Il giudicato sulla nullità canonica del matrimonio comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio civile di separazione

Corte cost., 18 dicembre 2017, n. 272
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
M.D.V., rappresentata e difesa, come da mandato steso a margine del ricorso, dall’Avv. Gaetano La Piana del Foro di Catania, ed elettivamente domiciliata presso il suo studio, alla via Musumeci n. 137 in Catania;
contro
A.S., rappresentato e difeso, giusta procura speciale stesa su documento informatico allegato al controricorso, dall’Avv. Massimo Torrisi, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio, al corso Italia n. 72 in Catania;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 869 del 29.4.2015, pronunciata dalla Corte d’Appello di Catania e depositata il 22.5.2015;
raccolte le conclusioni rassegnate dal P.M. di udienza, dott.ssa ZENO Immacolata, che ha domandato dichiararsi la cessazione della materia del contendere;
ascoltata la discussione proposta dal difensore del controricorrente, Avv. Massimo Torrisi;
udita la relazione svolta dal dott. Di Marzio Paolo;
la Corte osserva.
Svolgimento del processo
A.S. conseguiva il (OMISSIS), dal Tribunale di Catania, sentenza di separazione personale dei coniugi nei confronti di M.D.V., con la quale aveva contratto matrimonio concordatario l'(OMISSIS). Il Tribunale addebitava la responsabilità della separazione alla moglie e non accoglieva perciò la sua domanda di assegno di mantenimento. Rigettava pure la richiesta subordinata proposta dalla moglie, che aveva domandato l’attribuzione, almeno, di un assegno alimentare.
Avverso questa decisione proponeva appello la M., lamentando innanzitutto la erroneità della dichiarazione di addebito a suo carico, non corrispondendo al vero che ella avesse nascosto al marito le condizioni psichiche di suo figlio, nato da precedente unione. In ogni caso i problemi di salute del figlio non avevano avuto alcuna incidenza causale sulla crisi del legame coniugale tra le parti. Domandava pertanto escludersi la dichiarazione di addebito e riconoscersi in suo favore un assegno di mantenimento e, in subordine, almeno un assegno alimentare. Si costituiva il marito che domandava il rigetto dell’appello e, mediante ricorso incidentale, contestava la ripartizione delle spese di lite come decisa dal giudice di prime cure.
Nelle more del giudizio di appello, in separato giudizio, la stessa Corte di Appello di Catania, con sentenza del 14.7.2014, accoglieva la domanda proposta dal marito e riconosceva gli effetti civili alla sentenza ecclesiastica che aveva dichiarato la nullità del matrimonio concordatario contratto dalle parti. M.D.V. proponeva ricorso per cassazione. La Corte territoriale richiedeva alle parti di produrre gli atti relativi al giudizio di legittimità, ricorso e controricorso, e li esaminava.
La Corte etnea domandava allora alle parti di precisare le conclusioni, e dichiarava quindi la cessazione della materia del contendere in relazione al giudizio di separazione personale. Ricordava la Corte territoriale che la nullità del matrimonio era stata pronunciata per due motivi: la esclusione della prole da parte di entrambi i nubendi ed il dolo della moglie nei confronti del marito, per avergli nascosto le condizioni di salute psichica di suo figlio. Osservava quindi che la M. aveva proposto il suo ricorso per cassazione contestando soltanto le valutazioni operate in ordine al secondo motivo di nullità, conseguendone la formazione del “giudicato interno della sentenza di delibazione relativamente alla causa di nullità per esclusione della prole”. La Corte di merito, ancora, rigettava il ricorso incidentale e dichiarava compensate tra le parti le spese di lite.
Avverso la decisione della Corte d’Appello di Catania ha proposto impugnazione M.D.V., affidandosi a dieci motivi. Resiste con controricorso A.S.. La ricorrente ha pure depositato memoria.
Motivi della decisione
Occorre premettere che l’odierna ricorrente ha domandato riunirsi il presente giudizio a quello pendente tra le stesse parti ed avente ad oggetto la delibazione della sentenza ecclesiastica che ha dichiarato la nullità del matrimonio concordatario da loro contratto. La Corte ritiene però, stante la diversità di oggetto dei due giudizi (cfr. Cass. sez. 1, sent. 5.3.2012, n. 3378; Cass. sez. 1, sent. 6.3.2003, n. 3339), che non sussistano i presupposti per disporre la domandata riunione.
Inoltre, in data odierna, questa Corte è stata investita anche della decisione proprio dell’appena ricordato ricorso n. 27080 del 2014, pendente tra le stesse parti ed avente ad oggetto la delibazione della sentenza ecclesiastica che ha dichiarato la nullità del matrimonio concordatario da loro contratto. La Corte ha deciso di dichiarare l’inammissibilità del ricorso proposto da M.D.V., con la conseguenza che la dichiarazione di nullità del matrimonio contratto dalle parti è divenuta definitiva. Tanto anticipato.
1.1. – Con il primo motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente contesta la violazione o falsa applicazionedell’art. 337 c.p.c., perché la Corte d’Appello, essendo ancora pendente il giudizio relativo alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, avrebbe dovuto eventualmente sospendere il presente giudizio, relativo alla separazione personale dei coniugi, ma non doveva dichiararne cessata la materia del contendere.
1.2. – Con il secondo motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la M. afferma la nullità della sentenza della Corte d’Appello in materia di separazione giudiziale dei coniugi, per vizio procedimentale, avendo essa attribuito autorità di cosa giudicata alla sentenza che aveva riconosciuto gli effetti civili alla dichiarazione ecclesiastica di nullità matrimoniale, con decisione che era però stata sottoposta ad impugnazione.
1.3. – Con il terzo motivo di ricorso, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione delle norme di diritto di cui agliartt. 324, 329 e 336 c.p.c., per avere la Corte d’Appello creduto di poter ritenere accertata la formazione del giudicato parziale in relazione alla sentenza di delibazione.
1.4. – Con il quarto motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, l’impugnante afferma la nullità della sentenza della Corte d’Appello per vizio procedimentale, ancora per avere la Corte d’Appello attribuito autorità di cosa giudicata parziale ad una sentenza ancora oggetto di impugnazione.
1.5. – Con il quinto motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente contesta la violazione della legge di revisione del Concordato lateranense, art. 8, comma 2, lett. b), nonchè della L. n. 219 del 1995, art. 64, lett. F), per avere la Corte etnea pronunciato quando ancora pendeva giudizio circa la sentenza di delibazione e prima, pertanto, che divenisse definitiva la statuizione che tale sentenza non produce effetti contrari all’ordine pubblico.
1.6. – Con il sesto motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la ricorrente afferma la nullità della impugnata sentenza della Corte d’Appello per vizio procedimenta-le, per avere la Corte d’Appello conferito esecutività ad una sentenza non ancora divenuta definitiva.
1.7. – Con il settimo motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la ricorrente critica l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, per non essersi la Corte d’Appello pronunciata sulla “irrilevanza della causa di addebito riconosciuta dal Tribunale”.
1.8. – Con l’ottavo motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la ricorrente contesta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, per avere la Corte d’Appello omesso di pronunciare in ordine alla insussistenza della causa di addebito riconosciuta dal Tribunale, non procedendo al riesame delle risultanze delle prove testimoniali raccolte, da cui emergeva la conoscenza da parte del marito dei problemi di salute del figlio dell’impugnante già precedentemente rispetto alla celebrazione del matrimonio.
1.9. – Con il nono motivo di impugnazione, proposto ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la ricorrente censura l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte territoriale omesso di pronunciare in ordine allo stato di bisogno in cui versa l’odierna ricorrente, e non averle pertanto riconosciuto il diritto ad un assegno di mantenimento o, almeno, di una contribuzione alimentare.
1.10. – Con il decimo motivo di impugnazione, proposto ancora ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la ricorrente contesta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, per avere la Corte d’Appello ritenuto di non pronunciare sulla contestazione operata dalla M. circa la decisione del Tribunale di ritenere ammissibile a fini probatori un documento, relativo allo stato di salute del figlio, all’epoca minorenne, acquisito in violazione della vigente normativa sulla privacy.
Le critiche proposte dalla ricorrente in relazione alla valutazione operata dalla Corte d’Appello, la quale ha ritenuto essersi formato il giudicato sulla sentenza di delibazione della decisione ecclesiastica di nullità matrimoniale, pur pendendo impugnazione, appaiono condivisibili. La Corte d’Appello ha rilevato che la nullità del matrimonio concordatario era stata pronunciata dai giudici ecclesiastici per due motivi, l’esclusione della prole da parte di entrambi i coniugi ed il dolo ordito dalla M. nei confronti dell’ A. nel nascondergli le condizioni di salute del figlio avuto da precedente relazione. La Corte territoriale ha giudicato che avendo la odierna ricorrente, nel ricorso per cassazione relativo al giudizio di delibazione, contestato soltanto la valutazione dalla Corte d’Appello in relazione al secondo motivo, di cui ha ritenuto superfluo l’esame, si fosse comunque formato il giudicato circa il riconoscimento degli effetti civili alla decisione ecclesiastica d’invalidità matrimoniale, a seguito dell’omessa contestazione del primo motivo di nullità, consistente nell’esclusione bilaterale della prole.
Invero non si individua nell’ordinamento processuale vigente una previsione generale che attribuisca al giudice la facoltà di interpretare una decisione, non ancora definitiva perché sottoposta ad impugnazione, al fine di valutare l’eventuale intervenuta formazione del giudicato sulla stessa proprio in relazione a questione ancora controversa. In sostanza la Corte territoriale si è sostituita al giudice di legittimità, effettuando una valutazione che competeva invece alla Suprema Corte. Completezza impone poi di ricordare pure che, nel caso di specie, avendo la Suprema Corte dovuto esaminare in pari data anche il diverso giudizio avente ad oggetto la delibazione della sentenza di nullità del matrimonio contratto dalle parti, quel giudizio la M. aveva comunque domandato la rivalutazione di tutti i presupposti per il riconoscimento degli effetti civili alla sentenza ecclesiastica, a seguito di una pronuncia che escludesse la possibilità della delibazione in relazione al preteso dolo della moglie nei confronti del marito, per contrasto con l’ordine pubblico italiano.
Occorre ancora ricordare che il riconoscimento degli effetti civili alla sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio non è precluso dalla preventiva istaurazione di un giudizio di separazione personale tra gli stessi coniugi dinanzi al giudice civile, perché il giudizio e la sentenza di separazione personale hanno petitum e causa petendi, nonché conseguenze giuridiche, del tutto diverse rispetto a quelle del giudizio e della sentenza che dichiarano la nullità del matrimonio (cfr. Cass. sez. 1, sent. 5.3.2012, n. 3378; Cass. sez. 1, sent. 6.3.2003, n. 3339).
Consolidata e condivisibile giurisprudenza di legittimità, cui si intende pertanto assicurare continuità, afferma poi che, qualora in pendenza del giudizio di separazione personale dei coniugi siano riconosciuti gli effetti civili alla sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, con decisione passata in giudicato, il giudizio di separazione viene meno per la cessazione della materia del contendere (Cass. sez. 1, sent. 10.7.2013, n. 17094; Cass. sez. 1, sent. 13.10.2010, n. 399).
Occorre in proposito ribadire che l’innanzi indicato giudizio n. 27080 del 2014, relativo alla delibazione della sentenza canonica che ha dichiarato l’invalidità del matrimonio concordatario contratto dalle parti, si è concluso con il definitivo riconoscimento degli effetti civili alla decisione ecclesiastica di nullità matrimoniale. In conseguenza, deve essere pronunciata la cessazione della materia del contendere nel presente giudizio di separazione personale dei coniugi.
I residui motivi di ricorso rimangono assorbiti.
Tenuto conto della natura della decisione adottata, della vicenda processuale, nonchè della peculiarità delle questioni esaminate, appare corretto disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese di lite.
P.Q.M.
La Corte dichiara cessata la materia del contendere in ordine al ricorso proposto da M.D.V.. Dispone l’integrale compensazione tra le parti delle spese di lite.
Dispone, ai sensi delD.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196,art.52, comma 5, che, in caso di riproduzione per la diffusione della presente decisione, le generalità e gli altri dati identificativi delle parti e dei soggetti menzionati siano omessi.

Matrimonio celebrato all’estero e non trascritto in Italia – Proposizione di ricorso ex art. 337 bis c.c. da uno dei coniugi onde ottenere la regolamentazione completa dei rapporti genitori/figli – Inammissibilità

Tribunale di Mantova, Sez. I Civile, 14/11/2017. Pres., est.
Bernardi.
TRIBUNALE DI MANTOVA
Sezione Prima Civile
Il Tribunale diMantova, in persona dei Sigg. magistrati:
Dott. Mauro Bernardi Presidente Rel.
Dott. ssa Alessandra Venturini Giudice
Dott. Luigi Pagliuca Giudice
– letto il ricorso n. 4345/17 R.G. Vol. presentato da Z. B. nei confronti di
A. N.;
– osservato che l’istante, premettendo di avere contratto matrimonio in
Marocco nel 2008 -non trascritto in Italia- ha richiesto, ex art. 337 bis
c.c., che il Tribunale disponga l’affido a sé, in via esclusiva, dei figli nati
dal matrimonio, che il padre possa vedere i figli solo con modalità
protette ed inoltre che venga determinato l’assegno di mantenimento per
i figli da porsi a carico del padre;
– considerato che l’istante ha chiesto che il Tribunale regoli
completamente i rapporti genitori/figli ciò che però non è ammissibile
finché permanga il vincolo del matrimonio, osservandosi che a nulla
rileva la circostanza che il matrimonio delle parti non sia stato trascritto
in Italia atteso che tale formalità non ha natura costitutiva ma
meramente certificativa e scopo di pubblicità di un atto già di per sè
valido (anche per il nostro ordinamento) sulla base del principio locus
regit actum (cfr. Cass. 18-7-2013 n. 17620; Cass. 19-10-1998 n. 10351;
Cass. 28-04-1990 n. 3599; Cass. S.U. 28-10-1985 n. 5292) sicché alla
fattispecie non può trovare applicazione la disciplina di cui agli artt. 337
bis e segg. c.c. che presuppone invece la separazione, il divorzio, la nullità
o l’annullamento del matrimonio ovvero la nascita di figli fuori dal
matrimonio;
ritenuto che appare superflua l’instaurazione del contraddittorio
trattandosi di un’attività processuale del tutto ininfluente sull’esito del
giudizio (cfr. Cass. S.U. 16-7-2012 n. 12104) atteso che le considerazioni
in rito non sono superabili e che la definizione de plano è conforme al
principio della durata ragionevole del processo;
P.T.M.
dichiara inammissibile l’istanza.
Mantova, 14-11-2017.
IL PRESIDENTE
Dott. Mauro Bernardi

Matrimonio c.d. concordatario – Trascrizione tempestiva ma incompleta dell’atto di matrimonio – Convenzione patrimoniale – Omessa trascrizione – Trascrizione tardiva della convenzione – Effetti tra le parti

Cass. Civile, Sez. 1 – , Sentenza n. 22594 del 27/09/2017.
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 16418/2015 proposto da:
D.M.M., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile
della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Giuliani
Lorenzo, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
R.F., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile
della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Di
Liberatore Luigi, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 505/2015 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,
depositata il 09/04/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
29/05/2017 dal cons. DOGLIOTTIMASSIMO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale FEDERICO
Sorrentino, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di ragione;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato Giuliani Lorenzo che ha chiesto
l’accoglimento del ricorso;
udito, per il controricorrente, l’Avvocato Di Liberatore Luigi che ha
chiesto il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione ritualmente notificato, R.F. conveniva in giudizio
D.M.M., ex coniuge, perchè si dichiarasse che era simulato un atto
pubblico di compravendita, nella parte in cui si indicava, quale
acquirente di immobile (rogito notaio C., (*)), la D.M.; che il prezzo di
acquisto era stato pagato da esso R. con i proventi della propria attività
imprenditoriale; che l’immobile era di sua proprietà esclusiva; in via
subordinata, chiedeva che questo fosse dichiarato di proprietà di
entrambi i coniugi, in quanto parte della comunione de residuo al
momento della separazione personale tra essi. Affermava l’attore che la
D.M. aveva precisato al notaio rogante di trovarsi in regime di comunione
legale.
Costituitosi il contradditorio, la D.M. eccepiva che l’acquisto
dell’immobile era stato effettuato in regime di separazione dei beni e con
proprie disponibilità economiche (in particolare la provvista era stata a
lei trasmessa dalla madre,a seguito della vendita di un suo
appartamento); evidenziava altresì che i coniugi in data 14/01/2002
(dopo la loro separazione personale) avevano sottoscritto una
dichiarazione d’impegno, con la quale chiarivano di trovarsi in regime di
separazione dei beni e di non avere in proprietà comune alcun immobile.
Il Tribunale di Teramo-sezione distaccata di Atri, con sentenza in data
15/05/2008,rigettava la domanda del R., ritenendo comprovato che
l’acquisto dell’immobile era stato effettuato con denaro della D.M. e in
regime di separazione dei beni tra i coniugi.
Proponeva appello il R.. Costituitosi il contraddittorio, l’appellata ne
chiedeva il rigetto.
La Corte d’Appello de l’Aquila, con sentenza in data 09/04/2015,
accoglieva l’appello ed affermava che l’immobile era stato acquistato in
regime di comunione legale dei beni, precisando che i coniugi avevano
bensì dichiarato in forma scritta davanti al ministro del culto cattolico
che aveva celebrato il matrimonio concordatario, la loro scelta del regime
di separazione dei beni, ma la relativa annotazione non compariva nella
copia dell’atto di matrimonio inviato all’ufficiale dello stato civile per la
trascrizione.
Ricorre per cassazione l’appellata.
Resiste con controricorso l’appellante.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente osservato che il ricorso appare ammissibile: sono
chiaramente indicati le violazioni di legge e i vizi di motivazione (e non
rileva che nel medesimo motivo, ci si riferisca ad entrambi i profili); le
violazioni di legge sono trattate adeguatamente.
Con il primo motivo, la ricorrente lamenta violazione degli artt. 162 e 163
c.c., e della L. n. 121 del 1985, art. 8; insufficiente e contraddittoria
motivazione, precisando che al matrimonio concordatario sono
riconosciuti effetti civili al momento della celebrazione, nonostante
trascrizione tardiva, e che tale principio opera anche con riferimento
all’eventuale dichiarazione di scelta del regime di separazione dei beni,
per cui l’istanza del R. in data 21/11/2001 di effettuare l’annotazione di
scelta del regime di separazione dei beni a margine dell’atto di
matrimonio, ha attribuito alla dichiarazione stessa efficacia retroattiva
fino alla celebrazione del matrimonio stesso. Nessuna rilevanza si doveva
attribuire alla dichiarazione della D.M. di trovarsi in regime di
comunione dei beni, davanti al notaio rogante.
Con il secondo, violazione dell’art. 112 c.p.c., ravvisando una non
corrispondenza tra richiesto e pronunciato, essendosi limitato l’odierno
resistente, nel giudizio d’appello, a chiedere l’accoglimento della sua
domanda di simulazione, e in subordine di dichiarazione della
sussistenza del regime di comunione de residuo tra i coniugi.
Con il terzo, violazione dell’art. 2909 c.c., nonchè omessa motivazione,
eccependo l’esistenza di un giudicato interno, in quanto l’appellante non
avrebbe impugnato l’affermazione del primo giudice circa la sussistenza
del regime di separazione dei beni.
Pacifici i fatti di causa.
I coniugi celebrarono il matrimonio secondo il rito concordatario in data
20/07/1985 e dichiararono al ministro del culto cattolico officiante, alla
presenza di due testimoni, la loro volontà di scegliere il regime di
separazione dei beni. L’atto di matrimonio fu trasmesso all’ufficiale dello
stato civile italiano e regolarmente trascritto, privo peraltro
dell’annotazione relativa al regime. Questa fu apposta su richiesta del R.
soltanto il 15/10/2001, dopo la separazione dei coniugi. In data
16/12/1993 era stato rogato atto di compravendita di terreno, ove era
indicata come acquirente la D.M. che dichiarava di trovarsi in regime di
comunione dei beni con il marito.
Afferma la ricorrente, richiamando la L. n. 121 del 1985, art. 8, a seguito
della revisione del concordato tra Stato italiano e Chiesa cattolica, con gli
accordi di Villa Madama del 1984, che al matrimonio con il rito
concordatario vengono riconosciuti effetti civili dal momento della
celebrazione, anche se l’ufficiale dello stato civile abbia effettuato la
trascrizione oltre il termine prescritto. L’argomentazione non ha pregio,
in quanto non si controverte sulla trascrizione del matrimonio,
regolarmente effettuata, ma sulla mancata annotazione della scelta di
regime,a margine dell’atto trascritto.
L’art. 162 c.c., precisa che le convenzioni matrimoniali (necessariamente
attinenti al regime patrimoniale del coniugi) sono stipulate con atto
pubblico sotto pena di nullità. E si tratterà, almeno di regola, di atto
pubblico notarile (anche se l’art. 1382 c.c. 1865, esplicitamente parlava di
“contratti matrimoniali” – peraltro non del tutto coincidenti con le
“convenzioni” – da stipularsi con atto pubblico davanti al notaio). Esse
non potrebbero dunque stipularsi davanti all’ufficiale dello stato civile.
Eccezioni al principio sono contenuti nella L. n. 151 del 1975, art. 228,
(riforma del diritto di famiglia) per cui ciascun coniuge poteva escludere
l’applicazione del nuovo regime legale di comunione dei beni, con
dichiarazione entro il 20/09/1975 (termine poi variamente prorogato)
davanti al notaio o all’ufficiale dello stato civile; nonchè nell’art. 167 c.c.,
per cui il fondo patrimoniale può essere costituito da un terzo, anche per
testamento (pur essendo necessario l’accettazione dei coniugi con atto
pubblico). Eccezioni per,-altro più apparenti che reali, perchè si tratta di
atti unilaterali che incidono sul regime patrimoniale dei coniugi.
Ma la regola dell’atto pubblico notarile soffre un’altra eccezione
contenuta nell’art. 162 c.c., comma 2, per cui la scelta del regime può
essere dichiarata anche “nell’atto di matrimonio”: previsione dettata
all’evidenza da ragioni di semplificazione (la scelta del regime di
separazione dei beni, totalmente regolato dal codice civile, senza ulteriori
clausole o specificazioni). All’entrata in vigore della norma, era stato
espresso qualche dubbio circa la scelta, se questa dovesse comunque
effettuarsi (anche per i matrimoni concordatari) davanti all’ufficiale dello
stato civile ovvero pure davanti al ministro del culto cattolico officiante.
Giurisprudenza di merito e dottrina risposero, in netta prevalenza, in
senso positivo. E la stessa L. n. 121 del 1985, che recepisce, come si
diceva, l’accordo di revisione del Concordato del 1929, precisa, all’art. 8,
che nell’atto di matrimonio (canonico) potranno essere inserite le
dichiarazioni dei coniugi consentite dalla legge civile. Sussiste, anche al
riguardo, una sorta di delega dello Stato italiano al sacerdote officiante
che svolge il ruolo dell’ufficiale dello stato civile, e dunque una funzione
pubblica.
In generale, le convenzioni possono essere stipulate in ogni tempo, sia
prima che dopo la celebrazione del matrimonio, e tuttavia non possono
essere opposte a terzi, se non vi è annotazione, a margine dell’atto di
matrimonio, della data, del notaio rogante, della generalità dei contraenti
ovvero della scelta del regime (di separazione dei beni).
Chiarisce dunque la previsione (e al riguardo la giurisprudenza è ormai
ampiamente consolidata: per tutte Cass. n. 8824 del 1987 e numerosa
giurisprudenza successiva; v. pure Corte cost. n. 111 del 1995) che solo
con l’annotazione il regime prescelto e dunque le convenzioni stipulate
(anche atipiche) sono opponibili ai terzi, i quali vengono dunque a
conoscenza delle convenzioni e del regime relativo attraverso
l’annotazione dell’atto di matrimonio contenuto nei registri pubblici dello
stato civile.
Ma non si potrebbe certo parlare di invalidità delle convenzioni o della
scelta del regime nei rapporti interni tra i coniugi, ove l’atto di
matrimonio, come nella specie, sia stato regolarmente trascritto, ma
privo dell’annotazione del regime. Ciò varrà per le convenzioni
matrimoniali, nonchè per la scelta del regime (di separazione), effettuata
davanti all’ufficiale dello stato civile (per il matrimonio civile) e con
l’equiparazione della dichiarazione davanti al sacerdote, già affermata
dalla giurisprudenza di merito e poi confermata da una prassi assai
consolidata ma pure da un riscontro normativo chiaro ed esplicito già
indicato (L. n. 121 del 1985, art. 8). Non sussiste ragione alcuna per
escludere, nei rapporti interni tra le parti, la validità di una scelta
comune, espressione della loro libera volontà.
E’ da ritenere dunque che la scelta di regime di separazione, espressa in
forma scritta, alla presenza di due testimoni, davanti al ministro del culto
cattolico officiante, ancorchè non annotata nell’atto di matrimonio
trascritto nei registri dello stato civile, nei rapporti interni tra i coniugi
mantenga la sua validità.
Nè si potrebbe sostenere che sia sufficiente una dichiarazione unilaterale
di un coniuge davanti al notaio per effettuare una modifica di regime (che
tale sarebbe da separazione a comunione di beni). La stessa
giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 2954 del 2003) ha chiarito che
non può modificarsi il regime patrimoniale con atto unilaterale di un
coniuge, e che non potrebbe escludersi un bene singolo dal regime
prescelto, senza una modifica generale del regime stesso, nelle forme di
cui all’art. 162 c.c. Dunque nessuna rilevanza avrà la dichiarazione della
D.M. davanti al notaio circa il regime di comunione, in occasione della
compravendita de qua.
Va pertanto accolto, per quanto di ragione, il primo motivo di ricorso,
assorbiti gli altri. Va cassato il provvedimento impugnato. Non dovendosi
effettuare ulteriori accertamenti di fatto, può pronunciarsi nel merito,
rigettando la domanda di R.F., e precisandosi che le parti si trovavano,
quanto ai rapporti interni, in regime di separazione dei beni.
La complessità della questione e la sua relativa novità richiedono la
compensazione delle spese per ogni grado di giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie, per quanto di ragione, il primo motivo di ricorso,
assorbiti gli altri; decidendo nel merito, rigetta la domanda di R.F.;
compensa tra le parti le spese per ogni grado di giudizio.
Così deciso in Roma, il 29maggio 2017.
Depositato in Cancelleria il 27 settembre 2017.

La sospensione della prescrizione non si applica ai coniugi separati

Cass. civ. Sez. III, 23 novembre 2017, n. 27889
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ORDINANZA
sul ricorso 1739/2016 proposto da:
P.G., elettivamente domiciliata in ROMA, P.ZA ADRIANA 20, presso lo studio dell’avvocato ANTONELLA LO CONTE, che la rappresenta e difende giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
A.O., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA EIANINA, 21, presso lo studio dell’avvocato ANNA CASTAGNA, che lo rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 6082/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 03/11/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/10/2017 dal Consigliere Dott. GIOVANNI FANTICINI;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. ANNA MARIA SOLDI che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso perchè infondato.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
RILEVATO CHE:
– A.O. proponeva opposizione all’esecuzione exart. 615 c.p.c., comma 1, contestando il diritto di P.G. di procedere all’esecuzione forzata minacciata con l’atto di precetto notificato il 5 agosto 2009;
– per quanto ancora rileva in questa sede, l’opponente eccepiva (tra l’altro) la prescrizione del credito azionato, relativo al mancato pagamento di assegni di mantenimento della prole dovuti dal gennaio 1998 (in forza del verbale di separazione consensuale omologato il 29 dicembre 1997) al febbraio 2001 (stante il passaggio in giudicato – il 2 marzo 2001 – della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio);
– si costituiva in giudizio P.G., la quale chiedeva il rigetto dell’opposizione;
– con sentenza n. 6270 del 25 marzo 2011, il Tribunale di Roma accoglieva l’opposizione, ritenendo fondata l’eccezione di prescrizione;
– l’opposta proponeva appello avverso tale decisione;
– la Corte d’appello di Roma, con la sentenza n. 6082 del 3 novembre 2015, respingeva il gravame e condannava l’appellante a rifondere le spese del grado;
– P.G. impugna la predetta sentenza con ricorso per cassazione affidato a tre motivi;
– resiste con controricorso A.O.;
– il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte exart. 380-bis c.p.c., comma 1 e ha chiesto il rigetto del ricorso;
– anche la ricorrente ha depositato memoria exart. 380-bis c.p.c., comma 1.
CONSIDERATO CHE:
1. Col primo motivo la ricorrente censura la decisione per violazione (exart. 360 c.p.c., n. 3) degliartt. 160, 147, 148, 316-bis e 2934 c.c., nonché per vizio della motivazione exart. 360 c.p.c., n. 5, per avere la Corte di merito ritenuto soggetti a prescrizione i crediti inerenti al mantenimento della prole da corrispondere attraverso il pagamento di assegni in ratei mensili; afferma la P. che dalle caratteristiche di inderogabilità dell’obbligo di mantenimento e di irrinunciabilità e indisponibilità del relativo diritto il giudice del merito avrebbe dovuto desumere l’imprescrittibilità dei crediti azionati.
2. Il motivo è inammissibile.
Nel ricorso introduttivo la P. dichiara di avere impugnato con l’appello la decisione di primo grado “censurando l’accoglimento dell’eccezione di prescrizione ex adverso proposta, in quanto inammissibile – stante la genericità della proposizione da parte dell’opponente… – ed in quanto infondata, stante sia la sospensione ex lege per tutta la durata del vincolo coniugale (02.03.2001), sia l’interruzione ad opera della notifica dell’atto di precetto (03.02.2006).
Dalla sentenza della Corte d’appello (a cui la ricorrente non imputa un vizio di minuspetizione exart. 112 c.p.c.) si trae conferma che le censure formulate con l’appello erano limitate a “1) l’inammissibilità dell’eccezione di prescrizione, perché proposta in maniera generica” e “2) l’infondatezza dell’eccezione di prescrizione, non avendo il giudice di prima istanza dato rilievo all’atto di precetto notificato in data 3.2.2006”.
Questa Corte ha già statuito che “i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito né rilevabili d’ufficio” (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 7981 del 30/03/2007, Rv. 597111-01; analogamente, Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 17041 del 09/07/2013, Rv. 627045-01: “Non sono prospettabili, per la prima volta, in sede di legittimità le questioni non appartenenti al tema del decidere dei precedenti gradi del giudizio di merito, né rilevabili di ufficio”).
3. Col secondo motivo la ricorrente deduce – richiamandol’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 – violazionedell’art. 2938 c.c., poiché, nel confermare la decisione di primo grado, la Corte d’appello avrebbe accolto un’eccezione di prescrizione formulata in modo generico e senza l’allegazione del fatto che ne determina la decorrenza, arrivando così ad individuare ex officio gli elementi costitutivi dell’eccezione.
4. Il motivo è inammissibile.
Per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (art. 366 c.p.c.) la parte ricorrente è onerata di indicare nell’atto gli elementi fattuali condizionanti l’ambito di operatività di detta violazione; conseguentemente, qualora si affermi – come fa la ricorrente – che una difesa è stata formulata in maniera generica o inidonea negli atti della controparte, è necessario procedere alla trascrizione integrale dei medesimi o del loro essenziale contenuto al fine di consentire il controllo della Corte di legittimità sulla base del solo ricorso, senza necessità di ulteriori indagini integrative.
In altri termini, al fine di permettere a questa Corte l’esame della sua censura (segnatamente, la mancata deduzione degli elementi fondanti la prescrizione estintiva), la P. avrebbe dovuto riportare il testo dell’atto di citazione in opposizione con cui l’ A. ha sollevato l’eccezione.
Al contrario, l’odierna ricorrente si limita ad asserire che la controparte non aveva specificato alcunché e che solo nelle conclusioni aveva chiesto apoditticamente di “dichiarare, comunque, l’avvenuta prescrizione del credito azionato”.
Anche a voler prescindere dalla lacunosità del ricorso, il motivo non può trovare accoglimento: infatti, “grava sulla parte che eccepisce la prescrizione estintiva solamente l’onere di allegare l’inerzia del titolare del diritto dedotto in giudizio e di manifestare la volontà di avvalersene, non anche di tipizzare l’eccezione specificando a quale tra le previste prescrizioni, diverse per durata, intenda riferirsi, spettando al giudice stabilire se, in relazione al diritto applicabile al caso, l’eccepita estinzione si sia verificata” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 15790 del 29/07/2016, Rv. 641583-01; analogamente, Cass., Sez. 3, Sentenza n. 24037 del 13/11/2009, Rv. 610673-01, e Cass., Sez. 3, Sentenza n. 14576 del 22/06/2007, Rv. 598981-01).
5. Col terzo motivo la ricorrente censura la sentenza di merito richiamandol’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – per violazione degliartt. 2943 e 2697 c.c., per non essere stata attribuita efficacia interruttiva della prescrizione all’atto di precetto precedentemente notificato in data 3 febbraio 2006, la cui ricezione era stata affermata dallo stesso opponente, indipendentemente da una materiale produzione del documento nel giudizio; inoltre, la P. afferma che non è stata considerata dai giudici di merito la sospensione del termine di prescrizione exart. 2941 c.c., n. 1, la cui applicabilità ai coniugi separati è controversa in giurisprudenza.
6. Il motivo contiene due distinte censure.
Nella sentenza impugnata si legge: “Ha sostenuto il giudice di prime cure… (che) l’opposizione doveva ritenersi fondata senza che alcun effetto interruttivo potesse riconoscersi al precedente precetto che la convenuta assume essere stato notificato all’ex coniuge in data 3.2.2006 in quanto non prodotto agli atti… Anche considerando il precetto notificato nel febbraio 2006, il diritto dell’appellante risulterebbe comunque pressoché totalmente prescritto. A fronte dell’eccezione di prescrizione sollevata dall’opponente, l’opposta avrebbe dovuto dedurre in primo luogo e poi provare il fatto interruttivo della prescrizione. Non essendo stata dedotta l’efficacia interruttiva della notifica del precetto di cui si discute, siffatta interruzione non può essere presa in considerazione in questa sede”.
Col ricorso per cassazione la P. ribatte che nell’atto di citazione introduttivo della causa (di cui è parzialmente riportato il testo) l’ A. aveva più volte ammesso che l’intimazione era stata preceduta da un precetto in data 3 febbraio 2006 e che la convenuta aveva avanzato istanza di riunione della presente controversia all’opposizione avente ad oggetto quell’atto; pertanto, “la circostanza relativa all’avvenuta notifica in data 3 febbraio 2006 di un atto di precetto avente ad oggetto le medesime somme portate dall’atto di precetto notificato in data 5 agosto 2009 era da ritenersi pacifica tra le parti, in quanto allegata dal medesimo opponente, ed acquisita al giudizio dal primo grado, senza onere alcuno a carico della parte opposta di provare un patto già allegato e prodotto dalla controparte”.
Il controricorrente conferma che “di tale precetto è stata fatta menzione nell’atto di citazione in opposizione al precetto” (pur non essendo prodotto) e che, tuttavia, l'”eccezione di interruzione viene ancorata al precetto notificato in data 3 febbraio 2006 solo in sede di atto d’appello”.
La Corte di merito non ha motivato la propria decisione fondandola sulla mancata prova di un atto interruttivo della prescrizione o sulla necessità di una sua dimostrazione per iscritto, ma ha invece affermato che la parte non aveva tempestivamente allegato l’efficacia interruttiva di quello specifico atto.
In proposito, si osserva che la giurisprudenza di legittimità ha più volte statuito che “l’eccezione di interruzione della prescrizione integra un’eccezione in senso lato e non in senso stretto e, pertanto, può essere rilevata d’ufficio dal giudice sulla base di elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti” (Cass., Sez. U., Sentenza n. 15661 del 27/07/2005, Rv. 583491-01), e che “il giudice, chiamato a decidere sulla questione di prescrizione introdotta dal convenuto attraverso l’eccezione di cuiall’art. 2938 c.c., può tener conto anche del fatto interruttivo di essa, anche se non dedotto formalmente dall’attore come controeccezione” (Cass., Sez. L., Sentenza n. 2035 del 30/01/2006, Rv. 587230-01), fermo restando che “l’interruzione della prescrizione può essere dedotta per la prima volta in sede di appello” (Cass., Sez. L., Sentenza n. 25213 del 30/11/2009, Rv. 611076-01).
In base a tale orientamento di legittimità, è fondato il motivo della ricorrente nella parte in cui censura la pretesa di una espressa e tempestiva formulazione della controeccezione di interruzione della prescrizione.
Al contrario, il giudice dell’appello avrebbe dovuto – anche d’ufficio, ma soprattutto a seguito della formulazione di uno specifico motivo di impugnazione – esaminare il materiale probatorio già acquisito in primo grado (considerando, peraltro, che la prova della richiesta scritta di adempimento può essere ricavata anche in via presuntiva; v. Cass., Sez. 1, Sentenza n. 17018 del 23/06/2008, Rv. 60403901, e Cass., Sez. L., Sentenza n. 7181 del 06/08/1996, Rv. 498980-01) al fine di individuare, se esistente, un fatto interruttivo dell’eccepita prescrizione.
Illogica e contraddittoria è la sentenza laddove respinge l’appello perché il diritto di credito sarebbe “comunque pressoché totalmente prescritto”, dato che un accoglimento parziale dell’eccezione giustificherebbe il diritto della P. di agire in executivis per il residuo credito non estinto.
Il motivo deve essere accolto limitatamente alla denunciata violazionedell’art. 2943 c.c., mentre è inammissibile per il resto.
Infatti, la questione inerente all’applicabilità ai coniugi separati della sospensione del termine di prescrizione exart. 2941 c.c., n. 1, non era stata introdotta come motivo di appello e, perciò, non è prospettabile in sede di legittimità (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 7981 del 30/03/2007, Rv. 597111-01; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 17041 del 09/07/2013, Rv. 627045-01).
Ad ogni buon conto, secondo un ormai univoco orientamento giurisprudenziale, “La sospensione della prescrizione tra coniugi di cuiall’art. 2941 c.c., n. 1, non trova applicazione al credito dovuto per l’assegno di mantenimento previsto nel caso di separazione personale, dovendo prevalere sul criterio ermeneutico letterale un’interpretazione conforme alla ratio legis, da individuarsi tenuto conto dell’evoluzione della normativa e della coscienza sociale e, quindi, della valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto alla conservazione dell’unità familiare e della tendenziale equiparazione del regime di prescrizione dei diritti post-matrimoniali e delle azioni esercitate tra coniugi separati. Nel regime di separazione, infatti, non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turbare l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state esperite le relative azioni giudiziarie, con la conseguente cessazione della convivenza, il venir meno della presunzione di paternità di cuiall’art. 232 c.c.e la sospensione degli obblighi di fedeltà e collaborazione”. (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 7981 del 04/04/2014, Rv. 630120-01; conformi Cass., Sez. 1, Sentenza n. 18078 del 20/08/2014, Rv. 632052-01, e Cass., Sez. 61, Ordinanza n. 8987 del 05/05/2016, Rv. 639566-01).
7. In conclusione, dichiarati inammissibili il primo e il secondo motivo, la sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, la quale esaminerà la fattispecie dedotta col terzo motivo alla luce delle indicazioni fornite da questa Corte di legittimità.
La liquidazione delle spese è rimessa al giudice del rinvio.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibili il primo e il secondo motivo;
accoglie, per quanto di ragione, il terzo motivo;
cassa la decisione impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per la statuizione sulle spese.

