La transazione del futuro erede di rinuncia a diritti di natura successoria avvenuta in epoca anteriore all’apertura della successione è in evidente violazione delle previsioni di cui agli artt. 458 e 557 c.c..

Cass. civ. Sez. VI – 2, 15 giugno 2018, n. 15919
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 20063/2016 proposto da:
L.M.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA C. DELLA GIUSTINIANA, 68, presso lo studio dell’avvocato GIANNI CECCARELLI, rappresentata e difesa dall’avvocato BARTOLOMEO FALCONE giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
L.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA S. COSTANZA 27, presso lo studio dell’avvocato LUCIA MARINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FABRIZIO RACHELLI in virtù di procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 583/2016 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 17/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/03/2018 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le memorie depositate dalle parti.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
L.M.A. conveniva dinanzi al Tribunale di Brescia il fratello L.V. al fine di accertare la natura simulata, in quanto dissimulante una donazione immobiliare, dell’atto di cessione di quota intercorso tra il convenuto e la madre in data 31 gennaio 2003, con la conseguente lesione della propria quota di riserva, in relazione alla successione materna.
Per l’effetto previa riduzione della donazione, fino all’ammontare della quota di legittima pari ad 1/3, chiedeva altresì poi procedersi allo scioglimento della comunione.
Si costituiva il convenuto che si opponeva alla domanda ed evidenziava che in un separato giudizio aveva chiesto la condanna dell’attrice al rimborso pro quota delle spese funerarie sostenute in relazione al decesso della comune genitrice.
Disposta la riunione delle cause, il Tribunale con la sentenza n. 3099 del 4 ottobre 2013, rigettava la domanda attorea ed accoglieva quella separatamente proposta dal convenuto.
A seguito di gravame interposto dalla L., la Corte d’Appello di Brescia confermava la decisione impugnata.
Osservava che a seguito del decesso di L.M., avvenuto nell’ottobre del 1975, i germani L. e la madre G.G. erano divenuti ognuno titolare di una quota di 1/3 dell’asse ereditario e che successivamente la G. con atto del 31 gennaio 2003 aveva alienato la propria quota successoria al figlio V..
Nel 2004 L.M.A. aveva intrapreso un giudizio di scioglimento della comunione, ma che nel corso del medesimo, le parti concludevano in data 30 gennaio 2008 una transazione per l’effetto della quale l’attrice otteneva una somma di denaro ed il riconoscimento della proprietà esclusiva di alcuni immobili.
Ad avviso dei giudici di appello l’affermazione nella transazione circa la proprietà comune dei beni tra i due germani, nella consapevolezza della già intervenuta cessione di quote da parte della madre, unitamente alla dichiarazione contenuta nell’atto, con la quale si manifestava l’intento di rinunciare ad ogni diritto o azione per qualsiasi titolo o causa anche indirettamente collegata con i rapporti dedotti in giudizio, consentivano di affermare che vi era stata anche una rinunzia all’azione di riduzione.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso L.M.A. sulla base di tre motivi.
L.V. ha resistito con controricorso.
Il primo motivo di ricorso denunzia la violazione e falsa applicazione degliartt. 458 e 557 c.c..
Si evidenzia che i giudici di merito, nel ravvisare una volontà di rinunciare anche ai diritti vantati dalla ricorrente quale legittimaria rispetto alla successione materna, non hanno colto il dato fondamentale, costituito dal fatto che la transazione è stata conclusa in data 30/1/2008, e cioè ben prima del decesso della genitrice, verificatosi solo in data 15/9/2008.
Ne consegue che la rinuncia a diritti di natura successoria è quindi avvenuta in epoca anteriore all’apertura della successione, così che l’accordo, anche a volerne ravvisare la natura abdicativa, è stato raggiunto in evidente violazione delle previsioni di cui agliartt. 458 e 557 c.c..
Il motivo è evidentemente fondato.
Va osservato che la lite che le parti hanno inteso definire con l’accordo transattivo del 30/01/2008 era quella derivante dall’apertura della successione paterna, la quale era stata influenzata, quanto all’individuazione delle quote vantate dagli originari condividenti, dalla cessione di quota effettuata dalla madre in favore del figlio V..
E’ poi pacifico che alla data della transazione la genitrice era ancora in vita, sicché, alla luce dei pacifici principi in materia successoria, in base ai quali la sussistenza dei diritti del legittimario può essere determinata solo al momento dell’apertura della successione, coincidendo tale evento anche con quello a partire dal quale è dato far valere le pretese alla quota di riserva, la ricorrente non aveva alcuna legittimazione a denunziare la pretesa natura liberale dell’atto di cessione di quote, il quale, in relazione al contenzioso all’epoca in atto, rivestiva indubbiamente natura vincolante.
La dichiarazione abdicativa contenuta nella transazione non può quindi che riferirsi alla controversia scaturente dalla successione paterna, mentre ove si intenda che la stessa si estenda anche alle pretese vantate dalla attrice relativamente alla successione materna, ed in particolare, così come opinato dai giudici di merito, ai diritti vantati quale erede necessaria sulla successione della G., che era ancora in vita alla data della transazione, l’accordo non può che incorrere nella nullità di cui al combinato disposto degliartt. 458 e 557 c.c..
In tal senso la costante giurisprudenza di questa Corte ha affermato che (Cass. n. 1913/1962)l’art. 557 c.c., comma 2, vieta la rinuncia da parte del coerede al diritto a che la donazione effettuata dal de cuius all’altro coerede sia sottoposta alla riunione fittizia ed alla eventuale successiva riduzione in caso di lesione di legittima, finché viva il donante. Peraltro, tale rinuncia è convenzionalmente possibile dopo la morte del donante medesimo, giacché i coeredi possono concordemente, in sede di sistemazione dei rapporti derivanti dalla successione e di terminazione delle varie quote legittime e disponibili, sottrarre una donazione alla riunione fittizia ed alle sue conseguenze, alla stessa guisa che il legittimario, dopo la morte del donante, ben può rinunciare a chiedere giudizialmente la riunione fittizia e la riduzione delle donazioni (conf. Cass. n. 2327/1963, secondo cui la dichiarazione del legittimario, fatta in vita del donante, di essere stato soddisfatto della sua quota di riserva, sia che la si consideri come disposizione di diritti a successione non ancora aperta o rinuncia ai medesimi, sia che la si configuri come rinuncia preventiva all’esperimento delle azioni di riduzione della donazione e delle disposizioni lesive della porzione di legittima, impinge nel divieto posto rispettivamente dagliartt. 458 e 557 c.c., in quanto la determinazione del valore dei beni ereditari e di quelli di cui sia stato disposto a titolo di donazione, ai fini dell’accertamento della quota spettante al legittimario e della entità della eventuale lesione, va riferita in ogni caso al tempo dell’apertura della successione).
Tali principi sono stati poi ribaditi anche in tempi più recenti da Cass. n. 24450/2009 che ha appunto ravvisato un patto successorio, e non una transazione, nella scrittura privata con la quale una sorella aveva consentito al trasferimento in favore dei fratelli della proprietà di immobili appartenenti al padre, a fronte dell’impegno, assunto dai medesimi, di versarle una somma di denaro, da considerare, in relazione allo specifico contesto, come una tacitazione dei suoi diritti di erede legittimario.
Né appare possibile sostenere, come dedotto dal controricorrente nella memoria, che con la transazione de qua si sarebbe inteso rinunciare solo all’accertamento della simulazione, occorrendo a tal fine rilevare che, in relazione ad atti posti in essere dalla madre, la ricorrente ha acquistato il diritto ed il concreto interesse all’accertamento della loro natura simulata solo per effetto della morte della genitrice, ed in evidente funzione strumentale all’esercizio dell’azione di riduzione, la cui insorgenza del pari si colloca dopo la morte della genitrice, essendo del tutto carente di legittimazione a far valere la simulazione degli atti dispositivi, fin quando la madre sia rimasta in vita, il che esclude anche che potesse disporre allora di un diritto che ancora non le competeva.
Ne consegue che, attesa la pacifica esistenza in vita della madre al momento della transazione, la consapevolezza da parte della ricorrente dell’intervenuta cessione non appare in alcun modo idonea a giustificare la validità di una rinuncia ad un diritto, quale quello al recupero della propria quota di riserva sulla successione materna, al momento ancora non esistente, e la cui disposizione è appunto vietata dalle norme richiamate nella rubrica del motivo in esame.
Il motivo deve quindi essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata, dovendo il giudice del rinvio attenersi al seguente principio di diritto: E’ nulla per contrasto con il divieto di cui agliartt. 458 e 557 c.c., la transazione conclusa da uno dei futuri eredi, allorquando è ancora in vita il de cuius, con la quale si rinunci ai diritti vantati, anche quale legittimario, sulla futura successione, ivi incluso il diritto a far accertare la natura simulata degli atti di alienazione posti in essere dall’ereditando, in quanto idonei a dissimulare in realtà una donazione.
Alla luce di tale principio il giudice del rinvio dovrà quindi valutare la portata dell’accordo transattivo del 30/1/2008, e quindi procedere alla disamina della domanda di riduzione proposta dall’attrice.
L’accoglimento del primo motivo determina peraltro l’assorbimento degli altri due motivi che a vario titolo censurano la medesima affermazione dei giudici di appello in punto di validità della rinunzia ai diritti alla quota di riserva, evidenziando, sebbene sulla base della ormai abrogata previsione di cuiall’art. 360 c.p.c., n. 5, non applicabile alla fattispecie ratione temporis, che i giudici di merito avrebbero reso sul punto una motivazione erronea, insufficiente e contraddittoria.
Il giudice del rinvio che si designa in altra sezione della Corte d’Appello di Brescia, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, ed assorbiti i restanti, cassa la sentenza impugnata con rinvio anche per le spese del presente giudizio, a diversa Sezione della Corte d’Appello di Brescia.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 8 marzo 2018.

L’aumento reddituale di un coniuge non giustifica da solo la rideterminazione dell’assegno di mantenimento già disposto per i figli

Cass. civ. Sez. VI – 1, 10 ottobre 2018, n. 25134
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1872-2018 proposto da:
C.O., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LUDOVISI n.35, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO LAURO, rappresentato e difeso dall’avvocato CARLO PIAZZA;
– ricorrente –
contro
G.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PANAMA n.88, presso lo studio dell’avvocato MARIA LETIZIA SPASARI, che la rappresenta e difende unitamente e disgiuntamente all’avvocato ANTONIO MANGANIELLO;
– controricorrente –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositato il 17/07/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 08/05/2018 dal Consigliere Dott. ANTONIO VALITUTTI.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
la Corte d’appello di Brescia, con decreto n. 3399/2017 del 17 luglio 2017, in parziale riforma del provvedimento emesso dal Tribunale di Bergamo in data 16 luglio 2015, ha confermato l’affidamento condiviso ad entrambi i genitori del minore C.F. – figlio nato in assenza di matrimonio da G.E. e C.O. – con collocazione prevalente presso la madre, ha stabilito le modalità con le quali il minore debba incontrarsi e intrattenersi con il padre, ed ha posto a carico di quest’ultimo un assegno di mantenimento, rideterminato in misura di Euro 1.500,00 mensili;
per la cassazione della pronuncia di appello ha proposto ricorso C.O. nei confronti di G.E. affidato a due motivi;
la resistente ha replicato con controricorso e con memoria; Considerato che:
con il primo motivo di ricorso – denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 148, 316 bis e 337 ter cod. civ., nonché l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 – il ricorrente si duole del fatto che la Corte d’appello abbia ritenuto di rideterminare l’assegno di mantenimento a suo carico ed a favore del figlio, aumentandolo da Euro 800,00 – come stabilito dal giudice di primo grado – ad Euro 1.500,00 senza fare riferimento alcuno alle attuali e concrete esigenze di vita del minore, e senza operare una valutazione comparativa dei redditi dei due coniugi, come prescritto dalle norme succitate.
Ritenuto che:
l’art. 148 cod. civ., nel prescrivere che entrambi i coniugi sono tenuti ad adempiere all’obbligazione di mantenimento dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo, non detti un criterio automatico per la determinazione dell’ammontare dei rispettivi contributi, costituito dal calcolo percentuale dei redditi dei due soggetti (che finirebbe per penalizzare il coniuge più debole), ma preveda un sistema più completo ed elastico di valutazione; tale sistema debba, per vero, tenere conto non solo dei redditi, ma anche di ogni altra risorsa economica – ivi compreso il valore intrinseco di beni immobili, siano essi direttamente abitati o diversamente utilizzati (Cass., 21/01/1995, n. 706; Cass., 05/10/1992, n. 10926) – e delle cennate capacità di svolgere un’attività professionale o domestica, e che si esprima sulla base di un’indagine comparativa delle condizioni – in tal senso intese – dei due obbligati (Cass., 16/10/1991, n. 10901);
peraltro, al criterio del mantenimento “in misura proporzionale” al reddito di ciascun genitore e delle “risorse economiche di entrambi i genitori”, valutate alla stregua di un’indagine comparativa, si ispiri anche l’art. 337 ter cod. proc. civ. – introdotto dal D.Lgs. 20 dicembre 2013, n. 154, art. 7, comma 12, – con specifico riferimento alla fattispecie, ricorrente nel caso concreto, dei procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio;
Ritenuto che:
per altro verso, nella determinazione dell’assegno di mantenimento debba, altresì, tenersi conto del fatto che il dovere di mantenere, istruire ed educare la prole, stabilitodall’art. 147 cod. civ., vincola i coniugi a far fronte ad una molteplicità di esigenze dei figli, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione – fino a quando la loro età lo richieda – di una stabile organizzazione domestica, adeguata a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione;
pertanto, nell’imporre a ciascuno dei coniugi l’obbligo di provvedere al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito, il giudice di merito debba individuare, quali elementi da tenere in conto nella determinazione dell’assegno, oltre alle esigenze del figlio, il tenore di vita dallo stesso goduto in costanza di convivenza e le risorse economiche dei genitori, nonché i tempi di permanenza presso ciascuno di essi e la valenza economica dei compiti domestici e di cura da loro assunti (Cass., 10/07/2013, n. 17089; Cass., 22/03/2005, n. 6197);
Rilevato che:
nel caso concreto, il decreto emesso dalla Corte d’appello non si sia attenuto a tali principi, essendosi il giudice del gravame limitato, per quanto concerne le esigenze del minore, a dedurre – del tutto genericamente, e senza alcun riferimento specifico al caso concreto – l’impossibilità di quantificare “con precisione aritmetica (…) le esigenze di un bambino che viva in ambienti famigliari particolarmente benestanti”, e la conseguente necessità di fare riferimento ad un criterio equitativo; per quanto attiene, poi, alle condizioni patrimoniali dei genitori, la Corte si è limitata ad un altrettanto generico ed apodittico riferimento “alle oltremodo consistenti risorse reddituali e patrimoniali di C.O.”, pervenendo – sulla base di questa mera asserzione – alla conclusione di dover reputare “congruo rideterminare l’onere in parola in Euro 1.500,00 mensili”;
la motivazione sul punto si palesa, pertanto, “apparente”, secondo il disposto del novellatoart. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.(Cass. Sez. U., 07/04/2014, nn. 8053 e 8054); Considerato che:
con il secondo motivo di ricorso – denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 337 ter cod. civ. e 8 CEDU, nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazioneall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 – C.O. lamenta che la Corte d’appello – sebbene abbia confermato l’affidamento condiviso del minore ad entrambi i genitori – abbia, poi, stabilito la collocazione prevalente presso la madre, anziché stabilire il domicilio del medesimo presso entrambi i genitori, in modo da “garantire ruoli paritari” ai medesimi nella cura, educazione ed istruzione del minore;
Ritenuto che:
in tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione, vada formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore;
in ogni caso, debba assicurarsi il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione (Cass., 23/09/2015, n. 18817; Cass., 19/07/2016, n. 14728);
nell’ambito dell’affidamento condiviso di un minore, costituisca misura idonea a salvaguardare il suo preminente interesse ad una crescita serena ed armoniosa – in una situazione di disgregazione della famiglia – la collocazione stabile presso il genitore con il quale ha in prevalenza vissuto in precedenza e che possa assicurargli una maggiore attenzione, in quanto più idoneo a prendersi cura del medesimo, garantendo al contempo al genitore non collocatario ampi periodi di tempo per tenere il figlio presso di sé;
Rilevato che:
nel caso concreto, la Corte d’appello ha ampiamente motivato – tenendo conto anche delle indagini peritali espletate – circa il fatto che il minore andasse collocato stabilmente presso la madre, “con la quale egli vive dalla nascita, con la quale ha ovviamente stabilito un rapporto profondo e positivo”, e tenuto conto anche della conflittualità esistente tra i genitori e della scarsa collaborazione tra gli stessi;
la Corte ha, altresì, accertato – quanto ai rapporti con il genitore non collocatario, e sulla scorta delle risultanze della disposta c.t.u. – per un verso, l'”assenza di gravi ed impedienti criticità in capo al C.”, per altro verso, l'”attuale immaturità dell’evoluzione dei rapporti padre-figlio e della stessa visione da parte di C. di sé stesso come padre”, desumendone l’opportunità di “una progressione graduale, finalizzata a favorire l’instaurazione di una effettiva affectio” tra padre e figlio; a fronte di tali corrette e motivate conclusioni del giudice del gravame, la censura del ricorrente si traduce – attraverso la rinnovata disamina del materiale probatorio in atti – in una sostanziale richiesta di riesame del merito della causa, inammissibile nella presente sede di legittimità (Cass., 04/04/2017, n. 8758);
Ritenuto che:
per tutte le ragioni suesposte, il primo motivo di ricorso debba essere accolto, disatteso il secondo poiché inammissibile, con conseguente cassazione dell’impugnata sentenza con rinvio alla Corte d’appello di Brescia in diversa composizione, che dovrà procedere a nuovo esame della controversia, facendo applicazione dei principi di diritto suesposti;
dagli atti il processo risulti esente, sicché non si applica ilD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater

P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara inammissibile il secondo motivo di ricorso; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte d’appello di Brescia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Dispone, ai sensi delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52, che in caso di diffusione della presente ordinanza si omettano le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.
Così deciso in Roma, il 8 maggio 2018.

