l’esercizio dell’azione civile contro le violenze nelle relazioni familiari; ed invero, tra le norme in esame (artt. 342 bis da una parte; 330 e 333 c.c. dall’altra), sussiste una completa e totale sovrapposizione dei presupposti oggettivi: grave pregiudizio all’integrità fisica o morale o alla libertà nell’art. 342-bis c.c., e condotta di maltrattamento o abuso negli artt. 330, co. 2, e 333 c.c.. Tuttavia, qualora si tratti di fattispecie di c.d. “violenza assistita”, in cui la vittima diretta dei maltrattamenti è un genitore ed i figli vengono loro malgrado costretti ad assistervi, si può ipotizzare una sovrapposizione di competenze tra il giudice civile e ed il tribunale per i minorenni. (Nel caso di specie, è stata ritenuta la competenza – contestata dal convenuto – del tribunale ordinario a sensi degli artt. 342-bis e 342-ter c.c., tenuto conto che erano state allegate, dalla ricorrente, ripetute condotte di violenza perpetrate dal convivente soprattutto nei confronti della medesima, ma anche alla presenza del figlio minore; si è ritenuto che, in questo caso, tale competenza concorre con quella del tribunale per i minorenni di cui agli artt. 330 e 333 c.c.).
Rientra nella competenza del giudice civile e nel rispetto della previsione normativa di cui agli artt. 342-bis e 342-ter c.c. l’imposizione, a carico del genitore violento allontanato dal domicilio familiare, di un assegno men¬sile a titolo di contributo al mantenimento del figlio minore.
L’obbligo di versamento dell’assegno di mantenimento, così come stabilito con il decreto emesso ai sensi degli artt. 342-bis e 342-ter c.c., a favore di figlio minore naturale, permane sino a quando non sia eventualmente adottato prima della scadenza del termine di efficacia un diverso provvedimento del giudice competente in ma¬teria di affidamento e di mantenimento (il tribunale per i minorenni, adito ai sensi dell’art. 317-bis c.c., dell’art. 38 disp. att. c.c. e dell’art. 155 c.c.), ma è in ogni caso destinato a cessare al termine della durata, peraltro prorogabile, dell’ordine di protezione.
Nelle fattispecie di c.d. violenza assistita, ove la vittima diretta dei maltrattamenti è un genitore e i figli vengono loro malgrado costretti ad assistervi, sussiste una sovrapposizione di competenze tra il giudice civile, adito ai sensi degli artt. 342-bis e 342-ter c.c. e dell’art. 736-bis c.p.c., e il tribunale per i minorenni. Tale sovrapposizio¬ne di competenze non preclude al giudice civile di pronunciare – intervenuto decreto del tribunale per i minorenni che dispone, ai sensi degli artt. 333 e 336 c.c., l’allontanamento del genitore violento dalla casa familiare e l’affidamento del figlio minore – non solo l’allontanamento dalla casa familiare del medesimo genitore, ma anche la cessazione della condotta pregiudizievole, quale contenuto essenziale dell’ordine di protezione di cui agli artt. 342-bis e 342-ter c.c..
Tribunale Barletta, 1 aprile 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Va accolto il ricorso per ordine di protezione ex art. 342-bis c.c. quando la condotta di uno dei coniugi, autore di frequenti episodi di violenza fisica e morale, è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica e morale e alla libertà dell’altro coniuge: anche se talora accompagnato da misure a contenuto economico, l’ordine di cessazione della condotta e di allontanamento del coniuge violento dalla casa familiare non è riconducibile né ai provvedimenti cautelari atipici ex art. 700 c.p.c. né a quelli temporanei e urgenti emessi dal presidente del tribunale ex art. 708 c.p.c..
Tribunale Napoli, 19 dicembre 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È ammissibile la domanda volta a conseguire l’ordine di protezione nei confronti del coniuge separato, anche allorché sia cessata la convivenza.
Tribunale Bologna, 25 maggio 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche in assenza di atti gravemente pregiudizievoli per l’integrità fisica del coniuge, va adottato l’ordine di protezione ex art. 342-bis c.c. e disposto l’allontanamento dalla casa familiare nei confronti del marito che con l’uso della violenza e più in generale con le modalità adottate nel rapportarsi al coniuge limiti la libertà personale della moglie.