Chi impugna il testamento deve dare la prova circa l’incapacità naturale del testatore mentre chi vuole avvalersene deve provare la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo

Cass. civ. Sez. VI – 2, 19 dicembre 2017, n. 30485
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23146-2016 proposto da:
A.E., domiciliato in ROMA presso la Cancelleria della Corte di Cassazione e rappresentato e difeso dagli avvocati PAOLO CORLETTO e GIOVANNI GALOPPI giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
A.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE CORTINA D’AMPEZZO 269, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO DE SANTIS, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARIO PARIZZI giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
e contro
A.M.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1979/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 19/08/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16/11/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le memorie depositate dalle parti.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
A.E. conveniva in giudizio i germani M. e G. chiedendo l’annullamento per incapacità naturale del testamento olografo redatto dalla madre F.E. in data 17/10/2001 con il quale aveva legato al figlio G. alcuni immobili, chiedendo in via subordinata disporsi la riduzione sia della disposizione contenuta in detto testamento, sia delle disposizioni a favore del figlio M. contenute nei testamenti olografi del (OMISSIS) e del (OMISSIS), in quanto lesive della propria quota di legittima.
Si costituiva il convenuto A.G. che contestava la fondatezza della domanda e chiedeva procedersi allo scioglimento della comunione ereditaria, tenendo conto in particolare delle passività.
Alle difese del convenuto si associava anche l’altro convenuto A.M..
L’attore chiedeva quindi la resa del conto.
Il Tribunale di Treviso con la sentenza n. 1080 del 6 giugno 2013 rigettava l’impugnativa del testamento, dichiarava inammissibili le domande proposte in epoca successiva agli atti introduttivi, ed accoglieva la domanda di riduzione dell’attore, ritenendo sussistere una lesione di Euro 273.490,82. Per l’effetto disponeva lo scioglimento della comunione con assegnazione di distinti lotti ai germani, condannando G. e M. al pagamento della somma equivalente alla quota dei frutti civili prodotti dai beni legati a far data dall’apertura della successione.
A seguito di appello principale di A.G. e di appello incidentale di A.E., la Corte d’Appello di Venezia con la sentenza n. 1979 del 19 agosto 2015 in parziale accoglimento dell’appello principale riduceva l’importo da questi dovuto al fratello E. a titolo di frutti non goduti, limitandoli al solo bene sito nel Comune di Jesolo, rigettando per il resto gli altri motivi dell’appello principale e l’appello incidentale.
Esaminava prioritariamente l’appello incidentale indirizzato al rigetto della domanda di annullamento del testamento, ritenendo corretta la decisione gravata.
A tal fine osservava che in base ai principi generali elaborati dalla giurisprudenza, l’onere della prova circa l’incapacità naturale del testatore incombeva sull’attore, in quanto le condizioni di salute della de cuius in epoca prossima alla redazione del testamento non erano tali da far ritenere sussistente una condizione permanente di incapacità.
Infatti, sebbene la stessa fosse reduce da un ricovero ospedaliero, all’esito del quale era stata dimessa con una diagnosi di demenza senile multinfartuale, tuttavia si trattava di patologia, alla luce anche di quanto emergeva dalle indagini peritali, che non comportava un’incapacità assoluta e permanente, tale da determinare un’inversione dell’onere della prova.
Né le prove orali apparivano univoche in un senso o nell’altro, atteso che mentre alcuni testi avevano fatto riferimento ad una incapacità assoluta, altri avevano invece dichiarato che la testatrice anche dopo il ricovero era lucida e partecipe delle conversazioni che avvenivano alla sua presenza.
In merito al secondo motivo di appello incidentale con il quale l’attore si doleva del fatto che gli fosse stato assegnato all’esito della divisione, ed a tacitazione dei suoi diritti di riserva, la quota di 1/3 di un immobile in (OMISSIS) legato al fratello G., la Corte distrettuale riteneva corretta la soluzione del Tribunale rispondendo alla previsione di cuiall’art. 560 c.c.che consente, ed anzi suggerisce in via preferenziale, di tacitare i diritti del legittim. mediante beni in natura.
Ancora condivideva la valutazione di inammissibilità, in quanto tardiva, della domanda dell’attore di includere nella massa anche gli utili spettanti alla madre della società Eredi A. S.n.c., mancando in ogni caso la prova circa l’effettiva esistenza di tali utili, e rigettava il motivo dell’appello principale volto a contestare il valore attribuito dal CTU alla cava legata al figlio G. con il testamento oggetto di impugnazione.
Infine, accoglieva il motivo dell’appello principale con il quale A.G. lamentava l’eccessiva misura delle somme riconosciute quali frutti in favore della controparte.
In particolare, ancorché tale domanda dell’attore dovesse reputarsi tempestiva, tuttavia i frutti andavano calcolati unicamente sulla quota dell’immobile ubicato nel Comune di (OMISSIS) e che, a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione, era stato assegnato ad E., posto che gli altri beni ricevuti per testamento da G., non erano stati sottoposti a riduzione.
A.E. ha proposto ricorso avverso tale sentenza sulla base di quattro motivi.
A.G. ha resistito con controricorso.
A.M. non ha svolto attività difensiva in questa sede.
Preliminarmente deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per la sua pretesa tardività.
Infatti, in assenza di notificazione della sentenza, alla fattispecie trova applicazione il termine lungo annuale di cuiall’art. 327 c.p.c., e quindi essendo stata la sentenza impugnata pubblicata in data 19/8/2015, tenuto conto del periodo di sospensione feriale pari a trentuno giorni, il termine per la proposizione del ricorso veniva a scadere in data 1 ottobre 2016 (e non il 30 settembre, come invece erroneamente dedotto dal controricorrente, facendo riferimento ad un periodo di sospensione feriale di soli trenta giorni). Poiché il 1 ottobre era un sabato, ne scaturisce il differimento ex lege del termine al primo giorno lavorativo successivo che è appunto il 3 ottobre, allorquando risulta notificato il ricorso.
Con il primo motivo di ricorso si denunzia la nullità della sentenza exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per la violazione delle regole di riparto dell’onere della prova.
Assume il ricorrente che erroneamente i giudici di appello hanno affermato che fosse onere dell’attore dimostrare che la de cuius era assolutamente incapace di intendere e di volere alla data di redazione del testamento, posto che à contrario emergeva in maniera evidente dal complesso delle risultanze istruttorie che la testatrice versava in condizioni di salute tali da renderla permanentemente incapace.
Il secondo motivo denunzia poi la violazione e falsa applicazione degli artt. 428 e 591 c.c. quale conseguenza dell’erronea individuazione della regola di riparto dell’onere della prova.
I due motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono del tutto privi di fondamento.
Ed, invero anche a voler trascurare l’erroneo inquadramento nella previsione di cu iall’art. 360 c.p.c., n. 4 della violazione della regola di giudizio di cu all’art. 2697 c.c., vale ricordare in linea di principio che la violazione di tale norma si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni.
Con specifico riferimento all’azione di annullamento del testamento per incapacità naturale del testatore, la giurisprudenza di questa Corte ha tradizionalmente affermato il principio per cui (cfr. Cass. n. 27351/2014) l’incapacità naturale del testatore postula l’esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del “de cuius”, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi; peraltro, poiché lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l’eccezione, spetta a chi impugni il testamento dimostrare la dedotta incapacità, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene provarne la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo (conf. Cass. n. 9081/2010).
La sentenza impugnata, in ordine all’individuazione del soggetto gravato dell’onere della prova, ha fatto corretta applicazione di tali principi, pervenendo alla conclusione in punto di fatto, e come tale insuscettibile di essere sindacata in questa sede, anche perchè frutto di logica e coerente argomentazione, secondo cui la de cuius, ancorchè affetta da alcune patologie, anche suscettibili di incidere sulle sua capacità psichiche, aveva conservato una capacità di autodeterminarsi, o meglio che non vi era prova che la stessa fosse del tutto priva, ed in maniera permanente, della capacità di intendere e di volere.
Per formulare tale valutazione la sentenza gravata ha preso in esame le risultanze dei referti ospedalieri, ed in particolare di quelli prossimi alla data dell’atto impugnato, avvalendosi ai fini della loro interpretazione anche delle indagini del perito d’ufficio, che del pari aveva concluso per l’impossibilità di poter ricondurre, ed in maniera automatica, alla patologia della demenza senile multinfartuale un grave e repentino decadimento delle funzioni psichiche, tenuto conto anche del fatto che prima della caduta che ne aveva provocato il ricovero nel settembre del 2001, la F. aveva conservato un buon equilibrio psichico.
Al fine di completare la propria indagine, la sentenza impugnata ha anche dato contezza dell’esito della prova testimoniale, sottolineando come il contrasto tra le deposizioni non permetteva di ravvisare quella situazione che avrebbe giustificato l’inversione della regola dell’onere della prova che, appunto, pone a carico di colui che invoca l’invalidità del testamento, la dimostrazione dell’incapacità della de cuius al momento della redazione dell’atto di ultima volontà.
La rapida sintesi delle argomentazioni spese dal giudice di appello permette di affermare che la conclusione raggiunta sia il frutto di una attenta e ponderata valutazione delle risultanze istruttorie, occorrendo a tal fine ricordare che (cfr. Cass. n. 23900/2016) quando un giudizio – come, nella specie, quello sulla capacità di intendere e di volere della persona defunta (al fine di valutarne la capacità di testare) – deve necessariamente risultare dall’esame coordinato di numerosi elementi, l’adeguatezza della motivazione del giudice del merito deve essere vagliata con riferimento all’insieme degli stessi nonchè alle difese delle parti, senza che peraltro, l’eventuale silenzio della motivazione su taluni dei predetti elementi possa essere considerato omesso esame di punti decisivi qualora, nel suo complesso, il giudizio risulti adeguatamente e concretamente giustificato e non si possa affermare che, senza quel silenzio, la decisione avrebbe potuto essere diversa.
Il motivo di ricorso in esame appare invece volto a sollecitare, in maniera peraltro non sempre specifica, facendosi richiamo ad atti ovvero a risultanze probatorie, delle quali non risulta puntualmente riportato il contenuto, esclusivamente una diversa rivalutazione dei fatti di causa, laddove anche la denunziata violazione di legge è solo apparente.
Infatti, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione della fattispecie astratta di una norma di legge e, perciò, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, con la conseguenza che il ricorrente che presenti la doglianza è tenuto a prospettare quale sia stata l’erronea interpretazione della norma in questione da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, a prescindere dalla motivazione posta a fondamento di questa (Cass., Sez. L., sentenza n. 26307 del 15 dicembre 2014, Rv. 633859). Al contrario, se l’erronea ricognizione riguarda la fattispecie concreta, il gravame inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (Cass., Sez. 5, sentenza n. 8315 del 4 aprile 2013, Rv. 626129), ma oggi negli ancor più ristretti limiti della novella del 2012.
Il terzo motivo denunzia l’omessa disamina di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in quanto gli sarebbero stati riconosciuti i frutti solo sulla quota di 1/3 dell’immobile sito in (OMISSIS).
Si deduce che sarebbe stato però omesso il fatto decisivo rappresentato dalla circostanza che tutti i beni assegnati al convenuto G. erano stati oggetto dell’azione di riduzione, ed in particolare anche la cava legata con il testamento del 2001.
La proposizione dell’azione di riduzione, ed il riscontro della sussistenza della lesione ha fatto sì che anche gli altri beni attributi per testamento siano caduti in comunione e che quindi i frutti debbano essere calcolati su tutti i beni de quibus.
Il quarto motivo denunzia la nullità della sentenza per vizio di ultrapetizione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 in quanto, limitando il calcolo dei frutti al solo detto immobile, la Corte di merito ha accolto una domanda che non era mai stata proposta dal convenuto.
Anche gli ultimi due motivi vanno congiuntamente esaminati attesa la loro connessione, rivelandosi del pari privi di fondamento.
Premessa l’erroneità della denuncia della violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione alla limitazione del calcolo dei frutti al solo bene assegnato all’attore a tacitazione dei suoi diritti di legittimario, non potendosi ritenere che tale limitazione costituisca l’accoglimento di una domanda del convenuto, essendosi il giudice limitato unicamente a determinare le modalità attraverso le quali andava accolta la diversa domanda attorea di riconoscimento dei frutti ex art. 561 c.c., ed anche a voler sorvolare circa la corretta sussumibilità del preteso vizio denunziato nella previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la soluzione alla quale è pervenuta la sentenza gravata è immune dalle critiche mosse.
Ed, infatti, all’esito del giudizio, e senza che sul punto sia stata avanzata censura da parte del ricorrente, la Corte di Appello, recependo le indicazioni già date dal Tribunale, pur riscontrando la lesione dei diritti di riserva dell’odierno ricorrente, ha ritenuto però di dover soddisfare tali diritti con l’assegnazione in natura di un solo bene, tra quelli assegnati per testamento al fratello G., e precisamente con la quota di 1/3 di un immobile in (OMISSIS).
Sebbene la domanda di riduzione avesse inteso aggredire tutti i beni dei quali i germani erano a vario titolo beneficiari, emerge chiaramente che la soluzione alla quale si è pervenuti, è stata quella di individuare l’entità della lesione, tenendo conto del valore anche delle attribuzioni mortis causa, ritenendo che tale lesione potesse però essere tacitata con l’assegnazione in natura del solo bene in questione, avendo l’attore ricevuto all’esito della divisione altri beni in natura, non oggetto delle disposizioni testamentarie, con il riconoscimento anche di un conguaglio in denaro a carico del fratello G., al fine di assicurare la perequazione di valore delle quote.
Ebbene, in presenza di una soluzione siffatta, vale richiamare la costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui (cfr. da ultimo Cass. n. 7478/2000) al legittimario cui venga restituito un immobile per reintegrare la quota di legittima spetta, a norma dell’art. 561 cod. civ., anche il diritto ai frutti quali accessori del bene, in relazione al suo mancato godimento, mentre, nell’ipotesi in cui il bene non possa essere restituito e la reintegrazione della quota di riserva avvenga per equivalente monetario, con l’ulteriore riconoscimento degli interessi legali sulla somma a tal fine determinata, nulla è dovuto per i frutti, posto che gli interessi legali attribuiti rispondono alla medesima finalità di risarcire il danno derivante dal mancato godimento del bene (lucro cessante) e pertanto il cumulo tra frutti e interessi comporterebbe la duplicazione del riconoscimento di una medesima voce di danno (conf. Cass. n. 843/1965).
Trattasi peraltro di una coerente applicazione del diverso principio per il quale (cfr. Cass. n. 1079/1970) colui che possiede un bene in virtù di un atto a titolo gratuito o di una disposizione testamentaria, possiede in virtù di un titolo idoneo a trasferire il dominio, il quale è originariamente valido e tale rimane fino a che non sia esercitata l’azione di riduzione, il cui accoglimento ne determina appunto l’inefficacia, con effetto dalla data della domanda giudiziale. La norma dell’art. 561 cod. civ., comma 2 costituisce un’applicazione del suddetto principio e, pertanto, in ogni caso di disposizione testamentaria o di donazioni, soggette a riduzione, i frutti dei beni da restituire sono dovuti al legittimario con decorrenza dalla domanda giudiziale. Se, però, si debba corrispondere una somma di denaro, nei casi previsti dalla legge o pattuiti dalle parti, i frutti non sono dovuti affatto, in quanto l’obbligazione di restituzione dei frutti è consequenziale a quella di restituzione del bene che li produce se il diritto del legittimario si è trasformato in un diritto di credito, viene meno la detta conseguenzialità, mancando la cosa fruttifera.
Pertanto, e tornando al caso in esame, poiché il ricorrente non ha contestato la divisione dei beni operata dal giudice di merito, con la quale è stata assicurata anche la riduzione delle disposizioni lesive, ed atteso che all’esito di tale divisione, dei beni assegnati per testamento ai fratelli, gli è stato restituito il solo bene in (OMISSIS) e pro quota, correttamente i frutti sono stati calcolati esclusivamente in relazione al mancato godimento di tale cespite, non potendosi estendere la pretesa a beni diversi, il cui acquisto iure hereditario non è stato inficiato dall’accoglimento della domanda di riduzione.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Nulla per le spese per l’intimato che non ha svolto attività difensiva.
Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese in favore del controricorrente che liquida in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori come per legge;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012,art.1, comma 17dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, stesso art. 13.

Maternità surrogata: La Corte Costituzionale interviene sul bilanciamento degli interessi coinvolti

