Il danno economico relativo al lock-down da Covid – 19 non può giustificare la riduzione del contributo al mantenimento dei figli.

Tribunale di Verona, ordinanza del 16 luglio 2020, Est. Dott. Francesco Bartolotti
TRIBUNALE ORDINARIO di VERONA
sezione I civile
Nella causa civile iscritta al N. ………R.G., promossa da:
GAIA (C.F.)
ATTORE contro
CORNELIO (C.F.)
CONVENUTO
Il giudice dr. Francesco Bartolotti,
a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 16/07/2020,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
Rilevato che parte resistente ha chiesto la riduzione dell’assegno stabilito in via provvisoria ed urgente quale
contributo al mantenimento dei figli (€ 500,00), insistendo per una riduzione ad € 400,00 al mese, rilevando che
rispetto all’epoca dei provvedimenti presidenziali, lo stesso avrebbe visto una contrazione reddituale del proprio
nuovo nucleo familiare (per la contrazione delle vendite nel periodo COVID e ancora alla attualità, nonché per le
condizioni lavorative della propria compagnia, in cassa integrazione e prossima alla cessazione del rapporto di
lavoro a settembre 2020), nonché un aumento delle spese (in ragione del finanziamento accesso a gennaio 2020 per
l’acquisto di una nuova auto e per il nuovo più elevato canone di locazione – 600 euro al mese, invece di 500 euro al
mese – da sostenersi per il nuovo appartamento preso in conduzione al fine di avere i locali necessari ad ospitare i
figli durante le visite presso di lui);
rilevato che le maggiori spese dichiarate risultano in prevalenza (il finanziamento) frutto di scelte volontariamente
compiute dal resistente in un periodo in cui, seppure antecedente alle restrizioni imposte dalla legislazione di
urgenza emanata per fronteggiare l’emergenza sanitaria, doveva ritenersi che il resistente, stando alle dichiarazioni
dal medesimo rese in sede di udienza presidenziale, fosse già in una condizione di difficoltà economica con
necessità di attingere ai risparmi per far fronte alle esigenze quotidiane; le maggiori spese di locazione appaiono
invece modeste (€ 100 al mese in più e senza che vi sia un preciso confronto in ordine alle spese condominiali
pregresse);
rilevato, quanto alla questione della contrazione reddituale, che la situazione della compagna sia non attuale,
considerato che la stessa allo stato percepisce degli emolumenti lavorativi e che lo stato di gravidanza per il quale ha
avuto una riduzione retributiva costituiva circostanza già valutata dal presidente; per quanto riguarda la situazione
del resistente, peraltro, deve osservarsi che, sebbene il periodo COVID abbia ragionevolmente influito sulla
possibilità di percepire introiti di liquidità, stante la chiusura delle attività, allo stato gli esercizi commerciali hanno
riaperto e dunque la fase più acuta dell’emergenza (anche lavorativa) può dirsi, allo stato, superata; non si trascura la
circostanza che il periodo di quarantena ha avuto anche un effetto negativo sull’andamento generale dell’economia ,
dunque, che le vendite possano avere subito un calo anche nel periodo attuale post- riapertura; su tale punto,
tuttavia, da un lato occorre verificare in un periodo di tempo più significativo la effettiva incidenza sulla capacità
reddituale del resistente delle prospettate contrazioni di vendita; per altro verso deve rilevarsi come sin dalla udienza
presidenziale sia stata segnalata la opportunità di maggiori approfondimenti sulle potenzialità economiche del
resistente, ritenuti non compatibili con la fase presidenziale; dunque, deve anche essere considerato come allo stato
non siano stati ancora assegnati i termini istruttori e come si renda necessario in questo procedimento provvedere
ad una adeguata istruzione delle condizioni economiche delle parti;
ritenuto pertanto che allo stato l’istanza di diminuzione dell’assegno disposto in sede presidenziale non possa
trovare accoglimento;
rilevato che dalla relazione dei servizi sociali emerge l’opportunità di proseguire il lavoro avviato per il supporto
genitoriale, che peraltro ha permesso di compiere passi avanti ad entrambe le parti in vista di un riavvicinamento
delle rispettive posizioni, quanto meno sotto il profilo della gestione delle funzioni genitoriali nel migliore interesse
dei figli;
P.Q.M.
RIGETTA allo stato l’istanza di modifica dei provvedimenti presidenziali.
DISPONE che i servizi sociali incaricati proseguano nel lavoro avviato di sostegno alla genitorialità.
INVITA i servizi sociali a relazionare per iscritto entro dieci giorni prima della prossima udienza.
ASSEGNA i termini dell’art. 183 comma sesto c.p.c.
FISSA per l’esame della relazione dei servizi sociali e per la discussione sui mezzi di prova, la udienza del giorno
giovedì 12 novembre 2020 ore 10.15.
MANDA alla Cancelleria per le comunicazioni.
Verona, 16/07/2020
Il giudice
Francesco Bartolotti

Il coniuge deve provare la consapevolezza da parte della moglie che la gravidanza è causata da adulterio.

