La sperequazione è elemento diverso dal tenore di vita.

Corte d’Appello di Bologna, 15 settembre 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte di Appello di Bologna
Prima Sezione Civile
riunita in Camera di Consiglio nelle persone dei Magistrati:
dott. G. Benassi Presidente
dott. P. Montanari Consigliere rel.
dott. C. Fazzini Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Nel procedimento camerale in grado d’appello iscritto al n. 2405/2019 R. G.,
promosso da
G___ (avv.ti Sonia Chieffo, Valeria Mazzotta e Rosa Lucente)
Appellante
contro
P_____ (avv.ti Armando Cimolino e Elisa Arduini)
Appellata e appellante incidentale
Avente ad oggetto: appello contro la sentenza n. 1137/2019 del Tribunale di
Parma
CONCLUSIONI
Appellante: come da note depositate telematicamente l’11-7-2020
Appellata: come da note depositate telematicamente il 10-7-2020
PG: conferma del provvedimento impugnato
La Corte
udita la relazione della causa fatta dal Consigliere dott. P. Montanari;
udita la lettura delle conclusioni prese dal procuratore dell’appellante;
letti ed esaminati gli atti ed i documenti del processo, ha così deciso:
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
__ G__ proponeva ricorso al Tribunale di Parma per la cessazione degli effetti
civili del matrimonio contratto il 18-10-1980 con P__.
P__ si costituiva in giudizio chiedendo l’assegnazione della casa famigliare,
sita in Langhirano, ___, nonché la condanna di G__ __ al pagamento di un
contributo per il mantenimento dei figli L e F nonché di un assegno divorzile
pari ad almeno euro 9.000 mensili.
Con sentenza n. 1137/2019 il Tribunale di Parma, dando atto della già
intervenuta pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio: 1)
rigettava la domanda di assegnazione della casa famigliare avanzata da P__ ,
2) dichiarava cessata la materia del contendere quanto alla domanda di
corresponsione di un contributo al mantenimento dei figli F e L; 3) poneva a
carico di G__ __ l’obbligo di versare a P__ la somma mensile di euro
6.500,00, rivalutabile, a titolo di assegno divorzile.
Con ricorso depositato il 5-11-2019 G__ __ ha proposto appello avverso la
citata sentenza chiedendo che, in riforma della stessa, l’adita Corte rigetti la
domanda di P__ volta ad ottenere un assegno divorzile o, in via di gradato
subordine, fissi l’importo dell’assegno in euro 1.500,00 o in euro 4.000,00
mensili, con vittoria di spese per entrambi i gradi di giudizio.
P__ si è costituita nel giudizio d’appello chiedendo il rigetto dell’avversa
impugnazione e appellando a propria volta, incidentalmente, la medesima
sentenza onde ottenere un assegno divorzile pari ad almeno euro 9.000,00
mensili.
Il Procuratore Generale è intervenuto, concludendo per la conferma del
provvedimento impugnato.
All”udienza del 17-7-2020, tenuta con le modalità di cui all’art. 83, 3° comma,
lett. h) del DL n. 18/2020, la causa è stata trattenuta in decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Per decidere sulla domanda di assegno divorzile il primo Giudice, premesse le
funzioni cui tale assegno assolve in base all’orientamento da ultimo espresso
dalle SU della Corte di Cassazione nella sentenza n. 18287/2018, ha
considerato la seguente situazione economico-patrimoniale delle parti: 1)
P__ , oggi sessantatrenne, non dispone di autonome risorse economiche
derivanti dallo svolgimento di una stabile attività lavorativa avendo percepito
nel corso del giudizio, oltre al reddito derivante dall’assegno di mantenimento
corrispostole dal coniuge, un reddito annuo oscillante tra euro 572,00 ed euro
220,00; 2) P__ è usufruttuaria, per la quota di un mezzo, della ex casa
coniugale (una villa di circa 400 mq con annesso terreno); è comproprietaria,
per un sesto, di due fabbricati per civile abitazione, con autorimesse e terreno
circostante posti in località Coste di Urzano del Comune di Neviano degli
Arduini; è comproprietaria, per la quota di un terzo, di terreni di modesta
estensione siti in località Carpaneto del Comune d Lesignano de Bagni e di un
terreno boschivo sito in località Mortalino del Comune di Neviano degli Arduini;
3) nell’anno di instaurazione del giudizio (2012) P__ era titolare di depositi
bancari e investimenti finanziari per euro 112.000,00 e nell’anno 2016 tali
disponibilità della P__ erano pari ad euro 148.000,00; 4) G__ __ è
amministratore unico nonché socio della srl G__ da egli fondata nel 2005 ed ha
percepito un reddito annuo netto di euro 167.208,00 nell’anno d’imposta 2012,
di euro 168.549,00 nell’anno d’imposta 2013, di euro 170.302,00 nell’anno
d’imposta 2014, di euro 170.236,00 nell’anno d’imposta 2015 e di euro
169.430,00 nell’anno d’imposta 2016; 5) G__ __ era titolare di depositi bancari
e investimenti in strumenti finanziari per euro 153.758,00 nel 2012 e di euro
92.904,00 nell’anno 2016; 6) G__ __ è usufruttuario del 50% della ex casa
famigliare; è proprietario esclusivo di una villa di oltre 400 mq con annesso
terreno sita nel comune di Langhirano e per il cui acquisto ha contratto, nel
2011, un mutuo ipotecario di euro 400.000,00 non ancora estinto; è
comproprietario per la quota di un terzo di un fabbricato sito in Langhirano; 7)
G__ __ ha la piena proprietà del 55% nonché l’usufrutto sul restante 45%
della srl G__, società che detiene il 60% del capitale sociale della SpA G__,
società quest’ultima costituita nel 1960, che ha come oggetto sociale la
lavorazione, la stagionatura, la produzione e la commercializzazione di
prosciutti e salumi, il cui valore è stato stimato dal CTU in euro 21.130.000,00
e che nel quinquiennio 2012-2016 ha posto a riserva una parte degli utili
cosicchè gli utili non distribuiti di spettanza di G__ __ ammontano ad euro
3.577.605,00.
Il primo Giudice motiva poi, affermando che: a) nel 1990, dopo la nascita del
terzo figlio, P__ ha abbandonato la propria attività professionale di
commercialista per dedicarsi esclusivamente alla famiglia e tale decisione è
stata assunta di comune accordo con il marito, come dimostrato dalle
deposizioni di Tizia e di Caia, b) in seguito a tale accordo G__ __ ha potuto
svolgere con successo la propria attività di imprenditore mentre P__ ha
sacrificato le proprie aspirazioni professionali per dedicarsi alla crescita ed alla
educazione dei figli, c) la disparità reddituale delle parti, che vede la P__ in
posizione deteriore, ha una relazione causale specifica e diretta con il ruolo
endofamigliare trainante assunto da P__ nei trenta anni di vita matrimoniale
con la rinuncia al proprio lavoro e l’agevolazione dell’arricchimento del marito
con il consentirgli di dedicarsi alle proprie attività imprenditoriali.
Deduce l’appellante:
– che il Tribunale non ha correttamente applicato i principi dettati con la
sentenza n. 18287/2018 emessa dalle SU della Corte di Cassazione in materia
di assegno di divorzio;
– essere emerso che dal 2012 al 2016 P__ M. ha incrementato il proprio
patrimonio e che ciò è dipeso dalle elargizioni pattuite in sede di separazione;
– che il Tribunale non ha dato sufficiente rilievo al mutuo ipotecario di euro
400.000,00 contratto da __ G__ per l’acquisto di un’abitazione a fronte
dell’assegnazione alla moglie della casa coniugale;
– che P__ M. non ha adeguatamente provato un nesso di causa tra il proprio
stato di disoccupazione e le scelte effettuate dai coniugi in costanza di
matrimonio circa la conduzione della vita famigliare, in particolare con un ruolo
endofamigliare trainante assunto da P__ M. durante la vita matrimoniale;
– che le testimoni indicate in sentenza non sono attendibili in quanto Tizia ha
dichiarato di frequentare la famiglia G__ dal 2002-2003, né la Tizia né la Caia
hanno avuto rapporti con __ G__ e la dichiarazione di Caia è anche valutativa;
che i testi Sempronia e Mevio hanno, per contro, confermato la tesi del G__
secondo cui P__ M. ha lasciato il lavoro perché l’azienda andava male;
– che alla pagina 12 della propria costituzione M. P__ ha ammesso di non aver
ritenuto di reperire una nuova occupazione lavorativa in quanto la condizione
sociale raggiunta non le consentiva di svolgere attività lavorative considerate
inferiori a quella originariamente svolta, con ciò rivelando di non essersi
adoperata a cercare un’altra occupazione;
– che dalle prove orali è anche emerso che M. P__ godeva di una serie di aiuti
in casa e si dedicava a svaghi personali cosicchè non v’è adeguata prova né
che ella abbia rinunciato alle proprie aspirazioni professionali in accordo col
marito, né che abbia impiegato il tempo libero poi a disposizione per dedicarsi
alla crescita e all’educazione dei tre figli;
– essere stato provato in causa che l’acquisizione del pacchetto di maggioranza
della SpA G__ è avvenuta utilizzando risorse provenienti per la stragrande
parte dalla famiglia d’origine di __ G__, come emerso dalle testimonianze di
Sempronia e di Mevio, e ricorrendo all’indebitamento;
– che l’indebitamento straordinario contratto per l’acquisto delle partecipazioni
degli altri soci della G__ SpA emerge dai bilanci di tale società del 2005 e del
2006;
– che la ricchezza di __ G__ è dovuta esclusivamente agli sforzi personali ed
all’afflusso di capitali di provenienza paterna a seguito del decesso
dell’ascendente;
– che dopo la separazione P__ M. non ha mai chiesto un aumento dell’assegno
riconosciutole e che, tenuto conto della differente funzione dell’assegno
divorzile rispetto al contributo stabilito in sede di separazione, il riconoscimento
di un assegno divorzile superiore all’assegno di mantenimento è evidentemente
fondato sull’errato presupposto del tenore di vita matrimoniale;
– che manifestamente ingiusta è anche la regolazione delle spese di lite in
quanto è M. P__ ad essere soccombente.
La domanda avanzata da P__ nel giudizio di divorzio perché le fosse
assegnata la casa famigliare è stata rigettata. Ciò rende irrilevante il motivo di
appello secondo cui il Tribunale non avrebbe dato sufficiente rilievo al mutuo
ipotecario di euro 400.000,00 contratto da __ G__ per l’acquisto di
un’abitazione, a fronte dell’assegnazione alla moglie della casa famigliare.
Peraltro l’assegnazione della casa famigliare avvenuta in regime di separazione
di per sè non giustifica l’acquisto da parte di G__ __ di una lussuosa villa di
oltre 400 mq con annesso terreno del valore di euro 500.000,00, cosicchè tale
acquisto ed il mutuo per euro 400.000,00 ad esso collegato, sono riconducibili
a libere scelte di G__ __ e non già all’assegnazione della casa famigliare
avvenuta in sede di separazione.
Né maggior rilievo ha l’argomento secondo cui per effetto delle “elargizioni”
fattele dal marito in regime di separazione P__ avrebbe aumentato le proprie
risorse economiche.
Trattasi, infatti, di un argomento che, da un lato non ha alcuna attinenza con le
circostanze enucleate dalla giurisprudenza come rilevanti agli effetti della
decisione circa la spettanza e l’entità dell’assegno divorzile; dall’altro, dà,
semmai, conferma a quanto sottolineato dal primo Giudice e cioè che P__ non
ha significativi redditi propri e vive sostanzialmente del contributo assegnatole
in sede di separazione.
Il divario reddituale e patrimoniale delle parti è molto rilevante in ragione
soprattutto dei proventi percepiti da G__ __ quale amministratore unico e socio
della srl G__ nonchè della partecipazione di G__ all’intero capitale sociale della
srl G__ (come proprietario per il 55% e come usufruttuario per il restante
45%), società che detiene il 60% del capitale sociale della SpA G__, società
quest’ultima costituita nel 1960 avente come oggetto sociale la produzione e
commercializzazione di prosciutti e salumi ed il cui complessivo valore è stato
stimato dal CTU in euro 21.130.000 cosicchè la quota di partecipazione in tale