Corte costituzionale
Sentenza 18 dicembre 2017, n. 272
PRESIDENTE: GROSSI – REDATTORE: AMATO
[…] nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, promosso dalla Corte d’appello di Milano nel procedimento civile vertente tra A.L. C. ed il curatore speciale di L.F. Z., con ordinanza del 25 luglio 2016, iscritta al n. 273 del registro ordinanze del 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visti gli atti di costituzione di A.L. C. e del curatore speciale di L.F. Z., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella udienza pubblica del 21 novembre 2017 il Giudice relatore Giuliano Amato;
uditi gli avvocati Grazia Ofelia Cesaro, nella qualità di curatore speciale di L.F. Z., e Francesca Maria Zanasi per A.L. C. e l’avvocato dello Stato Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
RITENUTO IN FATTO
1.- Nel corso di un procedimento di impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, la Corte d’appello di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
La disposizione è censurata nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia rispondente all’interesse dello stesso.
2.- Il giudizio a quo ha ad oggetto l’appello avverso la sentenza con cui il Tribunale ordinario di Milano – in accoglimento della domanda proposta ai sensi dell’art. 263 cod. civ. dal curatore speciale di un minore, nominato dal Tribunale per i minorenni – ha dichiarato che lo stesso minore non è figlio della donna che lo ha riconosciuto.
La vicenda sottoposta all’esame della Corte d’appello di Milano trae origine dalla trascrizione del certificato di nascita formato all’estero, relativo alla nascita di un bambino, riconosciuto come figlio naturale di una coppia di cittadini italiani, i quali – nell’ambito delle indagini avviate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni – avrebbero ammesso il ricorso alla surrogazione di maternità, realizzata attraverso ovodonazione.
Il giudice a quo riferisce che, pertanto, su iniziativa della stessa Procura della Repubblica, è stato avviato il procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, il quale si è concluso con dichiarazione di non luogo a provvedere, avendo i genitori contratto matrimonio ed essendo risultata certa, in base al test eseguito sul DNA, la paternità biologica di colui che ha effettuato il riconoscimento.
Riferisce il giudice rimettente che, su richiesta del pubblico ministero, il Tribunale per i minorenni di Milano ha autorizzato, ai sensi dell’art. 264, secondo comma, cod. civ., l’impugnazione del riconoscimento del figlio naturale effettuato da A.L. C., nominando a tal fine un curatore speciale del minore. In accoglimento di tale impugnazione, il Tribunale ordinario di Milano ha dichiarato che il minore non è figlio di A.L. C., disponendo le conseguenti annotazioni a cura dell’ufficiale di stato civile.
Il giudice a quo riferisce che la decisione di primo grado si è fondata sulla disposizione di cui all’art. 269, terzo comma, cod. civ., e sulla considerazione che, nel caso in esame, il rapporto di filiazione dal lato materno non potrebbe essere dedotto dal contratto per la fecondazione eterologa con maternità surrogata, da ritenersi invalido per contrarietà della legge straniera all’ordine pubblico, ai sensi dell’art. 16 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato).
2.1.- Ciò premesso, la Corte d’appello evidenzia che nel caso in esame l’atto di nascita comprovante la genitorialità del minore è già stato trascritto in Italia e che, pertanto, è estranea al thema decidendum la questione della trascrivibilità in Italia di atti di nascita formati nei paesi che consentono la maternità surrogata. Nel caso in esame, infatti, non è richiesta la trascrizione di uno status filiationis riconosciuto all’estero, bensì la rimozione di uno status già attribuito, in considerazione della sua non veridicità.
2.1.1.- Quanto al divieto di maternità surrogata previsto dall’art. 12 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), il giudice a quo ritiene che lo stesso potrebbe porsi in contrasto con i principi costituzionali, laddove riferito ad ipotesi di gestazione “relazionali” o “solidaristiche”, non lesive della dignità della donna, né riducibili alla logica di uno scambio mercantile, ma caratterizzate da intenti di pura solidarietà. Tuttavia, osserva il rimettente, anche tale questione risulta estranea alla vicenda in esame, in quanto la surrogazione di maternità è avvenuta al di fuori di un contesto relazionale e non sarebbe ravvisabile una condizione di libertà della donna che ha portato a termine la gravidanza.
2.2.- La Corte d’appello prospetta, invece, una diversa questione di legittimità costituzionale, che pone al centro l’interesse del bambino, nato a seguito di surrogazione di maternità realizzata all’estero, a vedersi riconosciuto e mantenuto uno stato di filiazione quanto più rispondente alle sue esigenze di vita.
Il dubbio di costituzionalità sollevato dal rimettente attiene, in particolare, all’art. 263 cod. civ., nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità possa essere accolta solo laddove sia ritenuta rispondente all’interesse del minore.
2.2.1.- Rammenta il giudice a quo che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. è già stata ritenuta non fondata dalla sentenza n. 112 del 1997, sull’assunto che l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità sia ispirata al «principio di ordine superiore che ogni falsa apparenza di stato deve cadere». In quella occasione, asserisce il rimettente, la Corte ha individuato nella verità del rapporto di filiazione un valore necessariamente da tutelare, con la precisazione che la finalità perseguita dal legislatore consisterebbe proprio nell’attuazione del diritto del minore all’acquisizione di uno stato corrispondente alla realtà biologica. Analoghi principi sarebbero stati ribaditi dalle sentenze n. 170 del 1999 e n. 216 del 1997, nonché dall’ordinanza n. 7 del 2012.
Alla stregua di tali rilievi, il giudice a quo esclude soluzioni ermeneutiche che consentano di considerare, nella cornice dell’art. 263 cod. civ., la specifica situazione del minore al fine di privilegiare una soluzione che realizzi il suo concreto ed effettivo interesse. La mancanza di un riferimento normativo all’interesse del minore, nel richiamato indirizzo interpretativo da considerare quale “diritto vivente”, si porrebbe in contrasto con i principi di particolare tutela che la Costituzione e la CEDU assicurano ai minori.
2.3.- La questione avrebbe incidenza attuale nel giudizio di impugnazione promosso dal curatore speciale ai sensi dell’art. 263 cod. civ.
Infatti, nel caso in esame, le norme inderogabili che definiscono e disciplinano la genitorialità, ed in particolare la maternità, non consentirebbero a madre e figlio di vedersi riconosciuto tale legame giuridico, se non per il tramite dell’adozione in casi particolari, nel presupposto che l’interesse del minore, di cui lo stesso curatore è portatore, debba identificarsi nel favor veritatis.
Viceversa, ove fosse consentita una valutazione in concreto dell’interesse del minore, non coincidente col favor veritatis, esso potrebbe essere misurato anche alla stregua di altri profili, riguardanti le particolari modalità della nascita, la possibilità di altro legame giuridico, certo e ugualmente tutelante, con la madre intenzionale, e tutte le circostanze, anche relative al rapporto con la madre intenzionale, emerse nella fattispecie in esame.
2.4.- Il giudice rimettente richiama i principi enunciati dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176; dalla Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 20 marzo 2003, n. 77; dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, che all’art. 24, secondo comma, sancisce il principio della necessaria preminenza dell’interesse del minore.
Dovrebbero considerarsi, inoltre, le Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore, adottate il 17 novembre 2010, nella 1098ª riunione dei delegati dei ministri. Il riferimento, ivi contenuto, al superiore interesse del minore andrebbe inteso come ricerca di una soluzione che garantisca l’effettiva attuazione, non di un interesse astratto e preconcetto, bensì del best interest, cioè dell’interesse concreto di “quel” minore che, nel singolo caso sottoposto a valutazione, è destinatario di un provvedimento.
La Corte d’appello osserva che anche la recente giurisprudenza di merito attribuisce rilievo al concreto interesse del minore in tema di relazioni familiari. In particolare, sono richiamate quelle pronunce che hanno ammesso la trascrizione nei registri dello stato civile di atti stranieri attributivi della genitorialità alla madre intenzionale, a seguito di accordi di maternità surrogata (Corte d’appello di Bari, sentenza 13 febbraio 2009) o di un atto di nascita, formato all’estero, del figlio di una coppia di donne, nato con donazione del gamete maschile e trasferimento dell’ovulo di una delle due all’altra, che ha portato a termine la gravidanza (Corte d’appello di Torino, decreto 29 ottobre 2014). Sono, altresì, richiamate quelle decisioni che hanno riconosciuto la possibilità di adozione del figlio del partner di coppia dello stesso sesso, ai sensi dell’art. 44 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia). Inoltre, è richiamata la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 11 gennaio 2013, n. 601, che ha escluso che il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale pregiudichi l’equilibrato sviluppo del bambino.
Il giudice a quo sottolinea, inoltre, che nella sentenza n. 31 del 2012 questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 569 del codice penale, nella parte in cui prevedeva che, alla condanna dei genitori per il delitto di alterazione di stato, conseguisse in via automatica la perdita della potestà genitoriale, precludendo così al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore.
Alla luce dei principi desumibili dalla normativa sovranazionale e nazionale e degli approdi giurisprudenziali, europei e interni, nonché delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie in tema di procreazione assistita, il giudice a quo sollecita una rinnovata riflessione sul tema della coincidenza tra favor veritatis e favor minoris.
Il dubbio di legittimità costituzionale ha ad oggetto l’art. 263 cod. civ., nella parte in cui non consente di valutare il concreto interesse del minore a mantenere l’identità relazionale e lo status di una riconosciuta filiazione materna, impedendo, così, che tale interesse possa essere realizzato con l’ampiezza di tutele riconosciute da plurimi principi costituzionali.
2.5.- In primo luogo, è denunciata la violazione dell’art. 2 Cost., per la natura inviolabile del diritto del minore a non vedersi privato del nome, dell’identità personale e della stessa possibilità di avere una madre, mantenendo lo status filiationis nei confronti di colei che abbia effettuato il riconoscimento.
In secondo luogo, la disposizione in esame contrasterebbe con l’art. 30 Cost., che riconosce e promuove, sia pure in via sussidiaria, accanto alla genitorialità biologica, una genitorialità sociale, fondata sul consenso e indipendente dal dato genetico. Di essa, in alcune situazioni problematiche, l’interesse del minore potrebbe giovarsi. Il riconoscimento della genitorialità sociale si accompagnerebbe, infatti, alle garanzie offerte al figlio dall’assunzione di responsabilità nei suoi confronti. La questione di legittimità costituzionale è sollevata anche in riferimento all’art. 31 Cost., che, con disposizione riassuntiva e generale, completa il quadro delle garanzie costituzionali dei rapporti familiari e dell’infanzia.
L’impossibilità di valutare, in concreto, un interesse, che potrebbe non coincidere col favor veritatis, si porrebbe altresì in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., soprattutto alla luce dell’art. 9 della legge n. 40 del 2004 che, ancor prima della sentenza di questa Corte n. 162 del 2014, aveva comunque assicurato al bambino – nato attraverso fecondazione assistita di tipo eterologo – lo stato di figlio del coniuge o del convivente della donna che lo aveva partorito.
A questo riguardo, il giudice a quo evidenzia che, nel nuovo assetto conseguente all’eliminazione del divieto di fecondazione eterologa, essendo esclusa la possibilità che il coniuge o il convivente del genitore naturale possano, rispettivamente, disconoscere la paternità del bambino, ovvero impugnare il relativo riconoscimento, sarebbe dubbia la legittimazione in capo al figlio in ordine alle azioni indicate. Infatti, un eventuale accertamento negativo della paternità legale non potrebbe comunque costituire la premessa per un successivo accertamento positivo della paternità biologica, stante la regola di cui all’art. 9, comma 3, della legge n. 40 del 2004.
In ogni caso, nell’impossibilità di valutare in concreto l’interesse del minore, lo status del bambino nato da surrogazione di maternità potrebbe risultare irragionevolmente diverso e sfavorevole rispetto a quello assicurato al minore nato attraverso il ricorso alla fecondazione eterologa.
La Corte d’appello dubita della legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ., anche con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in situazioni riconducibili alla maternità surrogata.
Sono richiamate, in particolare, le sentenze della Corte EDU del 26 giugno 2014 rese nei casi Mennesson contro Francia e Labassee contro Francia (ricorsi n. 65192 del 2011 e n. 65941 del 2011), nelle quali è stata affrontata la questione del rifiuto di riconoscere, in Francia, rapporti genitoriali stabiliti all’estero tra minori nati da maternità surrogata e le coppie che vi avevano fatto ricorso. In queste pronunce, la Corte di Strasburgo ha ritenuto violato l’art. 8 della CEDU con riferimento al diritto dei minori al rispetto della propria vita privata, quale diritto di ciascuno su ogni profilo della propria identità di essere umano.
Ad avviso del giudice a quo, da tali sentenze discenderebbe per gli Stati contraenti l’obbligo positivo di tutelare l’identità personale del minore nato attraverso surrogazione di maternità, anche a prescindere dal legame biologico con i genitori intenzionali. Gli Stati membri del Consiglio d’Europa, se possono scoraggiare o vietare il ricorso alla maternità surrogata, non potrebbero, viceversa, rifiutare la trascrizione di un atto di nascita che assicura al minore il rispetto della sua vita privata, rispondendo tale trascrizione al suo best interest.
In questo senso si porrebbe anche la sentenza della Corte EDU del 27 gennaio 2015, resa nel caso Paradiso e Campanelli contro Italia (ricorso n. 25358 del 2012). In un caso di maternità surrogata caratterizzato dall’assenza di legame biologico del minore con i genitori intenzionali, la Corte di Strasburgo ha ravvisato la violazione dell’art. 8 della CEDU nei provvedimenti relativi all’allontanamento del minore. La nozione di “vita familiare”, tutelabile ai sensi dell’art. 8 della CEDU, sarebbe estensibile alla relazione tra i genitori d’intenzione e il minore, ancorché costituita illegalmente secondo l’ordinamento nazionale. In questo modo, ad avviso del giudice a quo, la Corte di Strasburgo avrebbe svincolato la nozione giuridica di “vita familiare” dall’indefettibilità del legame genetico, ritenendola comprensiva di relazioni di fatto, la cui tutela corrisponde al preminente interesse del minore.
2.6.- Dopo avere ribadito che la questione in esame non concerne la liceità della pratica della surrogazione, ma i diritti del bambino nato attraverso tale pratica, il rimettente deduce che non vi sarebbe contrasto, rispetto all’ordine pubblico, del concreto interesse del minore. In particolare, tale contrasto non sarebbe ricavabile dal divieto di maternità surrogata di cui all’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, dovendosi avere riguardo all’ordine pubblico internazionale, in cui rileva l’esistenza di paesi, anche in Europa, che consentono il ricorso alla surrogazione di maternità.
Il concetto di ordine pubblico dovrebbe essere perciò declinato con riferimento all’interesse del minore, secondo un principio ricavabile anche dal regolamento CE n. 2201/2003 del 27 novembre 2003 (Regolamento del Consiglio relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale). Tale regolamento, all’art. 23, prevede che, con riferimento alle decisioni relative alla responsabilità genitoriale, la valutazione della non contrarietà all’ordine pubblico debba essere effettuata tenendo conto del superiore interesse del figlio.
2.7.- Il giudice a quo ritiene che il dubbio di legittimità costituzionale non possa essere superato neppure dalla considerazione del diritto del figlio a conoscere le proprie origini. Tale diritto si realizzerebbe, infatti, su un piano diverso da quello dell’impugnazione di cui all’art. 263 cod. civ., a meno di non voler attribuire all’accertamento della non veridicità del riconoscimento la funzione di comunicazione della non-nascita dalla madre, in una logica latamente sanzionatoria della condotta genitoriale. Ciò andrebbe comunque a detrimento dell’interesse del minore al mantenimento di un rapporto giuridico corrispondente alla effettività della relazione con la persona che ha formulato il progetto familiare e che, dalla nascita del bambino, ne è madre.
3.- Nel giudizio dinanzi a questa Corte si è costituita A.L. C., parte appellante nel giudizio principale, chiedendo l’accoglimento della questione sollevata dal giudice a quo.
3.1.- Dopo avere ripercorso le argomentazioni del giudice rimettente, la parte richiama i principi affermati nelle sentenze n. 158 del 1991, n. 112 del 1997 e n. 170 del 1999 ed osserva che, alla luce del mutato quadro giurisprudenziale e dell’evoluzione scientifica e tecnologica, che ha progressivamente ampliato le possibilità procreative delle coppie, si imporrebbe una nuova valutazione della legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. Si dovrebbe ritenere ormai superato il principio della necessaria preservazione del legame di filiazione veridico quale unico presupposto di tutela dell’interesse del minore.
Sono richiamate, in particolare, la sentenza n. 162 del 2014, in materia di fecondazione eterologa, e le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di surrogazione di maternità. In queste pronunce la tutela del superiore interesse del minore non sarebbe più inscindibilmente connessa alla veridicità del rapporto di filiazione, in quanto biologicamente determinato, bensì alla conservazione del rapporto di filiazione “sociale”, ovvero “intenzionale”, imperniato sull’assunzione della responsabilità genitoriale.
La parte evidenzia che, in tema di disconoscimento di paternità del bambino nato da procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, la Corte di cassazione, sin da epoca precedente alla legge n. 40 del 2004, si era già espressa nel senso che il favor veritatis abbia «una priorità non assoluta, ma relativa» (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 16 marzo 1999, n. 2315).
Occorrerebbe, dunque, una valutazione individualizzata dell’interesse del minore ed il superamento, sulla scorta del mutato contesto sociale e giurisprudenziale, dell’impostazione che ritiene salvaguardato tale interesse solo in presenza di un legame di filiazione veridico.
3.2.- Riguardo alla violazione dell’art. 2 Cost., la difesa della parte condivide i rilievi del giudice rimettente, richiamando in proposito la giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia di diritto all’identità personale quale diritto inviolabile della persona umana, strettamente connesso al diritto di conservare il proprio status filiationis. La disposizione censurata sarebbe, altresì, lesiva del diritto al nome del minore, anch’esso protetto a norma dell’art. 2 Cost.
3.3.- L’art. 263 cod. civ. si porrebbe, inoltre, in contrasto con l’art. 3 Cost., per la condizione deteriore in cui si trova il bambino nato da maternità surrogata rispetto a quello nato attraverso fecondazione assistita di tipo eterologo. Solo in questo secondo caso, infatti, in presenza di donazione dei gameti, è preclusa al coniuge e al convivente del genitore naturale la proposizione dell’azione di disconoscimento e, rispettivamente, dell’impugnazione del riconoscimento. Tuttavia, anche con riferimento al bambino nato da maternità surrogata si porrebbe l’analoga esigenza di assicurare protezione al diritto costituzionale all’identità personale, nelle forme del diritto al nome e alla conservazione del proprio status filiationis.
3.3.1.- La norma sarebbe irragionevole anche per l’automatismo decisorio che si determinerebbe in caso di difetto di veridicità. Sia pure pronunciando su questioni di tipo diverso, la giurisprudenza costituzionale avrebbe chiarito come siffatti automatismi possono tradursi in un’irragionevole lesione dell’interesse del minore, in quanto preclusivi di uno scrutinio individualizzato, caso per caso, da parte del giudice.
In particolare, in tema di adozione, tali principi hanno portato a ritenere irragionevoli – perché non rispondenti all’interesse del minore – le norme che stabilivano limiti rigidi di età tra adottanti e adottato (sono richiamate le sentenze n. 140 [recte: 44] del 1990, n. 148 del 1992, n. 303 del 1996 e n. 283 del 1999).
Afferma la parte che, allo stesso modo, è stata ritenuta irragionevole l’applicazione automatica della pena accessoria della perdita di potestà genitoriale, a seguito della commissione del reato di cui all’art. 567 cod. pen., prevista dall’art. 569 cod. pen., che precludeva ogni possibilità di valutazione e bilanciamento tra l’interesse del minore e l’applicazione della pena accessoria, in ragione della natura e delle caratteristiche dell’episodio criminoso (sentenza n. 31 del 2012). Analogamente, l’art. 569 cod. pen. è stato censurato nella parte in cui stabiliva che, alla condanna pronunciata per il delitto di cui all’art. 566, secondo comma, cod. pen., conseguisse di diritto la perdita della potestà genitoriale, così precludendo ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto (sentenza n. 7 del 2013).
È richiamata, inoltre, la pronuncia con cui questa Corte ha censurato l’art. 4-bis, primo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui includeva nel divieto di concessione dei benefici penitenziari anche la detenzione domiciliare speciale, prevista per le madri con prole di età non superiore a dieci anni (sentenza n. 239 del 2014). Anche in questo caso, non era consentita una valutazione caso per caso della pericolosità della madre detenuta, al fine di tenere conto del superiore interesse del minore.
Da ultimo, la difesa della parte richiama le pronunce che hanno censurato l’irragionevole rigidità della disposizione che negava al medico una valutazione del caso concreto sottoposto a trattamento medico, da effettuarsi sulla base delle più aggiornate e accreditate conoscenze tecnico-scientifiche (sentenza n. 151 del 2009).
Ad avviso della parte, anche in relazione all’art. 263 cod. civ. sarebbe ravvisabile un automatismo, consistente nell’accoglimento dell’impugnazione del riconoscimento ogniqualvolta sussista un difetto di veridicità. Anche a questa previsione sarebbe sottesa una presunzione assoluta, in base alla quale l’interesse del minore sarebbe adeguatamente tutelato soltanto quando venga assicurata la veridicità del legame di filiazione. Per eliminare tale irragionevolezza, dovrebbe essere consentita al giudice la valutazione degli effetti dell’accoglimento dell’impugnazione in relazione all’interesse del minore, in considerazione delle circostanze del caso concreto.
3.4.- Con riferimento alla violazione degli artt. 30 e 31 Cost., la difesa della parte privata, richiamandosi ai principi affermati nella sentenza n. 162 del 2014, sottolinea il valore da attribuire alla genitorialità sociale, dovendo riconoscersi tutela, anche di livello costituzionale, a nuclei familiari in cui difetti una corrispondenza biunivoca tra il dato biologico e quello sociale.
Lo stesso legislatore, con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), avrebbe già fatto propria una nozione di responsabilità genitoriale improntata sul consenso liberamente assunto dai genitori nei confronti del figlio. In quanto finalizzata ad assicurare adeguata protezione all’interesse del minore, tale responsabilità dovrebbe prescindere dalla caratterizzazione biologica o sociale del rapporto di parentela.
Al riguardo, la parte richiama la giurisprudenza di merito e di legittimità in tema di adozione da parte del single e della coppia omosessuale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 11 gennaio 2013, n. 601, e 22 giugno 2016, n. 12962; Corte d’appello di Torino, sentenza 27 maggio 2016); in materia di trascrizione di atti di nascita formati all’estero, dai quali risulti che il bambino è figlio di una coppia composta da persone dello stesso sesso (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 30 settembre 2016, n. 19599), ovvero è nato a seguito di maternità surrogata (Corte d’appello di Milano, decreto 28 dicembre 2016); nonché in tema di adozione, da parte del genitore sociale, del figlio biologico del proprio compagno, nato a seguito di surrogazione di maternità (Tribunale per i minorenni di Roma, sentenza 23 dicembre 2015).
3.5.- Da ultimo, quanto alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 8 della CEDU, la difesa della parte evidenzia che nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo si rinviene l’affermazione della necessità di assicurare preminenza, nel bilanciamento tra interessi contrapposti, al superiore interesse del minore, attraverso uno scrutinio che poggi sulle circostanze del caso concreto. In tal senso, oltre alle già citate sentenze del 26 giugno 2014 rese nei casi Mennesson e Labassee contro Francia, è richiamata la sentenza della Grande camera del 6 luglio 2010, resa nel caso Neulinger e Shuruk contro Svizzera (ricorso n. 41615 del 2007), in cui la Corte ha ravvisato nell’omessa trascrizione del certificato di nascita formato all’estero la lesione del superiore interesse del bambino nato da surrogazione di maternità.
Ad avviso della parte, la prospettiva si dovrebbe spostare dalla valutazione della situazione giuridica della coppia a quella del minore, meritevole di autonoma considerazione indipendentemente dalle condotte realizzate dai genitori, siano essi biologici, sociali o intenzionali.
3.5.1.- A conclusioni analoghe sarebbe inizialmente pervenuta la Corte EDU nella sentenza resa nel caso Paradiso e Campanelli contro Italia, sopra già citata. In tale pronuncia, la Corte di Strasburgo ha affermato il carattere recessivo delle esigenze di ordine pubblico rispetto alla necessaria salvaguardia del superiore interesse del minore, ravvisando nel caso concreto la violazione del suo diritto alla vita privata e familiare, in ragione dell’allontanamento dalla famiglia di origine.
Peraltro, successivamente all’ordinanza di rimessione, è intervenuta la sentenza del 24 gennaio 2017 della Grande camera, la quale, nel riesaminare la decisione del 27 gennaio 2015, ha escluso la violazione dell’art. 8 della CEDU. In questa occasione, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che le misure adottate dalle autorità italiane, che avevano disposto l’allontanamento del minore dalla coppia ricorrente e il suo collocamento presso un diverso nucleo familiare, non abbiano arrecato allo stesso minore un pregiudizio grave o irreparabile a causa della separazione, garantendo un giusto equilibrio tra i diversi interessi in gioco.
Ad avviso della parte, anche questa pronuncia confermerebbe la necessità di salvaguardare il superiore interesse del minore attraverso una valutazione individualizzata, avente ad oggetto le circostanze del caso concreto. In questo caso veniva in rilievo la conformità alla CEDU dell’allontanamento del minore dalla coppia ricorrente, con cui egli non intratteneva alcun legame biologico. Viceversa, osserva la parte privata, la pronuncia non atterrebbe né al rifiuto di trascrivere un certificato di nascita formato all’estero, né al diritto del minore a ottenere il riconoscimento del rapporto di filiazione con la coppia, ciò che invece riveste rilievo centrale nella questione in esame.
Pertanto, resterebbero fermi i dubbi di non conformità della disposizione censurata rispetto all’art. 8 della CEDU. Essa precluderebbe, infatti, la valutazione individualizzata delle circostanze del caso e impedirebbe, altresì, di dare concretezza all’esigenza di tutela dell’interesse del minore.
3.5.2.- Più in generale, l’art. 263 cod. civ. sarebbe in contrasto con il quadro internazionale di tutela dei diritti dei minori e, in particolare, con gli artt. 3 e 8, paragrafo 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo. Nella stessa direzione si porrebbe anche l’azione del Consiglio d’Europa, con le Linee guida per una giustizia a misura di minore, cui si affianca la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli. Si evidenzia, altresì, che la tutela del superiore interesse del minore è riconosciuta dall’art. 24, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
4.- Con atto depositato in data 10 febbraio 2017 si è costituita in giudizio l’avvocato Grazia Ofelia Cesaro, nella qualità di curatore speciale del minore L.F. Z., rappresentato e difeso dalla detta professionista, e ha chiesto l’accoglimento della questione sollevata dalla Corte d’appello di Milano.
4.1.- Il curatore premette che l’azione dallo stesso proposta ai sensi dell’art. 263 cod. civ. è derivata dall’acquisizione della prova, nel corso del procedimento di adottabilità, che il figlio minore non è un discendente biologico di colei che lo ha riconosciuto. Il Tribunale per i minorenni ha pertanto provveduto alla nomina del curatore, conferendogli uno specifico mandato ad impugnare il riconoscimento.
Il curatore evidenzia, in particolare, che sebbene gli accertamenti svolti dal Tribunale per i minorenni avessero confermato l’interesse del figlio minore a mantenere il legame familiare con la madre sociale (oltre che con il padre), tuttavia le norme che disciplinano la genitorialità non consentirebbero a madre e figlio di vedersi riconosciuto tale legame giuridico, laddove esso non corrisponda alla verità biologica.
L’art. 263 cod. civ., infatti, contempla quale unico presupposto necessario e sufficiente per l’impugnazione del riconoscimento il difetto di veridicità, inteso come assenza di un legame biologico tra l’autore del riconoscimento e colui che è riconosciuto come figlio. Ciò precluderebbe al giudice ogni possibilità di valutazione e bilanciamento degli interessi coinvolti, in quanto l’inesistenza di tale legame biologico costituirebbe l’unica condizione per l’accoglimento dell’azione.
Osserva il curatore che l’interesse del minore alla salvaguardia del proprio legame con la madre (ed indirettamente con la famiglia d’origine materna) potrebbe, in ipotesi, essere preservato solo mediante lo strumento di cui all’art. 44 della legge n. 184 del 1983, previa rimozione dell’attuale status filiationis per parte di madre. Tale possibilità sarebbe, tuttavia, del tutto aleatoria, non solo perché dipendente dalla libera iniziativa del genitore sociale, ma anche perché subordinata al consenso dell’altro genitore. Inoltre, l’eventuale legame così costituito sarebbe comunque più debole di quello derivante dalla maternità naturale, attese le peculiarità proprie dell’adozione in casi particolari.
Rispetto all’interpretazione offerta dalla precedente sentenza n. 112 del 1997, sarebbe oggi necessario un riesame della questione, per riscontrare se, nell’attuale momento storico-sociale e nell’attuale panorama normativo e giurisprudenziale, sussista ancora la necessità di individuare nella verità del rapporto di filiazione un valore preminente, da tutelare in via prioritaria.
4.1.1.- In primo luogo, ad avviso del curatore, il principio secondo cui ogni falsa apparenza di stato deve cadere, così come il principio del favor veritatis, non assurgerebbero a valori costituzionalmente garantiti. L’art. 30 Cost. non avrebbe attribuito, infatti, un valore preminente alla verità biologica rispetto a quella legale. Al contrario, nel disporre, al quarto comma, che «[l]a legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità», la Costituzione avrebbe demandato al legislatore il potere di privilegiare la paternità legale rispetto a quella naturale, fissando le condizioni e le modalità per far valere quest’ultima ed affidandogli la valutazione della soluzione più idonea per realizzare la coincidenza tra la discendenza naturale e quella biologica.
L’interesse pubblico alla verità dello status di filiazione, dunque, non dovrebbe necessariamente ed automaticamente prevalere sull’interesse del minore. Anche la normativa interna ed internazionale, oltre ad avere posto il minore al centro dei procedimenti promossi a sua tutela, avrebbe altresì prescritto l’obbligo di verificare l’interesse del minore, affinché lo stesso possa essere oggetto di bilanciamento con gli altri interessi meritevoli di tutela.
In particolare, nella mutata coscienza sociale, tra gli interessi giuridici del minore rileverebbero l’interesse alla stabilità dei legami familiari e quello a vivere e crescere all’interno della propria famiglia. In tal senso, sia la legge n. 219 del 2012, sia il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), avrebbero introdotto nuovi termini di decadenza ed imposto limiti più stringenti al potere dei genitori di agire per il disconoscimento del figlio, così come per l’impugnazione del riconoscimento, per l’acquisita consapevolezza che la tutela dell’identità e della vita personale e familiare del minore non sempre coinciderebbe con la rimozione di uno status personale non conforme alle origini biologiche.
Le modifiche legislative avrebbero posto al centro del rapporto di filiazione il concetto di responsabilità genitoriale, ridisegnando la disciplina delle azioni di disconoscimento di paternità e di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, nella prospettiva della prevalenza dell’interesse del figlio alla stabilità del rapporto. D’altra parte, anche la giurisprudenza di legittimità avrebbe riconosciuto il rilievo delle relazioni consolidatesi nel tempo tra genitore e figlio, alla luce del diritto di quest’ultimo a conservare tale profilo che caratterizza fin dalla nascita l’identità personale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962).
Il curatore evidenzia, inoltre, che la più recente giurisprudenza di merito ha esteso la portata applicativa dell’art. 9 della legge n. 40 del 2004, dichiarando l’illegittimità dell’azione di impugnazione del riconoscimento intrapresa da terzi nei confronti di un figlio minore nato da fecondazione eterologa, così estendendo «a chiunque vi abbia interesse» il divieto di disconoscimento previsto solo nei confronti dell’autore del riconoscimento (Corte d’appello di Milano, sentenza 10 agosto 2015, n. 3397). Alla luce di tale evoluzione giurisprudenziale, che attenua il principio della prevalenza della verità biologica, andrebbe escluso pertanto che il favor veritatis costituisca valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da affermarsi comunque.
L’intervento correttivo auspicato si porrebbe in linea di continuità con la giurisprudenza costituzionale che ha ritenuto illegittimo ogni automatismo legislativo che impedisca di bilanciare gli interessi tutelati con il preminente interesse del minore (è richiamata la sentenza n. 31 del 2012). La necessità di tale bilanciamento sarebbe stata riconosciuta anche dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione, nella sentenza del 25 gennaio 2017, n. 1946, che ha fatto seguito alla sentenza n. 278 del 2013 di questa Corte, in cui sarebbe stato affermato il diritto del figlio di accedere alle informazioni sulla madre che si fosse avvalsa della facoltà di non essere nominata.
4.1.2.- Anche a livello europeo, si dovrebbe constatare la progressiva perdita di rilievo della verità di sangue e l’emersione del rapporto affettivo della filiazione, quale elemento fondamentale per il riconoscimento dei legami tra genitori e figli sul piano del diritto; sono richiamate le sentenze della Corte di Strasburgo 27 aprile 2010, Moretti e Benedetti contro Italia (ricorso 16318 del 2007), e 1° aprile 2010, S.H. ed altri contro Austria (ricorso n. 57813 del 2000).
Inoltre, la legge 19 ottobre 2015, n. 173 (Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare) farebbe propri i principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte EDU, agevolando l’attribuzione di rilievo giuridico al rapporto di fatto instaurato tra i minori dichiarati adottabili e la famiglia affidataria.
L’interesse alla costituzione e alla conservazione dei legami familiari, non necessariamente coincidente con la verità delle origini biologiche, sarebbe riconosciuto quale criterio di valutazione centrale e riguarderebbe ormai anche i soggetti maggiorenni. Al riguardo, è richiamata l’ordinanza del Tribunale di Firenze 30 luglio 2015 che ha rigettato un’istanza di accertamento della non corrispondenza del DNA del presunto padre defunto con quello della figlia maggiorenne, al fine di proporre l’azione di cui all’art. 263 cod. civ.
Ed invero, la tendenza a far prevalere i valori costituzionali di solidarietà e di tutela dell’individuo e della vita familiare sarebbe ravvisabile in ogni settore del diritto di famiglia. È richiamata, al riguardo, la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 21 aprile 2015, n. 8097, con cui è stata ritenuta invalida l’annotazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio, rispetto ad una coppia in cui uno dei coniugi aveva ottenuto, con il consenso dell’altro, la rettificazione di sesso.
4.2.- Sulla base di tali considerazioni, dunque, il curatore ritiene fondati gli argomenti svolti dall’ordinanza di rimessione.
4.2.1.- Riguardo al contrasto con l’art. 2 Cost., il curatore sottolinea come l’esigenza di tutelare il diritto del figlio minore alla propria identità sia stata affermata sin dalla sentenza n. 112 del 1997. In tale pronuncia sarebbe stata esclusa una contrapposizione tra il favor veritatis ed il favor minoris, intendendo così far coincidere l’identità del minore con la sola discendenza genetica dello stesso. Si tratterebbe, tuttavia, di un’interpretazione oltremodo restrittiva ed impropria del concetto di identità personale, non più conforme all’attuale coscienza sociale.
L’identità personale, infatti, sarebbe un concetto dinamico, non cristallizzato al momento del concepimento. Essa si svilupperebbe nel tempo, per effetto delle relazioni create con il mondo esterno, del nome e del cognome scelto dai genitori alla nascita, dell’appartenenza al luogo dove si cresce, della propria storia, cultura e tradizioni e, soprattutto, dei genitori e delle rispettive famiglie d’origine, che condizionano il processo di crescita.
Anche la Corte di cassazione, di recente, avrebbe condiviso questi principi, riconoscendo la risarcibilità del danno arrecato dal padre al figlio a causa dell’esperimento dell’azione di cui all’art. 263 cod. civ. In tale occasione, si è affermato che l’identità, come tutti i diritti della personalità, «si rafforza e si consolida con il passare del tempo. Pertanto, maggiore è il lasso di tempo intercorso tra il riconoscimento e l’impugnazione per difetto di veridicità, maggiore sarà la lesione che ne discende al diritto all’identità personale» (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 31 luglio 2015, n. 16222).
D’altra parte, la rimozione dello status filiationis, ai sensi dell’art. 263 cod. civ., non garantirebbe affatto l’acquisizione di una genitorialità corrispondente a verità. Il genitore biologico potrebbe, infatti, rifiutare il riconoscimento, quest’ultimo potrebbe essere contrario all’interesse del minore, oppure, come accade nei casi di maternità surrogata, il genitore biologico potrebbe essere non identificabile. In tali circostanze sarebbe leso anche il diritto del minore alla bigenitorialità, diritto riconosciuto come preminente dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli).
4.2.2.- In riferimento all’art. 3 Cost., il curatore rileva che l’esigenza di bilanciare l’interesse del minore con il pubblico interesse alla certezza degli status sarebbe stata affermata dal legislatore in tutte le azioni in materia di riconoscimento dei figli (artt. 250, 251 e 269 cod. civ.). Se in tali azioni, tese ad estendere i legami di filiazione del minore, è stata ritenuta necessaria la valutazione dell’interesse del medesimo, non si comprenderebbe perché essa non possa compiersi anche nelle azioni il cui accoglimento comporta la rescissione di tali legami e quindi l’impoverimento delle relazioni familiari del minore.
4.2.3.- Quanto al contrasto con gli artt. 30 e 31 Cost., il curatore deduce che, nei giudizi di accertamento del rapporto di filiazione, la prevalenza incondizionata del favor veritatis sarebbe stata messa in dubbio dalla giurisprudenza. Al riguardo, si fa rilevare che gli artt. 30 e 31 Cost. riconoscono che la ricerca della filiazione biologica può incontrare dei limiti, derivanti dalla necessità di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente garantiti, primo fra tutti l’interesse del minore. La preminenza del favor veritatis non sarebbe espressione di valori costituzionali, bensì il portato di una concezione arretrata e formalistica dei rapporti familiari, ormai estranea al comune sentire.
4.2.4.- Da ultimo, quanto al contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., il curatore osserva che l’art. 8 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, imporrebbe in via prioritaria al legislatore nazionale di tutelare il legame di filiazione, ancorché originato attraverso pratiche ritenute illecite dall’ordinamento nazionale.
Non potrebbe, dunque, ritenersi giustificata una previsione legislativa, come quella censurata, che impone la rimozione dello status filiationis, precludendo ogni valutazione circa la corrispondenza di questa decisione all’interesse del minore. In ciò sarebbe ravvisabile un eccesso di discrezionalità legislativa. Di converso, laddove è in gioco il best interest of the child e la tutela della sua identità, il margine di tale discrezionalità sarebbe strettissimo, dovendosi ispirare alla promozione della persona del minore (oltre alle già citate sentenze 26 giugno 2014, Mennesson contro Francia e Labassee contro Francia, è richiamata la sentenza della Grande camera 10 aprile 2007, Evans contro Regno Unito, ricorso n. 2346 del 2002).
Viceversa, l’art. 263 cod. civ. tradirebbe tale scopo. Esso sacrificherebbe ogni considerazione centrata sulla persona del minore ad un presunto interesse pubblico alla verità biologica della procreazione, violando anche i principi desumibili dalle convenzioni internazionali che l’Italia ha sottoscritto, prima tra tutte la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, nonché la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Il curatore deduce che, nella giurisprudenza della Corte EDU, la sussistenza di legami familiari sarebbe legata all’esistenza, anche solo nei fatti, di stretti vincoli affettivi (Grande camera, sentenza 13 giugno 1979, Marckx contro Belgio, ricorso n. 6833 del 1974), a prescindere dalla loro qualificazione giuridica formale, ed anzi, talvolta, anche se la legge nazionale rifiuti di riconoscerli (Grande camera, sentenza 27 ottobre 1994, Kroon ed altri contro Paesi Bassi, ricorso n. 18535 del 1991, e sentenza 22 aprile 1997, X, Y e Z contro Regno Unito, ricorso n. 21830 del 1993).
Nella nozione di vita familiare, da proteggersi ai sensi dell’art. 8 della CEDU, rientrerebbe il legame tra il figlio ed il genitore, anche se tale relazione non ha presupposti biologici, ma solo affettivi (Prima sezione, sentenza 16 luglio 2015, Nazarenko contro Russia, ricorso n. 39438 del 2013). Il rapporto di filiazione sarebbe espressione della vita privata o, come nel caso che ha dato origine al presente giudizio, espressione di vita familiare. Ciò sarebbe confermato dalla stessa posizione del Governo italiano, espressa di fronte alla Corte EDU nel caso Paradiso e Campanelli, laddove è stata ammessa la possibilità di una vita familiare de facto, anche in assenza di legame biologico con entrambi i genitori.
Ove il legame biologico sussista solo nei confronti di un genitore (come nel caso in esame) si potrà invocare l’art. 8 della CEDU, nell’accezione di “vita familiare”. Laddove tale legame non sussista, la protezione della filiazione “sociale” dovrebbe essere riconosciuta quale declinazione della “vita privata” del minore.
5.- Nel giudizio innanzi alla Corte, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque non fondata.
5.1.- La difesa statale ha eccepito, in primo luogo, l’inammissibilità della questione, in quanto volta ad inserire, attraverso una pronuncia additiva, una condizione esclusiva (l’interesse del minore) ai fini dell’impugnazione del riconoscimento di figlio naturale. Spetterebbe, viceversa, al legislatore stabilire se l’accoglimento di tale impugnazione debba essere subordinato unicamente all’interesse del minore all’appartenenza familiare.
5.2.- Nel merito, la questione sarebbe comunque infondata.
La ratio dell’art. 263 cod. civ., quale strumento di tutela dell’interesse superiore alla corrispondenza tra realtà naturale e verità apparente, sarebbe quella di far cadere il riconoscimento non rispondente al vero. Verrebbe in rilievo, quindi, l’interesse oggettivo dell’ordinamento alla verità dello status di filiazione, attinente a principi di ordine pubblico, intesi come principi fondamentali ed irrinunciabili. Ad avviso della difesa statale, il principio del favor veritatis esprime un’esigenza di certezza nei rapporti di filiazione e la protezione dell’interesse del minore si realizzerebbe proprio nel riconoscimento del diritto alla propria identità (sono richiamate la sentenza n. 112 del 1997 e l’ordinanza n. 7 del 2012).
La ratio dell’art. 263 cod. civ. consisterebbe nell’attuazione del diritto del minore all’acquisizione di uno stato corrispondente alla realtà biologica, ovvero, qualora ciò non sia possibile, di uno stato corrispondente a quello di figlio legittimo, ma solo attraverso le garanzie offerte dalla disciplina dell’adozione.
Non sarebbe, dunque, ravvisabile alcun contrasto con l’art. 2 Cost., perché lo scioglimento dei vincoli assunti dal genitore verso il preteso figlio realizzerebbe l’interesse oggettivo dell’ordinamento alla verità dello status.
Non potrebbero ritenersi lesi neppure i principi di cui agli artt. 30 e 31 Cost. Essi non sarebbero invocabili laddove il legame familiare venga meno, in quanto privato del fondamento della verità della filiazione naturale.
Inoltre, non sarebbe ravvisabile alcun contrasto con l’art. 3 Cost. e quindi con il principio di ragionevolezza, perché l’art. 263 cod. civ. sarebbe giustificato dalla superiore esigenza di far cadere ogni falsa apparenza di status.
Infine, non sussisterebbe neppure la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della CEDU, non essendo in discussione la tutela della vita privata del minore, ma il suo diritto alla identità personale, sotto il profilo del legame di filiazione.
5.3.- Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, la questione sarebbe manifestamente infondata, non ravvisandosi nella considerazione del favor veritatis una ragione di conflitto con il favor minoris. La verità biologica della procreazione costituisce, infatti, una componente essenziale dell’interesse del medesimo minore, dovendo essergli garantito il diritto alla propria identità e all’affermazione di un rapporto di filiazione veridico (sentenze n. 216 e n. 112 del 1997). L’intangibilità dello status sarebbe recessiva rispetto a tale diritto, laddove venga meno la corrispondenza alla verità biologica (sentenza n. 170 del 1999).
6.- In prossimità dell’udienza pubblica, il curatore speciale ha depositato una memoria integrativa in cui, dopo avere ribadito gli argomenti già illustrati nelle precedenti difese, ha sottolineato che la mancata previsione della valutazione dell’interesse del minore impedirebbe di tener conto che, nel caso in esame, tale interesse è stato, in parte, già accertato dal Tribunale per i minorenni con la sentenza che ha dichiarato non luogo a provvedere sull’adottabilità. Il curatore speciale ritiene, peraltro, che una volta ricevuto il mandato dal medesimo Tribunale, egli non avrebbe potuto astenersi dallo svolgere tale incarico.
6.1.- In riferimento all’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato, relativa all’incidenza che un’eventuale pronuncia di accoglimento avrebbe sulla discrezionalità del legislatore, si osserva che in questo caso è richiesta alla Corte l’eliminazione di un automatismo normativo che impedisce un bilanciamento tra gli interessi in gioco, ciò che rientrerebbe pienamente nelle sue attribuzioni. D’altra parte, interventi additivi della giurisprudenza costituzionale sarebbero frequenti proprio in materia di tutela d’interesse del minore (sono richiamate le sentenze n. 7 del 2013, n. 31 del 2012, n. 50 del 2006 e n. 297 del 1996).
6.2.- Da ultimo, il curatore speciale contesta che, nel nostro ordinamento, vi sia una necessaria coincidenza tra interesse del minore e favor veritatis. Ogni rigidità e automatismo in tal senso, anzi, potrebbero risultare pregiudizievoli per il minore.
È richiamata, in particolare, la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 22 dicembre 2016, n. 26767, che ha ritenuto essenziale il bilanciamento tra gli interessi in gioco, in considerazione del superamento della concezione della famiglia su base essenzialmente genetica.
D’altra parte, un distacco tra identità genetica e identità giuridica sarebbe alla base proprio della disciplina dell’adozione, la quale costituisce espressione di un principio di responsabilità di chi sceglie di essere genitore, facendo sorgere nel figlio “desiderato” un legittimo affidamento sulla continuità della relazione.
Il curatore evidenzia che – a conferma del riconoscimento della valenza del genitore sociale – la stessa giurisprudenza costituzionale ha richiamato proprio l’istituto dell’adozione. Nella sentenza n. 162 del 2014 si sottolinea, infatti, che esso mira a garantire una famiglia ai minori, evidenziando che «il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa».
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.- Nel corso di un procedimento di impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, la Corte d’appello di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
La disposizione è censurata nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia rispondente all’interesse dello stesso.
2.- Secondo la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio incidentale, la questione sarebbe inammissibile in quanto volta ad inserire, attraverso una pronuncia additiva, una condizione esclusiva (l’interesse del minore) ai fini dell’impugnazione del riconoscimento del figlio naturale. Spetterebbe, viceversa, al legislatore stabilire se l’accoglimento di tale impugnazione debba essere subordinato all’interesse del minore all’appartenenza familiare.
L’eccezione di inammissibilità è priva di fondamento.
Al riguardo, va rilevato che il petitum del rimettente è volto al riconoscimento della possibilità di valutare l’interesse del minore, ai fini della decisione sull’impugnazione del riconoscimento. Ove si neghi tale possibilità, l’accoglimento della domanda rimarrebbe condizionato soltanto all’accertamento della non veridicità del riconoscimento. In definitiva, attraverso l’intervento invocato, è denunciata l’irragionevolezza di un automatismo decisorio che impedirebbe di tenere conto degli interessi in gioco. Il sindacato di legittimità rimesso a questa Corte è limitato, pertanto, alla verifica del fondamento costituzionale del denunciato meccanismo decisorio, senza alcuna interferenza sul contenuto di scelte discrezionali rimesse al legislatore.
3.- Sempre in via preliminare, occorre delimitare l’ambito dell’indagine che il giudice intende rimettere alla Corte in questa occasione.
Secondo questa prospettazione, il giudizio a quo ha per oggetto l’accertamento dell’inesistenza del rapporto di filiazione di un minore nato attraverso il ricorso alla surrogazione di maternità realizzata all’estero. Non è tuttavia in discussione la legittimità del divieto di tale pratica, previsto dall’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), e nemmeno la sua assolutezza. Risulta parimenti estraneo alla odierna questione di legittimità costituzionale il tema dei limiti alla trascrivibilità in Italia di atti di nascita formati all’estero.
La questione sollevata dalla Corte d’appello di Milano ha per oggetto, infatti, la disciplina dell’azione di impugnazione prevista dall’art. 263 cod. civ., volta a rimuovere lo stato di figlio, già attribuito al minore per effetto del riconoscimento, in considerazione del suo difetto di veridicità.
4.- Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. non è fondata.
Nell’interpretazione fatta propria dal rimettente la norma censurata si porrebbe in contrasto con i principi di cui agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, Cost., poiché, nel giudizio di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale, essa non consentirebbe di tenere conto, in concreto, dell’interesse del minore «a vedersi riconosciuto e mantenuto uno stato di filiazione quanto più rispondente alle sue esigenze di vita». Tuttavia, siffatta interpretazione non può essere condivisa, neppure nei casi nei quali il legislatore imponga di non pretermettere la verità.
4.1.- Pur dovendosi riconoscere un accentuato favore dell’ordinamento per la conformità dello status alla realtà della procreazione, va escluso che quello dell’accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento.
Ed invero, l’attuale quadro normativo e ordinamentale, sia interno, sia internazionale, non impone, nelle azioni volte alla rimozione dello status filiationis, l’assoluta prevalenza di tale accertamento su tutti gli altri interessi coinvolti.
In tutti i casi di possibile divergenza tra identità genetica e identità legale, la necessità del bilanciamento tra esigenze di accertamento della verità e interesse concreto del minore è resa trasparente dall’evoluzione ordinamentale intervenuta e si proietta anche sull’interpretazione delle disposizioni da applicare al caso in esame.
4.1.1.- A questo riguardo va preliminarmente osservato che la disposizione dell’art. 263 cod. civ. è stata censurata dal rimettente nella versione, applicabile ratione temporis, antecedente alle modifiche apportate dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219).
In particolare, l’art. 28 del medesimo d.lgs., in vigore dal 7 febbraio 2014, nel modificare l’art. 263 cod. civ., ha limitato l’imprescrittibilità dell’azione esclusivamente a quella esercitata dal figlio. Analoga previsione è stata inserita – con riferimento all’azione di disconoscimento di paternità – nell’art. 244, quinto comma, cod. civ., nel testo introdotto dall’art. 18, primo comma, del d.lgs. n. 154 del 2013. Gli altri legittimati, laddove intendano proporre le suddette azioni di contestazione degli status, sono ora tenuti a rispettare i termini di decadenza previsti dalla nuova disciplina.
Il legislatore delegato ha così garantito, senza limiti di tempo, l’interesse primario ed inviolabile dei figli all’accertamento della propria identità e discendenza biologica. Per converso, la previsione di termini di decadenza per gli altri legittimati ha circoscritto entro rigorosi limiti temporali l’esperibilità delle azioni demolitorie dello status filiationis, assicurando così tutela al diritto del figlio alla stabilità dello status acquisito.
La necessità del bilanciamento dell’interesse del minore con il pubblico interesse alla certezza degli status è, altresì, espressamente prevista dal legislatore nelle azioni in materia di riconoscimento dei figli (artt. 250 e 251 cod. civ.), volte all’estensione dei legami parentali del minore.
4.1.2.- D’altra parte, già l’art. 9 della legge n. 40 del 2004 aveva escluso che il coniuge o il convivente che abbiano acconsentito al ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo potessero promuovere l’azione di disconoscimento o impugnare il riconoscimento ai sensi dell’art. 263 cod. civ.
Al riguardo questa Corte ha ritenuto «confermata sia l’inammissibilità dell’azione di disconoscimento della paternità […] e dell’impugnazione ex art. 263 cod. civ. (nel testo novellato dall’art. 28 del d.lgs. n. 154 del 2013), sia che la nascita da PMA di tipo eterologo non dà luogo all’istituzione di relazioni giuridiche parentali tra il donatore di gameti ed il nato, essendo, quindi, regolamentati i principali profili dello stato giuridico di quest’ultimo» (sentenza n. 162 del 2014).
Anche in questo caso, in un’ipotesi di divergenza tra genitorialità genetica e genitorialità biologica, il bilanciamento è stato effettuato dal legislatore attribuendo la prevalenza al principio di conservazione dello status filiationis.
4.1.3.- Proprio al fine di garantire tutela al bambino concepito attraverso fecondazione eterologa, sin da epoca antecedente alla legge n. 40 del 2004, questa Corte – senza mettere in discussione la legittimità di tale pratica, «né […] il principio di indisponibilità degli status nel rapporto di filiazione, principio sul quale sono suscettibili di incidere le varie possibilità di fatto oggi offerte dalle tecniche applicate alla procreazione» – si è preoccupata «invece di tutelare anche la persona nata a seguito di fecondazione assistita, venendo inevitabilmente in gioco plurime esigenze costituzionali. Preminenti in proposito sono le garanzie per il nuovo nato […], non solo in relazione ai diritti e ai doveri previsti per la sua formazione, in particolare dagli artt. 30 e 31 della Costituzione, ma ancor prima – in base all’art. 2 della Costituzione – ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità: diritti che è compito del legislatore specificare» (sentenza n. 347 del 1998).
4.1.4.- Come evidenziato dallo stesso rimettente in riferimento alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., anche il quadro europeo ed internazionale di tutela dei diritti dei minori evidenzia la centralità della valutazione dell’interesse del minore nell’adozione delle scelte che lo riguardano.
Tale principio ha trovato la sua solenne affermazione dapprima nella Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, in forza della quale «[i]n tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente» (art. 3, paragrafo 1).
Nella stessa direzione si pongono la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 20 marzo 2003, n. 77, e le Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore, adottate il 17 novembre 2010, nella 1098ª riunione dei delegati dei ministri.
Infine, l’art. 24, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, sancisce il principio per il quale «[i]n tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente».
D’altra parte, pur in assenza di un’espressa base testuale, la garanzia dei best interests of the child è stata riportata, nell’interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, sia all’art. 8, sia all’art. 14 della CEDU. Ed è proprio in casi di surrogazione di maternità, nel valutare il rifiuto di trascrizione degli atti di nascita nei registri dello stato civile francese, che la Corte di Strasburgo ha affermato che il rispetto del migliore interesse dei minori deve guidare ogni decisione che li riguarda (sentenze del 26 giugno 2014, rese nei casi Mennesson contro Francia e Labassee contro Francia, ricorsi n. 65192 del 2011 e n. 65941 del 2011).
4.1.5.- Va altresì rammentato che, in linea con i principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte EDU, la legge 19 ottobre 2015, n. 173 (Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare) ha valorizzato l’interesse del minore alla conservazione di legami affettivi che sicuramente prescindono da quelli di sangue, attraverso l’attribuzione di rilievo giuridico ai rapporti di fatto instaurati tra il minore dichiarato adottabile e la famiglia affidataria.
D’altra parte, il distacco tra identità genetica e identità legale è alla base proprio della disciplina dell’adozione (legge 4 maggio 1983, n. 184, recante «Diritto del minore ad una famiglia»), quale espressione di un principio di responsabilità di chi sceglie di essere genitore, facendo sorgere il legittimo affidamento sulla continuità della relazione.
4.1.6.- Anche la giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto, da tempo, l’immanenza dell’interesse del minore nell’ambito delle azioni volte alla rimozione del suo status filiationis (sentenze n. 112 del 1997, n. 170 del 1999 e n. 322 del 2011; ordinanza n. 7 del 2012).
In tale giurisprudenza si trovano affermazioni sul particolare valore della verità biologica. Tuttavia – diversamente da quanto ritiene il giudice a quo – essa non ha affatto negato la possibilità di valutare l’interesse del minore nell’ambito delle azioni demolitorie del rapporto di filiazione. È stato riconosciuto che la verità biologica della procreazione costituisce «una componente essenziale» dell’identità personale del minore, la quale concorre, insieme ad altre componenti, a definirne il contenuto.
Pertanto, nell’auspicare una «tendenziale corrispondenza» tra certezza formale e verità naturale, si è riconosciuto che anche l’accertamento della verità biologica fa parte della complessiva valutazione rimessa al giudice, alla stregua di tutti gli altri elementi che, insieme ad esso, concorrono a definire la complessiva identità del minore e, fra questi, anche quello, potenzialmente confliggente, alla conservazione dello status già acquisito.
Costituisce infatti «compito precipuo del tribunale per i minorenni, […] verificare se la modifica dello status del minore risponda al suo interesse e non sia per lui di pregiudizio; così come contemporaneamente occorre anche verificare, sia pure con sommaria delibazione, la verosimiglianza del preteso rapporto di filiazione, dovendosi garantire il diritto del minore alla propria identità» (sentenza n. 216 del 1997, sulla previgente disciplina dell’azione di disconoscimento della paternità, di cui agli artt. 273 e 274 cod. civ.).
Nell’evoluzione normativa e ordinamentale del concetto di famiglia, a conferma del rilievo giuridico della genitorialità sociale, ove non coincidente con quella biologica, vi è anche l’espresso riconoscimento, da parte di questa Corte, che «il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa» (sentenza n. 162 del 2014).
4.1.7.- L’esigenza di operare un’adeguata comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti e, in particolare, del minore, è stata recentemente riconosciuta anche dalla Corte di cassazione, con riferimento all’azione di disconoscimento della paternità.
La giurisprudenza di legittimità ha escluso, infatti, che il favor veritatis costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta da affermarsi comunque, atteso che l’art. 30 Cost. non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale. Nel disporre, al quarto comma, che «[l]a legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità», l’art. 30 Cost. ha demandato al legislatore ordinario il potere di privilegiare, nel rispetto degli altri valori di rango costituzionale, la paternità legale rispetto a quella naturale, nonché di fissare le condizioni e le modalità per far valere quest’ultima, così affidandogli anche la valutazione in via generale della soluzione più idonea per la realizzazione dell’interesse del figlio (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 30 maggio 2013, n. 13638; 22 dicembre 2016, n. 26767; e 3 aprile 2017, n. 8617).
4.2.- È alla luce di tali principi, immanenti anche nel mutato contesto normativo e ordinamentale, che si pone la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ.
L’affermazione della necessità di considerare il concreto interesse del minore in tutte le decisioni che lo riguardano è fortemente radicata nell’ordinamento sia interno, sia internazionale e questa Corte, sin da epoca risalente, ha contribuito a tale radicamento (ex plurimis, sentenze n. 7 del 2013, n. 31 del 2012, n. 283 del 1999, n. 303 del 1996, n. 148 del 1992 e n. 11 del 1981).
Non si vede conseguentemente perché, davanti all’azione di cui all’art. 263 cod. civ., fatta salva quella proposta dallo stesso figlio, il giudice non debba valutare: se l’interesse a far valere la verità di chi la solleva prevalga su quello del minore; se tale azione sia davvero idonea a realizzarlo (come è nel caso dell’art. 264 cod. civ.); se l’interesse alla verità abbia anche natura pubblica (ad esempio perché relativa a pratiche vietate dalla legge, quale è la maternità surrogata, che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane) ed imponga di tutelare l’interesse del minore nei limiti consentiti da tale verità.
Vi sono casi nei quali la valutazione comparativa tra gli interessi è fatta direttamente dalla legge, come accade con il divieto di disconoscimento a seguito di fecondazione eterologa. In altri il legislatore impone, all’opposto, l’imprescindibile presa d’atto della verità con divieti come quello della maternità surrogata. Ma l’interesse del minore non è per questo cancellato.
La valutazione del giudice è presente, del resto, nello stesso procedimento previsto dall’art. 264 cod. civ., volto alla nomina del curatore speciale del figlio minore, laddove l’azione di contestazione dello status sia esercitata nel suo interesse. È anche in questa sede, infatti, che il legislatore – sia pure con i limiti derivanti dalla natura camerale del procedimento – ha affidato al giudice specializzato il compito di valutare, ancor prima dell’instaurazione dell’azione, l’interesse del minore all’assunzione di tale iniziativa giudiziale.
4.3.- Se dunque non è costituzionalmente ammissibile che l’esigenza di verità della filiazione si imponga in modo automatico sull’interesse del minore, va parimenti escluso che bilanciare quell’esigenza con tale interesse comporti l’automatica cancellazione dell’una in nome dell’altro.
Tale bilanciamento comporta, viceversa, un giudizio comparativo tra gli interessi sottesi all’accertamento della verità dello status e le conseguenze che da tale accertamento possano derivare sulla posizione giuridica del minore.
Si è già visto come la regola di giudizio che il giudice è tenuto ad applicare in questi casi debba tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso. Tra queste, oltre alla durata del rapporto instauratosi col minore e quindi alla condizione identitaria già da esso acquisita, non possono non assumere oggi particolare rilevanza, da un lato le modalità del concepimento e della gestazione e, dall’altro, la presenza di strumenti legali che consentano la costituzione di un legame giuridico col genitore contestato, che, pur diverso da quello derivante dal riconoscimento, quale è l’adozione in casi particolari, garantisca al minore una adeguata tutela.
Si tratta, dunque, di una valutazione comparativa della quale, nel silenzio della legge, fa parte necessariamente la considerazione dell’elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità, vietata da apposita disposizione penale.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, sollevata dalla Corte d’appello di Milano, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Le attività di ristrutturazione e mantenimento della casa comune non vanno rimborsate se non risulta la loro assoluta necessità per la conservazione del bene.