Trib. di Reggio Emilia, sent. 26 giugno 2020 – Giud. Dr. Morlini
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO DI REGGIO EMILIA
SEZIONE SECONDA CIVILE
Il Tribunale, nella persona del Giudice monocratico dott. Gianluigi Morlini, ha
pronunciato ex art. 281 sexies c.p.c. la seguente
SENTENZA
nella causa civile di I Grado iscritta al n. R.G. 1950/2019
promossa da:
XXX (avv. MUNARI LORENZO)
PARTE ATTRICE
contro
YYY (avv. DALL’AGLIO GIULIA)
PARTE CONVENUTA
Svolgimento del processo
Promuovendo la presente controversia, XXX ha esposto che nel 1994 si era unito in
matrimonio a YYY; che nel corso del matrimonio, il 12/3/1996 la moglie aveva dato alla
luce un bambino, chiamato Z e indicato allo stato civile come figlio della coppia; che nel
1999 la coppia si era separata; che 21 anni dopo il matrimonio, con sentenza del Tribunale
di Reggio Emilia n. 1410/2005, era stato dichiarato lo scioglimento del matrimonio stesso,
ed il XXX convolava a nuove nozze con altra persona; che successivamente, XXX era
venuto a sapere che durante la vita matrimoniale la moglie aveva intrattenuto una
relazione extraconiugale; che pertanto aveva promosso una causa di disconoscimento di
paternità; che nel corso di tale causa era stata disposta una CTU, la quale aveva concluso
nel senso della incompatibilità genetica tra XXX ed il figlio; che tuttavia la causa era stata
definita con sentenza del Tribunale di Reggio Emilia n. 860/2017, tramite una pronuncia in
rito di inammissibilità, essendo la domanda stata proposta senza il rispetto dei termini
decadenziali previsti dall’articolo 244 c.c.
Ciò posto, XXX, con un atto introduttivo particolarmente schematico consistente in 26
righe di ricostruzione in fatto ed in diritto della controversia, ha evocato in giudizio la ex
moglie YYY, per ottenerne la condanna a risarcire il danno non patrimoniale e di natura
endofamiliare, quantificato in Euro 150.000, sofferto a seguito della scoperta di non essere
il padre biologico di Z ed in ragione del fatto che la moglie aveva “celato all’istante che la
propria gravidanza e la nascita del figlio era dovuta ad un rapporto con un altro uomo”
(pag. 1 citazione).
Costituendosi in giudizio, ha resistito YYY, eccependo in rito che la domanda risarcitoria
doveva ritenersi preclusa a seguito della declaratoria di inammissibilità della domanda di
disconoscimento di paternità, con la conseguenza che l’attore doveva ritenersi a tutti gli
effetti padre di Z; deducendo nel merito sia che era sempre stata convinta della effettiva
paternità dell’ex marito rispetto al figlio, e che comunque difettavano nel caso di specie i
comportamenti ingiuriosi, offensivi ed aggressivi necessari per potere configurare la
risarcibilità del danno endofamiliare; argomentando poi sempre nel merito che non vi era
prova del nesso causale tra il dedotto stato depressivo e la presunta mancata paternità;
eccependo infine la prescrizione del diritto risarcitorio azionato, per il decorso del termine
quinquennale previsto dall’articolo 2947 c.c.
La causa è stata ritenuta matura per la decisione senza dare luogo alle prove testimoniali
ed alle CTU richieste dalle parti.
In particolare, fissata una prima udienza di discussione orale con precedente termine per
note scritte, è stato disposto rinvio per la cosiddetta emergenza Covid-19, e
successivamente la causa è poi stata decisa a seguito di trattazione scritta ex art. 83 comma
7 lettera h) D.L. n. 83 del 2020 con la presente sentenza ex articolo 281 sexies c.p.c.
Motivi della decisione
a) E’ noto che già da qualche anno la giurisprudenza ha ritenuto la configurabilità degli
illeciti endofamiliari, che si hanno allorquando i comportamenti tenuti sono illeciti solo
perché commessi da persone legate da vincoli famigliari, mentre non lo sarebbero nel caso
di commissione da parte di persone non legate da tali vincoli.
In particolare, è stato spiegato che i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio, quali
quelli previsti dall’articolo 143 c.c. in tema di collaborazione, coabitazione, assistenza e
fedeltà (i primi tre estesi alle unioni civili dall’art. 1 comma 11 L. n. 76 del 2016), hanno
natura giuridica vera e propria.
Pertanto, viene superata la tesi per cui la violazione dei doveri coniugali è sanzionabile
solo con i rimedi tipici del diritto di famiglia (ad esempio, articoli 129 bis, 151, 156, 342 ter
c.c.; 709 ter c.p.c.; 570 c.p.; 12 sexies L. n. 898 del 1970): dalla natura giuridica degli obblighi
suddetti discende infatti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti
costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare quindi
luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’articolo 2059 c.c., senza che
la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia preclusiva dell’azione di
risarcimento (cfr. ex pluribus Cass. n. 4470/2018, Cass. n. 8862/2012, Cass. n. 610/2012,
Cass. n. 18853/2011, Cass. n. 17193/2011, Cass. n. 15557/2008, Cass. n. 13431/2008, Cass. n.
9801/2005).
La giurisprudenza ha però precisato che il risarcimento di tale danno può essere effettuato
solo nel caso in cui venga violato un diritto fondamentale di rango costituzionale, quale la
dignità della persona, e la violazione sia di particolare gravità, essendo posta in essere con
modalità insultante, ingiuriosa ed offensiva.