società da parte della srl G__ è di valore pari ad euro 12.780.000.
In base ai calcoli effettuati dal CTU, gli utili non distribuiti nel quinquiennio
2012-2016 dalla SpA G__ e che spettano a __ G__ in ragione della
partecipazione della srl G__ nella SpA G__ ammontano ad euro 3.577.605.
Contesta il reclamante esservi prova che il divario reddituale e patrimoniale
valutato dal CTU sia in nesso con il ruolo endofamigliare assunto da P__
durante il matrimonio e deduce che il riconoscimento di un assegno divorzile di
ammontare superiore al contributo al mantenimento stabilito in regime di
separazione costituisce un’applicazione surrettizia del criterio del tenore di vita
matrimoniale.
Entrambe le doglianze sono infondate.
Nell’interrogatorio reso davanti al Tribunale di Ravenna G__ __ ha affermato
che l’aiuto in casa era dato da due signore che venivano solo al mattino e si
alternavano e non venivano in luglio e in agosto; che per il giardino di 6/700
metri quadri veniva una persona due volte l’anno per le potature pesanti; che
la moglie nel 2006 aveva fatto un abbonamento con palco “che è diverso
dall’avere un palco” e che la moglie andava dalla parrucchiera ogni dieciquindici
giorni.
Sempronia__ riferendosi alla P__ ha, poi, affermato: “… si è dedicata alla cura
dei figli, alla pratica yoga, ma mio fratello non aveva nulla in contrario a che la
signora P__ svolgesse attività lavorativa, ma di fatto poi si è dedicata alla
famiglia” (cfr. verbale 22-3-2017).
Ancora, a pagina 7 della prima memoria depositata da G__ __ ex art. 183 cpc
si legge: “Quello a cui si dà evidenza, relativamente all’attuale tenore di vita
della signora P__, che in costanza di matrimonio si occupava della casa, del
coniuge e dei figli, è che essere rimasta padrona esclusiva e libera del proprio
tempo, le consente di dedicarsi pienamente sia ai propri molteplici interessi …
sia ai propri consolidati affetti e sentimenti”.
L’affermazione del reclamante secondo cui non vi sarebbe adeguata prova né
che P__ abbia rinunciato alle proprie aspirazioni professionali in accordo col
marito, né che il tempo libero poi a disposizione sia stato impiegato per
dedicarsi alla crescita e all’educazione dei tre figli sono in stridente contrasto
con le ammissioni e le prove sopra riportate.
L’impegno da profondere per la crescita, educazione e cura di tre figli e per la
conduzione di una villa di 400 mq con annesso terreno è fatto notorio e va
certamente oltre l’aiuto che può venire dal personale di cui ha narrato __ G__
onde, anche a prescindere dalle testimonianze indicate in sentenza, la
valutazione del primo Giudice secondo cui le scelte lavorative di P__ sono
state dettate dalle necessità correlate al ruolo endofamigliare di cura e crescita
di tre figli deve ritenersi corretta in base alle ammissioni effettuate da G__ __
negli atti del processo, alla testimonianza di Sempronia e perchè le scelte di
vita effettuate da P__ M. nei fatti sono state condivise da G__ __ il quale,
secondo il notorio, se ne è avvantaggiato in termini di maggior tempo e libertà
per dedicarsi alla propria attività imprenditoriale.
Quanto riferito da Sempronia sul non avere il G__ “nulla in contrario a che la
signora P__ svolgesse attività lavorativa” non significa che laddove P__ M.
avesse deciso di dedicarsi alla propria attività professionale G__ __ sarebbe
stato disponibile a svolgere quelle mansioni famigliari cui la moglie non si fosse
potuta dedicare per l’impegno da profondere in un’attività lavorativa.
Neppure è vero quanto afferma il reclamante sull’avere P__ M. ammesso di
non aver più cercato una nuova occupazione lavorativa in quanto la condizione
sociale raggiunta non le consentiva di svolgere attività lavorative considerate
inferiori a quella originariamente svolta, con ciò rivelando di non essersi
adoperata a cercare un’altra occupazione.
Le affermazioni contenute alle pagine 11 e 12 della memoria con cui P__ M. si
è costituita nel primo giudizio sono di tutt’altro tenore leggendosi: “… la Sig.ra
P__ ha sacrificato la propria carriera in funzione della famiglia e al fine di
consentire al marito di sviluppare la propria azienda, scevro di impegni
familiari” (pag. 11); a pagina 12 della stessa memoria si legge, poi: “Infatti, a
oltre 55 anni, nella difficile situazione economica attuale, dopo essere stata per
oltre vent’anni al di fuori del mondo del lavoro, senza le possibilità economiche
di aprire uno studio, senza più alcuna clientela, senza alcun aggiornamento
professionale e con una normativa fiscale che si modifica di giorno in giorno …,
appare impossibile per la convenuta riattivarsi per ricominciare a svolgere la
propria attività di commercialista. Si tenga poi presente che la condizione
sociale raggiunta non le consentirebbe di svolgere attività lavorative
considerate a torto o a ragione inferiori a quelle originariamente svolte”.
Il senso di tali affermazioni è stato stravolto dal reclamante.
In ogni caso all’epoca della separazione (2009) P__ M. aveva 52 anni, cioè
un’età nella quale un nuovo inserimento nel mondo del lavoro è
oggettivamente difficile anche a prescindere da remore legate “alla condizione
sociale raggiunta”.
Quanto ai capitali utilizzati per l’acquisizione di quote della SpA G__ avvenuta
nel 2005, in sede di interrogatorio G__ __ ha affermato che nel 2005 sono stati
utilizzati due milioni di euro in parte di sua proprietà e in parte della sorella
Sempronia per acquisire le quote dei vecchi soci della SpA G__; che la moglie
non era d’accordo sull’utilizzo nell’investimento societario dei loro risparmi e
dell’eredità del padre del G__ tanto che P__ M. si era preoccupata di trasferire
cifre importanti dai conti comuni sui propri conti personali.
G__ __ ha, quindi, ammesso che per l’acquisizione societaria egli ha utilizzato
anche risparmi accumulati durante la vita matrimoniale e, quindi, riconducibili,
per quanto sopra detto, anche al contributo dato da P__ al menage
famigliare.
Sul punto l’impugnata sentenza è solo apparentemente contraddittoria.
Il primo Giudice ha, da un lato, escluso che P__ abbia contribuito alla
formazione del patrimonio del marito e abbia fattivamente concorso alla
crescita della sua attività imprenditoriale, dall’altro, affermato che la disparità
reddituale e patrimoniale esistente tra le parti, che vede la moglie in posizione
deteriore, ha una relazione causale specifica e diretta con un ruolo
endofamiliare trainante assunto dalla P__ nei trenta anni di vita matrimoniale e
con la rinuncia della P__ al proprio lavoro e che la P__ ha così contribuito
fattivamente all’arricchimento del marito, consentendo a quest’ultimo di
dedicarsi con successo alle proprie attività imprenditoriali.
La contraddizione su cui argomenta il reclamante è solo apparente posto che le
affermazioni contenute in sentenza sono agevolmente interpretabili nel senso
di avere il primo Giudice escluso che P__ abbia dato un contributo diretto
all’attività imprenditoriale del marito, cioè con capitali esclusivamente propri o
con un ruolo lavorativo inserito nell’organizzazione aziendale del marito, ma ha
comunque riconosciuto un contributo indiretto dato da P__ M. al successo
imprenditoriale e, quindi, all’arricchimento di G__ __ per il fatto di essersi
dedicata completamente alla cura della casa e dei figli così agevolando lo
svolgimento da parte del marito della propria attività imprenditoriale.
In ogni caso la mancanza di un contributo diretto, così come il fatto che
l’attività imprenditoriale di G__ __ è stata svolta contando soprattutto su un
rilevante patrimonio di provenienza paterna sono circostanze che non
permettono di ricondurre al contributo di P__ la complessiva ricchezza di G__
__, come stimata dal CTU, cosicchè corretto è l’importo stabilito nell’impugnata
sentenza ed infondato l’appello incidentale proposto da P__ M. .
L’acquisizione delle quote della SpA G__ è avvenuta nel 2005.
Il 22-7-2009 è stata emanata la sentenza di separazione che, recependo le
conclusioni congiunte dei separandi, assegnava la casa coniugale a P__ fino
all’indipendenza economica dei figli, stabiliva un assegno di mantenimento in
favore di P__ M. di euro 4.000 mensili, rivalutabili, disponeva un contributo
diretto di G__ __ al mantenimento dei figli F e L, maggiorenni ma non
autosufficienti, pari ad euro 1.000,00 per ciascuno, obbligava P__ M. a
trasferire in favore del marito la somma di euro 120.000,00 mentre G__ __ si
impegnava a versare a P__ M. la somma di euro 100.000 con rate annuali di
euro 10.000,00 cosicchè i coniugi si davano reciprocamente atto di avere così
regolamentato ogni rapporto economico pendente e di non avere più nulla a
pretendere l’uno dall’altro.
Tali reciproche concessioni portano a ritenere regolata tra le stesse parti, in via
transattiva, l’eventuale spostamento di somme effettuato da P__ M. da conti
comuni a conti personali di cui ha narrato G__ __.
Quanto, poi, al fatto che l’importo dell’assegno divorzile è superiore a quello
del contributo al mantenimento stabilito in sede di separazione questa Corte,
pur conoscendo l’orientamento in proposito espresso dalla Corte di Cassazione
nella sentenza n. 5605/2020, ritiene che l’assegno divorzile stabilito
nell’impugnata sentenza sia, nella fattispecie, sostanzialmente in linea con tale
orientamento se si considera, da un lato, il complesso dei benefici accordati a
P__ M. in sede di separazione (oltre al contributo di euro 4.000,00 mensili,
anche l’assegnazione della casa famigliare di cui le parti sono usufruttuarie al
50% ciascuna, quota di usufrutto il cui valore è stato stimato dal CTU in euro
108.000,00, nonchè la somma di euro 100.000,00 in rate annuali di euro
10.000,00); dall’altro, il lungo tempo trascorso dalla separazione ad oggi (11
anni).
Aggiungasi che solo nel giudizio di divorzio è stata compiuta un’approfondita
analisi della situazione economico-patrimoniale delle parti proprio in ragione
dei differenti presupposti dell’assegno divorzile rispetto al contributo al
mantenimento dovuto in regime di separazione e per la necessità, quindi, di
stabilire la reale entità dell’eventuale sperequazione reddituale e patrimoniale
esistente tra i coniugi.
Ove accada, come nella fattispecie, che l’assegno divorzile deve assolvere
anche a quella funzione compensativa-perequativa su cui ampiamente
argomenta il primo Giudice perché sono provati la sperequazione reddituale e
patrimoniale, da un lato, e dall’altro il nesso tra tale sperequazione ed i ruoli
endofamigliari svolti dalle parti in costanza di matrimonio, l’ammontare
dell’assegno divorzile deve essere parametrato in primis all’entità di tale
sperequazione che è dato diverso, come sottolinea la stessa Corte di
legittimità, dal tenore di vita avuto dai coniugi in costanza di matrimonio.
Infondata è, infine, la doglianza afferente la regolazione delle spese di lite.
Considerando che G__ __ chiedeva, in via principale, il rigetto della domanda
avente ad oggetto l’assegno divorzile ed in subordine la fissazione di importi
notevolmente inferiori a quanto stabilito, che l’assegno divorzile è stato
l’oggetto principale del contrasto tra le parti e della complessa istruttoria
svolta, se ne ricava un giudizio di prevalente soccombenza di G__ __ che rende
corretta la regolazione delle spese di lite stabilita nel provvedimento reclamato.
Quanto al presente giudizio la reciproca soccombenza costituisce giusto motivo
per integralmente compensare tra le parti le relative spese.
P.Q.M.
LA CORTE
1) rigetta l’appello principale e l’appello incidentale dichiarando integralmente
compensate tra le parti le spese relative al presente giudizio.
Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13 comma 1-quater
DPR 115/2002 (T.U. Spese di Giustizia).

