La sospensione della prescrizione non si applica ai coniugi separati

Cass. civ. Sez. III, 23 novembre 2017, n. 27889
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ORDINANZA
sul ricorso 1739/2016 proposto da:
P.G., elettivamente domiciliata in ROMA, P.ZA ADRIANA 20, presso lo studio dell’avvocato ANTONELLA LO CONTE, che la rappresenta e difende giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
A.O., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA EIANINA, 21, presso lo studio dell’avvocato ANNA CASTAGNA, che lo rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 6082/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 03/11/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/10/2017 dal Consigliere Dott. GIOVANNI FANTICINI;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. ANNA MARIA SOLDI che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso perchè infondato.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
RILEVATO CHE:
– A.O. proponeva opposizione all’esecuzione exart. 615 c.p.c., comma 1, contestando il diritto di P.G. di procedere all’esecuzione forzata minacciata con l’atto di precetto notificato il 5 agosto 2009;
– per quanto ancora rileva in questa sede, l’opponente eccepiva (tra l’altro) la prescrizione del credito azionato, relativo al mancato pagamento di assegni di mantenimento della prole dovuti dal gennaio 1998 (in forza del verbale di separazione consensuale omologato il 29 dicembre 1997) al febbraio 2001 (stante il passaggio in giudicato – il 2 marzo 2001 – della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio);
– si costituiva in giudizio P.G., la quale chiedeva il rigetto dell’opposizione;
– con sentenza n. 6270 del 25 marzo 2011, il Tribunale di Roma accoglieva l’opposizione, ritenendo fondata l’eccezione di prescrizione;
– l’opposta proponeva appello avverso tale decisione;
– la Corte d’appello di Roma, con la sentenza n. 6082 del 3 novembre 2015, respingeva il gravame e condannava l’appellante a rifondere le spese del grado;
– P.G. impugna la predetta sentenza con ricorso per cassazione affidato a tre motivi;
– resiste con controricorso A.O.;
– il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte exart. 380-bis c.p.c., comma 1 e ha chiesto il rigetto del ricorso;
– anche la ricorrente ha depositato memoria exart. 380-bis c.p.c., comma 1.
CONSIDERATO CHE:
1. Col primo motivo la ricorrente censura la decisione per violazione (exart. 360 c.p.c., n. 3) degliartt. 160, 147, 148, 316-bis e 2934 c.c., nonché per vizio della motivazione exart. 360 c.p.c., n. 5, per avere la Corte di merito ritenuto soggetti a prescrizione i crediti inerenti al mantenimento della prole da corrispondere attraverso il pagamento di assegni in ratei mensili; afferma la P. che dalle caratteristiche di inderogabilità dell’obbligo di mantenimento e di irrinunciabilità e indisponibilità del relativo diritto il giudice del merito avrebbe dovuto desumere l’imprescrittibilità dei crediti azionati.
2. Il motivo è inammissibile.
Nel ricorso introduttivo la P. dichiara di avere impugnato con l’appello la decisione di primo grado “censurando l’accoglimento dell’eccezione di prescrizione ex adverso proposta, in quanto inammissibile – stante la genericità della proposizione da parte dell’opponente… – ed in quanto infondata, stante sia la sospensione ex lege per tutta la durata del vincolo coniugale (02.03.2001), sia l’interruzione ad opera della notifica dell’atto di precetto (03.02.2006).
Dalla sentenza della Corte d’appello (a cui la ricorrente non imputa un vizio di minuspetizione exart. 112 c.p.c.) si trae conferma che le censure formulate con l’appello erano limitate a “1) l’inammissibilità dell’eccezione di prescrizione, perché proposta in maniera generica” e “2) l’infondatezza dell’eccezione di prescrizione, non avendo il giudice di prima istanza dato rilievo all’atto di precetto notificato in data 3.2.2006”.
Questa Corte ha già statuito che “i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito né rilevabili d’ufficio” (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 7981 del 30/03/2007, Rv. 597111-01; analogamente, Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 17041 del 09/07/2013, Rv. 627045-01: “Non sono prospettabili, per la prima volta, in sede di legittimità le questioni non appartenenti al tema del decidere dei precedenti gradi del giudizio di merito, né rilevabili di ufficio”).
3. Col secondo motivo la ricorrente deduce – richiamandol’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 – violazionedell’art. 2938 c.c., poiché, nel confermare la decisione di primo grado, la Corte d’appello avrebbe accolto un’eccezione di prescrizione formulata in modo generico e senza l’allegazione del fatto che ne determina la decorrenza, arrivando così ad individuare ex officio gli elementi costitutivi dell’eccezione.
4. Il motivo è inammissibile.
Per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (art. 366 c.p.c.) la parte ricorrente è onerata di indicare nell’atto gli elementi fattuali condizionanti l’ambito di operatività di detta violazione; conseguentemente, qualora si affermi – come fa la ricorrente – che una difesa è stata formulata in maniera generica o inidonea negli atti della controparte, è necessario procedere alla trascrizione integrale dei medesimi o del loro essenziale contenuto al fine di consentire il controllo della Corte di legittimità sulla base del solo ricorso, senza necessità di ulteriori indagini integrative.
In altri termini, al fine di permettere a questa Corte l’esame della sua censura (segnatamente, la mancata deduzione degli elementi fondanti la prescrizione estintiva), la P. avrebbe dovuto riportare il testo dell’atto di citazione in opposizione con cui l’ A. ha sollevato l’eccezione.
Al contrario, l’odierna ricorrente si limita ad asserire che la controparte non aveva specificato alcunché e che solo nelle conclusioni aveva chiesto apoditticamente di “dichiarare, comunque, l’avvenuta prescrizione del credito azionato”.
Anche a voler prescindere dalla lacunosità del ricorso, il motivo non può trovare accoglimento: infatti, “grava sulla parte che eccepisce la prescrizione estintiva solamente l’onere di allegare l’inerzia del titolare del diritto dedotto in giudizio e di manifestare la volontà di avvalersene, non anche di tipizzare l’eccezione specificando a quale tra le previste prescrizioni, diverse per durata, intenda riferirsi, spettando al giudice stabilire se, in relazione al diritto applicabile al caso, l’eccepita estinzione si sia verificata” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 15790 del 29/07/2016, Rv. 641583-01; analogamente, Cass., Sez. 3, Sentenza n. 24037 del 13/11/2009, Rv. 610673-01, e Cass., Sez. 3, Sentenza n. 14576 del 22/06/2007, Rv. 598981-01).
5. Col terzo motivo la ricorrente censura la sentenza di merito richiamandol’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – per violazione degliartt. 2943 e 2697 c.c., per non essere stata attribuita efficacia interruttiva della prescrizione all’atto di precetto precedentemente notificato in data 3 febbraio 2006, la cui ricezione era stata affermata dallo stesso opponente, indipendentemente da una materiale produzione del documento nel giudizio; inoltre, la P. afferma che non è stata considerata dai giudici di merito la sospensione del termine di prescrizione exart. 2941 c.c., n. 1, la cui applicabilità ai coniugi separati è controversa in giurisprudenza.
6. Il motivo contiene due distinte censure.
Nella sentenza impugnata si legge: “Ha sostenuto il giudice di prime cure… (che) l’opposizione doveva ritenersi fondata senza che alcun effetto interruttivo potesse riconoscersi al precedente precetto che la convenuta assume essere stato notificato all’ex coniuge in data 3.2.2006 in quanto non prodotto agli atti… Anche considerando il precetto notificato nel febbraio 2006, il diritto dell’appellante risulterebbe comunque pressoché totalmente prescritto. A fronte dell’eccezione di prescrizione sollevata dall’opponente, l’opposta avrebbe dovuto dedurre in primo luogo e poi provare il fatto interruttivo della prescrizione. Non essendo stata dedotta l’efficacia interruttiva della notifica del precetto di cui si discute, siffatta interruzione non può essere presa in considerazione in questa sede”.
Col ricorso per cassazione la P. ribatte che nell’atto di citazione introduttivo della causa (di cui è parzialmente riportato il testo) l’ A. aveva più volte ammesso che l’intimazione era stata preceduta da un precetto in data 3 febbraio 2006 e che la convenuta aveva avanzato istanza di riunione della presente controversia all’opposizione avente ad oggetto quell’atto; pertanto, “la circostanza relativa all’avvenuta notifica in data 3 febbraio 2006 di un atto di precetto avente ad oggetto le medesime somme portate dall’atto di precetto notificato in data 5 agosto 2009 era da ritenersi pacifica tra le parti, in quanto allegata dal medesimo opponente, ed acquisita al giudizio dal primo grado, senza onere alcuno a carico della parte opposta di provare un patto già allegato e prodotto dalla controparte”.
Il controricorrente conferma che “di tale precetto è stata fatta menzione nell’atto di citazione in opposizione al precetto” (pur non essendo prodotto) e che, tuttavia, l'”eccezione di interruzione viene ancorata al precetto notificato in data 3 febbraio 2006 solo in sede di atto d’appello”.
La Corte di merito non ha motivato la propria decisione fondandola sulla mancata prova di un atto interruttivo della prescrizione o sulla necessità di una sua dimostrazione per iscritto, ma ha invece affermato che la parte non aveva tempestivamente allegato l’efficacia interruttiva di quello specifico atto.
In proposito, si osserva che la giurisprudenza di legittimità ha più volte statuito che “l’eccezione di interruzione della prescrizione integra un’eccezione in senso lato e non in senso stretto e, pertanto, può essere rilevata d’ufficio dal giudice sulla base di elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti” (Cass., Sez. U., Sentenza n. 15661 del 27/07/2005, Rv. 583491-01), e che “il giudice, chiamato a decidere sulla questione di prescrizione introdotta dal convenuto attraverso l’eccezione di cuiall’art. 2938 c.c., può tener conto anche del fatto interruttivo di essa, anche se non dedotto formalmente dall’attore come controeccezione” (Cass., Sez. L., Sentenza n. 2035 del 30/01/2006, Rv. 587230-01), fermo restando che “l’interruzione della prescrizione può essere dedotta per la prima volta in sede di appello” (Cass., Sez. L., Sentenza n. 25213 del 30/11/2009, Rv. 611076-01).
In base a tale orientamento di legittimità, è fondato il motivo della ricorrente nella parte in cui censura la pretesa di una espressa e tempestiva formulazione della controeccezione di interruzione della prescrizione.
Al contrario, il giudice dell’appello avrebbe dovuto – anche d’ufficio, ma soprattutto a seguito della formulazione di uno specifico motivo di impugnazione – esaminare il materiale probatorio già acquisito in primo grado (considerando, peraltro, che la prova della richiesta scritta di adempimento può essere ricavata anche in via presuntiva; v. Cass., Sez. 1, Sentenza n. 17018 del 23/06/2008, Rv. 60403901, e Cass., Sez. L., Sentenza n. 7181 del 06/08/1996, Rv. 498980-01) al fine di individuare, se esistente, un fatto interruttivo dell’eccepita prescrizione.
Illogica e contraddittoria è la sentenza laddove respinge l’appello perché il diritto di credito sarebbe “comunque pressoché totalmente prescritto”, dato che un accoglimento parziale dell’eccezione giustificherebbe il diritto della P. di agire in executivis per il residuo credito non estinto.
Il motivo deve essere accolto limitatamente alla denunciata violazionedell’art. 2943 c.c., mentre è inammissibile per il resto.
Infatti, la questione inerente all’applicabilità ai coniugi separati della sospensione del termine di prescrizione exart. 2941 c.c., n. 1, non era stata introdotta come motivo di appello e, perciò, non è prospettabile in sede di legittimità (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 7981 del 30/03/2007, Rv. 597111-01; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 17041 del 09/07/2013, Rv. 627045-01).
Ad ogni buon conto, secondo un ormai univoco orientamento giurisprudenziale, “La sospensione della prescrizione tra coniugi di cuiall’art. 2941 c.c., n. 1, non trova applicazione al credito dovuto per l’assegno di mantenimento previsto nel caso di separazione personale, dovendo prevalere sul criterio ermeneutico letterale un’interpretazione conforme alla ratio legis, da individuarsi tenuto conto dell’evoluzione della normativa e della coscienza sociale e, quindi, della valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto alla conservazione dell’unità familiare e della tendenziale equiparazione del regime di prescrizione dei diritti post-matrimoniali e delle azioni esercitate tra coniugi separati. Nel regime di separazione, infatti, non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turbare l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state esperite le relative azioni giudiziarie, con la conseguente cessazione della convivenza, il venir meno della presunzione di paternità di cuiall’art. 232 c.c.e la sospensione degli obblighi di fedeltà e collaborazione”. (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 7981 del 04/04/2014, Rv. 630120-01; conformi Cass., Sez. 1, Sentenza n. 18078 del 20/08/2014, Rv. 632052-01, e Cass., Sez. 61, Ordinanza n. 8987 del 05/05/2016, Rv. 639566-01).
7. In conclusione, dichiarati inammissibili il primo e il secondo motivo, la sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, la quale esaminerà la fattispecie dedotta col terzo motivo alla luce delle indicazioni fornite da questa Corte di legittimità.
La liquidazione delle spese è rimessa al giudice del rinvio.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibili il primo e il secondo motivo;
accoglie, per quanto di ragione, il terzo motivo;
cassa la decisione impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per la statuizione sulle spese.

