Nuova convivenza esclude titolo a percepire assegno di mantenimento anche se in seguito cessa ed anche se non si dimostra il miglioramento delle condizioni economiche a favore del beneficiario del contributo.

Cass. 28 febbraio 2019 n. 5979.

FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Trieste, con decreto del 9/02/2015, ha confermato il decreto del Tribunale di Gorizia che aveva respinto la richiesta di E.G. nei confronti di L.C., di revisione, ex art. 9 I.div., delle condizioni economiche di divorzio, in particolare, di disporre la cessazione dell’obbligo dell’ex marito di corrispondere alla C. l’assegno divorzile di 250,00 mensili.
La Corte d’appello, all’esito anche di informative disposte tramite polizia tributaria, ha ritenuto che il reclamante non avesse comprovato un fatto sopravvenuto legittimante la modifica delle condizioni di divorzio, non rilevando la circostanza che il coniuge beneficiario dell’assegno avesse instaurato una convivenza more uxorio con altra persona, occorrendo la prova, da parte dell’ex coniuge onerato, che tale convivenza abbia influito in melius sulle condizioni economiche dell’avente diritto.
Avverso il suddetto decreto, E.G. propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, nei confronti di L.C. (che resiste con controricorso).
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il ricorrente lamenta, con il primo motivo, la violazione o falsa applicazione, ex art.360 n. 3 c.p.c., dell’art.5 comma 6 I.div. nonché vizio di motivazione, ex art.360 n. 5 c.p.c., in relazione al fatto rappresentato dalla stabile convivenza della C. con altra persona;
con il secondo motivo, l’omesso esame, ex art.360 n. 5 c.p.c., di un fatto decisivo rappresentato dalle risultanze degli accertamenti tributari, dai quali si evidenziava la parificazione dei redditi della coppia costituita dal G. con l’attuale coniuge e di quella costituita dalla C. con il convivente di fatto.
2. La prima censura è fondata, con assorbimento della seconda.
Questa corte ha già da tempo chiarito (Cass. 6855/2015; conf. Cass. 2466/2016; Cass.4649/2017; Cass. 2732/2018) che «l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso»;
invero, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà post matrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
Nell’ordinanza di questa Corte n. 18111/2017 si è poi precisato che non assume rilievo la successiva cessazione della convivenza di fatto intrapresa dall’ex coniuge beneficiario. Nella specie, la ricorrente, costituendosi in giudizio, aveva riconosciuto di avere instaurato una stabile convivenza con altra persona, dato questo talmente pacifico che la Corte (avendo il G. contratto nuovo matrimonio) aveva disposto informative tramite polizia tributaria circa le rispettive condizioni patrimoniali dei due nuovi nuclei familiari.
Il fatto sopravvenuto giustificava pertanto la revisione dell’assegno divorzile e la decisione impugnata, escludendo che la convivenza more uxorio dell’ex coniuge, beneficiario di assegno, facesse venir meno il diritto all’assegno stesso, non è conforme al principio di diritto sopra richiamato.
3. Per tutto quanto sopra esposto, in accoglimento del primo motivo del ricorso, assorbito il secondo, va cassata la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Trieste, in diversa composizione.
Il giudice (1 , 21 rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’appello di Trieste, in diversa composizione, anche in ordine alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità. Così deciso, in Roma, il 14 dicembre 2018.

Bigenitorialità: il padre deve avere tempi di frequentazione adeguati. Il solo week end non basta

Cass. Civ., sez. I, sentenza 8 aprile 2019 n. 9764 (Pres. Valitutti, rel. Scalia)
Fatti di causa
1. Il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto con decreto del 18 gennaio 2016 affidava la minore ….. ad entrambi i genitori, con collocamento presso la madre, stabilendo che il padre potesse vederla e tenerla con sé, salvo diverso accordo con la genitrice, a fine settimana alterni, ossia ogni quindici giorni, stabilendo altresì a carico del padre un assegno di mantenimento di Euro 600,00.
La Corte di appello di Messina, adita in sede di reclamo ex art. 739 c.p.c., riduceva l’assegno mensile ad Euro 450,00, confermando nel resto le modalità di visita del padre e “rigettando tutte le altre richieste formulate dalle parti”.
2. Ricorre in cassazione avverso il decreto emesso dalla Corte di appello, D.G.F. , articolando quattro motivi di annullamento.
Resiste con controricorso C.A. .

Ragioni della decisione
1. Il primo ed il secondo motivo di ricorso si prestano a trattazione congiunta perché entrambi sono diretti a censurare l’impugnato provvedimento per violazione di legge, anche processuale, in relazione all’art. 337 ter c.c., e art. 132 c.p.c., ed agli artt. 2, 3, 29 e 30 Cost., per assunta lesione del diritto alla bigenitorialità.
Il ricorrente si duole che il provvedimento impugnato non preveda tempi di permanenza infrasettimanali della figlia presso il padre e quindi di frequentazione con la minore in misura tendenzialmente paritetica rispetto a quelli di permanenza presso il genitore collocatario, sì da consentire, nella stabilita congrua assiduità dei rapporti, anche, l’esercizio della comune responsabilità genitoriale.
La tenera età della figlia, nata il (omissis) , non sarebbe stata di ostacolo all’incremento del tempo di frequentazione tra padre e figlia, avendo da tempo la giurisprudenza riconosciuto il rilievo assunto da una più assidua e consistente disciplina del tempo di permanenza del figlio presso il padre, là dove essa intervenga in caso di tenera età del minore e tanto nella finalità assolta di consentire l’instaurarsi di un solido legame tra padre e figlio.
La Corte di merito avrebbe omesso ogni indicazione di elementi espressivi della inidoneità genitoriale del ricorrente tali da giustificare i disciplinati ristretti tempi di visita.
I motivi sono fondati nei termini di seguito precisati.
Questa Corte di legittimità ha più volte affermato che, nell’interesse superiore del minore, va assicurato il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, nel dovere dei primi di cooperare nell’assistenza, educazione ed istruzione (ex multis: Cass. 23/09/2015 n. 18817; Cass. 22/05/2014 n. 11412).
La lettura riservata dalla giurisprudenza di legittimità al superiore interesse della prole, atteso il preminente diritto del minore ad una crescita sana ed equilibrata, si è spinta a ritenere giustificata l’adozione, in un contesto di affidamento, di provvedimenti contenitivi o restrittivi di diritti individuali di libertà dei genitori, nell’apprezzato loro carattere recessivo rispetto all’interesse preminente del minore (Cass. 24/05/2018 n. 12954; Cass. 04/11/2013 n. 24683).
L’orientamento è confortato nelle sue affermazioni di principio dalla giurisprudenza di fonte convenzionale là dove la Corte Edu, chiamata a pronunciare sul rispetto della vita familiare di cui all’art. 8 della CEDU, pur riconoscendo all’autorità giudiziaria ampia libertà in materia di diritto di affidamento, evidenzia la necessità di un più rigoroso controllo sulle “restrizioni supplementari”, tali intendendo quelle apportate dalle autorità al diritto di visita dei genitori, e sulle garanzie giuridiche destinate ad assicurare la protezione effettiva del diritto dei genitori e dei figli al rispetto della loro vita famigliare.
Le “restrizioni supplementari” comportano, invero, il rischio di troncare le relazioni familiari tra un figlio in tenera età e uno dei genitori o entrambi, pregiudicando il preminente interesse del minore (Corte EDU, 09/02/2017, Solarino c. Italia).
La Corte di Strasburgo chiama le autorità nazionali – nella materia in questione – ad adottare tutte le misure che era ragionevolmente possibile attendersi da loro per mantenere i legami tra il genitore e i suoi figli (Corte EDU, 17/11/2015, Bondavalli c. Italia; Corte EDU, 23/02/2017, D’Alconzo c. Italia), nella premessa che “per un genitore e suo figlio, stare insieme costituisce un elemento fondamentale della vita famigliare (Kutzner c. Germania, n. 46544/99, 5 58, CEDU 2002) e che delle misure interne che lo impediscano costituiscono una ingerenza nel diritto protetto dall’art. 8 della Convenzione (K. e T. c. Finlandia (GC), n. 25702/94, 5 151, CEDU 2001 VII)” (par. 55 Corte EDU, 23/02/2017).
Con l’ulteriore precisazione che in un quadro di osservanza e rispetto della frequentazione tra genitore e figlio, gli obblighi positivi da adottarsi dalle autorità degli Stati nazionali, per garantire effettività della vita privata o familiare nei termini di cui all’art. 8 della Convenzione Edu, non si limitano al controllo che il bambino possa incontrare il proprio genitore o avere contatti con lui, ma includono l’insieme delle misure preparatorie che, non automatiche e stereotipate, permettono di raggiungere questo risultato, nella preliminare esigenza che le misure deputate a riavvicinare il genitore al figlio rispondano a rapida attuazione, perché il trascorrere del tempo può avere delle conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il fanciullo e quello dei genitori che non vive con lui (Corte EDU 29/01/2013, Lombardo c/ Italia).
Nel caso di specie, la Corte di appello, dopo avere ritenuto che la minore “abbisogna di mantenere e semmai intensificare i rapporti con il padre, ma ciò in maniera del tutto graduale”, ha, poi, con motivazione praticamente assente, dato acritica conferma ai provvedimenti, emessi dal giudice di primo grado di cui ha apprezzato equilibrio e conformità agli interessi del minore, senza tenere in alcun conto le critiche mosse dal padre con l’atto di impugnazione.
Rileva questo Collegio, tenendo conto anche della conflittualità tra i genitori, che non lasciava presagire possibilità di soluzioni diverse concordate, che manca del tutto per il segnalato passaggio una specifica motivazione in ordine alle eventuali ragioni che hanno indotto la Corte di merito ad escludere una frequentazione infrasettimanale con il padre nella inosservanza del principio della bigenitorialità segnato, nei suoi pieni contenuti, dalla interlocuzione tra giudici nazionali e della Corte di Strasburgo.
È invero nulla, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, la motivazione solo apparente, che non costituisce espressione di un autonomo processo deliberativo, quale la decisione di appello motivata “per relationem” a quella di primo grado, attraverso una generica condivisione della ricostruzione in fatto e delle argomentazioni svolte dal primo giudice, senza alcun esame critico delle stesse in base ai motivi di gravame e che non lasci in evidenza, nella combinata lettura di entrambe le sentenze, un percorso argomentativo esaustivo e coerente (Cass. 05/11/2018 n. 28139; Cass. 21/09/2017 n. 22022).
2. Si lasciano apprezzare come fondati anche il terzo ed il quarto motivo di ricorso con cui si fa valere la violazione dell’art. 132 c.p.c., e l’omesso esame ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, di un fatto decisivo per la controversia.
Vero è infatti che la Corte di appello omette del tutto di prendere in esame quale fatto decisivo per la controversia la condotta ostracistica della madre, posta a fondamento del ricorso ex art. 709 ter c.p.c., su cui non impegna parola alcuna, affidandosi invece all’adozione della formula, generica, di rigetto di “tutte le richieste formulate dalle parti”.
E tanto, pur trattandosi di una condotta gravemente lesiva del diritto del minore alla bigenitorialità, garanzia di stabile consuetudine di vita e di ferme relazioni affettive con entrambi.
I giudici di appello anche in questo caso non evidenziano le ragioni di indegnità o di incapacità del padre di prendersi cura della figlia, mancando nel contempo di apprezzare, avuto riguardo alla posizione del genitore collocatario, che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e sana.
3. Il ricorso va pertanto accolto con rinvio alla Corte di appello di Messina che in altra composizione provvederà ad attenersi agli indicati principi, liquidando altresì le spese per il giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie i motivi di ricorso, nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Messina, sezione per i minorenni, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Dispone che ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento.

ALTERAZIONE DI STATO E FALSE DICHIARAZIONI IN ATTI DELLO STATO CIVILE

Di Gianfranco Dosi
I I reati contro lo status filiationis
Nell’ambito dei delitti contro la famiglia (Titolo XI del secondo libro del codice penale1), alcune nor¬me sono rivolte all’incriminazione di comportamenti illeciti commessi contro lo “stato di famiglia” (espressione che fa riferimento allo status filiationis), includendosi in questa categoria comporta¬menti eterogenei che determinano una difformità tra quanto riportato nei registri di stato civile e la vera identità del figlio, cioè di uno dei più importanti suoi diritti della personalità2.
Si prendono qui in considerazione – per l’assoluta maggior frequenza con cui si verificano – le di¬chiarazioni all’ufficiale di stato civile non corrispondenti alla verità della procreazione.
Alcuni di questi comportamenti possono realizzarsi al momento della formazione dell’atto di nasci¬ta di un figlio (indifferentemente nato nel matrimonio o fuori dal matrimonio) ed integrano reati gravi contro lo status filiationis, il più significativo dei quali è l’alterazione di stato (art. 567, secon¬do comma, c.p.). Altri comportamenti, sempre contro lo status filiationis (false attestazioni e false dichiarazioni), possono invece realizzarsi a distanza di tempo dalla formazione dell’atto di nascita (nel caso di falso riconoscimento di un figlio nato fuori dal matrimonio da parte del genitore che non lo ha riconosciuto al momento della nascita) e possono integrare il diverso (meno grave) reato di “false dichiarazioni in atti dello stato civile” (art. 495 c.p.3).
Le disposizioni penali contro lo stato di famiglia riguardano la protezione dell’identità personale attraverso la corretta registrazione delle persone nei registri dello stato civile (essendo gli atti di stato civile destinati a documentare e provare l’identità delle persone) e sino dirette in particolare alla veritiera attribuzione dello status filiationis.
E’ opportuno ricordare che la riforma della filiazione (attuata con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 e con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154) ha cancellato le diversità di status collegate alla nascita nel matrimonio e fuori dal matrimonio e il nuovo art. 315 c.c. proclama so¬lennemente che “Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”. Non ha più senso interrogarsi, quindi – come avveniva in passato – se il bene giuridico protetto da queste norme sia lo status del figlio “legittimo” o “naturale”. Lo status è oggi indiscutibilmente l’identità della persona.
Perciò alterare (in senso generale) lo status di figlio (al momento della formazione dell’atto di nascita o successivamente con un riconoscimento tardivo), significa dichiarare o attestare consa¬pevolmente una condizione diversa dalla verità della procreazione biologica.
La giurisprudenza è consolidata su questa interpretazione.