Il “cognome comune” assunto nel corso dell’unione civile tra persone dello stesso sesso non modifica la scheda anagrafica

Corte cost., 22 novembre 2018, n. 212
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 delD.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, recante “Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo1, comma 28, lettere a) e c),dellaL. 20 maggio 2016, n. 76)”, promosso dal Tribunale ordinario di Ravenna con ordinanza depositata il 22 novembre 2017, iscritta al n. 32 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visto l’atto di costituzione di G. Z.G. e G. G., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella udienza pubblica del 9 ottobre 2018 il Giudice relatore Giuliano Amato;
udito l’avvocato Stefano Chinotti per G. Z.G. e G. G. e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1.- Con ordinanza del 22 novembre 2017, il Tribunale ordinario di Ravenna ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 delD.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, recante “Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo1, comma 28, lettere a) e c),dellaL. 20 maggio 2016, n. 76”, in riferimento agliartt. 2, 3, 11, 22, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva conL. 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
1.1.- In particolare, l’art. 3, lettera c), numero 2), delD.Lgs. n. 5 del 2017inserisce nell’art. 20 delD.P.R. 30 maggio 1989, n. 223(Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente), il comma 3-bis, il quale prevede che “per le parti dell’unione civile le schede devono essere intestate al cognome posseduto prima dell’unione civile”.
L’art. 8 dello stesso decreto legislativo dispone che “… l’ufficiale dello stato civile, con la procedura di correzione di cui all’articolo98, comma 1, delD.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, annulla l’annotazione relativa alla scelta del cognome effettuata a norma dell’articolo4, comma 2, delD.P.C.M. 23 luglio 2016, n. 144”.
1.2.- Ad avviso del giudice a quo, entrambe le disposizioni censurate violerebbero, in primo luogo,l’art. 2 Cost., poiché la parte dell’unione civile verrebbe privata, d’ufficio e senza contraddittorio, del cognome comune legittimamente acquisito e utilizzato, così determinando la lesione dei diritti al nome, all’identità e alla dignità personale.
Sarebbe violato anche il principio di ragionevolezza di cuiall’art. 3 Cost., non essendo rinvenibile alcuna giustificazione del potere statale d’intervenire d’imperio, con la procedura senza contraddittorio prevista per la correzione di errori materiali, al fine di mutare l’identità personale di un soggetto.
Inoltre, le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto conl’art. 22 Cost., poiché, con l’eliminazione della valenza anagrafica del cognome comune, la parte dell’unione civile verrebbe privata di un cognome già acquisito.
Esse sarebbero altresì in contrasto conl’art. 76 Cost., poiché il legislatore delegante non avrebbe conferito alcun potere di revoca o annullamento delle iscrizioni e annotazioni già effettuate.
Infine, è denunciata la violazione degliartt. 11 e 117, primo comma, Cost., poiché sarebbe pregiudicato il diritto al nome e al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 della CEDU e dagli artt. 1 e 7 della CDFUE.
2.- Il Tribunale ordinario di Ravenna è chiamato a decidere in ordine al ricorso proposto da due persone unite civilmente al fine di ottenere, ai sensi dell’art.98delD.P.R. 3 novembre 2000, n. 396(Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo2, comma 12, dellaL. 15 maggio 1997, n. 127), l’annullamento della variazione delle generalità anagrafiche di una di esse, eseguite in applicazione delle disposizioni censurate.
Il giudice a quo riferisce che, al momento della costituzione dell’unione civile, in base all’art.1, comma 10, dellaL. 20 maggio 2016, n. 76(Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), i ricorrenti hanno scelto quale cognome comune quello di uno di essi, mentre l’altro ha dichiarato di voler aggiungere al proprio il cognome comune. A seguito di tale scelta, è stata modificata la sua scheda anagrafica e sono state conseguentemente rinnovate la carta d’identità, la tessera sanitaria e altri documenti personali.
Il giudice rimettente riferisce che, a seguito dell’entrata in vigore delD.Lgs. n. 5 del 2017, l’ufficiale d’anagrafe ha provveduto alla variazione delle generalità anagrafiche e all’annullamento dell’annotazione relativa alla scelta del cognome eseguita in base all’art.4, comma 2, delD.P.C.M. 23 luglio 2016, n. 144(Regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile, ai sensi dell’articolo1, comma 34, dellaL. 20 maggio 2016, n. 76), nonché dell’annotazione nell’atto di nascita presso i registri dello stato civile, ripristinando il cognome originario.
Ad avviso del giudice a quo, le censurate disposizioni delD.Lgs. n. 5 del 2017avrebbero determinato la sostanziale abrogazione dell’art. l, comma 10, dellaL. n. 76 del 2016e ne avrebbero negato l’originario contenuto precettivo, volto a riconoscere il diritto delle parti dell’unione civile di assumere a tutti gli effetti un cognome comune, consentendo ad una di esse di modificare il cognome originario. Da ciò discenderebbe la violazione di diritti fondamentali della persona, tutelati anche a livello sovranazionale, ed in particolare dagli artt. l e 7 della CDFUE, nonché dall’art. 8 della CEDU.
Ad avviso del rimettente, l’art.8delD.Lgs. n. 5 del 2017, nella parte in cui priva la persona di un cognome già acquisito e utilizzato, disponendo retroattivamente la modifica di una situazione anagrafica legittimamente costituita prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto, violerebbe il diritto al nome, all’identità e dignità personale, nonché il diritto al rispetto della vita privata e familiare.
Il giudice a quo fa rilevare che gli artt. 6 e seguenti del codice civile sanciscono il diritto al nome, prevedendo il generale divieto di mutamento dello stesso. Infatti, non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità previste dall’art.89delD.P.R. n. 396 del 2000. Ancorché previsto da una legge ordinaria, sarebbe indubitabile il rilievo costituzionale del diritto al nome (composto da nome e cognome), quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, tutelatodall’art. 2 Cost., anche nelle formazioni sociali nelle quali si esplica la personalità dell’individuo. Il rimettente osserva che il nome è stato ritenuto meritevole di un’espressa tutela anche da partedell’art. 22 Cost.che, sia pure per il solo caso in cui ciò avvenga per motivi politici, prevede che “nessuno può essere privato del nome”.
Inoltre, la norma delegata si porrebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), poiché non sarebbe rinvenibile alcuna giustificazione del potere statale d’intervenire d’imperio e con la procedura senza contraddittorio prevista per la correzione di errori materiali (art.98delD.P.R. n. 396 del 2000) al fine di mutare l’identità personale di un soggetto.
Il giudice rimettente sottolinea che, in caso di mutamento di status, l’interessato ha diritto di essere sentito e di opporsi al mutamento del proprio cognome (art. 262 cod. civ.).Al riguardo, si fa rilevare che con sentenza n. 13 del 1994 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art.165delR.D. 9 luglio 1939, n. 1238(Ordinamento dello stato civile), per violazionedell’art. 2 Cost., nella parte in cui non prevedeva che, ove la rettifica degli atti dello stato civile, per ragioni indipendenti dalla volontà del soggetto, comporti il cambiamento del cognome, il soggetto stesso possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli.
Sarebbe, inoltre, ravvisabile la violazionedell’art. 76 Cost., in quanto l’art.1, comma 28, dellaL. n. 76 del 2016, nel conferire la potestà legislativa al Governo “fatte salve le disposizioni di cui alla presente legge”, non avrebbe previsto alcun potere di revoca o annullamento retroattivo di iscrizioni e annotazioni già effettuate.
È inoltre denunciato il contrasto con l’art. 8 della CEDU che prevede il diritto della persona al rispetto della vita privata e familiare, nell’ambito del quale la Corte europea dei diritti dell’uomo ha individuato la tutela del diritto al nome, quale espressione del diritto all’identità e dignità personale. Le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto anche con i principi affermati dagli artt. 1 e 7 della CDFUE, i quali enunciano il diritto alla dignità umana e al rispetto della vita privata e familiare.
Ritenendo non praticabile un’interpretazione adeguatrice, tale da attribuire alle disposizioni censurate un significato conforme all’art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE, il giudice a quo ritiene necessario rimettere a questa Corte la valutazione della loro legittimità in riferimento agliartt. 11 e 117, primo comma, Cost., alla luce dei principi e degli obblighi comunitari.
3.- Nel giudizio dinanzi alla Corte si sono costituiti con un unico atto G. Z.G. e G. G., parti ricorrenti nel giudizio principale, chiedendo l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale e ribadendo tali conclusioni con successiva memoria.
3.1.- Le parti costituite evidenziano che, privando di valenza anagrafica il cognome comune, relegato ad una funzione meramente simbolica, sarebbero stati svuotati i diritti soggettivi attribuiti alle parti delle unioni civili dall’art.1, comma 10, dellaL. n. 76 del 2016. Sarebbe lesa l’identità personale della parte il cui cognome sia diverso da quello scelto quale cognome comune. Infatti, la cancellazione prevista dall’art.8delD.Lgs. n. 5 del 2017ridefinisce l’identità personale secondo lo status quo ante.
Ciò determinerebbe la violazione del diritto di una delle parti dell’unione civile (quella che abbia assunto il cognome comune in luogo del proprio o in aggiunta al proprio) di trasmettere alla prole il proprio cognome, come modificato a seguito della scelta consentita dal citato comma 10. Si osserva inoltre che, ove una delle parti di unioni civili già costituite abbia generato figli, ai quali sia stato assegnato ex lege il cognome del proprio genitore, modificato per effetto delle disposizioni dettate dalD.P.C.M. n. 144 del 2016, sarebbe lesa anche l’identità personale dei figli, in quanto ne sarebbe trasformato il presupposto costituito dal nome.
L’eliminazione retroattiva delle annotazioni e degli aggiornamenti anagrafici già eseguiti determinerebbe il sacrificio di diritti soggettivi tutelati anche a livello sovranazionale. Al riguardo, sono richiamate alcune pronunce della Corte di Strasburgo che hanno ricondotto il diritto al nome nell’ambito dell’art. 8 della CEDU (sentenze 21 ottobre 2008, Guzel Erdagoz contro Turchia; 1 luglio 2008, Daróczy contro Ungheria; 6 settembre 2007, Johansson contro Finlandia; 16 novembre 2004, Unal Tekeli contro Turchia; 22 febbraio 1994, Burghartz contro Svizzera).
Le parti costituite deducono che, ai sensi dell’art. 52, comma 3, della CDFUE, in caso di corrispondenza tra i diritti riconosciuti dalla Carta di Nizza e quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata dei primi sono identici a quelli conferiti dalla Convenzione. Pertanto, ad avviso delle parti costituite, tutti i diritti previsti dalla CEDU che trovino corrispondenza nella CDFUE debbono ritenersi tutelati con la medesima forza di quelli sanciti nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Ciò sarebbe confermato anche dall’art. 53 della CDFUE, il quale sancisce il divieto di interpretarne le disposizioni in senso limitativo dei diritti riconosciuti dalla CEDU.
Sono, quindi, richiamate alcune pronunce di giudici di merito che hanno ritenuto le disposizioni in esame incompatibili con la tutela sovranazionale dei diritti fondamentali della persona e hanno provveduto alla loro disapplicazione.
3.2.- Ciò premesso, le parti costituite illustrano le ragioni a sostegno dell’illegittimità costituzionale delle censurate disposizioni delD.Lgs. n. 5 del 2017.
3.2.1.- Si evidenzia che l’istituto dell’unione civile, pur essendo modellato sulla disciplina del matrimonio, se ne discosterebbe sotto molteplici profili. Sarebbe infatti differente la disciplina relativa alla filiazione, all’adozione e agli obblighi derivanti dal vincolo. Particolarmente innovativa sarebbe poi la disciplina relativa al cognome comune.
Ad avviso delle parti costituite, l’art.4, comma 2, delD.P.C.M. n. 144 del 2016, esplicitando il contenuto di queste novità legislative, avrebbe dettato la disciplina delle conseguenze anagrafiche della scelta operata dalle parti unite civilmente, in quanto costitutiva della loro nuova identità personale.
La scelta del cognome comune rappresenterebbe l’esercizio di un diritto soggettivo, previsto dallaL. n. 76 del 2016. In quanto espressione di un diritto fondamentale, incidente sulla stessa identità personale, oltre che sulla vita familiare, esso sarebbe incoercibile e non potrebbe essere negato dall’ufficiale dello stato civile, se non per ragioni espressamente ammesse dalla legge.
Viceversa, ilD.Lgs. n. 5 del 2017ed il successivo decreto del Ministro dell’interno 27 febbraio 2017, nell’omologare la disciplina del cognome comune dell’unione civile a quella previstadall’art. 143-bis cod. civ.per il cognome coniugale avrebbe stravolto il significato normativo dell’art.1, comma 10, dellaL. n. 76 del 2016, condiviso dallo stesso Governo nelD.P.C.M. n. 144 del 2016.
A conferma di tale interpretazione, si osserva che se laL. n. 76 del 2016avesse voluto consentire a una delle parti dell’unione civile il mero utilizzo del cognome dell’altra, senza alcuna incidenza anagrafica, non ci sarebbe stata ragione di prevedere l’ulteriore diritto di manifestare, con un’apposita dichiarazione, la volontà di mantenere anche il proprio cognome anagrafico. Il citato comma 10 dispone, infatti, che la parte può mantenere anche il proprio cognome, anteponendolo o posponendolo a quello acquisito. Ad avviso delle parti costituite, ciò sarebbe indicativo del fatto che, in caso contrario, la parte perde il cognome originario e assume solo quello comune.
3.2.2.- Ad avviso delle parti, ilD.Lgs. n. 5 del 2017, anziché costituire attuazione dell’art. l, comma 10, dellaL. n. 76 del 2016, introdurrebbe una disciplina contrastante con esso, in violazionedell’art. 76 Cost.
Il comma 28 dell’art.1dellaL. n. 76 del 2016, infatti, conferisce la delega facendo “salve le disposizioni di cui alla presente legge”. Viceversa, le norme censurate, lungi dal far salvo il comma 10, ne determinerebbero lo svuotamento e la sostanziale abrogazione. Esse impedirebbero a questa disposizione di esprimere tutti i suoi precetti normativi e determinerebbero la lesione di diritti soggettivi riconosciuti sia alle parti unite civilmente nella vigenza delD.P.C.M. n. 144 del 2016, sia a quelle che intendano, in futuro, unirsi civilmente.
La disciplina delD.Lgs. n. 5 del 2017non sarebbe, quindi, coerente con il limite posto dalla delega, né potrebbe ritenersi espressiva di adeguamento e riassetto legislativo.
3.3.- Le disposizioni censurate si porrebbero, inoltre, in contrasto con gliartt. 2, 3, 11, 22 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento agli artt. 1 e 7 della CDFUE e all’art. 8 della CEDU.
Invero, la cancellazione retroattiva del “cognome comune” già assunto da una delle parti dell’unione civile, lederebbe la dignità della persona e il suo diritto inviolabile al nome e alla identità, protettodall’art. 2 Cost., nonché il diritto al rispetto alla vita privata e familiare. Si fa rilevare che la Corte di Strasburgo ha garantito il diritto fondamentale alla vita familiare alle coppie omosessuali (sentenza 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria) e che la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto il diritto fondamentale delle stesse coppie ad essere riconosciute e tutelate ai sensidell’art. 2 Cost.(sentenza n. 138 del 2010).
Con l’attribuzione della valenza anagrafica del cognome comune, laL. n. 76 del 2016avrebbe inteso conferire all’unione civile visibilità sociale e caratterizzazione anche sotto il profilo familiare. La modifica del cognome, disposta dalle disposizioni censurate, frustrerebbe questa manifestazione della vita familiare, in violazionedell’art. 2 Cost.edell’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento agli artt. l e 7 della CDFUE e all’art. 8 della CEDU. Né sussisterebbe alcuna delle ragioni, previste dallo stesso art. 8 della CEDU, che possa giustificare tale ingerenza del legislatore.
3.4.- In particolare, con riferimento alla dedotta violazionedell’art. 76 Cost., le parti fanno rilevare che l’art.1, comma 28, dellaL. n. 76 del 2016esprimerebbe un principio di intangibilità, da parte del legislatore delegato, delle disposizioni contenute nella legge delega. Tale principio sarebbe violato dal legislatore delegato attraverso l’adozione di disposizioni abrogative, che avrebbero l’effetto di stravolgere l’assetto normativo delineato dal legislatore delegante, facendo degradare il cognome comune dell’unione civile da cognome anagrafico a mero cognome d’uso.
Ad avviso delle parti, l’esclusione della valenza anagrafica del cognome comune non costituirebbe affatto un’opzione interpretativa di uno tra i diversi significati possibili della disposizione, ma sarebbe una soluzione contra legem: in tal modo, si finirebbe per attribuire all’art.1, comma 10, dellaL. n. 76 del 2016un’accezione priva di senso, in luogo dell’unico significato possibile dotato di senso (in particolare circa la natura anagrafica del cognome). In quanto frutto di un ripensamento del legislatore delegato, le disposizioni correttive introdotte dalD.Lgs. n. 5 del 2017sarebbero illegittime.
3.5.- D’altra parte, l’art.8delD.Lgs. n. 5 del 2017, nel prevedere la modificazione retroattiva delle risultanze anagrafiche, sarebbe lesivo anche del diritto al nome e alla sua conservazione (art. 22 Cost.), quale prima e più immediata manifestazione del diritto all’identità personale e del diritto alla dignità personale (art. 2 Cost.e art. 1 della CDFUE).
Infatti, le coppie unite civilmente, che abbiano assunto un cognome comune nell’intervallo di tempo intercorrente tra l’entrata in vigore dellaL. n. 76 del 2016e l’entrata in vigore delD.Lgs. n. 5 del 2017, sarebbero titolari di un diritto fondamentale alla conservazione di tale cognome, ormai divenuto elemento costitutivo della loro identità personale. Pertanto, sarebbe illegittima la disposizione in esame che, con efficacia retroattiva, incide sul cognome legittimamente assunto.
Inoltre, l’indicazione della procedura di correzione di cui all’art.98, comma 1, delD.P.R. n. 396 del 2000sarebbe impropria ed incongrua. Le parti costituite ritengono, infatti, che l’annotazione della scelta del cognome, già effettuata in base alD.P.C.M. n. 144 del 2016, non costituisca un errore materiale, ma sia invece un adempimento amministrativo effettuato dall’ufficiale di stato civile nell’esecuzione di puntuali istruzioni legislative e regolamentari. L’annullamento delle annotazioni rappresenterebbe un tentativo surrettizio di dissimulare una rettificazione anagrafica imposta d’ufficio e in assenza di contraddittorio. Ciò determinerebbe il sacrificio dei diritti fondamentali delle coppie unite civilmente che abbiano esercitato il diritto di scelta del cognome comune.
4.- Nel giudizio innanzi alla Corte, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque non fondate.
4.1.- L’interveniente ha eccepito, in primo luogo, l’inammissibilità delle questioni per l’incompleta ricostruzione del quadro normativo. Il rimettente avrebbe omesso di considerare la disciplina delle schede anagrafiche individuali, di cui all’art. 20 delD.P.R. n. 223 del 1989, e dell’annotazione negli archivi dello stato civile di cui all’art.63delD.P.R. n. 396 del 2000.
Si fa rilevare che con il matrimonio la moglie acquista il diritto di aggiungere il cognome del marito al proprio (art. 143-bis cod. civ.); da ciò non deriva alcuna modifica anagrafica del cognome della moglie, ma solo il diritto di usare il cognome del marito, aggiungendolo al proprio. La relativa scheda anagrafica non subisce modificazioni e continua a riportare il cognome da nubile.
Per le unioni civili, laL. n. 76 del 2016, all’art. l, comma 10, consente alle parti di scegliere un cognome comune. Nel prevedere che le schede anagrafiche siano intestate al cognome posseduto prima dell’unione civile, l’art.3delD.Lgs. n. 5 del 2017sarebbe coerente con le disposizioni in materia di matrimonio.
Inoltre, sempre nell’intento di regolare in modo uniforme unioni civili e matrimoni, il legislatore delegato ha modificato l’art.63delD.P.R. n. 396 del 2000, prevedendo l’iscrizione negli archivi dello stato civile della dichiarazione di voler assumere un cognome comune e di anteporlo o posporlo al proprio.
4.2.- D’altra parte, non sarebbero fondate le questioni sollevate in riferimento agliartt. 2, 22 e 117, primo comma, Cost., con riguardo al parametro interposto dell’art. 8 della CEDU.
Al momento della costituzione dell’unione civile le parti possono scegliere il cognome, rendendo esplicita dichiarazione in tal senso. Secondo quanto stabilito dal novellato art. 20 delD.P.R. n. 223 del 1989, tali dichiarazioni non devono essere annotate nell’atto di nascita, né deve procedersi all’aggiornamento della scheda anagrafica.
4.3.- Ciò posto, si fa rilevare che, nel disporre l’annullamento dell’annotazione del cognome effettuata in vigenza delD.P.C.M. n. 144 del 2016, il censurato art. 8 avrebbe la funzione di norma di coordinamento.
Ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, questa disposizione non inciderebbe su diritti fondamentali della persona e non comporterebbe un cambio di identità. Quest’ultima ha radice nel cognome proprio di ogni soggetto, il quale è immutabile e identifica la persona. Oggetto di modifica sarebbe l’annotazione dello status, per sua natura transitorio, di componente dell’unione civile. Esso sarebbe identificativo non già dell’identità dell’individuo, ma della creazione di un nucleo familiare. Da queste considerazioni deriverebbe la non fondatezza delle questioni, in riferimento agliartt. 2, 22 e 117 Cost., in relazione al parametro interposto dell’art. 8 della CEDU.
Quanto alla denunciata violazionedell’art. 3 Cost., l’Avvocatura dello Stato eccepisce l’inammissibilità della censura per errata ed insufficiente descrizione della fattispecie. Nel merito, essa sarebbe comunque manifestamente infondata, poiché non vi sarebbe una modifica dell’identità personale, né d’altra parte sussisterebbe un obbligo di contraddittorio. Si evidenzia, a questo riguardo, che l’art.98, comma 3, delD.P.R. n. 396 del 2000consente al procuratore della Repubblica e a chiunque vi abbia interesse di proporre opposizione, con ciò garantendo il diritto di difesa.