Tribunale Reggio Emilia, 10 maggio 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ove sia in corso il procedimento previsto dall’art. 736-bis c.p.c. (adozione degli ordini di protezione contro gli abusi familiari), l’istanza di una delle parti volta a regolare il diritto di visita al figlio minore (naturale), è inammissibile, spettando la competenza relativa all’affidamento dei figli naturali e alla disciplina del diritto di visita del genitore non affidatario al Tribunale dei Minorenni, in forza dell’art. 38 disp. att. c.c.. La provvisorietà dell’assegno periodico previsto a norma dell’art. 342-ter c.c. – la cui funzione ed efficacia è limitata alla durata dell’ordine di protezione o, comunque, al periodo di tempo anteriore all’eventuale provvedimento successivo emesso dal giudice competente, volto a garantire il diritto al mantenimento di soggetti bisognosi – si evince dal tenore testuale della predetta disposizione. La cognizione relativa alla domanda inerente alla contribuzione del genitore (non più convivente) al mantenimento della prole, ove proposta nel giudizio volto all’affidamento del naturale, deve ritenersi spettante al Tribunale dei Minorenni.
Tribunale Reggio Emilia, 10 maggio 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di reclamo contro il decreto emesso ex art. 342-bis c.c. è inammissibile l’istanza con cui la parte reclamata chiede l’applicazione delle misure previste dall’art. 709-ter c.p.c. lamentando il mancato paga¬mento dell’assegno periodico disposto con l’ordine di protezione.
Va accolto il ricorso per ordine di protezione ex art. 342-bis c.c. quando la condotta di uno dei conviventi, autore di un episodio di violenza fisica in danno dell’altro e alla presenza del figlio minore (il fatto, maturato in un conte¬sto di conflittualità dipendente dalla crisi del rapporto affettivo, era stato preceduto da un episodio di minacce), è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica e morale e alla libertà dell’altro convivente e pregiudica altresì lo sviluppo morale ed educativo del figlio (nella specie, un bambino di neppure tre anni, che aveva assistito in casa all’aggressione della madre ad opera del padre).
Cass. civ. Sez. I, 15 gennaio 2007, n. 625 (Famiglia e Diritto, 2007, 6, 571 nota di PRESUTTI)
In tema di ordini di protezione contro gli abusi familiari nei casi di cui all’art. 342-bis cod. civ., il decreto motivato emesso dal tribunale in sede di reclamo con cui si accolga o si rigetti l’istanza di concessione della misura caute¬lare dell’allontanamento dalla casa familiare, non è impugnabile per cassazione né con ricorso ordinario – stante l’espressa previsione di non impugnabilità contenuta nell’art. 736-bis cod. proc. civ., introdotto dall’art. 3 della legge 4 aprile 2001, n. 154 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari) -, né con ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost., giacché detto decreto difetta dei requisiti della decisorietà e della definitività.
Tribunale Padova, 31 maggio 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Può ritenersi sussistente il requisito della convivenza, al fine di emettere l’ordine di allontanamento dall’abitazio¬ne familiare nel caso di conflittualità tra fratelli conviventi, pur quando vi sia stato l’allontanamento, provocato dal profondo timore di subire violenza fisica del congiunto, mantenendo peraltro nell’abitazione familiare il centro degli interessi materiali ed affettivi.
Tribunale Modena, 30 maggio 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La reiterazione di atti di aggressività del figlio nei confronti dei genitori, idonea ad arrecare nel tempo una rilevante lesione a beni giuridici fondamentali quali la dignità delle persone, la serenità della vita familiare, la funzione di guida e di indirizzo che spetta ai genitori nei confronti dei figli, giustifica l’adozione di un ordine di protezione. Ne consegue che se non viene meno il dovere dei genitori di istruire, mantenere ed educare i figli, questi possono nondimeno essere allontanati dalla casa familiare qualora la loro condotta ingiustificatamente aggressiva e violenta, protrattasi nel tempo, sia idonea ad arrecare gravi danni ai genitori.
Tribunale Messina, 24 settembre 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La figlia maggiorenne che abbia posto in essere condotte reiterate consistenti in aggressioni fisiche e verbali nei confronti del padre convivente può essere destinataria dell’ordine di allontanamento dalla casa familiare ai sensi degli art. 342 bis e ter c.c. ma, ove il soggetto allontanato non abbia una propria autonomia economica, il giudice deve contestualmente disporre a carico del padre l’obbligo di pagamento di un assegno periodico ai sensi degli art. 148 e 342 ter, comma 2, c.c.
Tribunale Bologna Sez. I, 22 marzo 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le misure di tutela di cui agli artt. 342 bis e 342 ter c.c. possono essere accordate anche se non sussiste tra i due soggetti della coppia una situazione di convivenza, intesa quale perdurante coabitazione, al momento della proposizione della domanda. Integrano il presupposto del grave pregiudizio all’integrità fisica e morale, ai fini dell’art. 342 bis c.c., gli atteggiamenti intimidatori e violenti tenuti nei confronti del nucleo familiare.