La dichiarazione falsa resa in sede di formazione dell’atto di nascita altera lo stato del neonato, attribuendo al figlio riconosciuto una discendenza che non gli è propria secondo natura, essendo l’interesse protetto dal secondo comma dell’art. 567, c.p., integrato dall’interesse del neonato a non vedersi attribuire uno stato civile difforme da quello che gli spetta in virtù dei dati costitutivi reali (Cass. pen. Sez. VI, 5 maggio 2008, n. 35806). Per configurare il reato di alterazione di stato, nell’ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 567 c.p., occorre che nell’atto di nascita venga¬no attribuiti al neonato genitori diversi da quelli che lo hanno generato poiché con questa norma il legislatore ha inteso tutelare l’interesse del minore alla verità effettiva dell’ascendenza, punendo l’attribuzione al neonato di un genitore diverso da quello naturale (Cass. pen. Sez. VI, 13 dicem¬bre 2004, n. 4453 secondo cui non risponde di alterazione di stato la madre che, nel dichiarare all’ufficiale di stato civile che il figlio è stato concepito da un’unione naturale, occulti il suo stato di persona coniugata). Si tratta di una norma posta a garanzia dell’identità del neonato, del rapporto effettivo di procreazione per come naturalmente si determina e, quindi, dell’integrità dello stato di filiazione, quale attributo della personalità (Cass. pen. Sez. VI, 12 febbraio 2003, n. 17627).
Il reato è integrato anche, naturalmente, dal comportamento di chi afferma falsamente che un figlio nato nel matrimonio sarebbe invece figlio nato fuori dal matrimonio (Cass. pen. Sez. VI, 12 agosto 2009, n. 32854; Cass. pen. Sez. VI, 12 febbraio 2003, n. 17627).
Pertanto ai fini dei reati commessi contro lo stato di famiglia, si intende per status filiationis la si¬tuazione di fatto determinata dalla procreazione biologica (favor veritatis) e non anche la situazio¬ne giuridica a cui l’ordinamento ricollega diritti di famiglia e da cui fa discendere relazioni parentali giuridicamente riconosciute (favor legitimitatis). Il che – come si dirà – significa che non dichiarare al momento della nascita l’eventuale difformità biologica rispetto alla presunzione di concepimento
2 Art. 566 (Supposizione o soppressione di stato)
Chiunque fa figurare nei registri dello stato civile una nascita inesistente è punito con la reclusione da tre a dieci anni.
Alla stessa pena soggiace chi, mediante l’occultamento di un neonato, ne sopprime lo stato civile.
Art. 567 (Alterazione di stato)
Chiunque, mediante la sostituzione di un neonato, ne altera lo stato civile è punito con la reclusione da tre a dieci anni.
Si applica la reclusione da cinque a quindici anni a chiunque, nella formazione di un atto di nascita, altera lo stato civile di un neonato, mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità.
Art. 568 (Occultamento di stato di un figlio)
Chiunque depone o presenta un fanciullo, già iscritto nei registri dello stato civile come figlio nato nel matrimonio o riconosciuto, in un ospizio di trovatelli o in un altro luogo di beneficenza, occultandone lo stato, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.
3 Art. 495 (Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità perso¬nali proprie o di altri)
Chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona è punito con la reclusione da uno a sei anni.
La reclusione non è inferiore a due anni:
1) se si tratta di dichiarazioni in atti dello stato civile;
2) se la falsa dichiarazione sulla propria identità, sul proprio stato o sulle proprie qualità personali è resa all’au¬torità giudiziaria da un imputato o da una persona sottoposta ad indagini, ovvero se, per effetto della falsa dichiarazione, nel casellario giudiziale una decisione penale viene iscritta sotto falso nome.
durante il matrimonio (art. 232 c.c.) comporta l’attribuzione di responsabilità penale ove vi sia la consapevolezza di tale difformità. Lo status legitimitatis non è, perciò, uno schermo che consente l’attribuzione al figlio di una identità biologica non veritiera.
L’ordinamento di stato civile (DPR 3 novembre 2000, n. 396, cosiddetto) attribuisce all’art. 5 all’ufficiale di stato civile la funzione primaria di formare tutti gli atti concernenti lo stato civile (cittadinanza, nascita, matrimonio, unione civile, morte) nonché quella di archiviarli, conservarli, aggiornarli (con le annotazioni), rilasciarne copie e verificare le dichiarazioni delle parti4. Gli atti di nascita, in particolare, sono formati in genere nel Comune in cui la nascita avviene; se il Comu¬ne in cui l’atto è formato è diverso da quello di residenza degli interessati, gli atti devono essere comunicati dall’ufficiale di stato civile che li ha formati all’ufficiale di stato civile del Comune di residenza (art. 12 DPR 396/2000).
L’art. 7 della Convenzione internazionale del 1989 sui diritti del fanciullo (ratificata in Italia dalla Legge 27 maggio 1991, n. 176) prescrive appositamente – pur non entrando nella definizione dello status filiationis – che “Il fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto a un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori e a essere allevato da essi. Gli Stati parti vigilano affinché questi diritti siano attuati in conformità con la loro legislazione nazionale e con gli obblighi che sono imposti loro dagli stru¬menti internazionali applicabili in materia…”.
Il DPR 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordina¬mento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n.127) prescrive al primo comma dell’art. 30 (Dichiarazione di nascita) che “La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata”, con tale ultima precisazione volendo alludere al diritto della donna (previsto nel nostro ordinamento) sia di non riconoscere il figlio nato fuori del matrimonio e di escludere in futuro di essere convenuta in un giudizio tendente alla dichiarazione di maternità, sia di non voler attribuire al figlio nato nel matrimonio nemmeno lo status legitimitatis.
II Il reato di “alterazione di stato” (al momento della formazione dell’atto di nascita)
a) Il reato di “alterazione di stato”
Il reato di “alterazione di stato” (art. 567, secondo comma, c.p.5) consiste nel comportamen¬to commesso, per lo più con gli atti indicati nel secondo comma della disposizione, da parte di “chiunque nella formazione di un atto di nascita altera lo stato civile di un neonato, mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità”6.
Per comprendere quali possano essere gli altri autori di tali falsità – oltre alla partoriente – è op¬portuno ricordare che il sopra richiamato art. 30 dell’Ordinamento di stato civile prevede che la dichiarazione di nascita è resa “da uno dei genitori [solo da uno o entrambi i genitori se si tratta di figlio nato fuori dal matrimonio] da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto…” con la conseguenza che ciascuno di questi soggetti (in genere in concorso con uno dei genitori: e quindi anche il marito della partoriente) potrebbe commettere il reato sia attraverso proprie dichiarazioni o attestazioni non veritiere sia attraverso altri comportamenti di compartecipazione consapevole all’illecito (Cass. pen. Sez. VI, 12 agosto 2009, n. 32854).
La falsità che integra nello specifico il reato di “alterazione di stato” (art. 567, secondo comma, c.p.) è quella che si realizza al momento della nascita con la formazione dell’atto di nascita ef¬fettuata ex art. 30 dell’ordinamento di stato civile, indifferentemente, come detto, per i figli nati nel matrimonio (in virtù della presunzione di paternità) o per i figli nati fuori dal matrimonio (in conseguenza del riconoscimento).
Una alterazione dello status filiationis può verificarsi anche successivamente, a distanza di tempo dalla formazione dell’atto di nascita (e per questo motivo non integra il reato di “alterazione di stato” che è contestuale alla formazione dell’atto di nascita), attraverso un “falso riconoscimento” del figlio nato fuori dal matrimonio che in tal caso integra il reato di cui all’art. 495 c.p. (“false dichiarazioni in atti dello stato civile”) in concorso con il genitore consapevole della falsità che per primo ha effettuato il riconoscimento, chiamato ad esprimere obbligatoriamente il proprio consen¬so (art. 250 c.c.).
4 La redazione degli atti di stato civile – registrazione, in senso lato – non è libera ma avviene obbligatoriamente (art. 12 DPR 396/2000) secondo formule stabilite con decreto del Ministero (attualmente il decreto che contiene tutte le formule è il decreto del 5 aprile 2002 e successive modificazioni)
5 Art. 567 (Alterazione di stato)
Chiunque, mediante la sostituzione di un neonato, ne altera lo stato civile è punito con la reclusione da tre a dieci anni.
Si applica la reclusione da cinque a quindici anni a chiunque, nella formazione di un atto di nascita, altera lo stato civile di un neonato, mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità.
6 Del tutto infrequenti – considerata anche l’organizzazione amministrativa degli enti ospedalieri e degli uffici di stato civile – sono gli altri pur possibili comportamenti che determinano anch’essi una “alterazione” dello status filiationis quali la “sostituzione di un neonato” (art. 567, primo comma, c.p.) o il far figurare una nascita inesistente (che in verità è una “invenzione” di uno status inesistente) ovvero l’occultamento della nascita di un neonato (art. 566 c.p) o del suo stato (art. 568 c.p.).
b) Il reato di ”alterazione di stato” assorbe quello di “false dichiarazioni in atti dello stato civile”
Come si è detto, il reato di “alterazione di stato” (art. 567, secondo comma, c.p.) si realizza necessariamente attraverso “false certificazioni, false attestazioni o altre falsità” (rese ai sensi dell’art. 30 dell’Ordinamento di stato civile) ed è per questo motivo che potrebbe porsi il problema del concorso formale con il reato di “false dichiarazioni in atti dello stato civile” (art. 495 c.p.). In effetti l’alterazione di stato del neonato si produce attraverso la falsa dichiarazione all’ufficiale di stato civile.
Il concorso formale (cioè, ai sensi dell’art. 81 c.p., un’azione che viola diverse disposizioni di legge, dando luogo all’applicazione della pena più grave prevista tra i reati commessi) è tuttavia escluso del fatto che l’alterazione di stato è un reato complesso (art. 84 c.p.) cioè un reato del quale gli elementi costitutivi (falsità e alterazione dello status filiationis) costituiscono di per sé reato. Per¬tanto non si applicano le norme sul concorso formale ma trova applicazione solo il reato complesso (appunto l’art. 567 secondo comma c.p.).
Tutto questo comporta che la falsità (benché di per sé non punibile, perché assorbita dall’altera¬zione di stato) costituisce certamente un elemento del reato e contribuisce a produrre il disvalo¬re del fatto (alterare lo stato civile di una persona con una falsa attestazione al momento della formazione dell’atto di nascita). Il concetto è sintetizzato anche in giurisprudenza da Cass. pen. Sez. V, 10 marzo 2016, n. 13525 secondo cui ai fini della configurabilità del reato ex art. 567, comma 2, c.p., occorre un’attività materiale di alterazione di stato che costituisca un quid pluris rispetto alla mera falsa dichiarazione e si caratterizzi per l’idoneità a creare una falsa attestazione, con attribuzione al figlio di una diversa discendenza, in conseguenza dell’indicazione di un genitore diverso da quello naturale.
Se la falsità non producesse l’alterazione di stato il comportamento sarebbe quindi punibile come falsità.
Queste considerazioni inducono a ritenere che la madre coniugata che partorisce ha l’obbligo di dichiarare il vero all’ufficiale di stato civile circa lo stato del neonato (non potendo rifugiarsi dietro lo schermo della presunzione di paternità del marito). Se non esistesse il reato di “alterazione di stato” la madre che non dichiarasse il vero commetterebbe quanto meno un reato di falsità in at¬testazioni all’ufficiale di stato civile.
Le stesse considerazioni – come meglio si dirà più oltre – valgono per il marito consapevole della falsità che è compartecipe del medesimo reato essendo certamente egli obbligato a impedire l’e¬vento (art. 40 c.p.).
c) La sanzione penale rivista dalla sentenza della Corte costituzionale 10 novembre 2016, n. 236
Su sollecitazione del tribunale di Varese la Corte costituzionale (Corte cost. 10 novembre 2016, n. 236) è intervenuta per scrutinare la ragionevolezza della grave sanzione prevista nell’art. 567, secondo comma, c.p. (da cinque a quindici anni di reclusione) rispetto alla meno grave sanzione prevista per un fatto analogo (alterazione di stato realizzata attraverso la sostituzione di un neo¬nato) dal primo comma del medesimo art. 567 c.p. (reclusione da tre a dieci anni).
Secondo il tribunale di Varese si tratterebbe di un trattamento sanzionatorio irragionevolmente eccessivo e sproporzionato, anche in riferimento alle altre fattispecie delittuose contenute nel Libro II, Titolo XI, Capo III, del codice penale e soprattutto in riferimento.
La medesima questione era già stata dichiarata manifestamente infondata dalla Corte costituzio¬nale con l’ordinanza n. 106 del 2007 (Corte cost. 23 marzo 2007, n. 106) in cui la Corte chiarì come le fattispecie descritte dal primo e dal secondo comma dell’art. 567 c.p. siano oggettivamen¬te diverse, perché, seppure in entrambe è tutelato il medesimo bene giuridico (l’interesse del mi¬nore alla verità dell’attestazione ufficiale della propria ascendenza), nel caso del primo comma la condotta consiste in uno scambio materiale di neonati, mentre la fattispecie prevista dal secondo comma si realizza mediante la commissione di un altro reato (quello di falso ideologico, che non concorre con quello di alterazione di stato), rivelando una più intensa carica criminosa, sicché il principio di uguaglianza appare rispettato, avendo il legislatore trattato, dal punto di vista sanzio¬natorio, situazioni diverse in modo diverso.
La Corte ha ritenuto, però, oggi, fondata la questione nuovamente posta al suo esame (Corte cost. 10 novembre 2016, n. 236 che dichiara applicabile al reato di “alterazione di stato” pre¬visto nel secondo comma dell’art. 567 c.p. la sanzione prevista nel primo comma dell’art. 567 c.p.) ritenendo manifestamente sproporzionata la pena indicata nel secondo comma (da cinque a quindici anni) alla luce del reale disvalore della condotta punita.
Si afferma nella decisione che è costante, nella giurisprudenza costituzionale, la considerazione secondo cui l’art. 3 Costituzione esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali. E la tutela del principio di proporzionalità, nel campo del diritto penale, conduce a “negare legittimità alle incriminazioni che, anche se pre¬sumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all’individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni” (sentenze n. 341 del 1994 e n. 409 del 1989). Deve essere ricordato, in questa prospettiva, anche l’art. 49, numero 3), della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea – proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, e che ha ora lo stesso valore giuridico dei trattati, in forza dell’art. 6, comma 1, del Trattato sull’Unione Europea (TUE), come modificato dal Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con L. 2 agosto 2008, n. 130, ed entrato in vigore il 1 dicembre 2009 – a tenore del quale “le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato”.
In questo delicato settore dell’ordinamento, il principio di proporzionalità esige un’articolazione le¬gale del sistema sanzionatorio che renda possibile l’adeguamento della pena alle effettive respon¬sabilità personali, svolgendo una funzione di giustizia, e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potestà punitiva statale, in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale (sentenza n. 50 del 1980).
A ciò si aggiunge che, alla luce dell’art. 27 Costituzione il principio della finalità rieducativa della pena costituisce “una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo con¬tenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue” (sentenza n. 313 del 1990; si vedano anche le sentenze n. 183 del 2011 e n. 129 del 2008). Esso, pertanto, non vale per la sola fase esecutiva, ma obbliga tanto il legislatore quanto i giudici della cognizione (sentenza n. 313 del 1990). Anche la finalità riedu¬cativa della pena, nell’illuminare l’astratta previsione normativa, richiede “un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra” (sentenza n. 251 del 2012 e, ancora, sentenza n. 341 del 1994), mentre la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale produce “una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione, che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione” (sentenza n. 343 del 1993).