4.4.- In riferimento al denunciato eccesso di delega, l’Avvocatura dello Stato eccepisce l’inammissibilità della censura perché generica e non adeguatamente motivata.
Nel merito, la questione sollevata in riferimentoall’art. 76 Cost.non sarebbe fondata. La disposizione di cui all’art.8delD.Lgs. n. 5 del 2017sarebbe perfettamente coerente con la legge delega. Essa dovrebbe essere esaminata congiuntamente all’art. 1, lettera m), numero 1), del medesimoD.Lgs. n. 5 del 2017. Nel modificare l’art.63delD.P.R. n. 396 del 2000, tale disposizione prevede, alla lettera g-sexies), l’iscrizione della dichiarazione relativa alla scelta del cognome comune e alla sua posizione.
Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, nel prevedere il mantenimento del cognome originario sulla scheda anagrafica, nonché nel disporre la cancellazione delle annotazioni difformi effettuate nelle more dell’adozione della disciplina definitiva, il legislatore delegato non avrebbe violato alcuno dei criteri della delega, essendo autorizzato ad adottare le disposizioni necessarie per l’adeguamento alla nuova normativa delle “disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni ed annotazioni” (art. l, comma 28, dellaL. n. 76 del 2016).
Motivi della decisione
1.- Il Tribunale ordinario di Ravenna ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 delD.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, recante “Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo1, comma 28, lettere a) e c),dellaL. 20 maggio 2016, n. 76”, in riferimento agliartt. 2, 3, 11, 22, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva conL. 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
1.1.- In particolare, la prima delle due disposizioni censurate inserisce, nell’art. 20 delD.P.R. 30 maggio 1989, n. 223(Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente), il comma 3-bis, il quale prevede che “per le parti dell’unione civile le schede devono essere intestate al cognome posseduto prima dell’unione civile”.
La disposizione dell’art. 8 prevede, d’altra parte, che “… l’ufficiale dello stato civile, con la procedura di correzione di cui all’articolo98, comma 1, delD.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, annulla l’annotazione relativa alla scelta del cognome effettuata a norma dell’articolo4, comma 2, delD.P.C.M. 23 luglio 2016, n. 144”.
1.2.- Ad avviso del giudice a quo, entrambe le disposizioni sopra richiamate violerebbero, in primo luogo,l’art. 2 Cost., poiché la parte dell’unione civile verrebbe privata, d’ufficio e senza contraddittorio, del cognome comune legittimamente acquisito e utilizzato, così determinando la lesione dei diritti al nome, all’identità e alla dignità personale.
Sarebbe violato anche il principio di ragionevolezza di cuiall’art. 3 Cost., non essendo rinvenibile alcuna giustificazione del potere statale d’intervenire d’imperio, con la procedura senza contraddittorio prevista per la correzione di errori materiali, al fine di modificare l’identità personale di un soggetto.
Inoltre, le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto conl’art. 22 Cost., poiché, con l’eliminazione della valenza anagrafica del cognome comune, la parte dell’unione civile verrebbe privata di un cognome già acquisito.
Esse sarebbero altresì in contrasto conl’art. 76 Cost., poiché il legislatore delegante non avrebbe conferito alcun potere di revoca o annullamento delle iscrizioni e annotazioni già effettuate.
Infine, è denunciata la violazione degliartt. 11 e 117, primo comma, Cost., poiché sarebbe pregiudicato il diritto al nome e al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 della CEDU e dagli artt. 1 e 7 della CDFUE.
2.- In via preliminare, vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità delle questioni, formulate dall’Avvocatura generale dello Stato.
2.1.- Ad avviso di quest’ultima, il rimettente avrebbe omesso di considerare la disciplina delle schede anagrafiche individuali, di cui all’art. 20 delD.P.R. n. 223 del 1989, e dell’iscrizione negli archivi dello stato civile, di cui all’art.63delD.P.R. 3 novembre 2000, n. 396(Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo2, comma 12, dellaL. 15 maggio 1997, n. 127). La considerazione di tali disposizioni avrebbe consentito di individuare la ratio dell’intervento legislativo in esame nell’esigenza di uniformare la disciplina del cognome delle unioni civili a quella del cognome coniugale.
Tuttavia, è proprio su tale volontà di assimilare la disciplina dei due istituti che il giudice a quo, sulla scorta di argomenti illustrati anche dalle parti costituite, appunta le proprie censure in ordine alle innovazioni introdotte dalD.Lgs. n. 5 del 2017. Nella prospettazione del rimettente, l’omologazione della disciplina del cognome comune a quella del cognome coniugale avrebbe svuotato di significato una previsione innovativa e caratterizzante il riconoscimento giuridico e sociale delle unioni civili.
2.2.- L’Avvocatura dello Stato ha, inoltre, eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza, in considerazione della carente descrizione della fattispecie.
Dall’ordinanza di rimessione risulta che nel giudizio a quo le parti ricorrenti hanno chiesto l’annullamento della variazione delle registrazioni anagrafiche, nonché dell’annotazione nell’atto di nascita di una delle parti, conservato presso i registri dello stato civile. Il giudice a quo ha evidenziato che tali variazioni sono state eseguite in applicazione delle disposizioni censurate. Egli ritiene quindi che la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale discenda dalla natura stessa degli atti impugnati, in quanto meramente applicativi della disciplina censurata.
L’esposizione della vicenda concreta, se pur sintetica, è comunque sufficiente a soddisfare l’onere di motivazione sulla rilevanza, essendo stata adeguatamente rappresentata una situazione in cui le doglianze dei ricorrenti non potrebbero altrimenti essere accolte che a seguito dell’eventuale accoglimento della questione di legittimità proposta nei confronti della disposizione di legge di cui i provvedimenti impugnati sono applicazione (sentenze n. 16 del 2017, n. 151 del 2009, n. 303 del 2007 e n. 4 del 2000).
2.3.- Non è, infine, fondata l’eccezione di inammissibilità della censura relativa all’eccesso di delega, perché generica e non adeguatamente motivata.
Con motivazione sintetica, ma non implausibile, il giudice a quo deduce la violazionedell’art. 76 Cost., in quanto l’art.1, comma 28, dellaL. 20 maggio 2016, n. 76(Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), nel delegare la potestà legislativa al Governo “fatte salve le disposizioni di cui alla presente legge”, non avrebbe previsto alcun potere di revoca o annullamento retroattivo di iscrizioni e annotazioni già effettuate.
I termini della questione sono stati dunque enucleati con un’argomentazione adeguata, che supera il vaglio preliminare di ammissibilità richiesto a questa Corte, giacché “attiene al merito – e non al profilo preliminare dell’ammissibilità – la valutazione della forza persuasiva degli argomenti addotti a sostegno delle censure” (sentenza n. 259 del 2017).
3.- Va d’altra parte dichiarata l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimentoall’art. 22 Cost.
Il rimettente si limita ad osservare che il nome costituisce elemento distintivo della personalità al punto da meritare un’espressa tutela da partedell’art. 22 Cost., ma omette qualsiasi argomentazione a sostegno del denunciato contrasto tra le disposizioni censurate e il parametro evocato, il quale esclude la privazione del nome per motivi politici. Inoltre, nessun argomento è svolto circa la natura politica della lamentata privazione.
Tale difetto motivazionale comporta l’inammissibilità della questione. Per costante giurisprudenza di questa Corte, non basta l’indicazione delle norme da raffrontare per valutare la compatibilità dell’una rispetto al contenuto precettivo dell’altra, ma è necessario motivare il giudizio negativo in tal senso e, se del caso, illustrare i passaggi interpretativi operati al fine di enucleare i rispettivi contenuti di normazione (ex multis, sentenze n. 240 e n. 35 del 2017, n. 120 del 2015, n. 236 del 2011; ordinanze n. 26 del 2012, n. 321 del 2010 e n. 181 del 2009).
4.- Nel merito, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), delD.Lgs. n. 5 del 2017 non sono fondate.
4.1.- Con la disposizione censurata il legislatore delegato ha escluso la valenza anagrafica del cognome comune scelto dalle parti dell’unione civile. Ferma restando la facoltà di scegliere ed utilizzare tale cognome comune per la durata della unione, viene espressamente esclusa la necessità di modificare la scheda anagrafica individuale, la quale resta, pertanto, intestata alla stessa parte con il cognome posseduto prima della costituzione dell’unione.
È questa la scelta del legislatore delegato che è stata censurata dal giudice rimettente, assumendo che essa contrasti, in primo luogo, con i principi posti dallaL. n. 76 del 2016e, dunque, conl’art. 76 Cost.
4.1.1.- Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, “la previsione di cuiall’art. 76 Cost.non osta all’emanazione, da parte del legislatore delegato, di norme che rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del primo sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal secondo. Il sindacato costituzionale sulla delega legislativa deve, così, svolgersi attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, riguardanti, da un lato, le disposizioni che determinano l’oggetto, i princìpi e i criteri direttivi indicati dalla legge di delegazione e, dall’altro, le disposizioni stabilite dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i princìpi e i criteri direttivi della delega. Il che, se porta a ritenere del tutto fisiologica quell’attività normativa di completamento e sviluppo delle scelte del delegante, circoscrive, d’altra parte, il vizio in discorso ai casi di dilatazione dell’oggetto indicato dalla legge di delega, fino all’estremo di ricomprendere in esso materie che ne erano escluse” (sentenza n. 194 del 2015; sentenze n. 229, n. 182 e n. 50 del 2014).
4.1.2.- Ciò premesso, va in primo luogo rilevato che oggetto della delega in esame era “l’ adeguamento … delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni” alle previsioni della stessa legge sulle unioni civili, con salvezza delle disposizioni da essa direttamente introdotte, e in particolare di quella di cui all’art. 1, comma 10, dedicato alla disciplina del cognome comune delle unioni civili.
Quest’ultima disposizione prevede un sistema di individuazione del cognome comune fondato sull’accordo e ispirato alla libertà di determinazione delle parti dell’unione civile. Ad esse è riconosciuta infatti la facoltà di adottare un cognome unico, scegliendolo tra quello dell’una o dell’altra. Parimenti, esse potrebbero legittimamente decidere di mantenere i rispettivi cognomi, rinunciando a contraddistinguere il vincolo con un cognome comune e condiviso.
Ancorché la disposizione del comma 10 non contenga un’espressa qualificazione degli effetti di tale scelta, essa fornisce tuttavia un’indicazione quanto mai significativa circa la necessità di modifiche anagrafiche, laddove espressamente delimita la durata del cognome comune a quella dell’unione civile. Ai sensi del comma 10 in esame, infatti, la scelta del cognome è operata “per la durata dell’unione”. Dallo scioglimento dell’unione civile, anche in caso di morte di una delle parti, discende la perdita automatica del cognome comune.
È stata proprio la considerazione di tale delimitazione temporale che ha guidato la scelta operata dal legislatore delegato. Infatti, nella relazione illustrativa che accompagna lo schema delD.Lgs. n. 5 del 2017, si rileva che “una vera e propria variazione anagrafica del cognome della parte dell’unione civile avrebbe effetto solo per la durata dell’unione”. Tale rilievo sottintende la contraddittorietà e l’irragionevolezza insite nell’attribuire alla scelta compiuta dalle parti dell’unione civile un effetto, la variazione del cognome anagrafico, che è nell’ordinamento tendenzialmente definitivo e irreversibile, mentre nella specie sarebbe temporaneo e limitato alla durata dell’unione.
Vale la pena di rammentare che l’aggiornamento della scheda anagrafica individuale avrebbe comportato che qualsiasi successiva certificazione anagrafica sarebbe stata rilasciata con il solo cognome modificato, con la conseguente necessità di aggiornare non solo i documenti di identità, ma anche i dati fiscali, lavorativi, sanitari e previdenziali.
L’impostazione fatta propria dal rimettente non appare dunque coerente con il principio di ragionevolezza, né con le previsioni della legge delega ed in particolare con l’indicazione rinvenibile nell’art.1, comma 10, dellaL. n. 76 del 2016. Nell’adeguare l’ordinamento dello stato civile alle previsioni sul cognome delle unioni civili, è stata dunque compiuta una scelta che rappresenta il coerente sviluppo dei principi posti dalla legge di delega.
4.2.- Anche in riferimento agliartt. 2, 3, 11 e 117, primo comma, Cost.le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), delD.Lgs. n. 5 del 2017non sono fondate.
Che il diritto al nome, quale elemento costitutivo dell’identità personale, debba concretizzarsi nel cognome comune, rendendo così doverosa la modifica anagrafica di quello originario, non discende, infatti, né dalle norme della nostra Costituzione, né da quelle interposte che essa richiama.
Va sottolineato, inoltre, che la ipotizzata valenza anagrafica del cognome comune sarebbe suscettibile di produrre effetti pregiudizievoli sulla sfera personale e giuridica dei figli di quella delle parti che avesse assunto tale cognome in sostituzione del proprio. Ad essi infatti, in baseall’art. 262 del codice civile, è attribuito il cognome del genitore che li abbia riconosciuti. A seguito dello scioglimento dell’unione civile i figli (salva la facoltà di scelta riconosciuta al figlio maggiorenne dall’art.33, comma 2, delD.P.R. n. 396 del 2000) rimarrebbero privi di uno degli elementi che, fino al momento dello scioglimento, identificava il relativo nucleo familiare, con tutto ciò che questo comporta nell’ambiente in cui essi vivono.
È bensì vero che le parti del giudizio a quo rifiutano ogni analogia con il matrimonio per quanto attiene al cognome comune. È tuttavia espressivo di un principio caratterizzante l’ordinamento dello stato civile che il cognome d’uso assunto dalla moglie a seguito di matrimonio non comporti alcuna variazione anagrafica del cognome originario, che rimane immodificato. L’art. 20, comma 3, delD.P.R. n. 223 del 1989prevede, infatti, che “Per le donne coniugate o vedove le schede devono essere intestate al cognome da nubile”. In linea di coerenza con tale previsione, si prevede che la scheda anagrafica della parte dell’unione civile debba indicare il nome ed il cognome dell’altra parte dell’unione (comma 1 dell’art. 20), senza che ciò comporti una modifica del proprio cognome anagrafico (comma 3-bis).
D’altra parte, la dichiarazione della scelta circa la posizione del cognome comune non è affatto priva di significato, come sostengono le parti, neppure laddove a tale cognome si riconnetta mero valore d’uso. Anche in questo caso, infatti, la posizione del cognome acquisito rispetto a quello originario riveste indubbio rilievo. Va infatti sottolineato che la dichiarazione sulla posizione del cognome comune costituisce esercizio di un’ulteriore facoltà che laL. n. 76 del 2016ha espressamente attribuito alle parti dell’unione civile. Il rilievo di tale dichiarazione trova riscontro anche nella previsione della sua iscrizione, a cura dell’ufficiale dello stato civile, negli archivi informatici degli atti dello stato civile (art. 63, comma 1, lettera g-sexies, delD.P.R. n. 396 del 2000).
La natura paritaria e flessibile della disciplina del cognome comune da utilizzare durante l’unione civile e la facoltà di stabilirne la collocazione accanto a quello originario – anche in mancanza di modifiche della scheda anagrafica – costituiscono dunque garanzia adeguata dell’identità della coppia unita civilmente e della sua visibilità nella sfera delle relazioni sociali in cui essa si trova ad esistere.
5.- Anche le questioni di legittimità costituzionale dell’art.8delD.Lgs. n. 5 del 2017non sono fondate.
5.1.- Le censure del giudice a quo attengono in primo luogo alla violazionedell’art. 76 Cost., in quanto non sarebbe stato conferito al legislatore delegato alcun potere di revoca o annullamento di iscrizioni e annotazioni già effettuate e relative alla scelta del cognome.
Al riguardo va rilevato che la disposizione dell’art. 8 detta una disciplina transitoria destinata ad applicarsi alle unioni civili costituite nell’intervallo temporale tra ilD.P.C.M. 23 luglio 2016, n. 144(Regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile, ai sensi dell’articolo1, comma 34, dellaL. 20 maggio 2016, n. 76), e ilD.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, nelle quali sia stata esercitata l’opzione per il cognome comune e sia stata altresì effettuata la variazione anagrafica prevista dall’art.4del citatoD.P.C.M. 23 luglio 2016, n. 144e successivamente esclusa dall’art. 3, lettera c), numero 2), delD.Lgs. n. 5 del 2017.
Va ribadito che la delega conferita dall’art.1, comma 28, lettera a), dellaL. n. 76 del 2016aveva ad oggetto “l’adeguamento … delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni” alle previsioni della stessa legge sulle unioni civili, con salvezza delle disposizioni da essa direttamente introdotte, ed in particolare di quella di cui all’art. 1, comma 10, dedicato alla disciplina del cognome comune delle unioni civili.
Come si è visto nel precedente punto 4., il legislatore delegato ha dapprima esplicitato il significato del principio posto dall’art.1, comma 10, dellaL. n. 76 del 2016, escludendo la valenza anagrafica del cognome comune. Con il successivo art. 8, e sempre al fine dell’adeguamento della disciplina dello stato civile, ha previsto la caducazione delle annotazioni effettuate medio tempore, in applicazione di una fonte normativa, provvisoria e di carattere secondario, non coerente con i principi della delega.
5.2.- Non è ravvisabile neppure la denunciata violazione degliartt. 2, 11 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento all’art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE. Nella prospettazione del rimettente, tali censure sono ricondotte al sacrificio del diritto alla conservazione del cognome comune da parte di chi lo abbia acquisito nel vigore dell’art.4, comma 2, delD.P.C.M. n. 144 del 2016.
Introdotto da una disposizione destinata ad applicarsi in attesa dell’entrata in vigore dei decreti legislativi previsti dallaL. n. 76 del 2016, l’effetto modificativo della scheda anagrafica rivestiva la medesima natura provvisoria della fonte regolamentare che l’aveva previsto e che era destinata a cessare per effetto dei successivi decreti legislativi. La dichiarata transitorietà del d.P.C.m. in esame e la relativa brevità del suo orizzonte temporale di riferimento portano ad escludere che le novità da esso introdotte abbiano determinato un ragionevole affidamento in ordine all’emersione e al consolidamento di un nuovo tratto identificativo della persona. Ne consegue che la previsione dell’annullamento delle variazioni anagrafiche già effettuate non può ritenersi lesiva di una nuova identità personale, ancora non affermata.
Pertanto, non risulta conferente il richiamo alla sentenza n. 13 del 1994, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art.165delR.D. 9 luglio 1939, n. 1238(Ordinamento dello stato civile), per violazionedell’art. 2 Cost., nella parte in cui esso non prevedeva che, ove la rettifica degli atti dello stato civile, per ragioni indipendenti dalla volontà del soggetto, comporti il cambiamento del cognome, il soggetto stesso possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli.
In quella occasione, l’esigenza di protezione dell’interesse alla conservazione del cognome è stata riconosciuta “… in presenza di una situazione nella quale con quel cognome la persona sia ormai individuata e conosciuta nell’ambiente ove vive …”, ciò che non può ritenersi verificato nel caso in esame.
5.3.- Non è fondata, infine, la censura di irragionevolezza proposta dal rimettente in riferimento all’indicazione legislativa del procedimento di cui all’art.98delD.P.R. n. 396 del 2000per l’annullamento delle variazioni anagrafiche effettuate in base all’art.4del citatoD.P.C.M. 23 luglio 2016, n. 144
Il modello procedimentale prescelto dal legislatore delegato prevede, in particolare, che del provvedimento sia data comunicazione agli interessati, al procuratore della Repubblica ed al prefetto. A partire da questa comunicazione gli interessati hanno trenta giorni per proporre ricorso al tribunale, a norma dell’art.95delD.P.R. n. 396 del 2000. Lo stesso termine è previsto per il procuratore della Repubblica che può proporre ricorso contro la correzione effettuata dall’ufficiale dello stato civile.
Si tratta dunque di una procedura che garantisce il contraddittorio con la parte interessata attraverso la proposizione di un ricorso e l’instaurazione di un giudizio di fronte ad un tribunale (come è avvenuto proprio nel giudizio a quo).
E, se è vero che la procedura indicata contempla il contraddittorio e l’intervento del giudice in una fase differita, si tratta pur sempre di uno strumento processuale che consente alle parti coinvolte di contestare l’annullamento di variazioni anagrafiche. L’art. 8 in esame prescrive dunque l’utilizzo di uno schema procedimentale, già previsto nel sistema dell’ordinamento dello stato civile, ancorché utilizzato per differenti evenienze. La legittimità del rinvio a tale modello non è inficiata dall’estensione del suo ambito applicativo a ulteriori fattispecie, differenti da quelle per le quali esso era originariamente previsto.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 delD.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, recante “Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo1, comma 28, lettere a) e c),dellaL. 20 maggio 2016, n. 76”, sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimentoall’art. 22 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), delD.Lgs. n. 5 del 2017, sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento agliartt. 2, 3, 11, 76 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva conL. 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art.8delD.Lgs. n. 5 del 2017, sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento agliartt. 2, 3, 11, 76 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 ottobre 2018.
Depositata in Cancelleria il 22 novembre 2018.