Chi impugna il testamento deve dare la prova circa l’incapacità naturale del testatore mentre chi vuole avvalersene deve provare la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo

Cass. civ. Sez. VI – 2, 19 dicembre 2017, n. 30485
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23146-2016 proposto da:
A.E., domiciliato in ROMA presso la Cancelleria della Corte di Cassazione e rappresentato e difeso dagli avvocati PAOLO CORLETTO e GIOVANNI GALOPPI giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
A.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE CORTINA D’AMPEZZO 269, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO DE SANTIS, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARIO PARIZZI giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
e contro
A.M.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1979/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 19/08/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16/11/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le memorie depositate dalle parti.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
A.E. conveniva in giudizio i germani M. e G. chiedendo l’annullamento per incapacità naturale del testamento olografo redatto dalla madre F.E. in data 17/10/2001 con il quale aveva legato al figlio G. alcuni immobili, chiedendo in via subordinata disporsi la riduzione sia della disposizione contenuta in detto testamento, sia delle disposizioni a favore del figlio M. contenute nei testamenti olografi del (OMISSIS) e del (OMISSIS), in quanto lesive della propria quota di legittima.
Si costituiva il convenuto A.G. che contestava la fondatezza della domanda e chiedeva procedersi allo scioglimento della comunione ereditaria, tenendo conto in particolare delle passività.
Alle difese del convenuto si associava anche l’altro convenuto A.M..
L’attore chiedeva quindi la resa del conto.
Il Tribunale di Treviso con la sentenza n. 1080 del 6 giugno 2013 rigettava l’impugnativa del testamento, dichiarava inammissibili le domande proposte in epoca successiva agli atti introduttivi, ed accoglieva la domanda di riduzione dell’attore, ritenendo sussistere una lesione di Euro 273.490,82. Per l’effetto disponeva lo scioglimento della comunione con assegnazione di distinti lotti ai germani, condannando G. e M. al pagamento della somma equivalente alla quota dei frutti civili prodotti dai beni legati a far data dall’apertura della successione.
A seguito di appello principale di A.G. e di appello incidentale di A.E., la Corte d’Appello di Venezia con la sentenza n. 1979 del 19 agosto 2015 in parziale accoglimento dell’appello principale riduceva l’importo da questi dovuto al fratello E. a titolo di frutti non goduti, limitandoli al solo bene sito nel Comune di Jesolo, rigettando per il resto gli altri motivi dell’appello principale e l’appello incidentale.
Esaminava prioritariamente l’appello incidentale indirizzato al rigetto della domanda di annullamento del testamento, ritenendo corretta la decisione gravata.
A tal fine osservava che in base ai principi generali elaborati dalla giurisprudenza, l’onere della prova circa l’incapacità naturale del testatore incombeva sull’attore, in quanto le condizioni di salute della de cuius in epoca prossima alla redazione del testamento non erano tali da far ritenere sussistente una condizione permanente di incapacità.
Infatti, sebbene la stessa fosse reduce da un ricovero ospedaliero, all’esito del quale era stata dimessa con una diagnosi di demenza senile multinfartuale, tuttavia si trattava di patologia, alla luce anche di quanto emergeva dalle indagini peritali, che non comportava un’incapacità assoluta e permanente, tale da determinare un’inversione dell’onere della prova.
Né le prove orali apparivano univoche in un senso o nell’altro, atteso che mentre alcuni testi avevano fatto riferimento ad una incapacità assoluta, altri avevano invece dichiarato che la testatrice anche dopo il ricovero era lucida e partecipe delle conversazioni che avvenivano alla sua presenza.
In merito al secondo motivo di appello incidentale con il quale l’attore si doleva del fatto che gli fosse stato assegnato all’esito della divisione, ed a tacitazione dei suoi diritti di riserva, la quota di 1/3 di un immobile in (OMISSIS) legato al fratello G., la Corte distrettuale riteneva corretta la soluzione del Tribunale rispondendo alla previsione di cuiall’art. 560 c.c.che consente, ed anzi suggerisce in via preferenziale, di tacitare i diritti del legittim. mediante beni in natura.
Ancora condivideva la valutazione di inammissibilità, in quanto tardiva, della domanda dell’attore di includere nella massa anche gli utili spettanti alla madre della società Eredi A. S.n.c., mancando in ogni caso la prova circa l’effettiva esistenza di tali utili, e rigettava il motivo dell’appello principale volto a contestare il valore attribuito dal CTU alla cava legata al figlio G. con il testamento oggetto di impugnazione.
Infine, accoglieva il motivo dell’appello principale con il quale A.G. lamentava l’eccessiva misura delle somme riconosciute quali frutti in favore della controparte.
In particolare, ancorché tale domanda dell’attore dovesse reputarsi tempestiva, tuttavia i frutti andavano calcolati unicamente sulla quota dell’immobile ubicato nel Comune di (OMISSIS) e che, a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione, era stato assegnato ad E., posto che gli altri beni ricevuti per testamento da G., non erano stati sottoposti a riduzione.
A.E. ha proposto ricorso avverso tale sentenza sulla base di quattro motivi.
A.G. ha resistito con controricorso.
A.M. non ha svolto attività difensiva in questa sede.
Preliminarmente deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per la sua pretesa tardività.
Infatti, in assenza di notificazione della sentenza, alla fattispecie trova applicazione il termine lungo annuale di cuiall’art. 327 c.p.c., e quindi essendo stata la sentenza impugnata pubblicata in data 19/8/2015, tenuto conto del periodo di sospensione feriale pari a trentuno giorni, il termine per la proposizione del ricorso veniva a scadere in data 1 ottobre 2016 (e non il 30 settembre, come invece erroneamente dedotto dal controricorrente, facendo riferimento ad un periodo di sospensione feriale di soli trenta giorni). Poiché il 1 ottobre era un sabato, ne scaturisce il differimento ex lege del termine al primo giorno lavorativo successivo che è appunto il 3 ottobre, allorquando risulta notificato il ricorso.
Con il primo motivo di ricorso si denunzia la nullità della sentenza exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per la violazione delle regole di riparto dell’onere della prova.
Assume il ricorrente che erroneamente i giudici di appello hanno affermato che fosse onere dell’attore dimostrare che la de cuius era assolutamente incapace di intendere e di volere alla data di redazione del testamento, posto che à contrario emergeva in maniera evidente dal complesso delle risultanze istruttorie che la testatrice versava in condizioni di salute tali da renderla permanentemente incapace.
Il secondo motivo denunzia poi la violazione e falsa applicazione degli artt. 428 e 591 c.c. quale conseguenza dell’erronea individuazione della regola di riparto dell’onere della prova.
I due motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono del tutto privi di fondamento.
Ed, invero anche a voler trascurare l’erroneo inquadramento nella previsione di cu iall’art. 360 c.p.c., n. 4 della violazione della regola di giudizio di cu all’art. 2697 c.c., vale ricordare in linea di principio che la violazione di tale norma si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni.
Con specifico riferimento all’azione di annullamento del testamento per incapacità naturale del testatore, la giurisprudenza di questa Corte ha tradizionalmente affermato il principio per cui (cfr. Cass. n. 27351/2014) l’incapacità naturale del testatore postula l’esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del “de cuius”, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi; peraltro, poiché lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l’eccezione, spetta a chi impugni il testamento dimostrare la dedotta incapacità, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene provarne la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo (conf. Cass. n. 9081/2010).
La sentenza impugnata, in ordine all’individuazione del soggetto gravato dell’onere della prova, ha fatto corretta applicazione di tali principi, pervenendo alla conclusione in punto di fatto, e come tale insuscettibile di essere sindacata in questa sede, anche perchè frutto di logica e coerente argomentazione, secondo cui la de cuius, ancorchè affetta da alcune patologie, anche suscettibili di incidere sulle sua capacità psichiche, aveva conservato una capacità di autodeterminarsi, o meglio che non vi era prova che la stessa fosse del tutto priva, ed in maniera permanente, della capacità di intendere e di volere.
Per formulare tale valutazione la sentenza gravata ha preso in esame le risultanze dei referti ospedalieri, ed in particolare di quelli prossimi alla data dell’atto impugnato, avvalendosi ai fini della loro interpretazione anche delle indagini del perito d’ufficio, che del pari aveva concluso per l’impossibilità di poter ricondurre, ed in maniera automatica, alla patologia della demenza senile multinfartuale un grave e repentino decadimento delle funzioni psichiche, tenuto conto anche del fatto che prima della caduta che ne aveva provocato il ricovero nel settembre del 2001, la F. aveva conservato un buon equilibrio psichico.
Al fine di completare la propria indagine, la sentenza impugnata ha anche dato contezza dell’esito della prova testimoniale, sottolineando come il contrasto tra le deposizioni non permetteva di ravvisare quella situazione che avrebbe giustificato l’inversione della regola dell’onere della prova che, appunto, pone a carico di colui che invoca l’invalidità del testamento, la dimostrazione dell’incapacità della de cuius al momento della redazione dell’atto di ultima volontà.
La rapida sintesi delle argomentazioni spese dal giudice di appello permette di affermare che la conclusione raggiunta sia il frutto di una attenta e ponderata valutazione delle risultanze istruttorie, occorrendo a tal fine ricordare che (cfr. Cass. n. 23900/2016) quando un giudizio – come, nella specie, quello sulla capacità di intendere e di volere della persona defunta (al fine di valutarne la capacità di testare) – deve necessariamente risultare dall’esame coordinato di numerosi elementi, l’adeguatezza della motivazione del giudice del merito deve essere vagliata con riferimento all’insieme degli stessi nonchè alle difese delle parti, senza che peraltro, l’eventuale silenzio della motivazione su taluni dei predetti elementi possa essere considerato omesso esame di punti decisivi qualora, nel suo complesso, il giudizio risulti adeguatamente e concretamente giustificato e non si possa affermare che, senza quel silenzio, la decisione avrebbe potuto essere diversa.
Il motivo di ricorso in esame appare invece volto a sollecitare, in maniera peraltro non sempre specifica, facendosi richiamo ad atti ovvero a risultanze probatorie, delle quali non risulta puntualmente riportato il contenuto, esclusivamente una diversa rivalutazione dei fatti di causa, laddove anche la denunziata violazione di legge è solo apparente.
Infatti, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione della fattispecie astratta di una norma di legge e, perciò, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, con la conseguenza che il ricorrente che presenti la doglianza è tenuto a prospettare quale sia stata l’erronea interpretazione della norma in questione da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, a prescindere dalla motivazione posta a fondamento di questa (Cass., Sez. L., sentenza n. 26307 del 15 dicembre 2014, Rv. 633859). Al contrario, se l’erronea ricognizione riguarda la fattispecie concreta, il gravame inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (Cass., Sez. 5, sentenza n. 8315 del 4 aprile 2013, Rv. 626129), ma oggi negli ancor più ristretti limiti della novella del 2012.
Il terzo motivo denunzia l’omessa disamina di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in quanto gli sarebbero stati riconosciuti i frutti solo sulla quota di 1/3 dell’immobile sito in (OMISSIS).
Si deduce che sarebbe stato però omesso il fatto decisivo rappresentato dalla circostanza che tutti i beni assegnati al convenuto G. erano stati oggetto dell’azione di riduzione, ed in particolare anche la cava legata con il testamento del 2001.
La proposizione dell’azione di riduzione, ed il riscontro della sussistenza della lesione ha fatto sì che anche gli altri beni attributi per testamento siano caduti in comunione e che quindi i frutti debbano essere calcolati su tutti i beni de quibus.
Il quarto motivo denunzia la nullità della sentenza per vizio di ultrapetizione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 in quanto, limitando il calcolo dei frutti al solo detto immobile, la Corte di merito ha accolto una domanda che non era mai stata proposta dal convenuto.
Anche gli ultimi due motivi vanno congiuntamente esaminati attesa la loro connessione, rivelandosi del pari privi di fondamento.
Premessa l’erroneità della denuncia della violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione alla limitazione del calcolo dei frutti al solo bene assegnato all’attore a tacitazione dei suoi diritti di legittimario, non potendosi ritenere che tale limitazione costituisca l’accoglimento di una domanda del convenuto, essendosi il giudice limitato unicamente a determinare le modalità attraverso le quali andava accolta la diversa domanda attorea di riconoscimento dei frutti ex art. 561 c.c., ed anche a voler sorvolare circa la corretta sussumibilità del preteso vizio denunziato nella previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la soluzione alla quale è pervenuta la sentenza gravata è immune dalle critiche mosse.
Ed, infatti, all’esito del giudizio, e senza che sul punto sia stata avanzata censura da parte del ricorrente, la Corte di Appello, recependo le indicazioni già date dal Tribunale, pur riscontrando la lesione dei diritti di riserva dell’odierno ricorrente, ha ritenuto però di dover soddisfare tali diritti con l’assegnazione in natura di un solo bene, tra quelli assegnati per testamento al fratello G., e precisamente con la quota di 1/3 di un immobile in (OMISSIS).
Sebbene la domanda di riduzione avesse inteso aggredire tutti i beni dei quali i germani erano a vario titolo beneficiari, emerge chiaramente che la soluzione alla quale si è pervenuti, è stata quella di individuare l’entità della lesione, tenendo conto del valore anche delle attribuzioni mortis causa, ritenendo che tale lesione potesse però essere tacitata con l’assegnazione in natura del solo bene in questione, avendo l’attore ricevuto all’esito della divisione altri beni in natura, non oggetto delle disposizioni testamentarie, con il riconoscimento anche di un conguaglio in denaro a carico del fratello G., al fine di assicurare la perequazione di valore delle quote.