Laddove la proporzione tra sanzione e offesa difetti manifestamente, perché alla carica offensiva insita nella condotta descritta dalla fattispecie normativa il legislatore abbia fatto corrispondere conseguenze punitive di entità spropositata, non ne potrà che discendere una compromissione ab initio del processo rieducativo, processo al quale il reo tenderà a non prestare adesione, già solo per la percezione di subire una condanna profondamente ingiusta (sentenze n. 251 e n. 68 del 2012), del tutto svincolata dalla gravità della propria condotta e dal disvalore da essa espressa.
In tale contesto, una particolare asprezza della risposta sanzionatoria determina perciò una viola¬zione congiunta degli artt. 3 e 27 Costituzione essendo lesi sia il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del fatto commesso, sia quello della finalità rieducativa della pena (sen¬tenza n. 68 del 2012, che richiama le sentenze n. 341 del 1994 e n. 343 del 1993).
È ciò che accade nel caso della cornice edittale prevista per il delitto di cui all›art. 567, secondo comma, codice penale.
Un ruolo non secondario – nelle valutazioni del giudice a quo e, come si dirà, di questa stessa Cor¬te – è in effetti svolto dallo specifico riferimento al più mite trattamento sanzionatorio stabilito per il delitto di alterazione di stato mediante sostituzione di un neonato, significativamente presente al primo comma dello stesso articolo 567 codice penale, che riunisce, sotto la medesima rubrica, due fattispecie accomunate dall’essere indirizzate alla tutela del medesimo bene giuridico, come questa Corte ha già riconosciuto nell’ordinanza n. 106 del 2007.
La manifesta irragionevolezza per sproporzione della forbice edittale censurata si evidenzia al co¬spetto della meno severa cornice (reclusione da tre a dieci anni) che il medesimo art. 567 codice penale prevede, al primo comma, per l’altra fattispecie di alterazione dello stato di famiglia del neonato, commessa mediante la sua sostituzione.
Le fattispecie punite, rispettivamente, al primo e al secondo comma del citato articolo, non sono identiche, ma non possono considerarsi del tutto disomogenee, non fosse altro perché indirizzate a proteggere, come questa Corte ha già riconosciuto (ordinanza n. 106 del 2007), il medesimo bene giuridico.
Tutto ciò premesso, alla luce dei limiti dei poteri d’intervento di questa Corte, l’unica soluzione praticabile consiste nel parificare il trattamento sanzionatorio delle due fattispecie nelle quali si articola l’unitario art. 567 codice penale, trattandosi, appunto, di utilizzare coerentemente “gran¬dezze già rinvenibili nell’ordinamento”.
Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 567, secondo comma, codice penale, nella parte in cui punisce il delitto ivi descritto con la pena della reclusione da cinque a quindici anni, anziché con la pena della reclusione da tre a dieci anni.
d) La maternità surrogata non è “alterazione di stato” ove realizzata in Stati che la con¬siderano lecita
La giurisprudenza ha ritenuto che deve essere esclusa l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 567, se¬condo comma , c.p. (alterazione dello stato civile di un neonato mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità), nel caso di dichiarazioni di nascita effettuate ai sensi dell’art. 15 del D.P.R. n. 396 del 2000, in ordine a cittadini italiani nati all’estero mediante la tecnica della maternità surrogata eterologa e rese all’autorità consolare sulla base di certificato redatto dalle autorità straniere che li indichi come genitori, in conformità alle norme stabilite dalla legge del luogo (Cass. pen. Sez. VI, 11 ottobre 2016, n. 48696; Cass. pen. Sez. V, 10 marzo 2016, n. 13525; Cass. pen. Sez. VI, 11 novembre 2015, n. 8060). Infatti – precisano in sostanza le sentenze – coloro che realizzano una surrogazione di maternità all’estero, conformemente alla lex loci, e si dichiarano legittimamente genitori di fronte alla competente autorità straniera ai fini della formazione dell’atto di nascita, ed infine consegnano tale atto agli uffici consolari perché venga trasmesso all’ufficiale di stato civile italiano per la trascrizione, non compiono un’ alterazione di stato (art. 567, secondo comma, c.p.), né false dichiarazioni o attestazioni ex art. 495 c.p., es¬sendo quelle loro dichiarazioni conformi a una attribuzione di genitorialità valida alla stregua della stessa legge italiana, che in tali casi rinvia alla legge dello Stato estero e prevede, poi, l’anzidetta procedura (artt. 15 e 17, D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396).
Non integra, pertanto, il reato di alterazione di stato, previsto dall’art. 567, secondo comma, c.p., la trascrizione in Italia di un atto di nascita legittimamente formato all’estero, non potendosi considerare ideologicamente falso il certificato conforme alla legislazione del Paese di nascita del minore, neppure nel caso in cui la procreazione sia avvenuta con modalità non consentite in Italia7.
III La presunzione di paternità nella famiglia matrimoniale non è di ostacolo alla commissione del reato di “alterazione di stato”
a) Il punto di vista della giurisprudenza sulla presunzione di paternità
La nascita di un figlio nella famiglia matrimoniale non comporta – come nel caso di nascita fuori dal matrimonio – la necessità che i genitori ne effettuino entrambi personalmente il riconoscimento all’ufficio di stato civile. L’ordinamento giuridico prevede una presunzione legale (articoli 231 e 232 c.c. 8) in base alla quale nascere nella famiglia coniugale comporta l’attribuzione per così dire au¬tomatica dello status filiationis. E’ sufficiente, quindi, dare comunicazione della nascita all’ufficiale di stato civile – chiamato a formare l’atto di nascita – con una “…dichiarazione di nascita… resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto…” (art. 30 Ordinamento di stato civile) e l’ufficiale di stato civile dovrà solo verificare l’esistenza del vincolo matrimoniale.
La presunzione di paternità comporta che il marito è considerato il padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio. Il che non significa, però, che il marito sia necessariamente il padre biologico del neonato. Si presume, soltanto, che lo sia.
Questa presunzione può essere vinta non soltanto con l’azione di disconoscimento ma anche – ed è questo il punto centrale della questione che qui si tratta – con la dichiarazione resa dalla madre co¬niugata, al momento della nascita del figlio, che il marito non è il padre del neonato da lei partorito.
A partire, infatti, da una lontana decisione delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. pen. Sez. Unite 30 maggio 1959) l’interpretazione da parte della giurisprudenza della regola contenuta nell’articolo 231 del codice civile – considerata storicamente un presidio della famiglia legittima – è nel senso che “la presunzione di paternità in tanto è operativa in quanto concorra il titolo di stato legittimo (atto di nascita o possesso di stato)”; cioè la presunzione è integrativa del titolo stesso. In altre parole la presunzione legale scatta soltanto se il neonato è indicato nell’atto di nascita come figlio nato nel matrimonio. Quindi la presunzione di paternità del marito è operativa, solo allorché il neonato è dichiarato nell’atto di nascita figlio nato nel matrimonio.
Per queste ragioni la giurisprudenza ha sempre ammesso la partoriente coniugata a dichiarare ed a riconoscere il figlio come figlio “naturale”, cioè nato fuori del matrimonio (fatto sempre salvo il dirit¬to all’anonimato) in quanto la presunzione di paternità non opera per il semplice fatto della procre¬azione da donna coniugata, ma solo quando vi sia anche un atto di nascita di figlio “legittimo” (cioè nato nel matrimonio); mentre, quando risulti che la madre abbia dichiarato il figlio come “naturale” (nato da una sua relazione fuori dal matrimonio), difettando l’operatività di detta presunzione e dello status di figlio “legittimo”, non è necessario il disconoscimento ai sensi dell’art. 235 c.c. (Cass. civ. Sez. I, 27 agosto 1997, n. 8059; Cass. civ. Sez. I, 5 aprile 1996, n. 3194; Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 1992, n. 11073; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 1987, n. 3184).
Il principio è stato ribadito anche in sede penale da Cass. pen. Sez. VI, 13 dicembre 2004, n. 4453 secondo cui non risponde di alterazione di stato la madre che, nel dichiarare all’ufficiale di stato civile che il figlio è stato concepito da un’unione naturale, occulti il suo stato di persona coniugata
La giurisprudenza di merito è completamente allineata su questa posizione (Trib. Milano, Sez. IX, 25 gennaio 2012; Trib. Salerno, Sez. I, 4 agosto 2008; Trib. Reggio Emilia, 30 gen¬
7 Le pratiche di maternità surrogata sono vietate dalla legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), che all’art. 12 (Divieti generali e sanzioni), comma 6, prevede che “Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro”.
8 Art. 231 (Paternità del marito)
Il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio.
Art. 232 (Presunzione di concepimento durante il matrimonio)
Si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non sono ancora trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio.
La presunzione non opera decorsi trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale o dalla omologazione di separazione consensuale ovvero dalla data della comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi sono stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione o dei giudizi previsti nel comma precedente.
naio 2006; Trib. Rimini, 24 marzo 1995; Trib. Milano, 12 dicembre 1984; App. Genova, 16 ottobre 1982).
Se invece non vi è stata da parte della partoriente coniugata la dichiarazione di riconoscimento del neonato come figlio nato fuori del matrimonio l’unico modo di porre nel nulla lo status non veritiero rimane l’azione di disconoscimento (Cass. civ. Sez. I, 8 giugno 2012, n. 9379).
b) Dichiarare che il figlio non è nato nel matrimonio è una facoltà o un obbligo giuridico?
Si è detto finora che la giurisprudenza ammette la madre coniugata che partorisce un figlio nato da una sua relazione extramatrimoniale a dichiarare che il figlio è nato appunto fuori dal matrimonio.
Ci si deve ora chiedere se il fatto che la madre coniugata è ammessa a dichiarare che il neonato non è figlio del marito (così superando la presunzione di paternità) sia una facoltà o un obbligo giuridico.
In altre parole si tratta di verificare se sussiste nel nostro ordinamento un obbligo per chi è chia¬mato a dichiarare lo status filiationis di garantire sempre la veridicità dell’identità del figlio, indi¬pendentemente dal fatto che figlio nasca nel matrimonio o fuori dal matrimonio.
La conseguenza è l’applicazione del secondo comma dell’art. 40 del codice penale9 nella parte in cui prescrive che “Non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”. In tal caso la madre coniugata che partorisce il figlio nato fuori dal matrimonio com¬metterebbe il reato di “alterazione di stato”. Altro avverrebbe se alla madre fosse naturalmente impedito di superare con tale sua dichiarazione la presunzione di paternità.
Come si è già detto all’inizio l’art. 7 della Convenzione internazionale del 1989 sui diritti del fanciullo si limita a prescrivere che “Il fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto a un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a cono¬scere i suoi genitori e a essere allevato da essi….” mentre l’art. 30 dell’Ordinamento di stato civile indica chi deve fare la dichiarazione di nascita “rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata”. In nessuno dei due testi normativi si accenna alla necessaria corrispondenza tra la dichiarazione e la veridicità della procreazione biologica anche se è piuttosto evidente che questa corrispondenza sia alla base di tutta la normativa di contrasto alle falsità in atti dello stato civile.
L’approfondimento in giurisprudenza del concetto di identità personale10 consente, però – no¬nostante decisioni che ancora propongono l’opportunità di un bilanciamento tra verità biologica e interesse del minore ma che non escludono il valore, sia pure non assoluto, di rilevanza costi¬tuzionale della identità biologica 11 – di approdare a risultati piuttosto appaganti circa l’inclusione della verità biologica della procreazione nel concetto di identità personale (Cass. pen. Sez. VI, 12 febbraio 2003, n. 17627 secondo cui l’art. 567, secondo comma, c.p. è posto a garanzia dell’i¬dentità del neonato, del rapporto effettivo di procreazione per come naturalmente si determina e, quindi, dell’integrità dello stato di filiazione, quale attributo della personalità; Cass. pen. Sez. VI, 5 maggio 2008, n. 35806 secondo cui l’interesse protetto dal secondo comma dell’art. 567, c.p., è quello del neonato a non vedersi attribuire uno stato civile difforme da quello che gli spetta in virtù dei dati costitutivi reali; Cass. pen. Sez. VI, 13 dicembre 2004, n. 4453 che parla di interesse del minore alla verità effettiva dell’ascendenza).
Importanti in questa prospettiva sono alcune sentenze di merito – di cui si parlerà più oltre – rela¬tive all’affermazione del diritto al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali cagionati dalla falsità nella dichiarazione di nascita e nel riconoscimento (Trib. Trieste, 5 giugno 2018; Trib. Milano, 27 aprile 2016; Trib. Firenze, 12 febbraio 2015).
D’altra parte il dolo nel reato di alterazione di stato è costruito in giurisprudenza come dolo gene¬rico consistente nella contemporanea presenza nell’agente della consapevolezza della falsità della dichiarazione, della volontà di effettuarla e della previsione dell’evento di attribuzione al neonato di uno stato civile diverso da quello che gli spetterebbe secondo natura (Cass. pen. Sez. VI, 30 ottobre 2014, n. 51662).
Essendo ammessa, quindi, la madre del neonato, a dichiarare che il figlio non è del marito (in mancanza di un obbligo giuridico, perciò, di garantire la presunzione di paternità attraverso la prevalenza del favor legitimitatis) evidentemente l’omissione di tale dichiarazione (unita alla con¬sapevolezza della non paternità del marito) integra il reato di alterazione di stato, potendosi con¬figurare un vero obbligo di verità a carico della donna coniugata che partorisca un figlio nato da una sua relazione extraconiugale.
9 Art. 40 (Rapporto di causalità)
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione.
Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.
10 Cfr la voce IDENTITA’ PERSONALE
11 Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272 afferma che pur dovendosi riconoscere un accentuato favore dell’ordinamento per la conformità dello status alla realtà della procreazione, va escluso che quello dell’accer¬tamento della verità biologica e genetica dell’individuo costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento. Ed invero, l’attuale quadro normativo e ordinamentale, sia interno, sia internazionale, non impone, nelle azioni volte alla rimozione dello status filiationis, l’assoluta prevalenza di tale accertamento su tutti gli altri interessi coinvolti. In tutti i casi di possibile divergenza tra identità genetica e identità legale, la necessità del bilanciamento tra esigenze di accertamento della verità e interesse concreto del minore è resa trasparente dall’evoluzione ordinamentale intervenuta e si proietta anche sull’interpretazione delle disposizioni da applicare al caso in esame.
Altrettanto può dirsi con riferimento al comportamento del marito che nella consapevolezza della falsità non si adopera per impedire la dichiarazione non veritiera all’ufficiale di stato civile. E’ op¬portuno rinviare a tale proposito alle nozioni penali sul concorso nel reato.
Problemi tutti che vanno tenuti ben distinti da quello della prova del reato, in quanto, come è evi¬dente, la donna coniugata (ed il marito di lei) potrebbe non aver avuto consapevolezza del fatto che il neonato partorito nel matrimonio è in realtà nato da una relazione extraconiugale.