Il cognome comune scelto in sede di unione civile non ha valenza anagrafica.

Corte Costituzionale 22 novembre 2018 n. 212
1.– Con ordinanza del 22 novembre 2017, il Tribunale ordinario di Ravenna ha sollevato questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio 2017,
n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni,
trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle
unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», in
riferimento agli artt. 2, 3, 11, 22, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione
all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli
artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
1.1.– In particolare, l’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017 inserisce nell’art. 20 del d.P.R.
30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente), il
comma 3-bis, il quale prevede che «[p]er le parti dell’unione civile le schede devono essere intestate al
cognome posseduto prima dell’unione civile».
L’art. 8 dello stesso decreto legislativo dispone che «[…] l’ufficiale dello stato civile, con la procedura di
correzione di cui all’articolo 98, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000,
n. 396, annulla l’annotazione relativa alla scelta del cognome effettuata a norma dell’articolo 4, comma 2,
del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144».
1.2.– Ad avviso del giudice a quo, entrambe le disposizioni censurate violerebbero, in primo luogo, l’art. 2
Cost., poiché la parte dell’unione civile verrebbe privata, d’ufficio e senza contraddittorio, del cognome
comune legittimamente acquisito e utilizzato, così determinando la lesione dei diritti al nome, all’identità
e alla dignità personale.
Sarebbe violato anche il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., non essendo rinvenibile alcuna
giustificazione del potere statale d’intervenire d’imperio, con la procedura senza contraddittorio prevista
per la correzione di errori materiali, al fine di mutare l’identità personale di un soggetto.
Inoltre, le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto con l’art. 22 Cost., poiché, con l’eliminazione
della valenza anagrafica del cognome comune, la parte dell’unione civile verrebbe privata di un cognome
già acquisito.
Esse sarebbero altresì in contrasto con l’art. 76 Cost., poiché il legislatore delegante non avrebbe
conferito alcun potere di revoca o annullamento delle iscrizioni e annotazioni già effettuate.
Infine, è denunciata la violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., poiché sarebbe pregiudicato il
diritto al nome e al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 della CEDU e dagli artt. 1 e
7 della CDFUE.
2.– Il Tribunale ordinario di Ravenna è chiamato a decidere in ordine al ricorso proposto da due persone
unite civilmente al fine di ottenere, ai sensi dell’art. 98 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento
per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12,
della legge 15 maggio 1997, n. 127), l’annullamento della variazione delle generalità anagrafiche di una
di esse, eseguite in applicazione delle disposizioni censurate.
Il giudice a quo riferisce che, al momento della costituzione dell’unione civile, in base all’art. 1, comma
10, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso
e disciplina delle convivenze), i ricorrenti hanno scelto quale cognome comune quello di uno di essi,
mentre l’altro ha dichiarato di voler aggiungere al proprio il cognome comune. A seguito di tale scelta, è
stata modificata la sua scheda anagrafica e sono state conseguentemente rinnovate la carta d’identità, la
tessera sanitaria e altri documenti personali.
Il giudice rimettente riferisce che, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2017, l’ufficiale
d’anagrafe ha provveduto alla variazione delle generalità anagrafiche e all’annullamento dell’annotazione
relativa alla scelta del cognome eseguita in base all’art. 4, comma 2, del decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144 (Regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per
la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile, ai sensi dell’articolo 1, comma 34, della legge 20
maggio 2016, n. 76), nonché dell’annotazione nell’atto di nascita presso i registri dello stato civile,
ripristinando il cognome originario.
Ad avviso del giudice a quo, le censurate disposizioni del d.lgs. n. 5 del 2017 avrebbero determinato la
sostanziale abrogazione dell’art. l, comma 10, della legge n. 76 del 2016 e ne avrebbero negato
l’originario contenuto precettivo, volto a riconoscere il diritto delle parti dell’unione civile di assumere a
tutti gli effetti un cognome comune, consentendo ad una di esse di modificare il cognome originario. Da
ciò discenderebbe la violazione di diritti fondamentali della persona, tutelati anche a livello
sovranazionale, ed in particolare dagli artt. l e 7 della CDFUE, nonché dall’art. 8 della CEDU.
Ad avviso del rimettente, l’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017, nella parte in cui priva la persona di un
cognome già acquisito e utilizzato, disponendo retroattivamente la modifica di una situazione anagrafica
legittimamente costituita prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto, violerebbe il diritto al nome,
all’identità e dignità personale, nonché il diritto al rispetto della vita privata e familiare.
Il giudice a quo fa rilevare che gli artt. 6 e seguenti del codice civile sanciscono il diritto al nome,
prevedendo il generale divieto di mutamento dello stesso. Infatti, non sono ammessi cambiamenti,
aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità previste dall’art. 89 del d.P.R. n. 396 del
2000. Ancorché previsto da una legge ordinaria, sarebbe indubitabile il rilievo costituzionale del diritto al
nome (composto da nome e cognome), quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale,
tutelato dall’art. 2 Cost., anche nelle formazioni sociali nelle quali si esplica la personalità dell’individuo. Il
rimettente osserva che il nome è stato ritenuto meritevole di un’espressa tutela anche da parte dell’art.
22 Cost. che, sia pure per il solo caso in cui ciò avvenga per motivi politici, prevede che «nessuno può
essere privato del nome».
Inoltre, la norma delegata si porrebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), poiché
non sarebbe rinvenibile alcuna giustificazione del potere statale d’intervenire d’imperio e con la procedura
senza contraddittorio prevista per la correzione di errori materiali (art. 98 del d.P.R. n. 396 del 2000) al
fine di mutare l’identità personale di un soggetto.
Il giudice rimettente sottolinea che, in caso di mutamento di status, l’interessato ha diritto di essere
sentito e di opporsi al mutamento del proprio cognome (art. 262 cod. civ.). Al riguardo, si fa rilevare che
con sentenza n. 13 del 1994 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 165 del regio decreto 9
luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile), per violazione dell’art. 2 Cost., nella parte in cui non prevedeva che, ove la rettifica degli atti dello stato civile, per ragioni indipendenti dalla volontà del
soggetto, comporti il cambiamento del cognome, il soggetto stesso possa ottenere dal giudice il
riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli.
Sarebbe, inoltre, ravvisabile la violazione dell’art. 76 Cost., in quanto l’art. 1, comma 28, della legge n.
76 del 2016, nel conferire la potestà legislativa al Governo «fatte salve le disposizioni di cui alla presente
legge», non avrebbe previsto alcun potere di revoca o annullamento retroattivo di iscrizioni e annotazioni
già effettuate.
È inoltre denunciato il contrasto con l’art. 8 della CEDU che prevede il diritto della persona al rispetto
della vita privata e familiare, nell’ambito del quale la Corte europea dei diritti dell’uomo ha individuato la
tutela del diritto al nome, quale espressione del diritto all’identità e dignità personale. Le disposizioni
censurate si porrebbero in contrasto anche con i principi affermati dagli artt. 1 e 7 della CDFUE, i quali
enunciano il diritto alla dignità umana e al rispetto della vita privata e familiare.
Ritenendo non praticabile un’interpretazione adeguatrice, tale da attribuire alle disposizioni censurate un
significato conforme all’art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE, il giudice a quo ritiene necessario
rimettere a questa Corte la valutazione della loro legittimità in riferimento agli artt. 11 e 117, primo
comma, Cost., alla luce dei principi e degli obblighi comunitari.
3.– Nel giudizio dinanzi alla Corte si sono costituiti con un unico atto G. Z.G. e G. G., parti ricorrenti nel
giudizio principale, chiedendo l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale e ribadendo tali
conclusioni con successiva memoria.
3.1.– Le parti costituite evidenziano che, privando di valenza anagrafica il cognome comune, relegato ad
una funzione meramente simbolica, sarebbero stati svuotati i diritti soggettivi attribuiti alle parti delle
unioni civili dall’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016. Sarebbe lesa l’identità personale della parte
il cui cognome sia diverso da quello scelto quale cognome comune. Infatti, la cancellazione prevista
dall’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017 ridefinisce l’identità personale secondo lo status quo ante.
Ciò determinerebbe la violazione del diritto di una delle parti dell’unione civile (quella che abbia assunto il
cognome comune in luogo del proprio o in aggiunta al proprio) di trasmettere alla prole il proprio
cognome, come modificato a seguito della scelta consentita dal citato comma 10. Si osserva inoltre che,
ove una delle parti di unioni civili già costituite abbia generato figli, ai quali sia stato assegnato ex lege il
cognome del proprio genitore, modificato per effetto delle disposizioni dettate dal d.P.C.m. n. 144 del
2016, sarebbe lesa anche l’identità personale dei figli, in quanto ne sarebbe trasformato il presupposto
costituito dal nome.
L’eliminazione retroattiva delle annotazioni e degli aggiornamenti anagrafici già eseguiti determinerebbe il
sacrificio di diritti soggettivi tutelati anche a livello sovranazionale. Al riguardo, sono richiamate alcune
pronunce della Corte di Strasburgo che hanno ricondotto il diritto al nome nell’ambito dell’art. 8 della
CEDU (sentenze 21 ottobre 2008, Guzel Erdagoz contro Turchia; 1° luglio 2008, Daróczy contro
Ungheria; 6 settembre 2007, Johansson contro Finlandia; 16 novembre 2004, Unal Tekeli contro Turchia;
22 febbraio 1994, Burghartz contro Svizzera).
Le parti costituite deducono che, ai sensi dell’art. 52, comma 3, della CDFUE, in caso di corrispondenza
tra i diritti riconosciuti dalla Carta di Nizza e quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata dei primi
sono identici a quelli conferiti dalla Convenzione. Pertanto, ad avviso delle parti costituite, tutti i diritti
previsti dalla CEDU che trovino corrispondenza nella CDFUE debbono ritenersi tutelati con la medesima
forza di quelli sanciti nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Ciò sarebbe confermato
anche dall’art. 53 della CDFUE, il quale sancisce il divieto di interpretarne le disposizioni in senso
limitativo dei diritti riconosciuti dalla CEDU.
Sono, quindi, richiamate alcune pronunce di giudici di merito che hanno ritenuto le disposizioni in esame
incompatibili con la tutela sovranazionale dei diritti fondamentali della persona e hanno provveduto alla
loro disapplicazione.
3.2.– Ciò premesso, le parti costituite illustrano le ragioni a sostegno dell’illegittimità costituzionale delle
censurate disposizioni del d.lgs. n. 5 del 2017.
3.2.1.– Si evidenzia che l’istituto dell’unione civile, pur essendo modellato sulla disciplina del matrimonio,
se ne discosterebbe sotto molteplici profili. Sarebbe infatti differente la disciplina relativa alla filiazione,
all’adozione e agli obblighi derivanti dal vincolo. Particolarmente innovativa sarebbe poi la disciplina
relativa al cognome comune.
Ad avviso delle parti costituite, l’art. 4, comma 2, del d.P.C.m. n. 144 del 2016, esplicitando il contenuto
di queste novità legislative, avrebbe dettato la disciplina delle conseguenze anagrafiche della scelta
operata dalle parti unite civilmente, in quanto costitutiva della loro nuova identità personale.
La scelta del cognome comune rappresenterebbe l’esercizio di un diritto soggettivo, previsto dalla legge
n. 76 del 2016. In quanto espressione di un diritto fondamentale, incidente sulla stessa identità
personale, oltre che sulla vita familiare, esso sarebbe incoercibile e non potrebbe essere negato
dall’ufficiale dello stato civile, se non per ragioni espressamente ammesse dalla legge.
Viceversa, il d.lgs. n. 5 del 2017 ed il successivo decreto del Ministro dell’interno 27 febbraio 2017,
nell’omologare la disciplina del cognome comune dell’unione civile a quella prevista dall’art. 143-bis cod.
civ. per il cognome coniugale avrebbe stravolto il significato normativo dell’art. 1, comma 10, della legge
n. 76 del 2016, condiviso dallo stesso Governo nel d.P.C.m. n. 144 del 2016.
A conferma di tale interpretazione, si osserva che se la legge n. 76 del 2016 avesse voluto consentire a
una delle parti dell’unione civile il mero utilizzo del cognome dell’altra, senza alcuna incidenza anagrafica,
non ci sarebbe stata ragione di prevedere l’ulteriore diritto di manifestare, con un’apposita dichiarazione,
la volontà di mantenere anche il proprio cognome anagrafico. Il citato comma 10 dispone, infatti, che la
parte può mantenere anche il proprio cognome, anteponendolo o posponendolo a quello acquisito. Ad
avviso delle parti costituite, ciò sarebbe indicativo del fatto che, in caso contrario, la parte perde il
cognome originario e assume solo quello comune.
3.2.2.– Ad avviso delle parti, il d.lgs. n. 5 del 2017, anziché costituire attuazione dell’art. l, comma 10,
della legge n. 76 del 2016, introdurrebbe una disciplina contrastante con esso, in violazione dell’art. 76
Cost.
Il comma 28 dell’art. 1 della legge n. 76 del 2016, infatti, conferisce la delega facendo «salve le
disposizioni di cui alla presente legge». Viceversa, le norme censurate, lungi dal far salvo il comma 10, ne
determinerebbero lo svuotamento e la sostanziale abrogazione. Esse impedirebbero a questa disposizione
di esprimere tutti i suoi precetti normativi e determinerebbero la lesione di diritti soggettivi riconosciuti
sia alle parti unite civilmente nella vigenza del d.P.C.m. n. 144 del 2016, sia a quelle che intendano, in
futuro, unirsi civilmente.
La disciplina del d.lgs. n. 5 del 2017 non sarebbe, quindi, coerente con il limite posto dalla delega, né
potrebbe ritenersi espressiva di adeguamento e riassetto legislativo.
3.3.– Le disposizioni censurate si porrebbero, inoltre, in contrasto con gli artt. 2, 3, 11, 22 e 117, primo
comma, Cost., quest’ultimo in riferimento agli artt. 1 e 7 della CDFUE e all’art. 8 della CEDU.
Invero, la cancellazione retroattiva del «cognome comune» già assunto da una delle parti dell’unione
civile, lederebbe la dignità della persona e il suo diritto inviolabile al nome e alla identità, protetto dall’art.
2 Cost., nonché il diritto al rispetto alla vita privata e familiare. Si fa rilevare che la Corte di Strasburgo ha garantito il diritto fondamentale alla vita familiare alle coppie omosessuali (sentenza 24 giugno 2010,
Schalk e Kopf contro Austria) e che la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto il diritto fondamentale
delle stesse coppie ad essere riconosciute e tutelate ai sensi dell’art. 2 Cost. (sentenza n. 138 del 2010).
Con l’attribuzione della valenza anagrafica del cognome comune, la legge n. 76 del 2016 avrebbe inteso
conferire all’unione civile visibilità sociale e caratterizzazione anche sotto il profilo familiare. La modifica
del cognome, disposta dalle disposizioni censurate, frustrerebbe questa manifestazione della vita
familiare, in violazione dell’art. 2 Cost. e dell’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento
agli artt. l e 7 della CDFUE e all’art. 8 della CEDU. Né sussisterebbe alcuna delle ragioni, previste dallo
stesso art. 8 della CEDU, che possa giustificare tale ingerenza del legislatore.
3.4.– In particolare, con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 76 Cost., le parti fanno rilevare che
l’art. 1, comma 28, della legge n. 76 del 2016 esprimerebbe un principio di intangibilità, da parte del
legislatore delegato, delle disposizioni contenute nella legge delega. Tale principio sarebbe violato dal
legislatore delegato attraverso l’adozione di disposizioni abrogative, che avrebbero l’effetto di stravolgere
l’assetto normativo delineato dal legislatore delegante, facendo degradare il cognome comune dell’unione
civile da cognome anagrafico a mero cognome d’uso.
Ad avviso delle parti, l’esclusione della valenza anagrafica del cognome comune non costituirebbe affatto
un’opzione interpretativa di uno tra i diversi significati possibili della disposizione, ma sarebbe una
soluzione contra legem: in tal modo, si finirebbe per attribuire all’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del
2016 un’accezione priva di senso, in luogo dell’unico significato possibile dotato di senso (in particolare
circa la natura anagrafica del cognome). In quanto frutto di un ripensamento del legislatore delegato, le
disposizioni correttive introdotte dal d.lgs. n. 5 del 2017 sarebbero illegittime.
3.5.– D’altra parte, l’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017, nel prevedere la modificazione retroattiva delle
risultanze anagrafiche, sarebbe lesivo anche del diritto al nome e alla sua conservazione (art. 22 Cost.),
quale prima e più immediata manifestazione del diritto all’identità personale e del diritto alla dignità
personale (art. 2 Cost. e art. 1 della CDFUE).
Infatti, le coppie unite civilmente, che abbiano assunto un cognome comune nell’intervallo di tempo
intercorrente tra l’entrata in vigore della legge n. 76 del 2016 e l’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del
2017, sarebbero titolari di un diritto fondamentale alla conservazione di tale cognome, ormai divenuto
elemento costitutivo della loro identità personale. Pertanto, sarebbe illegittima la disposizione in esame
che, con efficacia retroattiva, incide sul cognome legittimamente assunto.
Inoltre, l’indicazione della procedura di correzione di cui all’art. 98, comma 1, del d.P.R. n. 396 del 2000
sarebbe impropria ed incongrua. Le parti costituite ritengono, infatti, che l’annotazione della scelta del
cognome, già effettuata in base al d.P.C.m. n. 144 del 2016, non costituisca un errore materiale, ma sia
invece un adempimento amministrativo effettuato dall’ufficiale di stato civile nell’esecuzione di puntuali
istruzioni legislative e regolamentari. L’annullamento delle annotazioni rappresenterebbe un tentativo
surrettizio di dissimulare una rettificazione anagrafica imposta d’ufficio e in assenza di contraddittorio. Ciò
determinerebbe il sacrificio dei diritti fondamentali delle coppie unite civilmente che abbiano esercitato il
diritto di scelta del cognome comune.
4.– Nel giudizio innanzi alla Corte, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o
comunque non fondate.
4.1.– L’interveniente ha eccepito, in primo luogo, l’inammissibilità delle questioni per l’incompleta
ricostruzione del quadro normativo. Il rimettente avrebbe omesso di considerare la disciplina delle schede
anagrafiche individuali, di cui all’art. 20 del d.P.R. n. 223 del 1989, e dell’annotazione negli archivi dello
stato civile di cui all’art. 63 del d.P.R. n. 396 del 2000.
Si fa rilevare che con il matrimonio la moglie acquista il diritto di aggiungere il cognome del marito al
proprio (art. 143-bis cod. civ.); da ciò non deriva alcuna modifica anagrafica del cognome della moglie,
ma solo il diritto di usare il cognome del marito, aggiungendolo al proprio. La relativa scheda anagrafica
non subisce modificazioni e continua a riportare il cognome da nubile.
Per le unioni civili, la legge n. 76 del 2016, all’art. l, comma 10, consente alle parti di scegliere un
cognome comune. Nel prevedere che le schede anagrafiche siano intestate al cognome posseduto prima
dell’unione civile, l’art. 3 del d.lgs. n. 5 del 2017 sarebbe coerente con le disposizioni in materia di
matrimonio.
Inoltre, sempre nell’intento di regolare in modo uniforme unioni civili e matrimoni, il legislatore delegato
ha modificato l’art. 63 del d.P.R. n. 396 del 2000, prevedendo l’iscrizione negli archivi dello stato civile
della dichiarazione di voler assumere un cognome comune e di anteporlo o posporlo al proprio.
4.2.– D’altra parte, non sarebbero fondate le questioni sollevate in riferimento agli artt. 2, 22 e 117,
primo comma, Cost., con riguardo al parametro interposto dell’art. 8 della CEDU.
Al momento della costituzione dell’unione civile le parti possono scegliere il cognome, rendendo esplicita
dichiarazione in tal senso. Secondo quanto stabilito dal novellato art. 20 del d.P.R. n. 223 del 1989, tali
dichiarazioni non devono essere annotate nell’atto di nascita, né deve procedersi all’aggiornamento della
scheda anagrafica.
4.3.– Ciò posto, si fa rilevare che, nel disporre l’annullamento dell’annotazione del cognome effettuata in
vigenza del d.P.C.m. n. 144 del 2016, il censurato art. 8 avrebbe la funzione di norma di coordinamento.
Ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, questa disposizione non inciderebbe su diritti fondamentali della
persona e non comporterebbe un cambio di identità. Quest’ultima ha radice nel cognome proprio di ogni
soggetto, il quale è immutabile e identifica la persona. Oggetto di modifica sarebbe l’annotazione dello
status, per sua natura transitorio, di componente dell’unione civile. Esso sarebbe identificativo non già
dell’identità dell’individuo, ma della creazione di un nucleo familiare. Da queste considerazioni
deriverebbe la non fondatezza delle questioni, in riferimento agli artt. 2, 22 e 117 Cost., in relazione al
parametro interposto dell’art. 8 della CEDU.
Quanto alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost., l’Avvocatura dello Stato eccepisce l’inammissibilità
della censura per errata ed insufficiente descrizione della fattispecie. Nel merito, essa sarebbe comunque
manifestamente infondata, poiché non vi sarebbe una modifica dell’identità personale, né d’altra parte
sussisterebbe un obbligo di contraddittorio. Si evidenzia, a questo riguardo, che l’art. 98, comma 3, del
d.P.R. n. 396 del 2000 consente al procuratore della Repubblica e a chiunque vi abbia interesse di
proporre opposizione, con ciò garantendo il diritto di difesa.
4.4.– In riferimento al denunciato eccesso di delega, l’Avvocatura dello Stato eccepisce l’inammissibilità
della censura perché generica e non adeguatamente motivata.
Nel merito, la questione sollevata in riferimento all’art. 76 Cost. non sarebbe fondata. La disposizione di