Coerentemente con tale assunto e con specifico riferimento al danno non patrimoniale da
adulterio, anche recentissimamente la Suprema Corte ne ha sancito la risarcibilità, alla
condizione però dell’avvenuta lesione di un diritto inviolabile della persona,
costituzionalmente protetto, e sempre purché la lesione superi la soglia della tollerabilità
(Cass. n. 6598/2019; in termini anche Cass. n. 8862/2012).
Tanto premesso in linea di diritto, si osserva in fatto che, nel pur estremamente schematico
atto introduttivo, l’attore ha effettivamente dedotto l’esistenza di un comportamento della
ex moglie astrattamente idoneo ad essere qualificato come fonte di danno endofamiliare,
ed in particolare quello di avere “celato all’istante che la propria gravidanza e la nascita del
figlio era dovuta ad un rapporto con un altro uomo” (pag. 1 citazione).
In sostanza, il comportamento violativo di un diritto fondamentale della persona e la sua
incisione con particolare gravità, vengono ricondotti non già alla mera e semplice
violazione del dovere di fedeltà e quindi alla esistenza di una relazione extraconiugale, ciò
che sarebbe rilevante ex articolo 143 c.c. nell’ambito del diritto di famiglia, ma non
potrebbe di per sé fondare una domanda di risarcimento del danno ex art. 2059 c.c. in
assenza di modalità insultante ed ingiuriosa; ma vengono correttamente ricondotti alla
diversa e distinta situazione di nascondere al marito che la gravidanza era dovuta ad
rapporto con un altro uomo.
La consapevolezza quindi, da parte della convenuta, che la propria gravidanza era dovuta
alla relazione extraconiugale, diventa un elemento costitutivo della domanda risarcitoria
posta in essere dall’attore; né potrebbe essere diversamente, proprio perché, come detto, la
mera relazione extraconiugale non è di per sé idonea a fondare la domanda risarcitoria.
Pertanto, spettava all’attore, se del caso anche in via presuntiva, dare prova di quanto
dedotto in ordine a tale consapevolezza, atteso che la convenuta ha recisamente negato
detta consapevolezza, ed anzi ha affermato che “era convinta all’epoca della CTU biologica
della paternità dell’attore” (pag. 5 comparsa di risposta).
Tuttavia, pur se onerato di tale onere probatorio ex articolo 2697 c.c., l’attore non ha fornito
alcun elemento che possa far ritenere provato, o quantomeno lumeggiato da un principio
di prova, l’esistenza in capo alla convenuta di tale consapevolezza.
Tanto basta al rigetto della domanda attorea, rimanendo assorbite tutte le ulteriori difese
della convenuta, ivi compresa quella relativa alla prescrizione ed alla mancanza del nesso
causale tra il dedotto stato depressivo e la mancata paternità.
b) Nonostante la soccombenza attorea, sussistono le gravi ed eccezionali ragioni di cui
all’articolo 92 comma 2 c.p.c., così come rimodulato a seguito della sentenza di Corte
Costituzionale n. 77/2018, per compensare integralmente tra le parti le spese di lite, ragioni
integrate dall’effettiva eccezionalità e singolarità del caso sottoposto all’esame di questo
giudice, e dell’opportunità di non penalizzare chi, solo vent’anni dopo la nascita dalla
nascita, è venuto a conoscenza di non essere padre biologico di colui che aveva sempre
considerato proprio figlio.
Ai sensi dell’art. 52 comma 2 D.Lgs. n. 196 del 2003, si dispone che, in caso di diffusione
della sentenza, vadano omesse le generalità e gli altri dati identificativi di una o più parti.
P.Q.M.
il Tribunale di Reggio Emilia in composizione monocratica
definitivamente pronunciando, nel contraddittorio tra le parti, ogni diversa istanza
disattesa
– rigetta la domanda;
– compensa integralmente tra le parti le spese di lite.
Così deciso in Reggio Emilia, il 24 giugno 2020.
Depositata in Cancelleria il 26 giugno 2020.

Cessato il regime legale, rimane intatta la contitolarità dei beni fra i coniugi fino alla divisione

Cass. civ. Sez. VI – 2, Ord., 1 settembre 2020, n. 18156

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7881 -2019 proposto da:
R.S., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ALESSANDRA INNARO;
– ricorrente –
contro
S.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA CONCILIAZIONE 44, presso lo studio dell’avvocato GIULIANO SEGATO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURIZIO BRIZZOLARI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2149/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 10/08/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 10/07/2020 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE TEDESCO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Il Tribunale di Modena e poi la Corte d’appello hanno definito, allo stesso modo, la lite fra gli ex coniugi S.C. e R.S. sulla proprietà comune di strumenti finanziari acquistati in costanza del regime di comunione legale e alienati dal solo R.. E’ stato riconosciuto il diritto della S. di vedersi corrisposta la metà del ricavato della liquidazione operata dal R., il quale aveva sostenuto il carattere personale dell’acquisto, in quanto operato con capitali propri depositati all’estero e rimpatriati grazie al cosiddetto scudo fiscale.
Per la cassazione della sentenza il R. propone ricorso affidato a due motivi. Resiste con controricorso la S., con il quale chiede l’applicazione dell’art. 96 c.p.c., comma 3.
La causa, su conforme proposta del relatore, è stata avviata per la trattazione dinanzi alla sesta sezione civile della Suprema Corte.
La controricorrente ha depositato memoria.
2. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
La S. aveva chiesto, ai sensi dell’art. 184 c.c., la ricostruzione dell’originario stato di fatto della comunione legale e se ciò non fosse stato possibile, la condanna del R. al pagamento dell’equivalente in denaro secondo i valori correnti al momento della ricostituzione. Solo in sede di precisazione delle conclusioni, essendo nel frattempo cessato il regime legale, fu poi richiesta dall’attrice la condanna del coniuge al pagamento diretto della metà del valore dei titoli. I giudici di merito, nonostante la oggettiva diversità di petitum e causa petendi, hanno accolto la nuova domanda, mentre la corretta applicazione delle norme processuali imponeva di definire il giudizio con una sentenza di rigetto della originaria unica domanda, la cui attuazione era divenuta impossibile in conseguenza della cessazione del regime della comunione legale.
Il motivo è infondato.
La S., nell’iniziare il giudizio, aveva chiesto in primo luogo accertarsi l’appartenenza alla comunione legale degli strumenti finanziari liquidati unilateralmente dal R.; aveva chiesto inoltre accertarsi che il medesimo R. aveva compiuto l’atto di disposizione senza il consenso dell’altro coniuge. In base a tale duplice premessa aveva chiesto la ricostituzione della comunione in forma specifica ovvero per equivalente. La domanda si colloca all’evidenza nell’ambito dell’art. 184 c.c..
Il tribunale ha riconosciuto che la ricostituzione della comunione non era possibile, essendo cessato nel frattempo il regime legale (tale cessazione si è verificato in corso di causa per effetto della modifica dell’art. 191 c.c., applicabile anche ai procedimenti pendenti: il punto è incontroverso nella lite); ha accolto quindi la domanda di condanna diretta pro quota formulata dalla S. in sede di precisazione delle conclusioni.
La Corte d’appello di Bologna, investita da apposita ragione di censura da parte del R., il quale aveva eccepito che la richiesta formulate nelle conclusioni costituiva inammissibile mutamento della domanda, ha proposto un ragionamento più semplice. Essa ha negato che vi fosse stato mutamento di domanda, argomentando che la richiesta di condanna pro quota costituiva una specificazione della originaria domanda di ricostituzione della comunione per equivalente.
La ricostruzione dei giudici di merito non può essere condivisa. L’errore commesso, però, non ha comportato alcuna violazione processuale, ma in ipotesi violazione delle norme in materia di comunione legale fra coniugi.
La ricostituzione della comunione legale mediante condanna per equivalente, oggetto della originaria domanda, qualora accolta, avrebbe determinato l’obbligo del coniuge di versare l’intero importo corrispondente all’entità sottratta alla stessa comunione legale. L’importo versato sarebbe divenuto proprietà comune dei coniugi, in luogo del bene mobile unilateralmente alienato. Ora il fatto che la comunione legale fosse cessata in corso di causa non aveva comportato automaticamente la cessazione della proprietà comune dei coniugi e l’impossibilità di eseguire la prestazione in favore della comunione, trasformatasi, per effetto della cessazione del regime legale, in comunione ordinaria. In altre parole, era cessato il regime legale, rimanendo intatta la contitolarità fino alla divisione (Cass. n. 10586/1996; n. 9846/1996). Si osserva che l’art. 184 c.c. non indica un termine entro il quale il coniuge pretermesso può pretendere la ricostituzione della comunione, ma la dottrina è concorde nel ritenere applicabile la disposizione dell’art. 192 c.c., comma 4, individuando quale termine ultimo il momento della divisione. Si ritiene inoltre che possa essere applicabile alla fattispecie anche l’art. 192 c.c., comma 2, che esclude l’obbligo di rimborso nell’ipotesi in cui l’atto di straordinaria amministrazione compiuto separatamente da uno dei coniugi sia stato vantaggioso per la comunione o abbia soddisfatto una necessità della famiglia.
Insomma, lo scioglimento del regime legale non impediva di concepire e attuare una prestazione fatta dal coniuge debitore in favore della comunione. L’equivalente del bene alienato senza il consenso dell’altro coniuge sarebbe divenuto oggetto di comproprietà per essere diviso insieme alle altre cose, così come dispone l’art. 192 c.p.c. Secondo tale norma, infatti, i rimborsi e le restituzioni vanno fatti “alla comunione”, non pro quota al coniuge creditore. Vengono in considerazione, per giustificare la previsione che impone di computare la prestazione nella massa dei beni comuni, non solo una esigenza di salvaguardia dei creditori della comunione, garantiti sui beni di questa, ma anche una esigenza del coniuge debitore, che potrebbe avere interesse a effettuare la prestazione in favore della massa per definire in quella sede i reciproci rapporti di dare e avere.
Si capisce, quindi, come si accennava, che l’errore commesso dai giudici di merito è di non avere accolto la domanda originaria, la cui attuabilità non era venuta meno per effetto della cessazione del regime legale. Ciò posto, nella decisione assunta nei gradi di merito, di accogliere la domanda con pagamento diretto al coniuge creditore nei limiti della quota, non si ravvisa alcuna violazione processuale. Il compartecipe che abbia chiesto nei confronti di altro compartecipe, di rimettere in proprietà comune un certo importo indebitamente sottratto, non incorre nel divieto di mutamento di domanda se chiede in corso di causa il pagamento diretto della propria quota. Il compartecipe debitore ha diritto di opporsi a tale domanda, non perchè sia nuova, ma facendo valere il proprio interesse a ricostituire la comunione in vista della divisione, in modo da regolare in quella sede i rapporti di dare e avere, invece di pagare la quota del compartecipe fuori dalle operazioni divisionali.