IV Il reato di “false dichiarazioni in atti dello stato civile” (successivamente alla formazione dell’atto di nascita) (art. 495 c.p.)
Può avvenire che le false dichiarazioni all’ufficiale di stato civile sullo status filiationis non si veri¬fichino al momento in cui, ai sensi dell’art. 30 del DPR 396 del 2000, avviene la dichiarazione di nascita e quindi nel momento in cui si forma l’atto di nascita, ma successivamente. Ciò avviene nei casi di filiazione fuori dal matrimonio, quando l’atto di nascita è già formato (in quanto il ricono¬scimento del figlio è stato già fatto da un genitore) e la falsa dichiarazione sia opera della persona che successivamente riconosce il figlio.
In questi casi l’autore del falso riconoscimento non risponderà di “alterazione di stato” (che, come detto, presuppone che il falso riconoscimento si verifichi al momento in cui si forma l’atto di nasci¬ta) ma del reato di cui all’art. 495 (false dichiarazioni in atti dello stato civile) secondo cui “Chiun¬que dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona è punito con la reclusione da uno a sei anni. La reclusione non è inferiore a due anni: 1) se si tratta di dichiarazioni in atti dello stato civile…”12.
In giurisprudenza la distinzione tra il reato di “alterazione di stato” (art. 567, secondo comma, c.p.) e il reato di “false dichiarazioni in atti dello stato civile” (l’art. 495 c.p.) è da considerare consolidato: l’elemento discriminante tra il reato di alterazione di stato e quello di false indicazioni in atti dello stato civile consiste nella contestualità o meno alla redazione dell’originario atto di na¬scita delle dichiarazioni mendaci, ideologicamente false, sul rapporto di procreazione del neonato; soltanto la falsità espressa al momento della prima obbligatoria dichiarazione di nascita è, infatti, in grado di determinare la perdita del vero stato civile del neonato (Cass. pen. Sez. VI, 5 maggio 2008, n. 35806; Cass. pen. Sez. VI, 24 ottobre 2002, n. 5356).
Anche dopo la parificazione dello status di tutti i figli, avvenuta con la legge 10 dicembre 2012, n 219 e con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154, l’accesso allo status filiationis continua ad essere logicamente diverso a seconda che il figlio nasca nel matrimonio o fuori dal matrimonio. Nel primo caso lo status di figlio si acquista automaticamente in virtù della nascita nel corso del matrimonio (art. 232 c.c.), mentre nel secondo caso è necessario un atto di riconoscimento da parte di uno o di entrambi i genitori (art. 250 e seguenti c.c.). Conseguentemente permane anche una diversificazione dei mezzi di ripristino della verità nel caso in cui lo status legale non coincida con il dato biologico/genetico a causa di un riconoscimento non veritiero. Perciò nel caso in cui il figlio nato nel matrimonio sia biologicamente figlio di un padre diverso dal marito lo status filia¬tionis non veritiero può essere eliminato con l’azione di disconoscimento (art. 243 e seguenti c.c.) mentre nel caso in cui il figlio nato fuori dal matrimonio sia riconosciuto come figlio da persona che non ne è il genitore biologico la verità può essere ripristinata con l’impugnazione del riconoscimen¬to. In entrambi i casi l’azione è di competenza del tribunale ordinario.
Il motivo della non veridicità, e cioè della non corrispondenza del dato biologico a quello legale, può essere certamente l’errore e cioè una situazione di difformità che non è voluta da chi effettua il riconoscimento.
Il che può accadere (cfr art. 250, primo comma, c.c.) sia quando il riconoscimento viene effettuato da una sola persona, sia quando ad effettuarlo sono entrambe le persone che si ritengono genitori. Il riconoscimento può, infatti, essere stato effettuato congiuntamente da parte della madre e del padre (vero o non vero), oppure separatamente, cioè in tempi successivi. In ciascuna di queste situazioni può annidarsi la non veridicità dell’atto di riconoscimento. Ed in entrambi i casi la madre che per prima ha riconosciuto il figlio potrebbe essere chiamata anche lei a rispondere delle false dichiarazioni del padre (se ha acconsentito nella consapevolezza della falsità). Come è noto infatti la madre che per prima abbia riconosciuto il figlio deve poi dare il suo consenso all’eventuale suc¬cessivo riconoscimento tardivo paterno (art. 250 c.c.). In questo caso, come nel caso in cui abbia accettato di riconoscere il figlio congiuntamente al “falso padre” risponderà anche lei naturalmente per la falsità.
Il riconoscimento non veritiero può verificarsi, come si è detto, nella inconsapevolezza delle per¬sone che lo effettuano. Spesso, però, si tratta di una difformità voluta, una vera e propria falsità, anche se il dolo può tingersi di tinte diverse.
12 Le false dichiarazioni all’ufficiale di stato civile sembrerebbero poter integrare anche il reato di cui all’art. 483 c.p. (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici) che punisce le false attestazioni di fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità (“Chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni. Se si tratta di false attestazioni in atti dello stato civile la reclusione non può essere inferiore a tre mesi”) ma la giurisprudenza ha chiarito che la differenza tra i due reati consiste nel fatto che nell’art. 495 le false attestazioni hanno ad oggetto specificamente l’identità, lo stato o altre qualità, mentre nell’art, 483 le falsità hanno ad oggetto altri “fatti” (Cass. pen. Sez. V, 4 dicembre 2007, n. 4420; Cass. pen. Sez. V, 16 gennaio 2001, n. 89; Cass. pen. Sez. VI, 28 giugno 1994, n. 8996).
In alcuni casi il riconoscimento falso è effettuato (in sede di formazione dell’atto di nascita) al fine di procacciarsi una genitorialità impossibile biologicamente. Ciò avviene quando una persona senza scrupoli, non potendo avere figli e utilizzando la possibilità offerta dall’art. 250 c.c. di effet¬tuare il riconoscimento anche se unito in matrimonio con altra persona13, riconosce falsamente un neonato magari corrispondendo un compenso alla madre biologica che lo ha partorito (e che non riconosce naturalmente il figlio). Qui il comportamento che dà origine ad uno status non veritiero al momento della formazione dell’atto di nascita, ha il disvalore penale dell’alterazione di stato di cui al secondo comma dell’art. 567 del codice penale.
In altri casi si è in presenza di un atto effettuato in una condizione per lo più di genitorialità co¬siddetta sociale (o affettiva) nell’intento – naturalmente sempre illegale – di evitare il ricorso alla procedura di adozione che nel caso di specie sarebbe l’unica procedura utilizzabile per creare il legame giuridico tra il genitore sociale e il minore. Si pensi alla possibilità di adottare ex art. 44 lett. b della legge 4 maggio 1983, n. 184 il figlio del proprio coniuge o ex art. 44 lett. d il figlio del proprio partner. Il falso riconoscimento, in tal caso, pur essendo una scorciatoia illegale, non ha per chi lo effettua lo stesso disvalore del falso riconoscimento effettuato al momento ella nascita per appropriarsi di un figlio. Ed infatti lo stesso codice penale tratta questo comportamento all’art. 495 in modo meno severo.
V I poteri dell’ufficiale di stato civile e del tribunale in ordine alle dichiarazioni di riconoscimento di figlio nato fuori dal matrimonio
La falsità sullo status filiationis al momento della dichiarazione di nascita e quindi della formazione dell’atto di nascita (di figlio indifferentemente nato nel matrimonio o fuori dal matrimonio) (“alte¬razione di stato”) ovvero il falso riconoscimento di un figlio nato fuori dal matrimonio da parte del secondo genitore successivamente alla formazione dell’atto di nascita (“falso ideologico commesso dal privato in atti dello stato civile”) comporta la possibilità di avviare l’azione di disconoscimento (del figlio nato nel matrimonio) ovvero di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità (del figlio nato fuori dal matrimonio).
In linea teorica l’ufficiale di stato civile, pur essendo pubblico ufficiale, ha scarse possibilità di paralizzare eventuali falsità al momento in cui vengono fatte le dichiarazioni degli interessati, non potendo certamente mettere in discussione le affermazioni degli interessati sullo status filiationis. Egli certamente deve accertare “la verità della nascita attraverso l’attestazione o la dichiarazione sostitutiva…” (art. 29 comma 6 DPR 396/2000) ma non può certo entrare nel merito della loro veri¬dicità intrinseca cioè della corrispondenza tra la dichiarazione e il dato biologico della genitorialità.
Tuttavia la legge prevede un meccanismo potenzialmente idoneo a paralizzare quanto meno eventuali falsi riconoscimenti di figli nati fuori dal matrimonio, attraverso l’imposizione all’uffi¬ciale di stato civile dell’obbligo di comunicare al tribunale il riconoscimento di figli nati fuori dal matrimonio effettuati da una persona coniugata a condizione che non siano riconosciuti dall’altro genitore (altrimenti si tratterebbe di una violazione della riservatezza collegata alla possibilità di riconoscere figli anche da parte di chi è unito in matrimonio con altra persona). Il meccanismo di controllo della eventuale falsità del riconoscimento scatta quindi sostanzialmente solo se un uomo sposato riconosce da solo un figlio nato fuori dal matrimonio. In tali casi la legge sospetta che vi possa essere stato un abbandono del neonato da parte della madre biologica o, peggio, addirittura la cessione onerosa del figlio ad una coppia che in tal modo potrebbe violare la nor¬mativa sull’adozione.
L’art. 74 della legge 4 maggio 1983, n. 184 sull’adozione dei minori prevede, infatti, che “Gli uffi¬ciali di stato civile trasmettono immediatamente al competente tribunale per i minorenni comuni¬cazione, sottoscritta dal dichiarante, dell’avvenuto riconoscimento da parte di persona coniugata di un figlio naturale non riconosciuto dall’altro genitore. Il tribunale dispone l’esecuzione di opportune indagini per accertare la veridicità del riconoscimento. Nel caso in cui vi siano fondati motivi per ritenere che ricorrano gli estremi dell’impugnazione del riconoscimento il tribunale per i minorenni assume, anche d’ufficio, i provvedimenti di cui all’articolo 264, secondo comma, del codice civile”.
L’art. 268 c.c. prevede che “Quando è impugnato il riconoscimento, il giudice può dare, in penden¬za del giudizio, i provvedimenti che ritenga opportuni nell’interesse del figlio”.
La competenza ad adottare questo tipo di provvedimenti in passato era attribuita al tribunale per i minorenni (art. 38 disp. attuazione del codice civile nel testo precedente alla riforma della filia¬zione del 2013), trattandosi di una competenza in linea con le attribuzioni che al tribunale per i minorenni la legge sull’adozione aveva affidato in materia di contrasto ai falsi riconoscimenti.
Sulla base di questa disposizione il tribunale per i minorenni adottava in genere provvedimenti di allontanamento del figlio nel caso in cui vi fossero sospetti di un falso riconoscimento.
Il nuovo testo dell’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile (in seguito alle modifiche operate con l’art. 3, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219) ha espunto l’art. 264 dalle competenze attribuite al tribunale per i minorenni ed anche se l’art. 74 della legge 184 del 1983 è rimasto invariato, si dovrebbe ritenere che tale potere oggi sia passato alla competenza del tri¬bunale ordinario.
13 Art. 250 (Riconoscimento)
Il figlio nato fuori del matrimonio può essere riconosciuto, nei modi previsti dall’articolo 254, dalla madre e dal padre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento…
Pertanto nei casi in cui – in seguito alla trasmissione al tribunale per i minorenni della segnalazione da parte dell’ufficiale di stato civile di cui si è sopra detto – sorgesse un dubbio di falsità nel ricono¬scimento, il tribunale per i minorenni dovrebbe trasmettere la segnalazione al pubblico ministero presso il tribunale ordinario con la richiesta di nomina di un curatore speciale per il promovimento dell’azione davanti al tribunale ordinario competente all’adozione dei provvedimenti opportuni. Tuttavia nella prassi il tribunale per i minorenni si ritiene ancora competente ad adottare provvedi¬menti di allontanamento del figlio minore dal genitore che lo ha falsamente riconosciuto, sul rilievo che tale potere discende dalle norme di contrasto in tema di abusi della responsabilità genitoriale. Formalmente il genitore che riconosce un figlio ne è il genitore e questo appare sufficiente – in attesa degli sviluppi dell’azione – per legittimare l’intervento del tribunale per i minorenni.
VI Il dolo nei reati di “alterazione di stato” e di “false attestazioni all’ufficiale di stato civile”
a) La consapevolezza della falsità
Non possono esserci dubbi circa il fatto che sia il reato di “alterazione di stato” (art. 567, secondo comma, c.p.) che quello di “false dichiarazioni in atti dello stato civile” (art. 495 c.p.) presuppon¬gano la consapevolezza della falsità relativa allo status filiationis.
Come si è detto, anche la donna coniugata che partorisce nella consapevolezza che il figlio non è del marito e non dichiara che trattasi di figlio nato fuori del matrimonio, commette il reato di alterazione di stato.
Si è già accennato a Cass. pen. Sez. VI, 30 ottobre 2014, n. 51662 (in un caso di riconosci¬mento congiunto di figlio nato fuori dal matrimonio, che in realtà era, però, figlio nato dalla rela¬zione tra la partoriente e il suo precedente compagno) secondo cui il dolo nel reato di alterazione di stato consiste nella contemporanea presenza nell’agente della consapevolezza della falsità della dichiarazione, della volontà di effettuarla e della previsione dell’evento di attribuzione al neonato di uno stato civile diverso da quello che gli spetterebbe secondo natura.
Nello stesso senso in passato si sono espresse altre sentenze di legittimità.
Secondo Cass. pen. Sez. VI, 12 febbraio 2003, n. 17627 integra il delitto di alterazione di stato, ipotizzato dall’art. 567, secondo comma c.p. (falsità nella formazione di un atto di nascita) la falsa dichiarazione resa in sede di formazione dell’atto di nascita del neonato nella quale si attesti falsamente che il neonato sia figlio proprio e di persona che non intende essere nominata, poiché il riconoscimento di un figlio come naturale configura una dichiarazione di scienza che è rivolta ad esprimere tale rapporto di discendenza fondato nella procreazione.
In Cass. pen. Sez. VI, 12 marzo 1993, n. 5225; Cass. pen. Sez. VI, 3 luglio 1989 n. 15039 e Cass. pen. Sez. VI, 2 dicembre 1970, n. 1504 si afferma che nell’ipotesi di alterazione di stato descritta dall’art. 567, 2° comma, c.p., il dolo richiesto è quello generico e consiste nella coscienza e volontà di rendere una dichiarazione contraria alla realtà, tale da attribuire al neonato uno stato civile diverso da quello che gli spetterebbe secondo natura.