Cassazione 23 agosto 2017 n. 20283
ORDINANZA
sul ricorso 5782-2014 proposto da:
(OMISSIS) ((OMISSIS)), domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE,rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS);
– intimata –
avverso la sentenza n. 1719/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 03/10/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/06/2017 dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA.
RITENUTO IN FATTO
La Corte d’Appello di Catania, con sentenza 3.10.2013 ha respinto il gravame proposto da (OMISSIS) contro la sentenza 389/2010 del locale Tribunale (sez. dist. Mascalucia) che aveva a sua volta disatteso la domanda da lui proposta nei confronti del coniuge separato (OMISSIS), tendente ad ottenere il pagamento di somme di danaro a titolo di rimborso spese effettuate negli anni 2006-2007-2008 quale amministratore della comunione dei beni anche per il periodo successivo alla separazione.
Per giungere a tale conclusione la Corte territoriale, richiamato il principio della inderogabilita’ delle norme relative alla amministrazione dei beni della comunione tra i coniugi (articolo 210 c.c., comma 3), ha osservato che il (OMISSIS) in costanza di convivenza coniugale aveva esercitato il normale potere di amministrazione disgiunta ex articolo 180 c.c. e che, una volta intervenuto lo scioglimento della comunione col passaggio in giudicato della sentenza di separazione, non poteva compiere atti di amministrazione senza il consenso dell’altro comunista (la (OMISSIS)) titolare, ai sensi dell’articolo 1105 c.c., del pari diritto di concorrere nella amministrazione della cosa comune, consenso nel caso di specie non preventivamente richiesto. Ha quindi osservato che gli unici atti consentiti erano quelli conservativi (in caso di inattivita’ o trascuranza dell’altro compartecipe), mentre per quanto riguarda l’amministrazione e l’esecuzione delle attivita’ gia’ deliberate era ammesso, in caso di dissenso o inerzia della (OMISSIS), il ricorso all’autorita’ giudiziaria ai sensi dell’articolo 1105 c.c., comma 4.
Contro tale decisione il (OMISSIS) ricorre per cassazione sulla base di due motivi, mentre la (OMISSIS) non ha svolto difese in questa sede.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.1 Col primo motivo, sviluppato in una triplice articolazione, il ricorrente denunzia innanzitutto “la violazione e falsa applicazione degli articoli 180 e 182 c.c. nonche’ dell’articolo 1106 c.c. in relazione all’articolo 1708 c.c.. Violazione dell’articolo 360 c.p.c., n. 3”. Dopo aver sottolineato l’erroneo richiamo agli articoli 180 e 182 c.c., trattandosi di domanda di rimborso di somme anticipate dopo lo scioglimento della comunione, il ricorrente richiama il principio della delegabilita’ della amministrazione ad uno o piu’ partecipanti (sancito dall’articolo 1106 c.c.) e invoca le regole sul mandato e sulla liberta’ di forma del suo conferimento. Ritiene pertanto errata la sentenza laddove ha escluso la qualifica di amministratore dei beni in comunione nonostante che le somme richieste negli estratti conto riguardino spese di manutenzione degli immobili, come incontrovertibilmente emerso nel corso del giudizio.
1.2 Denunzia inoltre “violazione e falsa applicazione dell’articolo 324 c.p.c.. Omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio. Violazione e falsa applicazione dell’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5”: richiamando alcuni passaggi di una sentenza di Tribunale emessa in altro giudizio promosso contro di lui dalla (OMISSIS), il ricorrente ritiene che a fronte di una statuizione (non impugnata) sulla sua qualita’ di amministratore, la sentenza di appello non ha correttamente fatto applicazione del giudicato su tale punto formatosi.
1.3 Ancora, il (OMISSIS) deduce “violazione e falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c.; omesso esame di fatti decisivi per il giudizio. Violazione e falsa applicazione dell’articolo 360, n. 3 nonche’ dell’articolo 360 cod. proc. civ., n. 5” osservando che la qualifica di amministratore poteva chiaramente desumersi dalla ciclopica documentazione versata in atti (e richiama a tal fine gli atti processuali che a suo dire, dimostrerebbero l’assunto).
Il motivo e’ infondato sotto tutti i profili in cui si articola.
a) Partendo, per ragioni di priorita’ logica, dalla dedotta violazione del giudicato (rappresentato, a dire del ricorrente, dalla sentenza 3041/2006 emessa all’esito di una domanda di rendiconto avanzata dalla moglie e citata nei motivi di appello), il Collegio rileva l’infondatezza della doglianza perche’, come emerge dallo stesso ricorso a pag. 13, il Tribunale con la sentenza 3041/2006 aveva fatto “riferimento agli anni 1997/2003” cioe’ ai rendiconti di un periodo antecedente al passaggio in giudicato della sentenza di separazione e quindi antecedente allo scioglimento della comunione legale tra i coniugi, ed in tale periodo vigeva la regola dell’amministrazione disgiunta di cui all’articolo 180 c.c..
Il giudicato quindi non e’ invocabile nel caso in esame ove invece si discute di atti compiuti dopo lo scioglimento della comunione, come accertato dalla Corte di merito: quindi, non sussiste ne’ la violazione di legge ne’ l’omesso esame circa un fatto decisivo.
b) Quanto alle altre doglianze, sotto il primo profilo la doglianza e’ infondata, anche se occorre correggere la motivazione ai sensi dell’articolo 384 c.p.c., u.c. essendo il dispositivo conforme a diritto.
Va premesso che la Corte d’Appello ha richiamato le disposizioni degli articoli 180 e 182 c.c. non gia’ per applicarle nel caso concreto ma per ricostruire il meccanismo dell’amministrazione dei beni tra i coniugi sotto il regime della comunione legale; inoltre, correttamente e’ stata esclusa dalla Corte di merito la possibilita’ di una nomina ad amministratore del (OMISSIS) durante la convivenza matrimoniale, stante il principio della amministrazione disgiunta (articolo 180 c.c.) e della inderogabilita’ delle norme sull’amministrazione (articolo 210 c.c., comma 3).
Il richiamo alla forma libera della nomina ad amministratore e alla applicabilita’ delle norme sul mandato investe una questione di diritto implicante accertamenti in fatto ed introdotta solo in questa sede, non risultando ne’ dal ricorso ne’ dalla sentenza impugnata che di essa si sia gia’ discusso nel giudizio di appello: la Corte di Cassazione pertanto non e’ tenuta ad esaminarla.
Va piuttosto osservato che, come precisa lo stesso ricorrente (v. pag. 12), “le somme richieste negli estratti contro riguardano spese sostenute dall’amministratore per la manutenzione degli immobili….”.
Ebbene, secondo la giurisprudenza di questa Corte – a cui oggi va data continuita’ – in tema di spese di conservazione della cosa comune, l’articolo 1110 cod. civ., escludendo ogni rilievo dell’urgenza o meno dei lavori, stabilisce che il partecipante alla comunione, il quale, in caso di trascuranza degli altri compartecipi o dell’amministratore, abbia sostenuto spese necessarie per la conservazione della cosa comune, ha diritto al rimborso, a condizione di aver precedentemente interpellato o, quantomeno, preventivamente avvertito gli altri partecipanti o l’amministratore, sicche’ solo in caso di inattivita’ di questi ultimi egli puo’ procedere agli esborsi e pretenderne il rimborso, pur in mancanza della prestazione del consenso da parte degli interpellati, incombendo comunque su di lui l’onere della prova sia della suddetta inerzia che della necessita’ dei lavori (tra le varie, Sez. 2, Sentenza n. 20652 del 09/09/2013 Rv. 627614; Sez. 2, Sentenza n. 10738 del 03/08/2001 (Rv. 548784).
Nel caso in esame il relativo onere probatorio non risulta assolto e quindi si giustifica il rigetto della domanda di rimborso.
c) Sotto il terzo profilo, premesso che l’unico fatto decisivo era il ruolo del (OMISSIS) (che la Corte ha ben analizzato) e non gia’ le prove addotte a sostegno della tesi dell’attore, va osservato che la critica, sotto lo schermo della dedotta violazione di legge, e’ in realta’ unicamente fattuale e tende ad una alternativa ricostruzione di circostanze per sollecitare una soluzione diversa alla questione relativa al ruolo del (OMISSIS): il giudizio di legittimita’ non consente siffatti accertamenti.
2 Col secondo motivo si denunzia infine violazione e falsa applicazione dell’articolo 244 c.p.c. nonche’ degli articoli 115 e 116 c.p.c., omesso esame di fatti decisivi per il giudizio; omessa ammissione di mezzi istruttori richiesti (prova per testi e consulenza tecnica di ufficio) Violazione dell’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5″: ritiene il ricorrente che la prova per testi sull’invio annuale degli estratti conto e la consulenza contabile sulla regolarita’ degli stessi (domandate con l’atto di appello) avrebbero condotto al buon esito del giudizio.
Anche tale motivo e’ infondato perche’ i mezzi istruttori richiesti (prova per testi sull’invio periodico dei rendiconti al domicilio della (OMISSIS) e consulenza tecnica contabile sui rendiconti) non inciderebbero affatto sulla ratio decidendi della Corte d’Appello, fondata non gia’ sul mancato invio dei rendiconti o sulla erroneita’ degli stessi sotto il profilo contabile, ma sulla inesistenza del diritto al rimborso delle somme anticipate.
In conclusione, il ricorso del (OMISSIS) va respinto, con addebito di ulteriori spese al ricorrente.
Trattandosi di ricorso successivo al 30 gennaio 2013 e deciso sfavorevolmente, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-Legge di stabilita’ 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, il comma 1 quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente grado di giudizio che liquida in complessivi Euro 5.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 – quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis.

Non è necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare al rilascio del passaporto per la figlia minorenne che sia affidata in maniera esclusiva ad un genitore.

Tribunale di Mantova,12 dicembre 2017

Tribunale di Mantova Il giudice tutelare dott. Luigi Pagliuca,
letta l’istanza depositata in data 1.12.17 da B. O. e volta ad ottenere
l’autorizzazione al rinnovo del passaporto a favore della figlia minorenne
M. R. (nata a B. il 28.12.2005), figlia anche di R. G. ed affidata in via
esclusiva alla madre con provvedimento del Tribunale di Mantova in data
27.2.2014;
rilevato che ai sensi dell’art. 3, lett. a) legge 1185/67 per il rilascio del
passaporto a favore di minore sottoposto alla responsabilità genitoriale è,
in generale, necessario l’assenso di entrambi i genitori, in mancanza del
quale è necessario ottenere l’autorizzazione del giudice tutelare;
rilevato, tuttavia, che ai sensi dell’art. 3, lett. b) della stessa legge
l’autorizzazione del giudice tutelare non è necessaria quando il
richiedente “sia titolare esclusivo della responsabilita’ genitoriale sul
figlio” ipotesi nella quale – quindi – il passaporto potrà essere rilasciato a
fronte della semplice richiesta del genitore esercente in via esclusiva la
responsabilità genitoriale, senza che siano necessari anche l’assenso
dell’altro genitore o l’autorizzazione del giudice tutelare;
rilevato che ai sensi dell’art. 337quater, c. 3 cc “il genitore a cui sono
affidati i figli in via esclusiva, salva diversa disposizione del giudice, ha
l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale su di essi”ritenuto,
quindi, che il genitore esclusivo affidatario del figlio, in quanto appunto
esercente in via esclusiva la responsabilità genitoriale sullo stesso, ai
sensi dell’art. 3 lett. b) sopra richiamato abbia titolo per richiedere ed
ottenere il rilascio del passaporto a favore del figlio medesimo, senza
dover richiedere a tal fine anche l’assenso dell’altro genitore o
l’autorizzazione del giudice tutelare. Ciò salvo solo il caso in cui, ai sensi
dell’art. 337 quater, c. 3 cc (nella parte in cui fa salva ogni diversa
disposizione del giudice) il giudice che abbia disposto l’affido esclusivo
non abbia espressamente previsto che, in relazione al rilascio del
passaporto, permanga l’esercizio congiunto della responsabilità in capo
ad entrambi genitori; rilevato che nella fattispecie con provvedimento del
Tribunale di Mantova in data 27.2.14 la figlia R. M. è stata affidata in via
esclusiva alla madre B. O. senza limitazioni di sorta in ordine al potere
della madre affidataria di richiedere nel suo interesse il rilascio del
passaporto; ritenuto, quindi, che nel caso di specie il passaporto a favore
della minore R. M. debba essere rilasciato a semplice richiesta della sola
madre B. O., senza che a tal fine sia necessario anche l’assenso del padre
R. G., né l’autorizzazione del giudice tutelare; ritenuto, quindi, che debba
essere dichiarata l’inammissibilità dell’istanza volta ad ottenere
l’autorizzazione del giudice tutelare al rilascio del passaporto, in quanto
nella fattispecie non necessaria
PQM
Dichiara l’inammissibilità dell’istanza, dando atto che sussistono i
presupposti per rilasciare il passaporto a favore della minore R. M. a
semplice richiesta della sola madre B. O. affidataria esclusiva della
minore, senza che a tal fine sia necessario anche l’assenso del padre R. G.,
né l’autorizzazione del giudice tutelare;
Si comunichi alla ricorrente.
Mantova, 12.12.2017
Il Giudice tutelare
Dott. Luigi Pagliuca

La separazione può essere addebitata anche se non si sostanzia in adulterio

Cass. Civile, Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 21657 del 19/09/2017.

ORDINANZA
sul ricorso 18907/2016 proposto da:
G.A.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la
CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso
dall’avvocato GIULIANO RASTELLI;
– ricorrente –
contro
C.S., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la
CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa
dall’avvocato SIMONETTA BOCCABELLA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 59/2016 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,
depositata il 15/01/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non
partecipata del 07/07/2017 dal Consigliere Dott. FRANCESCO
ANTONIO GENOVESE.
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
La Corte d’appello dell’Aquila, con la sentenza n. 1154del2014
(depositata il 19 agosto 2014), respingendo l’appello incidentale proposto
dal signor G.A.A. ed accogliendo quello principale della signora C.S., ha
riformato la sentenza del Tribunale di Teramo, che aveva addebitato la
separazione alla C. ed escluso il pagamento di un contributo da parte del
G. in favore di costei, ed ha respinto la domanda di addebito della
separazione alla moglie, ponendo a carico del marito un contributo di
mantenimento di Euro 800,00 mensili e regolando le spese.
Avverso tale decisione ricorre con tre mezzi il G., assumendo l’esistenza
di non meglio specificate violazioni o false applicazioni di norme di
diritto e l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, affermando la
irrilevanza del tradimento ai fini dell’addebito, la violazione del giusto
processo e del contraddittorio, nonchè dell’obbligo di allegazione e prova.
Il Collegio condivide la proposta di definizione della controversia
notificata alle parti costituite nel presente procedimento, alla quale sono
state mosse osservazioni critiche da parte del ricorrente che, tuttavia, non
colgono nel segno.
Le doglianze, infatti, sono, in una sua parte, inammissibili perchè, sotto
le apparenti spoglie della violazione dei menzionati generici dispositivi di
legge, sollecitano a questa Corte un sostanziale riesame delle risultanze
processuali ed una diversa valutazione degli apprezzamenti giudiziali sui
fatti accertati ai fini della regolazione della separazione giudiziale (SU
civili nella Sentenza n. 8053 del 2014) ed, in un’altra parte, esse sono
anche manifestamente infondate, perchè si pongono in contrasto con il
principio di diritto posto da Cass. Sez. 1, Sentenza n. 8929 del 2013 (“La
relazione di un coniuge con estranei rende addebitabile la separazione ai
sensi dell’art. 151 c.c., quando, in considerazione degli aspetti esteriori
con cui è coltivata e dell’ambiente in cui i coniugi vivono, dia luogo a
plausibili sospetti di infedeltà e quindi, anche se non si sostanzi in un
adulterio, comporti offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge”). Alla
reiezione del ricorso, conseguono sia le spese processuali (liquidate come
in dispositivo) in favore della controricorrente, sia l’enunciazione della
sussistenza dei presupposti per il raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte:
Respinge il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese
processuali di questa fase del giudizio che liquida in complessivi Euro
3.100,00 di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella
misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla
L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara che sussistono i presupposti
per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello
stesso art. 13, comma 1-bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento, dispone omettersi le
generalità e gli altri dati identificativi delle parti, a norma del D.Lgs. n.
196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile
1, della Corte di Cassazione, dai magistrati sopra indicati, il 7 luglio 2017.
Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2017.