Cass. civ. Sez. I, 5 gennaio 2005, n. 208 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di ordini di protezioni contro gli abusi familiari nei casi di cui all’art. 342 bis c.c., il decreto motivato emesso dal tribunale in sede di reclamo con cui si accolga o si rigetti l’istanza di concessione della misura caute¬lare dell’allontanamento dalla casa familiare, non è impugnabile per cassazione né con ricorso ordinario – stante l’espressa previsione di non impugnabilità contenuta nell’art. 736 bis c.p.c., introdotto dall’art. 3 della legge 4 aprile 2001, n. 154 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari) -, né con ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost., giacché detto decreto difetta dei requisiti della decisorietà e della definitività.
Tribunale Reggio Emilia, 16 settembre 2004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il contenuto dell’ordine di protezione emesso ai sensi dell’art. 342-ter c.c. non può riguardare la disciplina del diritto di visita dei figli da parte del genitore destinatario, trattandosi di materia riservata alla competenza inde¬rogabile del tribunale dei minorenni.
Tribunale Bari, 28 luglio 2004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non può essere concesso l’ordine di allontanamento dalla casa familiare in presenza di una situazione di reci¬proca incomunicabilità ed intolleranza tra soggetti conviventi, di cui ciascuna delle parti imputa all’altra la re¬sponsabilità, quante volte i litigi, ancorché aspri nei toni, non siano stati aggravati da violenze fisiche o minacce in danno del ricorrente o non si siano tradotti in un vulnus alla dignità dell’individuo di entità non comune, vuoi per la particolare delicatezza dei profili della dignità stessa concretamente incisi, vuoi per le modalità «forti» dell’offesa arrecata, vuoi per la ripetitività o la prolungata durata nel tempo della sofferenza patita dall’offeso.
Il presupposto dell’ordine di protezione non è la condotta in sé del convivente nei cui confronti si richiedono le misure di protezione, bensì l’esistenza di un pregiudizio grave all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà, patito da un familiare convivente, imputabile in termini causali alla condotta dell’altro (nel caso di specie, è stata negata la concessione della misura richiesta sul duplice presupposto della mancanza: a) di fatti violenti, dai quali siano derivate non insignificanti lesioni alla persona di uno dei soggetti protetti, ovvero di una situazione di con¬flittualità tale da poter prevedibilmente dare adito al rischio concreto ed attuale per uno dei familiari conviventi di subire violenze gravi dagli altri; b) di un “vulnus” alla dignità dell’individuo di entità non comune, in relazione alla particolare delicatezza dei profili della dignità stessa concretamente incisi, ovvero per le modalità forti dell’offesa arrecata e per la ripetitività o la prolungata durata nel tempo della sofferenza patita dall’offeso).
Tribunale Catania Sez. I, 22 maggio 2004 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’adozione degli ordini di protezione da parte del giudice civile è divenuta ammissibile pur in presenza di pro¬spettazioni di fatti in astratto integranti gli estremi di reati perseguibili d’ufficio, essendo stato abrogato il limite previsto in origine. Qualora ricorra il presupposto del grave pregiudizio all’integrità fisica, il giudice civile può ordinare la cessazione della condotta pregiudizievole e l’immediato allontanamento dalla casa familiare del con¬vivente violento.
Tribunale Desio, 29 ottobre 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il marito che si sia reso autore di insulti e aggressioni nei confronti della propria moglie, oltre che di aggressioni con arma da taglio nei confronti di una parente stretta di quest’ultima, deve essere allontanato dalla casa coniu¬gale con un provvedimento emesso inaudita altera parte.
Tribunale Bari, 29 maggio 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di condotte, da ambo i lati, gravemente pregiudizievoli e inosservanti degli obblighi gravanti sui coniugi ex art. 143 c. c., è inibito al giudice concedere l’ordine di protezione di cui all’art. 2 L. 4 aprile 2001 n. 134 (recante “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”), disposizione che mira a tutelare i soli soggetti deboli all’interno della conflittualità familiare; in assenza d’emissione della misura di protezione ‘non patrimo¬niale’ non può il giudice, che pur rilevi l’inadempimento dell’altro coniuge all’obbligo di mantenimento ex artt. 143-147 c. c., riconoscere il diritto alla percezione dell’assegno periodico, che è correlato ex art. 142-ter, co. 2°, c.c., con rapporto d’innegabile accessorietà, all’emissione della misura principale ‘non patrimoniale’ di cui al co. 1° stesso articolo.