Richiamando quanto si è sopra detto trattando il tema dell’obbligo giuridico di preservare l’identità personale del neonato (in cui in cui è compresa la identità biologica) si può fondatamente ritene¬re che il dolo nel reato di alterazione di stato è non è solo commissivo ma anche omissivo con la conseguente applicazione del principio che “Non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo” (art. 40 c.p.).
b) Il figlio nato attraverso la procreazione medicalmente assistita
Nel caso di figlio nato a seguito di pratiche di fecondazione eterologa, nonostante la consapevolez¬za della procreazione per il tramite di un donatore estraneo alla coppia coniugale o di fatto, non si può parlare di alterazione di stato.
A seguito, infatti, di una pronuncia della Corte costituzionale (Corte cost. 10 giugno 2014, n. 16214) che ha fatto venir meno il divieto di procreazione medicalmente assistita eterologa, la qualità di genitore prescinde dalla diretta discendenza e dal rapporto biologico, in quanto il nato da fecondazione eterologa acquisisce, ai sensi dell’art. 8 della legge n. 40 del 200415, lo status di figlio. Conseguentemente la dichiarazione di paternità non integra né un’alterazione di stato ne’ una falsa attestazione in atti dello stato civile (Cass. pen. Sez. VI, 10 gennaio 2019, n. 4854).
14 La Corte costituzionale – che nel 2012 aveva dichiarato inammissibile la questione (Corte cost. 7 giugno 2012, n. 150) – chiamata successivamente di nuovo in causa ha dichiarato, infatti, con la sentenza Corte cost. 10 giugno 2014, n. 162 che è costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 2, 3, 29, 31 e 32 Cost., l’art. 4, comma 3, della legge 40/2004– e la relativa incriminazione penale prevista nell’art. 9 – nella parte in cui stabilisce il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili.
15 Legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita),
Art. 8. (Stato giuridico del nato)
1. I nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di fi¬gli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’articolo 6.
VII La sospensione del processo penale per pregiudizialità dell’accertamento civile sullo status filiationis
a) La sospensione discrezionale del processo
L’articolo 3 del codice di procedura penale prevede la sospensione del processo penale fino al pas¬saggio in giudicato della sentenza civile che definisce la questione sullo status, a condizione che la questione sia ritenuta seria dal giudice e che la causa civile sia già iniziata16.
Inoltre la sentenza irrevocabile del giudice civile che ha deciso una questione sullo stato di famiglia o di cittadinanza ha efficacia di giudicato nel procedimento penale (cfr Cass. pen. Sez. III, 19 febbraio 2015, n. 27062 che ha escluso che sentenze diverse da quelle sullo stato di famiglia e sulla cittadinanza possano avere l’efficacia di giudicato nel processo penale).
In applicazione di questi principi Cass. pen. Sez. VI, 20 giugno 2007, n. 33326 ha precisato – annullando un provvedimento di merito che aveva negato la sospensione – che il processo per il delitto di alterazione di stato, commesso mediante falsa attestazione della paternità nella forma¬zione dell’atto di nascita, può essere sospeso in relazione alla controversia civile sulla questione di stato perché essa condiziona, in termini di pregiudizialità, la pronuncia sull’imputazione ed inoltre perché la sentenza del giudice civile sul rapporto di paternità naturale esplica effetti vincolanti nel procedimento penale pur non sospeso.
Viceversa il procedimento civile sullo status non può essere sospeso in attesa dell’esito di un pro-cedimento penale iniziato anteriormente in quanto nell’attuale codice di procedura penale non è stata riprodotta la disposizione di cui all’art. 3, comma 2, del codice abrogato, con conseguente soppressione di ogni riferimento alla cosiddetta pregiudiziale penale nel testo dell’art. 295 c.p.c. in sede di nuova formulazione di detto articolo da parte della riforma del codice di procedura civile operata dalla legge n. 353 del 199017.
In seguito a questa modifica si ritiene pacificamente che il nostro ordinamento non sia più ispira¬to al principio dell’unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale su quello civile, essendo stato dal legislatore instaurato il sistema della (pressoché) completa autonomia e sepa¬razione fra i due giudizi, nel senso che, tranne alcune particolari e limitate ipotesi di sospensione del processo civile previste dall’art. 75, comma 3, del nuovo codice di procedura penale (azione promossa in sede civile dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado), da un lato il processo civile deve proseguire il suo corso senza essere in¬fluenzato dal processo penale e, dall’altro, il giudice civile deve procedere ad un autonomo accer¬tamento dei fatti e della responsabilità (civile) dedotta in giudizio (cfr sul punto per esempio Cass. civ. Sez. lavoro, 14 settembre 2000, n. 12141; Cass. civ. Sez. lavoro, 7 maggio 1997, n. 3992; Tribunale Salerno Sez. I, 3 febbraio 2010).
b) La prova nel processo penale non sospeso
Se il processo civile non è iniziato prima di quello penale o se, iniziato il processo civile, il giudice penale non reputa seria la questione pregiudiziale sollevata davanti a lui, il procedimento penale non viene sospeso.
In tal caso l’accertamento della falsità avverrà secondo i criteri generali dell’acquisizione della pro¬va nel processo penale (libri terzo del codice di procedura penale) o in sede di indagini (libro quinto del codice di procedura penale). A tal fine particolare rilievo avrà la perizia anche coattiva secondo le modalità previste nell’art. 224 bis c.p.p. (e 359 bis c.p.p. su iniziativa del pubblico ministero e autorizzazione del giudice) per i casi in cui sia necessario il compimento di atti idonei ad incidere sulla libertà personale (come il prelievo di capelli, di peli, o di mucosa del cavo orale su persone viventi ai fini della determinazione del profilo del DNA o accertamenti medici).
In passato Cass. pen. Sez. VI, 28 aprile 2005, n. 24586 (pronunciata in un caso di utilizzazione dei risultati dell’esame del DNA disposto dal P.M. sul campione ematico prelevato a fini sanitari all’imputato detenuto proprio finalizzato all’accertamento del reato di “alterazione di stato”) ha ri¬tenuto legittima, per l’accertamento del reato di cui all’art. 567 c.p., l’utilizzazione, a fini di prova, di un campione di sangue prelevato all’imputato nell’ambito degli ordinari accertamenti sanitari
16 Art. 3c.p.p. (Questioni pregiudiziali)
1. Quando la decisione dipende dalla risoluzione di una controversia sullo stato di famiglia o di cittadinanza il giudice, se la questione è seria e se l’azione a norma delle leggi civili è già in corso, può sospendere il processo fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce la questione.
2. La sospensione è disposta con ordinanza soggetta a ricorso per cassazione. La corte decide in camera di consiglio.
3. La sospensione del processo non impedisce il compimento di atti urgenti.
4. La sentenza irrevocabile del giudice civile che ha deciso una questione sullo stato di famiglia o di cittadinanza ha efficacia di giudicato nel procedimento penale.
17 L’attuale art. 295 c.p.c. (sospensione necessaria) prevede che “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende3 la decisione della causa”.
Il precedente testo prevedeva invece – facendo anche espresso riferimento all’art. 3 c.p.p. – che “Il giudice dispone che il processo sia sospeso nel caso previsto nell’articolo 3 del codice di procedura penale e in ogni altro caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia civile o amministrativa, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”.
effettuati ai sensi dell’ordinamento penitenziario, essendo irrilevante la mancanza di uno specifico consenso a tal fine.
Non vale per i reati contro lo stato di famiglia quanto previsto nell’ambito dei delitti contro la libertà sessuale dall’art. 540 secondo comma c.p. secondo cui il rapporto di filiazione fuori dal matrimonio è stabilito osservando i limiti di prova indicati dalla legge civile (per esempio la necessità dell’au¬torizzazione del tribunale per il riconoscimento della filiazione in caso di genitorialità incestuosa).
Inoltre è opportuno ricordare che l’art. 238, secondo comma, c.p.p. consente l’acquisizione di ver¬bali di prove assunte in un giudizio civile definito con sentenza passata in giudicato.
VIII La pena accessoria della perdita della responsabilità genitoriale
L’articolo 569 del codice penale (pena accessoria) prevede che la condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di alterazione di stato importa la perdita della responsabilità genitoriale.
La Corte costituzionale, intervenuta sul punto, ha però dichiarato incostituzionale questa disposi¬zione nella parte in cui stabilisce l’automaticità della perdita della responsabilità genitoriale così precludendo al giudice (civile) ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto (Corte cost. 23 febbraio 2012, n. 31). Ciò in quanto – afferma la Corte – tanto nell’or¬dinamento internazionale, quanto in quello interno, è principio acquisito che in ogni atto comunque riguardante un minore deve tenersi presente il suo interesse morale e materiale, che ha assunto carattere di piena centralità ed è considerato preminente. Incidendo su di esso la pronunzia di automatica decadenza, non è conforme al principio di ragionevolezza, e quindi la norma contrasta con l’art. 3 Cost. in quanto, ignorando l’interesse del minore, statuisce la perdita della “potestà” sulla base di un mero automatismo, che preclude al giudice ogni possibilità di valutazione e di bi¬lanciamento, nel caso concreto, tra l’interesse stesso e la necessità di applicare comunque la pena accessoria in ragione della natura e delle caratteristiche dell’episodio criminoso.
La pena accessoria della perdita della responsabilità genitoriale non può estendersi, per il principio di tassatività vigente in ambito penale, al reato di cui all’art. 495 c.p. (false dichiarazioni in atti dello stato civile) che, come sopra detto, resta integrato dalla falsità sullo status commessa suc¬cessivamente alla formazione dell’atto di nascita.
IX Il risarcimento dei danni
Ci si chiede ora se sia ipotizzabile un’azione di risarcimento dei danni in seguito all’accertamento della falsità nell’attribuzione dello status filiationis.
Ciò, sia nel caso in cui la falsità (in caso di filiazione nel matrimonio o fuori dal matrimonio) sia accertata nel procedimento penale sia nel caso in cui sia accertata in una causa civile in seguito al positivo esperimento dell’azione di disconoscimento o di impugnazione del riconoscimento non veritiero.
a) Il risarcimento chiesto dal figlio
Posto che la falsità costituisce un illecito in danno dell’identità personale e biologica del figlio, il primo dei soggetti che potrebbe pretendere di essere risarcito è proprio il figlio (se minore, rappre¬sentato dal genitore che ne esercita la responsabilità o da un curatore speciale). L’attribuzione di uno status non veritiero, d’altro lato, produce un danno alla identità personale che è da annoverare indubbiamente tra le lesioni costituzionalmente protette (Cass. civ. Sez. unite, 11 novembre 2008, n. 26972) da cui discende il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale.
Ed in effetti secondo Trib. Trieste, 5 giugno 2018 in seguito al disconoscimento per difetto di veridicità può configurarsi, in capo al soggetto falsamente riconosciuto come figlio, un danno non patrimoniale, quanto all’identità personale e con riferimento al nome, alla dignità, alle relazioni sociali, che è tanto maggiore quanto più ampio è il lasso di tempo intercorso tra il riconoscimento e l’esercizio dell’azione, e che è risarcibile anche equitativamente e a mezzo di presunzioni.
Secondo Trib. Milano, 27 aprile 2016 va risarcito il danno al figlio falsamente riconosciuto da un uomo che, a distanza di anni impugni il riconoscimento disconoscendone la veridicità. L’uomo aveva riconosciuto la figlia minorenne della compagna, con la quale successivamente contraeva matrimonio. Il matrimonio era stato poi annullato con sentenza ecclesiastica e l’uomo, i cui rap¬porti con la ragazza si erano fortemente incrinati, chiedeva al Tribunale di accertare e dichiarare che la ragazza ormai maggiorenne non era sua figlia.
Da qui la richiesta risarcitoria della ragazza per il danno morale ed esistenziale patito, a fronte del falso riconoscimento.
Secondo il tribunale il falso riconoscimento integrerebbe il reato di cui all’art. 483 c.p. e cioè “falsi¬tà ideologica commessa dal privato in atto pubblico” (in verità come si è sopra detto il reato è pre¬visto nell’art. 495 c.p. e cioè “false attestazioni o dichiarazioni in atti dello stato civili”) sussistendo l’elemento oggettivo e soggettivo del reato: fatto incontestato e pienamente ammesso dall’attore è che questi aveva riconosciuto falsamente la figlia della compagna quando aveva circa un anno e mezzo, nella piena consapevolezza di non esserne il padre.
Si afferma nella sentenza che soprattutto dopo la riforma della filiazione operata con la legge 219 del 2012 va dichiarato il principio che il diritto alla propria identità personale e sociale, ove leso da una condotta dolosa o colposa non giustificata dall’ordinamento, meriti un pieno risarcimento.
Sussistono quindi nella tutti gli elementi propri della responsabilità aquiliana: il fatto ingiusto (non jure), il danno, il nesso di causa tra gli stessi, l’elemento soggettivo.
La sentenza quindi che accoglie l’impugnazione per il falso riconoscimento da parte dell’uomo determina un danno ingiusto, risarcibile secondo i consolidati principi in tema di responsabilità aquiliana, in quanto lede degli interessi meritevoli di primaria tutela e di valore preminente rispetto all’interesse alla riaffermazione del principio di verità biologica. L’interesse dell’uomo a riaffermare la verità biologica, a fronte di un rapporto con la figlia ormai divenuto distaccato, non può certo prevalere rispetto al contrapposto interesse della convenuta alla conservazione della sua identi¬tà personale e appartenenza familiare (interesse quest’ultimo da considerarsi preminente, alla luce dei valori costituzionali). La valutazione comparativa degli interessi delle parti deve peraltro compiersi avendo riguardo anche al principio di responsabilità. Alla luce di tale principio, non può essere assicurata maggior tutela al padre che, riconosciuto in malafede un figlio non suo, ritratti il suo atto per mero capriccio o valutazione di opportunità o per sopravvenute difficoltà nel rapporto genitoriale, rispetto alla posizione del figlio che, a causa del ripensamento paterno, vede sconvolta la propria identità e vede recisi legami familiari consolidatisi nel tempo.
Il Tribunale rileva, infine, che in diverse occasioni la giurisprudenza di merito ha riconosciuto, nell’ambito dei danni endofamiliari, la risarcibilità del danno arrecato dal genitore al figlio a se¬guito di falso riconoscimento, seguito da azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità; tale danno è stato qualificato come danno non patrimoniale connesso alla lesione della propria identità, alla necessità di reinserirsi nel contesto sociale con un nuovo cognome, alla sofferenza legata alla repentina scoperta di una nuova realtà circa le proprie origini, alla perdita di legami familiari consolidati, senza possibilità di crearne di nuovi.
b) Il risarcimento chiesto dalla persona ingannata dal partner
La persona ingannata dal partner con cui congiuntamente forma l’atto di nascita del figlio (nato nel matrimonio o fuori dal matrimonio) ha titolo per chiedere di essere risarcito dei danni? Il presunto padre “ingannato” che corrisponde a chi ritiene suo figlio per anni il mantenimento, potrà chiedere di essere risarcito dei danni patrimoniali che ha subìto?
Secondo Trib Firenze, 12 febbraio 2015 va risarcito il danno subìto da un uomo che, ignorando di non esserne il padre, ha riconosciuto come propria una figlia nata da una relazione a lui sotta¬ciuta della propria convivente con altra persona.