cui all’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017 sarebbe perfettamente coerente con la legge delega. Essa dovrebbe
essere esaminata congiuntamente all’art. 1, lettera m), numero 1), del medesimo d.lgs. n. 5 del 2017.
Nel modificare l’art. 63 del d.P.R. n. 396 del 2000, tale disposizione prevede, alla lettera g-sexies),
l’iscrizione della dichiarazione relativa alla scelta del cognome comune e alla sua posizione.
Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, nel prevedere il mantenimento del cognome originario
sulla scheda anagrafica, nonché nel disporre la cancellazione delle annotazioni difformi effettuate nelle
more dell’adozione della disciplina definitiva, il legislatore delegato non avrebbe violato alcuno dei criteri
della delega, essendo autorizzato ad adottare le disposizioni necessarie per l’adeguamento alla nuova
normativa delle «disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni ed
annotazioni» (art. l, comma 28, della legge n. 76 del 2016).
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Ravenna ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3,
lettera c), numero 2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle
disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché
modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1,
comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 22, 76 e
117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a
Strasburgo il 12 dicembre 2007.
1.1.– In particolare, la prima delle due disposizioni censurate inserisce, nell’art. 20 del d.P.R. 30 maggio
1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente), il comma 3-
bis, il quale prevede che «[p]er le parti dell’unione civile le schede devono essere intestate al cognome
posseduto prima dell’unione civile».
La disposizione dell’art. 8 prevede, d’altra parte, che «[…] l’ufficiale dello stato civile, con la procedura di
correzione di cui all’articolo 98, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000,
n. 396, annulla l’annotazione relativa alla scelta del cognome effettuata a norma dell’articolo 4, comma 2,
del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144».
1.2.– Ad avviso del giudice a quo, entrambe le disposizioni sopra richiamate violerebbero, in primo luogo,
l’art. 2 Cost., poiché la parte dell’unione civile verrebbe privata, d’ufficio e senza contraddittorio, del
cognome comune legittimamente acquisito e utilizzato, così determinando la lesione dei diritti al nome,
all’identità e alla dignità personale.
Sarebbe violato anche il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., non essendo rinvenibile alcuna
giustificazione del potere statale d’intervenire d’imperio, con la procedura senza contraddittorio prevista
per la correzione di errori materiali, al fine di modificare l’identità personale di un soggetto.
Inoltre, le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto con l’art. 22 Cost., poiché, con l’eliminazione
della valenza anagrafica del cognome comune, la parte dell’unione civile verrebbe privata di un cognome
già acquisito.
Esse sarebbero altresì in contrasto con l’art. 76 Cost., poiché il legislatore delegante non avrebbe
conferito alcun potere di revoca o annullamento delle iscrizioni e annotazioni già effettuate.
Infine, è denunciata la violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., poiché sarebbe pregiudicato il
diritto al nome e al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 della CEDU e dagli artt. 1 e
7 della CDFUE.
2.– In via preliminare, vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità delle questioni, formulate
dall’Avvocatura generale dello Stato.
2.1.– Ad avviso di quest’ultima, il rimettente avrebbe omesso di considerare la disciplina delle schede
anagrafiche individuali, di cui all’art. 20 del d.P.R. n. 223 del 1989, e dell’iscrizione negli archivi dello
stato civile, di cui all’art. 63 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la
semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15
maggio 1997, n. 127). La considerazione di tali disposizioni avrebbe consentito di individuare la ratio
dell’intervento legislativo in esame nell’esigenza di uniformare la disciplina del cognome delle unioni civili
a quella del cognome coniugale.
Tuttavia, è proprio su tale volontà di assimilare la disciplina dei due istituti che il giudice a quo, sulla
scorta di argomenti illustrati anche dalle parti costituite, appunta le proprie censure in ordine alle
innovazioni introdotte dal d.lgs. n. 5 del 2017. Nella prospettazione del rimettente, l’omologazione della
disciplina del cognome comune a quella del cognome coniugale avrebbe svuotato di significato una
previsione innovativa e caratterizzante il riconoscimento giuridico e sociale delle unioni civili.
2.2.– L’Avvocatura dello Stato ha, inoltre, eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza,
in considerazione della carente descrizione della fattispecie.
Dall’ordinanza di rimessione risulta che nel giudizio a quo le parti ricorrenti hanno chiesto l’annullamento
della variazione delle registrazioni anagrafiche, nonché dell’annotazione nell’atto di nascita di una delle
parti, conservato presso i registri dello stato civile. Il giudice a quo ha evidenziato che tali variazioni sono
state eseguite in applicazione delle disposizioni censurate. Egli ritiene quindi che la rilevanza delle
questioni di legittimità costituzionale discenda dalla natura stessa degli atti impugnati, in quanto
meramente applicativi della disciplina censurata.
L’esposizione della vicenda concreta, se pur sintetica, è comunque sufficiente a soddisfare l’onere di
motivazione sulla rilevanza, essendo stata adeguatamente rappresentata una situazione in cui le
doglianze dei ricorrenti non potrebbero altrimenti essere accolte che a seguito dell’eventuale
accoglimento della questione di legittimità proposta nei confronti della disposizione di legge di cui i
provvedimenti impugnati sono applicazione (sentenze n. 16 del 2017, n. 151 del 2009, n. 303 del 2007 e
n. 4 del 2000).
2.3.– Non è, infine, fondata l’eccezione di inammissibilità della censura relativa all’eccesso di delega,
perché generica e non adeguatamente motivata.
Con motivazione sintetica, ma non implausibile, il giudice a quo deduce la violazione dell’art. 76 Cost., in
quanto l’art. 1, comma 28, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra
persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), nel delegare la potestà legislativa al Governo
«[f]atte salve le disposizioni di cui alla presente legge», non avrebbe previsto alcun potere di revoca o
annullamento retroattivo di iscrizioni e annotazioni già effettuate.
I termini della questione sono stati dunque enucleati con un’argomentazione adeguata, che supera il
vaglio preliminare di ammissibilità richiesto a questa Corte, giacché «[a]ttiene al merito – e non al profilo
preliminare dell’ammissibilità – la valutazione della forza persuasiva degli argomenti addotti a sostegno
delle censure» (sentenza n. 259 del 2017).
3.– Va d’altra parte dichiarata l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in
riferimento all’art. 22 Cost.
Il rimettente si limita ad osservare che il nome costituisce elemento distintivo della personalità al punto
da meritare un’espressa tutela da parte dell’art. 22 Cost., ma omette qualsiasi argomentazione a
sostegno del denunciato contrasto tra le disposizioni censurate e il parametro evocato, il quale esclude la
privazione del nome per motivi politici. Inoltre, nessun argomento è svolto circa la natura politica della
lamentata privazione.
Tale difetto motivazionale comporta l’inammissibilità della questione. Per costante giurisprudenza di
questa Corte, non basta l’indicazione delle norme da raffrontare per valutare la compatibilità dell’una
rispetto al contenuto precettivo dell’altra, ma è necessario motivare il giudizio negativo in tal senso e, se
del caso, illustrare i passaggi interpretativi operati al fine di enucleare i rispettivi contenuti di normazione
(ex multis, sentenze n. 240 e n. 35 del 2017, n. 120 del 2015, n. 236 del 2011; ordinanze n. 26 del
2012, n. 321 del 2010 e n. 181 del 2009).
4.– Nel merito, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017 non sono fondate.
4.1.– Con la disposizione censurata il legislatore delegato ha escluso la valenza anagrafica del cognome
comune scelto dalle parti dell’unione civile. Ferma restando la facoltà di scegliere ed utilizzare tale
cognome comune per la durata della unione, viene espressamente esclusa la necessità di modificare la
scheda anagrafica individuale, la quale resta, pertanto, intestata alla stessa parte con il cognome
posseduto prima della costituzione dell’unione.
È questa la scelta del legislatore delegato che è stata censurata dal giudice rimettente, assumendo che
essa contrasti, in primo luogo, con i principi posti dalla legge n. 76 del 2016 e, dunque, con l’art. 76 Cost.
4.1.1.– Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «la previsione di cui all’art. 76 Cost. non osta
all’emanazione, da parte del legislatore delegato, di norme che rappresentino un coerente sviluppo e un
completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del
primo sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal secondo. Il sindacato
costituzionale sulla delega legislativa deve, così, svolgersi attraverso un confronto tra gli esiti di due
processi ermeneutici paralleli, riguardanti, da un lato, le disposizioni che determinano l’oggetto, i princìpi
e i criteri direttivi indicati dalla legge di delegazione e, dall’altro, le disposizioni stabilite dal legislatore
delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i princìpi e i criteri direttivi della delega. Il che,
se porta a ritenere del tutto fisiologica quell’attività normativa di completamento e sviluppo delle scelte
del delegante, circoscrive, d’altra parte, il vizio in discorso ai casi di dilatazione dell’oggetto indicato dalla
legge di delega, fino all’estremo di ricomprendere in esso materie che ne erano escluse» (sentenza n. 194
del 2015; sentenze n. 229, n. 182 e n. 50 del 2014).
4.1.2.– Ciò premesso, va in primo luogo rilevato che oggetto della delega in esame era «[l’] adeguamento
[…] delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni»
alle previsioni della stessa legge sulle unioni civili, con salvezza delle disposizioni da essa direttamente
introdotte, e in particolare di quella di cui all’art. 1, comma 10, dedicato alla disciplina del cognome
comune delle unioni civili.
Quest’ultima disposizione prevede un sistema di individuazione del cognome comune fondato sull’accordo
e ispirato alla libertà di determinazione delle parti dell’unione civile. Ad esse è riconosciuta infatti la
facoltà di adottare un cognome unico, scegliendolo tra quello dell’una o dell’altra. Parimenti, esse
potrebbero legittimamente decidere di mantenere i rispettivi cognomi, rinunciando a contraddistinguere il
vincolo con un cognome comune e condiviso.
Ancorché la disposizione del comma 10 non contenga un’espressa qualificazione degli effetti di tale scelta,
essa fornisce tuttavia un’indicazione quanto mai significativa circa la necessità di modifiche anagrafiche,
laddove espressamente delimita la durata del cognome comune a quella dell’unione civile. Ai sensi del
comma 10 in esame, infatti, la scelta del cognome è operata «per la durata dell’unione». Dallo
scioglimento dell’unione civile, anche in caso di morte di una delle parti, discende la perdita automatica
del cognome comune.
È stata proprio la considerazione di tale delimitazione temporale che ha guidato la scelta operata dal
legislatore delegato. Infatti, nella relazione illustrativa che accompagna lo schema del d.lgs. n. 5 del
2017, si rileva che «una vera e propria variazione anagrafica del cognome della parte dell’unione civile
avrebbe effetto solo per la durata dell’unione». Tale rilievo sottintende la contraddittorietà e
l’irragionevolezza insite nell’attribuire alla scelta compiuta dalle parti dell’unione civile un effetto, la
variazione del cognome anagrafico, che è nell’ordinamento tendenzialmente definitivo e irreversibile,
mentre nella specie sarebbe temporaneo e limitato alla durata dell’unione.
Vale la pena di rammentare che l’aggiornamento della scheda anagrafica individuale avrebbe comportato
che qualsiasi successiva certificazione anagrafica sarebbe stata rilasciata con il solo cognome modificato,
con la conseguente necessità di aggiornare non solo i documenti di identità, ma anche i dati fiscali,
lavorativi, sanitari e previdenziali.
L’impostazione fatta propria dal rimettente non appare dunque coerente con il principio di ragionevolezza,
né con le previsioni della legge delega ed in particolare con l’indicazione rinvenibile nell’art. 1, comma 10,
della legge n. 76 del 2016. Nell’adeguare l’ordinamento dello stato civile alle previsioni sul cognome delle
unioni civili, è stata dunque compiuta una scelta che rappresenta il coerente sviluppo dei principi posti
dalla legge di delega.
4.2.– Anche in riferimento agli artt. 2, 3, 11 e 117, primo comma, Cost. le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017 non sono fondate.
Che il diritto al nome, quale elemento costitutivo dell’identità personale, debba concretizzarsi nel
cognome comune, rendendo così doverosa la modifica anagrafica di quello originario, non discende,
infatti, né dalle norme della nostra Costituzione, né da quelle interposte che essa richiama.
Va sottolineato, inoltre, che la ipotizzata valenza anagrafica del cognome comune sarebbe suscettibile di
produrre effetti pregiudizievoli sulla sfera personale e giuridica dei figli di quella delle parti che avesse
assunto tale cognome in sostituzione del proprio. Ad essi infatti, in base all’art. 262 del codice civile, è
attribuito il cognome del genitore che li abbia riconosciuti. A seguito dello scioglimento dell’unione civile i
figli (salva la facoltà di scelta riconosciuta al figlio maggiorenne dall’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 396
del 2000) rimarrebbero privi di uno degli elementi che, fino al momento dello scioglimento, identificava il
relativo nucleo familiare, con tutto ciò che questo comporta nell’ambiente in cui essi vivono.
È bensì vero che le parti del giudizio a quo rifiutano ogni analogia con il matrimonio per quanto attiene al
cognome comune. È tuttavia espressivo di un principio caratterizzante l’ordinamento dello stato civile che
il cognome d’uso assunto dalla moglie a seguito di matrimonio non comporti alcuna variazione anagrafica
del cognome originario, che rimane immodificato. L’art. 20, comma 3, del d.P.R. n. 223 del 1989 prevede,
infatti, che «Per le donne coniugate o vedove le schede devono essere intestate al cognome da nubile».
In linea di coerenza con tale previsione, si prevede che la scheda anagrafica della parte dell’unione civile
debba indicare il nome ed il cognome dell’altra parte dell’unione (comma 1 dell’art. 20), senza che ciò
comporti una modifica del proprio cognome anagrafico (comma 3-bis).
D’altra parte, la dichiarazione della scelta circa la posizione del cognome comune non è affatto priva di
significato, come sostengono le parti, neppure laddove a tale cognome si riconnetta mero valore d’uso.
Anche in questo caso, infatti, la posizione del cognome acquisito rispetto a quello originario riveste
indubbio rilievo. Va infatti sottolineato che la dichiarazione sulla posizione del cognome comune
costituisce esercizio di un’ulteriore facoltà che la legge n. 76 del 2016 ha espressamente attribuito alle
parti dell’unione civile. Il rilievo di tale dichiarazione trova riscontro anche nella previsione della sua
iscrizione, a cura dell’ufficiale dello stato civile, negli archivi informatici degli atti dello stato civile (art. 63,
comma 1, lettera g-sexies, del d.P.R. n. 396 del 2000).
La natura paritaria e flessibile della disciplina del cognome comune da utilizzare durante l’unione civile e
la facoltà di stabilirne la collocazione accanto a quello originario – anche in mancanza di modifiche della
scheda anagrafica – costituiscono dunque garanzia adeguata dell’identità della coppia unita civilmente e
della sua visibilità nella sfera delle relazioni sociali in cui essa si trova ad esistere.
5.– Anche le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017 non sono fondate.
5.1.– Le censure del giudice a quo attengono in primo luogo alla violazione dell’art. 76 Cost., in quanto
non sarebbe stato conferito al legislatore delegato alcun potere di revoca o annullamento di iscrizioni e
annotazioni già effettuate e relative alla scelta del cognome.
Al riguardo va rilevato che la disposizione dell’art. 8 detta una disciplina transitoria destinata ad applicarsi
alle unioni civili costituite nell’intervallo temporale tra il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri
23 luglio 2016, n. 144 (Regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri
nell’archivio dello stato civile, ai sensi dell’articolo 1, comma 34, della legge 20 maggio 2016, n. 76), e il
d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, nelle quali sia stata esercitata l’opzione per il cognome comune e sia stata
altresì effettuata la variazione anagrafica prevista dall’art. 4 del citato d.P.C.m. e successivamente esclusa
dall’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017.
Va ribadito che la delega conferita dall’art. 1, comma 28, lettera a), della legge n. 76 del 2016 aveva ad
oggetto «[l’] adeguamento […] delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni,
trascrizioni e annotazioni» alle previsioni della stessa legge sulle unioni civili, con salvezza delle
disposizioni da essa direttamente introdotte, ed in particolare di quella di cui all’art. 1, comma 10,
dedicato alla disciplina del cognome comune delle unioni civili.
Come si è visto nel precedente punto 4., il legislatore delegato ha dapprima esplicitato il significato del
principio posto dall’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016, escludendo la valenza anagrafica del
cognome comune. Con il successivo art. 8, e sempre al fine dell’adeguamento della disciplina dello stato
civile, ha previsto la caducazione delle annotazioni effettuate medio tempore, in applicazione di una fonte
normativa, provvisoria e di carattere secondario, non coerente con i principi della delega.
5.2.– Non è ravvisabile neppure la denunciata violazione degli artt. 2, 11 e 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in riferimento all’art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE. Nella prospettazione del
rimettente, tali censure sono ricondotte al sacrificio del diritto alla conservazione del cognome comune da
parte di chi lo abbia acquisito nel vigore dell’art. 4, comma 2, del d.P.C.m. n. 144 del 2016.
Introdotto da una disposizione destinata ad applicarsi in attesa dell’entrata in vigore dei decreti legislativi
previsti dalla legge n. 76 del 2016, l’effetto modificativo della scheda anagrafica rivestiva la medesima
natura provvisoria della fonte regolamentare che l’aveva previsto e che era destinata a cessare per
effetto dei successivi decreti legislativi. La dichiarata transitorietà del d.P.C.m. in esame e la relativa
brevità del suo orizzonte temporale di riferimento portano ad escludere che le novità da esso introdotte
abbiano determinato un ragionevole affidamento in ordine all’emersione e al consolidamento di un nuovo
tratto identificativo della persona. Ne consegue che la previsione dell’annullamento delle variazioni
anagrafiche già effettuate non può ritenersi lesiva di una nuova identità personale, ancora non affermata.
Pertanto, non risulta conferente il richiamo alla sentenza n. 13 del 1994, con la quale è stata dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 165 del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato
civile), per violazione dell’art. 2 Cost., nella parte in cui esso non prevedeva che, ove la rettifica degli atti
dello stato civile, per ragioni indipendenti dalla volontà del soggetto, comporti il cambiamento del
cognome, il soggetto stesso possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il
cognome originariamente attribuitogli.
In quella occasione, l’esigenza di protezione dell’interesse alla conservazione del cognome è stata
riconosciuta «[…] in presenza di una situazione nella quale con quel cognome la persona sia ormai
individuata e conosciuta nell’ambiente ove vive […]», ciò che non può ritenersi verificato nel caso in
esame.
5.3.– Non è fondata, infine, la censura di irragionevolezza proposta dal rimettente in riferimento
all’indicazione legislativa del procedimento di cui all’art. 98 del d.P.R. n. 396 del 2000 per l’annullamento
delle variazioni anagrafiche effettuate in base all’art. 4 del citato d.P.C.m.
Il modello procedimentale prescelto dal legislatore delegato prevede, in particolare, che del
provvedimento sia data comunicazione agli interessati, al procuratore della Repubblica ed al prefetto. A
partire da questa comunicazione gli interessati hanno trenta giorni per proporre ricorso al tribunale, a
norma dell’art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000. Lo stesso termine è previsto per il procuratore della
Repubblica che può proporre ricorso contro la correzione effettuata dall’ufficiale dello stato civile.
Si tratta dunque di una procedura che garantisce il contraddittorio con la parte interessata attraverso la
proposizione di un ricorso e l’instaurazione di un giudizio di fronte ad un tribunale (come è avvenuto
proprio nel giudizio a quo).
E, se è vero che la procedura indicata contempla il contraddittorio e l’intervento del giudice in una fase
differita, si tratta pur sempre di uno strumento processuale che consente alle parti coinvolte di contestare
l’annullamento di variazioni anagrafiche. L’art. 8 in esame prescrive dunque l’utilizzo di uno schema
procedimentale, già previsto nel sistema dell’ordinamento dello stato civile, ancorché utilizzato per
differenti evenienze. La legittimità del rinvio a tale modello non è inficiata dall’estensione del suo ambito
applicativo a ulteriori fattispecie, differenti da quelle per le quali esso era originariamente previsto.
Per questi motivi
la Corte Costituzionale
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8
del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento
dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni
normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c),
della legge 20 maggio 2016, n. 76», sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento all’art. 22
della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), del
d.lgs. n. 5 del 2017, sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 76 e
117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007,
con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017,
sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 76 e 117, primo comma,
Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE, con l’ordinanza
indicata in epigrafe.