Tribunale Genova, 7 gennaio 2003 (Famiglia e Diritto, 2004, 387 nota di CARRERA)
Il comportamento violento del padre nei confronti della madre, nonché la conseguente querela e ricorso per separazione presentati da questa, rendono opportuno ordinare, nell’interesse del minore, la cessazione della condotta violenta, disporre l’allontanamento dalla casa familiare e prescrivere il divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla moglie e dai figli.
Tribunale Napoli, 18 dicembre 2002 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La normativa introdotta dalla legge 4 aprile 2001, n. 154 per la repressione degli abusi familiari trova applica¬zione limitatamente alle ipotesi di abuso poste in essere da conviventi (nella specie è stata esclusa l’applicabilità della suddetta normativa in un caso di abuso posto in essere dai genitori di uno dei coniugi, non conviventi con questi ultimi).
Trib. Minorenni L’Aquila, 19 luglio 2002 (Famiglia e Diritto, 2003, 5, 482 nota di DOLCINI)
Non solo gli abusi o i maltrattamenti, commessi direttamente sulla persona del minore, ma anche quelli indiretti, perpetrati nei confronti di stretti congiunti a lui cari (quali la visione da parte del minore di ripetute aggressioni fisiche alla madre da parte del padre) integrano un vero e proprio abuso o maltrattamento del minore, tali da legittimare l’immediato allontanamento del marito e padre dalla casa familiare.
Tribunale Bari, 18 luglio 2002 (Famiglia e Diritto, 2002, 6, 623 nota di DE MARZO)
Per potersi configurare il “grave pregiudizio all’integrità morale” di un coniuge, che legittima il ricorso ex art. 342 bis c.c., deve verificarsi un “vulnus” alla dignità dell’individuo di entità non comune, o per la particolare delicatezza dei profili della dignità stessa concretamente incisi, o per le modalità – forti – dell’offesa arrecata, o per la ripetitività o la prolungata durata nel tempo della sofferenza patita dall’offeso (nella specie, si è escluso che tale pregiudizio sia ravvisabile nel comportamento del marito che, nell’ambito di una crisi coniugale im¬provvisamente insorta da pochi mesi, non fornisce alla moglie il denaro occorrente per le esigenze primarie di quest’ultima e della famiglia, provvedendo però in prima persona al reperimento delle provviste domestiche e a talune spese mediche).
Solo la celebrazione dell’udienza di comparizione davanti al Presidente ex art. 706 c.p.c. o ex art. 4 l. n. 898 del 1970 preclude l’accoglimento del ricorso per La protezione contro gli abusi familiari. Ne deriva che, ove tale udienza non si sia tenuta, la domanda prevista dall’art. 342 bis c.c. è senz’altro ammissibile, nonostante la con¬temporanea o la previa proposizione del ricorso per separazione personale o per divorzio.
Tribunale Firenze, 15 luglio 2002 (Famiglia e Diritto, 2003, 3, 263 nota di DE MARZO
L’ordine di pagamento periodico di un assegno è accessorio al provvedimento di allontanamento dalla casa fa¬miliare.
II reclamo avverso il provvedimento con il quale venga concesso l’ordine di protezione contro gli abusi familiari introduce un giudizio avente natura di revisio prìorìs instantiae, con la conseguenza che è inammissibile la pro¬duzione di documenti nuovi e la richiesta di assunzione di prove costituende.
Laddove il richiedente l’ordine di protezione contro gli abusi familiari imposti la propria istanza come prodromica al giudizio di separazione, le spese del procedimento devono essere liquidate all’esito di quest’ultimo giudizio.
Tribunale Napoli, 1 febbraio 2002 (Famiglia e Diritto, 2002, 5, 504 nota di FIGONE)
Non può essere accolto il ricorso ex art. 342 bis c.c., in difetto del presupposto della convivenza tra l’istante ed il soggetto cui viene addebitato il comportamento violento (nella specie, la ricorrente lamentava di essere stata costretta ad abbandonare la casa coniugale a fronte di intimidazioni dei genitori e dei fratelli del marito, non conviventi con la coppia).
Tribunale Bari, 20 dicembre 2001 (Famiglia e Diritto, 2002, 4, 397 nota di PETITTI)
Il ricorso ex art. 700 c.p.c., proposto dopo il deposito del ricorso per separazione giudiziale ma prima della udien¬za presidenziale, volto ad ottenere un ordine di protezione familiare (nella specie allontanamento del coniuge violento) deve essere dichiarato inammissibile perché sussistente lo specifico rimedio offerto dalla l. n. 154 del 2001, ovvero il ricorso ex art. 342 bis c.c.