I punti su cui la sentenza si sofferma sono i seguenti:
a) L’obbligo di impedire l’evento
Si afferma che l’art. 2043 c.c. prevede che l’evento dannoso possa ritenersi cagionato sia da azioni che da omissioni, dolose o colpose. Tuttavia, l’art. 2043 c.c., non richiede un indiscriminato dovere di attivarsi a tutela delle posizioni giuridiche soggettive vantate da terzi per interrompere la serie causale originata all’esterno della propria sfera giuridica. Per integrare la violazione del principio del neminem laedere non è sufficiente il riconoscimento di una generica antidoverosità della con¬dotta omissiva, da parte del soggetto agente; è invece necessaria l’individuazione anche di un vero e proprio obbligo giuridico di impedire l’evento; obbligo che può derivare da una specifica norma, da un contratto ovvero da una specifica relazione di fatto tra le parti (art. 1173 c.c.18), come ap¬punto la convivenza di fatto. A tal proposito, assumono rilievo i diritti/doveri derivanti dalla nascita di un figlio ed i reciproci rapporti tra i genitori, anche se non inseriti all’interno di un rapporto ma¬trimoniale, quali quello di lealtà e di informazione, improntati a principi di buonafede, correttezza e tutela dell’affidamento (principi generali non circoscrivibili alla sola materia negoziale).
b) La natura della responsabilità
Sul piano della natura della responsabilità civile, occorre tuttavia specificare che, nel caso di spe¬cie, non si tratta di responsabilità da contatto sociale a cui applicare il regime di responsabilità contrattuale, istituto che ha trovato fertile applicazione giurisprudenziale soprattutto in alcune fattispecie peculiari (come ad esempio nel rapporto tra medico operante in struttura ospedaliera pubblica e paziente, pur in assenza di uno specifico contratto d’opera – o nel rapporto tra inse¬gnante e alunno in caso di autolesioni subite da quest’ultimo), bensì di responsabilità aquiliana di cui all’art. 2043 cc.
c) Sull’ingiustizia del danno – evento
Occorre però stabilire anche se la condotta posta in essere dalla donna, sia idonea ad ingenerare un danno ingiusto alla luce anche della peculiare relazione di fatto instauratesi tra le parti sulle quali, non essendo legate da alcun vincolo di matrimonio, non ricadono espressi obblighi giuridici
18 Art. 1173 c.c. (Fonti delle obbligazioni). Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico.
così come quelli indicati nell’art 143 c.c.. Ecco, quindi, che l’attenzione si dovrà quindi spostare sul presunto diritto leso dalla condotta di parte convenuta.
Ora, nel caso in esame, presupposto per il riconoscimento del diritto al risarcimento è la sussisten¬za di un danno ingiusto subito dall’uomo ed imputabile a parte convenuta a titolo di colpa o dolo per aver nascosto informazioni che avrebbero diversamente orientato le scelte dell’uomo.
Sul punto, occorre quindi verificare se, in conseguenza della condotta tenuta dalla donna, vi sia stata una lesione di interessi tutelati dall’ordinamento giuridico che abbia dato luogo ad un danno ingiusto subito dall’uomo.
Occorre premettere che il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, costitui¬sce il presupposto logico della responsabilità civile, non potendo chiaramente ritenersi che diritti definiti come inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i loro titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare.
Il bene giuridico che l’uomo ritiene sia stato leso in conseguenza della condotta della donna è da rinvenire sia nella propria dignità sia nel diritto di autodeterminazione, entrambi in riferimento al proprio, del tutto peculiare, ruolo genitoriale. Si tratta di diritti assoluti e pertanto tutelabili erga omnes, come si ricava dal combinato disposto di cui all’art. 2 e 13 Cost. espressione di un più generale principio di libertà, tutela dell’autonomia privata e di autodeterminazione nelle proprie scelte. La Corte costituzionale ha avuto, infatti, il merito di ricondurre nuove fattispecie al testo della Costituzione, ampliando gli spazi di tutela dei cittadini e degli individui, come testimoniano le numerose decisioni in cui si è occupata del “diritto alla vita” (sentenze nn. 27 del 1975; 35 del 1997; 223 del 1996), del diritto “all’identità personale” definito come “diritto ad essere se stessi” (sentenza n. 13 del 1994) e soprattutto, per quello che qui rileva – della libertà personale, intesa non solo come garanzia da forme di coercizione fisica della persona, ma anche come espressione della libertà morale del soggetto (sentenza n. 30 del 1962).
d) Sull’elemento soggettivo
L’elemento soggettivo della colpa della donna non può sussistere in re ipsa, per il semplice fatto di avere tradito la fiducia del partner, quanto nell’aver leso la capacità di autodeterminazione di quest’ultimo influenzando negativamente le scelte di vita effettuate in conseguenza della nascita della piccola. La donna ha rivelato al proprio compagno di avere avuto rapporti sessuali con un altro uomo solo quindici mesi dopo la nascita della piccola e circa ventiquattro mesi dall’inizio della gravidanza. Ma anche circa un anno dopo l’interruzione del rapporto sentimentale. Né del resto la donna ha mai dedotto in corso di causa che il suo compagno fosse a conoscenza di altri eventuali rapporti della stessa con altri uomini.
e) Sul risarcimento del danno.
Il danno patrimoniale dedotto è costituito da oltre 40.000 euro che l’uomo deduce di aver soppor¬tato per adempiere ai suoi compiti di “padre”.
f) Il risarcimento del danno non patrimoniale
L’uomo rileva, inoltre, di aver subito, in conseguenza della condotta della madre della bambina un danno non patrimoniale, sia nella componente biologica che in quella morale ed esistenziale, per una somma complessiva di euro 128.141,00.
Il pregiudizio alla salute psicofisica, il pregiudizio morale ed il pregiudizio alla vita di relazione sono distinti profili della stessa unica voce risarcitoria raccolta nella definizione di danno non patrimo¬niale. Occorre rilevare che, nel caso di specie, sia il presunto danno biologico che il presunto danno morale, non sembrano porsi in rapporto diretto rispetto ai fatti costitutivi posti a fondamento della domanda di parte attrice. Se non per il danno morale da sofferenza temporanea, nei limiti che si perviene ad argomentare…. Non può negarsi però che la sofferenza derivante dalla immediata percezione di non essere il padre biologico della bambina è qualcosa di diverso dalla stessa per¬cezione avvenuta però successivamente ad un lungo periodo nel quale il soggetto danneggiato ha comunque instaurato un legame affettivo con il figlio ritenuto come proprio.
È vero infatti che la relazione affettiva con la neonata (che è il bene presupposto dalla domanda di tutela) tra l’uomo e la piccola è stata resa possibile solo dalla condotta colposa di parte convenuta. Ma la presa di coscienza dell’uomo di non essere il padre biologico della bambina, nei cui confronti ha compiuto un legittimo e comprensibile “investimento” emotivo, costituisce sicuramente un danno non patrimoniale posto in una relazione di immediatezza e stringente connessione (ex art. 1223 c.c.) con il fatto illecito, che deve trovare legittimo ristoro. Ad avviso del giudicante la valutazione equitativa considerata la durata temporale del rapporto con la piccola è stimabile in euro 5.000,00.
Per quanto riguarda invece il presunto danno biologico, parte attrice ha prodotto una consulenza tecnica di parte in cui si fa riferimento al fatto che, in conseguenza dell’evento lesivo addebitato a parte convenuta, sarebbe emerso un danno da invalidità permanente nella percentuale del 20% e un danno da invalidità temporanea pari a 90 gg al 75 % e a 90 gg. al 50 %. Questo Giudice rileva che dalla relazione tecnica prodotta in atti da parte attrice non risulta sufficientemente provato il presunto danno biologico…
Per quanto riguarda il danno esistenziale, si è statuito in giurisprudenza che questo possa trovare ristoro risarcitorio anche in assenza di alcun danno biologico e cioè anche qualora il diritto costituzionalmente protetto risulti diverso da quello di cui all’art. 32 Costituzione. Ciò che rileva è che tali componenti del danno non patrimoniale siano, da un punto di vista dell’an risarcitorio, espres¬sione di una lesione di un diritto costituzionalmente tutelato, in assenza di un fatto di reato o di una norma che preveda espressamente il ristoro economico e provati anche a mezzo presunzioni, nella loro verificazione secondo un’entità tale da superare la soglia della normale tollerabilità (cfr. Cass. n. 22585/2013).
Richiamando quanto già detto precedentemente in merito alla connotazione ingiusta del danno subito da parte attrice (ingiustizia che, ai sensi dell’art. 2043 c.c. costituisce uno degli elementi necessari per l’an risarcitorio), si ritiene che la risarcibilità del danno non patrimoniale non può esaurirsi nel ristoro della sofferenza indotta dalla falsa rappresentazione perché la condotta della madre della bambina ha prodotto una temporanea lesione del diritto di autodeterminazione nelle proprie scelte esistenziali che trova copertura costituzionale negli artt. 2 e 13 Costituzione, soddi¬sfacendo così l’esigenza di tipicità richiesta dall’art.2059 c.c..
Per quanto riguarda la prova del danno esistenziale lamentato, risultano agli atti i numerosi viag¬gi effettuati da parte attrice in Firenze dopo il periodo della nascita della piccola, l’esternazione della propria paternità sia nei confronti dei familiari della compagna., che soprattutto dei propri parenti e amici. Si tratta di un insieme di dati fattuali da cui risulta inconfutabilmente che l’uomo ha modificato la propria quotidiana “routine”, in conseguenza della nascita di una bambina di cui ritenne, ragionevolmente, di essere il padre, per oltre un anno. Tuttavia, tale corredo probatorio, non è idoneo ad avviso del giudicante a provare la sussistenza di un danno esistenziale. Difatti, per poter parlare di danno esistenziale è necessario che il soggetto danneggiato abbia subito uno stravolgimento in pejus della propria condizione relazionale in conseguenza della condotta tenuta dal soggetto danneggiante. Nel caso di specie, sulla base delle stesse allegazioni di parte attrice, le relazioni dell’uomo con la piccola, sono sorte proprio in conseguenza della condotta colposa della madre della bimba che ha ingenerato in lui l’erronea convinzione di esserne il padre. Si può para¬dossalmente affermare che, nella situazione in esame, manchi il peggioramento del proprio stile di vita che in verità, sarebbe migliorato proprio in conseguenza della convinzione, seppur erronea, di essere padre e quindi del verificarsi dell’evento dannoso. Mentre come si è detto l’eventuale sussistenza del danno esistenziale, derivante dallo sconvolgimento della propria progettualità esi¬stenziale in funzione dell’acquisizione della posizione di padre, in verità, troverebbe fondamento non tanto nella condotta omissiva della donna, quanto nella sua infedeltà, aspetto non oggetto della presente controversia.
Giurisprudenza
Cass. pen. Sez. VI, 10 gennaio 2019, n. 4854 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
A seguito di una pronuncia della Consulta con efficacia invalidante ex tunc del divieto di procreazione medical¬mente assistita eterologa, la qualità di genitore prescinde dalla diretta discendenza e dal rapporto biologico, in quanto il nato da fecondazione eterologa acquisisce, ai sensi dell’art. 8 della legge n. 40 del 2004 lo status di figlio, nato durante il matrimonio. conseguentemente la dichiarazione di paternità resa in tal senso, non integra un’alterazione di stato né una falsa attestazione in atti dello stato civile.
Trib. Trieste, 5 giugno 2018 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In seguito al disconoscimento per difetto di veridicità può configurarsi, in capo al soggetto falsamente riconosciu¬to come figlio, un danno non patrimoniale, quanto all’identità personale e con riferimento al nome, alla dignità, alle relazioni sociali, che è tanto maggiore quanto più ampio è il lasso di tempo intercorso tra il riconoscimento e l’esercizio dell’azione, e che è risarcibile anche equitativamente e a mezzo di presunzioni.
Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. – sollevata dalla Corte d’appello di Milano, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – nella parte in cui non consentirebbe di valutare il concreto interesse del minore a mantenere l’identità relazionale e lo status di una riconosciuta filiazione materna (in un caso di maternità surrogata), impedendo, così, che tale interesse pos¬sa essere realizzato con l’ampiezza di tutele riconosciute da plurimi principi costituzionali. Infatti, pur dovendosi riconoscere un accentuato favore dell’ordinamento per la conformità dello status alla realtà della procreazione, va escluso che quello dell’accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento. Ed invero, l’attuale quadro norma¬tivo e ordinamentale, sia interno, sia internazionale, non impone, nelle azioni volte alla rimozione dello status filiationis, l’assoluta prevalenza di tale accertamento su tutti gli altri interessi coinvolti. In tutti i casi di possibile divergenza tra identità genetica e identità legale, la necessità del bilanciamento tra esigenze di accertamento della verità e interesse concreto del minore è resa trasparente dall’evoluzione ordinamentale intervenuta e si proietta anche sull’interpretazione delle disposizioni da applicare al caso in esame.
Corte cost. 10 novembre 2016, n. 236 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È costituzionalmente illegittimo l›art. 567, comma 2, c.p., nella parte in cui punisce il reato di alterazione di stato mediante falsificazione con la pena della reclusione da cinque a quindici anni, anziché con la pena della reclusione da tre a dieci anni.
La severa cornice edittale censurata dal rimettente Tribunale ordinario di Varese – mentre non può ritenersi anacronistica in rapporto al mutato contesto normativo, tecnico e scientifico (giacché il disvalore della condotta sanzionata e l’inerente allarme sociale non sono attenuati né dall’astratta possibilità delle prove genetiche per l’accertamento della filiazione, né dalle riforme del diritto di famiglia intervenute nel diverso settore del diritto civile) – risulta, sul piano della ragionevolezza intrinseca, manifestamente sproporzionata al reale disvalore della condotta punita, ledendo congiuntamente il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del fatto commesso (art. 3 Cost.) e quello della finalità rieducativa della pena (art. 27 Cost.). Pertanto, alla luce dei poteri di intervento della Corte costituzionale, l’unica soluzione praticabile per eliminare la manifesta irragionevolez¬za denunciata, utilizzando coerentemente grandezze già rinvenibili nell’ordinamento, consiste nel parificare il trattamento sanzionatorio delle due fattispecie incriminatrici nelle quali si articola l’unitario art. 567 cod. pen. È auspicabile un intervento del legislatore che, riconsiderando funditus, ma complessivamente, il settore dei delitti in esame, potrà introdurre i diversi trattamenti sanzionatori ritenuti adeguati,
Cass. pen. Sez. VI, 11 ottobre 2016, n. 48696 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Deve essere esclusa l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 567, comma 2, c.p. ( alterazione dello stato civile di un neonato mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità), nel caso di dichiarazioni di nascita ef¬fettuate ai sensi dell’art. 15 del D.P.R. n. 396 del 2000, in ordine a cittadini italiani nati all’estero mediante la tecnica della maternità surrogata eterologa (utero in affitto) e rese all’autorità consolare sulla base di certificato redatto dalle autorità ucraine che li indichi come genitori, in conformità alle norme stabilite dalla legge del luogo.