REGOLAMENTO EUROPEO SULLE CAUSE MATRIMONIALI E SULLA RESPONSABILITÀ GENITORIALE

di Gianfranco Dosi
I Il Regolamento europeo n. 2201 del 2003
Il Regolamento n. 2201 del 2003 (relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento n. 1347/2000) costituisce il testo più significativo oggi in vigore nell’Unione europea in materia di controversie transfrontaliere nell’ambito del diritto di famiglia.
Il Regolamento è stato adottato dal Consiglio dell’Unione Europea (denominato in questo modo dal trattato di Lisbona del 2007) che è il Consiglio dei ministri europei (con sede a Bruxelles) e che detiene – insieme con il Parlamento europeo – il potere legislativo nell’ambito dell’Unione europea.
L’adozione nelle forme del Regolamento si spiega in quanto un trattato internazionale sarebbe esposto alle riserve di singoli Stati, viceversa il Regolamento (europeo) è, a differenza delle Diret¬tive, un atto generale a contenuto obbligatorio per tutti gli Stati membri e quindi potenzialmente idoneo ad una applicazione uniforme in tutta l’Unione europea.
Non è il primo Regolamento che si è occupato di questa materia. Nel 2000 era già stato adottato un Regolamento sulle cause matrimoniali e sulla responsabilità genitoriale (limitatamente, però, ai figli nati nel matrimonio). Si trattava del Regolamento n. 1347 (cosiddetto Bruxelles I) abrogato dal Regolamento del 2003 (cosiddetto Bruxelles II). Il grande numero di matrimoni misti tra cit¬tadini europei aveva da tempo posto in evidenza i problemi a livello comunitario relativi alla crisi dell’unione matrimoniale soprattutto con figli minori. Problemi che riguardano l’accertamento di quale sia il giudice competente a decidere, l’individuazione del diritto applicabile alle controversie e gli aspetti connessi al riconoscimento e all’eventuale esecuzione dei provvedimenti.
Il Regolamento n. 2201, che è in vigore dal 2004, si occupa (analogamente a quanto fanno nei sin¬goli Stati le norme di diritto internazionale privato relativamente ai rapporti con ordinamenti extra¬europei) di due aspetti, tutti nel settore civile: 1) l’individuazione della competenza giurisdizionale (indica cioè quali giudici sono competenti ad occuparsi della da cause matrimoniali e dei provve¬dimenti sulla responsabilità genitoriale, anche indipendentemente da qualsiasi nesso con le cause matrimoniali, inclusi le misure di protezione del minore) e quindi anche con riferimento ai figli nati fuori dal matrimonio (ampliandosi così il suo campo d’azione anche alle famiglie di fatto); 2) il rico¬noscimento e l’attuazione in uno Stato membro delle decisioni adottate in un altro Stato membro).
Relativamente alle decisioni di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio, il Regolamento si occupa soltanto delle decisioni potremmo dire sullo status e non riguarda i rapporti patrimoniali o altri eventuali provvedimenti accessori ed eventuali (per esempio l’addebito della separazione o il risarcimento dei danni). Gli atti pubblici e gli accordi (per esempio gli accordi di negoziazione assistita) aventi efficacia esecutiva in uno Stato membro sono equiparati alle “deci¬sioni” ai fini dell’applicazione delle norme sul riconoscimento e l’attuazione.
Il Regolamento non si applica ai diritti connessi alla filiazione, che sono questioni distinte dall’at¬tribuzione della responsabilità genitoriale. Come detto trova invece applicazione per le decisioni sulla responsabilità genitoriale anche relativamente alla filiazione fuori dal matrimonio e quindi nella famiglia di fatto.
Non si occupa, inoltre, di controversie o di provvedimenti di natura alimentare che sono espressa¬mente escluse dal campo di applicazione del Regolamento n. 2201/2003 in quanto già disciplinate dal Regolamento n. 44/2001 sebbene i giudici competenti ai sensi del Regolamento n. 2201/2003 siano gli stessi competenti a statuire in materia di obbligazioni alimentari. La giurisprudenza ha chiarito come la nozione di obbligo alimentare debba essere intesa in senso ampio, per lo più svincolata dalle indicazioni espresse a livello nazionale, comprendendo essa tutte le obbligazioni alimentari previste dal diritto civile, “indipendentemente dalla denominazione che esse assumono secondo la legge applicabile al merito della controversia” (Cass. civ. Sez. Unite 1 ottobre 2009, n. 21053; Cass. civ. Sez. Unite, 1 ottobre 2009, n. 21053).
Il Regolamento non si occupa di diritto sostanziale. Un diritto comune europeo non è stata finora materia di competenza di alcun Regolamento.
II Ambito di applicazione
a) I rapporti tra le giurisdizioni degli Stato europei
Innanzittuto è da precisare che secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza il Regolamento n. 2201/2003 si applica solo ai rapporti tra diverse giurisdizioni degli Stati dell’Unione Europea, regolando i conflitti tra queste giurisdizioni, non anche ai rapporti con le giurisdizione degli Stati esterni all’Unione, ai cui conflitti, anche se la causa verte tra cittadini dell’Unione, si applica l’art. 7 della legge n. 218 del 1995, con eventuale sospensione del giudizio interno sino alla definizione del previo giudizio estero (Cass. civ. Sez. Unite, 18 marzo 2016, n. 5420).
Vi è quindi differenza tra le norme sovranazionali contenute nei Regolamenti europei e le norme di diritto internazionale privato contenute nella legge 31 maggio 1995, n. 218. Queste ultime conti¬nuano ad applicarsi ai rapporti tra la giurisdizione italiana e quella di Stati extraeuropei.
Questa affermazione non contrasta con il fatto che il Regolamento n. 2201/2003 trova applicazione anche in caso di cittadinanza extraeuropea dei coniugi (residenti in uno Stato europeo) in quanto il criterio di collegamento prescelto dal Regolamento nell’attribuzione della competenza giurisdizio¬nale non è quello della cittadinanza, bensì della “residenza abituale” di uno o di entrambi i coniugi in uno Stato membro (Corte Giustizia Unione Europea, 29 novembre 2007; Trib. Belluno, 5 novembre 2010; Trib. Belluno, 6 marzo 2009).
La questione è ben chiara se si esamina anche solo l’art. 3 del Regolamento n. 2201 del 2013 che, riferendosi ai criteri di competenza, dichiara competenti le autorità giurisdizionali in cui risiede una persona, prescindendo dalla sua cittadinanza.
b) Le materie
Il Regolamento si applica, indipendentemente dal tipo di autorità giurisdizionale, alle materie civili relative:
1) al divorzio, alla separazione personale e all’annullamento del matrimonio (in particolare alle sole decisioni relative per così dire allo status e non al contenuto ampio delle cause matrimoniali.
2) all’attribuzione, all’esercizio, alla delega, alla revoca totale o parziale della responsabilità ge¬nitoriale. In particolare: a) il diritto di affidamento e il diritto di visita; b) la tutela, la curatela ed altri istituti analoghi; c) la designazione e le funzioni di qualsiasi persona o ente aventi la respon¬sabilità della persona o dei beni del minore o che lo rappresentino o assistano; d) la collocazione del minore in una famiglia affidataria o in un istituto; e) le misure di protezione del minore legate all’amministrazione, alla conservazione o all’alienazione dei beni del minore.
Viceversa il Regolamento non si applica: a) alla determinazione o all’impugnazione della filiazione; b) alla decisione relativa all’adozione, alle misure che la preparano o all’annullamento o alla revoca dell’adozione; c) ai nomi e ai cognomi del minore; d) all’emancipazione; e) alle obbligazioni alimen¬tari; f) ai trust e alle successioni; g) ai provvedimenti derivanti da illeciti penali commessi da minori.
L’art. 2 definisce la “responsabilità genitoriale” (utilizzando questa espressione poi entrata con la riforma del 2012 anche nel lessico giuridico del nostro diritto di famiglia al posto di “potestà dei genitori”) riferendosi con tale espressione ai “diritti e doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore”. L’espressione comprende, in particolare, il diritto di affidamen¬to (intendendo espressamente per tale i diritti e i doveri concernenti la cura della persona di un minore, in particolare il diritto di intervenire nella decisione riguardo al suo luogo di residenza) e il diritto di visita (intendendo per tale il diritto di condurre il minore in un luogo diverso dalla sua residenza abituale per un periodo limitato di tempo).
III Il giudice competente in materia di separazione, divorzio e annullamento del matrimonio
Ipotizziamo che un ragazzo italiano sposi una ragazza francese, che vengono ad abitare in Italia e che dopo alcuni anni, a causa di una crisi, intervenga la decisione di uno dei due di separarsi.
Quale sarà il giudice competente per la separazione?
Soccorre a tale proposito il fondamentale art. 3 (competenza generale) del Regolamento n. 2201/2003 il quale precisa che in materia di separazione, divorzio o annullamento del matrimo¬nio un coniuge che è cittadino e che risiede in uno Stato europeo può essere convenuto soltanto (quindi con carattere di esclusività: art. 6) o di fronte al giudice dello Stato di cui entrambi sono cittadini (cosa che non si verifica nell’esempio sopra fatto e che si verificherebbe se si trattasse di due cittadini per esempio italiani) oppure (in via alternativa):
– di fronte al giudice dello Stato nel cui territorio si trova la residenza abituale dei coniugi
– o l’ultima residenza abituale dei coniugi se uno di essi vi risiede ancora,
– o la residenza abituale del convenuto,
– o in caso di domanda congiunta, la residenza abituale di uno dei coniugi,
– o la residenza abituale dell’attore se questi vi ha risieduto almeno per un anno immediatamente prima della domanda,
– o la residenza abituale dell’attore se questi vi ha risieduto almeno per sei mesi immediatamente prima della domanda ed è cittadino dello Stato membro stesso.
Secondo quanto precisato da Cass. civ. Sez. Unite, 17 febbraio 2010, n. 3680 i parametri di cui all’art. 3 sono esclusivi ma anche alternativi, tale che ognuno di essi consente la individuazione del Giudice che può essere adito.
Per verificare, quindi, se il giudice di uno Stato ha competenza è sufficiente che si verifichi una delle ipotesi possibili indicate.
Nell’esempio sopra fatto della coppia di coniugi residente in Italia, formata da un ragazzo italiano e una ragazza francese, il giudice competente non potrà che essere quello italiano (giudice dello Stato nel cui territorio si trova la residenza abituale dei coniugi).
Se la moglie francese si fosse, invece, allontanata da casa e fosse tornata a vivere in Francia, il marito potrebbe proporre la separazione sempre di fronte al giudice italiano (in quanto essendo egli rimasto in Italia si tratta del “giudice dell’ultima residenza abituale dei coniugi se uno di essi vi risiede ancora”) ma la moglie, dopo essere rientrata in Francia, potrebbe anche lei instaurare il giudizio di separazione, davanti al giudice italiano quale “giudice di residenza abituale del conve¬nuto” oppure, nell’ipotesi in cui decidesse di chiedere la separazione dopo sei mesi dal suo rientro in Francia, potrebbe iniziarla davanti al giudice francese quale “giudice della residenza abituale dell’attore se questi vi ha risieduto almeno per sei mesi immediatamente prima della domanda ed è cittadino dello Stato membro stesso”.
Il che significa che, in caso di due coniugi di diversa cittadinanza, se uno dei decide di allontanarsi dalla residenza familiare e di tornare a risiedere nello Stato di cui è cittadino, è in condizioni di imporre all’altro il giudizio di separazione nel proprio Stato. Pertanto il coniuge italiano – nell’e¬sempio sopra fatto – avrebbe a disposizione sei mesi di tempo per presentare in Italia il ricorso di separazione. Ove trascorresse questo periodo, il coniuge francese, tornato da sei mesi in Francia, potrà proporre in Francia il giudizio di separazione, costringendo il coniuge italiano a subire il pro¬cesso in quello Stato.
Secondo quanto prevede l’art. 7 del Regolamento, qualora per ipotesi nessun giudice di uno Stato membro fosse competente in relazione ai criteri indicati (si pensi al caso in cui un cittadino france¬se ed uno italiano non abbiano mai avuto la residenza né in Francia né in Italia e il coniuge italiano si trasferisca in Italia chiedendo la separazione), la competenza, in ciascuno Stato membro, è determinata dalla legge di tale Stato (e cioè dalle norme di diritto internazionale privato di quello Stato). In Italia secondo la legge 31 maggio 1995, n. 218 avrebbe “competenza giurisdizionale” il giudice italiano secondo quanto stabilito nel suo articolo 3 (ambito della giurisdizione) che nell’ul¬tima parte richiama i criteri della competenza territoriale (nello specifico l’art. 18 c.p.c. che, in caso di convenuto residente all’estero, dichiara competente il giudice della residenza dell’attore).
Le norme di diritto internazionale privato troveranno applicazione anche quando ad invocarle sia il cittadino di uno Stato membro che ha la residenza abituale nel territorio di un altro Stato membro, contro un convenuto che non ha la residenza abituale nel territorio di uno Stato membro né ha la cittadinanza di uno Stato membro.
Va precisato che il Regolamento n. 2201/2003 trova applicazione anche in caso di cittadinanza extraeuropea dei coniugi in quanto il criterio di collegamento prescelto dal Regolamento nell’at¬tribuzione della competenza giurisdizionale non è quello della cittadinanza, bensì della “residenza abituale” di uno o di entrambi i coniugi in uno Stato membro (Corte Giustizia Unione Europea, 29 novembre 2007; Trib. Belluno, 5 novembre 2010; Trib. Belluno, 6 marzo 2009).
Per Cass. civ. Sez. Unite, 25 giugno 2010, n. 15328 la nozione di residenza abituale del coniu¬ge, di cui al Regolamento n. 2201/2003 fa riferimento non alla residenza formale o anagrafica ma al luogo del concreto e continuativo svolgimento dalla vita personale ed eventualmente lavorativa; nessuna rilevanza gioca al riguardo il fatto che saltuariamente, e anche per un periodo continuati¬vo, il coniuge abbia trascorso periodi presso la residenza all’estero dell’altro coniuge, ivi ricevendo anche corrispondenza e svolgendo attività di studio.
In caso di doppia cittadinanza il coniuge ha il diritto di presentare una domanda di divorzio dinanzi al giudice di uno o dell’altro dei due Stati membri di cui possiede la cittadinanza (Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 16 luglio 2009, n. 168/08)
IV Il giudice competente in materia di responsabilità genitoriale
a) Il criterio della residenza abituale del minore
Il Regolamento n. 2201/2003, ha avuto il merito di chiarire la nozione “europea” di responsabilità genitoriale. Infatti, dopo aver stabilito, all’art. 1, che l’ambito di applicazione del Regolamento si estende a tutti i procedimenti (di qualsiasi natura – anche non giurisdizionale in senso stretto – e davanti ad ogni autorità indicata come competente dagli Stati membri) relativi “all’attribuzione, all’esercizio, alla delega ed alla revoca totale o parziale della responsabilità genitoriale”, indipen¬dentemente dal fatto che i figli siano nati all’interno o fuori dal matrimonio, nell’art. 2 definisce la responsabilità genitoriale come “i diritti e i doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore”. A tale nozione vengono poi espressamente ricondotti sia il diritto di affida¬mento (diritti e doveri concernenti la cura della persona del minore), sia il diritto di visita (diritto di condurre il minore in luogo diverso dalla sua residenza abituale per un periodo di tempo limitato), mentre titolare della responsabilità genitoriale è considerata “qualsiasi persona che eserciti la re¬sponsabilità di genitore su un minore”.
Con riferimento al problema della competenza giurisdizionale, il Regolamento adotta il criterio della “residenza abituale”, così confermando l’orientamento di fondo, volto a ridurre il più possibile margini di ambiguità e conseguenti conflitti nell’applicazione delle norme. In particolare, per le domande relative alla responsabilità genitoriale è considerata competente l’autorità giurisdizionale dello Stato membro, nel cui territorio il minore risieda abitualmente (art. 8).
La ratio di questa scelta è stata finora continuativamente ribadita in primo luogo nella giurispru¬denza comunitaria (da ultimo, per esempio, in Corte giustizia Unione Europea, Sez. I, 15 febbraio 2017, n. 499/15 che chiarito ancora come il Regolamento sia stato elaborato con l’obiettivo di rispondere all’interesse superiore del minore e, a tal fine, esso privilegia il “criterio di vicinanza”. Il legislatore ha infatti ritenuto che il giudice geograficamente vicino alla residen¬za abituale del minore si trovi nella situazione più favorevole per valutare i provvedimenti da disporre nell’interesse del minore. Per questi motivi la competenza giurisdizionale appartiene quindi, anzitutto, ai giudici dello Stato membro in cui il minore risiede abitualmente, salvo ove si verifichi un cambiamento della sua residenza o in caso di accordo fra i titolari della responsabilità genitoriale. Ed è per questo che l’articolo 8 del regolamento n. 2201/2003 traduce tale obiettivo attribuendo una competenza generale alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui il minore ha la residenza abituale.
Se non c’è mai stata residenza in Italia del minore non vi è competenza del giudice italiano (Trib. Tivoli, 6 aprile 2011).
Il criterio della vicinanza – scelto dal Regolamento per la individuazione del giudice competente ad adottare decisioni in materia di responsabilità genitoriale – è stato precisato in una molteplice sequenza di sentenze.
Che significa residenza abituale del minore?
La risposta della giurisprudenza è molto chiara. Tra le tante ultimamente Cass. civ. Sez. Unite, 10 febbraio 2017, n. 3555 che precisa come per “residenza abituale” deve intendersi il luogo dove il minore trova e riconosce, anche grazie a una permanenza tendenzialmente stabile, il centro dei propri legami affettivi, non solo parentali, originati dallo svolgersi della sua vita di relazione. In altri termini, la residenza abituale corrisponde al luogo che denota una certa integrazione del minore in un ambiente sociale e familiare, e, ai fini del relativo accertamento, rilevano una serie di circostanze che vanno valutate in relazione alla peculiarità del caso concreto: la durata, la re¬golarità e le ragioni del soggiorno nel territorio di uno Stato membro, la cittadinanza del minore, la frequenza scolastica e, in generale, le relazioni familiari e sociali. Per Cass. civ. Sez. Unite, 7 settembre 2016, n. 17676 e Cass. civ. Sez. Unite, 13 febbraio 2012, n. 1984 la residen¬za abituale del minore al momento della domanda va inteso il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale, e non quello risultante da un calcolo puramente aritmetico del vissuto. Secondo Cass. civ. Sez. Unite, 28 maggio 2014, n. 11915 la residenza abituale va individuata sulla base di criteri oggettivi e il trasferimento del minore non è idoneo a radicare la competenza del tribunale di destinazione, nel caso in cui sia trascorso un lasso di tempo minimo non apprezzabile, tenuto conto dell’età del fanciullo.
La nozione di residenza abituale è stata approfondita anche in sede europea. Per esempio per Corte giustizia Unione Europea Sez. I, 22 dicembre 2010, n. 497/10 la nozione deve essere interpretata nel senso che tale residenza corrisponde al luogo che denota una certa integrazione del minore in un ambiente sociale e familiare (A tal fine, e laddove si tratti della situazione di un neonato che soggiorna con la madre solo da pochi giorni in uno Stato membro – diverso da quello della sua residenza abituale – nel quale è stato portato, devono essere presi in considerazione, da un lato, la durata, la regolarità, le condizioni e le ragioni del soggiorno nel territorio di tale Stato membro nonché del trasferimento della madre in detto Stato e, d’altro lato, tenuto conto dell’età del minore, l’origine geografica e familiare della madre nonché i rapporti familiari e sociali che madre e minore intrattengono con quello stesso Stato membro. È compito del giudice nazionale determinare la residenza abituale del minore tenendo conto di tutte le circostanze di fatto specifi¬che di ciascuna fattispecie). Secondo Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 02/04/2009, n. 523/07 la nozione di “residenza abituale”, dev’essere interpretata nel senso che tale residenza corrisponde al luogo che denota una certa integrazione del minore in un ambiente sociale e fami¬liare. A tal fine, si deve in particolare tenere conto della durata, della regolarità, delle condizioni e delle ragioni del soggiorno nel territorio di uno Stato membro e del trasloco della famiglia in tale Stato, della cittadinanza del minore, del luogo e delle condizioni della frequenza scolastica, delle conoscenze linguistiche nonché delle relazioni familiari e sociali del minore nel detto Stato. Com¬pete al giudice nazionale stabilire la residenza abituale del minore, tenendo conto delle peculiari circostanze di fatto che caratterizzano ogni caso di specie.
Ove il minore trasferisca lecitamente la propria residenza abituale in un altro Stato membro, ma il titolare del diritto di visita continui a risiedere abitualmente nello Stato membro della precedente residenza abituale, le autorità giurisdizionali di quest’ultimo Paese continuano ad essere compe¬tenti per un periodo di tre mesi dal trasferimento, nei procedimenti volti a modificare una decisione sul diritto di visita, salvo che detto titolare del diritto di visita abbia accettato la competenza della autorità giurisdizionali del nuovo Stato membro di residenza, “partecipando ai procedimenti dinan¬zi ad esse senza contestarla” (art. 9).
L’individuazione del giudice competente in materia di responsabilità genitoriale è quindi effettuata dall’art. 8 del Regolamento attraverso la previsione della competenza del giudice dello Stato in cui il minore risiede abitualmente alla data in cui viene richiesto il provvedimento.
Qualora non sia possibile stabilire la residenza abituale del minore sono competenti i giudici dello Stato membro in cui si trova il minore (art. 13 del Regolamento).
Fanno eccezione alla regola della competenza del giudice della residenza abituale quattro casi:
Il trasferimento lecito (art. 9)
Il primo caso di deroga al principio della competenza fondata sulla residenza abituale del minore è quello del lecito trasferimento della residenza di un minore da uno Stato membro ad un altro in cui la competenza delle autorità giurisdizionali dello Stato membro della precedente residenza abituale del minore permane per un periodo di 3 mesi dal trasferimento (cosiddetta ultrattività della competenza) limitatamente ai procedimenti per modificare una decisione sul diritto di visita, purché il titolare del diritto di vista continui a risiedere in detto Stato, e salvo che egli abbia accet¬tato la competenza delle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui è andato a risiedere il minore partecipando ai procedimenti dinanzi ad esse senza contestarla.
Il trasferimento illecito (art. 10)
Il secondo caso di deroga è quello del trasferimento illecito o mancato rientro del minore, in cui l’autorità giurisdizionale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale imme¬diatamente prima del trasferimento o del mancato rientro conserva la competenza giurisdizionale fino a che il minore non abbia acquisito la residenza in un altro Stato membro. Questa attribuzione di competenza finisce quando il titolare del diritto di affidamento abbia accettato il trasferimento o quando sia trascorso un anno dal trasferimento stesso senza che siano presentate istanze di rientro.
La proroga della competenza (art. 12)
Il terzo caso di deroga è quello della cosiddetta proroga della competenza (cioè della competenza per attrazione) in cui il giudice si occupa della separazione o del divorzio dei coniugi che hanno figli e in cui conseguentemente (per forza attrattiva) il Regolamento gli attribuisce la competenza ad occuparsi anche della responsabilità genitoriale. Quindi al giudice della separazione e del divorzio è attribuita per attrazione anche la competenza ad emettere decisioni sui figli (se almeno uno eserciti effettivamente la responsabilità genitoriale) sempre che il genitore convenuto ritenga di accettare tale competenza e questa sia ritenuta conforme all’interesse del minore. È quindi una ipotesi di attrazione sostanzialmente per accordo delle parti. Queste precisazioni sono contenute nell’art. 12 del Regolamento e sono state ribadite da Cass. civ. Sez. Unite, 7 settembre 2016, n. 17676 in una vicenda in cui la moglie inglese non aveva accettato la competenza giurisdizionale del giudice italiano in ordine alla responsabilità genitoriale in una causa di separazione intentata in Italia dal marito e in cui è stato ribadito il principio che la giurisdizione del giudice italiano va negata rispet¬to alle domande inerenti l’affidamento ed il mantenimento del figlio delle parti [stante la mancata accettazione dell’appellante e il superiore interesse del minore], in quanto devolute in via esclusiva alla competenza del giudice, ove il minore è stabilmente residente. Con la sentenza in questione, le Sezioni Unite della Cassazione non hanno, quindi, negato rilevanza (come dalla lettura della sola massima si potrebbe dedurre) alla connessione fra domande relative alla separazione di coniugi e all’affidamento e mantenimento dei figli minori. Si legge, infatti, nella sentenza che, “alla luce delle chiare prescrizioni contenute negli artt. 3, 8 e 12, del Regolamento, deve ritenersi che sulle domande diverse da quella di separazione giudiziale contenute nel ricorso vi fosse la giurisdizione del giudice inglese, in quanto la proroga per quella di separazione personale non poteva estendersi a quelle rela¬tive all’affidamento del figlio ed al suo mantenimento stante la mancata accettazione dell’appellante e il superiore interesse del minore”. Effettivamente nella vicenda la madre non aveva accettato la giurisdizione del giudice italiano su tutte le domande proposte dal marito. Il che vuol dire che ove vi fosse stata accettazione della competenza giurisdizionale e questa fosse stata valutata conforme all’interesse del minore i giudici avrebbero ritenuto la competenza giurisdizionale del giudice italiano.
L’accettazione della competenza giurisdizionale espressa in una causa di separazione non può va¬lere ai fini della attrazione della competenza al giudice dello Stato non di residenza del minore nel successivo giudizio di modifica delle condizioni affidamento (Cass. civ. Sez. Unite, 5 giugno 2017, n. 13912 sia perché quest’ultimo è un nuovo giudizio, sia perché il criterio di attribuzione della giurisdizione fondato sulla residenza abituale, dettato nell’interesse superiore del minore as¬sume una pregnanza tale da comportare l’esclusione della validità del pregresso consenso del geni¬tore alla proroga della giurisdizione. In questo caso torna a valere il criterio della residenza abituale.
Conforme al principio che l’attrazione della competenza al giudice della separazione si fonda sull’in¬teresse del minore è anche la decisione di Corte giustizia Unione Europea, Sez. I, 15 febbraio 2017, n. 499/15 secondo cui i giudici dello Stato membro che hanno adottato una decisione passata in giudicato in materia di responsabilità genitoriale e di obbligazioni alimentari riguardanti un figlio minore non sono più competenti a pronunciarsi su una domanda di modifica dei provvedi¬menti adottati con tale decisione, qualora in quel momento la residenza abituale del minore si trovi nel territorio di un altro Stato membro. La competenza a pronunciarsi su tale domanda spetta ai giudici di quest’ultimo Stato membro.
La proroga della competenza per accordo degli interessati (art. 12, paragrafo 3)
L’ultimo caso di deroga al principio della competenza fondata sulla residenza abitale del minore è la proroga – cioè l’attrazione ad altra causa – che si può verificare in relazione a “procedimenti diversi” da quelli di separazione, divorzio e annullamento del matrimonio. Lo afferma il paragrafo 3 dell’art. 12 il quale prescrive che le autorità giurisdizionali di uno Stato membro sono competenti in materia di responsabilità dei genitori in “procedimenti diversi” da quelli di separazione, divorzio e annullamento se a) il minore ha un legame sostanziale con quello Stato membro, in particolare perché uno dei titolari della responsabilità genitoriale vi risiede abitualmente o perché è egli stesso cittadino di quello Stato e b) la loro competenza è stata accettata espressamente o in qualsiasi altro modo univoco da tutte le parti al procedimento alla data in cui le autorità giurisdizionali sono adite ed è conforme all’interesse superiore del minore. L’interpretazione che di questo paragrafo ha dato Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 12 novembre 2014, n. 656/13 è nel senso che, nell’impossibilità evidentemente di indicare quali possano essere questi “procedimenti diversi” l’articolo 12, paragrafo 3, del regolamento deve essere interpretato nel senso che esso consente, ai fini di un procedimento in materia di responsabilità genitoriale, di fondare la competenza di un giudice di uno Stato membro diverso dallo Stato di residenza abituale del minore pur se dinanzi al giudice prescelto non è pendente alcun altro procedimento.
Il consenso di genitori alla proroga deve essere espresso e non può consistere nella mancata con-testazione della competenza (Cass. civ. Sez. Unite, 30 dicembre 2011, n. 30646)
Naturalmente la competenza a favore di un giudice di uno Stato membro investito del procedi¬mento dai titolari della responsabilità genitoriale, viene meno con la pronuncia di una decisione definitiva nel contesto di tale procedimento (Corte giustizia Unione Europea Sez. II, 1 ottobre 2014, n. 436/13)
b) Il trasferimento della competenza ad altro giudice
L’art. 15 del regolamento – intitolato “Trasferimento delle competenze a una autorità giurisdiziona¬le più adatta a trattare il caso” consente in via eccezionale all’autorità giurisdizionale di uno Stato membro competente a conoscere del merito, di interrompere la trattazione di un procedimento e di invitare le parti a presentare domanda all’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro (in tal caso l’autorità giurisdizionale fissa un termine entro il quale le autorità giurisdizionali dell’altro Stato membro devono essere adite; decorso inutilmente tale termine, la competenza continua ad essere esercitata dall’autorità giurisdizionale preventivamente adita) oppure di chiedere di¬rettamente all’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro di assumere la competenza sul procedimento, qualora ritenga che l’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore abbia un legame particolare (per esempio la precedente residenza abituale o la residenza dei genitori o dello Stato di cui è cittadino), sia più adatta a trattare il caso o una sua parte speci¬fica e ove ciò corrisponda all’interesse superiore del minore.
Il trasferimento della causa può anche essere effettuato su iniziativa su richiesta dell’autorità giu-risdizionale di un altro Stato membro ma soltanto se esso è accettato da almeno una delle parti in causa.
Secondo Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 27 ottobre 2016, n. 428/15 poiché le nozioni di autorità giurisdizionale “più adatta” e di “interesse superiore del minore” non sono defi¬nite da alcun’altra disposizione del Regolamento, occorre interpretarle tenendo conto del contesto nel quale si collocano e degli obiettivi perseguiti dal Regolamento. Nel contesto del Regolamento n. 2201/2003, la considerazione dell’interesse superiore del minore è volta a garantire il rispetto dei diritti fondamentali del bambino, come si evince dal considerando 33 di tale regolamento. Per poter stabilire che un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore ha un legame particolare è più adatta, il giudice competente di uno Stato membro deve accertarsi che il trasferimento del caso a detta autorità giurisdizionale sia idoneo ad apportare un valore aggiunto reale e concreto al trattamento dello stesso, in particolare tenendo conto delle norme di procedura applicabili in detto altro Stato membro; ed inoltre che tale trasferimento non rischi di ripercuotersi negativamente sulla situazione del minore.
La ratio del trasferimento di competenza è stata rinvenuta nel solo interesse del minore (Trib. Vercelli, 18 dicembre 2014; Trib. Milano, 11 febbraio 2014).
Secondo Cass. civ. Sez. Unite, 7 settembre 2016, n. 17676 la regola del trasferimento a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro sancita all’articolo 15, costituisce una regola di competenza speciale e derogatoria rispetto a quella di competenza generale enunciata all’articolo 8, cosicché essa deve essere interpretata restrittivamente.
V Competenza o giurisdizione? Questioni processuali
Si parla nel Regolamento non di giurisdizione ma di competenza (vista nell’ambito dei rapporti tra Stati dell’Unione europea, esattamente come all’interno di uno Stato si parla di competenza fun¬zionale e territoriale). E così, come si è visto, si indica quale sia il giudice “competente” a trattare una separazione (per esempio quello del foro della residenza comune) o il giudice “competente” ad emettere un provvedimento sulla responsabilità genitoriale (il giudice della residenza abitua¬le del minore). Le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea parlano tutte di giudice “competente”.
Nelle decisioni, invece, interne al nostro Stato la giurisprudenza parla di giurisdizione (e spesso sa-lomonicamente di “competenza giurisdizionale”), essendo orientata a ritenere le questioni relative alla competenza del giudice italiano o di quello straniero come questioni di giurisdizione. Il che è comprensibile. Noi ci chiediamo se il giudice italiano può occuparsi di questa o quella vicenda; se ha cioè giurisdizione. Noi consideriamo i Regolamenti europei come trattati tra Stati – nell’ottica, quindi, più del diritto internazionale che di quello sovranazionale – e facciamo applicazione quindi dello stesso lessico giuridico utilizzato dalla legge 31 maggio 1995, n. 218 che delinea certamente l’ambito della giurisdizione italiana rispetto a quella di altri Stati (art. 1 della legge 218/95).
Una decisione in passato sembrava avesse dato le coordinate giuste per impostare questo problema. Si tratta di Cass. civ. Sez. Unite, 29 gennaio 2001, n. 37 che, nell’esaminare l’eccezione secondo la quale l’accertamento della litispendenza internazionale non darebbe luogo ad una questione di giu¬risdizione e non consentirebbe perciò la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione (ex art. 41 c.p.c.), affermava che la Corte ha sempre sostenuto che il giudice italiano, prima di pronun¬ciare sulla propria giurisdizione in presenza di domande proposte dinanzi al giudice di un altro Stato contraente, deve innanzi tutto accertare se sussista l’eccepita litispendenza, tenendo conto della più ampia accezione di tale nozione come elaborata dalla Corte di Giustizia europea e, in caso afferma¬tivo, dopo aver riscontrato che il giudice preventivamente adito è quello dell’altro Stato contraente, deve sospendere il procedimento in attesa che la competenza dell’altro giudice sia stata accertata con sentenza definitiva. Ne consegue che la litispendenza internazionale, prima dell’accertamento definitivo della competenza del giudice preventivamente adito, dà luogo solo ad un’ipotesi di sospen¬sione necessaria del processo e non pone alcun problema di giurisdizione, sicché è inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione proposto nel corso del giudizio instaurato dinanzi al giudice italiano, salvo restando il rimedio del regolamento necessario di competenza avverso il provvedimen¬to con il quale il giudice italiano abbia dichiarato la sospensione necessaria del processo.
Secondo questa impostazione quindi le questioni di litispendenza previste nei Regolamenti europei (relative cioè alla contemporanea pendenza della causa davanti al giudice italiano e al giudice di altro Stato) non sarebbero questioni di giurisdizione ma di competenza e potrebbero perciò dare luogo soltanto alla sospensione o meno della causa successivamente instaurata.
Ora la nostra giurisprudenza certamente ammette che di fronte al provvedimento di sospensione disposto dal giudice italiano (adito successivamente a quello dello Stato estero) – ma non di quello che nega la sospensione – sia esperibile (soltanto) il regolamento necessario di competenza ex art. 42 c.p.c. 1, così come ammette pacificamente che la questione della competenza possa essere oggetto ovviamente anche di impugnazione e che avverso la decisione della Corte d’appello sia ammissibile il ricorso per cassazione ordinario per violazione di legge regolativa della competenza. Tuttavia la nostra giurisprudenza nell’ambito delle materie oggetto dei Regolamenti europei non solo ammette naturalmente il ricorso per cassazione per ragioni di giurisdizione (art. 362, primo comma, c.p.c.) ma anche il regolamento preventivo di giurisdizione (art. 41 c.p.c.) sul presup¬posto che il rinvio fatto dall’art. 412 all’art. 373 (in cui con la legge 18 giugno 2009 n. 69 è stato cancellato il secondo comma che prevedeva il regolamento di giurisdizione per difetto di giurisdi¬zione del giudice italiano nei confronti dello straniero) non abbia fatto venir meno la possibilità di esperire il regolamento di giurisdizione nel corso del giudizio di primo grado per questioni relative alla sussistenza o meno della giurisdizione italiana nei confronti di soggetti stranieri (Cass. civ. Sez. Unite, 1 febbraio 1999, n. 6; Cass. civ. Sez. Unite, 21 maggio 2004, n. 9802).
Ciò è avvenuto anche con riguardo al Regolamento n. 2201/2003 dove le Sezioni Unite sono state chiamate in causa da un regolamento preventivo di giurisdizione (per esempio da ultimo Cass. civ. Sez. Unite, 18 marzo 2016, n. 5420; Cass. civ. Sez. Unite, 5 giugno 2017, n. 13912) o in seguito a ricorsi ordinari avverso decisioni di Corte d’appello per questioni attinenti alla giuri¬sdizione (per esempio da ultimo Cass. civ. Sez. Unite, 10 febbraio 2017, n. 3555; Cass. civ. Sez. Unite, 7 settembre 2016, n. 17676).
Concludendo si può dire che le questioni concernenti la distribuzione di competenza tra giudici dell’Unione europea si atteggiano come questioni di competenza viste nel contesto europeo, men¬tre sono considerate questioni di giurisdizione viste dall’angolo visuale dell’ordinamento italiano rendendo esperibili sia i rimedi del ricorso per cassazione ordinario per motivi attinenti alla giuri¬sdizione (di competenza delle Sezioni unite ex art. 374 primo comma c.p.c che rinvia all’art. 362 primo comma), sia il rimedio del regolamento preventivo di giurisdizione ex art. 41 c.p.c di compe¬tenza delle Sezioni Unite), ma anche il regolamento necessario di competenza avverso l’ordinanza di sospensione del processo (art. 42) per motivi attinenti alla litispendenza internazionale, nonché il ricorso per cassazione ordinaria per tutti i motivi di cui all’art. 360 e quindi anche per violazione di legge in relazione alla distribuzione della competenza giurisdizionale stabilita dai Regolamenti..
VI L’esame della competenza, la connessione e la litispendenza
a) La dichiarazione di incompetenza
Secondo quanto dispongono l’art. 17 e 18 del Regolamento l’autorità giurisdizionale di uno Stato membro, investita di una controversia per la quale il Regolamento non prevede la sua competenza e per la quale è, invece, competente l’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro, deve di¬chiarare d’ufficio la propria incompetenza.
Se la persona che ha la residenza abituale in uno Stato diverso dallo Stato membro in cui l’azione è stata proposta non compare, l’autorità giurisdizionale competente è tenuta a sospendere il proce¬dimento fin quando non si sarà accertato che al convenuto è stata data la possibilità di ricevere la domanda giudiziale o un atto equivalente in tempo utile perché questi possa presentare le proprie difese, ovvero che è stato fatto tutto il possibile a tal fine.
b) La sospensione del processo per litispendenza
L’art. 19 si occupa della questione cruciale relativa al caso in cui in due Stati differenti siano pen¬denti due procedimenti tra le stesse parti.
Si prevede che qualora dinanzi ad autorità giurisdizionali di Stati membri diverse e tra le stesse parti siano state proposte domande di divorzio, separazione personale dei coniugi e annullamento del matrimonio, l’autorità giurisdizionale successivamente adita sospende d’ufficio il procedimento finché non sia stata accertata la competenza dall’autorità giurisdizionale preventivamente adita.
Si deve considerare che la disciplina della litispendenza e della connessione contenuta nei primi due paragrafi dell’art. 11 del precedente Regolamento n 1347 del 2000 4 prevedeva la litispenden¬

1 Art. 42 c.p.c. (Regolamento necessario di competenza)
L’ordinanza che, pronunciando sulla competenza anche ai sensi degli articoli 39 e 40 non decide il merito della causa e i provvedimenti che dichiarano la sospensione del processo ai sensi dell’art. 295 possono essere impu¬gnati soltanto con istanza di regolamento di competenza.
2 Art. 41 c.p.c. (Regolamento di giurisdizione)
1. Finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte può chiedere alle Sezioni Unite della Corte di cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione di cui all’art. 37. L’istanza si propone con ricorso a norma degli articoli 364 e seguenti e produce gli effetti di cui all’art. 367.
Art. 37 c.p.c. (Difetto di giurisdizione)
Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo.
Articolo 11, paragrafi 1 e 2, del Regolamento 29 maggio 2000, n. 1347
Qualora dinanzi a giudici di Stati membri diversi e tra le stesse parti siano state proposte domande aventi il medesimo oggetto ed il medesimo titolo, il giudice successivamente adito sospende d’ufficio il procedimento finché non sia stata accertata la competenza del giudice preventivamente adito.

za (e quindi la sospensione del giudizio successivamente instaurato) solo tra cause tra le stesse parti ma aventi lo stesso oggetto e lo stesso titolo (cioè litispendenza tra due cause di separazio¬ne, ovvero tra due cause di divorzio). Viceversa oggi (avendo il testo dell’art. 19 eliminato l’inciso “aventi il medesimo oggetto e il medesimo titolo”) la sospensione del procedimento successiva¬mente instaurato avviene anche se vi è pendenza tra una causa di separazione ed una di divorzio.
Si tratta, come è stato detto, di una nozione di litispendenza “sostanzialistica” (App. Catania, 21 luglio 2011) perché fa riferimento non al dato formale del petitum e della causa petendi (diversi tra quei procedimenti) ma al fatto che si tratti di procedimenti in sostanza concernenti il matri¬monio.
Correttamente lo ha fatto notare anche Tribunale di Milano, Sez. IX, 24 febbraio 2017) precisando che ai fini dell’applicazione dell’art. 19 del Regolamento n. 2201/2003, in tema di liti¬spendenza internazionale in materia matrimoniale, non è necessario che vi sia l’identità di titolo e oggetto tra le domande proposte dinanzi a giudici di Stati membri diversi: infatti le due cause pos¬sono avere oggetto distinto, purché vertano comunque sulla separazione personale, sul divorzio o sull’annullamento del matrimonio. Sussiste perciò – ha concluso il tribunale – una situazione di litispendenza internazionale nel caso siano proposte dinanzi ad autorità giurisdizionali di due Stati dell’Unione Europea una domanda di divorzio e una di separazione personale.
c) La sospensione del processo per connessione
qualora dinanzi a autorità giurisdizionali di Stati membri diversi siano state proposte domande sul¬la responsabilità genitoriale su uno stesso minore, aventi il medesimo oggetto e il medesimo titolo, l’autorità giurisdizionale successivamente adita sospende d’ufficio il procedimento finché non sia stata accertata la competenza dell’autorità giurisdizionale preventivamente adita.
Quando la competenza dell’autorità giurisdizionale preventivamente adita è stata accertata, l’au¬torità giurisdizionale successivamente adita dichiara la propria incompetenza a favore dell’autorità giurisdizionale preventivamente adita.
In tal caso la parte che ha proposto la domanda davanti all’autorità giurisdizionale successivamen¬te adita può promuovere l’azione dinanzi all’autorità giurisdizionale preventivamente adita.
Deve precisarsi che in base a quanto dispone espressamente l’art. 16 del Regolamento l’autorità giurisdizionale si considera adita alla data in cui la domanda giudiziale o un atto equivalente (per esempio un ricorso) è depositato, “purché successivamente l’attore non abbia omesso di prendere tutte le misure cui era tenuto affinché fosse effettuata la notificazione al convenuto” oppure, se l’atto deve essere notificato prima di essere depositato presso l’autorità giurisdizionale, alla data in cui l’autorità competente ai fini della notificazione lo riceve, “purché successivamente l’attore non abbia omesso di prendere tutte le misure cui era tenuto affinché l’atto fosse depositato pres¬so l’autorità giurisdizionale”. Quindi il deposito o la notifica non sono sufficienti occorrendo che il procedimento venga coltivato per l’instaurazione del contraddittorio.
d) L’adozione di provvedimenti di urgenza
L’art. 20 del Regolamento consente in casi d’urgenza alle autorità giurisdizionali di uno Stato mem¬bro di adottare i provvedimenti provvisori o cautelari previsti dalla legge interna, relativamente alle persone presenti in quello Stato o ai beni in esso situati, anche se, a norma Regolamento, sarebbe competente a conoscere nel merito l’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro.
I provvedimenti adottati cessano di essere applicabili quando l’autorità giurisdizionale dello Stato membro competente abbia adottato i provvedimenti ritenuti appropriati (Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre2009, n. 22093).
È, dunque, possibile, in caso di urgenza, un intervento del giudice per regolare il diritto di visita di un minore figlio di genitori non italiani, ma residente in territorio italiano (Trib. Varese, 4 ottobre 2010).
Stando a quanto precisato da Corte giustizia Unione Europea Sez. II, 15 luglio 2010, n. 256/09 e Corte giustizia Unione Europea, 23 dicembre 2009, n. 403/09 il sistema di ri¬conoscimento e di esecuzione delle decisioni predisposto dagli articoli 21 e seguenti del Regola¬mento – di cui si dirà più oltre – non si applica a provvedimenti provvisori, in materia di diritto di affidamento, rientranti nell’art. 20 di detto regolamento. Perché, però, tali provvedimenti siano validi deve esserci il rispetto delle condizioni stabilite dall’art. 20 del Regolamento, vale a dire: 1) i provvedimenti considerati devono essere urgenti; 2) essi devono essere disposti nei confronti di persone situate o di beni presenti nello Stato membro di tali autorità giurisdizionali, e 3) devono avere natura provvisoria.
Mentre secondo Trib. Minorenni Milano, 5 febbraio 2010 l’art. 20 del Regolamento consen¬tirebbe al giudice di uno Stato membro di adottare un provvedimento provvisorio e urgente in materia di responsabilità genitoriale inteso per esempio a concedere a un genitore l’affidamento di un minore che si trova nel territorio di tale Stato, anche nel caso in cui il giudice di un altro Stato membro abbia già emesso una decisione che affida provvisoriamente il minore all’altro genitore e
2. Qualora dinanzi a giudici di Stati membri diversi e tra le stesse parti siano state proposte domande relative al divorzio, alla separazione personale o all’annullamento del matrimonio non aventi il medesimo oggetto e il me¬desimo titolo, il giudice successivamente adito sospende d’ufficio il procedimento finché non sia stata accertata la competenza del giudice preventivamente adito.