Ebbene, in presenza di una soluzione siffatta, vale richiamare la costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui (cfr. da ultimo Cass. n. 7478/2000) al legittimario cui venga restituito un immobile per reintegrare la quota di legittima spetta, a norma dell’art. 561 cod. civ., anche il diritto ai frutti quali accessori del bene, in relazione al suo mancato godimento, mentre, nell’ipotesi in cui il bene non possa essere restituito e la reintegrazione della quota di riserva avvenga per equivalente monetario, con l’ulteriore riconoscimento degli interessi legali sulla somma a tal fine determinata, nulla è dovuto per i frutti, posto che gli interessi legali attribuiti rispondono alla medesima finalità di risarcire il danno derivante dal mancato godimento del bene (lucro cessante) e pertanto il cumulo tra frutti e interessi comporterebbe la duplicazione del riconoscimento di una medesima voce di danno (conf. Cass. n. 843/1965).
Trattasi peraltro di una coerente applicazione del diverso principio per il quale (cfr. Cass. n. 1079/1970) colui che possiede un bene in virtù di un atto a titolo gratuito o di una disposizione testamentaria, possiede in virtù di un titolo idoneo a trasferire il dominio, il quale è originariamente valido e tale rimane fino a che non sia esercitata l’azione di riduzione, il cui accoglimento ne determina appunto l’inefficacia, con effetto dalla data della domanda giudiziale. La norma dell’art. 561 cod. civ., comma 2 costituisce un’applicazione del suddetto principio e, pertanto, in ogni caso di disposizione testamentaria o di donazioni, soggette a riduzione, i frutti dei beni da restituire sono dovuti al legittimario con decorrenza dalla domanda giudiziale. Se, però, si debba corrispondere una somma di denaro, nei casi previsti dalla legge o pattuiti dalle parti, i frutti non sono dovuti affatto, in quanto l’obbligazione di restituzione dei frutti è consequenziale a quella di restituzione del bene che li produce se il diritto del legittimario si è trasformato in un diritto di credito, viene meno la detta conseguenzialità, mancando la cosa fruttifera.
Pertanto, e tornando al caso in esame, poiché il ricorrente non ha contestato la divisione dei beni operata dal giudice di merito, con la quale è stata assicurata anche la riduzione delle disposizioni lesive, ed atteso che all’esito di tale divisione, dei beni assegnati per testamento ai fratelli, gli è stato restituito il solo bene in (OMISSIS) e pro quota, correttamente i frutti sono stati calcolati esclusivamente in relazione al mancato godimento di tale cespite, non potendosi estendere la pretesa a beni diversi, il cui acquisto iure hereditario non è stato inficiato dall’accoglimento della domanda di riduzione.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Nulla per le spese per l’intimato che non ha svolto attività difensiva.
Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese in favore del controricorrente che liquida in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori come per legge;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012,art.1, comma 17dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, stesso art. 13.

Maternità surrogata: La Corte Costituzionale interviene sul bilanciamento degli interessi coinvolti

Corte costituzionale
Sentenza 18 dicembre 2017, n. 272
PRESIDENTE: GROSSI – REDATTORE: AMATO
[…] nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, promosso dalla Corte d’appello di Milano nel procedimento civile vertente tra A.L. C. ed il curatore speciale di L.F. Z., con ordinanza del 25 luglio 2016, iscritta al n. 273 del registro ordinanze del 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visti gli atti di costituzione di A.L. C. e del curatore speciale di L.F. Z., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella udienza pubblica del 21 novembre 2017 il Giudice relatore Giuliano Amato;
uditi gli avvocati Grazia Ofelia Cesaro, nella qualità di curatore speciale di L.F. Z., e Francesca Maria Zanasi per A.L. C. e l’avvocato dello Stato Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
RITENUTO IN FATTO
1.- Nel corso di un procedimento di impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, la Corte d’appello di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
La disposizione è censurata nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia rispondente all’interesse dello stesso.
2.- Il giudizio a quo ha ad oggetto l’appello avverso la sentenza con cui il Tribunale ordinario di Milano – in accoglimento della domanda proposta ai sensi dell’art. 263 cod. civ. dal curatore speciale di un minore, nominato dal Tribunale per i minorenni – ha dichiarato che lo stesso minore non è figlio della donna che lo ha riconosciuto.
La vicenda sottoposta all’esame della Corte d’appello di Milano trae origine dalla trascrizione del certificato di nascita formato all’estero, relativo alla nascita di un bambino, riconosciuto come figlio naturale di una coppia di cittadini italiani, i quali – nell’ambito delle indagini avviate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni – avrebbero ammesso il ricorso alla surrogazione di maternità, realizzata attraverso ovodonazione.
Il giudice a quo riferisce che, pertanto, su iniziativa della stessa Procura della Repubblica, è stato avviato il procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, il quale si è concluso con dichiarazione di non luogo a provvedere, avendo i genitori contratto matrimonio ed essendo risultata certa, in base al test eseguito sul DNA, la paternità biologica di colui che ha effettuato il riconoscimento.
Riferisce il giudice rimettente che, su richiesta del pubblico ministero, il Tribunale per i minorenni di Milano ha autorizzato, ai sensi dell’art. 264, secondo comma, cod. civ., l’impugnazione del riconoscimento del figlio naturale effettuato da A.L. C., nominando a tal fine un curatore speciale del minore. In accoglimento di tale impugnazione, il Tribunale ordinario di Milano ha dichiarato che il minore non è figlio di A.L. C., disponendo le conseguenti annotazioni a cura dell’ufficiale di stato civile.
Il giudice a quo riferisce che la decisione di primo grado si è fondata sulla disposizione di cui all’art. 269, terzo comma, cod. civ., e sulla considerazione che, nel caso in esame, il rapporto di filiazione dal lato materno non potrebbe essere dedotto dal contratto per la fecondazione eterologa con maternità surrogata, da ritenersi invalido per contrarietà della legge straniera all’ordine pubblico, ai sensi dell’art. 16 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato).
2.1.- Ciò premesso, la Corte d’appello evidenzia che nel caso in esame l’atto di nascita comprovante la genitorialità del minore è già stato trascritto in Italia e che, pertanto, è estranea al thema decidendum la questione della trascrivibilità in Italia di atti di nascita formati nei paesi che consentono la maternità surrogata. Nel caso in esame, infatti, non è richiesta la trascrizione di uno status filiationis riconosciuto all’estero, bensì la rimozione di uno status già attribuito, in considerazione della sua non veridicità.
2.1.1.- Quanto al divieto di maternità surrogata previsto dall’art. 12 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), il giudice a quo ritiene che lo stesso potrebbe porsi in contrasto con i principi costituzionali, laddove riferito ad ipotesi di gestazione “relazionali” o “solidaristiche”, non lesive della dignità della donna, né riducibili alla logica di uno scambio mercantile, ma caratterizzate da intenti di pura solidarietà. Tuttavia, osserva il rimettente, anche tale questione risulta estranea alla vicenda in esame, in quanto la surrogazione di maternità è avvenuta al di fuori di un contesto relazionale e non sarebbe ravvisabile una condizione di libertà della donna che ha portato a termine la gravidanza.
2.2.- La Corte d’appello prospetta, invece, una diversa questione di legittimità costituzionale, che pone al centro l’interesse del bambino, nato a seguito di surrogazione di maternità realizzata all’estero, a vedersi riconosciuto e mantenuto uno stato di filiazione quanto più rispondente alle sue esigenze di vita.
Il dubbio di costituzionalità sollevato dal rimettente attiene, in particolare, all’art. 263 cod. civ., nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità possa essere accolta solo laddove sia ritenuta rispondente all’interesse del minore.
2.2.1.- Rammenta il giudice a quo che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. è già stata ritenuta non fondata dalla sentenza n. 112 del 1997, sull’assunto che l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità sia ispirata al «principio di ordine superiore che ogni falsa apparenza di stato deve cadere». In quella occasione, asserisce il rimettente, la Corte ha individuato nella verità del rapporto di filiazione un valore necessariamente da tutelare, con la precisazione che la finalità perseguita dal legislatore consisterebbe proprio nell’attuazione del diritto del minore all’acquisizione di uno stato corrispondente alla realtà biologica. Analoghi principi sarebbero stati ribaditi dalle sentenze n. 170 del 1999 e n. 216 del 1997, nonché dall’ordinanza n. 7 del 2012.
Alla stregua di tali rilievi, il giudice a quo esclude soluzioni ermeneutiche che consentano di considerare, nella cornice dell’art. 263 cod. civ., la specifica situazione del minore al fine di privilegiare una soluzione che realizzi il suo concreto ed effettivo interesse. La mancanza di un riferimento normativo all’interesse del minore, nel richiamato indirizzo interpretativo da considerare quale “diritto vivente”, si porrebbe in contrasto con i principi di particolare tutela che la Costituzione e la CEDU assicurano ai minori.
2.3.- La questione avrebbe incidenza attuale nel giudizio di impugnazione promosso dal curatore speciale ai sensi dell’art. 263 cod. civ.
Infatti, nel caso in esame, le norme inderogabili che definiscono e disciplinano la genitorialità, ed in particolare la maternità, non consentirebbero a madre e figlio di vedersi riconosciuto tale legame giuridico, se non per il tramite dell’adozione in casi particolari, nel presupposto che l’interesse del minore, di cui lo stesso curatore è portatore, debba identificarsi nel favor veritatis.
Viceversa, ove fosse consentita una valutazione in concreto dell’interesse del minore, non coincidente col favor veritatis, esso potrebbe essere misurato anche alla stregua di altri profili, riguardanti le particolari modalità della nascita, la possibilità di altro legame giuridico, certo e ugualmente tutelante, con la madre intenzionale, e tutte le circostanze, anche relative al rapporto con la madre intenzionale, emerse nella fattispecie in esame.
2.4.- Il giudice rimettente richiama i principi enunciati dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176; dalla Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 20 marzo 2003, n. 77; dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, che all’art. 24, secondo comma, sancisce il principio della necessaria preminenza dell’interesse del minore.
Dovrebbero considerarsi, inoltre, le Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore, adottate il 17 novembre 2010, nella 1098ª riunione dei delegati dei ministri. Il riferimento, ivi contenuto, al superiore interesse del minore andrebbe inteso come ricerca di una soluzione che garantisca l’effettiva attuazione, non di un interesse astratto e preconcetto, bensì del best interest, cioè dell’interesse concreto di “quel” minore che, nel singolo caso sottoposto a valutazione, è destinatario di un provvedimento.
La Corte d’appello osserva che anche la recente giurisprudenza di merito attribuisce rilievo al concreto interesse del minore in tema di relazioni familiari. In particolare, sono richiamate quelle pronunce che hanno ammesso la trascrizione nei registri dello stato civile di atti stranieri attributivi della genitorialità alla madre intenzionale, a seguito di accordi di maternità surrogata (Corte d’appello di Bari, sentenza 13 febbraio 2009) o di un atto di nascita, formato all’estero, del figlio di una coppia di donne, nato con donazione del gamete maschile e trasferimento dell’ovulo di una delle due all’altra, che ha portato a termine la gravidanza (Corte d’appello di Torino, decreto 29 ottobre 2014). Sono, altresì, richiamate quelle decisioni che hanno riconosciuto la possibilità di adozione del figlio del partner di coppia dello stesso sesso, ai sensi dell’art. 44 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia). Inoltre, è richiamata la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 11 gennaio 2013, n. 601, che ha escluso che il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale pregiudichi l’equilibrato sviluppo del bambino.
Il giudice a quo sottolinea, inoltre, che nella sentenza n. 31 del 2012 questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 569 del codice penale, nella parte in cui prevedeva che, alla condanna dei genitori per il delitto di alterazione di stato, conseguisse in via automatica la perdita della potestà genitoriale, precludendo così al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore.
Alla luce dei principi desumibili dalla normativa sovranazionale e nazionale e degli approdi giurisprudenziali, europei e interni, nonché delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie in tema di procreazione assistita, il giudice a quo sollecita una rinnovata riflessione sul tema della coincidenza tra favor veritatis e favor minoris.
Il dubbio di legittimità costituzionale ha ad oggetto l’art. 263 cod. civ., nella parte in cui non consente di valutare il concreto interesse del minore a mantenere l’identità relazionale e lo status di una riconosciuta filiazione materna, impedendo, così, che tale interesse possa essere realizzato con l’ampiezza di tutele riconosciute da plurimi principi costituzionali.
2.5.- In primo luogo, è denunciata la violazione dell’art. 2 Cost., per la natura inviolabile del diritto del minore a non vedersi privato del nome, dell’identità personale e della stessa possibilità di avere una madre, mantenendo lo status filiationis nei confronti di colei che abbia effettuato il riconoscimento.
In secondo luogo, la disposizione in esame contrasterebbe con l’art. 30 Cost., che riconosce e promuove, sia pure in via sussidiaria, accanto alla genitorialità biologica, una genitorialità sociale, fondata sul consenso e indipendente dal dato genetico. Di essa, in alcune situazioni problematiche, l’interesse del minore potrebbe giovarsi. Il riconoscimento della genitorialità sociale si accompagnerebbe, infatti, alle garanzie offerte al figlio dall’assunzione di responsabilità nei suoi confronti. La questione di legittimità costituzionale è sollevata anche in riferimento all’art. 31 Cost., che, con disposizione riassuntiva e generale, completa il quadro delle garanzie costituzionali dei rapporti familiari e dell’infanzia.
L’impossibilità di valutare, in concreto, un interesse, che potrebbe non coincidere col favor veritatis, si porrebbe altresì in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., soprattutto alla luce dell’art. 9 della legge n. 40 del 2004 che, ancor prima della sentenza di questa Corte n. 162 del 2014, aveva comunque assicurato al bambino – nato attraverso fecondazione assistita di tipo eterologo – lo stato di figlio del coniuge o del convivente della donna che lo aveva partorito.