Trib. Milano, 27 aprile 2016 (Pres. Canali, est. Stella) (www.osservatoriofamiglia.it)
Va riconosciuta, nell’ambito dei danni endofamiliari, la risarcibilità del danno arrecato dal genitore al figlio a seguito di falso riconoscimento, seguito da azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità; tale danno è stato qualificato come danno non patrimoniale connesso alla lesione della propria identità, alla necessità di reinse¬rirsi nel contesto sociale con un nuovo cognome, alla sofferenza legata alla repentina scoperta di una nuova realtà circa le proprie origini, alla perdita di legami familiari consolidati, senza possibilità di crearne di nuovi.
Deve ritenersi adeguatamente dimostrata la sussistenza di un danno non patrimoniale, riconducibile, in termini descrittivi, al danno morale (quale sofferenza
interiore conseguente alla condotta del … e al fatto costituente reato), al danno da lesione alla propria identità personale e al danno da perdita del rapporto parentale con l’attore.
Cass. pen. Sez. V, 10 marzo 2016, n. 13525 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non integra il reato di alterazione di stato la circostanza che all’estero (nella specie, in Ucraina) una coppia italiana abbia reso all’autorità consolare dichiarazione di nascita di un bambino ivi nato, e di cui risultano essere i genitori alla stregua dell’atto di nascita, redatto conformemente alla legge locale, e quindi trascritto in Italia, pur se solo l’uomo è il padre anche biologico, in quanto la nascita è avvenuta a mezzo di maternità surrogata, con l’utilizzo di gameti femminili estranei alla coppia (la corte ha anche escluso – pure confermando la sentenza di merito – il reato di cui all’art. 495 c.p., presupponente una falsa dichiarazione, nella specie non intervenuta).
Cass. pen. Sez. VI, 11 novembre 2015, n. 8060 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non integra il reato di alterazione di stato, non ravvisandosi l’induzione in errore dell’ufficiale di statocivile, la trascrizione in Italia di un falso atto di nascita formato all’estero in forza di una richiesta presentata da parte del solo padre biologico del neonato, corredata da documenti che dimostravano che la madre effettiva del ne¬onato era diversa da quella indicata nell’atto. (Nella fattispecie, dopo la formazione in Ucraina di un falso atto di nascita, alla prima richiesta di trascrizione presentata dagli imputati, coniugi che si dichiaravano genitori del bambino, è seguita una seconda istanza da parte solo del solo padre biologico, con la produzione di documenti che dimostravano chi era la madre effettiva del neonato).
Cass. pen. Sez. III, 19 febbraio 2015, n. 27062 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudicato civile fa stato sulle sole questioni concernenti lo stato di famiglia o di cittadinanza. (Fattispecie nella quale la S.C. ha ritenuto che il passaggio in giudicato della sentenza civile, che aveva accertato la simulazione di alcuni contratti di compravendita immobiliare, non avesse efficacia vincolante in sede penale, dove all’esito dell’istruttoria era emersa l’effettività dei trasferimenti immobiliari).
Trib. Firenze, 12 febbraio 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Va risarcito il danno subìto da un uomo che, ignorando di non esserne il padre, ha riconosciuto come propria una figlia nata da una relazione a lui sottaciuta della propria convivente con altra persona.
Cass. pen. Sez. VI, 30 ottobre 2014, n. 51662 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il delitto di alterazione di stato previsto dall’art. 567, comma secondo, cod. pen., richiede il dolo generico che consiste nella contemporanea presenza nell’agente della consapevolezza della falsità della dichiarazione, della volontà di effettuarla e della previsione dell’evento di attribuire al neonato uno stato civile diverso da quello che gli spetterebbe secondo natura, mentre l’intenzione di favorire il neonato mediante l’attribuzione di un genitore diverso da quello naturale può essere valutata solo per l’eventuale concessione dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 1) cod. pen.
Corte cost. 10 giugno 2014, n. 162 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 4, comma 3, della L. n. 40 del 2004, ove si stabilisce il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo anche quando necessarie per superare specifici problemi di sterilità e infertilità della coppia, nonché gli artt. 9, commi 1 e 3, limitatamente alle parole “in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3”, e 12, comma 1, di detta legge, che configura appunto l’illecito amministrativo di fecon¬dazione eterologa, sono incostituzionali per violazione degli artt. 2, 3, 29, 31, 32 Cost.
Cass. civ. Sez. I, 8 giugno 2012, n. 9379 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La presunzione legale di paternità di cui all’articolo 231 codice civile, a norma della quale il marito della madre è padre del figlio da essa concepito durante il matrimonio, può essere vinta soltanto con l’azione di disconosci¬mento di cui all’articolo 235 codice civile e, quindi, da parte dei soggetti, nei termini e nelle condizioni all’uopo previste, ancorché vi sia stata declaratoria di nullità del matrimonio tra i coniugi.
Corte cost. 7 giugno 2012, n. 150 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
A seguito della sentenza 3 novembre 2011 con cui la grande camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha fornito una diversa interpretazione – rispetto a quella seguìta sullo stesso caso dalla prima sezione della stessa corte e posta a fondamento delle questioni di costituzionalità – in ordine alla compatibilità con la Cedu di una normativa nazionale che escluda la tecnica della inseminazione eterologa, vanno restituiti ai giudici a quibus gli atti relativi alla questione di legittimità costituzionale degli artt. 4, 3 comma, 9, 1 e 3 comma, e 12, 1 comma, legge 19 febbraio 2004, n. 40, nella parte in cui vietano il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistite di tipo eterologo, stabilendo sanzioni per chiunque utilizzi a fini procreativi gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente, esclu¬dono, in caso di ricorso alla inseminazione eterologa, il disconoscimento di paternità allorché il consenso del coniuge o convivente sia ricavabile da atti concludenti e prevedono che il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di obblighi, in riferimento agli artt. 2, 3, 29, 31, 32 Cost. e, in relazione agli artt. 8 e 14 Cedu, all’art. 117, 1 comma, Cost..
Corte cost. 23 febbraio 2012, n. 31 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È costituzionalmente illegittimo l›art. 569 c.p., nella parte in cui stabilisce che, in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di alterazione di stato, previsto dall›art. 567, secondo comma, c.p., consegua di diritto la perdita della potestà genitoriale, così precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell›interesse del minore nel caso concreto (La pronuncia è stata resa nel giudizio di legittimità costituzionale dell›articolo 569 c.p. promosso dal Tribunale di Milano con ordinanza del 31 gennaio 2011, iscritta al n. 141 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell›anno 2011).
Trib. Milano, Sez. IX, 25 gennaio 2012(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La presunzione di paternità di cui all’articolo 231 codice civile non opera per il semplice fatto della procreazione da donna coniugata, ma solo quando vi siano anche un atto di nascita di figlio legittimo o, in difetto, il relativo possesso di stato, mentre, quando risulti che la madre abbia dichiarato il figlio come naturale, difettando l’o¬peratività di detta presunzione e dello “status” di figlio legittimo, non è necessario il disconoscimento ai sensi dell’articolo 235 codice civile, né si frappone alcun ostacolo all’azione per la dichiarazione giudiziale della pater¬nità naturale di persona diversa dal marito.
Tribunale Salerno Sez. I, 3 febbraio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il testo originario dell’art. 295 c.p.c., che, sul presupposto della prevalenza dell’accertamento penale, nel richia¬mare l’art. 3 c.p.p. prevedeva la sospensione obbligatoria del processo civile nel caso di pendenza di giudizio pe¬nale, è stato sostituito dalla attuale previsione che, sul diverso presupposto dell’autonomia dei due accertamenti, subordina la sospensione del processo civile alla condizione della dipendenza dell’accertamento civile da quello penale, ovverosia, della sussistenza di una pregiudizialità logico-giuridica dell’accertamento penale.
Cass. pen. Sez. VI, 12 agosto 2009, n. 32854 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Concorre nel reato di alterazione di stato mediante falso di cui all’art. 567, comma secondo, cod. pen., chiunque, pur senza rendere alcuna falsa dichiarazione di nascita, contribuisca, materialmente o moralmente, con adeguata efficienza causale, all’evento tipico realizzato dall’autore della dichiarazione che altera lo stato di nascita.
Cass. civ. Sez. unite, 11 novembre 2008, n. 26972 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente eti¬chettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata danno esistenziale perché attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pure attraver¬so l’individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario né è necessitata dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione. Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. È compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiu¬dizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione.
Trib. Salerno, Sez. I, 4 agosto 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La presunzione di paternità di cui all’articolo 231 codice civile non opera per il semplice fatto della procreazione da donna coniugata, ma solo quando vi siano anche un atto di nascita di figlio legittimo o, in difetto, il relativo possesso di stato, mentre, quando risulti che la madre abbia dichiarato il figlio come naturale, difettando l’o¬peratività di detta presunzione e dello “status” di figlio legittimo, non è necessario il disconoscimento ai sensi dell’articolo 235 codice civile, né si frappone alcun ostacolo all’azione per la dichiarazione giudiziale della pater¬nità naturale di persona diversa dal marito.
Cass. pen. Sez. VI, 5 maggio 2008, n. 35806 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di alterazione di stato di cui all’art. 567, comma secondo cod. pen. non è configurabile in relazione alle false dichiarazioni incidenti sullo stato civile di una persona, rese quando l’atto di nascita è già formato, potendo tale condotta rientrare invece nella previsione dell’art. 495, comma terzo, n. 1 cod.pen..(Fattispecie nella quale la Corte ha qualificato ai sensi dell’art. 495 cod. pen. la falsa dichiarazione di paternità naturale resa all’ufficiale di stato civile a distanza di due anni dalla nascita della bambina).
Cass. pen. Sez. V, 4 dicembre 2007, n. 4420 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mancata indicazione, nell’apposito modulo di richiesta del passaporto, dell’esistenza di precedenti penali dà luogo alla configurabilità del reato di cui all’art. 495, ultimo comma, cod. pen., trattandosi di implicita, falsa at¬testazione inerente ad una qualità personale del dichiarante, con esclusione, quindi, tanto del reato di cui all’art. 483 cod. pen. (poiché la falsa attestazione non ha per oggetto “fatti”), quanto di quello di cui all’art. 496 cod. pen., configurabile solo in via residuale quando la falsità non abbia alcuna attinenza, né diretta né indiretta, con la formazione di un atto pubblico, inteso in senso lato.
Cass. pen. Sez. VI, 20 giugno 2007, n. 33326 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il processo per il delitto di alterazione di stato, commesso mediante falsa attestazione della paternità nella formazione dell’atto di nascita, può essere sospeso in relazione alla controversia civile sulla questione di stato perché essa condiziona, in termini di pregiudizialità, la pronuncia sull’imputazione e la sentenza del giudice civile sul rapporto di paternità naturale esplica effetti vincolanti nel procedimento penale pur non sospeso.
Corte cost. 23 marzo 2007, n. 106 (Famiglia e Diritto, 2007, 8-9, 761 nota di PITTARO)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell›art. 567, secondo comma, c.p., censurato, in riferimento all›art. 3 Cost., nella parte in cui commina la reclusione da cinque a quindici anni a chiunque, nella formazione di un atto di nascita, altera lo stato civile di un neonato mediante false dichiarazioni, in quanto la pena sarebbe irragionevolmente elevata rispetto a quella prevista per altre condotte non solo simili ma anche più gravi. Posto che la determinazione del trattamento sanzionatorio per condotte penalmente rilevanti rientra nella discrezionalità legislativa, censurabile solo in caso di scelte manifestamente arbitrarie, nella specie il giudice a quo ha richiamato, quali tertia comparationis, fattispecie non assimilabili, per la diversità delle condotte (art. 567, primo comma, e art. 578 c.p.) e del bene giuridico protetto (art. 578 c.p.).
Trib. Reggio Emilia, 30 gennaio 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non opera la presunzione di paternità di cui all’articolo 231 codice civile per il semplice fatto della procreazione da donna coniugata, ma solo quando vi sia anche un atto di nascita di figlio legittimo o, in mancanza, il rela¬tivo possesso di stato, mentre, quando risulti che la madre abbia dichiarato il figlio come naturale, difettando l’operatività di detta presunzione e dello “status” di figlio legittimo, non è necessario il disconoscimento ai sensi dell’articolo 235 codice civile né si frappone alcun ostacolo all’azione per la dichiarazione giudiziale della pater¬nità naturale di persona diversa dal marito.
Cass. pen. Sez. VI, 28 aprile 2005, n. 24586 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È utilizzabile, a fini di prova, il campione di sangue prelevato all›imputato nell›ambito degli ordinari accertamenti sanitari effettuati ai sensi dell›ordinamento penitenziario, essendo irrilevante la mancanza di uno specifico consenso a tal fine. (Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto legittima, per l›accertamento del reato di cui all›art. 567 cod. pen., la utilizzazione dei risultati dell›esame del DNA disposto dal P.M. sul campione ematico prelevato a fini sanitari all›imputato detenuto).
Cass. pen. Sez. VI, 13 dicembre 2004, n. 4453 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La fattispecie delittuosa di cui all’art. 567 cod. pen. punisce l’attribuzione al neonato di un genitore diverso da quello naturale. Ne consegue che non risponde del suddetto delitto la madre che, nel dichiarare all’ufficiale di stato civile che il figlio è stato concepito da un’unione naturale, occulti il suo stato di persona coniugata. Nè il silenzio serbato su tale circostanza, concomitante al fatto regolarmente attestato, può integrare una reticenza punibile ai sensi dell’art. 495 cod. pen., trattandosi di dichiarazione che non incide sull’essenza del documento e non è lesiva della funzione probatoria dell’atto in relazione allo specifico contenuto per cui esso è stato formato.
Cass. pen. Sez. VI, 12 febbraio 2003, n. 17627 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Integra il delitto di alterazione di stato, ipotizzato dall’art. 567, secondo comma c.p. (falsità nella formazione di un atto di nascita) la falsa dichiarazione resa in sede di formazione dell’atto di nascita del neonato nella quale si attesti falsamente che il neonato sia figlio proprio e di persona che non intende essere nominata, poiché il riconoscimento di un figlio come naturale configura una dichiarazione di scienza che è rivolta ad esprimere tale rapporto di discendenza fondato nella procreazione.
Cass. pen. Sez. VI, 24 ottobre 2002, n. 5356 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il reato di alterazione di stato di cui all’art. 567 c.p., comma 2 si commette nella formazione dell’atto di nasci¬ta. Pertanto, le false dichiarazioni incisive sullo stato civile di una persona, rese quando l’atto di nascita è già formato, esulano dalla sfera specifica di tutela dell’alterazione di stato e rientrano nella previsione dell’art. 495 c.p., comma 3, n. 1.