La deroga della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale non può essere estesa alle cause di separazione giudiziale dei coniugi

Cass. civ. Sez. I, Ord., 7 settembre 2020, n. 18612 – Pres. Giancola, Rel. Cons. Parise

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1744/2016 proposto da:
C.G.B., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dagli avvocati Ganci Francesco, Strippoli Elisa, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
L.M.M.A., elettivamente domiciliata in Roma, Via Terenzio n. 21, presso lo studio dell’avvocato Amato Fausto Maria, rappresentata e difesa dall’avvocato Amato Claudia, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso l’ordinanza della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 30/07/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/07/2020 dal cons. Dott. PARISE CLOTILDE.
Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Palermo, con decreto del 18.7.2011, dichiarava improcedibile il reclamo proposto da L.M.M.A. contro il provvedimento del Tribunale che, in sede di revisione delle condizioni della sua separazione dal coniuge C.G.B., aveva ridotto la misura dell’assegno di mantenimento che questi era tenuto a versarle mensilmente. La Corte territoriale rilevava che la notificazione del ricorso introduttivo del procedimento era stata eseguita dalla reclamante oltre il termine assegnatole dal Presidente nel provvedimento con il quale era stata fissata l’udienza di comparizione delle parti e che la reclamante doveva ritenersi decaduta dalla facoltà di ottenere una proroga di tale termine, che avrebbe dovuto essere richiesta prima della sua scadenza.
2. Il ricorso straordinario per cassazione proposto da L.M.M.A. è stato accolto da questa Corte con ordinanza n. 16677 del 22/07/2014, con la quale è stato affermato che il reclamo proposto alla Corte d’appello avverso il provvedimento camerale adottato dal Tribunale (nella specie in sede di revisione delle condizioni di separazione dei coniugi) non è improcedibile qualora il convenuto si sia regolarmente costituito in giudizio, come era avvenuto nel caso scrutinato, restando così sanato, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., il vizio derivante dal mancato rispetto del termine ordinatorio assegnato al reclamante per la notificazione del ricorso e non prorogato con istanza proposta prima della sua scadenza.
3. Con ordinanza depositata il 30-5-2015 la Corte d’appello di Palermo, pronunciando quale giudice di rinvio, ha accolto il reclamo proposto da L.M.M.A. e, in riforma del decreto del Tribunale di Palermo impugnato, ha rigettato la domanda di modifica delle condizioni della separazione proposta da C.G.B..
4. Avverso il suddetto provvedimento C.G.B. propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, nei confronti di L.M.M.A., che resiste con controricorso.
5. Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis 1 c.p.c.. La controricorrente ha depositato memoria illustrativa.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la nullità del procedimento relativo al giudizio di rinvio per violazione dell’art. 392 c.p.c. e dell’art. 92 Legge ordinamento giudiziario. Assume la tardività della riassunzione del giudizio di rinvio effettuata dalla L.M., rilevando che la sentenza di questa Corte era stata depositata il 22 luglio 2014 e il ricorso in riassunzione era stato depositato il 3-12-2014, ossia dopo che il termine di tre mesi per la riassunzione era già scaduto (ad avviso del ricorrente in data 22/10/2014). Sostiene che, nel caso di specie, non debba trovare applicazione la sospensione dei termini ex art. 92 legge ordinamento giudiziario “dovendo assimilarsi la materia in questione avente ad oggetto la misura dell’assegno di mantenimento da versare al coniuge a quella degli alimenti”. In subordine rileva che la riassunzione avrebbe dovuto farsi con citazione e, anche a volere ritenere applicabile la sospensione feriale, la notifica della riassunzione era avvenuta in data 18-12-2014, oltre il termine di tre mesi, pur aumentato di quarantacinque giorni. Ad avviso del ricorrente, pertanto, il processo avrebbe dovuto dichiararsi estinto, con il conseguente passaggio in giudicato del decreto del Tribunale di Palermo depositato il 24-12-2010.
2. Con il secondo motivo denuncia la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in forza del combinato disposto di cui all’art. 156 c.p.c., comma 7, art. 2909 c.c. e art. 710 c.p.c., chiedendo l’affermazione del seguente principio di diritto: “Viola il combinato disposto di cui all’art. 156 c.c., comma 7 – art. 2909 c.c. e art. 710 c.p.c. il giudice quando, ancorchè risulta provata una contrazione del reddito e/o delle condizioni complessive economico-patrimoniali di uno dei coniugi, rigetta l’istanza di riduzione dell’assegno per il mantenimento dell’altro coniuge, basando a fondamento della propria decisione circostanze già note, conoscibili dedotte o comunque deducibili durante il precedente giudizio di separazione dei coniugi, ormai definito con sentenza passata in autorità di cosa giudicata”. Deduce che la Corte territoriale ha posto a fondamento della decisione impugnata esclusivamente circostanze già dedotte nel giudizio di separazione personale definito con la sentenza del Tribunale di Palermo, passata in giudicato, n. (OMISSIS), ossia il fatto che gli standard di vita in (OMISSIS), ove vive il ricorrente, sono notoriamente inferiori rispetto a quelli dell’Italia.
3. Con il terzo motivo lamenta la “violazione e/o falsa applicazione di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione alla motivazione dell’ordinanza che risulta essere inesistente e/o meramente apparente”. Ad avviso del ricorrente la motivazione dell’ordinanza impugnata è fondata su una premessa giuridicamente inesistente, perchè riguardante fatti e circostanze coperti da giudicato, che non dovevano essere nuovamente considerati dalla Corte di Appello.
4. Con il quarto motivo denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. relativamente alla statuizione di condanna alle spese di lite di cui all’ordinanza impugnata, da riformarsi in conseguenza dell’accoglimento dei primi tre motivi di ricorso.
5. Il primo motivo è infondato.
5.1. Secondo il costante orientamento di questa Corte, al quale il Collegio intende dare continuità, la deroga della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, di cui alla L. n. 742 del 1969, art. 1 prevista per le cause inerenti ad obblighi alimentari, non può essere estesa alle cause di separazione giudiziale dei coniugi, ancorchè pendenti in fase d’impugnazione con riguardo anche alle statuizioni adottate in materia di alimenti (da ultimo Cass. n. 1874/2019). Inoltre, in tema di separazione e divorzio, in quanto l’appello deve essere proposto con ricorso, anche la riassunzione in sede di rinvio va fatta nella medesima forma e, come il tempestivo esperimento del gravame proposto invece con citazione resta pur sempre legato al deposito del relativo atto in cancelleria nei termini di legge, così occorre parimenti ritenere riguardo al giudizio di riassunzione in sede di rinvio. Ai sensi della L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 23 infatti, l’appello avverso le sentenze di separazione deve essere trattato con il rito camerale, il quale si applica all’intero procedimento, dall’atto introduttivo – ricorso, anzichè citazione – alla decisione in camera di consiglio (Cass. n. 19002/2014).
5.2. Nel caso in esame, il termine di deposito per la riassunzione del giudizio di rinvio risulta, pertanto, rispettato, in quanto, dovendo aggiungersi il periodo di sospensione feriale, in allora di quarantasei giorni, il suddetto termine andava a scadere il 912-2014 (il 7-12-2014 era domenica e l’8-12-2014 era giorno festivo) e il ricorso in riassunzione è stato depositato dalla L.M. in data 3-12-2014.
6. I motivi secondo e terzo, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili.
6.1. Le censure non si confrontano con la chiara e lineare motivazione espressa dalla Corte territoriale, secondo cui non è stata ritenuta giustificata la richiesta di riduzione dell’assegno di mantenimento proposta dall’ex marito solo perchè egli è andato, nelle more, in trattamento di quiescenza, non risultando dimostrato un peggioramento complessivo delle sue condizioni economiche.
La Corte territoriale ha, anche, nuovamente valutato il fatto notorio, ossia lo standard di vita notoriamente basso in (OMISSIS) ove il ricorrente viveva e vive tuttora, alla luce del mutamento peggiorativo allegato dal medesimo, attinente al suo status di pensionato e, nel contesto di detta nuova valutazione, effettuata all’attualità, considerando i fatti sopravvenuti di rilevanza, è giunta, motivatamente, alla conclusione di cui sopra, esaminando più circostanze.
La Corte d’appello, in particolare, ha considerato non solo il costo della vita in (OMISSIS), ma anche il dato complessivo delle condizioni economiche del ricorrente accertate all’epoca della decisione, desunte sia dal tenore di vita mantenuto dall’ex marito dopo il pensionamento, non ridimensionato rispetto al passato, sia dalla sua pregressa percezione di reddito di lavoro elevato anche secondo gli standard italiani, neppure decurtato da spese di locazione perchè fruiva di alloggio aziendale, sì da poterne ulteriormente desumere che egli fosse stato “nelle condizioni di accumulare quantità di danaro significative” (pag. n. 4 ordinanza impugnata).
6.2. A fronte di detto argomentato percorso motivazionale, non ha pregio, risultando non attinente al decisum, la doglianza secondo cui la Corte d’appello avrebbe basato il proprio convincimento sui medesimi fatti valutati nella sentenza di separazione del Tribunale di Palermo emessa nel (OMISSIS) e passata in giudicato, ossia non su circostanze nuove e sopravvenute, ma sul fatto notorio che gli standard di vita in (OMISSIS) sono inferiori rispetto all’Italia.
Per quanto precisato, invece, la Corte territoriale ha proceduto ad una valutazione di tutti i fatti sopravvenuti ed è pervenuta, effettuando un accertamento di merito insindacabile in sede di legittimità, ove adeguatamente motivato, come certamente è nel caso di specie, alla conclusione che non vi sia stato un peggioramento delle condizioni economiche complessive del ricorrente, prendendo in considerazione, unitamente alle altre circostanze, anche il dato notorio relativo allo standard di vita in (OMISSIS), pure nuovamente valutato con riferimento all’epoca della decisione.
Il richiamo al “giudicato” nei termini prospettati dal ricorrente è, pertanto, inconferente, considerato, peraltro, che l’illustrazione della censura, anche mediante richiamo alla giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 14093/2009), pare riferirsi alla valutazione di circostanze non dedotte benchè preesistenti, il che non è nel caso di specie.
Ugualmente inammissibile è la denuncia di motivazione inesistente o apparente, tra l’altro espressa sub specie del vizio di violazione di legge e non di quello motivazionale, richiamate le considerazioni infra svolte circa l’adeguatezza della motivazione dell’ordinanza impugnata, secondo il parametro del “minimo costituzionale” (Cass. S.U. n. 8053/2014), al di sopra del quale all’evidenza si pone il percorso argomentativo di cui si è detto.
7. Il quarto motivo, attinente alle spese di lite di tutti i gradi per l’ipotesi di accoglimento degli altri motivi, resta assorbito.
8. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
9. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto (Cass. S.U. n. 5314/2020).
10. Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 5.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.
Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.