A questo riguardo, il giudice a quo evidenzia che, nel nuovo assetto conseguente all’eliminazione del divieto di fecondazione eterologa, essendo esclusa la possibilità che il coniuge o il convivente del genitore naturale possano, rispettivamente, disconoscere la paternità del bambino, ovvero impugnare il relativo riconoscimento, sarebbe dubbia la legittimazione in capo al figlio in ordine alle azioni indicate. Infatti, un eventuale accertamento negativo della paternità legale non potrebbe comunque costituire la premessa per un successivo accertamento positivo della paternità biologica, stante la regola di cui all’art. 9, comma 3, della legge n. 40 del 2004.
In ogni caso, nell’impossibilità di valutare in concreto l’interesse del minore, lo status del bambino nato da surrogazione di maternità potrebbe risultare irragionevolmente diverso e sfavorevole rispetto a quello assicurato al minore nato attraverso il ricorso alla fecondazione eterologa.
La Corte d’appello dubita della legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ., anche con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in situazioni riconducibili alla maternità surrogata.
Sono richiamate, in particolare, le sentenze della Corte EDU del 26 giugno 2014 rese nei casi Mennesson contro Francia e Labassee contro Francia (ricorsi n. 65192 del 2011 e n. 65941 del 2011), nelle quali è stata affrontata la questione del rifiuto di riconoscere, in Francia, rapporti genitoriali stabiliti all’estero tra minori nati da maternità surrogata e le coppie che vi avevano fatto ricorso. In queste pronunce, la Corte di Strasburgo ha ritenuto violato l’art. 8 della CEDU con riferimento al diritto dei minori al rispetto della propria vita privata, quale diritto di ciascuno su ogni profilo della propria identità di essere umano.
Ad avviso del giudice a quo, da tali sentenze discenderebbe per gli Stati contraenti l’obbligo positivo di tutelare l’identità personale del minore nato attraverso surrogazione di maternità, anche a prescindere dal legame biologico con i genitori intenzionali. Gli Stati membri del Consiglio d’Europa, se possono scoraggiare o vietare il ricorso alla maternità surrogata, non potrebbero, viceversa, rifiutare la trascrizione di un atto di nascita che assicura al minore il rispetto della sua vita privata, rispondendo tale trascrizione al suo best interest.
In questo senso si porrebbe anche la sentenza della Corte EDU del 27 gennaio 2015, resa nel caso Paradiso e Campanelli contro Italia (ricorso n. 25358 del 2012). In un caso di maternità surrogata caratterizzato dall’assenza di legame biologico del minore con i genitori intenzionali, la Corte di Strasburgo ha ravvisato la violazione dell’art. 8 della CEDU nei provvedimenti relativi all’allontanamento del minore. La nozione di “vita familiare”, tutelabile ai sensi dell’art. 8 della CEDU, sarebbe estensibile alla relazione tra i genitori d’intenzione e il minore, ancorché costituita illegalmente secondo l’ordinamento nazionale. In questo modo, ad avviso del giudice a quo, la Corte di Strasburgo avrebbe svincolato la nozione giuridica di “vita familiare” dall’indefettibilità del legame genetico, ritenendola comprensiva di relazioni di fatto, la cui tutela corrisponde al preminente interesse del minore.
2.6.- Dopo avere ribadito che la questione in esame non concerne la liceità della pratica della surrogazione, ma i diritti del bambino nato attraverso tale pratica, il rimettente deduce che non vi sarebbe contrasto, rispetto all’ordine pubblico, del concreto interesse del minore. In particolare, tale contrasto non sarebbe ricavabile dal divieto di maternità surrogata di cui all’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, dovendosi avere riguardo all’ordine pubblico internazionale, in cui rileva l’esistenza di paesi, anche in Europa, che consentono il ricorso alla surrogazione di maternità.
Il concetto di ordine pubblico dovrebbe essere perciò declinato con riferimento all’interesse del minore, secondo un principio ricavabile anche dal regolamento CE n. 2201/2003 del 27 novembre 2003 (Regolamento del Consiglio relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale). Tale regolamento, all’art. 23, prevede che, con riferimento alle decisioni relative alla responsabilità genitoriale, la valutazione della non contrarietà all’ordine pubblico debba essere effettuata tenendo conto del superiore interesse del figlio.
2.7.- Il giudice a quo ritiene che il dubbio di legittimità costituzionale non possa essere superato neppure dalla considerazione del diritto del figlio a conoscere le proprie origini. Tale diritto si realizzerebbe, infatti, su un piano diverso da quello dell’impugnazione di cui all’art. 263 cod. civ., a meno di non voler attribuire all’accertamento della non veridicità del riconoscimento la funzione di comunicazione della non-nascita dalla madre, in una logica latamente sanzionatoria della condotta genitoriale. Ciò andrebbe comunque a detrimento dell’interesse del minore al mantenimento di un rapporto giuridico corrispondente alla effettività della relazione con la persona che ha formulato il progetto familiare e che, dalla nascita del bambino, ne è madre.
3.- Nel giudizio dinanzi a questa Corte si è costituita A.L. C., parte appellante nel giudizio principale, chiedendo l’accoglimento della questione sollevata dal giudice a quo.
3.1.- Dopo avere ripercorso le argomentazioni del giudice rimettente, la parte richiama i principi affermati nelle sentenze n. 158 del 1991, n. 112 del 1997 e n. 170 del 1999 ed osserva che, alla luce del mutato quadro giurisprudenziale e dell’evoluzione scientifica e tecnologica, che ha progressivamente ampliato le possibilità procreative delle coppie, si imporrebbe una nuova valutazione della legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. Si dovrebbe ritenere ormai superato il principio della necessaria preservazione del legame di filiazione veridico quale unico presupposto di tutela dell’interesse del minore.
Sono richiamate, in particolare, la sentenza n. 162 del 2014, in materia di fecondazione eterologa, e le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di surrogazione di maternità. In queste pronunce la tutela del superiore interesse del minore non sarebbe più inscindibilmente connessa alla veridicità del rapporto di filiazione, in quanto biologicamente determinato, bensì alla conservazione del rapporto di filiazione “sociale”, ovvero “intenzionale”, imperniato sull’assunzione della responsabilità genitoriale.
La parte evidenzia che, in tema di disconoscimento di paternità del bambino nato da procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, la Corte di cassazione, sin da epoca precedente alla legge n. 40 del 2004, si era già espressa nel senso che il favor veritatis abbia «una priorità non assoluta, ma relativa» (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 16 marzo 1999, n. 2315).
Occorrerebbe, dunque, una valutazione individualizzata dell’interesse del minore ed il superamento, sulla scorta del mutato contesto sociale e giurisprudenziale, dell’impostazione che ritiene salvaguardato tale interesse solo in presenza di un legame di filiazione veridico.
3.2.- Riguardo alla violazione dell’art. 2 Cost., la difesa della parte condivide i rilievi del giudice rimettente, richiamando in proposito la giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia di diritto all’identità personale quale diritto inviolabile della persona umana, strettamente connesso al diritto di conservare il proprio status filiationis. La disposizione censurata sarebbe, altresì, lesiva del diritto al nome del minore, anch’esso protetto a norma dell’art. 2 Cost.
3.3.- L’art. 263 cod. civ. si porrebbe, inoltre, in contrasto con l’art. 3 Cost., per la condizione deteriore in cui si trova il bambino nato da maternità surrogata rispetto a quello nato attraverso fecondazione assistita di tipo eterologo. Solo in questo secondo caso, infatti, in presenza di donazione dei gameti, è preclusa al coniuge e al convivente del genitore naturale la proposizione dell’azione di disconoscimento e, rispettivamente, dell’impugnazione del riconoscimento. Tuttavia, anche con riferimento al bambino nato da maternità surrogata si porrebbe l’analoga esigenza di assicurare protezione al diritto costituzionale all’identità personale, nelle forme del diritto al nome e alla conservazione del proprio status filiationis.
3.3.1.- La norma sarebbe irragionevole anche per l’automatismo decisorio che si determinerebbe in caso di difetto di veridicità. Sia pure pronunciando su questioni di tipo diverso, la giurisprudenza costituzionale avrebbe chiarito come siffatti automatismi possono tradursi in un’irragionevole lesione dell’interesse del minore, in quanto preclusivi di uno scrutinio individualizzato, caso per caso, da parte del giudice.
In particolare, in tema di adozione, tali principi hanno portato a ritenere irragionevoli – perché non rispondenti all’interesse del minore – le norme che stabilivano limiti rigidi di età tra adottanti e adottato (sono richiamate le sentenze n. 140 [recte: 44] del 1990, n. 148 del 1992, n. 303 del 1996 e n. 283 del 1999).
Afferma la parte che, allo stesso modo, è stata ritenuta irragionevole l’applicazione automatica della pena accessoria della perdita di potestà genitoriale, a seguito della commissione del reato di cui all’art. 567 cod. pen., prevista dall’art. 569 cod. pen., che precludeva ogni possibilità di valutazione e bilanciamento tra l’interesse del minore e l’applicazione della pena accessoria, in ragione della natura e delle caratteristiche dell’episodio criminoso (sentenza n. 31 del 2012). Analogamente, l’art. 569 cod. pen. è stato censurato nella parte in cui stabiliva che, alla condanna pronunciata per il delitto di cui all’art. 566, secondo comma, cod. pen., conseguisse di diritto la perdita della potestà genitoriale, così precludendo ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto (sentenza n. 7 del 2013).
È richiamata, inoltre, la pronuncia con cui questa Corte ha censurato l’art. 4-bis, primo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui includeva nel divieto di concessione dei benefici penitenziari anche la detenzione domiciliare speciale, prevista per le madri con prole di età non superiore a dieci anni (sentenza n. 239 del 2014). Anche in questo caso, non era consentita una valutazione caso per caso della pericolosità della madre detenuta, al fine di tenere conto del superiore interesse del minore.
Da ultimo, la difesa della parte richiama le pronunce che hanno censurato l’irragionevole rigidità della disposizione che negava al medico una valutazione del caso concreto sottoposto a trattamento medico, da effettuarsi sulla base delle più aggiornate e accreditate conoscenze tecnico-scientifiche (sentenza n. 151 del 2009).
Ad avviso della parte, anche in relazione all’art. 263 cod. civ. sarebbe ravvisabile un automatismo, consistente nell’accoglimento dell’impugnazione del riconoscimento ogniqualvolta sussista un difetto di veridicità. Anche a questa previsione sarebbe sottesa una presunzione assoluta, in base alla quale l’interesse del minore sarebbe adeguatamente tutelato soltanto quando venga assicurata la veridicità del legame di filiazione. Per eliminare tale irragionevolezza, dovrebbe essere consentita al giudice la valutazione degli effetti dell’accoglimento dell’impugnazione in relazione all’interesse del minore, in considerazione delle circostanze del caso concreto.
3.4.- Con riferimento alla violazione degli artt. 30 e 31 Cost., la difesa della parte privata, richiamandosi ai principi affermati nella sentenza n. 162 del 2014, sottolinea il valore da attribuire alla genitorialità sociale, dovendo riconoscersi tutela, anche di livello costituzionale, a nuclei familiari in cui difetti una corrispondenza biunivoca tra il dato biologico e quello sociale.
Lo stesso legislatore, con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), avrebbe già fatto propria una nozione di responsabilità genitoriale improntata sul consenso liberamente assunto dai genitori nei confronti del figlio. In quanto finalizzata ad assicurare adeguata protezione all’interesse del minore, tale responsabilità dovrebbe prescindere dalla caratterizzazione biologica o sociale del rapporto di parentela.
Al riguardo, la parte richiama la giurisprudenza di merito e di legittimità in tema di adozione da parte del single e della coppia omosessuale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 11 gennaio 2013, n. 601, e 22 giugno 2016, n. 12962; Corte d’appello di Torino, sentenza 27 maggio 2016); in materia di trascrizione di atti di nascita formati all’estero, dai quali risulti che il bambino è figlio di una coppia composta da persone dello stesso sesso (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 30 settembre 2016, n. 19599), ovvero è nato a seguito di maternità surrogata (Corte d’appello di Milano, decreto 28 dicembre 2016); nonché in tema di adozione, da parte del genitore sociale, del figlio biologico del proprio compagno, nato a seguito di surrogazione di maternità (Tribunale per i minorenni di Roma, sentenza 23 dicembre 2015).
3.5.- Da ultimo, quanto alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 8 della CEDU, la difesa della parte evidenzia che nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo si rinviene l’affermazione della necessità di assicurare preminenza, nel bilanciamento tra interessi contrapposti, al superiore interesse del minore, attraverso uno scrutinio che poggi sulle circostanze del caso concreto. In tal senso, oltre alle già citate sentenze del 26 giugno 2014 rese nei casi Mennesson e Labassee contro Francia, è richiamata la sentenza della Grande camera del 6 luglio 2010, resa nel caso Neulinger e Shuruk contro Svizzera (ricorso n. 41615 del 2007), in cui la Corte ha ravvisato nell’omessa trascrizione del certificato di nascita formato all’estero la lesione del superiore interesse del bambino nato da surrogazione di maternità.
Ad avviso della parte, la prospettiva si dovrebbe spostare dalla valutazione della situazione giuridica della coppia a quella del minore, meritevole di autonoma considerazione indipendentemente dalle condotte realizzate dai genitori, siano essi biologici, sociali o intenzionali.