Cass. pen. Sez. V, 16 gennaio 2001, n. 89 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ configurabile il delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico con riferimento a una dichia¬razione sostitutiva di atto di notorietà, allorché la falsità riguardi fatti (che siano a diretta conoscenza dell’inte¬ressato) diversi da quelli personali. Infatti, l’art. 26 della l. n. 15 del 1968, nel prevedere le sanzioni penali per la falsità delle attestazioni, rinvia genericamente al codice penale (e alle leggi speciali): sicché sarà applicabile l’art. 495 c.p. quando la falsa dichiarazione riguardi l’identità, lo stato o altre qualità personali; sarà invece applicabile l’art. 483 c.p. quando la falsità riguardi altri fatti.
Cass. civ. Sez. lavoro, 14 settembre 2000, n. 12141 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché nel nuovo codice di procedura penale non è stata riprodotta la disposizione di cui all’art. 3, comma 2, del codice abrogato, nè sono state reiterate le altre disposizioni alla stessa collegate e contenute nel capo secondo del Titolo primo del Libro primo del medesimo codice, con conseguente soppressione di ogni riferimento alla cosiddetta pregiudiziale penale nel testo dell’art. 295 c.p.c. in sede di nuova formulazione di detto articolo da parte della no¬vella introdotta dalla l. n. 353 del 1990, si deve ritenere che il nostro ordinamento non sia più ispirato al principio dell’unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale su quello civile, essendo stato dal legislatore instaurato il sistema della (pressoché) completa autonomia e separazione fra i due giudizi, nel senso che, tranne alcune particolari e limitate ipotesi di sospensione del processo civile previste dall’art. 75, comma 3, del nuovo codice di procedura penale (azione promossa in sede civile dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado), da un lato il processo civile deve proseguire il suo corso senza essere influenzato dal processo penale e, dall’altro, il giudice civile deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità (civile) dedotta in giudizio. Ne deriva che è illegittima, non ricorrendo alcuna delle sopra indicate ipotesi di sospensione necessaria, l’ordinanza che abbia sospeso il processo civile ex art. 295 (nuovo testo) c.p.c. sul presupposto della mera presentazione in sede penale di un esposto- querela, non essendosi neppure in presenza di un processo penale effettivamente pendente, non essendo stata ancora esercitata l’azione penale.
Cass. civ. Sez. I, 27 agosto 1997, n. 8059 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La presunzione di paternità di cui all’articolo 231 codice civile non opera per il semplice fatto della procreazione da donna coniugata, ma solo quando vi siano anche un atto di nascita di figlio legittimo o, in difetto, il relativo possesso di stato, mentre, quando risulti che la madre abbia dichiarato il figlio come naturale, difettando l’o¬peratività di detta presunzione e dello “status” di figlio legittimo, non è necessario il disconoscimento ai sensi dell’articolo 235 codice civile, né si frappone alcun ostacolo all’azione per la dichiarazione giudiziale della pater¬nità naturale di persona diversa dal marito.
Cass. civ. Sez. lavoro, 7 maggio 1997, n. 3992 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché nel nuovo codice di procedura penale non è stata riprodotta la disposizione di cui all’art. 3, comma 2, del codice abrogato, né sono state reiterate le altre disposizioni alla stessa collegate e contenute nel capo II del titolo I del libro I del medesimo codice, con conseguente soppressione di ogni riferimento alla cosiddetta pregiudiziale penale nel testo dell’art. 295 c.p.c. in sede di nuova formulazione di detto articolo da parte della novella introdotta dalla legge n. 353 del 1990, si deve ritenere che il nostro ordinamento non sia più ispirato al principio dell’unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale su quello civile, essendo stato dal legislatore instaurato il sistema della (pressoché) completa autonomia e separazione fra i due giudizi, nel senso che, tranne alcune particolari e limitate ipotesi di sospensione del processo civile previste dall’art. 75, comma 3, del nuovo codice di procedura penale (azione promossa in sede civile dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado), da un lato il processo civile deve proseguire il suo corso senza essere influenzato dal processo penale e, dall’altro, il giudice civile deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità (civile) dedotta in giudizio. Resta peraltro ferma la possibilità per il giudice civile di disporre la sospensione facoltativa del giudizio.
Cass. civ. Sez. I, 5 aprile 1996, n. 3194 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La presunzione di paternità di cui all’articolo 231 codice civile non opera per il semplice fatto della procreazione da donna coniugata, ma solo quando vi siano anche un atto di nascita di figlio legittimo o, in difetto, il relativo possesso di stato, mentre, quando risulti che la madre abbia dichiarato il figlio come naturale, difettando l’o¬peratività di detta presunzione e dello “status” di figlio legittimo, non è necessario il disconoscimento ai sensi dell’articolo 235 codice civile, né si frappone alcun ostacolo all’azione per la dichiarazione giudiziale della pater¬nità naturale di persona diversa dal marito.
Trib. Rimini, 24 marzo 1995 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La presunzione di paternità di cui all’art. 231 c.c. non opera per il solo fatto della procreazione da donna co¬niugata, essendo necessario un conforme atto di nascita che attesti la paternità del marito; integra quindi gli estremi del reato di alterazione di stato la denuncia come legittimo del figlio procreato a seguito di fecondazione artificiale eterologa, anche se nato in costanza di matrimonio.
Cass. pen. Sez. VI, 28 giugno 1994, n. 8996 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il privato può commettere il reato di cui all’art. 479 c.p. (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici) solo quale concorrente del pubblico ufficiale, ex art. 117 c.p., ovvero inducendolo in errore, ex art. 48 c.p.Tale ultima ipotesi ricorre soltanto ove le false dichiarazioni del privato siano integrate da un’attestazione del pubblico ufficiale sulla loro intrinseca rispondenza al vero, rientrandosi invece nell’ambito delle fattispecie previste dagli artt. 483 e 495 c.p. quando la falsa dichiarazione riguarda fatti o qualità personali che il pubblico ufficiale si limita a riportare nell’atto pubblico, senza che rientri nelle sue funzioni di attestarne la veridicità.
Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 1992, n. 11073 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La presunzione di paternità di cui all’art. 231 c. c. non opera per il semplice fatto della procreazione da donna coniugata, ma solo quando vi sia anche un atto di nascita di figlio legittimo o, in difetto, il relativo possesso di stato, mentre, quando risulti che la madre abbia dichiarato il figlio come naturale, difettando l’operatività di detta presunzione e dello status di figlio legittimo, non è necessario il disconoscimento ai sensi dell’art. 235 c. c., né si frappone alcun ostacolo all’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale di persona diversa dal marito.
Cass. pen. Sez. VI, 3 luglio 1989 n. 15039 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della sussistenza del dolo nel delitto di alterazione di stato è sufficiente la coscienza e volontà di rendere una dichiarazione contraria alla realtà, tale da attribuire al neonato uno stato civile diverso da quello che gli spetterebbe secondo natura. (Nella specie, la madre del neonato lo aveva dichiarato all’ufficiale dello stato civile come figlio del marito dal quale viveva separata e con il quale aveva in corso giudizio rotale di annullamento del matrimonio, pur sapendo che il bambino era figlio di altra persona).
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 1987, n. 3184 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La presunzione di paternità contemplata dall’articolo 231 codice civile non opera, qualora dall’atto di nascita risulti che la madre abbia dichiarato il figlio come figlio naturale, e quindi come non concepito ad opera del ma¬rito, atteso che in tale ipotesi viene a mancare il titolo attributivo dello status di figlio legittimo, senza che sia necessaria alcuna azione di disconoscimento.
Trib. Milano, 12 dicembre 1984 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La presunzione di paternità del marito non opera per il semplice fatto della nascita da donna coniugata, ma entra in funzione solo allorquando il nato viene denunciato come figlio della donna unita in matrimonio.
App. Genova, 16 ottobre 1982 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La donna coniugata può riconoscere nell’atto di nascita il proprio figlio naturale, non ostandovi la presunzione di paternità del marito.
Cass. pen. Sez. VI, 2 dicembre 1970, n. 1504 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di alterazione di stato descritta dall’art. 567, 2° comma, c.p., il dolo richiesto è quello generico e consiste nella coscienza e volontà di rendere una dichiarazione contraria alla realtà, tale da attribuire al neonato uno stato civile diverso da quello che gli spetterebbe secondo natura
Cass. pen. Sez. Unite 30 maggio 1959 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Lo stato di figlio legittimo, in relazione alla presunzione di paternità contemplata dall’articolo 231 codice civi¬le, non sussiste quando facciano difetto sia l’atto di nascita, contenente il nome della madre coniugata, sia il possesso di stato (considerato quale titolo sussidiario equivalente), giacché la presunzione in parola in tanto è operativa in quanto concorra il titolo di stato legittimo (atto di nascita o possesso di stato); cioè è integrativa del titolo stesso. Pertanto non commette delitto di alterazione di stato il celibe che denunzia all’ufficio dello stato civile l’infante, nato dalla relazione di lui con donna coniugata, come figlio proprio e di donna che non consente di essere nominata. In tale caso, non sussistendo il titolo che costituisce il presupposto perché funzioni la “prae¬sumptio juris” suddetta, l’infante non ha assunto lo stato di figlio legittimo e quindi non è alterato uno stato che a lui spetti legalmente; viceversa, il titolo derivante dalla dichiarazione fatta nell’atto di nascita è conforme allo stato che all’infante realmente compete tramite il riconoscimento che il dichiarante opera nell’esercizio di un suo diritto (articolo 252 codice civile) che, per ciò stesso, non può costituire reato (articolo 51 codice penale). Non è di ostacolo al riconoscimento suddetto, né quindi all’esercizio del diritto in questione, il disposto dello articolo 253 codice civile (inammissibilità di riconoscimento “in contrasto con lo stato di figlio legittimo in cui la persona si trova”), giacché la locuzione “trovarsi nello stato di figlio legittimo” va intesa nel significato di “essere legalmente investito del titolo relativo”.

Ai fini della prova dell’usucapione va applicato il canone del ‘più probabile che non’

Cassazione civile, sez. II, 08 Febbraio 2019, n. 3847. Est. Tedesco.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Svolgimento del processo
– la Corte d’appello di Milano ha rigettato l’appello proposto da Pugliese Vincenza contro ordinanza ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c., del Tribunale di Milano, di rigetto di domanda dal medesimo proposta nei confronti del Condominio (*);
– il P. aveva chiesto l’accertamento della nullità della delibera condominiale che aveva autorizzato la realizzazione di un muro a confine fra la proprietà del ricorrente e quella del condomino D.D.S.;
– la corte d’appello ha rilevato d’ufficio la sopravvenuta carenza dell’interesse del ricorrente all’accertamento della nullità della delibera, essendo stata definita con transazione la lite con il condomino interessato;
– per la cassazione della sentenza il P. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi;
– il condominio ha resistito con controricorso:
– il ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
– il ricorso sfugge ai rilievi di inammissibilità formulati nel controricorso, sia per quanto riguarda l’esposizione dei fatti di causa, che è tale da consentire alla Corte, in relazione ai motivi proposti, di avere una chiara e completa cognizione dei fatti che hanno originato la controversia e dell’oggetto dell’impugnazione, sia in relazione ai motivi, che presentano i requisiti della specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata;
– il primo motivo denuncia violazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2;
– la corte d’appello, pur avendo rilevato d’ufficio il difetto di interesse a coltivare l’azione nei confronti del condominio, non ha adempiuto alle prescrizioni imposte dall’art. 101 c.p.c., comma 2, con conseguente violazione del principio del contraddittorio.
– il secondo motivo denuncia violazione degli artt. 306 e 310 c.p.c.;
– nella causa con il D.D. non c’era stata cessazione della materia del contendere, ma parziale rinuncia agli atti del giudizio da parte del ricorrente, con conseguente estinzione solo parziale della lite;
– il terzo motivo denuncia violazione dell’art. 100 c.p.c.;
– il ricorrente censura la sentenza per avere negato la sussistenza dell’interesse del ricorrente a fare accertare la nullità della delibera condominiale in relazione agli ulteriori profili di illegittimità fatti valere con l’impugnazione (violazione del regolamento condominiale, mancata approvazione con l’unanimità dei consensi, carattere vietato dell’innovazione);
– il quarto motivo denuncia la sentenza nella parte in cui, con travisamento delle risultanze processuali, ha ravvisato, nella definizione della lite fra l’attuale ricorrente e il D.D., una ipotesi di cessazione della materia del contendere in luogo della parziale estinzione del giudizio a seguito di rinuncia;
– il primo motivo è fondato e il suo accoglimento determina l’assorbimento delle altre censure;
– ed invero la definizione della lite nei rapporti fra i due condomini interessati non aveva mutato i temi del dibattito fra il P. e il Condominio, che continuò a svolgersi sul difetto di legittimazione passiva del condominio e sul fatto che i vizi fatti valere comportavano l’annullabilità e non la nullità della delibera condominiale, conseguendone da ciò, secondo il condominio, che, decorsi inutilmente i termini di impugnazione, la definitività e vincolatività della deliberazione anche per il condomino ricorrente;
– la corte non è entrata nel merito di questi profili, ma ha posto l’attenzione, da un lato, sul fatto che il condomino aveva realizzato un’opera difforme da quella autorizzata dall’assemblea, dall’altro, sul fatto che fra i diretti interessati avevano raggiunto un accordo di natura transattiva;
– la considerazione congiunta dell’una e dell’altra circostanza ha indotto la corte a ravvisare una ipotesi di sopravvenuta carenza dell’interesse ad agire;
– fatto è, però, che tale possibile conseguenza dell’evolversi della vicenda ha costituito oggetto di rilievo d’ufficio, il che imponeva al giudice di sottoporre la questione al preventivo contraddittorio fra le parti in causa, in applicazione di un principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte e oramai acquisito al diritto positivo attraverso la novella dell’art. 101 c.p.c., comma 2 (L. n. 69 del 2009);
– si intende alludere al principio secondo cui “la mancata segnalazione da parte del giudice di una questione, rilevata d’ufficio per la prima volta in sede di decisione, che comporti nuovi sviluppi della lite non presi in considerazione dalle parti, modificando il quadro fattuale, determina nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa delle parti, private dell’esercizio del contraddittorio e delle connesse facoltà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare richieste istruttorie sulla questione decisiva ai fini della deliberazione. Pertanto se la violazione si sia verificata nel giudizio d’appello, la sua deduzione come motivo di ricorso in sede di giudizio di legittimità, determina la cassazione con rinvio della pronuncia impugnata, affinchè ai sensi dell’art. 394 c.p.c., comma 3, possano essere esplicate le attività processuali che la parte abbia lamentato di non aver potuto svolgere a causa della decisione solitariamente adottata dal giudice” (Cass. n. 10062/2010; n. 11928/2012; n. 11453/2014);
– si impone pertanto la cassazione della sentenza, con rinvio della causa ad altra sezione della Corte d’appello di Milano, perchè provveda a nuovo esame e liquidi le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara assorbiti gli altri; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Milano anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 13 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2019.