Considerata dal punto di vista del petitum e della causa petendi, il rilievo della corte d’appello – secondo cui “la domanda di condanna al pagamento di una somma di denaro equivalente a quelle investita poi disinvestita da R.S. è stata dunque regolarmente tempestivamente formulata dalla S.: essa pertanto apparteneva al giudizio riunito ed è stata del tutto correttamente esaminata e parzialmente accolta dal primo giudice nella misura del 50% della somma investita” – è immune da censure.
Il secondo motivo denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
La sentenza è oggetto di censura per avere la corte d’appello negato il carattere personale dell’acquisto, in presenza di elementi oggettivi che dimostravano inequivocabilmente la provenienza dal patrimonio proprio del R. dei mezzi impiegati per l’acquisto. In particolare, si sostiene che, nella situazione concreta, la provenienza personale della provvista era implicita nella cospicua entità dell’importo investito, avuto riguardo alle condizioni economiche e ai redditi dei coniugi. Si assume che l’altro coniuge aveva piena consapevolezza della provenienza della provvista dal patrimonio dei genitori dell’attuale ricorrente. Si doveva poi considerare la disciplina del c.d. scudo fiscale, che costituiva ulteriore conferma del carattere personale dei mezzi impiegati per l’acquisto, posto che la dichiarazione di emersione era stata fatta dal solo R. e conseguentemente non ne potevano profittare anche altri soggetti, benchè comproprietari.
Il motivo è inammissibile. Coerentemente con la rubrica si denuncia un vizio di motivazione, che non è più annoverato fra le ragioni di censura proponibili in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo applicabile ratione temporis. Non ha senso neanche chiedersi se la censura possa essere considerata nell’alveo della nuova disciplina della norma, versandosi in un caso di c.d. “doppia conforme” ex art. 348-ter c.p.c., comma 5.
E’ ancora da aggiungere: a) che la censura verte sul fatto che la corte d’appello avrebbe dovuto riconoscere la provenienza da donazione dei capitali impiegati per l’acquisto dei titoli, senza considerare che la stessa corte d’appello ha ritenuto inammissibile, prima che infondata, la relativa deduzione; b) che nel motivo si introducono fatti nuovi, costituiti da scritti difensivi relativi a un diverso giudizio depositati persino dopo la pronuncia della sentenza impugnata in questa sede; c) che, in ordine alla disciplina dello scudo fiscale, è censurata inammissibilmente sotto il profilo della motivazione l’interpretazione di una norma giuridica; d) che tale ultima questione è comunque irrilevante: la corte d’appello non ha riconosciuto il carattere comune del mezzo impiegato per l’acquisto, proveniente da conto estero, nonostante la dichiarazione di emersione fosse stata fatta da uno solo dei coniugi. La comunione è riferita ai titoli acquistati con quei mezzi; e si sa che, a tale effetto, la natura comune sussiste anche se i mezzi siano di uno solo dei coniugi.
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, con addebito di spese.
(Per allegato vedi pdf).
In considerazioni delle ragioni della decisione non si ravvisa la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 96 c.p.c., comma 3.
Ci sono le condizioni per dare atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto”.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6 – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 10 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 1 settembre 2020

Affidamento dei figli: il tribunale competente è quello della residenza abituale dei minori

Cass. civ. Sez. VI – 1, Ord., 20 luglio 2020, n. 15421

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22221-2019 R.G. proposto da:
C.N., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato MANUELA MAURO;
– ricorrente –
contro
D.D.;
– intimato –
per regolamento di competenza avverso l’ordinanza del TRIBUNALE di SONDRIO, depositata il 04/07/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 19/02/2020 dal Presidente Relatore Dott.ssa ACIERNO MARIA;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO ALBERTO, che chiede che codesta Suprema Corte voglia dichiarare la competenza del Tribunale di Sondrio, assumendo i provvedimenti di cui all’art. 49 c.p.c., comma 2.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Il Tribunale di Sondrio ha declinato la propria competenza in relazione alla causa avente ad oggetto la revisione delle condizioni relative all’affidamento e mantenimento dei figli minori, contenute nella pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio intercorso tra D.D. e C.N.. Ha ritenuto il Tribunale la competenza del Tribunale di Cassino ove era stato pronunciato il divorzio e l’obbligazione messa in discussione era sorta, precisando che il convenuto risiedeva a Minturno.
La signora C. ha proposto ricorso per regolamento di competenza indicando in Sondrio il foro competente in quanto luogo di residenza abituale dei minori.
Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione ha individuato in Sondrio il foro competente in primo luogo perchè coincidente con la residenza abituale dei minori ed in secondo luogo perchè luogo ove l’obbligazione doveva essere eseguita.