tale decisione sia stata dichiarata esecutiva nel territorio del primo Stato membro, secondo Corte giustizia Unione Europea, 23 dicembre 2009, n. 403/09 nel caso in cui un giudice di uno Sta¬to membro abbia già emesso una decisione che affida provvisoriamente un minore a uno dei suoi genitori, dichiarata esecutiva nel territorio di un altro Stato membro, non è consentito a un giudice di questo secondo Stato adottare un provvedimento provvisorio inteso a concedere l’affidamento del minore che si trova nel territorio di tale Stato all’altro genitore.
VII Il trasferimento illecito del minore
a) L’articolo 11 del Regolamento
La norma di contrasto all’illecito trasferimento di un minore dalla sua residenza abituale è l’articolo 11 del Regolamento, intitolata “ritorno del minore”.
Come si sa il trasferimento illecito dei minori è disciplinato dalla Convenzione dell’Aja del 25 otto¬bre 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori. Ebbene l’art. 11 del Regola¬mento richiama per i rapporti tra Stati europei questa Convenzione (in vigore per gli Stati firmatari – tra cui l’Italia – anche, naturalmente, nei rapporti con Stati extraeuropei).
Per la legge italiana, la sottrazione e il trattenimento di un minore all’estero costituiscono un delitto punito con la reclusione da uno a quattro anni (articolo 574 bis codice penale).
L’art. 11 del Regolamento prevede quindi l’applicazione delle procedure indicate nella Convenzione dell’Aja – quindi le medesime, di cui si dirà più oltre, cui fa riferimento la legge 15 gennaio 1994 n. 64 di ratifica della Convenzione dell’Aja – quando una persona o un ente titolare del diritto di affidamento (si pensi al servizio sociale affidatario di un minore) adisce le autorità competenti di uno Stato membro affinché emanino un provvedimento di rientro di un minore che è stato illecita¬mente trasferito o trattenuto in uno Stato membro diverso dallo Stato membro nel quale aveva la residenza abituale immediatamente prima dell’illecito trasferimento o mancato ritorno.
Secondo Corte giustizia Unione Europea, 5 ottobre 2010, n. 400/10 l’illiceità del trasferi¬mento di un minore dipende esclusivamente dall’esistenza di un diritto di affidamento, conferito dal diritto nazionale applicabile, in violazione del quale tale trasferimento ha avuto luogo.
Il trasferimento o il mancato rientro sono illeciti pur in presenza dell’esercizio congiunto dell’affi¬damento da parte di entrambi i genitori, se contrasta con la situazione di fatto – concordemente e convenzionalmente accettata dai genitori – sulla base della presunzione secondo la quale l’interes¬se del minore coincide con quello di non essere allontanato o di essere immediatamente ricondotto nel luogo in cui si svolge la sua abituale vita quotidiana. (Cass. civ. Sez. I, 23 gennaio 2013, n. 1527; Cass. civ. Sez. I, 19 maggio 2010, n. 12293). La condizione è sempre però che il diritto di affidamento sia “effettivamente esercitato” secondo quanto prescrive la Convenzione dell’Aja del 1980, come detto, richiamata dall’art. 11 del Regolamento (Cass. civ. Sez. I, 4 luglio 2012, n. 11156).
Il trasferimento all’estero o il mancato rientro in Italia di minori figli di genitori separati non è qualificabile come illecita sottrazione all’altro genitore, allorché l’allontanamento avvenga ad opera dell’affidatario (Cass. civ. Sez. Unite, 21 ottobre 2009, n. 22238)
Come ha fatto notare Cass. civ. Sez. Unite, 2 agosto 2011, n. 16864 le disposizioni che pre¬vedono, in caso di trasferimento illecito o di mancato rientro, la competenza dello Stato in cui il minore si trova, sono dettate dall’esigenza di far fronte a situazioni eccezionali.
Nell’applicare la Convenzione dell’Aja, si deve garantire che il minore possa essere ascoltato du¬rante il procedimento, se ciò non appaia inopportuno in ragione della sua età o del suo grado di maturità.
L’autorità giurisdizionale alla quale è stata presentata la domanda per il ritorno del minore procede alla rapida trattazione della domanda, utilizzando le procedure più rapide previste nella legisla¬zione nazionale e deve emanare il provvedimento entro sei settimane da quando ha ricevuto la domanda. A chi ha chiesto il provvedimento deve essere data la possibilità di essere ascoltato.
Il provvedimento che rigetta la richiesta di rientro è trasmesso direttamente o tramite l’autorità centrale all’autorità giurisdizionale competente o all’autorità centrale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima dell’illecito trasferimento o mancato ritorno e tale autorità deve informarne le parti e invitarle a presentare le proprie conclu¬sioni, conformemente alla legislazione nazionale, entro tre mesi dalla data della notifica, affinché quest’ultima esamini la questione dell’affidamento del minore. In caso di mancato ricevimento delle conclusioni entro il termine stabilito, l’autorità giurisdizionale archivia il procedimento. Que¬sta specifica situazione (l’obbligo, cioè, di portare all’esame del giudice della residenza abituale la questione dell’affidamento, entro tre mesi dal rigetto della domanda di rientro da parte del giudice dello Stato in cui il minore è stato portato) è un elemento differenziale del procedimento previsto dal Regolamento rispetto a quanto previsto nella Convenzione dell’Aja del 1980 (lo fa notare Cass. civ. Sez. I, 12 maggio 2015, n. 9632 di cui abbiamo rettificato, però la massima imprecisa).
In tema di giurisdizione, il regolamento CE 27 novembre 2003, n. 2201/2003 non deroga alla Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 – in base alla quale la decisione sull’istanza di rientro nel luogo di residenza del minore illecitamente trasferito spetta all’autorità competente del Paese in cui si trova – ma conserva, per un periodo di tempo limitato, la competenza giurisdizionale allo Stato membro in cui il minore aveva la residenza abituale prima del trasferimento, a condizione che sia tempestivamente presentata e successivamente accolta un’istanza di rientro.
Si tratta, quindi, di una procedura di riesame per il caso in cui il giudice competente dello Stato in cui il minore è stato trasferito abbia negato l’ordine di ritorno per uno dei motivi previsti dall’ar¬ticolo 13 della Convenzione dell’Aja del 1980 (se cioè abbia ritenuto che il soggetto vittima della sottrazione aveva dato il proprio consenso al trasferimento o vi aveva prestato acquiescenza; se vi è fondato rischio che il minore sia esposto, in caso di ritorno, a pericoli fisici e psichici, o che venga a trovarsi in una situazione intollerabile; se il minore si oppone al ritorno e ha un’età e un grado di maturità tali da rendere importante il suo parere). Quando il diniego dell’ordine di ritorno è fondato su uno di questi motivi, il tribunale estero che ha emesso la decisione trasmette, perciò, copia del provvedimento e della documentazione, in particolare della trascrizione delle audizioni, all’autorità giudiziaria italiana (di solito tramite autorità centrali). L’autorità giudiziaria italiana, come si è sopra detto, informa le parti e le invita a presentare entro tre mesi le proprie conclusioni sulla questione dell’affidamento (articolo 11 del Regolamento n. 2201/2003). Se nessuna delle parti si attiva, il procedimento viene archiviato e il minore non farà ritorno, conformemente alla decisione straniera. Se invece almeno una delle parti presenta delle richieste, l’autorità giudiziaria italiana può riesa¬minare la decisione sul ritorno già adottata dal giudice dello Stato estero, pronunciandosi anche sull’affidamento.
Con questo meccanismo, l’autorità giudiziaria della residenza abituale del minore al momento della sottrazione, che ha la competenza sulla questione dell’affidamento, ha l’ultima parola anche sulla questione del ritorno e la sua decisione prevale sulla decisione emessa nello Stato estero.
Contro questo provvedimento di riesame può essere proposto solo ricorso per cassazione (Cass. civ. Sez. I, 21 marzo 2011, n. 6319; Cass. civ. Sez. I, 14 luglio 2010, n. 16549)
b) La Convenzione dell’Aja del 1980 sulla sottrazione internazionale di minori
Si parla di sottrazione internazionale quando un minore avente la residenza abituale in un determi¬nato Stato è condotto in un altro Stato senza il consenso del soggetto che esercita la responsabilità genitoriale, che, come si è visto, comprende il diritto di determinare il luogo di residenza abituale del minore. Alla sottrazione è equiparato il trattenimento del minore in uno Stato diverso da quello di residenza abituale, senza il consenso del genitore o di altro soggetto titolare dell’affidamento. La cittadinanza del minore e dei genitori è irrilevante contando soltanto la residenza abituale del minore al momento della sottrazione.
La Convenzione dell’Aja del 1980, insieme ad altre convenzioni internazionali sulla protezione dei minori, è stata ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 15 gennaio 1994 n. 64 e si applica nelle relazioni tra gli Stati che l’hanno firmata o vi hanno aderito ed inoltre nei rapporti tra Stati dell’Unione europea per il rinvio che ne fa – come si è detto – il Regolamento europeo n. 2201 del 2003.
Le procedure previste dalla Convenzione dell’Aja si applicano se il minore sottratto ha meno di sedici anni di età (al compimento del sedicesimo anno, la procedura si interrompe, anche se è già in fase giudiziaria) e sempre che la persona che richiede il ritorno è il titolare della re¬sponsabilità genitoriale sul minore e al momento della sottrazione esercitava effettivamente le corrispondenti funzioni.
Per i minori che hanno la residenza abituale in Italia, entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale e di comune accordo stabiliscono la residenza abituale del minore (articolo 316 codice civile). Questa è la regola generale anche dopo la fine della convivenza (articolo 337 ter del codice civile), ma il provvedimento giudiziario che dispone in tema di affidamento dei figli può decide¬re diversamente. In alcuni casi, il servizio sociale affidatario in base a una decisione del giudice competente può essere il soggetto legittimato a presentare la richiesta di ritorno. L’esercente la responsabilità genitoriale può essere il tutore del minore.
Le norme della Convenzione e le procedure in essa previste si applicano quando la sottrazione si è già verificata. La Convenzione non stabilisce entro quanto tempo dopo che si è verificata la sottra¬zione debba essere avviata la procedura per chiedere il ritorno del minore nello Stato di residenza abituale. Il decorso del tempo non è però irrilevante. Infatti, se la domanda per il ritorno è propo¬sta all’autorità giudiziaria entro un anno dalla sottrazione, il giudice è tenuto a ordinare il ritorno del minore. Se invece la domanda è presentata quando è passato più di un anno dalla sottrazione del minore, il giudice dello Stato di attuale collocazione può non ordinare il ritorno, se accerta che il minore si è nel frattempo integrato nel nuovo ambiente.
La procedura è normalmente promossa dall’autorità centrale dello Stato in cui il minore aveva la residenza abituale prima della sottrazione, su richiesta della persona che lamenta la sottrazione (per l’Italia l’autorità centrale è istituita presso il Dipartimento per la giustizia minorile del Mini¬stero della giustizia). Tutti gli Stati aderenti alla Convenzione dell’Aja del 1980 devono nominare le rispettive autorità centrali che hanno il compito di cooperare reciprocamente al fine proprio di assicurare l’immediato ritorno dei minori sottratti illecitamente. Tuttavia la persona che lamenta la sottrazione può anche decidere di rivolgersi direttamente e autonomamente alle autorità̀ giudizia¬rie dello Stato in cui il minore è stato portato e trattenuto.
Le autorità centrali devono, direttamente o tramite altri organi del loro Stato, mettere in atto tutto il possibile per localizzare il minore sottratto, per assicurare la consegna volontaria del minore o agevolare la composizione amichevole della controversia, devono scambiarsi le informazioni rela¬tive alla situazione del minore, forniscono informazioni generali sulla legislazione del proprio Stato in relazione all’applicazione della Convenzione; avviano e agevolano l’instaurazione della procedura per ottenere il ritorno del minore sottratto concedendo o agevolando anche l’assistenza legale.
Naturalmente le autorità centrali non possono emettere l’ordine di ritorno, che compete all’autorità giudiziaria dello Stato in cui il minore è stato portato e non possono in alcun modo interferire sui tempi della procedura giudiziaria e tanto meno con il merito della decisione.
Per emettere l’ordine di ritorno il giudice dello Stato di collocazione attuale verifica se il minore sot¬tratto ha meno di 16 anni, se prima della sottrazione o del mancato rientro aveva effettivamente la residenza abituale nello Stato in cui si chiede il ritorno, se il soggetto che presenta la domanda di ritorno è titolare della responsabilità genitoriale – comprendente il diritto di decidere il luogo di residenza abituale del minore – e se effettivamente tale soggetto la esercitava al momento della sottrazione, se la sottrazione è stata fatta senza il consenso del soggetto titolare della responsa¬bilità genitoriale, se la sottrazione è avvenuta da meno di un anno o, se è avvenuta da oltre un anno, se il minore si è integrato nel suo nuovo ambiente.
Anche se sussistono queste condizioni il giudice non emette l’ordine di ritorno se risulta che, prima o dopo la sottrazione, il richiedente ha acconsentito al trasferimento, se accerta che sussiste un fondato rischio che il minore, ritornando nello Stato di residenza abituale, sia esposto a pericoli fisici e psichici, o comunque possa trovarsi in una situazione intollerabile (per esempio una situa¬zione di maltrattamenti), se il minore si oppone al ritorno e, per la sua età e maturità, occorre tener conto del suo parere.
Scopo dell’ordine di ritorno è ristabilire la situazione di fatto che esisteva prima della sottrazione. Il provvedimento non interferisce con il regime giuridico dell’affidamento del minore preesistente alla sottrazione e, quindi, non comporta l’affidamento del minore al genitore che ha subito la sot¬trazione. La pronuncia di provvedimenti relativi all’affidamento resta di competenza del giudice dello Stato della residenza abituale del minore. Per questi motivi, spesso il genitore che ha subito la sottrazione non si limita ad attivare la procedura per il ritorno ma richiede anche la separazione o il divorzio o la modifica delle condizioni della separazione o del divorzio, oppure per l’affidamento del figlio nato fuori dal matrimonio.
Le procedure sul rimpatrio hanno carattere d’urgenza e non potrebbero durare più di sei settimane (riferibili al primo grado).
Nel caso in cui un minore sia sottratto dallo Stato estero di residenza abituale e portato in Italia, la Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 viene applicata in Italia secondo la procedura stabilita dalla legge di ratifica del 15 gennaio 1994 n. 64, specificamente dall’art. 7 della legge5.
Secondo quando previsto in questa disposizione l’autorità centrale italiana trasmette l’istanza di ritorno e la documentazione alla procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni competente in base al luogo in cui si trova il minore. La procura della Repubblica presenta al tri¬bunale per i minorenni un ricorso e il tribunale fissa l’udienza per la trattazione della domanda di ritorno. Il soggetto che ha subito la sottrazione viene informato tramite le autorità centrali della data dell’udienza, cui ha diritto di partecipare. Può essere sentito dal giudice, eventualmente mediante un interprete. Non è necessaria, ma possibile, la nomina di un legale che lo assista e lo rappresenti nel giudizio (Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17201). Nel corso del procedi¬mento deve essere ascoltato il minore, se ciò̀ non è inopportuno in ragione della sua età o del suo grado di maturità. L’ascolto avviene secondo le previsioni dell’articolo 336-bis del codice civile. Il Tribunale decide con decreto immediatamente esecutivo. Contro il decreto può essere proposto ricorso per cassazione.
L’ordine di ritorno emesso dal tribunale per i minorenni è, come detto, immediatamente esecutivo. Il ricorso per cassazione non sospende l’esecutività dell’ordine di ritorno. Pertanto, il minore deve essere riportato subito nello Stato della residenza abituale. La procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni è l’organo competente per l’esecuzione dell’ordine di ritorno, cui provve¬de avvalendosi prevalentemente dei servizi sociali della giustizia minorile, ove necessario assistiti dalla pubblica sicurezza.
5 Art. 7 della legge 15 gennaio 1994, n. 64
1. Le richieste tendenti ad ottenere il ritorno del minore presso l’affidatario al quale è stato sottratto, o a rista¬bilire l’esercizio effettivo del diritto di vista, sono presentate per il tramite dell’autorità centrale a norma degli articoli 8 e 21 della convenzione de L’Aja del 25 ottobre 1980.
2. L’autorità centrale, premessi se del caso i necessari accertamenti, trasmette senza indugio gli atti al procura¬tore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni del luogo in cui si trova il minore. Il procuratore della Re¬pubblica richiede con ricorso in via d’urgenza al tribunale l’ordine di restituzione o il ripristino del diritto di visita.
3. Il presidente del tribunale, assunte se del caso sommarie informazioni, fissa con decreto l’udienza in camera di consiglio, dandone comunicazione all’autorità centrale. Il tribunale decide con decreto entro trenta giorni dalla data di ricezione della richiesta di cui al comma 1, sentiti la persona presso cui si trova il minore, il pubblico ministero, e, se del caso, il minore medesimo. La persona che ha presentato la richiesta è informata della data dell’udienza a cura dell’autorità centrale, e può comparire a sue spese e chiedere di essere sentita.
4. Il decreto è immediatamente esecutivo. Contro di esso può essere proposto ricorso per cassazione. La pre¬sentazione del ricorso non sospende l’esecuzione del decreto.
5. Il procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni cura l’esecuzione delle decisioni anche avvalendosi dei servizi minorili dell’Amministrazione della giustizia, e ne dà immediatamente avviso all’autorità centrale.
6. È fatta salva la facoltà per l’interessato di adire direttamente le competenti autorità, a norma dell’articolo 29 della convenzione di cui al comma 1.
VIII Il riconoscimento delle decisioni (nelle cause matrimoniali e in materia di responsabilità genitoriale)
Il Regolamento europeo n. 2201 del 2003 si occupa anche del riconoscimento e dell’esecuzione in uno Stato membro delle decisioni adottate in altri Stati membri.
Per ciò che attiene al riconoscimento, le decisioni adottate in uno Stato europeo – secondo quanto dispone l’art. 21 – sono riconosciute negli altri Stati europei senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento. Si tratta di un principio ormai adottato anche nelle normative interne di diritto internazionale privato.
Pertanto non è necessario alcun procedimento per l’aggiornamento delle iscrizioni nello stato civile di uno Stato membro a seguito di una decisione di divorzio, di separazione personale dei coniugi o annullamento del matrimonio pronunciata in un altro Stato membro, contro la quale non sia più possibile proporre impugnazione secondo la legge di detto Stato membro.
Tuttavia – e fatto salvo quanto si dirà in ordine all’esecuzione delle decisioni sul diritto di visita e di ritorno del minore che hanno un trattamento privilegiato – ogni parte interessata può sempre far dichiarare che la decisione deve essere o non può essere riconosciuta (Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 11 luglio 2008, n. 195/08 ha appunto chiarito che salvo i casi in cui il pro¬cedimento riguardi una decisione certificata in applicazione degli artt. 11, par. 8, e degli artt. 40, 41, 42 del Regolamento n. 2201/2003, qualsiasi parte interessata può chiedere, in base all’art. 21 par. 3 del regolamento, il non riconoscimento di una decisione giudiziaria, anche qualora non sia stata precedentemente presentata un’istanza di riconoscimento di tale decisione).
La competenza degli organi giurisdizionali al riconoscimento, è determinata dal diritto interno dello Stato membro nel quale è proposta l’istanza di riconoscimento o di non riconoscimento. Se il rico¬noscimento di una decisione è richiesto in via incidentale dinanzi ad una autorità giurisdizionale di uno Stato membro, questa può decidere al riguardo.
Come si vede la disciplina del Regolamento è in questo settore omogenea a quella prevista nel nostro sistema di diritto internazionale privato nel quale anche il riconoscimento delle decisioni adottate all’estero è automatico, salvo il diritto di chi contesti la decisione straniera (o di chi inten¬da darne esecuzione), di richiedere la dichiarazione di efficacia o inefficacia in Italia (articoli 64 e seguenti della legge 31 maggio 1995, n.218).
Secondo quanto prevede l’art. 22 del Regolamento le decisioni di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio non sono riconosciute nei casi seguenti: a) se il riconoscimento è manifestamente contrario all’ordine pubblico dello Stato membro richiesto6; b) quando è resa in contumacia, ovvero la domanda giudiziale o un atto equivalente non è stato notificato o comuni¬cato al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale da poter presentare le proprie difese, salvo che sia stato accertato che il convenuto ha accettato inequivocabilmente la decisione; c) se la decisione è incompatibile con una decisione resa in un procedimento tra le medesime parti nello Stato membro richiesto; o d) se la decisione è incompatibile con una decisione anteriore avente le stesse parti, resa in un altro Stato membro o in un paese terzo, purché la decisione anteriore soddisfi le condizioni prescritte per il riconoscimento nello Stato membro richiesto.
L’art. 23 indica i motivi di non riconoscimento delle decisioni sulla responsabilità genitoriale: a) se, tenuto conto dell’interesse superiore del minore, il riconoscimento è manifestamente contra¬rio all’ordine pubblico dello Stato membro richiesto (App. Torino Decreto, 4 dicembre 2014 sottolinea il fatto che il concetto di ordine pubblico è qui collegato all’interesse del minore); b) se, salvo i casi d’urgenza, la decisione è stata resa senza che il minore abbia avuto la possibilità di essere ascoltato, in violazione dei principi fondamentali di procedura dello Stato membro richiesto; c) quando è resa in contumacia, ovvero la domanda giudiziale o un atto equivalente non è stato notificato o comunicato al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale da poter presentare le proprie difese, salvo che sia stato accertato che il convenuto ha accettato inequivocabilmente la decisione; d) su richiesta di colui che ritiene che la decisione sia lesiva della propria responsabilità genitoriale, se è stata emessa senza dargli la possibilità di essere ascoltato; e) se la decisione è incompatibile con una decisione successiva sulla responsabilità genitoriale emessa nello Stato membro richiesto; f) se la decisione è incompatibile con una decisione successiva sulla respon¬sabilità genitoriale emessa in un altro Stato membro o nel paese terzo in cui il minore risieda, la quale soddisfi le condizioni prescritte per il riconoscimento nello Stato membro richiesto; o g) se la procedura prevista dall’articolo 56 non è stata rispettata.
Di particolare interesse – che va qui evidenziato – è il motivo di non riconoscimento indicato nella lettera b) consistente nel fatto che la decisione non può essere riconosciuta nei casi in cui il minore non ha avuto la possibilità di essere ascoltato.
Costituiscono principi generali quello secondo cui il giudice dello Stato in cui si svolge la procedu¬ra di riconoscimento non può procedere al riesame della competenza giurisdizionale del giudice dello Stato membro d’origine (art. 24), quello secondo cui il riconoscimento di una decisione non può essere negato perché la legge dello Stato membro richiesto non prevede per i medesimi fatti il divorzio, la separazione personale o l’annullamento del matrimonio (art. 25) ed inoltre quello secondo cui in nessun caso la decisione può formare oggetto di un riesame del merito (art. 26).
L’autorità giurisdizionale dinanzi alla quale è richiesto il riconoscimento di una decisione pronunciata in un altro Stato membro può sospendere il procedimento se la decisione è stata impugnata con un mezzo ordinario (art. 27).
IX Il particolare regime previsto per l’esecuzione delle decisioni sulla responsabilità genitoriale
Le decisioni sull’esercizio della responsabilità genitoriale, non si sottraggono al principio generale dell’automatico riconoscimento (restando l’eventuale disconoscimento subordinato ad un’iniziativa di parte) ma non possono, solo perché riconosciute, essere poste in esecuzione. Non possono, cioè, costituire titolo per un’attività esecutiva occorrendo, oltre alla previa notificazione, un’appo¬sita declaratoria di esecutività, su istanza dell’interessato.
Lo afferma l’art. 28 del Regolamento prevedendo che le decisioni relative all’esercizio della respon¬sabilità genitoriale su un minore, emesse ed esecutive in un determinato Stato membro, hanno un trattamento particolare. Per essere eseguite in un altro Stato membro devono essere prima notificate e poi dichiarate esecutive su istanza della parte interessata.
A tale proposito ha fatto notare Cass. civ. Sez. Unite, 20 dicembre 2006, n. 27188 che in tema di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia di responsabilità genitoriale, nella disciplina del regolamento n. 2201/2003, le decisioni sull’esercizio della responsabilità genitoriale, se non si sottraggono al principio generale dell’automatico riconoscimento (restando l’eventuale disconoscimento subordinato ad iniziativa di parte), non possono, solo perché riconosciute, esse¬re poste in esecuzione, vale a dire non possono costituire titolo per un’attività modificativa della situazione in atto, all’uopo occorrendo, oltre alla previa notificazione, la apposita declaratoria di esecutività, su istanza dell’interessato, di cui all’art. 28 del citato regolamento. Ne deriva che la decisione del giudice italiano, la quale modifichi una precedente scelta e sostituisca l’uno all’altro genitore nella qualità di affidatario del figlio minore, non autorizza il nuovo affidatario a prelevare e trasferire il minore stesso dallo Stato membro in cui risieda assieme al precedente affidatario, rendendosi a tal fine necessaria, la dichiarazione di esecutività.
L’istanza per la dichiarazione di esecutività è proposta ai giudici che figurano nell’elenco comuni¬cato da ciascuno Stato membro alla Commissione. In Italia, la competenza in materia di ricono¬scimento (in via principale) e di esecuzione delle decisioni in questo contesto è stata attribuita alle Corti d’appello.
La competenza territoriale è determinata dalla residenza abituale della parte contro cui è chiesta l’esecuzione oppure dalla residenza abituale del minore cui l’istanza si riferisce.
Dall’art. 30 del Regolamento ci si occupa specificamente del procedimento, prevedendosi che le modalità del deposito dell’istanza sono determinate in base alla legge dello Stato membro dell’ese¬cuzione. L’istante elegge il proprio domicilio nella circoscrizione dell’autorità giurisdizionale adita. L’autorità giurisdizionale adita decide senza indugio. In questa fase del procedimento, né la parte contro la quale l’esecuzione viene chiesta né il minore possono presentare osservazioni. L’istanza può essere respinta solo per uno dei motivi di cui agli articoli 22, 23 e 24 e in nessun caso la de¬cisione può formare oggetto di un riesame del merito.
La decisione resa su istanza di parte è senza indugio portata a conoscenza del richiedente, a cura del cancelliere, secondo le modalità previste dalla legge dello Stato membro dell’esecuzione (art. 32) e ciascuna delle parti può proporre opposizione contro la decisione resa sull’istanza intesa a ottenere una dichiarazione di esecutività. Il ricorso è esaminato secondo le norme sul procedimen¬to in contraddittorio.
Se l’opposizione è proposta dalla parte che ha richiesto la dichiarazione di esecutività, la parte contro cui l’esecuzione viene fatta valere è chiamata a comparire davanti all’autorità giurisdizio¬nale dell’opposizione.
L’opposizione deve essere proposta nel termine di un mese dalla notificazione della stessa. Se la parte contro la quale è chiesta l’esecuzione ha la residenza abituale in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata rilasciata la dichiarazione di esecutività, il termine è di due mesi a decorrere dalla data della notificazione in mani proprie o nella residenza. Detto termine non è prorogabile per ragioni inerenti alla distanza.
Si tratta, quindi, di un procedimento a contraddittorio eventuale e posticipato. Se non c’è opposi¬zione il provvedimento è esecutivo appena trascorsi i termini indicati.
La decisione resa sull’opposizione può costituire unicamente oggetto delle procedure di cui all’e¬lenco comunicato da ciascuno Stato membro alla Commissione conformemente all’articolo 68 che, per l’Italia, è la Corte di cassazione.
L’autorità giurisdizionale dinanzi alla quale è proposta l’opposizione può, su istanza della parte contro la quale è chiesta l’esecuzione, sospendere il procedimento di esecuzione se la decisione è stata impugnata nello Stato membro d’origine con un mezzo ordinario o se il termine per proporre l’impugnazione non è ancora scaduto. In quest’ultimo caso l’autorità giurisdizionale può fissare un termine per proporre tale impugnazione.
L’art. 37 indica i documenti che la parte deve produrre tra cui un certificato riepilogativo apposito ri¬lasciato dal tribunale con le caratteristiche indicate nell’art. 39. Il modello è allegato al regolamento.
L’esecuzione è disciplinata poi dalla legge dello Stato membro in cui deve avvenire.
X L’attuazione delle decisioni sul diritto di visita e di quelle che prescrivono il ritorno del minore
Una parte del Regolamento (dall’art. 40 all’art. 45) si occupa dell’esecuzione di talune decisioni considerate sensibili (decisioni in materia di diritto di visita e decisioni che prescrivono il ritorno del minore) disposizioni che non ostano naturalmente a che il titolare della responsabilità genito¬riale chieda il riconoscimento e l’esecuzione in forza delle disposizioni sopra viste contenute nel Regolamento.
a) Le decisioni sul diritto di visita
Secondo la definizione che ne dà l’art. 2 del Regolamento con l’espressione “diritto di visita” ci si riferisce al “diritto di condurre il minore in un luogo diverso dalla sua residenza abituale per un periodo limitato di tempo”.
Anche la Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 si occupa delle garanzie per la corretta esecu¬zione del diritto di visita del genitore, consentendo che per il tramite delle autorità centrali possa essere richiesta l’organizzazione o la tutela dell’esercizio effettivo del diritto di visita nei confronti di un figlio che viva con l’altro genitore in uno Stato estero. Secondo la Convenzione dell’Aja la domanda viene presentata e trattata con le stesse modalità previste per le domande di ritorno del minore: alla prima fase amministrativa, durante la quale il minore viene localizzato e si tenta di raggiungere un accordo tra le parti, segue la fase giudiziaria davanti al giudice competente in base al luogo di residenza del minore.
Per i minori abitualmente residenti nell’Unione Europea, il diritto di visita riceve una tutela più incisiva grazie all’articolo 41 del Regolamento n. 2201 del 2003. Il provvedimento giudiziario ese¬cutivo, emesso un qualsiasi Stato membro, che disciplina il diritto di visita di un genitore è ricono¬sciuto automaticamente ed è immediatamente esecutivo in tutti gli altri Stati dell’Unione Europea, quando è munito di un particolare certificato, che va rilasciato dal giudice che ha emesso quel provvedimento. Non è dunque necessario che nello Stato di residenza abituale del minore venga esperita una procedura di dichiarazione di esecutività (exequatur).
Secondo quanto stabilito da Corte giustizia Unione Europea Sez. I, 22 dicembre 2010, n. 491/10 la decisione che ordina il ritorno di un minore può essere certificata soltanto dopo aver verificato che, in funzione dell’interesse superiore del minore e tenuto conto di tutte le circostanze del caso di specie, tale decisione sia stata adottata nel rispetto del diritto del minore di esprimersi liberamente e che sia stata offerta a quest’ultimo una possibilità concreta ed effettiva di esprimer¬si, tenuto conto dei mezzi procedurali nazionali e degli strumenti della cooperazione giudiziaria internazionale.
La domanda per l’organizzazione o la tutela dell’esercizio effettivo del diritto di visita può essere presentata anche da parenti diversi dai genitori (nonni, zii, fratelli), se ciò è consentito dalla legge dello Stato in cui il minore è abitualmente residente.
L’autorità giurisdizionale dello Stato in cui avviene l’esecuzione può stabilire modalità pratiche vol¬te ad organizzare l’esercizio del diritto di visita, qualora le modalità necessarie non siano o siano insufficientemente previste nella decisione emessa dalle autorità giurisdizionali dello Stato mem¬bro competente a conoscere del merito e a condizione che siano rispettati gli elementi essenziali di quella decisione.
b) Le decisioni che prescrivono il ritorno del minore
Le decisioni sul ritorno del minore emesse in uno Stato membro a seguito di un trasferimento illecito in altro Stato, sono riconosciute ed eseguibili senza che sia necessaria una dichiarazione di esecutività e senza che sia possibile opporsi al riconoscimento, sempre che la decisione sia stata certificata nello Stato membro d’origine (con il certificato di cui si è sopra detto per le decisioni sul diritto di visita).
Il giudice di origine che ha emanato la decisione rilascia il certificato solo se: a) il minore ha avu¬to la possibilità di essere ascoltato, salvo che l’audizione sia stata ritenuta inopportuna in ragione della sua età o del suo grado di maturità; b) le parti hanno avuto la possibilità di essere ascolta¬te; e c) l’autorità giurisdizionale ha tenuto conto, nel rendere la sua decisione, dei motivi e degli elementi di prova alla base del provvedimento emesso. Nel caso in cui l’autorità giurisdizionale o qualsiasi altra autorità adotti misure per assicurare la protezione del minore dopo il suo ritorno nello Stato della residenza abituale, il certificato contiene i dettagli di tali misure.
XI Gli accordi
L’art. 46 del Regolamento equipara in tutto e per tutto gli atti pubblici e gli accordi alle decisioni giudiziarie prescrivendo che “gli atti pubblici formati e aventi efficacia esecutiva in uno Stato mem¬bro nonché gli accordi tra le parti aventi efficacia esecutiva nello Stato membro di origine sono riconosciuti ed eseguiti alle stesse condizioni previste per le decisioni”
XII La cooperazione tra Stati
Ciascuno Stato membro – sulla base di quanto prescritto dall’art. 53 del Regolamento – designa una o più autorità centrali incaricata di assisterlo nell’applicazione del Regolamento e ne specifica le competenze territoriali e materiali.
Le autorità centrali mettono a disposizione informazioni sull’ordinamento e sulle procedure na¬zionali e adottano misure generali per migliorare l’applicazione del Regolamento e rafforzare la cooperazione.
Una cooperazione speciale è poi prevista nell’ambito dei procedimenti attinenti alla responsabilità genitoriale. In tali procedimenti le autorità centrali, su richiesta di un’autorità centrale di un altro Stato membro o del titolare della responsabilità genitoriale, cooperano per realizzare gli obiettivi del Regolamento provvedendo a raccogliere e a scambiare informazioni sulla situazione del mi¬nore, sugli eventuali procedimenti in corso e sulle decisioni adottate relativamente al minore; a fornire informazioni e assistenza ai titolari della responsabilità genitoriale che chiedono il ricono¬scimento e l’esecuzione delle decisioni sul loro territorio, relativamente in particolare al diritto di visita e al ritorno del minore; a facilitare la comunicazione fra le autorità giurisdizionali; a fornire informazioni e sostegno; a facilitare un accordo fra i titolari della responsabilità genitoriale, ricor¬rendo alla mediazione o con altri mezzi, e ad agevolare a tal fine la cooperazione transfrontaliera.
Da parte loro i titolari della responsabilità genitoriale possono rivolgere richieste di assistenza gratuita all’autorità centrale dello Stato membro in cui risiedono abitualmente ovvero all’autorità centrale dello Stato membro in cui si può trovare o risiede abitualmente il minore.
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. Unite, 5 giugno 2017, n. 13912 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’accettazione della giurisdizione italiana nell’ambito del giudizio di separazione personale non esplica alcun effetto nel successivo procedimento di modifica delle condizioni della separazione instaurato per ottenere l’affidamento di figli minori, sia perché quest’ultimo è un nuovo giudizio (come si evince anche dall’art. 12, par. 2, lett. a), del reg. CE n. 2201 del 2003), sebbene ricollegato al regolamento attuato con la decisione definitiva o con l’omologa della separazione consensuale non più reclamabile, in base al suo carattere di giudicato “rebus sic stantibus”, sia perché il criterio di attribuzione della giurisdizione fondato sulla cd. vicinanza, dettato nell’interesse superiore del minore come delineato dalla Corte di giustizia della UE, assume una pregnanza tale da comportare l’esclusione della validità del consenso del genitore alla proroga della giurisdizione.
Tribunale di Milano, Sez. IX, 24 febbraio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’applicazione dell’art. 19, Reg. n. 2201/2003, in tema di litispendenza internazionale in materia matrimoniale, non è necessario che vi sia l’identità di titolo e oggetto tra le domande proposte dinanzi a giudici di Stati membri diversi: infatti le due cause possono avere oggetto distinto, purché vertano comunque sulla separazione personale, sul divorzio o sull’annullamento del matrimonio. Sussiste perciò una situazione di litispendenza internazionale nel caso siano proposte dinanzi ad autorità giurisdizionali di due Stati dell’Unione Europea una domanda di divorzio e una di separazione personale.
Nell’ipotesi di procedimenti di separazione e divorzio (o annullamento del matrimonio) instaurati in Stati membri diversi, l’autorità giurisdizionale successivamente adita deve sospendere il procedimento fino a quando non venga accertata la competenza giurisdizionale dell’autorità adita per prima.(Nel caso di specie, il Tribunale ha correttamente sospeso, ex art. 19 del regolamento 2201/2003 (c.d. Bruxelles II bis), il giudizio di separazione pendente davanti ad esso, in attesa che i giudici inglesi, precedentemente aditi, statuiscano sulla loro competenza a trattare la domanda di divorzio.
Corte giustizia Unione Europea, Sez. I, 15 febbraio 2017, n. 499/15 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il regolamento n. 2201/2003 si fonda sulla cooperazione e sulla fiducia reciproca tra le autorità giurisdizionali che devono condurre al reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie, fondamento per la creazione di un autentico spazio giudiziario. Tale regolamento è stato elaborato con l’obiettivo di rispondere all’interesse superiore del minore e, a tal fine, esso privilegia il criterio di vicinanza. Il legislatore ha infatti ritenuto che il giudice geograficamente vicino alla residenza abituale del minore si trovi nella situazione più favorevole per valutare i provvedimenti da disporre nell’interesse del minore. Per questi motivi la competenza giurisdizionale appartiene quindi, anzitutto, ai giudici dello Stato membro in cui il minore risiede abitualmente, salvo ove si verifichi un cambiamento della sua residenza o in caso di accordo fra i titolari della responsabilità genitoriale. Ed è per questo che l’articolo 8 del regolamento n. 2201/2003 traduce tale obiettivo attribuendo una competenza generale alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui il minore ha la residenza abituale.
L’articolo 8 del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000, e l’articolo 3 del regolamento (CE) n. 4/2009 del Consiglio, del 18 dicembre 2008, relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari, devono essere interpretati nel senso che i giudici dello Stato membro che hanno adottato una decisione passata in giudicato in materia di responsabilità genitoriale e di obbligazioni alimentari riguardanti un figlio minore non sono più competenti a pronunciarsi su una domanda di modifica dei provvedimenti adottati con tale decisione, qualora la residenza abituale del minore si trovi nel territorio di un altro Stato membro. La competenza a pronunciarsi su tale domanda spetta ai giudici di quest’ultimo Stato membro.
Cass. civ. Sez. Unite, 10 febbraio 2017, n. 3555 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di competenza, l’art. 8, n. 1 del Regolamento CE 27 novembre 2003 n. 2201/2003/Cons., prevede, per le domande relative alla responsabilità genitoriale su un minore, la competenza internazionale dell’autorità giudiziaria dello Stato membro in cui il minore stesso risiede abitualmente alla data della domanda, dettando in tal modo un principio ispirato all’interesse superiore del minore stesso ed al criterio della vicinanza. A tal uopo, per “residenza abituale” deve intendersi il luogo dove il minore trova e riconosce, anche grazie a una permanenza tendenzialmente stabile, il centro dei propri legami affettivi, non solo parentali, originati dallo svolgersi della sua vita di relazione. In altri termini, la residenza abituale corrisponde al luogo che denota una certa integrazione del minore in un ambiente sociale e familiare, e, ai fini del relativo accertamento, rilevano una serie di circostanze che vanno valutate in relazione alla peculiarità del caso concreto: la durata, la regolarità e le ragioni del soggiorno nel territorio di uno Stato membro, la cittadinanza del minore, la frequenza scolastica e, in generale, le relazioni familiari e sociali.
Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 27 ottobre 2016, n. 428/15 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 prevede che le autorità giurisdizionali di uno Stato membro competenti a conoscere del merito di un caso possono chiedere il trasferimento di tale caso o di una sua parte specifica a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore abbia un legame particolare, ove ritengano che quest’ultima sia più adatta a trattarla e ove ciò corrisponda all’interesse superiore del minore. Poiché le nozioni di autorità giurisdizionale «più adatta» e di «interesse superiore del minore» ai sensi di tale disposizione non sono definite da alcun’altra disposizione del regolamento n. 2201/2003, occorre interpretarle tenendo conto del contesto nel quale si collocano e degli obiettivi perseguiti da detto regolamento. A termini del considerando 12 del regolamento n. 2201/2003, le regole di competenza dettate da quest’ultimo in materia di responsabilità genitoriale sono ispirate all’interesse superiore del minore. Pertanto la necessità che il trasferimento di un caso a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro corrisponda all’interesse superiore del minore costituisce un’espressione del principio cardine su cui, da un lato, si è basato il legislatore nella concezione di tale regolamento e che, dall’altro, deve guidare la sua attuazione nelle cause in materia di responsabilità genitoriale ad esso assoggettate. Nel contesto del regolamento n. 2201/2003, la considerazione dell’interesse superiore del minore è volta a garantire il rispetto dei diritti fondamentali del bambino, come si evince dal considerando 33 di tale regolamento.