E’ sempre reato non provvedere ai bisogni dei figli minori, anche se vi sono altri soggetti che si occupano della prole.

Cass. del 22 novembre 2018, n.52663.
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza impugnata, la Corte di Appello di Palermo ha in parte riformato quella di
condanna emessa dal Tribunale di Palermo il 14/04/2016 nei confronti di Ce. An. in ordine al reato
di cui all’art. 570, comma 2 cod. pen., riducendo la pena inflittagli dal primo giudice alla misura
finale di due mesi di reclusione ed Euro 200,00 di multa e concedendogli il beneficio della non
menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato che con due motivi deduce
vizio di motivazione riguardo alla dedotta insussistenza della prova dello stato di bisogno dei
soggetti beneficiari, per contro ribadita dalla Corte territoriale asseritamente in contrasto con la più
recente giurisprudenza di legittimità e violazione di legge più vizi di motivazione in relazione agli
artt. 43 e 570 cod. pen. nonché 125 e 546 cod. proc. pen. in punto di valutazione della sussistenza
dell’elemento psicologico del reato per cui è intervenuta condanna.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è manifestamente infondato e come tale va dichiarato inammissibile.
2. La corte territoriale ha correttamente rilevato che ‘alla stregua del consolidato orientamento
giurisprudenziale della Corte di Cassazione, la minore età dei figli costituisce essa stessa, in via
presuntiva, una condizione di bisogno, cui consegue ex lege l’obbligo per i genitori di assicurare
loro i mezzi di sussistenza, obbligo che non viene meno neppure qualora al sostentamento del
minore provveda l’altro genitore o un terzo (Cass. pen., Sez. 6, sent. 18749/2015)’ (pag. 4 sent.).
Risulta, dunque, asserzione palesemente destituita di fondamento, oltre tutto fondata su frasi
estrapolate dal contesto sotteso alle due decisioni di legittimità indicate a sostegno, quella secondo
cui lo stato di bisogno non inerisca de iure alla condizione di minore età dei soggetti beneficiari
degli obblighi di assistenza di cui all’art. 570 cod. pen. (nel senso della riaffermazione del principio,
v. anzi Sez. 6, n. 53607 del 20/11/2014, PC in proc. S, Rv. 261871, decisione più recente secondo
l’ordine cronologico di massimazione).
La seconda doglianza risulta, invece, semplicemente improponibile ai sensi dell’art. 606, comma 3
cod. proc. pen. poiché investe direttamente l’oggetto del giudizio, sotto il profilo della valutazione
della sussistenza del dolo del reato ipotizzato, rimessa alla esclusiva competenza del giudice di
merito.
3. Alla dichiarazione d’inammissibilità dell’impugnazione segue, come per legge, la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma in favore della cassa
delle ammende, che stimasi equo quantificare in Euro 2.000,00 (duemila).
P. Q. M.
dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e
della somma di Euro duemila in favore della cassa delle ammende.

Due mamme, un diritto al nome, nell’interesse superiore del bambino.

Tribunale di Genova, 8 novembre 2018
emette il seguente
DECRETO
nel procedimento iscritto al n. 5917\2018
IN FATTO
___ L_ ___ e ____ G____ dall’estate dell’anno 2012 intrattengono una stabile relazione
sentimentale e convivono presso l’abitazione di proprietà di ____ G____ in Genova, Passo ____,
sulla base di un comune progetto di famiglia le ricorrenti hanno maturato la decisione di avere un
figlio, nel dicembre del 2016 si sono rivolte alla clinica “Institut Marques” di Barcellona, Spagna, al
fine di iniziare la “Fecondazione in vitro reciproca con trasferimento embrionario e congelamento
embrionaria con ovociti ottenuti da una delle pazienti (paziente donatrice) e trasferimento
embrionario nell’utero della compagna (paziente ricevente)”, le ricorrenti hanno convenuto che
____ L_____ si sarebbe sottoposta alla stimolazione ovarica, al fine di poter fecondare i di lei ovuli,
mentre ____ G____ avrebbe ricevuto l’embrione fecondato e avrebbe portato avanti la gravidanza,
nel mese di febbraio 2017 gli ovuli di _____ L_____ sono stati fecondati con gli spermatozoi di un
donatore anonimo e successivamente un embrione è stato impiantato nell’utero di ____ G_____, il
__ novembre 2017, presso l’Ospedale San Martino di Genova, è nata la bambina a cui è stato dato il
nome A____.
In data 20 novembre 2017 le ricorrenti hanno presentato istanza di riconoscimento della doppia
maternità al Comune di Genova, con indicazione nel certificato di nascita di A____ in qualità di
genitori sia di ____ G____, madre che la ha partorita, sia _____ L____.
In data 11/12/17 il Comune di Genova ha reso il rifiuto “di iscrivere la bambina nata il 16/11/17, cui
è stato imposto il nome di A_____, con l’indicazione della qualità di madre sia della Sig.ra _____
G______, sia della Sig.ra L____ ____” che è oggetto del ricorso in oggetto.
IN DIRITTO
La giurisprudenza di merito nell’ambito di situazioni di adozioni di bambini da parte di coppie
omosessuali si è più volte pronunciata «nell’ipotesi di minore concepito e cresciuto nell’ambito di
una coppia dello stesso sesso, sussiste il diritto ad essere adottato dalla madre non biologica,
secondo le disposizioni sulla adozione in casi particolari ex art. 44 lett. D della Legge 4 maggio
1983, n. 184, sussistendo, in ragione del rapporto genitoriale di fatto instauratosi fra il genitore
sociale ed il minore, l’interesse concreto del minore al suo riconoscimento; la sussistenza di tale
rapporto genitoriale di fatto e del conseguente superiore interesse al riconoscimento della
bigenitorialità devono essere operate in concreto sulla base delle risultanze delle indagini psicosociali»
La Corte Suprema ha aderito e fatto proprio questo indirizzo giurisprudenziale con la sentenza 26
maggio 2016 osservando che l’ipotesi di adozione in casi particolari ex art. 44 lett. D della Legge 4
maggio 1983, n. 184 può trovare applicazione anche in caso di impossibilità giuridica di
affidamento preadottivo per non essere il minore dichiarato in stato di abbandono sussistendo un
genitore biologico che ne ha cura; la norma può pertanto trovare applicazione anche nel caso in cui
sussista l’interesse concreto del minore al riconoscimento del rapporto genitoriale di fatto
instauratosi con l’altra figura genitoriale sociale, seppure dello stesso sesso.
In ambito legislativo è intervenuta la legge n. 76 del 2016 che ha fatto rientrare nel concetto di
famiglia anche le coppie formate da persone dello stesso sesso, ove sussistenti vincoli affettivi, con
l’articolo I comma 20: “al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno
adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le
disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge »,
«coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei
regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna
delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo
precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente
legge, nonché alle disposizioni dì cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184.”
Quale naturale prosecuzione e sviluppo di un filone giurisprudenziale che ha ritenuto legittima
l’adozione di un bambino ai sensi dell’ art. 44, comma 1, lett . d) l. n. 184/1983 da parte di una
coppia omosessuale, non esistendo nell’ordinamento italiano alcun divieto al riconoscimento della
genitorialità di coppie dello stesso sesso.
Si richiama nella giurisprudenza di merito in questa direzione orientata l’evoluzione del diritto di
famiglia italiano, con riferimento specifico alla determinazione dello status filiationis e, dunque, dei
diversi modelli di genitorialità che ad esso possono dare luogo e rispettivamente, quella da
procreazione naturale, quella adottiva, e quella da procreazione medicalmente assistita, in merito a
tale ultimo modello di genitorialità, nell’ambito della quale assume importanza centrale la
consapevole assunzione di responsabilità genitoriale all’atto di intraprendere un percorso di
procreazione assistita: in tale tipo di procreazione “l’elemento volontaristico/consensuale è
assolutamente preminente rispetto al dato della derivazione genetica ai fini della determinazione
della filiazione e dell’acquisizione dei relativi status” e, pertanto, accanto ad una genitorialità
biologica esiste, nel nostro ordinamento, una “genitorialità affettiva e psicologica” oggetto di
specifica disciplina nella legge n. 40/2004, con riguardo agli effetti del consenso alla tecnica di
p.m.a. sulla determinazione della filiazione disciplinati agli artt. 6, 8 e 9, modalità di determinazione
della filiazione inserita in un percorso evolutivo del nostro ordinamento che, anche in relazione alla
genitorialità biologica, ha riconosciuto rilievo sempre maggiore non solo e non tanto alla
salvaguardia di situazioni di fatto consolidate, ma anche alla loro conservazione sulla base del
consenso dei soggetti interessati, richiamando anche i principi sottesi alla pronuncia della la Corte
Costituzionale n. 272/17 per cui l’eventuale illiceità della tecnica procreativa cui si sia fatto ricorso
non cancella automaticamente l’interesse del minore alla conservazione dello status così acquisito,
tanto che la legge n. 40/2004 facendo discendere la determinazione della filiazione al consenso alla
tecnica, indipendentemente dalla sua liceità in attuazione dei principi fondanti l’unicità dello status
di figlio nella riforma della filiazione.
La non contrarietà all’ordine pubblico dell’omogenitorialità, l’evoluzione del diritto di famiglia, la
più ampia tutela riconosciuta alle unioni affettive diverse dal matrimonio, sia eterosessuali che
omosessuali, costituiscono il perno di diverse sentenze di merito secondo cui l’omogenitorialità si
inserisce nelle diverse forme di esercizio dell’autodeterminazione affettiva e familiare riconosciute
dal nostro ordinamento, per cui “se l’unione tra persone dello stesso sesso è una formazione sociale
ove la persona ‘svolge la sua personalità’ e se la scelta di diventare genitori e di formare una
famiglia costituisce ‘espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi delle
persone… deve escludersi che “la tutela offerta alle coppie dello stesso sesso sia solo di tipo
orizzontale e che esista a livello di principi generali dell’ordinamento un divieto per le coppie dello
stesso sesso di accogliere e generare figli”… “l’assetto giuridico è sempre più complesso e
variegato ed in questo settore non si può più fare esclusivo riferimento ai concetti tradizionali di
paternità, maternità, filiazione, derivanti dal dato procreativo naturale”.
“Nel caso di minore nato….da coppia omosessuale, in seguito alla fecondazione medicalmente
assistita eterologa con l’impianto di gameti da una donna all’altra, l’atto di nascita del fanciullo può
essere trascritto in Italia poiché, nel caso in questione, non si tratta di introdurre ex novo una
situazione giuridica inesistente ma di garantire la copertura giuridica ad una situazione di fatto in
essere da diverso tempo, nell’esclusivo interesse di un bambino che è stato cresciuto da due donne
che la legge riconosce entrambe come madri. Assume rilievo determinante la circostanza che la
famiglia esista non tanto sul piano dei partners ma con riferimento alla posizione, allo status e alla
tutela del figlio. Nel valutare il best interest per il minore non devono essere legati fra loro, il piano
del legame fra i genitori e quello fra genitore-figli: l’interesse del minore pone, in primis, un vincolo
al disconoscimento di un rapporto di fatto, nella specie validamente costituito fra la co-madre e un
figlio.” ( v. Corte d’Appello di Torino, sezione famiglia, decreto del 29 ottobre 2014)
In conclusione e conseguenza, la genitorialità della madre non biologica deve avere un riscontro
anche formale nel certificato emesso dallo Stato Civile, a cui consegue e che consente quella stessa
tutela che hanno i figli di coppie eterosessuali, nelle ipotesi come quella in esame, per cui deve
essere accolta la richiesta di rettifica.
Va dichiarato illegittimo il rifiuto dell’Ufficiale dello stato civile del Comune di Genova di
attribuire a A_____ G_____ in aggiunta al cognome ____ G_____ anche quello ____ L_____ e
per l’effetto deve essere ordinata la rettificazione dell’atto di nascita
P.Q.M.
il Tribunale accoglie il ricorso e ordina all’Ufficiale di stato civile del Comune di Genova di
procedere alla rettificazione dell’atto di nascita della minore A____ G_____, nata a Genova il
__.11.17 con l’indicazione della doppia genitorialità in capo alle ricorrenti _____ G_____ e ____
L_____, mediante l’annotazione della ricorrente ____ L______ quale secondo genitore della minore
e l’inserimento del cognome L_____ dopo quello G______, ordina l’annotazione di questo decreto
a margine dell’atto di stao civile del Comune di Genova.
Manda la cancelleria per la comunicazione alla parte ricorrente, al PM e all’Ufficiale dello Stato
Civile.
Così deciso lì 08-11-2018.
Il Presidente
Dott. Daniela Canepa