3.5.1.- A conclusioni analoghe sarebbe inizialmente pervenuta la Corte EDU nella sentenza resa nel caso Paradiso e Campanelli contro Italia, sopra già citata. In tale pronuncia, la Corte di Strasburgo ha affermato il carattere recessivo delle esigenze di ordine pubblico rispetto alla necessaria salvaguardia del superiore interesse del minore, ravvisando nel caso concreto la violazione del suo diritto alla vita privata e familiare, in ragione dell’allontanamento dalla famiglia di origine.
Peraltro, successivamente all’ordinanza di rimessione, è intervenuta la sentenza del 24 gennaio 2017 della Grande camera, la quale, nel riesaminare la decisione del 27 gennaio 2015, ha escluso la violazione dell’art. 8 della CEDU. In questa occasione, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che le misure adottate dalle autorità italiane, che avevano disposto l’allontanamento del minore dalla coppia ricorrente e il suo collocamento presso un diverso nucleo familiare, non abbiano arrecato allo stesso minore un pregiudizio grave o irreparabile a causa della separazione, garantendo un giusto equilibrio tra i diversi interessi in gioco.
Ad avviso della parte, anche questa pronuncia confermerebbe la necessità di salvaguardare il superiore interesse del minore attraverso una valutazione individualizzata, avente ad oggetto le circostanze del caso concreto. In questo caso veniva in rilievo la conformità alla CEDU dell’allontanamento del minore dalla coppia ricorrente, con cui egli non intratteneva alcun legame biologico. Viceversa, osserva la parte privata, la pronuncia non atterrebbe né al rifiuto di trascrivere un certificato di nascita formato all’estero, né al diritto del minore a ottenere il riconoscimento del rapporto di filiazione con la coppia, ciò che invece riveste rilievo centrale nella questione in esame.
Pertanto, resterebbero fermi i dubbi di non conformità della disposizione censurata rispetto all’art. 8 della CEDU. Essa precluderebbe, infatti, la valutazione individualizzata delle circostanze del caso e impedirebbe, altresì, di dare concretezza all’esigenza di tutela dell’interesse del minore.
3.5.2.- Più in generale, l’art. 263 cod. civ. sarebbe in contrasto con il quadro internazionale di tutela dei diritti dei minori e, in particolare, con gli artt. 3 e 8, paragrafo 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo. Nella stessa direzione si porrebbe anche l’azione del Consiglio d’Europa, con le Linee guida per una giustizia a misura di minore, cui si affianca la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli. Si evidenzia, altresì, che la tutela del superiore interesse del minore è riconosciuta dall’art. 24, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
4.- Con atto depositato in data 10 febbraio 2017 si è costituita in giudizio l’avvocato Grazia Ofelia Cesaro, nella qualità di curatore speciale del minore L.F. Z., rappresentato e difeso dalla detta professionista, e ha chiesto l’accoglimento della questione sollevata dalla Corte d’appello di Milano.
4.1.- Il curatore premette che l’azione dallo stesso proposta ai sensi dell’art. 263 cod. civ. è derivata dall’acquisizione della prova, nel corso del procedimento di adottabilità, che il figlio minore non è un discendente biologico di colei che lo ha riconosciuto. Il Tribunale per i minorenni ha pertanto provveduto alla nomina del curatore, conferendogli uno specifico mandato ad impugnare il riconoscimento.
Il curatore evidenzia, in particolare, che sebbene gli accertamenti svolti dal Tribunale per i minorenni avessero confermato l’interesse del figlio minore a mantenere il legame familiare con la madre sociale (oltre che con il padre), tuttavia le norme che disciplinano la genitorialità non consentirebbero a madre e figlio di vedersi riconosciuto tale legame giuridico, laddove esso non corrisponda alla verità biologica.
L’art. 263 cod. civ., infatti, contempla quale unico presupposto necessario e sufficiente per l’impugnazione del riconoscimento il difetto di veridicità, inteso come assenza di un legame biologico tra l’autore del riconoscimento e colui che è riconosciuto come figlio. Ciò precluderebbe al giudice ogni possibilità di valutazione e bilanciamento degli interessi coinvolti, in quanto l’inesistenza di tale legame biologico costituirebbe l’unica condizione per l’accoglimento dell’azione.
Osserva il curatore che l’interesse del minore alla salvaguardia del proprio legame con la madre (ed indirettamente con la famiglia d’origine materna) potrebbe, in ipotesi, essere preservato solo mediante lo strumento di cui all’art. 44 della legge n. 184 del 1983, previa rimozione dell’attuale status filiationis per parte di madre. Tale possibilità sarebbe, tuttavia, del tutto aleatoria, non solo perché dipendente dalla libera iniziativa del genitore sociale, ma anche perché subordinata al consenso dell’altro genitore. Inoltre, l’eventuale legame così costituito sarebbe comunque più debole di quello derivante dalla maternità naturale, attese le peculiarità proprie dell’adozione in casi particolari.
Rispetto all’interpretazione offerta dalla precedente sentenza n. 112 del 1997, sarebbe oggi necessario un riesame della questione, per riscontrare se, nell’attuale momento storico-sociale e nell’attuale panorama normativo e giurisprudenziale, sussista ancora la necessità di individuare nella verità del rapporto di filiazione un valore preminente, da tutelare in via prioritaria.
4.1.1.- In primo luogo, ad avviso del curatore, il principio secondo cui ogni falsa apparenza di stato deve cadere, così come il principio del favor veritatis, non assurgerebbero a valori costituzionalmente garantiti. L’art. 30 Cost. non avrebbe attribuito, infatti, un valore preminente alla verità biologica rispetto a quella legale. Al contrario, nel disporre, al quarto comma, che «[l]a legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità», la Costituzione avrebbe demandato al legislatore il potere di privilegiare la paternità legale rispetto a quella naturale, fissando le condizioni e le modalità per far valere quest’ultima ed affidandogli la valutazione della soluzione più idonea per realizzare la coincidenza tra la discendenza naturale e quella biologica.
L’interesse pubblico alla verità dello status di filiazione, dunque, non dovrebbe necessariamente ed automaticamente prevalere sull’interesse del minore. Anche la normativa interna ed internazionale, oltre ad avere posto il minore al centro dei procedimenti promossi a sua tutela, avrebbe altresì prescritto l’obbligo di verificare l’interesse del minore, affinché lo stesso possa essere oggetto di bilanciamento con gli altri interessi meritevoli di tutela.
In particolare, nella mutata coscienza sociale, tra gli interessi giuridici del minore rileverebbero l’interesse alla stabilità dei legami familiari e quello a vivere e crescere all’interno della propria famiglia. In tal senso, sia la legge n. 219 del 2012, sia il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), avrebbero introdotto nuovi termini di decadenza ed imposto limiti più stringenti al potere dei genitori di agire per il disconoscimento del figlio, così come per l’impugnazione del riconoscimento, per l’acquisita consapevolezza che la tutela dell’identità e della vita personale e familiare del minore non sempre coinciderebbe con la rimozione di uno status personale non conforme alle origini biologiche.
Le modifiche legislative avrebbero posto al centro del rapporto di filiazione il concetto di responsabilità genitoriale, ridisegnando la disciplina delle azioni di disconoscimento di paternità e di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, nella prospettiva della prevalenza dell’interesse del figlio alla stabilità del rapporto. D’altra parte, anche la giurisprudenza di legittimità avrebbe riconosciuto il rilievo delle relazioni consolidatesi nel tempo tra genitore e figlio, alla luce del diritto di quest’ultimo a conservare tale profilo che caratterizza fin dalla nascita l’identità personale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962).
Il curatore evidenzia, inoltre, che la più recente giurisprudenza di merito ha esteso la portata applicativa dell’art. 9 della legge n. 40 del 2004, dichiarando l’illegittimità dell’azione di impugnazione del riconoscimento intrapresa da terzi nei confronti di un figlio minore nato da fecondazione eterologa, così estendendo «a chiunque vi abbia interesse» il divieto di disconoscimento previsto solo nei confronti dell’autore del riconoscimento (Corte d’appello di Milano, sentenza 10 agosto 2015, n. 3397). Alla luce di tale evoluzione giurisprudenziale, che attenua il principio della prevalenza della verità biologica, andrebbe escluso pertanto che il favor veritatis costituisca valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da affermarsi comunque.
L’intervento correttivo auspicato si porrebbe in linea di continuità con la giurisprudenza costituzionale che ha ritenuto illegittimo ogni automatismo legislativo che impedisca di bilanciare gli interessi tutelati con il preminente interesse del minore (è richiamata la sentenza n. 31 del 2012). La necessità di tale bilanciamento sarebbe stata riconosciuta anche dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione, nella sentenza del 25 gennaio 2017, n. 1946, che ha fatto seguito alla sentenza n. 278 del 2013 di questa Corte, in cui sarebbe stato affermato il diritto del figlio di accedere alle informazioni sulla madre che si fosse avvalsa della facoltà di non essere nominata.
4.1.2.- Anche a livello europeo, si dovrebbe constatare la progressiva perdita di rilievo della verità di sangue e l’emersione del rapporto affettivo della filiazione, quale elemento fondamentale per il riconoscimento dei legami tra genitori e figli sul piano del diritto; sono richiamate le sentenze della Corte di Strasburgo 27 aprile 2010, Moretti e Benedetti contro Italia (ricorso 16318 del 2007), e 1° aprile 2010, S.H. ed altri contro Austria (ricorso n. 57813 del 2000).
Inoltre, la legge 19 ottobre 2015, n. 173 (Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare) farebbe propri i principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte EDU, agevolando l’attribuzione di rilievo giuridico al rapporto di fatto instaurato tra i minori dichiarati adottabili e la famiglia affidataria.
L’interesse alla costituzione e alla conservazione dei legami familiari, non necessariamente coincidente con la verità delle origini biologiche, sarebbe riconosciuto quale criterio di valutazione centrale e riguarderebbe ormai anche i soggetti maggiorenni. Al riguardo, è richiamata l’ordinanza del Tribunale di Firenze 30 luglio 2015 che ha rigettato un’istanza di accertamento della non corrispondenza del DNA del presunto padre defunto con quello della figlia maggiorenne, al fine di proporre l’azione di cui all’art. 263 cod. civ.
Ed invero, la tendenza a far prevalere i valori costituzionali di solidarietà e di tutela dell’individuo e della vita familiare sarebbe ravvisabile in ogni settore del diritto di famiglia. È richiamata, al riguardo, la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 21 aprile 2015, n. 8097, con cui è stata ritenuta invalida l’annotazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio, rispetto ad una coppia in cui uno dei coniugi aveva ottenuto, con il consenso dell’altro, la rettificazione di sesso.
4.2.- Sulla base di tali considerazioni, dunque, il curatore ritiene fondati gli argomenti svolti dall’ordinanza di rimessione.
4.2.1.- Riguardo al contrasto con l’art. 2 Cost., il curatore sottolinea come l’esigenza di tutelare il diritto del figlio minore alla propria identità sia stata affermata sin dalla sentenza n. 112 del 1997. In tale pronuncia sarebbe stata esclusa una contrapposizione tra il favor veritatis ed il favor minoris, intendendo così far coincidere l’identità del minore con la sola discendenza genetica dello stesso. Si tratterebbe, tuttavia, di un’interpretazione oltremodo restrittiva ed impropria del concetto di identità personale, non più conforme all’attuale coscienza sociale.
L’identità personale, infatti, sarebbe un concetto dinamico, non cristallizzato al momento del concepimento. Essa si svilupperebbe nel tempo, per effetto delle relazioni create con il mondo esterno, del nome e del cognome scelto dai genitori alla nascita, dell’appartenenza al luogo dove si cresce, della propria storia, cultura e tradizioni e, soprattutto, dei genitori e delle rispettive famiglie d’origine, che condizionano il processo di crescita.
Anche la Corte di cassazione, di recente, avrebbe condiviso questi principi, riconoscendo la risarcibilità del danno arrecato dal padre al figlio a causa dell’esperimento dell’azione di cui all’art. 263 cod. civ. In tale occasione, si è affermato che l’identità, come tutti i diritti della personalità, «si rafforza e si consolida con il passare del tempo. Pertanto, maggiore è il lasso di tempo intercorso tra il riconoscimento e l’impugnazione per difetto di veridicità, maggiore sarà la lesione che ne discende al diritto all’identità personale» (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 31 luglio 2015, n. 16222).
D’altra parte, la rimozione dello status filiationis, ai sensi dell’art. 263 cod. civ., non garantirebbe affatto l’acquisizione di una genitorialità corrispondente a verità. Il genitore biologico potrebbe, infatti, rifiutare il riconoscimento, quest’ultimo potrebbe essere contrario all’interesse del minore, oppure, come accade nei casi di maternità surrogata, il genitore biologico potrebbe essere non identificabile. In tali circostanze sarebbe leso anche il diritto del minore alla bigenitorialità, diritto riconosciuto come preminente dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli).
4.2.2.- In riferimento all’art. 3 Cost., il curatore rileva che l’esigenza di bilanciare l’interesse del minore con il pubblico interesse alla certezza degli status sarebbe stata affermata dal legislatore in tutte le azioni in materia di riconoscimento dei figli (artt. 250, 251 e 269 cod. civ.). Se in tali azioni, tese ad estendere i legami di filiazione del minore, è stata ritenuta necessaria la valutazione dell’interesse del medesimo, non si comprenderebbe perché essa non possa compiersi anche nelle azioni il cui accoglimento comporta la rescissione di tali legami e quindi l’impoverimento delle relazioni familiari del minore.