Il Collegio condivide le conclusioni del Procuratore Generale in quanto coerenti con il costante orientamento della Corte, saldamente ancorato sulle regole del diritto Eurounitario (Reg. CE n. 2201 del 2003), del diritto internazionale convenzionale e ribadite nel nostro ordinamento positivo con l’art. 709 ter c.p.c. in tema di conseguenze dell’inadempimento degli obblighi relative all’esercizio della responsabilità genitoriale. Le controversie che hanno ad oggetto l’affidamento e il mantenimento dei minori ancorchè contenute in una pronuncia di separazione personale o di cessazione degli effetti civili del matrimonio devono essere radicate nel luogo di residenza abituale dei minori. (Cass.25636 del 2016; 27153 del 2017). La L. n. 898 del 1970 non contiene un indicatore esplicito ma il principio espresso dal citato art. 709 ter c.p.c., alla luce dell’ampio quadro di fonti delineato e in sintonia con il preminente interesse del minore, deve ritenersi esteso anche alle determinazioni sui figli minori conseguenti il divorzio, essendo identico l’oggetto delle controversie ex art. 709 ter c.p.c. e quelle riguardanti la modifica delle determinazioni relative all’affidamento e mantenimento minori, in quanto entrambe relative alla regolazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale.
Ritiene, pertanto, il Collegio di doversi discostare dall’ordinanza n. 8016 del 2013 su cui fonda la declinatoria di competenza il Tribunale di Sondrio dal momento che la Corte in questa pronuncia non ha potuto tenere conto (perchè ratione temporis non ancora applicabile) del nuovo regime giuridico derivante dalla riforma della filiazione introdotta dalla L. n. 219 del 2012 e dal D.Lgs. n. 154 del 2013, tutto rivolto ad eliminare ogni ingiustificata disparità di trattamento sostanziale e processuale nel sistema di protezione giuridica dei minori ed in particolare in ordine alla titolarità ed esercizio della responsabilità genitoriale, come si può agevolmente desumere dalla stessa intitolazione del capo II del Titolo IX del Libro I (Esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio) che afferma in modo espresso l’uniformità di regolazione giuridica della responsabilità genitoriale in sede separativa, divorzile ed in relazione ai figli nati fuori dal matrimonio. Il principio è infine rafforzato dall’art. 337 quinquies c.c., il quale prevede in via generale il diritto di richiedere la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della responsabilità genitoriale su di essi e delle eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo. Non incide sulla correttezza del principio affermato la L. n. 898 del 1970, art. 12 quater che si limita ad introdurre un foro concorrente (quello del luogo in cui deve essere eseguita l’obbligazione) ma non esclude l’applicazione di quello individuato dalla ricorrente nella residenza abituale dei minori.
In conclusione il ricorso deve essere accolto, dichiarata la competenza per territorio del Tribunale di Sondrio cui va rimesso il giudizio e la statuizione sulle spese del presente procedimento.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso dichiara la competenza del Tribunale di Sondrio cui rimette la causa anche per le spese del presente procedimento.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 19 febbraio 2020.
Depositato in cancelleria il 20 luglio 2020

Accertamento paternità. Il giudice può ritenere inutile la CTU avendo il test del DNA valore decisivo

Cass. civ. Sez. I, Ord., 13 luglio 2020, n. 14916

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 22040/2018 proposto da:
M.T., e M.A., rappresentati e difesi, anche disgiuntamente, giusta procura notarile in calce al ricorso per cassazione e procura a margine del ricorso per cassazione, dagli Avv.ti Prof. Antonio Briguglio e Michele Campo ed elettivamente domiciliati in presso lo studio del primo in Roma;
– ricorrenti –
contro
B.F., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Claudio Silocchi e Lorenzo Prosperi Mangili e con questi elettivamente domiciliati presso lo studio di quest’ultimo in Roma;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di Appello di VENEZIA, n. 1425/2018 pubblicata il 24 maggio 2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dell’1/07/2020 dal consigliere Dott. Lunella Caradonna.
Svolgimento del processo
1. B.F. ha convenuto in giudizio T. e M.A., figli di M.A.G. e suoi eredi legittimi, esponendo di essere nato il (OMISSIS) dalla relazione tra sua madre e il padre dei convenuti e chiedendo che M.A.G. fosse dichiarato suo padre naturale.
2. Il Tribunale ha accolto la domanda e ha compensato le spese tra le parti, rigettando la domanda dell’attore di rimborso delle spese della perizia stragiudiziale.
3. T. e M.A. hanno proposto gravame chiedendo che fosse disposta una nuova consulenza tecnica d’ufficio e la Corte di appello adita ha rigettato l’appello, condannando gli appellanti alla rifusione delle spese del primo e del secondo grado di giudizio.
4. T. e M.A. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
5. B.F. ha proposto controricorso e depositato memoria difensiva.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo T. e M.A. lamentano la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, degli artt. 269 e 2720 c.c., nonchè degli artt. 61 e 191 c.p.c.; motivazione apparente (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4), ovvero omesso esame di fatto decisivo (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5); violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. (per violazione del divieto di praesumptum de praesumpto) ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
Ad avviso dei ricorrenti la Corte di appello aveva errato nel non disporre la chiesta consulenza tecnica, ritenendo insindacabile la perizia stragiudiziale che era un’allegazione di parte, tenuto conto che la censura sollevata riguardava sia la mancanza dell’esame diretto tra l’attore e il presunto padre mediante esumazione del cadavere, sia che l’esame fosse stato espletato solo su uno dei due fratelli.
Il ricorrente si duole, inoltre, dell’omesso esame della compatibilità genetica fra il defunto padre e il presunto figlio, nonchè di avere ritenuto provato il rapporto di paternità attraverso due presunzioni (compatibilità genetica tra l’attore e uno dei convenuti e status di figlio legittimo del convenuto periziato).