Anche il padre in detenzione domiciliare “ordinaria” che si allontana al massimo dodici ore per la cura della prole (di età inferiore ai dieci anni) non commette il reato di evasione

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, commi 1, lettera b), e 8, dellaL. 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dalla Corte d’appello di Firenze, nel procedimento penale a carico di W. B.R., con ordinanza del 19 settembre 2017, iscritta al n. 196 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Udito nella camera di consiglio del 24 ottobre 2018 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
1.- Con ordinanza del 19 settembre 2017, la Corte d’appello di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, commi 1, lettera b), e 8, dellaL. 26 luglio 1975, n. 354(Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), per violazionedell’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui non limita la punibilità, ai sensidell’art. 385 del codice penale, del padre di prole di età inferiore ad anni dieci al solo allontanamento dal domicilio che si protragga per più di dodici ore.
2.- Ricorda il giudice rimettente che W. B.R., con sentenza del Tribunale di Firenze del 20 maggio 2013, è stato condannato alla pena di sei mesi di reclusione ai sensidell’art. 385 cod. pen., poiché – mentre era detenuto nel proprio domicilio “secondo l’art. 47 ter commi 1bis e 8 L. 26 luglio 1975, n. 374” – aveva violato la prescrizione di non allontanarsi dalla propria abitazione in orario diverso dall’intervallo tra le ore 10,00 e le ore 12,00 di ogni giorno, per il quale era autorizzato.
Nel giudizio di primo grado, il Tribunale di Firenze aveva ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, eccepita dalla difesa di W. B.R., “dell’art. 47 ter commi 1 bis e 8 L. 26 luglio 1975, n. 374 in relazioneall’art. 3 comma 2 della Costituzione”, ritenendo di non discostarsi dal principio secondo cui l’allontanamento dall’abitazione del condannato ammesso alla detenzione domiciliare è punito ai sensidell’art. 385 cod. pen.qualunque ne sia la durata, e osservando che la disposizione censurata era già stata oggetto di declaratoria di illegittimità costituzionale con esclusivo riferimento alla situazione della madre di prole di età non superiore a dieci anni.
Nel giudizio di secondo grado, la difesa di W. B.R. ha eccepito nuovamente la questione di legittimità costituzionale, ma la Corte d’appello di Firenze, con sentenza del 9 dicembre 2015, ha dichiarato inammissibile il gravame, perché – a suo avviso – esclusivamente preordinato a sollevare la questione.
La Corte di cassazione, sezione sesta penale, adita dalla difesa dell’imputato, con sentenza del 15 febbraio 2017, n. 11955, ha annullato con rinvio la decisione della Corte d’appello, ribadendo – secondo il proprio costante orientamento – che il ricorso che si sostanzia nella formulazione di una questione di legittimità costituzionale è ammissibile poiché tale motivo di doglianza costituisce denuncia di una violazione di legge.
La Corte d’appello rimettente, innanzi alla quale il giudizio è ora pendente, ricorda che l’appellante ha impugnato la sentenza di primo grado sottolineando di essere stato ammesso alla detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit. – e non ai sensi del comma 1-bis del medesimo articolo, come erroneamente ritenuto dal Tribunale di Firenze – per prendersi cura della figlia di sei mesi, data l’impossibilità della madre invalida a dare assistenza alla minore. Ha quindi rinnovato la richiesta di sollevare la questione di legittimità costituzionale.
Accogliendo l’istanza della parte, la Corte d’appello di Firenze eccepisce dunque l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, commi 1, lettera b), e 8, ordin. penit., per violazionedell’art. 3 Cost.
3.- In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo rileva come la situazione del padre di prole di età inferiore ad anni dieci che sia ammesso alla detenzione domiciliare “ordinaria”, ex art. 47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit., quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, non differisce da quella del padre che, ai sensi del successivo art. 47-quinquies, comma 7, sia ammesso alla detenzione domiciliare speciale, se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre. In entrambi i casi il padre è ammesso a tali misure per prendersi cura dei figli minori.
Ritiene il rimettente che sia allora contrario ai principi di ragionevolezza ed uguaglianza sanzionare diversamente l’allontanamento dal domicilio del padre che si trovi in detenzione domiciliare “ordinaria” e quello del padre che invece sia stato ammesso alla detenzione domiciliare speciale.
Sarebbe in particolare irragionevole la previsione di cui al comma 8 dell’art. 47-ter ordin. penit. che, per il padre ammesso alla detenzione domiciliare “ordinaria”, ne sanziona penalmente l’allontanamento dal domicilio, quale ne sia la durata, exart. 385 cod. pen., mentre l’art. 47-sexies della medesima legge esclude, per il condannato ammesso alla detenzione domiciliare speciale, la rilevanza penale dell’allontanamento del domicilio che non si protragga per più di dodici ore, qualunque sia il motivo.
Ricorda il rimettente che la Corte costituzionale, con sentenza n. 177 del 2009, ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, commi 1, lettera a), seconda parte, e 8, ordin. penit., che regola la detenzione domiciliare “ordinaria” della madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente, “nella parte in cui non limita la punibilità ai sensidell’art. 385 del codice penaleal solo allontanamento che si protragga per più di 12 ore, come stabilito dall’art. 47 sexies, comma 2, della suddetta legge, sul presupposto di cui all’art. 47 quinquies, comma 1, della medesima legge, che non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti”.
Osserva il giudice a quo come la condizione della madre che si trovi in detenzione domiciliare “ordinaria”, oggetto della pronuncia di incostituzionalità, sia “sostanzialmente identica” a quella in cui versa l’imputato W. B.R. Peraltro, con riferimento a quest’ultimo, il magistrato di sorveglianza aveva escluso, al momento della concessione della detenzione domiciliare, il pericolo di commissione di ulteriori delitti, rilevando che l’effetto deterrente della carcerazione già sofferta appariva “idoneo ad orientare il futuro comportamento del reo in senso socialmente adeguato”.
4.- Quanto alla rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata, la Corte d’appello di Firenze ricorda che il magistrato di sorveglianza, conProvv. del 28 novembre 2008, aveva concesso la detenzione domiciliare a W. B.R. ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit., in quanto la pena da espiare era inferiore ai tre anni di reclusione, egli era padre di una bambina nata il 13 agosto 2008 e la madre, a causa delle proprie condizioni di salute, era assolutamente impossibilitata a prendersi cura della minore.
Precisa, inoltre, il rimettente che l’allontanamento dal domicilio di W. B.R. non si era protratto per più di dodici ore, essendo stato accertato che egli si trovava fuori dall’abitazione alle ore 21,40 e alle ore 22,10, mentre, in occasione dei controlli successivi, era stato sempre trovato in casa.
Evidenzia, infine, come l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale determinerebbe la non rilevanza penale del fatto.
Motivi della decisione
1.- La Corte d’appello di Firenze dubita della legittimità costituzionale, in riferimentoall’art. 3 della Costituzione, dell’art. 47-ter, commi 1, lettera b), e 8, dellaL. 26 luglio 1975, n. 354(Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non limita la punibilità, ai sensidell’art. 385 del codice penale, del padre di prole di età inferiore ai dieci anni al solo allontanamento dal domicilio che si protragga per più di dodici ore.
L’art. 47-ter ordin. penit. consente, al comma 1, lettera b), che, in caso di decesso o impossibilità assoluta della madre a dare assistenza alla prole di età inferiore ad anni dieci, la detenzione domiciliare sia concessa al padre. Al successivo comma 8 è stabilito che il condannato che si allontani dalla propria abitazione è punito ai sensidell’art. 385 cod. pen., quale che sia la durata dell’allontanamento.
Secondo il rimettente, tali disposizioni si porrebbero in contrasto conl’art. 3 Cost., in quanto l’allontanamento ingiustificato del padre ammesso alla detenzione domiciliare “ordinaria” per prendersi cura dei figli, ai sensi del citato art. 47-ter, comma 1, lettera b), sarebbe regolato in modo deteriore rispetto a quello del padre ammesso alla diversa misura della detenzione domiciliare speciale in caso di decesso o impossibilità assoluta della madre, se non vi è modo di affidare ad altri la prole, ai sensi dell’art. 47-quinquies, comma 7, ordin. penit. Infatti, in tale seconda ipotesi, secondo quanto disposto dal successivo art. 47-sexies, l’allontanamento dal domicilio, senza giustificato motivo, è punito, exart. 385 cod. pen., solo se si protrae per più di dodici ore.
Evidenzia, in particolare, il rimettente che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 177 del 2009, ha già dichiarato costituzionalmente illegittime le disposizioni censurate, nella parte in cui punivano più severamente l’allontanamento dal domicilio della madre di minore di anni dieci ammessa alla detenzione domiciliare “ordinaria”, rispetto a quello della madre in detenzione domiciliare speciale.
2.- La questione è fondata.
2.1.- Nell’appena ricordata sentenza n. 177 del 2009 di questa Corte è già stata evidenziata l’identica finalità perseguita dal legislatore attraverso la disciplina delle due forme di detenzione domiciliare, quella “ordinaria”, quando concessa ai genitori di prole di età inferiore ai dieci anni con loro conviventi, e quella speciale.
Pur applicabili sulla base di diversi presupposti – la detenzione domiciliare “ordinaria” può essere disposta laddove la pena da espiare non sia superiore a quattro anni, mentre quella speciale riguarda detenuti che debbano scontare una pena maggiore e purché non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti – entrambe le misure sono primariamente indirizzate a consentire la cura dei figli minori, al contempo evitando l’ingresso in carcere dei minori in tenera età (sentenze n. 76 del 2017, n. 239 del 2014 e n. 177 del 2009).
Peraltro, a differenza della prima, solo la detenzione domiciliare speciale (istituto più recente, previsto dallaL. 8 marzo 2001, n. 40, recante “Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori”) è interamente ed esclusivamente diretta ai genitori di minori in tenera età, ed è accompagnata da una disciplina più flessibile in caso di ritardo nel rientro nel domicilio, proprio per venire incontro ai contingenti e imprevisti bisogni derivanti dalla cura dei bambini (sentenza n. 177 del 2009). Infatti, l’art. 47-sexies, comma 2, ordin. penit. dispone che incorre nel reato di evasione, di cuiall’art. 385, primo comma, cod. pen., la condannata ammessa al regime della detenzione domiciliare speciale che rimane assente dal proprio domicilio, senza giustificato motivo, per più di dodici ore. Per assenze di durata inferiore il comma 1 dello stesso articolo 47-sexies prevede invece che ella possa essere proposta per la revoca della misura: escluso ogni automatismo, viene lasciato al giudice il compito di esaminare caso per caso, attribuendo il giusto peso all’interesse del minore, l’opportunità di sanzionare con la revoca comportamenti della condannata non giustificabili dal punto di vista della doverosa osservanza delle prescrizioni che accompagnano il regime della detenzione domiciliare. Infine, il legislatore ha cura di escludere in radice qualunque disparità di trattamento tra madre e padre in ordine al regime dell’allontanamento senza giustificato motivo dal domicilio, prevedendo esplicitamente (art. 47-sexies, comma 4, ordin. penit.) che il regime più tollerante si applica anche al padre detenuto, qualora la detenzione domiciliare speciale sia stata concessa a questo in luogo della madre.
Invece, l’art. 47-ter, comma 8, ordin. penit., con disposizione dettata per tutte le categorie di detenuti ammessi alla detenzione domiciliare “ordinaria”, stabilisce semplicemente che il condannato che si allontana dalla propria abitazione è punito ai sensidell’art. 385 cod. pen.Per questi casi, quindi, anche un breve ritardo rispetto alle prescrizioni che accompagnano la concessione della detenzione domiciliare “ordinaria” – e quale che sia la ragione di esso – integra il reato di evasione.
Investita di una questione relativa alla ragionevolezza di tale più severo trattamento sanzionatorio dell’allontanamento dal domicilio, con riferimento ad una madre in detenzione domiciliare “ordinaria”, questa Corte, con la già citata sentenza n. 177 del 2009, ha innanzitutto affermato che costituisce un tertium comparationis omogeneo e pertinente la corrispondente, ma più flessibile, disciplina degli allontanamenti dal domicilio applicabile alla madre che si trovi in detenzione domiciliare speciale. E, riconosciuta l’identica finalità perseguita dal legislatore attraverso le norme che regolano le due forme di detenzione domiciliare, sottolineato altresì il paradosso che il trattamento più severo riguardasse madri che hanno da scontare pene inferiori, ha conseguentemente affermato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1, lettera a), ordin. penit., nella parte in cui non prevede l’applicazione del trattamento più flessibile anche agli allontanamenti della madre in detenzione domiciliare “ordinaria”.
2.2.- Il medesimo ragionamento non può che essere esteso al raffronto del trattamento penale degli allontanamenti dal domicilio dei detenuti padri, che il giudice a quo propone nell’ordinanza di rimessione qui in esame. D’altro canto – a prescindere da ulteriori differenze, qui non rilevanti, in ordine ai presupposti per la concessione al padre della detenzione domiciliare “ordinaria” ovvero di quella speciale (sulle quali, in particolare, ordinanza n. 211 del 2009) – una volta che questi sia ammesso ad una di tali misure, non può che essergli applicato il medesimo regime previsto per la madre.
Stante la già ricordata, identica finalità dei due istituti relativi alla detenzione domiciliare, in quanto applicati a genitori con figli minori di dieci anni, non può pertanto che ripetersi come sia priva di giustificazione, anche in relazione al padre che si trovi in detenzione domiciliare “ordinaria” per esigenze di cura della prole, la maggior severità del regime sanzionatorio previsto dalle disposizioni censurate. Per queste ultime, infatti, anche un breve ritardo rispetto alle prescrizioni che accompagnano la concessione della detenzione domiciliare, e quale che sia la ragione di esso, integra il reato di evasione. E la loro manifesta irragionevolezza emerge proprio al cospetto della duttilità della disciplina disegnata invece dal legislatore in riferimento alle assenze ingiustificate dei genitori ammessi alla detenzione domiciliare speciale, ai cui sensi solo l’assenza protratta oltre le dodici ore integra il reato di cuiall’art. 385, primo comma, cod. pen.Anche nel caso in esame, poi, non può che sottolinearsi il paradosso che il trattamento più severo dell’allontanamento dal domicilio si applichi al genitore in detenzione domiciliare “ordinaria”, che ha da scontare una pena inferiore rispetto a quella inflitta a un padre ammesso alla detenzione domiciliare speciale.
In definitiva, valgono per il padre ammesso alla detenzione domiciliare “ordinaria”, al fine di prendersi cura della prole in tenera età, le stesse esigenze naturalmente connesse alle attività rese indispensabili dalla cura dei bambini, come per il padre in detenzione domiciliare speciale. Tali esigenze possono, allo stesso modo, imporre l’allontanamento dal domicilio e risentono anch’esse, inevitabilmente, delle contingenze e degli imprevisti derivanti dal soddisfacimento dei bisogni dei minori (come per esempio la frequenza scolastica, le cure mediche, le attività ludiche e socializzanti: sentenza n. 177 del 2009). Ed è pertanto manifestamente irragionevole che anche agli allontanamenti dal domicilio del padre in tale condizione non si applichi il più flessibile regime previsto dall’art. 47-sexies, commi 2 e 4, ordin. penit.
2.3.- L’art. 47-quinquies, comma 1, ordin. penit. prevede, tra i requisiti per la concessione della detenzione domiciliare speciale, la verifica che non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti. Accanto alla maggiore comprensione per le esigenze inerenti al rapporto tra genitori e figli in tenera età, che si manifesta nel più duttile trattamento penale degli allontanamenti dal domicilio, la legge prevede pertanto, prima della concessione del beneficio, la formulazione di una ragionevole prognosi di non recidiva. Tale punto di equilibrio tra esigenze di difesa sociale, da una parte, e considerazione dei bisogni dei minori e delle attività genitoriali destinate a soddisfarli, dall’altra, costituisce aspetto essenziale di un istituto, quale la detenzione domiciliare speciale disegnata dagli artt. 47-quinquies e 47-sexies ordin. penit., che obbedisce ad una “logica unitaria e indivisibile” (sentenza n. 177 del 2009).
Pertanto, proprio alla luce di tale logica, nella sentenza n. 177 del 2009, estendendo alla madre in detenzione domiciliare “ordinaria” la più favorevole disciplina dettata per gli allontanamenti ingiustificati di quella in detenzione domiciliare speciale, questa Corte ritenne indispensabile abbinare a tale estensione anche l’esplicita previsione della prognosi che non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti.
Non sussistono ragioni per non ribadire tale necessità anche in occasione della estensione del regime di maggior favore al padre in detenzione domiciliare “ordinaria”.
Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1, lettera b), e 8 ordin. penit., nella parte in cui non limita la punibilità, ai sensidell’art. 385 cod. pen., al solo allontanamento che si protragga per più di dodici ore, come stabilito dall’art. 47-sexies, commi 2 e 4, della medesima legge, sul presupposto, di cui al precedente art. 47-quinquies, comma 1, che non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1, lettera b), e 8, dellaL. 26 luglio 1975, n. 354(Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non limita la punibilità ai sensidell’art. 385 del codice penaleal solo allontanamento che si protragga per più di dodici ore, come stabilito dall’art. 47-sexies, commi 2 e 4, della suddettaL. n. 354 del 1975, sul presupposto, di cui all’art. 47-quinquies, comma 1, della medesima legge, che non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 ottobre 2018.
Depositata in Cancelleria il 22 novembre 2018.