Il part time non consente di affermare la raggiunta autonomia del figlio maggiorenne.

Corte di Cassazione, 14 settembre 2020 n. 19077
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7126-2019 proposto da:
E.N., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR
presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e
difeso dall’avvocato ENRICO PERRELLA;
– ricorrente –
contro
V.L., elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR
presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e
difeso dall’avvocato GIUSEPPE FOLLARO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5095/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,
depositata il 20/07/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non
partecipata del 15/07/2020 dal Consigliere Relatore Dott. PARISE
CLOTILDE.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con sentenza n. 1035/2015 il Tribunale di Cassino rigettava la domanda di
riconoscimento dell’assegno divorzile proposta da V.L. nei confronti di E.N. e
riduceva a Euro180 mensili il contributo di mantenimento dovuto da
quest’ultimo a titolo di concorso al mantenimento della figlia A., nata nel 1993.
2. Con sentenza n. 5095/2018 depositata il 20-7-2018 la Corte d’appello di
Roma, in parziale riforma della citata sentenza del Tribunale di Cassino, ha
rideterminato il contributo paterno per la figlia in Euro 300, respingendo
l’appello incidentale proposto dall’ E. e compensando le spese di lite.
3. Avverso la citata sentenza E.N. propone ricorso affidato a tre motivi, a cui
resiste con controricorso V.L.. Le parti hanno depositato memorie illustrative.
4. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la nullità della sentenza, in
relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 345 c.p.c.,
assumendo la novità della domanda proposta in appello dalla V. relativa al
contributo di mantenimento della figlia, di cui aveva chiesto l’aumento (Euro
400 in luogo di Euro 180 stabiliti nella sentenza di primo grado), poichè non
era stato allegato alcun riferimento a fatti sopravvenuti, o alla svalutazione
monetaria, oppure alle accresciute esigenze della figlia.
4.1. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360
c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione dell’art. 147 c.p.c.,
rilevando che dall’istruttoria espletata in primo grado e dalle stesse
dichiarazioni della figlia A. era emerso che la stessa si era avviata al lavoro,
seppure con contratti a termine e a tempo parziale, ed aveva pertanto
raggiunto l’autosufficienza economica. Ad avviso del ricorrente la Corte
territoriale non ha fatto applicazione dei principi affermati da questa Corte in
tema di obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni.
4.2. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 5, omesso esame di fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di
discussione tra le parti, omessa ammissione delle prove richieste e
conseguente omissione di motivazione, nonchè omessa pronuncia sulle
domande avanzate in relazione alla posizione del figlio M.. Si duole della
mancata ammissione della prova per testi, sui capitoli che riporta nel ricorso, e
delle richieste istruttorie finalizzate a dimostrare la reale condizione economica
della V. e la convivenza della stessa con altro uomo, nonchè della mancata
audizione del figlio M. su detta ultima circostanza. Lamenta altresì che la Corte
d’appello non abbia ordinato l’esibizione di tutte le buste paga e delle
dichiarazioni dei redditi della figlia A., ai fini dell’accertamento dell’entità del
reddito lavorativo effettivo della stessa, non potendo reputarsi sufficiente
quanto risultante dalle quattro buste paga depositate, relative ai mesi di
dicembre 2017 e di gennaio, febbraio ed aprile 2018.
5. Il primo motivo è infondato.
5.1. Secondo il costante orientamento di questa Corte (tra le tante Cass. n.
25055/2017 e Cass. n. 5883/2018), peraltro richiamato anche in ricorso (pag.
n. 15), in tema di separazione personale tra coniugi e di divorzio il criterio
fondamentale cui devono ispirarsi i provvedimenti relativi ai figli è
rappresentato dall’esclusivo interesse morale e materiale dei figli stessi
(previsto in passato dall’art. 155 c.c. e ora dall’art. 337 ter c.c.), con la
conseguenza che il giudice non è vincolato alle richieste avanzate ed agli
accordi intercorsi tra le parti e può quindi pronunciarsi anche ultra petitum. Il
suddetto fondamentale criterio ispiratore trova applicazione anche nell’ipotesi
in cui i figli siano maggiorenni (così nella fattispecie scrutinata da Cass. n.
5883/2018), non essendovi ragione per differenziare la posizione di questi
ultimi da quella dei figli minori, ricorrendo in entrambe le ipotesi la stessa
esigenza di tutela, connotata, per i figli maggiorenni, dal concorrente ed
accertando requisito della mancanza di autosufficienza economica, che è,
invece, in re ipsa se il figlio è minore di età. Alla stregua di detti principi, non si
pone questione di ius novorum, neppure con riguardo al giudizio di appello e,
peraltro, nel caso di specie, la Corte territoriale ha valorizzato circostanze
riconducibili temporalmente a periodo successivo all’anno 2015 (pag. n. 3
sentenza impugnata), ossia a periodo successivo a quello in cui è stata emessa
la sentenza del Tribunale, e, quindi, fatti sopravvenuti.
6. Il secondo motivo è inammissibile.
6.1. Questa Corte ha ripetutamente chiarito che il vizio di violazione di legge
consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del
provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di
legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della
stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie
concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione
della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la
cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di
motivazione: il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso
proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa,
ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o
contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che
solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata
valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054/2017).
6.2. Nel caso di specie, il ricorrente, nel dolersi della violazione dell’art. 147
c.c., in riferimento all’art. 360, comma 1 n. 3, c.p.c., censura, in realtà, la
ricostruzione fattuale. Infatti la violazione di legge denunciata viene
prospettata dal ricorrente sulla base dell’assunto, imprescindibile, che sia
provata l’autosufficienza economica della figlia maggiorenne ed è, dunque,
mediata dalla valutazione delle risultanze processuali, presupponendo una
diversa ricostruzione, in fatto, della fattispecie concreta.
La Corte territoriale, con adeguata motivazione (Cass. S.U. n. 8053/2014), ha
esaminato i fatti allegati dal padre a sostegno della richiesta di revoca del
contributo di mantenimento in favore della figlia ed ha ritenuto, in base alle
risultanze istruttorie (buste paga, residenza anagrafica della figlia presso la
casa materna, natura e compenso del rapporto lavorativo documentato e
cessazione di quello precedente svolto in Svizzera), che la ragazza non avesse
raggiunto in pieno l’autonomia economica, rimarcando il suo diritto a
mantenere un tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della
famiglia e, per quanto possibile, analogo a quello goduto in precedenza.
Il convincimento dei Giudici di merito è stato, quindi, fondato su un
accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, al di fuori delle
ipotesi, non denunciate con il secondo motivo, di cui all’art. 360 c.p.c., comma
1, n. 5, e la relativa indagine è stata condotta secondo i criteri e parametri
costantemente indicati da questa Corte (tra le tante Cass. n. 17089/2013),
confrontando le situazioni patrimoniali e reddituali di ciascuno dei genitori.
6. Anche il terzo motivo è inammissibile.
6.1. Le doglianze, formulate sub specie del vizio di cui all’art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 5, si risolvono in una critica alla valutazione delle risultanze
probatorie effettuata dalla Corte territoriale, censurando il ricorrente,
inammissibilmente, la scelta delle risultanze idonee a sorreggere la
motivazione, che è invece apprezzamento di fatto devoluto al Giudice di merito
e non sindacabile in sede di legittimità, ove, come nella specie, siano
adeguatamente indicate le ragioni del convincimento espresso, senza che vi sia
necessità di discutere ogni singolo elemento e di confutare tutte le deduzioni
difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze
che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili
con la decisione adottata (Cass. n. 16056/2016).
6.2. Neppure ricorre il vizio di omesso esame di fatti decisivi, atteso che,
secondo il costante indirizzo di questa Corte, al quale il Collegio intende dare
continuità, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio
di omesso esame di un fatto decisivo qualora i fatti storici, rilevanti in causa
(nella specie la condizione lavorativa della figlia A. e la situazione economica
della madre), siano stati comunque presi in considerazione dal giudice,
ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr.
Cass. n. 27415 del 2018). Peraltro il ricorrente si duole della mancata
ammissione dei mezzi istruttori anche in relazione al contributo di
mantenimento del figlio M. (pag. n. 21 ricorso), che non è stato riconosciuto
dai giudici di merito.
7. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese del presente giudizio,
liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza, con distrazione in
favore del difensore della controricorrente, dichiaratosi antistatatario.
6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto
della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del
ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-
bis, ove dovuto (Cass. S.U. n. 5314/2020).
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le
generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30
giugno 2003 n. 196, art. 52.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del
giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 2.900, di cui Euro 100 per
esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge, con distrazione in
favore del difensore della controricorrente, dichiaratosi antistatario.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del
ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-
bis, ove dovuto.
Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le
generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma delD.Lgs. 30
giugno 2003 n. 196, art. 52.
Così deciso in Roma, il 15 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2020