4.2.3.- Quanto al contrasto con gli artt. 30 e 31 Cost., il curatore deduce che, nei giudizi di accertamento del rapporto di filiazione, la prevalenza incondizionata del favor veritatis sarebbe stata messa in dubbio dalla giurisprudenza. Al riguardo, si fa rilevare che gli artt. 30 e 31 Cost. riconoscono che la ricerca della filiazione biologica può incontrare dei limiti, derivanti dalla necessità di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente garantiti, primo fra tutti l’interesse del minore. La preminenza del favor veritatis non sarebbe espressione di valori costituzionali, bensì il portato di una concezione arretrata e formalistica dei rapporti familiari, ormai estranea al comune sentire.
4.2.4.- Da ultimo, quanto al contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., il curatore osserva che l’art. 8 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, imporrebbe in via prioritaria al legislatore nazionale di tutelare il legame di filiazione, ancorché originato attraverso pratiche ritenute illecite dall’ordinamento nazionale.
Non potrebbe, dunque, ritenersi giustificata una previsione legislativa, come quella censurata, che impone la rimozione dello status filiationis, precludendo ogni valutazione circa la corrispondenza di questa decisione all’interesse del minore. In ciò sarebbe ravvisabile un eccesso di discrezionalità legislativa. Di converso, laddove è in gioco il best interest of the child e la tutela della sua identità, il margine di tale discrezionalità sarebbe strettissimo, dovendosi ispirare alla promozione della persona del minore (oltre alle già citate sentenze 26 giugno 2014, Mennesson contro Francia e Labassee contro Francia, è richiamata la sentenza della Grande camera 10 aprile 2007, Evans contro Regno Unito, ricorso n. 2346 del 2002).
Viceversa, l’art. 263 cod. civ. tradirebbe tale scopo. Esso sacrificherebbe ogni considerazione centrata sulla persona del minore ad un presunto interesse pubblico alla verità biologica della procreazione, violando anche i principi desumibili dalle convenzioni internazionali che l’Italia ha sottoscritto, prima tra tutte la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, nonché la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Il curatore deduce che, nella giurisprudenza della Corte EDU, la sussistenza di legami familiari sarebbe legata all’esistenza, anche solo nei fatti, di stretti vincoli affettivi (Grande camera, sentenza 13 giugno 1979, Marckx contro Belgio, ricorso n. 6833 del 1974), a prescindere dalla loro qualificazione giuridica formale, ed anzi, talvolta, anche se la legge nazionale rifiuti di riconoscerli (Grande camera, sentenza 27 ottobre 1994, Kroon ed altri contro Paesi Bassi, ricorso n. 18535 del 1991, e sentenza 22 aprile 1997, X, Y e Z contro Regno Unito, ricorso n. 21830 del 1993).
Nella nozione di vita familiare, da proteggersi ai sensi dell’art. 8 della CEDU, rientrerebbe il legame tra il figlio ed il genitore, anche se tale relazione non ha presupposti biologici, ma solo affettivi (Prima sezione, sentenza 16 luglio 2015, Nazarenko contro Russia, ricorso n. 39438 del 2013). Il rapporto di filiazione sarebbe espressione della vita privata o, come nel caso che ha dato origine al presente giudizio, espressione di vita familiare. Ciò sarebbe confermato dalla stessa posizione del Governo italiano, espressa di fronte alla Corte EDU nel caso Paradiso e Campanelli, laddove è stata ammessa la possibilità di una vita familiare de facto, anche in assenza di legame biologico con entrambi i genitori.
Ove il legame biologico sussista solo nei confronti di un genitore (come nel caso in esame) si potrà invocare l’art. 8 della CEDU, nell’accezione di “vita familiare”. Laddove tale legame non sussista, la protezione della filiazione “sociale” dovrebbe essere riconosciuta quale declinazione della “vita privata” del minore.
5.- Nel giudizio innanzi alla Corte, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque non fondata.
5.1.- La difesa statale ha eccepito, in primo luogo, l’inammissibilità della questione, in quanto volta ad inserire, attraverso una pronuncia additiva, una condizione esclusiva (l’interesse del minore) ai fini dell’impugnazione del riconoscimento di figlio naturale. Spetterebbe, viceversa, al legislatore stabilire se l’accoglimento di tale impugnazione debba essere subordinato unicamente all’interesse del minore all’appartenenza familiare.
5.2.- Nel merito, la questione sarebbe comunque infondata.
La ratio dell’art. 263 cod. civ., quale strumento di tutela dell’interesse superiore alla corrispondenza tra realtà naturale e verità apparente, sarebbe quella di far cadere il riconoscimento non rispondente al vero. Verrebbe in rilievo, quindi, l’interesse oggettivo dell’ordinamento alla verità dello status di filiazione, attinente a principi di ordine pubblico, intesi come principi fondamentali ed irrinunciabili. Ad avviso della difesa statale, il principio del favor veritatis esprime un’esigenza di certezza nei rapporti di filiazione e la protezione dell’interesse del minore si realizzerebbe proprio nel riconoscimento del diritto alla propria identità (sono richiamate la sentenza n. 112 del 1997 e l’ordinanza n. 7 del 2012).
La ratio dell’art. 263 cod. civ. consisterebbe nell’attuazione del diritto del minore all’acquisizione di uno stato corrispondente alla realtà biologica, ovvero, qualora ciò non sia possibile, di uno stato corrispondente a quello di figlio legittimo, ma solo attraverso le garanzie offerte dalla disciplina dell’adozione.
Non sarebbe, dunque, ravvisabile alcun contrasto con l’art. 2 Cost., perché lo scioglimento dei vincoli assunti dal genitore verso il preteso figlio realizzerebbe l’interesse oggettivo dell’ordinamento alla verità dello status.
Non potrebbero ritenersi lesi neppure i principi di cui agli artt. 30 e 31 Cost. Essi non sarebbero invocabili laddove il legame familiare venga meno, in quanto privato del fondamento della verità della filiazione naturale.
Inoltre, non sarebbe ravvisabile alcun contrasto con l’art. 3 Cost. e quindi con il principio di ragionevolezza, perché l’art. 263 cod. civ. sarebbe giustificato dalla superiore esigenza di far cadere ogni falsa apparenza di status.
Infine, non sussisterebbe neppure la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della CEDU, non essendo in discussione la tutela della vita privata del minore, ma il suo diritto alla identità personale, sotto il profilo del legame di filiazione.
5.3.- Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, la questione sarebbe manifestamente infondata, non ravvisandosi nella considerazione del favor veritatis una ragione di conflitto con il favor minoris. La verità biologica della procreazione costituisce, infatti, una componente essenziale dell’interesse del medesimo minore, dovendo essergli garantito il diritto alla propria identità e all’affermazione di un rapporto di filiazione veridico (sentenze n. 216 e n. 112 del 1997). L’intangibilità dello status sarebbe recessiva rispetto a tale diritto, laddove venga meno la corrispondenza alla verità biologica (sentenza n. 170 del 1999).
6.- In prossimità dell’udienza pubblica, il curatore speciale ha depositato una memoria integrativa in cui, dopo avere ribadito gli argomenti già illustrati nelle precedenti difese, ha sottolineato che la mancata previsione della valutazione dell’interesse del minore impedirebbe di tener conto che, nel caso in esame, tale interesse è stato, in parte, già accertato dal Tribunale per i minorenni con la sentenza che ha dichiarato non luogo a provvedere sull’adottabilità. Il curatore speciale ritiene, peraltro, che una volta ricevuto il mandato dal medesimo Tribunale, egli non avrebbe potuto astenersi dallo svolgere tale incarico.
6.1.- In riferimento all’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato, relativa all’incidenza che un’eventuale pronuncia di accoglimento avrebbe sulla discrezionalità del legislatore, si osserva che in questo caso è richiesta alla Corte l’eliminazione di un automatismo normativo che impedisce un bilanciamento tra gli interessi in gioco, ciò che rientrerebbe pienamente nelle sue attribuzioni. D’altra parte, interventi additivi della giurisprudenza costituzionale sarebbero frequenti proprio in materia di tutela d’interesse del minore (sono richiamate le sentenze n. 7 del 2013, n. 31 del 2012, n. 50 del 2006 e n. 297 del 1996).
6.2.- Da ultimo, il curatore speciale contesta che, nel nostro ordinamento, vi sia una necessaria coincidenza tra interesse del minore e favor veritatis. Ogni rigidità e automatismo in tal senso, anzi, potrebbero risultare pregiudizievoli per il minore.
È richiamata, in particolare, la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 22 dicembre 2016, n. 26767, che ha ritenuto essenziale il bilanciamento tra gli interessi in gioco, in considerazione del superamento della concezione della famiglia su base essenzialmente genetica.
D’altra parte, un distacco tra identità genetica e identità giuridica sarebbe alla base proprio della disciplina dell’adozione, la quale costituisce espressione di un principio di responsabilità di chi sceglie di essere genitore, facendo sorgere nel figlio “desiderato” un legittimo affidamento sulla continuità della relazione.
Il curatore evidenzia che – a conferma del riconoscimento della valenza del genitore sociale – la stessa giurisprudenza costituzionale ha richiamato proprio l’istituto dell’adozione. Nella sentenza n. 162 del 2014 si sottolinea, infatti, che esso mira a garantire una famiglia ai minori, evidenziando che «il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa».
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.- Nel corso di un procedimento di impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, la Corte d’appello di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
La disposizione è censurata nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia rispondente all’interesse dello stesso.
2.- Secondo la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio incidentale, la questione sarebbe inammissibile in quanto volta ad inserire, attraverso una pronuncia additiva, una condizione esclusiva (l’interesse del minore) ai fini dell’impugnazione del riconoscimento del figlio naturale. Spetterebbe, viceversa, al legislatore stabilire se l’accoglimento di tale impugnazione debba essere subordinato all’interesse del minore all’appartenenza familiare.
L’eccezione di inammissibilità è priva di fondamento.
Al riguardo, va rilevato che il petitum del rimettente è volto al riconoscimento della possibilità di valutare l’interesse del minore, ai fini della decisione sull’impugnazione del riconoscimento. Ove si neghi tale possibilità, l’accoglimento della domanda rimarrebbe condizionato soltanto all’accertamento della non veridicità del riconoscimento. In definitiva, attraverso l’intervento invocato, è denunciata l’irragionevolezza di un automatismo decisorio che impedirebbe di tenere conto degli interessi in gioco. Il sindacato di legittimità rimesso a questa Corte è limitato, pertanto, alla verifica del fondamento costituzionale del denunciato meccanismo decisorio, senza alcuna interferenza sul contenuto di scelte discrezionali rimesse al legislatore.
3.- Sempre in via preliminare, occorre delimitare l’ambito dell’indagine che il giudice intende rimettere alla Corte in questa occasione.
Secondo questa prospettazione, il giudizio a quo ha per oggetto l’accertamento dell’inesistenza del rapporto di filiazione di un minore nato attraverso il ricorso alla surrogazione di maternità realizzata all’estero. Non è tuttavia in discussione la legittimità del divieto di tale pratica, previsto dall’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), e nemmeno la sua assolutezza. Risulta parimenti estraneo alla odierna questione di legittimità costituzionale il tema dei limiti alla trascrivibilità in Italia di atti di nascita formati all’estero.
La questione sollevata dalla Corte d’appello di Milano ha per oggetto, infatti, la disciplina dell’azione di impugnazione prevista dall’art. 263 cod. civ., volta a rimuovere lo stato di figlio, già attribuito al minore per effetto del riconoscimento, in considerazione del suo difetto di veridicità.
4.- Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. non è fondata.
Nell’interpretazione fatta propria dal rimettente la norma censurata si porrebbe in contrasto con i principi di cui agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, Cost., poiché, nel giudizio di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale, essa non consentirebbe di tenere conto, in concreto, dell’interesse del minore «a vedersi riconosciuto e mantenuto uno stato di filiazione quanto più rispondente alle sue esigenze di vita». Tuttavia, siffatta interpretazione non può essere condivisa, neppure nei casi nei quali il legislatore imponga di non pretermettere la verità.
4.1.- Pur dovendosi riconoscere un accentuato favore dell’ordinamento per la conformità dello status alla realtà della procreazione, va escluso che quello dell’accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento.
Ed invero, l’attuale quadro normativo e ordinamentale, sia interno, sia internazionale, non impone, nelle azioni volte alla rimozione dello status filiationis, l’assoluta prevalenza di tale accertamento su tutti gli altri interessi coinvolti.
In tutti i casi di possibile divergenza tra identità genetica e identità legale, la necessità del bilanciamento tra esigenze di accertamento della verità e interesse concreto del minore è resa trasparente dall’evoluzione ordinamentale intervenuta e si proietta anche sull’interpretazione delle disposizioni da applicare al caso in esame.
4.1.1.- A questo riguardo va preliminarmente osservato che la disposizione dell’art. 263 cod. civ. è stata censurata dal rimettente nella versione, applicabile ratione temporis, antecedente alle modifiche apportate dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219).
In particolare, l’art. 28 del medesimo d.lgs., in vigore dal 7 febbraio 2014, nel modificare l’art. 263 cod. civ., ha limitato l’imprescrittibilità dell’azione esclusivamente a quella esercitata dal figlio. Analoga previsione è stata inserita – con riferimento all’azione di disconoscimento di paternità – nell’art. 244, quinto comma, cod. civ., nel testo introdotto dall’art. 18, primo comma, del d.lgs. n. 154 del 2013. Gli altri legittimati, laddove intendano proporre le suddette azioni di contestazione degli status, sono ora tenuti a rispettare i termini di decadenza previsti dalla nuova disciplina.
Il legislatore delegato ha così garantito, senza limiti di tempo, l’interesse primario ed inviolabile dei figli all’accertamento della propria identità e discendenza biologica. Per converso, la previsione di termini di decadenza per gli altri legittimati ha circoscritto entro rigorosi limiti temporali l’esperibilità delle azioni demolitorie dello status filiationis, assicurando così tutela al diritto del figlio alla stabilità dello status acquisito.