1.1 Il motivo è inammissibile.
1.2 Deve premettersi che in tema di mezzi utilizzabili per provare la paternità naturale, l’art. 269 c.c. ammette anche il ricorso ad elementi presuntivi che, valutati nel loro complesso e sulla base del canone dell'”id quod plerumque accidit”, risultino idonei, per attendibilità e concludenza, a fornire la dimostrazione completa e rigorosa della paternità, sicchè risultano utilizzabili, raccordando tra loro le relative circostanze indiziarie, sia l’accertato comportamento del preteso genitore che abbia trattato come figlio la persona a cui favore si chiede la dichiarazione di paternità (cd. “tractatus”), sia la manifestazione esterna di tale rapporto nelle relazioni sociali (cd. “fama”), sia, infine, le risultanze di una consulenza immuno-ematologica eseguita su campioni biologici di stretti parenti del preteso genitore (Cass., 22 gennaio 2014, n. 1279; Cass., 16 aprile 2008, n. 10007).
Ed ancora in tema di azione di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, stante la nuova disciplina introdotta dalle riforme del 2012 e 2013 in materia di filiazione, la prova dell'”assoluta impossibilità di concepimento” non è diversa rispetto a quella che è necessaria fornire per le altre azioni di stato, richiedendo il diritto vigente che sia il “favor veritatis” ad orientare le valutazioni da compiere in tutti i casi di accertamento o disconoscimento della filiazione, sicchè, essendo la consulenza tecnica genetica l’unica forma di accertamento attendibile nella ricerca della filiazione, deve valorizzarsi, anche per l’azione ex art. 263 c.c., il contegno della parte che si opponga al suo espletamento (Cass., 14 dicembre 2017, n. 30122).
Questa Corte ha, inoltre, precisato che in materia di accertamenti relativi alla paternità e alla maternità, la consulenza tecnica ha funzione di mezzo obbiettivo di prova, costituendo lo strumento più idoneo, avente margini di sicurezza elevatissimi, per l’accertamento del rapporto di filiazione; essa, pertanto, in tal caso, non è un mezzo per valutare elementi di prova offerti dalle parti, ma costituisce strumento per l’acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione. Pertanto, è legittima la sua ammissione, quale fonte di prova, nel giudizio di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, promosso dal curatore speciale nominato dal tribunale per i minorenni, ai sensi della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 74 a seguito delle indagini conseguenti all’avvenuto riconoscimento, da parte di persona coniugata, di un figlio naturale non riconosciuto dall’altro genitore (Cass., 17 febbraio 2006, n. 3563).
E’ stato, inoltre, osservato che l’efficacia delle indagini ematologiche ed immunogenetiche sul DNA non può essere esclusa per la ragione che esse sono suscettibili di utilizzazione solo per compiere valutazioni meramente probabilistiche, in quanto, tutte le asserzioni delle scienze fisiche e naturalistiche hanno natura probabilistica e tutte le misurazioni sono ineluttabilmente soggette ad errore, sia per ragioni intrinseche (cosiddetto errore statistico), che per ragioni legate al soggetto che esegue o legge le misurazioni (cosiddetto errore sistematico) (Cass. 3 settembre 1997, n. 8451).
Rientra, poi, nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico di ufficio ovvero di disporre addirittura la rinnovazione delle indagini, con la nomina di altri consulenti, ed il mancato esercizio di un tale potere (così come l’esercizio) non è censurabile in sede di legittimità, salvo che con i motivi d’appello non vengano formulati specifici rilievi e sollecitata una più approfondita indagine tecnica, nel qual caso il giudice è tenuto a motivare la sua scelta negativa (Cass. 3 aprile 2007, n. 8355).
1.3 Nel caso in esame, la Corte di appello ha affermato, fornendo congrua motivazione, che l’attore si era sottoposto all’esame del DNA, come da accordi con le controparti, affidandosi ad un noto genetista, il quale lo confrontava con quello del convenuto, suo presunto parente in linea maschile più prossimo; che la percentuale del 97,386 era del tutto coerente con la parentela tra attore e convenuto, fratelli unilaterali consanguinei in quanto figli dello stesso padre; che la consulenza tecnica richiesta, oltre che infondata dal punto di vista scientifico poichè richiedeva il confronto di un DNA femminile XX per verificare il DNA maschile XY presente solo in linea maschile, era inutile essendo state le parti in primo grado del tutto concordi sia sulla necessità dell’esame, sia sul nome dell’esperto.
I giudici di secondo grado hanno, quindi, correttamente valutato il risultato dei prelievi effettuati e, con motivazione adeguata, logicamente coerente ed immune da vizi giuridici, hanno esaminato i risultati degli esami effettuati, pervenendo alla corretta affermazione, nell’ambito dell’indicata ampiezza dei mezzi di prova consentita dal richiamato art. 269 c.c., comma 2, e della sempre maggiore rilevanza attribuita alle indagini ematologiche e genetiche, in considerazione dell’alto grado di affidabilità di tale mezzo di prova, del rapporto di filiazione per cui è processo.
Con ciò l’assoluta irrilevanza della comparazione genetica con la sorella e il padre defunto.
La Corte territoriale, parimenti, ha motivato il diniego della consulenza tecnica per come sopra richiamato, valorizzando anche la circostanza che l’esame del DNA espletato dal noto genetista era stato concordato con i ricorrenti e che le parti si erano spontaneamente presentati a tale scopo.