Fama e tractatus prevalgono sul diritto all’anonimato della madre

Cass. civ. Sez. I, Sent., 22 settembre 2020, n. 19824
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 28577/2017 proposto da:
V.A.M.G., elettivamente domiciliata in Roma, Viale Angelico 38, presso lo studio dell’avvocato Sinopoli Vincenzo, rappresentata e difesa dagli avvocati Lovelli Alfredo, Lovelli Angelo Raffaele, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
M.A., elettivamente domiciliato in Roma, Via Taranto 95, presso lo studio dell’avvocato Compagno Daniela, rappresentato e difeso dagli avvocati Motolese Giovanni, Quaranta Ciro Antonio, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 280/2017 della CORTE D’APPELLO SEZ. DIST. di TARANTO, depositata il 28/07/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/01/2020 da Dott. FIDANZIA ANDREA;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SOLDI Anna Maria, che ha concluso per il rigetto;
udito l’Avvocato Lovelli Alfredo per il ricorrente, che ha chiesto l’accoglimento;
udito l’Avvocato Motolese Giovanni per il controricorrente, che ha chiesto il rigetto.
Svolgimento del processo
Con sentenza depositata il 28 luglio 2017 la Corte d’Appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto – rigettando l’appello proposto da V.A.M.G., ha confermato la sentenza del 19 maggio 2014 con cui il Tribunale di Taranto ha giudizialmente accertato che M.A. era figlio di V.C..
La Corte d’Appello ha condiviso l’impostazione del giudice di primo grado secondo cui le prove raccolte (consulenza immunogenetica, deposizioni di testi non legati da vincoli di parentela e/o affinità, verbale di testamento olografo) integrano plurimi indizi gravi, precisi e concordanti nell’unico senso che M.A. è figlio di V.C..
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione V.A.M.G. affidandolo a due motivi.
M.A. si è costituito in giudizio con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo V.A.M.G. ha dedotto la violazione e falsa applicazione del R.D. 8 maggio 1927, n. 798, art. 9, artt. 190 e 191 c.c. del Regno d’Italia, D.P.R. n. 396 del 2000, art. 30, art. 269 c.c., D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Lamenta la ricorrente che nel bilanciamento dei contrapposti interessi del figlio di accedere alle informazioni sulle proprie radici e della madre all’anonimato, deve attribuirsi prevalenza al secondo ove la scelta iniziale dell’anonimato non sia stata revocata.
Peraltro, nell’ipotesi in cui la madre sia morta e non abbia mai revocato la scelta dell’anonimato, il diritto del figlio di conoscere le generalità della madre non può più essere esercitato, anche perchè il legislatore ha fissato in cento anni il termine per l’accesso ai dati.
Ne consegue l’inammissibilità della domanda proposta dal sig. M..
2. Il primo motivo non è fondato.
Va preliminarmente osservato che il diritto della madre a mantenere l’anonimato al momento del parto – invocato, nel caso di specie, dalla ricorrente per impedire l’accertamento giudiziale della maternità nei confronti della propria madre premorta – trova il proprio riconoscimento nel nostro ordinamento in una pluralità di norme che, integrandosi tra loro, ne consentono la tutela nel modo più ampio:
– il D.P.R. 3 novembre 2000, art. 30, comma 1, secondo cui “la dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata”;
– il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, comma 1 (codice in materia di dati personali), secondo cui “il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi della facoltà di cui al D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 30, comma 1, possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento”;
– La L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 28, comma 7, secondo cui “L’accesso alle informazioni non è consentito se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato, o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo”; – l’allegato del D.M. 16 luglio 2001, n. 349, prescrive in caso di donna che vuole partorire in anonimato (figlio non riconosciuto o di filiazione ignota) che si deve indicare il codice 999 per “Donna che non vuole essere nominata”.
Il diritto della madre all’anonimato è stato oggetto anche di un intervento della Consulta, che nella sentenza n. 278/2013, nel riconoscerne il fondamento costituzionale, ha evidenziato che riposa sull’esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali, tale da generare l’emergenza di pericoli per la salute psico-fisica o la stessa incolumità di entrambi e da creare, al tempo stesso, le premesse perchè la nascita possa avvenire nelle condizioni migliori possibili. La salvaguardia della vita e della salute sono, dunque, i beni di primario rilievo presenti sullo sfondo di una scelta di sistema improntata nel senso di favorire, per se stessa, la genitorialità naturale.
Se è pur vero che nella stessa sentenza sopra citata la Corte Costituzionale ha cercato di conciliare l’esigenza di riservatezza della identità della madre con il diritto del figlio a conoscere le proprie origini (riconosciuto dall’art. 8 CEDU per come interpretato dalla Corte di Strasburgo nella sentenza del 25 settembre 2012, Godelli contro Italia), giungendo a dichiarare costituzionalmente illegittimo la L. n. 184 del 1983, art. 28 comma 7, come sostituito dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 177, comma 2, nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre (che ha dichiarato di non voler essere nominata) su richiesta del figlio, ai fini di un’eventuale revoca di tale dichiarazione, tuttavia, tale statuizione non ha affatto inteso comprimere in alcun modo la pienezza del diritto all’anonimato riconosciuto alla madre. E’ stata, infatti, da un lato, contemplata la possibilità di revoca di tale scelta solo se ciò corrisponde alla reale volontà della stessa genitrice, e, dall’altro, è stato correttamente rilevato che la previsione della irreversibilità della scelta può non corrispondere affatto all’effettivo interesse della stessa madre, venendosi sostanzialmente ad “espropriare” la persona titolare del diritto da qualsiasi ulteriore opzione, “trasformandosi, in definitiva, quel diritto in una sorta di vincolo obbligatorio”.
Nell’esame degli interessi che vengono in considerazione nel presente procedimento, non secondario rilievo deve, d’altra parte, attribuirsi anche al diritto (nel caso di specie rivendicato dal controricorrente) all’accertamento dello status filiationis.
In particolare, questa Corte ha già statuito (vedi Cass. n. 24292/2016; conf. Cass. n. 11887/2015, Cass. n. 4020/2017) che “il diritto del figlio ad uno “status” filiale corrispondente alla verità biologica costituisce una delle componenti più rilevanti del diritto all’identità personale che accompagna senza soluzione di continuità la vita individuale e relazionale non soltanto nella minore età, ma in tutto il suo svolgersi. L’incertezza su tale “status” può determinare una condizione di disagio ed un “vulnus” allo sviluppo adeguato ed alla formazione della personalità riferibile ad ogni stadio della vita. La sfera all’interno della quale si colloca il diritto al riconoscimento di uno status filiale corrispondente a verità attiene al nucleo dei diritti inviolabili della persona (art. 2 Cost. e art. 8 CEDU) intesi nella dimensione individuale e relazionale”. Con tali articolate e condivisibili argomentazioni questa Corte ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c., sollevata in quel giudizio dalla parte ricorrente, che aveva lamentato che la previsione di imprescrittibilità dell’azione di accertamento giudiziale della paternità o maternità, escluderebbe qualsiasi possibilità di valutazione da parte del giudice della domanda di dichiarazione giudiziale nei casi in cui l’azione sia proposta con notevole ritardo (in quella fattispecie circa quaranta anni), con l’effetto di sacrificare il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo, imponendogli a distanza di molto tempo un accertamento coattivo del rapporto di filiazione che l’interessato avrebbe potuto richiedere prima.
In realtà, proprio la previsione della imprescrittibilità dell’azione di accertamento giudiziale sia della maternità che della paternità – unitamente a quella che la prova può essere data con ogni mezzo, a norma dell’art. 269 c.c., comma 2 – dimostra come il legislatore abbia inteso assicurare una piena tutela a tale diritto, riconoscendo l’interesse all’accertamento dello status di filiazione corrispondente alla verità biologica, in quanto componente essenziale del diritto all’identità personale, in ogni momento della vita di una persona e quindi anche in età adulta.
Deve, tuttavia, osservarsi che, ad avviso di questa Collegio, nel bilanciamento dei valori di rango costituzionale che si impone all’interprete, al cospetto del diritto al riconoscimento dello status di filiazione, quello della madre a mantenere l’anonimato al momento del parto si ponga comunque in posizione preminente. Quest’ultimo diritto, infatti, come sopra già evidenziato, è finalizzato a tutelare i beni supremi della salute e della vita, oltre che del nascituro, della madre, la quale potrebbe essere indotta a scelte di natura diversa, fonte di possibile forte rischio per entrambi, ove, nel momento di estrema fragilità che caratterizza il parto, la donna che opta per l’anonimato avesse solo il dubbio di poter essere esposta, in seguito, ad un’azione di accertamento giudiziale della maternità.
Dunque, in tale prospettiva e per garantire ampia tutela alla donna che compie tale difficile scelta, il diritto all’anonimato non può essere in alcun modo sacrificato o compresso per tutta la durata della vita della madre.
Tale regola può essere, al limite, derogata (consentendo quindi l’esercizio dell’accertamento giudiziale della maternità) solo ove fosse stata proprio la madre – come, peraltro, è accaduto nel caso che forma oggetto del presente procedimento – con la propria inequivocabile condotta, ad aver manifestato la volontà di revocare nei fatti la scelta, a suo tempo presa, di rinuncia alla genitorialità giuridica, accogliendo nella propria casa il bambino come un figlio.
Tuttavia, al di fuori del caso limite sopra enunciato, la tutela del diritto all’anonimato della madre, per tutta la durata della vita della stessa, deve essere, come detto, massima.
A diverse conclusioni si deve, invece, addivenire con riferimento al periodo successivo alla morte della madre, in relazione al quale il diritto all’anonimato in oggetto è suscettibile di essere compresso, o indebolito, in considerazione della necessità di fornire piena tutela – a questo punto – al diritto all’accertamento dello status di filiazione.
E’ pur vero che questa Corte, con la sentenza n. 22838/2016, ha espressamente affermato che ogni profilo di tutela dell’anonimato non si esaurisce con la morte della madre, non dovendosi escludere la protezione dell’identità “sociale” costruita in vita da quest’ultima, in relazione al nucleo familiare e/o relazionale eventualmente costituito dopo aver esercitato il diritto all’anonimato (e proprio in relazione a tale esigenza è stato statuito che il trattamento delle informazioni relative alle origine del figlio deve essere circondato da analoghe cautele e in modo corretto e lecito, senza cagionare danno anche non patrimoniale all’immagine, alla reputazione, e ad altri beni di primari rilievo costituzionale di eventuali terzi interessati, come discendenti e/o familiari). Tuttavia, non vi è dubbio che, in relazione a quanto sopra illustrato con riferimento all’ampiezza del diritto all’accertamento dello status di figlio naturale, nel bilanciamento dei valori di rango costituzionale che si impone all’interprete per il periodo successivo alla morte della madre, l’esigenza di tutela dei diritti degli eredi e discendenti della donna che ha optato per l’anonimato non può che essere recessiva rispetto a quella del figlio che rivendica il proprio status.
In conclusione, venendo meno per effetto della morte della madre, l’esigenza di tutela dei diritti alla vita ed alla salute, che era stata fondamentale nella scelta dell’anonimato, non vi sono più elementi ostativi non soltanto per la conoscenza del rapporto di filiazione (come affermato da Cass. 15024/2016 e Cass. 22838/2016), ma anche per la proposizione dell’azione volta all’accertamento dello status di figlio naturale, ex art. 269 c.c..
Tale soluzione si impone anche per una lettura costituzionalmente orientata della norma sopra citata – alla luce degli artt. 2 e 30 Cost., ma anche art. 24 Cost. – oltre che internazionalmente orientata (art. 117 Cost.). In proposito, l’art. 8 CEDU, nella lettura datane dalla Corte EDU (Corte EDU, 22/09/2012, Godelli c. Italia, Corte EDU, 13/02/2003, Odievre c. Francia), tende essenzialmente a premunire l’individuo contro ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, non contentandosi di ordinare allo Stato di astenersi da simili ingerenze, ma aggiungendovi obblighi positivi inerenti ad un rispetto effettivo della vita privata; tra questi non può non rientrare il diritto a proporre le azioni che lo stesso ordinamento nazionale offre per il riconoscimento dello status di figlio naturale di una persona.
Ne consegue che, nel caso di specie, l’azione di accertamento giudiziale della maternità proposta da M.A. dopo il decesso della madre è pienamente ammissibile per due ordini di ragioni:
– è stata proposta dopo che il diritto della madre premorta a mantenere l’anonimato si era, per le ragioni sopra illustrate, indebolito;
– in ogni caso, è stata proposta per ottenere l’accertamento della maternità nei confronti di una donna che aveva dimostrato nei fatti – come sarà evidenziato nell’ulteriore corso della trattazione – di aver superato essa stessa l’originaria scelta dell’anonimato, trattando l’odierno controricorrente come uno dei suoi figli.
3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 269 c.c., comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Lamenta la ricorrente che le circostanze di fatto in base alle quali la Corte d’Appello ha accertato il rapporto di filiazione per cui è procedimento sono del tutto diverse rispetto a quelle normativamente richieste, che presuppongono l’accertamento della identità di colui che si pretende essere il figlio e di colui che fu partorito dalla donna che si assume essere madre.
In particolare, i giudici di merito non hanno accertato lo stato di gravidanza di colei che si sostiene essere madre nei mesi che precedettero la nascita del sig. M., nè che V.C. abbia partorito un figlio nel gennaio 1934.
In mancanza di tali imprescindibili accertamenti, la prova specifica della maternità non è stata conseguita dal richiedente, avendo la Corte d’Appello fondato la decisione su semplici indizi e non su una prova.
4. Il motivo è inammissibile.
Va osservato che è costante orientamento di questa Corte che, in tema di mezzi utilizzabili per provare la paternità naturale – analogo ragionamento vale per la maternità naturale – l’art. 269 c.c., ammette anche il ricorso ad elementi presuntivi che, valutati nel loro complesso e sulla base del canone dell'”id quod plerumque accidit”, risultino idonei, per attendibilità e concludenza, a fornire la dimostrazione completa e rigorosa della paternità, sicchè risultano utilizzabili, raccordando tra loro le relative circostanze indiziarie, sia l’accertato comportamento del preteso genitore che abbia trattato come figlio la persona a cui favore si chiede la dichiarazione di paternità (cd. “tractatus”), sia la manifestazione esterna di tale rapporto nelle relazioni sociali (cd. “fama”), sia, infine, le risultanze di una consulenza immuno-ematologica eseguita su campioni biologici di stretti parenti (nella specie, madre e fratello) del preteso genitore. (Cass. n. 1279/2014).
Inoltre, il principio della libertà di prova, sancito dal citato art. 269 c.c., comma 2 – e riferibile anche alla maternità naturale – non tollera surrettizie limitazioni, nè mediante la fissazione di una sorta di gerarchia assiologica tra i mezzi di prova idonei a dimostrare la paternità o la maternità naturale, nè, conseguentemente, mediante l’imposizione al giudice di merito di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, a seconda del “tipo” di prova dedotta, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova in materia pari valore per espressa disposizione di legge (Cass. 6694/2006; Cass. 14976/2007; Cass. 12971/2012; Cass. 3479/2016).
I giudici di merito hanno fatto buon uso di tali principi, accertando il rapporto di filiazione del sig. M. con la sig.ra V. all’esito della valutazione di un complesso di circostanze, quali la consulenza immunogenetica, che ha concluso per un sicuro rapporto di parentela biologica tra i due, nonchè le deposizioni di testi non legati da vincoli di parentela e/o affinità (ad eccezione di uno) con il richiedente, da cui sono emersi sia il “tractatus”, ovvero che sin dalla tenera infanzia il M. era stato trattato dalla V. come uno dei suoi figli (che lo aveva accolto nella propria casa), sia la “fama”, essendo opinione comune in paese che il M. fosse figlio della V., tanto è vero che alla morte di Vi.Ci., figlio di V.C., fu chiamato dai Carabinieri lo stesso M. per il riconoscimento del cadavere, essendo ritenuto dalla comunità “fratello” del defunto.
Non vi è dubbio che le censure della ricorrente – che vuole circoscrivere le circostanze di fatto in base alle quali valutare il rapporto di filiazione a quelle strettamente inerenti alla fase dello stato di gravidanza ed alla nascita – si pongano in netto contrasto con l’art. 269 c.c., comma 2, che consente di provare la maternità con ogni mezzo, oltre ad essere inammissibili, in quanto di merito, essendo finalizzate a sollecitare una rivalutazione del materiale probatorio esaminato dai giudici di merito e ad accreditare una diversa ricostruzione della vicenda processuale.
Il rigetto del ricorso non comporta la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, sussistendo, in ragione della novità delle questioni trattate, giusti motivi per una compensazione integrale delle spese di lite.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Erroneo l’affido condiviso se il padre è assente dalla vita del figlio.