L’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel senso che per poter stabilire che un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore ha un legame particolare è più adatta, il giudice competente di uno Stato membro deve accertarsi che il trasferimento del caso a detta autorità giurisdizionale sia idoneo ad apportare un valore aggiunto reale e concreto al trattamento dello stesso, in particolare tenendo conto delle norme di procedura applicabili in detto altro Stato membro; ed inoltre per poter stabilire che un siffatto trasferimento corrisponde all’interesse superiore del minore, il giudice competente di uno Stato membro deve in particolare accertarsi che tale trasferimento non rischi di ripercuotersi negativamente sulla situazione del minore.
Cass. civ. Sez. Unite, 7 settembre 2016, n. 17676 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito di applicazione del Reg. 2201/2003, in tema di responsabilità genitoriale, al fine di stabilire la competenza giurisdizionale, occorre dare rilievo, come regola generale, al criterio della residenza abituale del minore al momento della domanda, intendendo come tale il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale, e non quello risultante da un calcolo puramente aritmetico del vissuto.
La regola del trasferimento a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro sancita all’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 costituisce una regola di competenza speciale e derogatoria rispetto a quella di competenza generale enunciata all’articolo 8, paragrafo 1, di tale regolamento, cosicché essa dev’essere interpretata restrittivamente.
La giurisdizione del giudice italiano va negata rispetto alle domande inerenti l’affidamento ed il mantenimento del figlio delle parti [stante la mancata accettazione dell’appellante e il superiore interesse del minore], in quanto devolute in via esclusiva alla competenza del giudice, ove il minore è stabilmente residente, e deve invece essere affermata relativamente al giudizio di separazione personale, conformemente ai principi della perpetuatio jurisdictionis e della prevenzione, che precludono lo spostamento di competenza in favore del procedimento (anche se) connesso avviato all’estero successivamente al primo.
Cass. civ. Sez. Unite, 18 marzo 2016, n. 5420 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il Regolamento (CE) n. 2201/2003 si applica solo alle diverse giurisdizioni degli stati dell’Unione Europea, non anche alla giurisdizione degli stati esterni all’Unione, per la quale, anche se la causa verte tra cittadini dell’Unione, si applica l’art. 7 della l. n. 218 del 1995, con eventuale sospensione del giudizio interno sino alla definizione del previo giudizio estero.
Il Regolamento (CE) n. 2201/2003 si applica solo alle diverse giurisdizioni degli stati dell’Unione Europea, non anche alla giurisdizione degli stati esterni all’Unione, per la quale, anche se la causa verte tra cittadini dell’Unione, si applica l’art. 7 della l. n. 218 del 1995, con eventuale sospensione del giudizio interno sino alla definizione del previo giudizio estero. (Dichiara giurisdizione)
Cass. civ. Sez. I, 12 maggio 2015, n. 9632 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di giurisdizione, il regolamento CE 27 novembre 2003, n. 2201/2003 non deroga alla Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 – in base alla quale la decisione sull’istanza di rientro nel luogo di residenza del minore illecitamente trasferito spetta all’autorità competente del Paese in cui si trova – ma conserva, per un periodo di tempo limitato, la competenza giurisdizionale allo Stato membro in cui il minore aveva la residenza abituale prima del trasferimento, a condizione che sia tempestivamente presentata e successivamente accolta un’istanza di rientro (rectius di affidamento). Ne consegue una fase di sdoppiamento della competenza giurisdizionale sul rientro e sull’affidamento, tesa a garantire, da un lato, che la decisione sul rientro sia presa dal giudice del luogo in cui il minore si trova, in base al criterio di prossimità e possibilità di ascolto, e, dall’altro, ad impedire che la sottrazione illecita del minore favorisca, con lo spostamento della giurisdizione, il suo autore.
Trib. Vercelli, 18 dicembre 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 15 del Reg. 2201/2003 prevede una “eccezionale” forma di dismissione discrezionale della competenza ispirata alla dottrina anglosassone del forum non conveniens. Il trasferimento d’ufficio della competenza giurisdizionale ad altro Stato può, in particolare, essere disposto nel caso in cui, nel corso della procedura pendente nello Stato a quo, i minori coinvolti nel processo abbiano definitivamente modificato la loro residenza abituale, fissando la dimora in altro Stato: in questo caso, è opportuno il trasferimento della causa al giudice dello Stato ad quem, previa audizione delle parti, per acquisire il loro consenso.
App. Torino Decreto, 4 dicembre 2014 (Nuova Giur. Civ., 2015, 5, 441 nota di FRANCO)
Ai fini del riconoscimento o meno dei provvedimenti giurisdizionali stranieri, deve aversi prioritario riguardo all’interesse superiore del minore (art. 3 L. 27 maggio 1991, n. 176 di ratifica della Convenzione sui diritti del fanciullo, di New York 20.11.1989), come ribadito in ambito comunitario, con particolare riferimento al riconoscimento delle sentenze straniere in materia di rapporti tra genitori e figli, dall’art. 23 reg. CE n. 2201/2003 il quale stabilisce espressamente che la valutazione della non contrarietà all’ordine pubblico debba essere effettuata tenendo conto dell’interesse superiore del figlio.
Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 12 novembre 2014, n. 656/13 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’articolo 12, paragrafo 3, del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000, deve essere interpretato nel senso che esso consente, ai fini di un procedimento in materia di responsabilità genitoriale, di fondare la competenza di un giudice di uno Stato membro diverso dallo Stato di residenza abituale del minore pur se dinanzi al giudice prescelto non è pendente alcun altro procedimento.
Corte giustizia Unione Europea Sez. II, 1 ottobre 2014, n. 436/13 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La competenza in materia di responsabilità genitoriale, prorogata in forza dell’articolo 12, paragrafo 3, del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000, a favore di un giudice di uno Stato membro investito del procedimento di concerto dai titolari della responsabilità genitoriale, viene meno con la pronuncia di una decisione definitiva nel contesto di tale procedimento.
Trib. Milano Sez. IX Decreto, 16 luglio 2014
Qualora dinanzi a autorità giurisdizionali di Stati membri diversi siano state proposte domande sulla responsabilità genitoriale su uno stesso minore, aventi il medesimo oggetto e il medesimo titolo, l’autorità giurisdizionale successivamente adita sospende d’ufficio il procedimento finché non sia stata accertata la competenza dell’autorità giurisdizionale preventivamente adita. In ipotesi di litispendenza internazionale, è tuttavia ammissibile l’adozione di provvedimenti cautelari o urgenti, ex art. 20 del regolamento n. 2201/2003. Tale enunciato, tuttavia, deve essere interpretato nel senso che esso non consente ad un giudice di uno Stato membro di adottare un provvedimento provvisorio in materia di responsabilità genitoriale inteso a interferire con altro provvedimento già adottato (ed efficace) dal giudice dello Stato Membro adito per primo e dichiaratosi, nelle more, competente.
Cass. civ. Sez. Unite, 28 maggio 2014, n. 11915 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È principio assolutamente consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte, in sintonia fra l’altro con quanto affermato nel Regolamento CE n. 2201/2003 (art. 8) e nella Convenzione dell’Aja del 25.10.1980 (art. 8), che per i provvedimenti diretti ad intervenire sulla potestà genitoriale secondo le previsioni degli artt. 330 e segg. c.c. e per quelli in tema di giurisdizione sui provvedimenti “de potestate” rileva il criterio della residenza abituale del minore al momento della proposizione della domanda (per i primi C-13/17746, C-12/1984, C-06/2171, C-05/2877, C-03/1058, C-01/9266, C-99/1238, per i secondi C-12/1984, C-11/16864). La residenza abituale del minore va individuata sulla base di criteri oggettivi e, in caso di trasferimento del minore, lo stesso non è idoneo a radicare la competenza del tribunale di destinazione, nel caso in cui sia trascorso un lasso di tempo minimo non apprezzabile, tenuto conto dell’età del fanciullo (nel caso di specie, il minore aveva vissuto a Cuba sino al 23 aprile del 2012; il ricorso era stato presentato al Tribunale per i Minorenni di Genova, il 14 giugno 2012).
Trib. Milano Sez. IX, 31 marzo 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di sottrazione/mancato rientro di minore, il regolamento 2201/2003 prevede l’applicazione del “diritto speciale” contenuto nella convenzione dell’Aia del 25 ottobre 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori (legge ratif. n. 64/94): le richieste tendenti ad ottenere il ritorno del minore presso l’affidatario al quale è stato sottratto, o a ristabilire l’esercizio effettivo del diritto di visita, sono presentate per il tramite dell’autorità centrale a norma degli articoli 8 e 21 della Convenzione de l’Aja del 25 ottobre 1980. E’, pertanto, ammissibile una tutela ex art. 316 comma IV, 337-bis c.c. solo nell’ipotesi in cui le sopraccitate regole non siano applicabili “in concreto” per essere stato il minore condotto in uno Stato non sottoscrittore della Convenzione dell’Aja (Trib. Milano, sez. IX, 19 marzo 2014, con riguardo alla Russia); nel caso, invece, di Stato Membro della Convenzione è da escludere l’utilizzo di strumenti di tutela interni diverso da quello tipizzato dalla l. 64/94 (Trib. Milano, sez. IX, 6 febbraio 2014, con riguardo al Brasile). Nei casi di sottrazione cd. attiva, il Dicastero italiano ha una competenza “diretta” se lo Stato in cui il minore è stato condotto non aderisce alla succitata Convenzione e/o non è destinatario del Reg. 2201/2003; mentre ha una competenza sussidiaria, se lo Stato in cui il minore è stato condotto aderisce ai testi normativi sopra indicati.
Trib. Milano, 11 febbraio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 15 del Reg. n. 2201/2003 prevede, eccezionalmente, il trasferimento delle competenze a una autorità giurisdizionale più adatta a trattare il caso. Si tratta di una forma di dismissione discrezionale della competenza sulla scia della dottrina anglo-sassone del forum non conveniens che istituisce una sorta di translatio iudicii internazionale. L’istituto ha carattere del tutto eccezionale e, invero, costituisce infatti una previsione inedita nel panorama ordinamentale: al punto da dovere essere considerato di applicazione del tutto residuale sulla base di elementi di particolare rilevanza e, soprattutto, allorché il trasferimento del processo sia opportuno.
Cass. civ. Sez. I, 23 gennaio 2013, n. 1527 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di illecita sottrazione internazionale di minori da parte di un genitore, il trattenimento del figlio minore da parte di un genitore, pur in presenza dell’esercizio congiunto del diritto di custodia da parte di entrambi i genitori, deve ritenersi illecito, alla luce della Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980, come integrata dal Regolamento CE n. 2201/2003 (diciassettesimo “considerando”), se contrasta con la situazione di fatto – concordemente e convenzionalmente accettata dai genitori – sulla base della presunzione secondo la quale l’interesse del minore coincide con quello di non essere allontanato o di essere immediatamente ricondotto nel luogo in cui si svolge la sua abituale vita quotidiana. (Nella specie, un formale provvedimento di affidamento da parte dell’autorità straniera a favore della madre era intervenuto solo in epoca successiva alla decisione impugnata ed entrambi i genitori esercitavano congiuntamente il diritto di affidamento, con l’accordo, peraltro, che il figlio potesse giungere o restare in Italia solo con il consenso della madre).
Cass. civ. Sez. I, 4 luglio 2012, n. 11156 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione, il diritto di affidamento nei confronti del minore comprende anche il diritto di intervenire nella decisione concernente il suo luogo di residenza (Reg. CE n. 2201/2003); il trasferimento o il mancato ritorno dello stesso è considerato atto illecito nel caso in cui risulti avvenuto in violazione del diritto di affidamento, purché effettivamente esercitato.
Cass. civ. Sez. Unite, 13 febbraio 2012, n. 1984 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di giurisdizione sui provvedimenti “de potestate”, l’art. 8 del Regolamento (CE) del 27 novembre 2003, n. 2201 dà rilievo, al fine di stabilire la competenza giurisdizionale di uno stato membro, unicamente al criterio della residenza abituale del minore al momento della proposizione della domanda, intendendo come tale il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale e non quello risultante da un calcolo puramente aritmetico del vissuto. Non sussiste perciò la giurisdizione italiana qualora il minore risieda all’estero.
Cass. civ. Sez. Unite, 30 dicembre 2011, n. 30646 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi degli artt. 3 comma 1 lett. b e 8 del Regolamento n. 2201/2003 del 27 novembre 2003, in una controversia di separazione personale sussiste la giurisdizione italiana in base alla comune cittadinanza dei coniugi, mentre essa non sussiste – bensì sussista quella inglese – riguardo all’affidamento dei figli, in quanto questi ultimi sono residenti nel Regno Unito né è stata accettata la giurisdizione italiana ex art. 12, comma 1.
La giurisdizione sulle domande relative all’affidamento dei figli ed al loro mantenimento, ove pure proposte congiuntamente a quella di separazione giudiziale, appartiene al giudice del luogo in cui il minore risiede abitualmente, a norma dell’art. 8 del Regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio del 27 novembre 2003. Tale criterio, informato all’interesse superiore del minore e, segnatamente, al criterio della vicinanza, riveste una tale pregnanza, da condurre ad escludere che il consenso del genitore alla proroga della giurisdizione quanto alle domande concernenti i minori – pur ammessa dall’art. 12 del citato regolamento, in presenza del consenso di entrambi i coniugi – sia ravvisabile dalla mancata contestazione giurisdizione da parte di un coniuge con riguardo alla domanda di separazione. (Dichiara giurisdizione)
Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2011, n. 17201 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di sottrazione internazionale di minori, nel procedimento per il rientro nell’originaria residenza abituale, l’audizione del minore, già prevista dall’art. 12 della convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo, ai sensi dell’art. 7 comma 3 della legge 15 gennaio 1994 n. 64 non è imposta anche se si ritiene che sia divenuto un adempimento necessario se ciò non appaia inopportuno in ragione della sua età o del suo grado di maturità, come ora specificamente previsto dall’art. 11 comma 2 del Regolamento n. 2201/2003, dall’art. 13 della convenzione dell’Aja 25 ottobre 1980 sulla sottrazione internazionale dei minori e dagli artt. 3 e 6 della convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996 sull’esercizio dei diritti del bambino.
Nel procedimento previsto dalla legge 15 gennaio 1994, n. 64, di esecuzione e di autorizzazione alla ratifica della Convenzione de L’Aja 25 ottobre 1980, in tema di illecita sottrazione di minori, il genitore ha la qualità di parte, ma il suo diritto alla nomina di un difensore d’ufficio e, comunque, al patrocinio legale obbligatorio, non è previsto dalla citata Convenzione, né dalla normativa sovranazionale, anche successiva (art. 47 della Carta di Nizza), la quale prevede soltanto il diritto del genitore ad essere informato della pendenza della procedura e ad essere posto in condizione di essere sentito (art. 11, comma 5 del Reg.CE n. 2201 del 2003 e art. 4 comma 2 e 7 comma 3 della legge n. 64 del 1994); pertanto, per il genitore coinvolto in detto procedimento, la nomina di un difensore tecnico, al pari della sua costituzione nel procedimento stesso, integrano facoltà esercitabili a sua iniziativa, secondo le ordinarie regole processuali interne.
Cass. civ. Sez. Unite, 2 agosto 2011, n. 16864 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di trasferimento illecito di un minore, ai fini di determinare la giurisdizione, il mutamento del luogo di residenza abituale del minore successivo al momento della proposizione della domanda non rileva se è dovuto a provvedimenti giudiziari emessi in via interinale per ragioni di urgenza, in quanto le disposizioni che prevedono la competenza dello Stato in cui il minore si trova, come gli artt. 13 e 15 del Regolamento n. 2201/2003 del 27 novembre 2003 e l’art. 12 della convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 sulla sottrazione internazionale dei minori, sono derogatrici rispetto al regime ordinario fondato sul principio della perpetuatio iurisdictionis e sono dettate dall’esigenza di far fronte a situazioni eccezionali.
App. Catania, 21 luglio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Dal combinato disposto degli artt. 19 e 20 del Reg. n. 2201/2003 è possibile ricavare una nozione di litispendenza sostanzialistica che prescinde dal formale titolo di aggressione al vincolo familiare, in relazione alla quale domina incontrastato il principio della prevenzione, soddisfatto non solo dal deposito dell’atto introduttivo ma dalla successiva coltivazione dell’azione intrapresa attraverso le rituali notifiche
Trib. Tivoli, 6 aprile 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 8 del Regolamento n. 2201/2003 non sussiste la giurisdizione italiana in merito alla responsabilità genitoriale su una minore che non abbia mai avuto la propria residenza abituale in Italia; né essa sussiste ai sensi dell’art. 10, non essendovi stato alcun trasferimento illecito o mancato rientro della minore in Italia, né ai sensi dell’art. 12, non essendo stata accettata dalla convenuta la giurisdizione italiana.
Ai sensi dell’art. 8 del Regolamento n. 2201/2003 non sussiste la giurisdizione italiana in merito alla responsabilità genitoriale su una minore che non abbia mai avuto la propria residenza abituale in Italia; né essa sussiste ai sensi dell’art. 10, non essendovi stato alcun trasferimento illecito o mancato rientro della minore in Italia, né ai sensi dell’art. 12, non essendo stata accettata dalla convenuta la giurisdizione italiana.
Cass. civ. Sez. I, 21 marzo 2011, n. 6319 (Foro It., 2011, 10, 1, 2765)
Può essere proposto solo ricorso per cassazione avverso il provvedimento di rigetto della domanda di rientro nella residenza abituale del minore, illecitamente trasferito in altro Stato, emesso dal tribunale per i minorenni, ai sensi dell’art. 11 del Regolamento n. 2201/2003/CE, in sede di riesame del precedente diniego dell’autorità giudiziaria dello Stato membro nel quale il minore è stato condotto.
Corte giustizia Unione Europea Sez. I, 22 dicembre 2010, n. 491/10 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Una decisione che ordina il ritorno di un minore può essere certificata dal giudice dello Stato membro d’origine ai sensi dell’art. 42 del Regolamento n. 2201/2003 del 27 novembre 2003, interpretato conformemente all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, soltanto dopo aver verificato che, in funzione dell’interesse superiore del minore e tenuto conto di tutte le circostanze del caso di specie, tale decisione sia stata adottata nel rispetto del diritto del minore di esprimersi liberamente e che sia stata offerta a quest’ultimo una possibilità concreta ed effettiva di esprimersi, tenuto conto dei mezzi procedurali nazionali e degli strumenti della cooperazione giudiziaria internazionale.
Corte giustizia Unione Europea Sez. I, 22 dicembre 2010, n. 497/10 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La nozione di “residenza abituale”, ai sensi degli artt. 8 e 10 del regolamento (CE) del Consiglio 27 novembre 2003, n. 2201, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000, deve essere interpretata nel senso che tale residenza corrisponde al luogo che denota una certa integrazione del minore in un ambiente sociale e familiare. A tal fine, e laddove si tratti della situazione di un neonato che soggiorna con la madre solo da pochi giorni in uno Stato membro – diverso da quello della sua residenza abituale – nel quale è stato portato, devono essere presi in considerazione, da un lato, la durata, la regolarità, le condizioni e le ragioni del soggiorno nel territorio di tale Stato membro nonché del trasferimento della madre in detto Stato e, d’altro lato, tenuto conto dell’età del minore, l’origine geografica e familiare della madre nonché i rapporti familiari e sociali che madre e minore intrattengono con quello stesso Stato membro. È compito del giudice nazionale determinare la residenza abituale del minore tenendo conto di tutte le circostanze di fatto specifiche di ciascuna fattispecie. Nell’ipotesi in cui l’applicazione dei criteri testé ricordati conducesse, nella causa principale, a concludere che non è possibile accertare la residenza abituale del minore, la determinazione del giudice competente dovrebbe essere effettuata in base al criterio del luogo «in cui si trova il minore» ai sensi dell’art. 13 del regolamento. 2) Le decisioni di un’autorità giurisdizionale di uno Stato membro recanti rigetto, ai sensi della convenzione dell’Aia del 1980, sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, di una domanda di rientro immediato di un minore nell’ambito della giurisdizione di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro e vertenti sulla responsabilità genitoriale nei confronti di detto minore sono irrilevanti ai fini delle decisioni che devono essere emanate in tale altro Stato membro in merito alle azioni in materia di responsabilità genitoriale che sono state precedentemente proposte e ivi sono ancora pendenti.
Trib. Belluno, 5 novembre 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il regolamento CE del Consiglio n. 2201 del 2003 disciplinante la competenza, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale ed in materia di responsabilità genitoriale, deve essere applicato a prescindere dalla cittadinanza europea delle parti, e quindi anche nei confronti di cittadini extracomunitari. Le norme sulla giurisdizione previste dal diritto nazionale, inoltre, restano applicabili solo in via residuale nell’ipotesi in cui nessun giudice degli Stati membri, in applicazione degli artt. 3 e 5 del Regolamento citato, sia competente.
Corte giustizia Unione Europea, 5 ottobre 2010, n. 400/10 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’illiceità del trasferimento di un minore, ai sensi dell’art. 2 n. 11 del Regolamento n. 2201/2003, dipende esclusivamente dall’esistenza di un diritto di affidamento, conferito dal diritto nazionale applicabile, in violazione del quale tale trasferimento ha avuto luogo.
Trib. Varese, 4 ottobre 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le disposizioni del Regolamento n. 2201/2003 (cd. Bruxelles II) non ostano a che le autorità giurisdizionali di uno Stato membro adottino i provvedimenti provvisori o cautelari previsti dalla legge interna, relativamente alle persone presenti in quello Stato o ai beni in esso situati, anche se, a norma del citato regolamento, è competente a conoscere nel merito l’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro. E’, dunque, possibile, in caso di urgenza, un intervento del giudice per regolare il diritto di visita di un minore figlio di genitori non italiani, ma residente in territorio italiano.
Corte giustizia Unione Europea Sez. II, 15 luglio 2010, n. 256/09 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il sistema di riconoscimento e di esecuzione delle decisioni predisposto dagli articoli 21 ss. del Regolamento n. 2201/2003 non si applica a provvedimenti provvisori, in materia di diritto di affidamento, rientranti nell’art. 20 di detto regolamento. Rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 20 del Regolamento n. 2201/2003 del 27 novembre 2003 solo i provvedimenti provvisori o cautelari adottati da giudici che non fondino la loro competenza su una delle disposizioni dettate da tale regolamento.
Alla luce dell’importanza dei provvedimenti provvisori – a prescindere dal fatto che siano disposti o meno da un giudice competente nel merito – che possono essere ordinati in materia di responsabilità genitoriale, e in particolare delle loro possibili conseguenze su minori in tenera età, in modo particolare per quanto riguarda gemelli separati l’uno dall’altro, e del fatto che il giudice che ha disposto i provvedimenti, se del caso, ha rilasciato un certificato ai sensi dell’art. 39 del Regolamento n. 2201/2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il Regolamento n. 1347/2000, e la validità dei provvedimenti provvisori contemplati da tale certificato è condizionata alla presentazione di un ricorso di merito entro 30 giorni, è importante che una persona interessata da siffatto procedimento, anche se è stata sentita dal giudice che ha disposto i provvedimenti, possa assumere l’iniziativa di presentare un ricorso avverso la decisione che istituisce i detti provvedimenti provvisori per contestare, dinanzi ad un giudice distinto da quello che ha adottato tali provvedimenti e che si pronunci entro breve, in particolare, la competenza nel merito che si sia assunto il giudice che ha disposto i provvedimenti provvisori o, se dalla decisione non risulta che il giudice sia competente o si sia ritenuto tale nel merito in forza di detto regolamento, il rispetto delle condizioni stabilite dall’art. 20 di tale regolamento, vale a dire: 1) i provvedimenti considerati devono essere urgenti; 2) essi devono essere disposti nei confronti di persone situate o di beni presenti nello Stato membro di tali autorità giurisdizionali, e 3) devono avere natura provvisoria.
Cass. civ. Sez. I, 14 luglio 2010, n. 16549 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di sottrazione internazionale del minore, il giudizio del Tribunale dei minorenni che, in qualità di giudice “naturale” del minore in quanto giudice della residenza abituale del medesimo, ai sensi dell’art. 11 del Regolamento CE 27 novembre 2003 n. 2201, si pronunci sul provvedimento di diniego di ritorno emesso dal giudice dello Stato in cui il minore è stato illecitamente trasferito, si configura come un procedimento di riesame completo ed esaustivo del provvedimento impugnato, direttamente ricorribile per Cassazione attesa l’analogia tra il procedimento sommariamente descritto nell’art. 11 del Regolamento CE 2201 del 2003 e quello regolato dall’art. 7 della legge n. 64 del 1994 con la quale è stata data esecuzione alla Conv. dell’Aja del 25 ottobre 1980.
In tutte le ipotesi in cui il tribunale per i minorenni – investito da domande di ritorno del minore, adito direttamente o per il tramite dell’autorità centrale ai sensi della Convenzione dell’Aja 25 ottobre 1980, ovvero ai sensi del Regolamento n. 2201 del 2003 decida su dette domande, il relativo decreto può essere impugnato immediatamente con ricorso per cassazione.
Cass. civ. Sez. Unite, 25 giugno 2010, n. 15328 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi del Regolamento n. 2201/2003 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, competente a decidere sulle questioni inerenti la separazione dei coniugi è (anche) il giudice dello Stato membro dell’Unione europea di cui l’attore sia cittadino e in cui abbia la residenza abituale almeno per sei mesi immediatamente prima della domanda [art. 3, comma 1, lett. a)].
La nozione di residenza abituale del coniuge, di cui al Regolamento n. 2201/2003 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, fa riferimento non alla residenza formale o anagrafica ma al luogo del concreto e continuativo svolgimento dalla vita personale ed eventualmente lavorativa; nessuna rilevanza gioca al riguardo il fatto che saltuariamente, e anche per un periodo continuativo, il coniuge abbia trascorso periodi presso la residenza all’estero dell’altro coniuge, ivi ricevendo anche corrispondenza e svolgendo attività di studio.
Cass. civ. Sez. I, 19 maggio 2010, n. 12293 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori postula anche per il caso di titolarità congiunta dei diritti di custodia del minore che i diritti ricompresi nel “diritto di affidamento”, e quindi i diritti concernenti la cura della persona del minore e in particolare il diritto di decidere riguardo al suo luogo di residenza, siano effettivamente esercitati al momento del trasferimento del minore o del suo mancato rientro o avrebbero potuto esserlo se non si fossero verificate tali circostanze; si deve dunque verificare se il genitore che lamenta la violazione del suo diritto di affidamento abbia in concreto esercitato tale diritto, anche nel caso di titolarità congiunta; d’altro canto, l’audizione dei minori, già prevista nell’art. 12 della convenzione di New York del 24 novembre 1989 sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che li riguardino ai sensi dell’art. 6 della convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996 sull’esercizio dei diritti dei minori: da ciò deriva che la stessa, pur non essendo imposta nel procedimento per il mancato illecito rientro in ragione del carattere urgente e meramente ripristinatorio della situazione di tale procedura, è ritenuta in genere opportuna, come peraltro specificamente previsto dall’art. 11 comma 2 del Regolamento n. 2201/2003 del 27 novembre 2003, al fine di riuscire a valutare l’eventuale opposizione del minore al ritorno, ai sensi dell’art. 13 comma 2 della convenzione dell’Aja del 1980, salvo che sia esclusa da ragioni di inopportunità, per età o grado di maturità, e a fortiori di danno per quest’ultimo.
Cass. civ. Sez. Unite, 17 febbraio 2010, n. 3680 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della individuazione del Giudice dello Stato membro competente i parametri di cui all’art. 3 del Reg. CE n. 2201 del 2003 sono esclusivi ed alternativi, tale che ognuno di essi consente la individuazione del Giudice che può essere adito e solo se nessun Giudice di uno degli Stati membri abbia giurisdizione in base ai criteri di cui alla norma regolamentare, può procedersi secondo quanto è stabilito dalla normativa interna dello Stato stesso, come sancito dall’art. 7 del citato Regolamento comunitario. L’espresso principio esclude, nella fattispecie, ogni rilievo alle affermazioni del ricorrente in ordine alla pretesa applicazione delle norme del diritto internazionale privato di cui alla legge n. 218 del 1995, in realtà inapplicabile non solo in base al citato art. 7, ma anche in quanto mentre il richiamato art. 31 della legge n. 218 del 1995 non disciplina in alcun modo i poteri dei Giudici dei vari Stati di decidere sulla domanda di separazione, ma solo le norme applicabili ai relativi giudizio, l’art. 32 ha funzione unicamente residuale e non è quindi suscettibile di applicazione, stante la chiara individuazione della normativa da applicare nella concreta fattispecie di separazione di due cittadini di Stati membri dell’U.E. in ordine ai criteri determinativi della giurisdizione espressamente previsti dagli artt. 3, 4 e 5, Reg. CE n. 2201 del 2003.
Ai sensi dell’art. 3 comma 1 lett. a del Regolamento n. 2201/2003 del 27 novembre 2003, sussiste la giurisdizione italiana riguardo a una domanda di separazione giudiziale proposta da una cittadina italiana residente in Italia da più di un anno contro un cittadino belga residente all’estero, dovendosi intendere la residenza della prima come effettiva ovvero riferita al luogo in cui l’interessato ha fissato con carattere di stabilità il centro permanente o abituale dei propri interessi, indipendentemente dalla residenza anagrafica.
Trib. Minorenni Milano Decreto, 5 febbraio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 20 del Regolamento n. 2201/2003 consente al giudice di uno Stato membro di adottare un provvedimento provvisorio e urgente in materia di responsabilità genitoriale inteso a concedere a un genitore l’affidamento di un minore che si trova nel territorio di tale Stato, nel caso in cui il giudice di un altro Stato membro, competente in forza di detto regolamento a conoscere del merito della controversia sull’affidamento, abbia già emesso una decisione che affida provvisoriamente il minore all’altro genitore e tale decisione sia stata dichiarata esecutiva nel territorio del primo Stato membro. Al fine di stabilire le modalità pratiche necessarie ad organizzare l’esercizio del diritto di visita, qualora le stesse non siano state compiutamente previste nella decisione emessa dalle autorità giurisdizionali dello Stato membro competente a conoscere del merito e a condizione che siano rispettati gli elementi essenziali di quella decisione, in Italia possono essere sollecitati i poteri di sorveglianza del giudice tutelare.
Corte giustizia Unione Europea, 23 dicembre 2009, n. 403/09 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 20 del Regolamento n. 2201/2003 del 27 novembre 2003, disposizione che dev’essere interpretata restrittivamente in quanto costituisce un’eccezione al sistema di competenze previsto dal detto regolamento, i giudici di uno Stato membro che non siano competenti a conoscere del merito possono adottare provvedimenti provvisori o cautelari soltanto a condizione che siano cumulativamente soddisfatte tre condizioni, ovvero: che tali provvedimenti siano urgenti, che siano provvisori e che siano adottati nei confronti di persone presenti nello Stato membro del foro. In particolare, nel caso di un provvedimento provvisorio in materia di responsabilità genitoriale, la condizione relativa all’urgenza si correla, al tempo stesso, alla situazione in cui si trova il minore e all’impossibilità pratica di agire dinanzi al giudice competente nel merito.
Nel caso in cui un giudice di uno Stato membro, competente in forza del Regolamento n. 2201/2003 a conoscere del merito della controversia relativa all’affidamento di un minore, abbia già emesso una decisione che affida provvisoriamente un minore a uno dei suoi genitori, dichiarata esecutiva nel territorio di un altro Stato membro, non è consentito a un giudice di questo secondo Stato adottare un provvedimento provvisorio inteso a concedere l’affidamento del minore che si trova nel territorio di tale Stato all’altro genitore, in quanto il mutamento delle circostanze successivamente all’adozione del primo provvedimento, derivante dal fatto che il minore si sia integrato nel secondo Stato membro ove è stato trasferito illecitamente ai sensi dell’art. 2 n. 11 del suddetto regolamento, non implica una situazione di urgenza ai sensi dell’art. 20 del regolamento.
Cass. civ. Sez. Unite, 21 ottobre 2009, n. 22238 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di giurisdizione sui provvedimenti “de potestate”, il trasferimento all’estero o il mancato rientro in Italia di minori figli di genitori separati non è qualificabile come illecita sottrazione all’altro genitore, allorché l’allontanamento avvenga ad opera dell’affidatario, con la conseguenza che in tale ipotesi è inapplicabile la Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 sugli effetti civili della sottrazione internazionale di minori, resa esecutiva in Italia con la legge n. 64 del 1994; tuttavia, qualora la mobilità internazionale e la mutabilità della residenza abituale sia stata convenzionalmente esclusa dai coniugi nelle condizioni di separazione, trova applicazione l’art. 10 del Regolamento CE n. 2201 del 27 novembre 2003, con la conseguenza che competente a decidere della responsabilità genitoriale resta il giudice della pregressa residenza abituale, finché non sia decorso un anno da quando chi aveva diritto a chiedere il ripristino del diritto di visita o il rientro ha avuto conoscenza del cambio di residenza. (Cassa con rinvio, App. Roma, 23/07/2008)
In base all’art. 10 del Regolamento n. 2201/2003/CE del 27 novembre 2003, è competente a decidere della responsabilità genitoriale sui minori il giudice della residenza abituale dei medesimi. Nella fattispecie rimane competente a decidere il giudice pregresso – italiano – sino alla data dell’acquisizione della nuova residenza dei figli, finché non sia decorso un anno da quando il coniuge che aveva diritto di chiedere il ripristino del diritto di visita od il rientro, ha avuto conoscenza del cambio di residenza.
Ai sensi dell’art. 9 del Regolamento n. 2201/2003 del 27 novembre 2003, sussiste la giurisdizione italiana riguardo a una domanda relativa al diritto di visita dei minori proposta entro i tre mesi dal lecito trasferimento dei minori stessi all’estero.
Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre 2009, n. 22093 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 20 par. 2 del Regolamento n. 2201/2003, i provvedimenti provvisori a cautela dei minori adottati, ex art. 20, par. 1, dal giudice di uno Stato membro diverso da quello i cui giudici sono competenti a conoscere del merito della causa cessano di avere efficacia allorché l’autorità giurisdizionale di quest’ultimo Stato membro abbia adottato i provvedimenti appropriati in via definitiva.
Cass. civ. Sez. Unite, 1 ottobre 2009, n. 21053 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della determinazione della giurisdizione in materia di obbligazioni alimentari ai sensi dell’art. 5 n. 2 della convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, la nozione di obbligazione alimentare deve essere interpretata in senso autonomo e ampio, comprensivo degli assegni di mantenimento.
Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 16 luglio 2009, n. 168/08 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di cooperazione giudiziaria civile, la Corte di giustizia europea stabilisce che, in caso di doppia cittadinanza comune, ciascun coniuge abbia il diritto, in applicazione dell’art. 3, n. 1, lett. b), Regolamento n. 2201/2003, di presentare una domanda di divorzio dinanzi al giudice di uno o dell’altro dei due Stati membri di cui egli e l’altro coniuge possiedono la cittadinanza.
Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 2 aprile 2009, n. 523/07 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La nozione di “residenza abituale”, ai sensi dell’articolo 8, n. 1, del Regolamento n. 2201/2003, dev’essere interpretata nel senso che tale residenza corrisponde al luogo che denota una certa integrazione del minore in un ambiente sociale e familiare. A tal fine, si deve in particolare tenere conto della durata, della regolarità, delle condizioni e delle ragioni del soggiorno nel territorio di uno Stato membro e del trasloco della famiglia in tale Stato, della cittadinanza del minore, del luogo e delle condizioni della frequenza scolastica, delle conoscenze linguistiche nonché delle relazioni familiari e sociali del minore nel detto Stato. Compete al giudice nazionale stabilire la residenza abituale del minore, tenendo conto delle peculiari circostanze di fatto che caratterizzano ogni caso di specie.
Ai sensi dell’art. 20 del Regolamento n. 2201/2003, in materia di responsabilità genitoriale, l’adozione da parte di un giudice di uno Stato membro, che non sia competente a conoscere nel merito, di un provvedimento cautelare previsto dalla sua legge nazionale, come la presa in carico di minori, è subordinata al rispetto di tre condizioni cumulative, ovvero: che tale provvedimento sia urgente, che sia adottato rispetto a persone presenti nello Stato membro di cui trattasi e che sia provvisorio.
Un giudice nazionale può disporre un provvedimento cautelare, come la presa in carico di minori, ai sensi dell’articolo 20 del Regolamento n. 2201/2003, qualora siano soddisfatte le seguenti condizioni: – tale provvedimento deve essere urgente; – deve essere adottato rispetto a persone presenti nello Stato membro di cui trattasi, e – deve essere provvisorio. L’attuazione del detto provvedimento nonché il carattere imperativo di quest’ultimo devono essere determinati secondo quanto prescritto dalla normativa nazionale. Dopo l’attuazione del provvedimento cautelare, il giudice nazionale non è obbligato a deferire il caso al giudice competente di un altro Stato membro. Tuttavia, allorché lo rende necessario la tutela dell’interesse superiore del minore, il giudice nazionale che ha attuato provvedimenti provvisori o cautelari deve informarne, direttamente o tramite l’autorità centrale designata ai sensi dell’articolo 53 del Regolamento n. 2201/2003, il giudice competente di un altro Stato membro.
Trib. Belluno, 6 marzo 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di domanda di divorzio proposta da coniugi che non sono cittadini italiani e che hanno contratto matrimonio nel paese d’origine (nella specie, in India) va affermata la giurisdizione del giudice italiano, in forza del Regolamento n. 2201/2003 in materia matrimoniale che trova applicazione a prescindere dalla cittadinanza europea delle parti ed indipendentemente dalle norme sulla giurisdizione previste dal diritto nazionale. Nella fattispecie, la giurisdizione italiana (di carattere esclusivo, ai sensi dell’art. 6 del Regolamento) va affermata a norma dell’art. 3, 1 comma, lett. a), del citato Regolamento, il quale fissa il criterio generale della residenza, e in particolare, nella specifica ipotesi di domanda congiunta, il criterio della “residenza abituale di uno dei coniugi” che sussiste nel caso in esame poiché entrambe le parti risiedono nel territorio italiano.
Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 11 luglio 2008, n. 195/08 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Salvo i casi in cui il procedimento riguardi una decisione certificata in applicazione degli artt. 11, par. 8, e degli artt. 40, 41, 42 del Regolamento n. 2201/2003, qualsiasi parte interessata può chiedere, in base all’art. 21 par. 3 del regolamento, il non riconoscimento di una decisione giudiziaria, anche qualora non sia stata precedentemente presentata un’istanza di riconoscimento di tale decisione.
Corte giustizia Unione Europea, 29 novembre 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il Regolamento n. 2201/2003 trova applicazione anche in caso di cittadinanza extraeuropea dei coniugi in quanto il criterio di collegamento prescelto dal Regolamento nell’attribuzione della competenza giurisdizionale non è quello della cittadinanza, bensì della “residenza abituale” di uno o di entrambi i coniugi in uno Stato membro.
Cass. civ. Sez. Unite, 20 dicembre 2006, n. 27188 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia di responsabilità genitoriale, nella disciplina del regolamento CE del Consiglio 27 novembre 2003, n. 2201/2003, le decisioni sull’esercizio della responsabilità genitoriale, se non si sottraggono al principio generale dell’automatico riconoscimento (restando l’eventuale disconoscimento subordinato ad iniziativa di parte), non possono, solo perché riconosciute, essere poste in esecuzione, vale a dire non possono costituire titolo per un’attività modificativa della situazione in atto, all’uopo occorrendo, oltre alla previa notificazione, la apposita declaratoria di esecutività, su istanza dell’interessato, di cui all’art. 28 del citato regolamento. Ne deriva che la decisione del giudice italiano, la quale modifichi una precedente scelta e sostituisca l’uno all’altro genitore nella qualità di affidatario del figlio minore, non autorizza il nuovo affidatario a prelevare e trasferire il minore stesso dallo Stato membro in cui risieda assieme al precedente affidatario, rendendosi a tal fine necessaria, la dichiarazione di esecutività.