1.4 Mette conto rilevare, inoltre, che la denuncia del preteso vizio di motivazione della sentenza impugnata deve ritenersi irritualmente dedotto.
Ed invero, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, il difetto del requisito della motivazione si configura, alternativamente, nel caso in cui la stessa manchi integralmente come parte del documento/sentenza (nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere, siccome risultante dallo svolgimento processuale, segua l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione), ovvero nei casi in cui la motivazione, pur formalmente comparendo come parte del documento, risulti articolata in termini talmente contraddittori o incongrui da non consentire in nessun modo di individuarla, ossia di riconoscerla alla stregua della corrispondente giustificazione del decisum.
Secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, infatti, la mancanza di motivazione, quale causa di nullità della sentenza, va apprezzata, tanto nei casi di sua radicale carenza, quanto nelle evenienze in cui la stessa si dipani in forme del tutto inidonee a rivelare la ratio decidendi posta a fondamento dell’atto, poichè intessuta di argomentazioni fra loro logicamente inconciliabili, perplesse od obiettivamente incomprensibili. In ogni caso, si richiede che tali vizi emergano dal testo del provvedimento, restando esclusa la rilevanza di un’eventuale verifica condotta sulla sufficienza della motivazione medesima rispetto ai contenuti delle risultanze probatorie (Cass., 18 settembre 2009, n. 20112) 1.5 Nel caso in esame, la motivazione dettata dalla Corte territoriale a fondamento della decisione impugnata è, non solo esistente, bensì anche articolata in modo tale da permettere di ricostruirne e comprenderne agevolmente il percorso logico (secondo quanto in precedenza diffusamente rilevato), integrando gli estremi di un discorso giustificativo logicamente lineare e comprensibile, elaborato nel pieno rispetto dei canoni di correttezza giuridica e di congruità logica, come tale del tutto idoneo a sottrarsi alle censure in questa sede illustrate dai ricorrenti.
1.6 Parimenti, quanto al denunciato preteso vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve evidenziarsi come lo stesso possa ritenersi denunciabile per cassazione, unicamente là dove attenga all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, ovvero che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia.
Sul punto, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., Sez. U, 7 aprile 2014, n. 8053).
Alla luce dei suesposti principi, la doglianza dei ricorrenti in ordine all’omesso esame della compatibilità genetica fra il defunto padre e il presunto figlio deve ritenersi inammissibile, in quanto diretta a censurare, non già l’omissione rilevante ai fini dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ma la valutazione operata nella sentenza impugnata con riguardo al materiale probatorio, che, come già detto, la Corte territoriale risulta aver elaborato in modo completo ed esauriente, sulla scorta di un discorso giustificativo dotato di adeguata coerenza logica e linearità argomentativa.
2. Con il secondo motivo T. e M.A. lamentano la violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, degli artt. 91, 92, 112, 336 e 343 c.p.c., avendo la Corte distrettuale riformato la statuizione sulle spese processuali del primo grado del giudizio in mancanza di uno specifico motivo di impugnazione.
2.1 Il motivo è fondato.
2.2 Osserva il Collegio come, al caso di specie, debba trovare applicazione il principio già affermato nella giurisprudenza di questa Corte in materia di liquidazione delle spese giudiziali, secondo cui il giudice di appello che rigetti il gravame nei suoi aspetti di merito, non può, in assenza di uno specifico motivo in ordine alla decisione sulle spese processuali, modificare il contenuto della statuizione di condanna al pagamento di tali spese assunta dal giudice di primo grado, compensandole, attesi i limiti dell’effetto devolutivo dell’appello, alla cui applicabilità non è di ostacolo il carattere accessorio del capo sulle spese, che resta pur sempre autonomo (Cass., 3 maggio 2010, n. 10622).
Il potere del giudice d’appello di procedere d’ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronunzia di merito adottata, sussiste in caso di riforma in tutto o in parte della sentenza impugnata, in quanto il corrispondente onere deve essere attribuito e ripartito in ragione dell’esito complessivo della lite, mentre in caso di conferma della sentenza impugnata, la decisione sulle spese può essere dal giudice del gravame modificata soltanto se il relativo capo della sentenza abbia costituito oggetto di specifico motivo d’impugnazione (Cass., 14 ottobre 2013, n. 23226). 2.3 Nel caso in esame, la Corte territoriale, in assenza di uno specifico motivo di impugnazione riguardante il capo della sentenza sulle spese processuali, erroneamente ha modificato la statuizione delle spese processuali del primo grado di giudizio.
Di conseguenza, in applicazione dell’art. 384 c.p.c., per palesi ragioni di economia e ragionevole durata del processo, la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto e, decidendo la causa nel merito, va esclusa la condanna al pagamento delle spese processuali relative al giudizio di primo grado. Le spese del giudizio di legittimità, in ragione della reciproca soccombenza delle parti, vanno interamente compensate.
4. Va disposta, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.
P.Q.M.
La Corte, dichiara inammissibile il primo motivo e accoglie il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo la causa nel merito, esclude la condanna dei M. al pagamento delle spese giudiziali relative al giudizio di primo grado, ripristinando l’originaria loro compensazione.
Compensa interamente fra le parti le spese del giudizio di legittimità. Dispone, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 1 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2020