Corte d’Appello di Bologna, 15 settembre 2020
La Corte di Appello di Bologna
Prima Sezione Civile
decidendo sul reclamo exart. 708 c.p.c. iscritto al n. 103 del 2020 R.V.G.
proposto da B__, con avv.to Valeria Mazzotta, contro il provvedimento del
Presidente Delegato del Tribunale di Bologna del 24-1-2020;
rilevato che non si è costituito L____;
Il Procuratore Generale è intervenuto, concludendo per l’accoglimento del
reclamo,
all’esito dell’udienza dell’11-9-2020;
OSSERVA
Pronunciandosi in via provvisoria e urgente sul ricorso per separazione
proposto da B___ nei confronti di L___, con l’ordinanza reclamata il Presidente
delegato del Tribunale di Bologna: a) autorizzava i coniugi a vivere separati, b)
affidava ad entrambi i genitori il minore O__, nato il ___-2008, con
collocazione presso la madre, c) assegnava a B_____ la casa famigliare, d)
regolamentava la frequentazione padre-figlio, d) poneva a carico di L____
l’obbligo di corrispondere alla moglie la somma di euro 200,00 mensili
rivalutabili, a titolo di contributo al mantenimento del figlio minore, oltre al
50% delle spese straordinarie.
B______ ha proposto reclamo avverso detto provvedimento chiedendo che
l’adita Corte, previo ascolto del minore O___, in riforma dell’ordinanza
impugnata, disponga l’affidamento super esclusivo del minore alla madre o, in
subordine, l’affidamento esclusivo del minore alla madre; disponga che la
frequentazione padre-figlio avvenga mediante incontri protetti organizzati dai
servizi sociali territorialmente competenti.
Espone la reclamante che il provvedimento presidenziale è viziato da profili di
manifesta erroneità in quanto:
-ella aveva allegato nel ricorso introduttivo: a) l’assenza del padre nella vita
del figlio e l’incapacità dello stesso di relazionarsi con il figlio a causa di
differenze culturali e della barriera linguistica non avendo il padre mai voluto
imparare l’italiano, b) che L____ non ha mai lavorato, quindi non possiede
redditi né un luogo ove trasferirsi, fa uso frequente e cospicuo di sostanze
alcoliche e, causa anche dell’alterazione determinata dall’alcol, è accaduto che
L_____ abbia verbalmente aggredito la moglie e, in un’occasione, sia anche
stato necessario far intervenire le forze dell’ordine con conseguente
segnalazione alla Procura della Repubblica per i Minorenni e l’intervento del
Servizio Sociale, c) ad Aprile 2019 il padre i era trasferito a Nizza e
successivamente a Ginevra per fare rientro a Bologna solo alla fine di luglio
2019;
–L____ non si era costituito in giudizio né si era presentato all’udienza
presidenziale così confermando il proprio disinteresse per il figlio;
-l’esistenza di una situazione di abbandono morale e materiale del minore e
una abdicazione della responsabilità genitoriale da parte del padre che rende
necessario l’affidamento super esclusivo o esclusivo richiesto dalla madre;
-che il Presidente aveva regolamentato la frequentazione padre-figlio senza
considerare che L___ è disoccupato e non ha una sistemazione abitativa
diversa dalla casa coniugale.
L___ non si è costituito nel giudizio di reclamo.
Il Procuratore Generale è intervento nel giudizio ed ha chiesto l’audizione del
minore O____; di stabilire che gli incontri con il padre avvengano in forma
protetta, con assistenza dei Servizi; di accertare, anche tramite i Servizi, che il
padre, una volta interrotta la convivenza con la moglie, abbia una residenza
propria ove eventualmente ospitare il figlio.
All’udienza dell’11-9-2020 fissata per la discussione del reclamo la Corte si è
riservata la decisione.
Va premesso che il presente giudizio partecipa della stessa natura di cognizione
sommaria che caratterizza il provvedimento impugnato e che, come già
ritenuto da questa Corte, in sede di reclamo avverso l’ordinanza con la quale il
Presidente del Tribunale adotta i provvedimenti provvisori e urgenti
nell’interesse dei coniugi e dei figli (ex art. 708 c.p.c.) rilevano unicamente i
profili di erroneità dell’ordinanza medesima immediatamente rilevabili.
Il reclamo consiste nella rinnovazione dell’accertamento, sommario, compiuto
dal Presidente, con la conseguenza che non possono essere valutati nuovi
elementi e nuovi documenti.
Ha ritenuto in particolare questa Corte che, secondo un’interpretazione
sistematica del novellato art. 708 c.p.c., il controllo esercitato in sede di
reclamo debba intendersi finalizzato al solo scopo di eliminare al più presto
situazioni che appaiono ictu oculi macroscopicamente ingiuste ed erronee,
senza possibilità di approfondimenti istruttori che porterebbero il giudice del
reclamo a sostituirsi al giudice naturale di primo grado nell’indagine
processuale a lui riservata: pertanto, la rivisitazione del provvedimento
presidenziale dovrà essere condotta dalla Corte d’Appello alla luce delle sole
emergenze processuali in allora sottoposte al vaglio del primo giudice, così da
consentire l’eventuale riscontro di improprietà nel percorso argomentativo dal
medesimo seguito e/o la scorretta applicazione di principi di diritto, restando
invece riservata al G.I. -in aggiunta al potere di riesaminare i provvedimenti
presidenziali anche in assenza di mutamenti nelle circostanze – la possibilità di
revocare, modificare o integrare le determinazioni interinali al fine di meglio
adeguare la regolamentazione dei rapporti economici e personali alle risultanze
acquisite nella successiva fase a cognizione piena.
Il provvedimento impugnato dà atto che L____ non si è costituito in giudizio e
non è comparso all’udienza presidenziale nonostante la ritualità della notifica
del ricorso introduttivo effettuata presso la casa famigliare e che, a seguito di
un episodio di violenza assistita, il TM ha incaricato il Servizio Sociale di vigilare
sul nucleo famigliare.
Ciononostante e nonostante la gravità delle circostanze allegate dalla ricorrente
nel ricorso introduttivo secondo l’impugnato decreto non vi sono elementi
concreti che esprimono totale disinteresse del genitore verso il minore.
Tale valutazione è ictu oculi incongrua.
La contumacia di L____ nel giudizio di primo grado e la sua assenza all’udienza
presidenziale nonostante le gravissime circostanze allo stesso riferite secondo
le allegazioni effettuate dalla ricorrente nel primo giudizio e ribadite in questo
grado di reclamo (totale assenza nella vita del figlio e incapacità di relazionarsi
allo stesso, abuso di sostanze alcoliche, mancanza di autonoma sistemazione
abitativa, minacce di sottrazione del minore) è condotta processuale
(proseguita, peraltro, nel presente giudizio di reclamo) che questa Corte reputa
di per sé indicativa, quanto meno agli effetti della sommaria delibazione da
effettuarsi in sede di provvedimento temporaneo da assumere ex art. 708, 3°
comma cpc, del citato totale disinteresse che rende inopportuno un
affidamento condiviso e giustifica, quindi, l’affidamento esclusivo del minore
richiesto dalla ricorrente-reclamante.
Il totale disinteresse di L___ rispetto alle gravi circostanze che secondo le
allegazioni effettuate dalla ricorrente nel primo giudizio, e ribadite in questo
grado di reclamo, sono allo stesso riferibili, la molteplicità delle stesse (totale
assenza nella vita del figlio e incapacità di relazionarsi allo stesso, abuso di
sostanze alcoliche, mancanza di sistemazione abitativa, minacce di sottrazione
del minore) ed il fatto che il Tribunale per i Minorenni abbia già segnalato il
nucleo ai Servizi Sociali per un’attività di vigilanza sono elementi idonei anche
a far ritenere fondata la richiesta di B___ volta a far sì che gli incontri di L___
con il figlio O__ avvengano in forma protetta e vengano organizzati dai Servizi
Sociali territorialmente competenti secondo un calendario dagli stessi
prestabilito.
Le allegazioni della reclamante rendono, infatti, oltremodo necessarie le
indagini richieste anche dal PM circa la disponibilità da parte di L___a di
un’idonea sistemazione abitativa.
In via prudenziale ed in mancanza di idonea istruttoria va, altresì, disposto il
divieto di espatrio del minore O____ nato il ____-2008.
Alla sommaria delibazione propria della presente fase non si attaglia
l’incombente istruttorio richiesto sia dalla reclamante che dal PG (ascolto del
minore) anche se da tale incombente, che ben potrà essere effettuato
nell’ambito dell’istruttoria di primo grado, potranno trarsi elementi per vagliare
la correttezza o meno di quanto stabilito in sede interinale e provvisoria in
merito al regime di affidamento del minore e frequentazione dello stesso da
parte del padre.
Il reclamato provvedimento va, quindi, riformato in parte qua, disponendosi: a)
l’affidamento esclusivo di O____ alla madre B_____ con incarico ai Servizi
Sociali competenti per territorio di organizzare un calendario di incontri del
minore con il padre L____, da effettuarsi in forma protetta, b) il divieto di
espatrio del minore O_____ nato il ____-2008.
L’impugnato decreto resta confermato nel resto.
Le spese del presente reclamo verranno regolate con il merito.
P.Q.M.
LA CORTE
Visto l’art. 708 c.p.c.,
in accoglimento del reclamo,
1) dispone l’affidamento esclusivo di O____, nato il ____-2008, alla madre
B___;
2) dà incarico ai Servizi Sociali competenti per territorio di organizzare un
calendario di incontri tra il minore e il padre L____, da effettuarsi in forma
5
protetta;
3) dispone il divieto di espatrio del minore O____, nato il ___-2008,
4) conferma nel resto l’impugnato decreto.