La necessità del bilanciamento dell’interesse del minore con il pubblico interesse alla certezza degli status è, altresì, espressamente prevista dal legislatore nelle azioni in materia di riconoscimento dei figli (artt. 250 e 251 cod. civ.), volte all’estensione dei legami parentali del minore.
4.1.2.- D’altra parte, già l’art. 9 della legge n. 40 del 2004 aveva escluso che il coniuge o il convivente che abbiano acconsentito al ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo potessero promuovere l’azione di disconoscimento o impugnare il riconoscimento ai sensi dell’art. 263 cod. civ.
Al riguardo questa Corte ha ritenuto «confermata sia l’inammissibilità dell’azione di disconoscimento della paternità […] e dell’impugnazione ex art. 263 cod. civ. (nel testo novellato dall’art. 28 del d.lgs. n. 154 del 2013), sia che la nascita da PMA di tipo eterologo non dà luogo all’istituzione di relazioni giuridiche parentali tra il donatore di gameti ed il nato, essendo, quindi, regolamentati i principali profili dello stato giuridico di quest’ultimo» (sentenza n. 162 del 2014).
Anche in questo caso, in un’ipotesi di divergenza tra genitorialità genetica e genitorialità biologica, il bilanciamento è stato effettuato dal legislatore attribuendo la prevalenza al principio di conservazione dello status filiationis.
4.1.3.- Proprio al fine di garantire tutela al bambino concepito attraverso fecondazione eterologa, sin da epoca antecedente alla legge n. 40 del 2004, questa Corte – senza mettere in discussione la legittimità di tale pratica, «né […] il principio di indisponibilità degli status nel rapporto di filiazione, principio sul quale sono suscettibili di incidere le varie possibilità di fatto oggi offerte dalle tecniche applicate alla procreazione» – si è preoccupata «invece di tutelare anche la persona nata a seguito di fecondazione assistita, venendo inevitabilmente in gioco plurime esigenze costituzionali. Preminenti in proposito sono le garanzie per il nuovo nato […], non solo in relazione ai diritti e ai doveri previsti per la sua formazione, in particolare dagli artt. 30 e 31 della Costituzione, ma ancor prima – in base all’art. 2 della Costituzione – ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità: diritti che è compito del legislatore specificare» (sentenza n. 347 del 1998).
4.1.4.- Come evidenziato dallo stesso rimettente in riferimento alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., anche il quadro europeo ed internazionale di tutela dei diritti dei minori evidenzia la centralità della valutazione dell’interesse del minore nell’adozione delle scelte che lo riguardano.
Tale principio ha trovato la sua solenne affermazione dapprima nella Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, in forza della quale «[i]n tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente» (art. 3, paragrafo 1).
Nella stessa direzione si pongono la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 20 marzo 2003, n. 77, e le Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore, adottate il 17 novembre 2010, nella 1098ª riunione dei delegati dei ministri.
Infine, l’art. 24, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, sancisce il principio per il quale «[i]n tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente».
D’altra parte, pur in assenza di un’espressa base testuale, la garanzia dei best interests of the child è stata riportata, nell’interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, sia all’art. 8, sia all’art. 14 della CEDU. Ed è proprio in casi di surrogazione di maternità, nel valutare il rifiuto di trascrizione degli atti di nascita nei registri dello stato civile francese, che la Corte di Strasburgo ha affermato che il rispetto del migliore interesse dei minori deve guidare ogni decisione che li riguarda (sentenze del 26 giugno 2014, rese nei casi Mennesson contro Francia e Labassee contro Francia, ricorsi n. 65192 del 2011 e n. 65941 del 2011).
4.1.5.- Va altresì rammentato che, in linea con i principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte EDU, la legge 19 ottobre 2015, n. 173 (Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare) ha valorizzato l’interesse del minore alla conservazione di legami affettivi che sicuramente prescindono da quelli di sangue, attraverso l’attribuzione di rilievo giuridico ai rapporti di fatto instaurati tra il minore dichiarato adottabile e la famiglia affidataria.
D’altra parte, il distacco tra identità genetica e identità legale è alla base proprio della disciplina dell’adozione (legge 4 maggio 1983, n. 184, recante «Diritto del minore ad una famiglia»), quale espressione di un principio di responsabilità di chi sceglie di essere genitore, facendo sorgere il legittimo affidamento sulla continuità della relazione.
4.1.6.- Anche la giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto, da tempo, l’immanenza dell’interesse del minore nell’ambito delle azioni volte alla rimozione del suo status filiationis (sentenze n. 112 del 1997, n. 170 del 1999 e n. 322 del 2011; ordinanza n. 7 del 2012).
In tale giurisprudenza si trovano affermazioni sul particolare valore della verità biologica. Tuttavia – diversamente da quanto ritiene il giudice a quo – essa non ha affatto negato la possibilità di valutare l’interesse del minore nell’ambito delle azioni demolitorie del rapporto di filiazione. È stato riconosciuto che la verità biologica della procreazione costituisce «una componente essenziale» dell’identità personale del minore, la quale concorre, insieme ad altre componenti, a definirne il contenuto.
Pertanto, nell’auspicare una «tendenziale corrispondenza» tra certezza formale e verità naturale, si è riconosciuto che anche l’accertamento della verità biologica fa parte della complessiva valutazione rimessa al giudice, alla stregua di tutti gli altri elementi che, insieme ad esso, concorrono a definire la complessiva identità del minore e, fra questi, anche quello, potenzialmente confliggente, alla conservazione dello status già acquisito.
Costituisce infatti «compito precipuo del tribunale per i minorenni, […] verificare se la modifica dello status del minore risponda al suo interesse e non sia per lui di pregiudizio; così come contemporaneamente occorre anche verificare, sia pure con sommaria delibazione, la verosimiglianza del preteso rapporto di filiazione, dovendosi garantire il diritto del minore alla propria identità» (sentenza n. 216 del 1997, sulla previgente disciplina dell’azione di disconoscimento della paternità, di cui agli artt. 273 e 274 cod. civ.).
Nell’evoluzione normativa e ordinamentale del concetto di famiglia, a conferma del rilievo giuridico della genitorialità sociale, ove non coincidente con quella biologica, vi è anche l’espresso riconoscimento, da parte di questa Corte, che «il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa» (sentenza n. 162 del 2014).
4.1.7.- L’esigenza di operare un’adeguata comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti e, in particolare, del minore, è stata recentemente riconosciuta anche dalla Corte di cassazione, con riferimento all’azione di disconoscimento della paternità.
La giurisprudenza di legittimità ha escluso, infatti, che il favor veritatis costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta da affermarsi comunque, atteso che l’art. 30 Cost. non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale. Nel disporre, al quarto comma, che «[l]a legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità», l’art. 30 Cost. ha demandato al legislatore ordinario il potere di privilegiare, nel rispetto degli altri valori di rango costituzionale, la paternità legale rispetto a quella naturale, nonché di fissare le condizioni e le modalità per far valere quest’ultima, così affidandogli anche la valutazione in via generale della soluzione più idonea per la realizzazione dell’interesse del figlio (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 30 maggio 2013, n. 13638; 22 dicembre 2016, n. 26767; e 3 aprile 2017, n. 8617).
4.2.- È alla luce di tali principi, immanenti anche nel mutato contesto normativo e ordinamentale, che si pone la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ.
L’affermazione della necessità di considerare il concreto interesse del minore in tutte le decisioni che lo riguardano è fortemente radicata nell’ordinamento sia interno, sia internazionale e questa Corte, sin da epoca risalente, ha contribuito a tale radicamento (ex plurimis, sentenze n. 7 del 2013, n. 31 del 2012, n. 283 del 1999, n. 303 del 1996, n. 148 del 1992 e n. 11 del 1981).
Non si vede conseguentemente perché, davanti all’azione di cui all’art. 263 cod. civ., fatta salva quella proposta dallo stesso figlio, il giudice non debba valutare: se l’interesse a far valere la verità di chi la solleva prevalga su quello del minore; se tale azione sia davvero idonea a realizzarlo (come è nel caso dell’art. 264 cod. civ.); se l’interesse alla verità abbia anche natura pubblica (ad esempio perché relativa a pratiche vietate dalla legge, quale è la maternità surrogata, che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane) ed imponga di tutelare l’interesse del minore nei limiti consentiti da tale verità.
Vi sono casi nei quali la valutazione comparativa tra gli interessi è fatta direttamente dalla legge, come accade con il divieto di disconoscimento a seguito di fecondazione eterologa. In altri il legislatore impone, all’opposto, l’imprescindibile presa d’atto della verità con divieti come quello della maternità surrogata. Ma l’interesse del minore non è per questo cancellato.
La valutazione del giudice è presente, del resto, nello stesso procedimento previsto dall’art. 264 cod. civ., volto alla nomina del curatore speciale del figlio minore, laddove l’azione di contestazione dello status sia esercitata nel suo interesse. È anche in questa sede, infatti, che il legislatore – sia pure con i limiti derivanti dalla natura camerale del procedimento – ha affidato al giudice specializzato il compito di valutare, ancor prima dell’instaurazione dell’azione, l’interesse del minore all’assunzione di tale iniziativa giudiziale.
4.3.- Se dunque non è costituzionalmente ammissibile che l’esigenza di verità della filiazione si imponga in modo automatico sull’interesse del minore, va parimenti escluso che bilanciare quell’esigenza con tale interesse comporti l’automatica cancellazione dell’una in nome dell’altro.
Tale bilanciamento comporta, viceversa, un giudizio comparativo tra gli interessi sottesi all’accertamento della verità dello status e le conseguenze che da tale accertamento possano derivare sulla posizione giuridica del minore.
Si è già visto come la regola di giudizio che il giudice è tenuto ad applicare in questi casi debba tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso. Tra queste, oltre alla durata del rapporto instauratosi col minore e quindi alla condizione identitaria già da esso acquisita, non possono non assumere oggi particolare rilevanza, da un lato le modalità del concepimento e della gestazione e, dall’altro, la presenza di strumenti legali che consentano la costituzione di un legame giuridico col genitore contestato, che, pur diverso da quello derivante dal riconoscimento, quale è l’adozione in casi particolari, garantisca al minore una adeguata tutela.
Si tratta, dunque, di una valutazione comparativa della quale, nel silenzio della legge, fa parte necessariamente la considerazione dell’elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità, vietata da apposita disposizione penale.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, sollevata dalla Corte d’appello di Milano, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Le attività di ristrutturazione e mantenimento della casa comune non vanno rimborsate se non risulta la loro assoluta necessità per la conservazione del bene.

Cassazione 23 agosto 2017 n. 20283
ORDINANZA
sul ricorso 5782-2014 proposto da:
(OMISSIS) ((OMISSIS)), domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE,rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS);
– intimata –
avverso la sentenza n. 1719/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 03/10/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/06/2017 dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA.
RITENUTO IN FATTO
La Corte d’Appello di Catania, con sentenza 3.10.2013 ha respinto il gravame proposto da (OMISSIS) contro la sentenza 389/2010 del locale Tribunale (sez. dist. Mascalucia) che aveva a sua volta disatteso la domanda da lui proposta nei confronti del coniuge separato (OMISSIS), tendente ad ottenere il pagamento di somme di danaro a titolo di rimborso spese effettuate negli anni 2006-2007-2008 quale amministratore della comunione dei beni anche per il periodo successivo alla separazione.
Per giungere a tale conclusione la Corte territoriale, richiamato il principio della inderogabilita’ delle norme relative alla amministrazione dei beni della comunione tra i coniugi (articolo 210 c.c., comma 3), ha osservato che il (OMISSIS) in costanza di convivenza coniugale aveva esercitato il normale potere di amministrazione disgiunta ex articolo 180 c.c. e che, una volta intervenuto lo scioglimento della comunione col passaggio in giudicato della sentenza di separazione, non poteva compiere atti di amministrazione senza il consenso dell’altro comunista (la (OMISSIS)) titolare, ai sensi dell’articolo 1105 c.c., del pari diritto di concorrere nella amministrazione della cosa comune, consenso nel caso di specie non preventivamente richiesto. Ha quindi osservato che gli unici atti consentiti erano quelli conservativi (in caso di inattivita’ o trascuranza dell’altro compartecipe), mentre per quanto riguarda l’amministrazione e l’esecuzione delle attivita’ gia’ deliberate era ammesso, in caso di dissenso o inerzia della (OMISSIS), il ricorso all’autorita’ giudiziaria ai sensi dell’articolo 1105 c.c., comma 4.
Contro tale decisione il (OMISSIS) ricorre per cassazione sulla base di due motivi, mentre la (OMISSIS) non ha svolto difese in questa sede.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.1 Col primo motivo, sviluppato in una triplice articolazione, il ricorrente denunzia innanzitutto “la violazione e falsa applicazione degli articoli 180 e 182 c.c. nonche’ dell’articolo 1106 c.c. in relazione all’articolo 1708 c.c.. Violazione dell’articolo 360 c.p.c., n. 3”. Dopo aver sottolineato l’erroneo richiamo agli articoli 180 e 182 c.c., trattandosi di domanda di rimborso di somme anticipate dopo lo scioglimento della comunione, il ricorrente richiama il principio della delegabilita’ della amministrazione ad uno o piu’ partecipanti (sancito dall’articolo 1106 c.c.) e invoca le regole sul mandato e sulla liberta’ di forma del suo conferimento. Ritiene pertanto errata la sentenza laddove ha escluso la qualifica di amministratore dei beni in comunione nonostante che le somme richieste negli estratti conto riguardino spese di manutenzione degli immobili, come incontrovertibilmente emerso nel corso del giudizio.