Al vaglio delle SSUU la questione se un immobile abusivo possa costituire oggetto di divisione ereditaria.

Cassazione 16 ottobre 2018, n. 25836
Con atto di citazione del 22.7.2003, la CURATELA DEL FALLIMENTO DI L.R.C.
conveniva in giudizio, avanti al Tribunale di Palermo, Sezione distaccata di Bagheria,
L.R.M.G. e L.R.F. per ottenere la divisione del fabbricato destinato a civile abitazione, sito
in (OMISSIS) , procedendo allo scioglimento della comunione tra i germani L.R.M.G. , F. e
C. , comproprietari di detto immobile, onde assegnare alla curatela quella parte del
cespite, pari al valore dei 2/9, corrispondente alla quota di spettanza del fallito L.R.C. ;
che, nella contumacia dei convenuti, espletata C.T.U., il Tribunale, con sentenza n.
125/2006, depositata il 12.4.2006, rigettava le domande attoree, ponendo le spese di lite a
carico della parte attrice;
che, avverso detta sentenza, la Curatela proponeva appello chiedendone la riforma;
mentre gli appellati, nuovamente, non si costituivano in sede di gravame;
che, disposte ulteriori indagini tecniche, la Corte d’Appello di Palermo, con la sentenza n.
868/2013, depositata il 23.5.2103, confermava la sentenza di primo grado, rigettando
l’appello.
Fatto e diritto
Rilevato:
che, avverso detta sentenza, propone ricorso per cassazione la Curatela del fallimento di
L.R.C. sulla base di due motivi:
che, con il primo motivo di ricorso, la Curatela deduce la “Violazione e falsa applicazione
degli artt. 17, comma 1, e 40, comma 2, della L. n. 47/1985 e dell’art. 46, comma 1 del
D.P.R. n. 380/2001 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.”, sull’assunto che la Corte
d’Appello avrebbe violato e falsamente applicato, tanto l’art. 17, comma 1, della L. n.
47/1985, e l’art. 46, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 che lo ha abrogato e sostituito
recependone il disposto (secondo cui “Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma
privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di
diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo
1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione
dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Tali
disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di
garanzia o di servitù”); tanto l’art. 40, comma 2, della stessa L. n. 47/1985, che
analogamente dispone per abusi edilizi realizzati prima dell’entrata in vigore della legge
(prevedendo che “Gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali, esclusi quelli di costituzione,
modificazione ed estinzione di diritti di garanzia o di servitù, relativi ad edifici o loro parti,
sono nulli e non possono essere rogati se da essi non risultano, per dichiarazione
dell’alienante, gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della
concessione rilasciata in sanatoria ai sensi dell’articolo 31 ovvero se agli stessi non viene
allegata la copia per il richiedente della relativa domanda, munita degli estremi
dell’avvenuta presentazione, ovvero copia autentica di uno degli esemplari della domanda
medesima, munita degli estremi dell’avvenuta presentazione e non siano indicati gli
estremi dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione di cui al sesto
comma dell’articolo 35”);
che la Corte di merito afferma che la comminazione della sanzione di nullità risponde alla
ratio pubblicistica di impedire il consolidarsi di gravi violazioni urbanistiche mediante la
circolazione dei beni abusivi, ritenuta confliggente con l’interesse superindividuale ad un
ordinato assetto dl territorio; e che, nella fattispecie, ad eccezione per il piano terra, gli
ulteriori piani erano stati costruiti tra il 1970 e il 1976 in modo abusivo e nessuno dei
documenti richiesti dalla legge era stato depositato nei due gradi di giudizio;
che la ricorrente ritiene che il Giudice di secondo grado abbia erroneamente ritenuto
ricompresa in tali fattispecie la presente divisione: in primo luogo, dal momento che le
opere abusive risalgono al periodo tra il 1970 e il 1976, la norma applicabile sarebbe l’art.
40, comma 2 della L. n. 47/1985 (e non l’art. 17, comma 1 della stessa legge), che, tra gli
atti nulli, non prevede lo scioglimento delle comunioni; e, in secondo luogo, perché anche
l’assunto della Corte territoriale, per cui la divisione ereditaria non sarebbe un atto mortis
causa, ma inter vivos, non risulta coerente ai principi enunciati, in materia, dalla
consolidata giurisprudenza di questa Corte (la ricorrente richiama a proposito quanto
affermato da Cass. n. 2313 del 2010, che ha precisato che l’art. 40 della L. n. 47/1985
limita il proprio campo di applicazione ai soli “atti tra vivi”, lasciando fuori gli atti mortis
causa; e che la divisione ereditaria, pur attuandosi dopo la morte del de cuius, costituisce
l’evento terminale della vicenda successoria e, quindi, non può considerarsi autonoma
rispetto a questa);
che, con il secondo motivo di ricorso, la Curatela lamenta la “Violazione e falsa
applicazione degli artt. 17, u.c. e 40, commi 5 e 6 della L. n. 47/1985 e dell’art. 46, comma
5 del D.P.R. n. 380/2001 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.”, là dove la Corte
d’Appello avrebbe erroneamente applicato l’art. 46, comma 5, del D.P.R. n. 380/2001, per
il quale “Le nullità di cui al presente articolo non si applicano agli atti derivanti da
procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali”, ritenendo che tali disposizioni
non si applichino al giudizio di scioglimento della comunione, qualora lo stesso sia
promosso da una procedura fallimentare relativamente alla quota posseduta dal fallito;
che, infatti, l’art. 46 u.c. del D.P.R. n. 380/2001 pone una deroga al principio generale
sancito dal primo comma, sicché trattandosi di norma eccezionale, è insuscettibile di
interpretazione estensiva o analogica e quindi il giudizio di divisione risulta autonomo
rispetto al procedimento di esecuzione, anche se trova occasione in esso, con la
conseguenza che, ove lo scioglimento della comunione si debba attuare con una vendita
giudiziale, tale atto non può qualificarsi atto del processo esecutivo;
che, dunque, per la ricorrente, anche la vendita effettuata nell’ambito del giudizio di
divisione per lo scioglimento della comunione, relativa a una quota del fallito, deve essere
qualificata come atto derivante da procedura esecutiva immobiliare, individuale o
concorsuale (giacché la vendita del bene del fallito prescinde dal consenso del
proprietario-venditore che, in quanto fallito, è privato della capacità di disporre dei propri
beni; ed è una vendita necessitata in quanto finalizzata al pagamento dei creditori).
Considerato:
che, con riferimento ad analoghe vicende, questa Corte ha rilevato come non possa
“restare senza rilievo il fatto che nel caso in esame si tratta di scioglimento di comunione
ereditaria, poiché la norma che si assume violata (art. 17, comma 1, della L. n. 47/1985),
pur riguardando anche gli atti di “scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad
edifici, o loro parti”, limita espressamente il proprio campo oggettivo di applicazione ai soli
“atti tra vivi”, lasciando, quindi, al di fuori tutta la categoria degli atti mortis causa”. Per
questa Corte, “è invero evidente che, come esattamente osservato da autorevole dottrina,
la divisione ereditaria, pur attuandosi dopo la morte del de cuius, costituisce l’evento
terminale della vicenda successoria e, quindi, rispetto a questa non può considerarsi
autonoma. Tale rilievo trova conferma nel dato positivo offerto dall’art. 757 cod. civ., che
assegna efficacia retroattiva alle attribuzioni scaturenti dall’atto divisionale. Peraltro,
diversamente opinando, si perverrebbe ad irragionevoli differenze di trattamento rispetto
ad ipotesi sostanzialmente omogenee, non potendosi in alcun modo giustificare l’esigenza
dell’applicazione della norma in esame alla divisione ereditaria e la non applicazione di
essa alla divisione operata del testatore oppure l’applicazione della norma all’ipotesi di
attribuzione ereditaria di un edificio a più soggetti e la non applicazione all’ipotesi di
attribuzione ereditaria dello stesso edificio ad un solo soggetto” (Cass. n. 15133 del 2001);
che (allorquando non risulta che si tratti di divisione ereditaria), “si applica quindi il
principio secondo cui (Cass. 28.11.2001, n. 15133) la nullità prevista dall’art. 17 della
legge n.47 del 1985 con riferimento a vicende negoziali relative a beni immobili privi della
necessaria concessione edificatoria, tra le quali sono da ricomprendere anche gli atti di
“scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, deve ritenersi
limitata ai soli “atti tra vivi”, rimanendo esclusa, quindi tutta la categoria degli atti mortis
causa” (Cass. n. 630 del 2003; nel senso che “la chiara lettera dell’art. 17, comma 1, L. n.
47/1985, (…) espressamente prevede la sanzione di nullità solo con riferimento agli atti tra
vivi, compreso lo scioglimento della comunione “relativi ad edifici, o loro parti, la cui
costruzione è iniziata dopo l’entrata in vigore della presente legge”: Cass. n. 14764 del
2005)”;
che, peraltro, è stato ribadito che “mentre la L. n. 47 del 1985, art. 17, prevede
espressamente la sanzione di nullità degli atti tra vivi, compreso lo scioglimento della
comunione, relativi soltanto ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo
l’entrata in vigore della legge, per quelli realizzati in epoca anteriore l’art. 40 della stessa
legge, pur specificando le singole categorie di atti fra vivi aventi ad oggetto diritti reali che
sono affetti da nullità, non prevede, fra essi, lo scioglimento delle comunioni. (Cass.
14764/05). Già in precedenza questa sezione aveva affermato (Cass. 15133/01) che “non
può restare senza rilievo il fatto che nel caso in esame si tratta di scioglimento di
comunione ereditaria, poiché la norma che si assume violata, pur riguardando anche gli
atti di “scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti”, limita
espressamente il proprio campo oggettivo di applicazione ai soli “atti tra vivi”, lasciando,
quindi, al di fuori tutta la categoria degli atti mortis causa. È invero, evidente che, come
esattamente osservato da autorevole dottrina, la divisione ereditaria, pur attuandosi dopo
la morte del de cuius, costituisce l’evento terminale della vicenda successoria e, quindi,
rispetto a questa non può considerarsi autonoma” (così, Cass. n. 2313 del 2010, per la
quale, tale rilievo trova conferma nel dato positivo offerto dall’art. 757 cod. civ., che
assegna efficacia retroattiva alle attribuzioni scaturenti dall’atto divisionale. Peraltro,
diversamente opinando, si perverrebbe ad irragionevoli differenze di trattamento rispetto
ad ipotesi sostanzialmente omogenee, non potendosi in alcun modo giustificare l’esigenza
dell’applicazione della norma in esame alla divisione ereditaria e la non applicazione di
essa alla divisione operata del testatore oppure l’applicazione della norma all’ipotesi di
attribuzione ereditaria di un edificio a più soggetti e la non applicazione all’ipotesi di
attribuzione ereditaria dello stesso edificio ad un solo soggetto”;
che, di conseguenza, “la divisione ereditaria non è condizionata dalla regolarizzazione
urbanistica dell’immobile di cui trattasi. Infatti, la nullità prevista dall’art. 17 I. n. 47/1985
con riferimento a vicende negoziali relative a beni immobili privi della necessaria
concessione edificatoria, tra le quali sono da ricomprendere anche gli atti di “scioglimento
della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti”, deve ritenersi limitata ai soli
“atti tra vivi”, rimanendo esclusa, quindi, tutta la categoria degli atti mortis causa, e di quelli
non autonomi rispetto ad essi tra i quali si deve ritenere compresa anche la divisione
ereditaria, quale atto conclusivo della vicenda successoria (Cass. 28 novembre 2001, n.
15133); lo stesso principio è poi da affermare con riferimento alla nullità comminata
dall’art. 40 della stessa legge (Cass. I febbraio 2010, n. 2313). Ne discende che nemmeno
la divisione giudiziale del compendio ereditario possa ritenersi subordinata al
conseguimento, da parte di condividenti, del titolo di regolarizzazione urbanistica” (Cass.
n. 20041 del 2016);
che, a sostegno dell’orientamento di questa Corte, anche la ricorrente deduce che la
comunione ereditaria prescinde dalla volontà dei compartecipi, in ragione del fatto che i
coeredi-comproprietari sono tali in forza di una successione proveniente dal de cuius, che
a suo tempo ha posto in essere la violazione di legge; che pertanto, la sanzione di nullità
non può ricadere su coloro che sono stati estranei alle vicende pregresse dell’immobile,
tenuto conto anche della circostanza per cui, in forza dell’art. 757 c.c., ogni coerede
succede nei limiti della propria quota e si considera come se non avesse mai avuto la
proprietà degli altri beni ereditari;
che, inoltre, a rafforzare la tesi, concorre il generale principio di diritto per cui le ipotesi di
nullità non possono applicarsi al di fuori della sfera strettamente delineata dal legislatore, il
quale, nella fattispecie, ha limitato l’ambito sanzionatorio agli atti tra vivi;
che, infine, a differenza di quanto ritenuto dalla Corte di merito, questa Corte di legittimità
(Cass. n. 7231 del 2006) ha affermato che l’effetto dichiarativo-retroattivo della divisione,
ex art. 757 c.c., comporta che ciascun condividente sia considerato titolare dei beni
assegantigli ex tunc, e cioè dall’apertura della successione; e che la natura dichiarativa
della divisione esclude che essa abbia efficacia traslativa, e così il titolo di acquisto del
condividente risale non all’atto divisionale, ma all’originario titolo che ha costituito la
situazione di comproprietà (il titolo risale alla delazione ereditaria e all’accettazione).
Considerato:
che, viceversa, nel giudizio de quo la Corte di merito ha affermato “che anche lo
scioglimento della comunione ereditaria rientra nell’ambito della categoria degli atti tra vivi,
cui si applicano le disposizioni previste dagli artt. 17, 18 e 40 L. 47/85” (sentenza
impugnata, pag. 7);
che, a sostegno di tale affermazione la Corte d’appello ripropone e fa proprie le
argomentazioni dottrinarie (su cui si fonda parte della giurisprudenza di merito: Trib.
Termini Imerese 12.05.2003; Trib. Napoli 16.10.2002; Trib. Napoli 15.10.2003, Trib.
Marsala 14.12.2006) contrarie alla affermazione, che sorregge dogmaticamente il
contenuto della decisione, relativa alla natura giuridica di atto mortis causa dello
scioglimento della comunione ereditaria;
che, infatti (secondo questo opposto orientamento) i negozi mortis causa si distinguono
dai negozi inter vivos in quanto soltanto i primi sono destinati a regolamentare la vicenda
successoria o a disporre per il tempo successivo alla morte del disponente; mentre i
negozi inter vivos sono immediatamente efficaci, anche se contengono eventualmente una
disposizione di proroga della loro stessa efficacia;
che, dunque, i primi si distinguono in base al fatto che la causa negoziale dell’attribuzione
è l’evento morte, nella qualificazione dei secondi non si fa riferimento ad una specifica
causa, in quanto le cause possono essere molteplici ed incontrano l’unico limite della
legittimità e sussistenza di esse;
che, alla luce dei tratti distintivi ora evidenziati fra i negozi mortis causa e quelli inter vivos,
tale diverso orientamento interpretativo ritiene prive di pregio sia la pretesa equiparazione
dell’atto di scioglimento della comunione ereditaria con la disposizione testamentaria che
attribuisce a ciascun erede un certo bene, sulla base dell’osservazione che entrambi gli
atti realizzerebbero l’identico risultato, sia l’affermazione per cui l’articolo 757 c.c. (che fa
retroagire al momento della morte gli effetti dello scioglimento della comunione ereditaria)
avalli questa tesi; laddove, se anche lo scioglimento volontario della comunione ereditaria
può realizzare, di fatto, l’attribuzione di un singolo cespite dell’asse ereditario ad uno o più
eredi, viene rilevato che, dal punto di vista giuridico, essa non può certamente essere
ricondotta alla volontà del de cuius, discendendo in realtà soltanto dalla volontà dei
contraenti, vivi, del negozio divisorio;
che la tesi della natura meramente dichiarativa dello scioglimento della comunione
ereditaria sarebbe attualmente recessiva in dottrina, ove si sottolinea la sostanziale
identità nella sistematica del codice del negozio di divisione, a prescindere dalla fonte
della comunione (inter vivos o mortis causa), e la sua natura costitutiva (si veda in tal
senso, sia pure quale obiter dictum, Cass. n. 6653 del 2003, in parte motiva);
che, pertanto, gli atti di scioglimento della comunione ereditaria posti in essere tra i coeredi
non possono che rientrare nella categoria dei negozi inter vivos;
che neppure risulta possibile fondare una conferma testuale dell’inserimento del negozio
di divisione nella categoria degli atti mortis causa, nell’art. 757 c.c., che fa retroagire al
momento della morte gli effetti della comunione ereditaria; giacché la ratio effettiva di tale
disposizione codicistica può in realtà essere individuata nella ben diversa prospettiva che,
attraverso la fictio juris prevista da questa norma, il legislatore abbia voluto evitare un
vuoto temporale nella titolarità del patrimonio del defunto con conseguenti difficoltà di
gestione dei rapporti tra gli eredi e i terzi;
che, inoltre, la tesi che tende a salvaguardare eccessivamente la divisione ereditaria, oltre
a destabilizzare concetti giuridici consolidati ed a violare i canoni ermeneutici sanciti
dall’articolo 12 delle preleggi, vanificando le intenzioni del legislatore, aprirebbe “vistose
crepe” nella tutela del patrimonio, rischiando infatti di immettere in circolazione un bene
che potrebbe in seguito essere confiscato o demolito in danno del possessore,
consentendo altresì un illecito arricchimento del contravventore;
che, infine, si sostiene che, avendo la pronunzia giudiziaria di scioglimento della
comunione una funzione suppletiva di quella negoziale, deve ritenersi che essa sia
soggetta alle stesse norme, e in particolare alle prescrizioni urbanistiche, di quest’ultima;
giacché ragionando contrariamente si arriverebbe al risultato paradossale di potere
eludere le norme urbanistiche attraverso il procedimento giudiziario.
Ritenuto:
che, in relazione a tutto quando precede, rileva il collegio che, ai sensi del secondo
comma dell’art. 374 c.p.c., appaiono sussistere le condizioni per la rimessione degli atti al
primo presidente, affinché valuti l’opportunità di assegnare la trattazione e la decisione del
ricorso alle sezioni unite, atteso che le questioni sopra accennate possono qualificarsi,
anche per l’impatto sulla circolazione dei beni immobili e sul relativo contenzioso, “di
particolare importanza” ai sensi della predetta disposizione di rito.
P.Q.M.
dispone la trasmissione del procedimento al primo presidente, per l’eventuale rimessione
alle sezioni unite.