Divieto imposto dal padre di far frequentare alla figlia, educata e cresciuta secondo la religione Cattolica, le riunioni e le adunanze dei Testimoni di Geova

Tribunale Pesaro, 09 Luglio 2020. .
Omissis

La ricorrente chiede la modifica delle condizioni di affidamento di cui al decreto del Tribunale di Pesaro in data 13. 3. 2018.
In particolare la ricorrente chiede che venga revocato il divieto a lei imposto di fare frequentare alla figlia le riunioni e le adunanze dei Testimoni di Geova.
Le condizioni in oggetto venivano stabilite dal Tribunale sulla base dell’accordo raggiunto dai due genitori.
La domanda va accolta.
Vero che la revisione delle disposizioni di affidamento dei figli, che l’art 337 quinquies c. c. consente di richiedere in ogni tempo, presuppone logicamente una modifica delle condizioni di fatto preesistenti, che renda inadeguata la disciplina stabilita.
Peraltro, trattandosi di disposizioni che concernono i figli, il mutamento può consistere anche solamente nella maggiore età del figlio, in quanto le esigenze del Figlio e le dinamiche tra genitore e figli certamente cambiano con l’aumento dell’età del minore.
Ciò detto, in tema di affidamento dei figli minori, il criterio fondamentale cui deve attenersi il giudice nel fissarne le relative modalità di esercizio è quello dei superiore interesse della prole, atteso il diritto preminente dei figli ad una crescita sana ed equilibrata. Ne consegue che, in caso di conflitto genitoriale sull’educazione religiosa del minore, possono essere adottati anche provvedimenti contenitivi o restrittivi dei diritti individuali di libertà religiosa dei genitori purché intervengano all’esito di un accertamento in concreto, basato sull’osservazione e sull’ascolto del minore, dell’effettiva possibilità che l’esercizio di tali diritti possa compromettere la salute psico-fisica o lo sviluppo dei figli minori. (Cass. civ. n. 2196/2019).
Nel caso di specie non vi è alcun elemento per ritenere che la frequentazione delle cerimonie della religione praticata dalla madre possa compromettere in qualche modo la salute psicofisica e la crescita della minore.
Nulla di concreto ha lamentato ed allegato sul punto il resistente.
Il pregiudizio per il minore non può infatti essere valutato-come ricordato dalla Suprema Corte con la sentenza citata – su astratte considerazioni dei principi della religione praticata dal genitore (Cass. civ. n. 21916/2019).
Non è inoltre rilevante che – come nel caso di specie – al minore sia stata inizialmente trasmessa da entrambi i genitori una comune e diversa fede religiosa (vedere sempre Cass. civ. n. 21916/2019).
D’altra parte nel caso di specie la minore – come espressamente previsto nelle condizioni stabilite dal Tribunale – può frequentare ed incontrare parenti o amici facenti parti di movimento dei Testimoni di Geova e nessun divieto è imposto alla madre – e logicamente non poteva essere altrimenti – in relazione alla possibilità di fare conoscere e trasmettere alla figlia i principi della religione abbracciata.
In questo contesto appare quindi anche illogico non permettere alla figlia di potere frequentare le cerimonie della religione seguita dalla madre.
Peraltro, essendo incontestato che la minore pratichi sin da piccola la religione Cattolica, ciascun genitore dovrà rispettare il credo dell’altro genitore, permettendo e non impedendo alla minore non solamente di praticare e frequentare le celebrazioni religiose dell’altro genitore, ma anche tutte quelle tradizioni ed attività, direttamente o indirettamente legati alla religione di ciascun, genitore, anche se in contrasto con i principi della propria religione, come, a titolo meramente esemplificativo, feste, compleanni e recite scolastiche.
Va accolta anche la domanda di modifica avanzata dal resistente.
Sul punto non vi sono contestazioni.
Andrà naturalmente rispettato il numero massimo previsto nel mese di competenza.
Le ragioni della decisione e la complessità della materia trattata giustificano la compensazione delle spese.
P. Q. M.
a modifica del decreto del Tribunale di Pesaro in data 13. 3. 2018;
revoca il divieto imposto a P. di fare frequentare alla figlia le riunioni e le adunanze dei Testimoni di Geova;
concede al padre, previo accordo dell’altro genitore, di tenere la figlia anche due weekend consecutivi anziché alternati, sempre naturalmente rispettando ti numero massimo previsto;
prescrive ai due genitori di rispettare il credo dell’altro genitore, permettendo e non impedendo alla minore non solamente di praticare e frequentare le celebrazioni religiose dell’altro genitore, ma anche tutte quelle tradizioni ed attività, direttamente o indirettamente legati alla religione di ciascun genitore, anche se in contrasto con i principi della propria religione, come, a titolo meramente esemplificativo, feste, compleanni e recite scolastiche;
compensa le spese.