Pur non atteggiandosi il ricorso ex art. 342 bis c.c. ad azione cautelare in senso stretto, in difetto della impre¬scindibile strumentalità rispetto ad un successivo giudizio di merito, non prescritto nella l. n. 154 del 2001, esso è un mezzo sovrapponibile al ricorso ex art. 700 c.p.c.
Le violente aggressioni verbali e minacce di arrecare mali ingiusti ledono in modo attuale e concreto l’integrità morale e la libertà del convivente e sono tali da giustificare, in mancanza di fatti integranti reati perseguibili d’uf¬ficio, l’adozione da parte del giudice civile dei provvedimenti ex art. 342 ter c.c. (nella specie ordine di cessazione della condotta pregiudizievole ed allontanamento dalla casa familiare del convivente violento).
Tribunale Trani, 12 ottobre 2001 (Famiglia e Diritto, 2002, 4, 395 nota di PETITTI)
Il pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente deve essere causato dalla condotta pregiudizievole del coniuge o di altro convivente, ragionevolmente intendendosi con tale termine reiterate azioni ravvicinate nel tempo e consapevolmente dirette a ledere i beni tutelati dalla l. n. 154 del 2001 in modo che ne sia gravemente e senza soluzioni di continuità temporale alterato il regime di condotta pregiudizie¬vole prevista dalla norma singoli episodi compiuti a distanza di considerevole tempo tra loro nei quali, peraltro, non sia ravvisabile la piena consapevolezza dell’autore (nella fattispecie l’autore della condotta era affetto da turbe psichiche e mentali). Costituisce dato assorbente, in virtù della riserva contenuta nell’art. 342 bis c.c., il verificarsi di episodi identificabili come reati perseguibili d’ufficio.
Tribunale Palermo, 4 giugno 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Va allontanato dalla casa coniugale il marito che, con l’appoggio e la partecipazione attiva dei propri familiari, ha aggredito ed insultato la moglie, alla presenza, per di più, della figlia comune in tenerissima età; al medesimo va, altresì impartito il divieto di avvicinarsi all’abitazione dei familiari della moglie, e l’ordine di versare a quest’ulti¬ma, mensilmente, un assegno a titolo di contributo al mantenimento della minore.

Assegna il gatto al resistente ed il cane ad entrambe le parti a settimane alterne

Tribunale ordinario di Sciacca, 19 febbraio 2019. Giudice Tricoli

Il Presidente
letti ed esaminati gli atti;
sciogliendo la riserva di cui al verbale del (**);
valutato l’esito negativo del tentativo di conciliazione dal quale emerge che la frattura del legame coniugale tra le parti risulta insanabile;
considerato che l’assegno di mantenimento non è dovuto al solo fine di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio (Cass. n. 11504 del 10/05/2017);
ritenuto, quindi, che in relazione alla durata del matrimonio, all’età delle parti, alla loro capacità lavorativa ed ai loro redditi, appare congruo porre a carico del resistente un assegno mensile di mantenimento da corrispondere alla ricorrente in Euro (**) rivalutare annualmente ed assegnare a quest’ultima l’abitazione familiare sita in (**);
rilevato che in mancanza di accordi condivisi e sul presupposto che il sentimento per gli animali costituisce un valore meritevole di tutela, anche in relazione al benessere dell’animale stesso, assegna il gatto (**) (**) al resistente che dalla sommaria istruttoria appare assicurare il miglior sviluppo possibile dell’identità dell’animale ed il cane (**), indipendentemente dall’eventuale intestazione risultante nel microchip, ad entrambe le parti, a settimane alterne, con spese veterinarie e straordinarie al 50%.
P.Q.M.
1) autorizza i coniugi a vivere separatamente;
2) assegna la casa coniugale alla ricorrente;
3) fa obbligo al resistente di versare alla ricorrente entro i primi 5 giorni di ogni mese, quale assegno di mantenimento, la somma complessiva di (**) rivalutare annualmente;
4) assegna il gatto (**) al resistente ed il cane (**) ad entrambe le parti a settimane alterne.
Nomina giudice istruttore la dr.ssa (**) e fissa per la comparizione delle parti l’udienza del (**)
Assegna al ricorrente il termine di giorni trenta per il deposito in cancelleria di memoria integrativa.
Assegna al resistente termine sino a venti giorni prima dell’udienza come sopra fissata per costituirsi in giudizio ai sensi degli artt. 166 e 167 1 e 2 co. c.p.c., nonché per proporre le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, con avvertimento alla stessa convenuta che la costituzione oltre il termine assegnato comporterà le decadenze previste nel citato art. 167 e la improponibilità delle predette eccezioni.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di competenza.