1.2 Denunzia inoltre “violazione e falsa applicazione dell’articolo 324 c.p.c.. Omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio. Violazione e falsa applicazione dell’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5”: richiamando alcuni passaggi di una sentenza di Tribunale emessa in altro giudizio promosso contro di lui dalla (OMISSIS), il ricorrente ritiene che a fronte di una statuizione (non impugnata) sulla sua qualita’ di amministratore, la sentenza di appello non ha correttamente fatto applicazione del giudicato su tale punto formatosi.
1.3 Ancora, il (OMISSIS) deduce “violazione e falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c.; omesso esame di fatti decisivi per il giudizio. Violazione e falsa applicazione dell’articolo 360, n. 3 nonche’ dell’articolo 360 cod. proc. civ., n. 5” osservando che la qualifica di amministratore poteva chiaramente desumersi dalla ciclopica documentazione versata in atti (e richiama a tal fine gli atti processuali che a suo dire, dimostrerebbero l’assunto).
Il motivo e’ infondato sotto tutti i profili in cui si articola.
a) Partendo, per ragioni di priorita’ logica, dalla dedotta violazione del giudicato (rappresentato, a dire del ricorrente, dalla sentenza 3041/2006 emessa all’esito di una domanda di rendiconto avanzata dalla moglie e citata nei motivi di appello), il Collegio rileva l’infondatezza della doglianza perche’, come emerge dallo stesso ricorso a pag. 13, il Tribunale con la sentenza 3041/2006 aveva fatto “riferimento agli anni 1997/2003” cioe’ ai rendiconti di un periodo antecedente al passaggio in giudicato della sentenza di separazione e quindi antecedente allo scioglimento della comunione legale tra i coniugi, ed in tale periodo vigeva la regola dell’amministrazione disgiunta di cui all’articolo 180 c.c..
Il giudicato quindi non e’ invocabile nel caso in esame ove invece si discute di atti compiuti dopo lo scioglimento della comunione, come accertato dalla Corte di merito: quindi, non sussiste ne’ la violazione di legge ne’ l’omesso esame circa un fatto decisivo.
b) Quanto alle altre doglianze, sotto il primo profilo la doglianza e’ infondata, anche se occorre correggere la motivazione ai sensi dell’articolo 384 c.p.c., u.c. essendo il dispositivo conforme a diritto.
Va premesso che la Corte d’Appello ha richiamato le disposizioni degli articoli 180 e 182 c.c. non gia’ per applicarle nel caso concreto ma per ricostruire il meccanismo dell’amministrazione dei beni tra i coniugi sotto il regime della comunione legale; inoltre, correttamente e’ stata esclusa dalla Corte di merito la possibilita’ di una nomina ad amministratore del (OMISSIS) durante la convivenza matrimoniale, stante il principio della amministrazione disgiunta (articolo 180 c.c.) e della inderogabilita’ delle norme sull’amministrazione (articolo 210 c.c., comma 3).
Il richiamo alla forma libera della nomina ad amministratore e alla applicabilita’ delle norme sul mandato investe una questione di diritto implicante accertamenti in fatto ed introdotta solo in questa sede, non risultando ne’ dal ricorso ne’ dalla sentenza impugnata che di essa si sia gia’ discusso nel giudizio di appello: la Corte di Cassazione pertanto non e’ tenuta ad esaminarla.
Va piuttosto osservato che, come precisa lo stesso ricorrente (v. pag. 12), “le somme richieste negli estratti contro riguardano spese sostenute dall’amministratore per la manutenzione degli immobili….”.
Ebbene, secondo la giurisprudenza di questa Corte – a cui oggi va data continuita’ – in tema di spese di conservazione della cosa comune, l’articolo 1110 cod. civ., escludendo ogni rilievo dell’urgenza o meno dei lavori, stabilisce che il partecipante alla comunione, il quale, in caso di trascuranza degli altri compartecipi o dell’amministratore, abbia sostenuto spese necessarie per la conservazione della cosa comune, ha diritto al rimborso, a condizione di aver precedentemente interpellato o, quantomeno, preventivamente avvertito gli altri partecipanti o l’amministratore, sicche’ solo in caso di inattivita’ di questi ultimi egli puo’ procedere agli esborsi e pretenderne il rimborso, pur in mancanza della prestazione del consenso da parte degli interpellati, incombendo comunque su di lui l’onere della prova sia della suddetta inerzia che della necessita’ dei lavori (tra le varie, Sez. 2, Sentenza n. 20652 del 09/09/2013 Rv. 627614; Sez. 2, Sentenza n. 10738 del 03/08/2001 (Rv. 548784).
Nel caso in esame il relativo onere probatorio non risulta assolto e quindi si giustifica il rigetto della domanda di rimborso.
c) Sotto il terzo profilo, premesso che l’unico fatto decisivo era il ruolo del (OMISSIS) (che la Corte ha ben analizzato) e non gia’ le prove addotte a sostegno della tesi dell’attore, va osservato che la critica, sotto lo schermo della dedotta violazione di legge, e’ in realta’ unicamente fattuale e tende ad una alternativa ricostruzione di circostanze per sollecitare una soluzione diversa alla questione relativa al ruolo del (OMISSIS): il giudizio di legittimita’ non consente siffatti accertamenti.
2 Col secondo motivo si denunzia infine violazione e falsa applicazione dell’articolo 244 c.p.c. nonche’ degli articoli 115 e 116 c.p.c., omesso esame di fatti decisivi per il giudizio; omessa ammissione di mezzi istruttori richiesti (prova per testi e consulenza tecnica di ufficio) Violazione dell’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5″: ritiene il ricorrente che la prova per testi sull’invio annuale degli estratti conto e la consulenza contabile sulla regolarita’ degli stessi (domandate con l’atto di appello) avrebbero condotto al buon esito del giudizio.
Anche tale motivo e’ infondato perche’ i mezzi istruttori richiesti (prova per testi sull’invio periodico dei rendiconti al domicilio della (OMISSIS) e consulenza tecnica contabile sui rendiconti) non inciderebbero affatto sulla ratio decidendi della Corte d’Appello, fondata non gia’ sul mancato invio dei rendiconti o sulla erroneita’ degli stessi sotto il profilo contabile, ma sulla inesistenza del diritto al rimborso delle somme anticipate.
In conclusione, il ricorso del (OMISSIS) va respinto, con addebito di ulteriori spese al ricorrente.
Trattandosi di ricorso successivo al 30 gennaio 2013 e deciso sfavorevolmente, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-Legge di stabilita’ 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, il comma 1 quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente grado di giudizio che liquida in complessivi Euro 5.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 – quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis.

Non è necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare al rilascio del passaporto per la figlia minorenne che sia affidata in maniera esclusiva ad un genitore.

Tribunale di Mantova,12 dicembre 2017

Tribunale di Mantova Il giudice tutelare dott. Luigi Pagliuca,
letta l’istanza depositata in data 1.12.17 da B. O. e volta ad ottenere
l’autorizzazione al rinnovo del passaporto a favore della figlia minorenne
M. R. (nata a B. il 28.12.2005), figlia anche di R. G. ed affidata in via
esclusiva alla madre con provvedimento del Tribunale di Mantova in data
27.2.2014;
rilevato che ai sensi dell’art. 3, lett. a) legge 1185/67 per il rilascio del
passaporto a favore di minore sottoposto alla responsabilità genitoriale è,
in generale, necessario l’assenso di entrambi i genitori, in mancanza del
quale è necessario ottenere l’autorizzazione del giudice tutelare;
rilevato, tuttavia, che ai sensi dell’art. 3, lett. b) della stessa legge
l’autorizzazione del giudice tutelare non è necessaria quando il
richiedente “sia titolare esclusivo della responsabilita’ genitoriale sul
figlio” ipotesi nella quale – quindi – il passaporto potrà essere rilasciato a
fronte della semplice richiesta del genitore esercente in via esclusiva la
responsabilità genitoriale, senza che siano necessari anche l’assenso
dell’altro genitore o l’autorizzazione del giudice tutelare;
rilevato che ai sensi dell’art. 337quater, c. 3 cc “il genitore a cui sono
affidati i figli in via esclusiva, salva diversa disposizione del giudice, ha
l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale su di essi”ritenuto,
quindi, che il genitore esclusivo affidatario del figlio, in quanto appunto
esercente in via esclusiva la responsabilità genitoriale sullo stesso, ai
sensi dell’art. 3 lett. b) sopra richiamato abbia titolo per richiedere ed
ottenere il rilascio del passaporto a favore del figlio medesimo, senza
dover richiedere a tal fine anche l’assenso dell’altro genitore o
l’autorizzazione del giudice tutelare. Ciò salvo solo il caso in cui, ai sensi
dell’art. 337 quater, c. 3 cc (nella parte in cui fa salva ogni diversa
disposizione del giudice) il giudice che abbia disposto l’affido esclusivo
non abbia espressamente previsto che, in relazione al rilascio del
passaporto, permanga l’esercizio congiunto della responsabilità in capo
ad entrambi genitori; rilevato che nella fattispecie con provvedimento del
Tribunale di Mantova in data 27.2.14 la figlia R. M. è stata affidata in via
esclusiva alla madre B. O. senza limitazioni di sorta in ordine al potere
della madre affidataria di richiedere nel suo interesse il rilascio del
passaporto; ritenuto, quindi, che nel caso di specie il passaporto a favore
della minore R. M. debba essere rilasciato a semplice richiesta della sola
madre B. O., senza che a tal fine sia necessario anche l’assenso del padre
R. G., né l’autorizzazione del giudice tutelare; ritenuto, quindi, che debba
essere dichiarata l’inammissibilità dell’istanza volta ad ottenere
l’autorizzazione del giudice tutelare al rilascio del passaporto, in quanto
nella fattispecie non necessaria
PQM
Dichiara l’inammissibilità dell’istanza, dando atto che sussistono i
presupposti per rilasciare il passaporto a favore della minore R. M. a
semplice richiesta della sola madre B. O. affidataria esclusiva della
minore, senza che a tal fine sia necessario anche l’assenso del padre R. G.,
né l’autorizzazione del giudice tutelare;
Si comunichi alla ricorrente.
Mantova, 12.12.2017
Il Giudice tutelare
Dott. Luigi Pagliuca

La separazione può essere addebitata anche se non si sostanzia in adulterio

Cass. Civile, Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 21657 del 19/09/2017.

ORDINANZA
sul ricorso 18907/2016 proposto da:
G.A.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la
CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso
dall’avvocato GIULIANO RASTELLI;
– ricorrente –
contro
C.S., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la
CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa
dall’avvocato SIMONETTA BOCCABELLA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 59/2016 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,
depositata il 15/01/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non
partecipata del 07/07/2017 dal Consigliere Dott. FRANCESCO
ANTONIO GENOVESE.
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
La Corte d’appello dell’Aquila, con la sentenza n. 1154del2014
(depositata il 19 agosto 2014), respingendo l’appello incidentale proposto
dal signor G.A.A. ed accogliendo quello principale della signora C.S., ha
riformato la sentenza del Tribunale di Teramo, che aveva addebitato la
separazione alla C. ed escluso il pagamento di un contributo da parte del
G. in favore di costei, ed ha respinto la domanda di addebito della
separazione alla moglie, ponendo a carico del marito un contributo di
mantenimento di Euro 800,00 mensili e regolando le spese.
Avverso tale decisione ricorre con tre mezzi il G., assumendo l’esistenza
di non meglio specificate violazioni o false applicazioni di norme di
diritto e l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, affermando la
irrilevanza del tradimento ai fini dell’addebito, la violazione del giusto
processo e del contraddittorio, nonchè dell’obbligo di allegazione e prova.
Il Collegio condivide la proposta di definizione della controversia
notificata alle parti costituite nel presente procedimento, alla quale sono
state mosse osservazioni critiche da parte del ricorrente che, tuttavia, non
colgono nel segno.
Le doglianze, infatti, sono, in una sua parte, inammissibili perchè, sotto
le apparenti spoglie della violazione dei menzionati generici dispositivi di
legge, sollecitano a questa Corte un sostanziale riesame delle risultanze
processuali ed una diversa valutazione degli apprezzamenti giudiziali sui
fatti accertati ai fini della regolazione della separazione giudiziale (SU
civili nella Sentenza n. 8053 del 2014) ed, in un’altra parte, esse sono
anche manifestamente infondate, perchè si pongono in contrasto con il
principio di diritto posto da Cass. Sez. 1, Sentenza n. 8929 del 2013 (“La
relazione di un coniuge con estranei rende addebitabile la separazione ai
sensi dell’art. 151 c.c., quando, in considerazione degli aspetti esteriori
con cui è coltivata e dell’ambiente in cui i coniugi vivono, dia luogo a
plausibili sospetti di infedeltà e quindi, anche se non si sostanzi in un
adulterio, comporti offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge”). Alla
reiezione del ricorso, conseguono sia le spese processuali (liquidate come
in dispositivo) in favore della controricorrente, sia l’enunciazione della
sussistenza dei presupposti per il raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte:
Respinge il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese
processuali di questa fase del giudizio che liquida in complessivi Euro
3.100,00 di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella
misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla
L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara che sussistono i presupposti
per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello
stesso art. 13, comma 1-bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento, dispone omettersi le
generalità e gli altri dati identificativi delle parti, a norma del D.Lgs. n.
196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile
1, della Corte di Cassazione, dai magistrati sopra indicati, il 7 luglio 2017.
Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2017.