Condominio: condizioni per il distacco del singolo condomino dall’impianto centralizzato

Cassazione civile, sez. II, 21 Maggio 2020, n. 9387. Pres. Lombardo. Est. Giannaccari.
Fatti
1. Con atto di citazione regolarmente notificato, A.B. citò in giudizio, innanzi al Tribunale di Roma, il Condominio (*), per chiedere accertarsi la legittimità del distacco dall’impianto centralizzato effettuato l’(*) e dichiararsi che era tenuta alle spese di conservazione dell’impianto centralizzato, con esonero della contribuzione alle spese di consumo; in via subordinata, chiese di accertare che, a seguito della totale eliminazione della superficie radiante, eseguita il (*), fosse tenuta al pagamento, da tale data, per la contribuzione dei consumi di riscaldamento calcolata in relazione ai millesimi relativi alla superficie radiante.
2. All’esito dei giudizi di merito, svoltisi nel contraddittorio con il Condominio (*), la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 7.8.2020, confermò la sentenza di primo grado, che aveva rigettato la domanda.
2.1. La corte di merito fondò la decisione sull’art. 11, del regolamento contrattuale del condominio, che conteneva un esplicito divieto di distacco del condomino dall’impianto centralizzato e che prevedeva, in materia di riparto delle spese, l’obbligo di contribuzione da parte di tutti i condomini, anche nei casi in cui non abitassero l’appartamento. Il regolamento stabiliva, inoltre, che nessun condomino potesse rinunciare al riscaldamento.
2.2. La corte di merito dichiarò inammissibile, perché nuova, la domanda relativa alla nullità dell’art. 11, del regolamento e rigettò la domanda subordinata perché la modifica della ripartizione delle spese presupponeva una modifica delle tabelle millesimali, con procedimento al quale avrebbero dovuto partecipare in giudizio tutti i condomini.
3. Per la cassazione della sentenza d’appello, ha proposto ricorso A.B. sulla base di due motivi, illustrati con memoria illustrativa depositata in prossimità dell’udienza.
3.1. Ha resistito con controricorso il Condominio (*).
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., artt. 1369, 1371, 1374 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la corte territoriale avrebbe erroneamente interpretato l’art. 11, del regolamento contrattuale – che prevede il divieto di distacco dall’impianto centralizzato – sulla base del mero dato letterale mentre la norma ammetterebbe la possibilità per i condomini di modificare gli elementi radianti, con il consenso dell’amministratore. Tale facoltà dovrebbe comprendere anche la possibilità per il condomino di distaccarsi dall’impianto centralizzato, in virtù del principio di solidarietà sociale e dell’interesse preminente al risparmio energetico, sanciti nel D.L. n. 102 del 2014, in attuazione della direttiva CEE 2012/27/UE in materia di contabilizzatori individuali. Il giudice di merito avrebbe, quindi, dovuto accertare unicamente se il distacco dal riscaldamento centralizzato arrecasse pregiudizio al funzionamento del sistema. Tale interpretazione, oltre che aderente ai precetti legislativi, anche di matrice Europea, sarebbe altresì conforme al principio di equità.
1.1. Il motivo è fondato.
1.2. Il regolamento di condominio, anche se contrattuale, non può, invero, derogare alle disposizioni richiamate dall’art. 1138 c.c., comma 4 e non può menomare i diritti che ai condomini derivino dalla legge, dagli atti di acquisto e dalle convenzioni.
1.3. La clausola del regolamento condominiale, come la deliberazione assembleare che vi dia applicazione, che vieti “in radice” al condomino di rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento e di distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall’impianto termico comune, è nulla, per violazione del diritto individuale del condomino sulla cosa comune, se il distacco non cagioni alcun notevole squilibrio di funzionamento (Cassazione civile sez. II, 02/11/2018, n. 28051; Cassazione civile sez. II, 12/05/2017, n. 11970; Cassazione civile sez. II, 29/09/2011, n. 19893).
1.5. Le condizioni per il distacco dall’impianto centralizzato, vanno quindi ravvisate, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte, nell’assenza di pregiudizio al funzionamento dell’impianto e comportano il conseguente esonero, in applicazione del principio contenuto nell’art. 1123 c.c., comma 2, dall’obbligo di sostenere le spese per l’uso del servizio centralizzato; in tal caso, il condomino che opera il distacco è tenuto solo a pagare le spese di conservazione dell’impianto stesso.
1.6. Inoltre, l’ordinamento ha mostrato di privilegiare un favor per il distacco dall’impianto centralizzato, al preminente fine di interesse generale rappresentato dal risparmio energetico e, nei nuovi edifici, ha previsto l’esclusione degli impianti centralizzati e la realizzazione dei soli individuali.
1.7. Non trascurabile è il richiamo alle previsioni di cui alla L. n. 10 del 1991, art. 26 (che al comma 5, prevede che “Per le innovazioni relative all’adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore e per il conseguente riparto degli oneri di riscaldamento in base al consumo effettivamente registrato, l’assemblea di condominio Delibera con le maggioranze previste dall’art. 1120 c.c., comma 2”) nonché della L. n. 102 del 2014, che impongono la contabilizzazione dei consumi di ciascuna unità immobiliare e la suddivisione delle spese in base ai consumi effettivi (art. 9, comma 5); emerge da tale quadro normativo l’intento del legislatore di correlare il pagamento delle spese di riscaldamento all’effettivo consumo.
1.8. La corte distrettuale ha erroneamente ritenuto che la questione della nullità dell’art. 11 del regolamento contrattuale introducesse una domanda nuova, mentre, invece, l’accertamento della legittimità del distacco dall’impianto centralizzato e l’esonero dalla contribuzione alle spese di consumo, era stata oggetto di discussione e di contraddittorio tra le parti, come richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte a seguito dell’intervento delle Sezioni Unite con le pronunce nn. 26943 e 26944 del 2014.
1.9. Il motivo deve pertanto essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma, che, sulla base dei principi sopra enunciati accerterà se il distacco dall’impianto centralizzato da parte della L. cagioni pregiudizio al funzionamento dell’impianto medesimo e, in caso negativo, dichiarerà che la medesima è tenuta alle sole spese di conservazione dell’impianto.
1.10. L’accoglimento del primo motivo determina l’assorbimento del secondo motivo di ricorso, con cui si denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per violazione del giudicato esterno, costituito dalle sentenze n. 156/2008 e 1698/202 del Tribunale di Roma.
1.11. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Roma, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Depositata in cancelleria il 21 maggio 2020.

L’attribuzione dell’assegno divorzile non può essere rimessa in discussione in altro processo sulla base di fatti anteriori all’emissione della sentenza

Cass. civ. Sez. VI – 1, Ord., 7 settembre 2020, n. 18528 – Pres. Scaldaferri, Rel. Cons. Iofrida
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 4532-2018 proposto da:
M.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE CARSO 57, presso lo studio dell’avvocato LUCILLA ANASTASIO, rappresentato e difeso dall’avvocato MARIA CRISTINA PUCCI;
– ricorrente –
contro
A.P., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato GIANLUCA GATTARI;
– controricorrente –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositato il 25/11/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 01/07/2020 dal Consigliere Relatore Dott. GIULIA IOFRIDA.
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato nell’aprile 2016, M.P. chiedeva la revisione delle condizioni di divorzio nei confronti della ex coniuge A.P., deducendo la sussistenza di fatti sopravvenuti tali da legittimare la modifica delle precedenti statuizioni di cui alla sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto tra le parti, pronunciata dal Tribunale di Macerata in data 4-28 dicembre 2002, oggetto di successivo accordo modificativo.
Il Tribunale, nella contumacia della A., revocava sia l’assegno di mantenimento a carico del M. ed in favore del figlio M., per aver quest’ultimo acquisito autonomia economica, sia l’assegnazione della casa familiare alla madre (in quanto non più convivente con il figlio), mentre veniva rigettata la domanda di revoca dell’assegno divorzile, stante l’insussistenza di “alcuna rilevante circostanza sopravvenuta tale da incidere sul giudicato formatosi”.
La Corte d’appello di Ancona, con decreto n. 1509/2016, ha respinto il reclamo, ex art. 739 c.p.c., proposto dal M., rilevando che l’unico motivo addotto quale elemento nuovo idoneo a modificare la situazione esistente era la presunta convivenza dell’ex moglie con tale F., elemento questo che non poteva in alcun modo considerarsi un fatto nuovo sopravvenuto, in quanto, come asserito anche dallo stesso ricorrente, la relazione della A. con il F. era “nota a tutti” ed andava avanti da “più di 20 anni…”, dal 1984, ancor prima della sentenza di divorzio del 2002; ad avviso della Corte di merito, tale situazione quindi era già assodata e considerata alla data della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio ed anche a quella successiva dell’accordo di modifica delle condizioni di divorzio; le istanze istruttorie formulate dal reclamante venivano ritenute inammissibili perchè ininfluenti ai fini del decidere.
Avverso il suddetto decreto, M.P. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi; resiste con controricorso A.P..
E’ stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti.
Motivi della decisione
1. Il ricorrente lamenta: 1) con il primo motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 9, per non aver la Corte d’Appello ritenuto sussistente la stabile convivenza more uxorio della ex coniuge e non averla ritenuta alla stregua di fatto sopravvenuto, pur essendo essa intervenuta solo nel 2012 (allorchè l’ex coniuge aveva lasciato la casa coniugale, per andare ad abitare con il nuovo compagno), confondendo tale sopravvenuta circostanza con il diverso fatto della pregressa relazione e frequentazione della A., in essere dagli anni ‘80; 2) con il secondo motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio rappresentato sempre della convivenza stabile della A. con altro uomo, idonea a far venir meno il diritto all’assegno divorzile; 3) con il terzo motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità del provvedimento impugnato per non aver la Corte d’Appello motivato sulle istanze istruttorie formulate sia in primo grado che in sede di reclamo.
2. Il primo ed il secondo motivo possono essere trattati assieme, in quanto connessi, e sono infondati.
Il ricorrente ha delineato la differenza tra una semplice frequentazione ed una stabile convivenza, affermando che solo la seconda è rilevante ai fini della modifica delle condizioni economiche divorzili (cfr. Cass. n. 17195/2011, conf. a Cass. n. 17643/2007).
Tuttavia, la Corte d’Appello ha ritenuto la questione come non nuova. Difatti, il M. aveva dedotto in sede di ricorso che “la convenuta…intrattiene una stabile convivenza che dura da molti anni…”. La Corte ha ritenuto quindi, interpretando la domanda, che la asserita relazione tra la A. ed il F. quale stabile convivenza fosse elemento già noto al M. in sede di proposizione del ricorso e non fosse quindi idonea a provocare una modifica delle condizioni di divorzio. Infine, nemmeno avrebbe pregio l’eventuale rilievo in ordine alla qualificazione dei fatti come sopravvenuti per essersi gli stessi materialmente verificati in una certa epoca ma conosciuti dal M., solo all’epoca della la richiesta di revisione dell’assegno.
Invero, l’ignoranza dei fatti non rende questi fatti sopravvenuti, una volta che se ne abbia la conoscenza. Tale assunto è confermato da questa Corte che ha chiarito come ” ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 9 (così come modificato dalla L. n. 436 del 1978, art. 2, e dalla L. n. 74 del 1987, art. 13), le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli, in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane viceversa esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile. Ne consegue che l’attribuzione in favore di un ex coniuge dell’assegno divorzile non può essere rimessa in discussione in altro processo sulla base di fatti anteriori all’emissione della sentenza, ancorchè ignorati da una parte, se non attraverso il rimedio della revocazione, nei casi eccezionali e tassativi di cui all’art. 395 c.p.c.” (Cass. n. 21049/2004; v. anche Cass. 25 agosto 2005, n. 17320).
In sostanza, in forza della particolare natura del giudicato delle sentenze di divorzio, e delle successive modifiche, deve comunque ritenersi che le stesse passano in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli, in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile.
Le censure risultano peraltro anche inammissibili per carenza di autosufficienza.
3. Il terzo motivo è anch’esso infondato.
Non ricorre il vizio di omessa pronuncia o omessa motivazione sulle richieste istruttorie, avendoli la Corte di merito giudicati ininfluenti ai fini del decidere, perchè finalizzati alla prova di un fatto che non avrebbe potuto avere avere alcuna incidenza sul giudizio in quanto non idoneo a causare la revisione della situazione divorzile.
4. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso; condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 3.500,00, a titolo di compensi, oltre Euro 100,00 per esborsi, nonchè al rimborso forfetario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 1 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2020