Appendice
Testo del Regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio del 27 novembre 2003 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000
IL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA,
visto il trattato che istituisce la Comunità europea, in particolare l’articolo 61, lettera c), e l’articolo 67, paragrafo 1,
vista la proposta della Commissione,
visto il parere del Parlamento europeo,
visto il parere del Comitato economico e sociale europeo,
considerando quanto segue:
(1) La Comunità europea si prefigge l’obiettivo di istituire uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel quale sia garantita la libera circolazione delle persone. A tal fine, la Comunità adotta, tra l’altro, le misure nel settore della cooperazione giudiziaria in materia civile necessarie al corretto funzionamento del mercato interno.
(2) Il Consiglio europeo di Tampere ha approvato il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudi¬ziarie quale fondamento per la creazione di un autentico spazio giudiziario e ha individuato nel diritto di visita un settore prioritario.
(3) Il regolamento (CE) n. 1347/2000 del Consiglio, del 29 maggio 2000(4), stabilisce norme relative alla com¬petenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e relative alla responsabilità dei genitori sui figli avuti in comune, emesse in occasione di procedimenti matrimoniali. Il contenuto di tale regolamento riprendeva ampiamente la convenzione del 28 maggio 1998 avente il medesimo oggetto.
(4) Il 3 luglio 2000 la Francia ha presentato un’iniziativa in vista dell’adozione del regolamento del Consiglio relativo all’esecuzione reciproca delle decisioni in materia di diritto di visita ai figli minori.
(5) Per garantire parità di condizioni a tutti i minori, il presente regolamento disciplina tutte le decisioni in ma¬teria di responsabilità genitoriale, incluse le misure di protezione del minore, indipendentemente da qualsiasi nesso con un procedimento matrimoniale.
(6) Dato che l’applicazione delle norme sulla responsabilità genitoriale ricorre spesso nei procedimenti matri¬moniali, è più opportuno disporre di uno strumento unico in materia matrimoniale e in materia di responsabilità dei genitori.
(7) Il campo di applicazione del presente regolamento riguarda le materie civili, indipendentemente dal tipo di organo giurisdizionale.
(8) Relativamente alle decisioni di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio, il presente regolamento dovrebbe applicarsi solo allo scioglimento del vincolo matrimoniale e non dovrebbe riguardare que¬stioni quali le cause di divorzio, gli effetti del matrimonio sui rapporti patrimoniali o altri provvedimenti accessori ed eventuali.
(9) Per quanto attiene ai beni del minore, il presente regolamento dovrebbe applicarsi esclusivamente alle misure di protezione del minore, vale a dire i) alla designazione e alle funzioni di una persona o ente aventi la responsabilità di gestire i beni del minore o che lo rappresentino o assistano e ii) alle misure relative all’am¬ministrazione, alla conservazione o all’alienazione dei beni del minore. In tale contesto e a titolo d’esempio, il presente regolamento dovrebbe applicarsi ai casi nei quali i genitori hanno una controversia in merito all’ammi¬nistrazione dei beni del minore. Le misure relative ai beni del minore e non attinenti alla protezione dello stesso dovrebbero continuare ad essere disciplinate dal regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale.
(10) Il presente regolamento non è inteso ad applicarsi a materie come quelle relative alla sicurezza sociale, mi¬sure pubbliche di carattere generale in materia di istruzione e di sanità o decisioni sul diritto d’asilo e nel settore dell’immigrazione. Inoltre, esso non si applica né al diritto di filiazione, che è una questione distinta dall’attribu¬zione della responsabilità genitoriale, né alle altre questioni connesse con la situazione delle persone. Esso non si applica nemmeno ai provvedimenti derivanti da illeciti penali commessi dai minori.
(11) Le obbligazioni alimentari sono escluse dal campo di applicazione del presente regolamento in quanto sono già disciplinate dal regolamento (CE) n. 44/2001. I giudici competenti ai sensi del presente regolamento saranno in genere competenti a statuire in materia di obbligazioni alimentari in applicazione dell’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 44/2001.
(12) È opportuno che le regole di competenza in materia di responsabilità genitoriale accolte nel presente re¬golamento si informino all’interesse superiore del minore e in particolare al criterio di vicinanza. Ciò significa che la competenza giurisdizionale appartiene anzitutto ai giudici dello Stato membro in cui il minore risiede abitualmente, salvo ove si verifichi un cambiamento della sua residenza o in caso di accordo fra i titolari della responsabilità genitoriale.
(13) Nell’interesse del minore, il presente regolamento consente al giudice competente, a titolo eccezionale e in determinate condizioni, di trasferire il caso al giudice di un altro Stato membro se quest’ultimo è più indicato a conoscere del caso. Tuttavia, in questo caso, il giudice adito in seconda istanza non dovrebbe essere autorizzato a trasferire il caso a un terzo giudice.
(14) Gli effetti del presente regolamento non dovrebbero pregiudicare l’applicazione del diritto internazionale pubblico in materia di immunità diplomatiche. Se il giudice competente in applicazione del presente regolamento non può esercitare la propria competenza a causa dell’esistenza di una immunità diplomatica conforme al diritto internazionale, la competenza dovrebbe essere determinata nello Stato membro nel quale la persona interessata non beneficia di immunità, conformemente alla legge di tale Stato.
(15) È opportuno che la notificazione e comunicazione dei documenti introduttivi del giudizio proposto a norma del presente regolamento siano disciplinate dal regolamento (CE) n. 1348/2000 del Consiglio, del 29 maggio 2000, relativo alla notificazione e alla comunicazione negli Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile o commerciale.
(16) Il presente regolamento non osta a che i giudici di uno Stato membro adottino, in casi di urgenza, provve¬dimenti provvisori o cautelari relativi alle persone presenti in quello Stato o ai beni in esso situati.
(17) In caso di trasferimento o mancato rientro illeciti del minore, si dovrebbe ottenerne immediatamente il ritorno e a tal fine dovrebbe continuare ad essere applicata la convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980, quale integrata dalle disposizioni del presente regolamento, in particolare l’articolo 11. I giudici dello Stato membro in cui il minore è stato trasferito o trattenuto illecitamente dovrebbero avere la possibilità di opporsi al suo ri¬entro in casi precisi, debitamente motivati. Tuttavia, una simile decisione dovrebbe poter essere sostituita da una decisione successiva emessa dai giudici dello Stato membro di residenza abituale del minore prima del suo trasferimento illecito o mancato rientro. Se la decisione implica il rientro del minore, esso dovrebbe avvenire senza che sia necessario ricorrere a procedimenti per il riconoscimento e l’esecuzione della decisione nello Stato membro in cui il minore è trattenuto.
(18) Qualora venga deciso il non rientro in virtù dell’articolo 13, della convenzione dell’Aja del 1980, il giudice dovrebbe informarne il giudice competente o l’autorità centrale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale prima del suo trasferimento illecito o mancato rientro. Detto giudice, se non è ancora stato adito, o l’autorità centrale, dovrebbe inviare una notificazione alle parti. Questo obbligo non dovrebbe ostare a che l’autorità centrale invii anch’essa una notificazione alle autorità pubbliche interessate conformemente alla legge nazionale.
(19) L’audizione del minore è importante ai fini dell’applicazione del presente regolamento, senza che detto strumento miri a modificare le procedure nazionali applicabili in materia.
(20) L’audizione del minore in un altro Stato membro può essere effettuata in base alle modalità previste dal regolamento (CE) n. 1206/2001 del Consiglio, del 28 maggio 2001, relativo alla cooperazione fra le autorità giudiziarie degli Stati membri nel settore dell’assunzione delle prove in materia civile o commerciale.
(21) Il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni rese in uno Stato membro dovrebbero fondarsi sul principio della fiducia reciproca e i motivi di non riconoscimento dovrebbero essere limitati al minimo indispensabile.
(22) Gli atti pubblici e gli accordi tra le parti aventi efficacia esecutiva in uno Stato membro dovrebbero essere equiparati a “decisioni” ai fini dell’applicazione delle norme sul riconoscimento e l’esecuzione.
(23) Il Consiglio europeo di Tampere ha affermato nelle sue conclusioni (punto 34) che le decisioni pronunciate nelle controversie familiari dovrebbero essere “automaticamente riconosciute in tutta l’Unione senza che siano necessarie procedure intermedie o che sussistano motivi per rifiutarne l’esecuzione”. Pertanto le decisioni in materia di diritto di visita o di ritorno, che siano state certificate nello Stato membro d’origine conformemente alle disposizioni del presente regolamento, dovrebbero essere riconosciute e hanno efficacia esecutiva in tutti gli altri Stati membri senza che sia richiesto qualsiasi altro procedimento. Le modalità relative all’esecuzione di tali decisioni sono tuttora disciplinate dalla legge nazionale.
(24) Il certificato rilasciato allo scopo di facilitare l’esecuzione della decisione non dovrebbe essere impugnabile. Non dovrebbe poter dare luogo a una domanda di rettifica se non in caso di errore materiale, ossia se il certifi¬cato non rispecchia correttamente il contenuto della decisione.
(25) È opportuno che le autorità centrali collaborino fra loro, sia in generale che per casi specifici, anche per favo¬rire la risoluzione amichevole delle controversie familiari in materia di responsabilità genitoriale. A questo scopo è necessario che le autorità centrali si avvalgano della possibilità di partecipare alla rete giudiziaria europea in materia civile e commerciale, istituita con decisione 2001/470/CE del Consiglio, del 28 maggio 2001, relativa all’istituzione di una rete giudiziaria europea in materia civile e commerciale.
(26) La Commissione dovrebbe rendere pubblici e aggiornare gli elenchi relativi ai giudici e ai mezzi di impugna¬zione comunicati dagli Stati membri.
(27) Le misure necessarie all’attuazione del presente regolamento sono adottate secondo la decisione 1999/468/ CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, recante modalità per l’esercizio delle competenze di esecuzione conferite alla Commissione.
(28) Il presente regolamento sostituisce il regolamento (CE) n. 1347/2000 che è pertanto abrogato.
(29) Ai fini del corretto funzionamento del presente regolamento, è opportuno che la Commissione ne esamini l’applicazione per proporre, se del caso, le modifiche necessarie.
(30) A norma dell’articolo 3 del protocollo sulla posizione del Regno Unito e dell’Irlanda allegato al trattato sull’Unione europea e al trattato che istituisce la Comunità europea, questi Stati hanno notificato che intendono partecipare all’adozione ed applicazione del presente regolamento.
(31) La Danimarca, conformemente agli articoli 1 e 2 del protocollo sulla posizione della Danimarca allegato al trattato sull’Unione europea e al trattato che istituisce la Comunità europea, non partecipa all’adozione del pre¬sente regolamento, e non ne è pertanto vincolata né è soggetta alla sua applicazione.
(32) Poiché gli obiettivi del presente regolamento non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque essere realizzati meglio a livello comunitario, la comunità può intervenire, in base al principio di sussidiarietà sancito dall’articolo 5 del trattato. Il presente regolamento si limita a quanto necessario per conseguire tali obiettivi in ottemperanza al principio di proporzionalità enunciato nello stesso articolo.
(33) Il presente regolamento riconosce i diritti fondamentali e osserva i principi sanciti in particolare dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In particolare, mira a garantire il pieno rispetto dei diritti fonda¬mentali del bambino quali riconosciuti dall’articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
HA ADOTTATO IL PRESENTE REGOLAMENTO:
CAPO I
AMBITO D’APPLICAZIONE E DEFINIZIONI
Articolo 1
Ambito d’applicazione
1. Il presente regolamento si applica, indipendentemente dal tipo di autorità giurisdizionale, alle materie civili relative:
a) al divorzio, alla separazione personale e all’annullamento del matrimonio;
REGOLAMENTO EUROPEO SULLE CAUSE MATRIMONIALI E RESPONSABILITÀ GENITORIALEGianfranco Dosi Lessico di diritto di famiglia 26
b) all’attribuzione, all’esercizio, alla delega, alla revoca totale o parziale della responsabilità genitoriale.
2. Le materie di cui al paragrafo 1, lettera b), riguardano in particolare:
a) il diritto di affidamento e il diritto di visita;
b) la tutela, la curatela ed altri istituti analoghi;
c) la designazione e le funzioni di qualsiasi persona o ente aventi la responsabilità della persona o dei beni del minore o che lo rappresentino o assistano;
d) la collocazione del minore in una famiglia affidataria o in un istituto;
e) le misure di protezione del minore legate all’amministrazione, alla conservazione o all’alienazione dei beni del minore.
3. Il presente regolamento non si applica:
a) alla determinazione o all’impugnazione della filiazione;
b) alla decisione relativa all’adozione, alle misure che la preparano o all’annullamento o alla revoca dell’adozione;
c) ai nomi e ai cognomi del minore;
d) all’emancipazione;
e) alle obbligazioni alimentari;
f) ai trust e alle successioni;
g) ai provvedimenti derivanti da illeciti penali commessi da minori.
Articolo 2
Definizioni
Ai fini del presente regolamento valgono le seguenti definizioni:
1) “autorità giurisdizionale”: tutte le autorità degli Stati membri competenti per le materie rientranti nel campo di applicazione del presente regolamento a norma dell’articolo 1;
2) “giudice”: designa il giudice o il titolare di competenze equivalenti a quelle del giudice nelle materie che rien¬trano nel campo di applicazione del presente regolamento;
3) “Stato membro”: tutti gli Stati membri ad eccezione della Danimarca;
4) “decisione”: una decisione di divorzio, separazione personale dei coniugi o annullamento del matrimonio emessa dal giudice di uno Stato membro, nonché una decisione relativa alla responsabilità genitoriale, a prescin¬dere dalla denominazione usata per la decisione, quale ad esempio decreto, sentenza o ordinanza;
5) “Stato membro d’origine”: lo Stato membro in cui è stata resa la decisione da eseguire;
6) “Stato membro dell’esecuzione”: lo Stato membro in cui viene chiesta l’esecuzione della decisione;
7) “responsabilità genitoriale”: i diritti e doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore. Il termine comprende, in particolare, il diritto di affidamento e il diritto di visita;
8) “titolare della responsabilità genitoriale”: qualsiasi persona che eserciti la responsabilità di genitore su un minore;
9) “diritto di affidamento”: i diritti e doveri concernenti la cura della persona di un minore, in particolare il diritto di intervenire nella decisione riguardo al suo luogo di residenza;
10) “diritto di visita”: in particolare il diritto di condurre il minore in un luogo diverso dalla sua residenza abituale per un periodo limitato di tempo;
11) “trasferimento illecito o mancato ritorno del minore”: il trasferimento o il mancato rientro di un minore:
a) quando avviene in violazione dei diritti di affidamento derivanti da una decisione, dalla legge o da un accordo vigente in base alla legislazione dello Stato membro nel quale il minore aveva la sua residenza abituale imme¬diatamente prima del suo trasferimento o del suo mancato rientro
e
b) se il diritto di affidamento era effettivamente esercitato, individualmente o congiuntamente, al momento del trasferimento del minore o del suo mancato rientro, o lo sarebbe stato se non fossero sopravvenuti tali eventi. L’affidamento si considera esercitato congiuntamente da entrambi i genitori quanto uno dei titolari della respon¬sabilità genitoriale non può, conformemente ad una decisione o al diritto nazionale, decidere il luogo di residenza del minore senza il consenso dell’altro titolare della responsabilità genitoriale.
CAPO II
COMPETENZA
SEZIONE 1
Divorzio, separazione personale e annullamento del matrimonio
Articolo 3
Competenza generale
1. Sono competenti a decidere sulle questioni inerenti al divorzio, alla separazione personale dei coniugi e all’an¬nullamento del matrimonio le autorità giurisdizionali dello Stato membro:
a) nel cui territorio si trova:
– la residenza abituale dei coniugi, o
– l’ultima residenza abituale dei coniugi se uno di essi vi risiede ancora, o
– la residenza abituale del convenuto, o
– in caso di domanda congiunta, la residenza abituale di uno dei coniugi, o
– la residenza abituale dell’attore se questi vi ha risieduto almeno per un anno immediatamente prima della domanda, o
– la residenza abituale dell’attore se questi vi ha risieduto almeno per sei mesi immediatamente prima della domanda ed è cittadino dello Stato membro stesso o, nel caso del Regno Unito e dell’Irlanda, ha ivi il proprio “domicile”;
b) di cui i due coniugi sono cittadini o, nel caso del Regno Unito e dell’Irlanda, del “domicile” di entrambi i coniugi.
2. Ai fini del presente regolamento la nozione di “domicile” cui è fatto riferimento è quella utilizzata negli ordi¬namenti giuridici del Regno Unito e dell’Irlanda.
Articolo 4
Domanda riconvenzionale
L’autorità giurisdizionale davanti alla quale pende un procedimento in base all’articolo 3 è competente anche per esaminare la domanda riconvenzionale in quanto essa rientri nel campo d’applicazione del presente rego¬lamento.
Articolo 5
Conversione della separazione personale in divorzio
Fatto salvo l’articolo 3, l’autorità giurisdizionale dello Stato membro che ha reso la decisione sulla separazione personale è altresì competente per convertirla in una decisione di divorzio, qualora ciò sia previsto dalla legisla¬zione di detto Stato.
Articolo 6
Carattere esclusivo della competenza giurisdizionale di cui agli articoli 3, 4 e 5
Il coniuge che:
a) risiede abitualmente nel territorio di uno Stato membro o
b) ha la cittadinanza di uno Stato membro o, nel caso del Regno Unito e dell’Irlanda, ha il proprio “domicile” nel territorio di uno di questi Stati membri
può essere convenuto in giudizio davanti alle autorità giurisdizionali di un altro Stato membro soltanto in forza degli articoli 3, 4 e 5.
Articolo 7
Competenza residua
1. Qualora nessun giudice di uno Stato membro sia competente ai sensi degli articoli 3, 4 e 5, la competenza, in ciascuno Stato membro, è determinata dalla legge di tale Stato.
2. Il cittadino di uno Stato membro che ha la residenza abituale nel territorio di un altro Stato membro può, al pari dei cittadini di quest’ultimo, invocare le norme sulla competenza qui in vigore contro un convenuto che non ha la residenza abituale nel territorio di uno Stato membro né ha la cittadinanza di uno Stato membro o che, nel caso del Regno Unito e dell’Irlanda, non ha il proprio “domicile” nel territorio di uno di questi Stati membri.
SEZIONE 2
Responsabilità genitoriale
Articolo 8
Competenza generale
1. Le autorità giurisdizionali di uno Stato membro sono competenti per le domande relative alla responsabilità genitoriale su un minore, se il minore risiede abitualmente in quello Stato membro alla data in cui sono aditi.
2. Il paragrafo 1 si applica fatte salve le disposizioni degli articoli 9, 10 e 12.
Articolo 9
Ultrattività della competenza della precedente residenza abituale del minore
1. In caso di lecito trasferimento della residenza di un minore da uno Stato membro ad un altro che diventa la sua residenza abituale, la competenza delle autorità giurisdizionali dello Stato membro della precedente residen¬za abituale del minore permane in deroga all’articolo 8 per un periodo di 3 mesi dal trasferimento, per modificare una decisione sul diritto di visita resa in detto Stato membro prima del trasferimento del minore, quando il tito¬lare del diritto di visita in virtù della decisione sul diritto di visita continua a risiedere abitualmente nello Stato membro della precedente residenza abituale del minore.
2. Il paragrafo 1 non si applica se il titolare del diritto di visita di cui al paragrafo 1, ha accettato la competenza delle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui risiede abitualmente il minore partecipando ai procedi¬menti dinanzi ad esse senza contestarla.
Articolo 10
Competenza nei casi di sottrazione di minori
In caso di trasferimento illecito o mancato rientro del minore, l’autorità giurisdizionale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima del trasferimento o del mancato rientro conserva la competenza giurisdizionale fino a che il minore non abbia acquisito la residenza in un altro Stato membro e:
a) se ciascuna persona, istituzione o altro ente titolare del diritto di affidamento ha accettato il trasferimento o mancato rientro;
o
b) se il minore ha soggiornato in quell’altro Stato membro almeno per un anno da quando la persona, istituzione o altro ente titolare del diritto di affidamento ha avuto conoscenza, o avrebbe dovuto avere conoscenza, del luogo in cui il minore si trovava e il minore si è integrato nel nuovo ambiente e se ricorre una qualsiasi delle seguenti condizioni:
i) entro un anno da quando il titolare del diritto di affidamento ha avuto conoscenza, o avrebbe dovuto avere conoscenza, del luogo in cui il minore si trovava non è stata presentata alcuna domanda di ritorno del minore dinanzi alle autorità competenti dello Stato membro nel quale il minore è stato trasferito o dal quale non ha fatto rientro;
ii) una domanda di ritorno presentata dal titolare del diritto di affidamento è stata ritirata e non è stata presen¬tata una nuova domanda entro il termine di cui al punto i);
iii) un procedimento dinanzi all’autorità giurisdizionale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima del trasferimento o del mancato rientro è stato definito a norma dell’articolo 11, paragrafo 7;
iv) l’autorità giurisdizionale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima dell’illecito trasferimento o del mancato ritorno ha emanato una decisione di affidamento che non prevede il ritorno del minore.
Articolo 11
Ritorno del minore
1. Quando una persona, istituzione o altro ente titolare del diritto di affidamento adisce le autorità competenti di uno Stato membro affinché emanino un provvedimento in base alla convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori (in seguito “la convenzione dell’Aja del 1980”) per ottenere il ritorno di un minore che è stato illecitamente trasferito o trattenuto in uno Stato membro diverso dallo Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima dell’illecito trasferimento o mancato ritorno, si applicano i paragrafi da 2 a 8.
2. Nell’applicare gli articoli 12 e 13 della convenzione dell’Aja del 1980, si assicurerà che il minore possa esse¬re ascoltato durante il procedimento se ciò non appaia inopportuno in ragione della sua età o del suo grado di maturità.
3. Un’autorità giurisdizionale alla quale è stata presentata la domanda per il ritorno del minore di cui al para¬grafo 1 procede alla rapida trattazione della domanda stessa, utilizzando le procedure più rapide previste nella legislazione nazionale.
Fatto salvo il primo comma l’autorità giurisdizionale, salvo nel caso in cui circostanze eccezionali non lo consen¬tano, emana il provvedimento al più tardi sei settimane dopo aver ricevuto la domanda.
4. Un’autorità giurisdizionale non può rifiutare di ordinare il ritorno di un minore in base all’articolo 13, lettera b), della convenzione dell’Aja del 1980 qualora sia dimostrato che sono previste misure adeguate per assicurare la protezione del minore dopo il suo ritorno.
5. Un’autorità giurisdizionale non può rifiutare di disporre il ritorno del minore se la persona che lo ha chiesto non ha avuto la possibilità di essere ascoltata.
6. Se un’autorità giurisdizionale ha emanato un provvedimento contrario al ritorno di un minore in base all’ar¬ticolo 13 della convenzione dell’Aja del 1980, l’autorità giurisdizionale deve trasmettere direttamente ovvero tramite la sua autorità centrale una copia del provvedimento giudiziario contrario al ritorno e dei pertinenti do¬cumenti, in particolare una trascrizione delle audizioni dinanzi al giudice, all’autorità giurisdizionale competente o all’autorità centrale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima dell’illecito trasferimento o mancato ritorno, come stabilito dalla legislazione nazionale. L’autorità giurisdizionale riceve tutti i documenti indicati entro un mese dall’emanazione del provvedimento contro il ritorno.
7. A meno che l’autorità giurisdizionale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale imme¬diatamente prima dell’illecito trasferimento o mancato ritorno non sia già stato adita da una delle parti, l’autorità giurisdizionale o l’autorità centrale che riceve le informazioni di cui al paragrafo 6 deve informarne le parti e in¬vitarle a presentare all’autorità giurisdizionale le proprie conclusioni, conformemente alla legislazione nazionale, entro tre mesi dalla data della notifica, affinché quest’ultima esamini la questione dell’affidamento del minore.
Fatte salve le norme sulla competenza di cui al presente regolamento, in caso di mancato ricevimento delle conclusioni entro il termine stabilito, l’autorità giurisdizionale archivia il procedimento.
8. Nonostante l’emanazione di un provvedimento contro il ritorno in base all’articolo 13 della convenzione dell’A¬ja del 1980, una successiva decisione che prescrive il ritorno del minore emanata da un giudice competente ai sensi del presente regolamento è esecutiva conformemente alla sezione 4 del capo III, allo scopo di assicurare il ritorno del minore.
Articolo 12
Proroga della competenza
1. Le autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui viene esercitata, ai sensi dell’articolo 5, la competenza a decidere sulle domande di divorzio, separazione personale dei coniugi o annullamento del matrimonio sono competenti per le domande relative alla responsabilità dei genitori che si ricollegano a tali domande se:
a) almeno uno dei coniugi esercita la responsabilità genitoriale sul figlio;
e
b) la competenza giurisdizionale di tali autorità giurisdizionali è stata accettata espressamente o in qualsiasi altro modo univoco dai coniugi e dai titolari della responsabilità genitoriale alla data in cui le autorità giurisdizionali sono adite, ed è conforme all’interesse superiore del minore.
2. La competenza esercitata conformemente al paragrafo 1 cessa non appena:
a) la decisione che accoglie o respinge la domanda di divorzio, separazione personale o annullamento del ma¬trimonio sia passata in giudicato;
o
b) nei casi in cui il procedimento relativo alla responsabilità genitoriale è ancora pendente alla data di cui alla lettera a), la decisione relativa a tale procedimento sia passata in giudicato;
o
c) il procedimento di cui alle lettere a) e b) sia terminato per un’altra ragione.
3. Le autorità giurisdizionali di uno Stato membro sono competenti in materia di responsabilità dei genitori nei procedimenti diversi da quelli di cui al primo paragrafo se:
a) il minore ha un legame sostanziale con quello Stato membro, in particolare perché uno dei titolari della re¬sponsabilità genitoriale vi risiede abitualmente o perché è egli stesso cittadino di quello Stato
e
b) la loro competenza è stata accettata espressamente o in qualsiasi altro modo univoco da tutte le parti al pro¬cedimento alla data in cui le autorità giurisdizionali sono adite ed è conforme all’interesse superiore del minore.
4. Se il minore ha la residenza abituale nel territorio di uno Stato che non è parte della convenzione dell’Aja, del 19 ottobre 1996, concernente la competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la coo¬perazione in materia di potestà genitoriale e di misure di protezione dei minori, si presume che la competenza fondata sul presente articolo sia nell’interesse del minore, in particolare quando un procedimento si rivela im¬possibile nel paese terzo interessato.
Articolo 13
Competenza fondata sulla presenza del minore
1. Qualora non sia possibile stabilire la residenza abituale del minore né determinare la competenza ai sensi dell’articolo 12, sono competenti i giudici dello Stato membro in cui si trova il minore.
2. Il paragrafo 1 si applica anche ai minori rifugiati o ai minori sfollati a livello internazionale a causa di disordini nei loro paesi.
Articolo 14
Competenza residua
Qualora nessuna autorità giurisdizionale di uno Stato membro sia competente ai sensi degli articoli da 8 a 13 la competenza, in ciascuno Stato membro, è determinata dalla legge di tale Stato.
Articolo 15
Trasferimento delle competenze a una autorità giurisdizionale più adatta a trattare il caso
1. In via eccezionale le autorità giurisdizionali di uno Stato membro competenti a conoscere del merito, qualora ritengano che l’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore abbia un legame parti¬colare sia più adatto a trattare il caso o una sua parte specifica e ove ciò corrisponda all’interesse superiore del minore, possono:
a) interrompere l’esame del caso o della parte in questione e invitare le parti a presentare domanda all’autorità giurisdizionale dell’altro Stato membro conformemente al paragrafo 4 oppure
b) chiedere all’autorità giurisdizionale dell’altro Stato membro di assumere la competenza ai sensi del paragrafo 5.
2. Il paragrafo 1 è applicabile:
a) su richiesta di una parte o
b) su iniziativa dell’autorità giurisdizionale o
c) su iniziativa di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con cui il minore abbia un legame partico¬lare, conformemente al paragrafo 3.
Il trasferimento della causa può tuttavia essere effettuato su iniziativa dell’autorità giurisdizionale o su richiesta di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro soltanto se esso è accettato da almeno una delle parti.
3. Si ritiene che il minore abbia un legame particolare con uno Stato membro, ai sensi del paragrafo 1, se tale Stato membro
a) è divenuto la residenza abituale del minore dopo che l’autorità giurisdizionale di cui al paragrafo 1 è stata adita; o
b) è la precedente residenza abituale del minore; o
c) è il paese di cui il minore è cittadino; o
d) è la residenza abituale di uno dei titolari della responsabilità genitoriale; o
e) la causa riguarda le misure di protezione del minore legate all’amministrazione, alla conservazione o all’alie¬nazione dei beni del minore situati sul territorio di questo Stato membro.
4. L’autorità giurisdizionale dello Stato membro competente a conoscere del merito fissa un termine entro il quale le autorità giurisdizionali dell’altro Stato membro devono essere adite conformemente al paragrafo 1.
Decorso inutilmente tale termine, la competenza continua ad essere esercitata dall’autorità giurisdizionale pre¬ventivamente adita ai sensi degli articoli da 8 a 14.
5. Le autorità giurisdizionali di quest’altro Stato membro possono accettare la competenza, ove ciò corrisponda, a motivo delle particolari circostanze del caso, all’interesse superiore del minore, entro 6 settimane dal momento in cui sono adite in base al paragrafo 1, lettere a) o b). In questo caso, l’autorità giurisdizionale preventivamente adita declina la propria competenza. In caso contrario, la competenza continua ad essere esercitata dall’autorità giurisdizionale preventivamente adito ai sensi degli articoli da 8 a 14.
6. Le autorità giurisdizionali collaborano, ai fini del presente articolo, direttamente ovvero attraverso le autorità centrali nominate a norma dell’articolo 53.
SEZIONE 3
Disposizioni comuni
Articolo 16
Adizione di un’autorità giurisdizionale
1. L’autorità giurisdizionale si considera adita:
a) alla data in cui la domanda giudiziale o un atto equivalente è depositato presso l’autorità giurisdizionale, purché successivamente l’attore non abbia omesso di prendere tutte le misure cui era tenuto affinché fosse effettuata la notificazione al convenuto;
o
b) se l’atto deve essere notificato prima di essere depositato presso l’autorità giurisdizionale, alla data in cui l’autorità competente ai fini della notificazione lo riceve, purché successivamente l’attore non abbia omesso di prendere tutte le misure cui era tenuto affinché l’atto fosse depositato presso l’autorità giurisdizionale.
Articolo 17
Verifica della competenza
L’autorità giurisdizionale di uno Stato membro, investita di una controversia per la quale il presente regolamento non prevede la sua competenza e per la quale, in base al presente regolamento, è competente un’autorità giu¬risdizionale di un altro Stato membro, dichiara d’ufficio la propria incompetenza.
Articolo 18
Esame della procedibilità
1. Se la persona che ha la residenza abituale in uno Stato diverso dallo Stato membro in cui l’azione è stata proposta non compare, l’autorità giurisdizionale competente è tenuta a sospendere il procedimento fin quando non si sarà accertato che al convenuto è stata data la possibilità di ricevere la domanda giudiziale o un atto equivalente in tempo utile perché questi possa presentare le proprie difese, ovvero che è stato fatto tutto il possibile a tal fine.
2. In luogo delle disposizioni del paragrafo 1 del presente articolo, si applica l’articolo 19 del regolamento (CE) n. 1348/2000 qualora sia stato necessario trasmettere la domanda giudiziale o un atto equivalente da uno Stato membro a un altro a norma di tale regolamento.
3. Ove non si applichino le disposizioni del regolamento (CE) n. 1348/2000, si applica l’articolo 15 della conven¬zione dell’Aja del 15 novembre 1965 relativa alla notificazione e alla comunicazione all’estero di atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile o commerciale, qualora sia stato necessario trasmettere la domanda giudiziale o un atto equivalente all’estero a norma di tale convenzione.
Articolo 19
Litispendenza e connessione
1. Qualora dinanzi a autorità giurisdizionali di Stati membri diverse e tra le stesse parti siano state proposte domande di divorzio, separazione personale dei coniugi e annullamento del matrimonio, l’autorità giurisdizionale successivamente adita sospende d’ufficio il procedimento finché non sia stata accertata la competenza dall’au¬torità giurisdizionale preventivamente adita.
2. Qualora dinanzi a autorità giurisdizionali di Stati membri diversi siano state proposte domande sulla responsa¬bilità genitoriale su uno stesso minore, aventi il medesimo oggetto e il medesimo titolo, l’autorità giurisdizionale successivamente adita sospende d’ufficio il procedimento finché non sia stata accertata la competenza dell’au¬torità giurisdizionale preventivamente adita.
3. Quando la competenza dell’autorità giurisdizionale preventivamente adita è stata accertata, l’autorità giuri¬sdizionale successivamente adita dichiara la propria incompetenza a favore dell’autorità giurisdizionale preven¬tivamente adita.
In tal caso la parte che ha proposto la domanda davanti all’autorità giurisdizionale successivamente adita può promuovere l’azione dinanzi all’autorità giurisdizionale preventivamente adita.
Articolo 20
Provvedimenti provvisori e cautelari
1. In casi d’urgenza, le disposizioni del presente regolamento non ostano a che le autorità giurisdizionali di uno Stato membro adottino i provvedimenti provvisori o cautelari previsti dalla legge interna, relativamente alle per¬sone presenti in quello Stato o ai beni in esso situati, anche se, a norma del presente regolamento, è competente a conoscere nel merito l’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro.
2. I provvedimenti adottati in esecuzione del paragrafo 1 cessano di essere applicabili quando l’autorità giurisdi¬zionale dello Stato membro competente in virtù del presente regolamento a conoscere del merito abbia adottato i provvedimenti ritenuti appropriati.
CAPO III
RICONOSCIMENTO ED ESECUZIONE
SEZIONE 1
Riconoscimento
Articolo 21
Riconoscimento delle decisioni
1. Le decisioni pronunciate in uno Stato membro sono riconosciute negli altri Stati membri senza che sia neces¬sario il ricorso ad alcun procedimento.
2. In particolare, e fatto salvo il paragrafo 3, non è necessario alcun procedimento per l’aggiornamento delle iscrizioni nello stato civile di uno Stato membro a seguito di una decisione di divorzio, separazione personale dei coniugi o annullamento del matrimonio pronunciata in un altro Stato membro, contro la quale non sia più possibile proporre impugnazione secondo la legge di detto Stato membro.
3. Fatta salva la sezione 4 del presente capo, ogni parte interessata può far dichiarare, secondo il procedimento di cui alla sezione 2, che la decisione deve essere o non può essere riconosciuta.
La competenza territoriale degli organi giurisdizionali indicati nell’elenco, comunicato da ciascuno Stato membro alla Commissione conformemente all’articolo 68, è determinata dal diritto interno dello Stato membro nel quale è proposta l’istanza di riconoscimento o di non riconoscimento.
4. Se il riconoscimento di una decisione è richiesto in via incidentale dinanzi ad una autorità giurisdizionale di uno Stato membro, questa può decidere al riguardo.
Articolo 22
Motivi di non riconoscimento delle decisioni di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio
La decisione di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio non è riconosciuta nei casi se¬guenti:
a) se il riconoscimento è manifestamente contrario all’ordine pubblico dello Stato membro richiesto;
b) quando è resa in contumacia, ovvero la domanda giudiziale o un atto equivalente non è stato notificato o comunicato al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale da poter presentare le proprie difese, salvo che sia stato accertato che il convenuto ha accettato inequivocabilmente la decisione;
c) se la decisione è incompatibile con una decisione resa in un procedimento tra le medesime parti nello Stato membro richiesto; o
d) se la decisione è incompatibile con una decisione anteriore avente le stesse parti, resa in un altro Stato mem¬bro o in un paese terzo, purché la decisione anteriore soddisfi le condizioni prescritte per il riconoscimento nello Stato membro richiesto.
Articolo 23
Motivi di non riconoscimento delle decisioni relative alla responsabilità genitoriale
Le decisioni relative alla responsabilità genitoriale non sono riconosciute nei casi seguenti:
a) se, tenuto conto dell’interesse superiore del minore, il riconoscimento è manifestamente contrario all’ordine pubblico dello Stato membro richiesto;
b) se, salvo i casi d’urgenza, la decisione è stata resa senza che il minore abbia avuto la possibilità di essere ascoltato, in violazione dei principi fondamentali di procedura dello Stato membro richiesto;
c) quando è resa in contumacia, ovvero la domanda giudiziale o un atto equivalente non è stato notificato o comunicato al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale da poter presentare le proprie difese, salvo che sia stato accertato che il convenuto ha accettato inequivocabilmente la decisione;
d) su richiesta di colui che ritiene che la decisione sia lesiva della propria responsabilità genitoriale, se è stata emessa senza dargli la possibilità di essere ascoltato;
e) se la decisione è incompatibile con una decisione successiva sulla responsabilità genitoriale emessa nello Stato membro richiesto;
f) se la decisione è incompatibile con una decisione successiva sulla responsabilità genitoriale emessa in un altro Stato membro o nel paese terzo in cui il minore risieda, la quale soddisfi le condizioni prescritte per il riconosci¬mento nello Stato membro richiesto;
o
g) se la procedura prevista dall’articolo 56 non è stata rispettata.
Articolo 24
Divieto di riesame della competenza giurisdizionale dell’autorità giurisdizionale d’origine
Non si può procedere al riesame della competenza giurisdizionale del giudice dello Stato membro d’origine. Il criterio dell’ordine pubblico di cui agli articoli 22, lettera a), e 23, lettera a), non può essere applicato alle norme sulla competenza di cui agli articoli da 3 a 14.
Articolo 25
Divergenze fra le leggi
Il riconoscimento di una decisione non può essere negato perché la legge dello Stato membro richiesto non pre¬vede per i medesimi fatti il divorzio, la separazione personale o l’annullamento del matrimonio.
Articolo 26
Divieto di riesame del merito
In nessun caso la decisione può formare oggetto di un riesame del merito.
Articolo 27
Sospensione del procedimento
1. L’autorità giurisdizionale di uno Stato membro dinanzi alla quale è richiesto il riconoscimento di una decisione pronunciata in un altro Stato membro può sospendere il procedimento se la decisione è stata impugnata con un mezzo ordinario.
2. L’autorità giurisdizionale di uno Stato membro dinanzi alla quale è richiesto il riconoscimento di una decisione emessa in Irlanda o nel Regno Unito e la cui esecuzione è sospesa nello Stato membro d’origine per la presen¬tazione di un ricorso può sospendere il procedimento.
SEZIONE 2
Istanza per la dichiarazione di esecutività
Articolo 28
Decisioni esecutive
1. Le decisioni relative all’esercizio della responsabilità genitoriale su un minore, emesse ed esecutive in un determinato Stato membro, sono eseguite in un altro Stato membro dopo esservi state dichiarate esecutive su istanza della parte interessata, purché siano state notificate.
2. Tuttavia la decisione è eseguita in una delle tre parti del Regno Unito (Inghilterra e Galles, Scozia e Irlanda del Nord) soltanto dopo esservi stata registrata per esecuzione, su istanza di una parte interessata.
Articolo 29
Giudici territorialmente competenti
1. L’istanza per la dichiarazione di esecutività è proposta ai giudici che figurano nell’elenco comunicato da cia¬scuno Stato membro alla Commissione conformemente all’articolo 68.
2. La competenza territoriale è determinata dalla residenza abituale della parte contro cui è chiesta l’esecuzione oppure dalla residenza abituale del minore cui l’istanza si riferisce.
Quando nessuno dei luoghi di cui al primo comma si trova nello Stato membro dell’esecuzione, la competenza territoriale è determinata dal luogo dell’esecuzione.
Articolo 30
Procedimento
1. Le modalità del deposito dell’istanza sono determinate in base alla legge dello Stato membro dell’esecuzione.
2. L’istante elegge il proprio domicilio nella circoscrizione dell’autorità giurisdizionale adita. Tuttavia, se la legge dello Stato membro dell’esecuzione non prevede l’elezione del domicilio, l’istante designa un procuratore.
3. All’istanza vengono allegati i documenti di cui agli articoli 37 e 39.
Articolo 31
Decisione dell’autorità giurisdizionale
1. L’autorità giurisdizionale adita decide senza indugio. In questa fase del procedimento, né la parte contro la quale l’esecuzione viene chiesta né il minore possono presentare osservazioni.
2. L’istanza può essere respinta solo per uno dei motivi di cui agli articoli 22, 23 e 24.
3. In nessun caso la decisione può formare oggetto di un riesame del merito.
Articolo 32
Comunicazione della decisione
La decisione resa su istanza di parte è senza indugio portata a conoscenza del richiedente, a cura del cancelliere, secondo le modalità previste dalla legge dello Stato membro dell’esecuzione.
Articolo 33
Opposizione
1. Ciascuna delle parti può proporre opposizione contro la decisione resa sull’istanza intesa a ottenere una di¬chiarazione di esecutività.
2. L’opposizione è proposta davanti all’autorità giurisdizionale di cui all’elenco comunicato da ciascuno Stato membro alla Commissione conformemente all’articolo 68.
3. Il ricorso è esaminato secondo le norme sul procedimento in contraddittorio.
4. Se l’opposizione è proposta dalla parte che ha richiesto la dichiarazione di esecutività, la parte contro cui l’e¬secuzione viene fatta valere è chiamata a comparire davanti all’autorità giurisdizionale dell’opposizione. In caso di contumacia, si applicano le disposizioni dell’articolo 18.
5. L’opposizione contro una dichiarazione di esecutività deve essere proposta nel termine di un mese dalla no¬tificazione della stessa. Se la parte contro la quale è chiesta l’esecuzione ha la residenza abituale in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata rilasciata la dichiarazione di esecutività, il termine è di due mesi a decorrere dalla data della notificazione in mani proprie o nella residenza. Detto termine non è prorogabile per ragioni inerenti alla distanza.
Articolo 34
Autorità giurisdizionale dell’opposizione e ulteriori mezzi di impugnazione
La decisione resa sull’opposizione può costituire unicamente oggetto delle procedure di cui all’elenco comunicato da ciascuno Stato membro alla Commissione conformemente all’articolo 68.
Articolo 35
Sospensione del procedimento
1. L’autorità giurisdizionale dinanzi alla quale è proposta l’opposizione a norma dell’articolo 33 o dell’articolo 34 può, su istanza della parte contro la quale è chiesta l’esecuzione, sospendere il procedimento di esecuzione se la decisione è stata impugnata nello Stato membro d’origine con un mezzo ordinario o se il termine per proporre l’impugnazione non è ancora scaduto. In quest’ultimo caso l’autorità giurisdizionale può fissare un termine per proporre tale impugnazione.
2. Qualora la decisione sia stata emessa in Irlanda o nel Regno Unito, qualsiasi mezzo di impugnazione esperibile nello Stato membro d’origine è considerato “impugnazione ordinaria” ai sensi del paragrafo 1.
Articolo 36
Esecuzione parziale
1. Se la decisione ha statuito su vari capi della domanda e l’esecuzione non può essere concessa per tutti i capi, l’autorità giurisdizionale autorizza l’esecuzione solo per uno o taluni di essi.
2. L’istante può chiedere un’esecuzione parziale.
SEZIONE 3
Disposizioni comuni alle sezioni 1 e 2
Articolo 37
Documenti
1. La parte che chiede o contesta il riconoscimento oche chiede una dichiarazione di esecutività deve produrre quanto segue:
a) una copia della decisione, che presenti le condizioni di autenticità prescritte;
e
b) il certificato di cui all’articolo 39.
2. Se si tratta di decisione contumaciale, la parte che ne chiede il riconoscimento o l’esecuzione deve inoltre produrre:
a) l’originale o una copia autenticata del documento comprovante che la domanda giudiziale o l’atto equivalente è stato notificato o comunicato al contumace;
o
b) un documento comprovante che il convenuto ha inequivocabilmente accettato la decisione.
Articolo 38
Mancata produzione di documenti
1. Qualora i documenti di cui all’articolo 37, paragrafo 1, lettera b), o paragrafo 2, non vengano prodotti, l’au¬torità giurisdizionale può fissare un termine per la loro presentazione o accettare documenti equivalenti ovvero, qualora ritenga di essere informato a sufficienza, disporre l’esonero della presentazione degli stessi.
2. Qualora l’autorità giurisdizionale lo richieda, è necessario produrre una traduzione dei documenti richiesti. La traduzione è autenticata da una persona a tal fine abilitata in uno degli Stati membri.
Articolo 39
Certificato relativo alle decisioni rese nelle cause matrimoniali e in materia di responsabilità geni¬toriale
L’autorità giurisdizionale o l’autorità competente dello Stato membro d’origine rilascia, su richiesta di qualsiasi parte interessata, un certificato utilizzando il modello standard di cui all’allegato I (decisioni in materia matrimo¬niale) o all’allegato II (decisioni in materia di responsabilità genitoriale).
SEZIONE 4
Esecuzione di talune decisioni in materia di diritto di visita e di talune decisioni che prescrivono il ritorno del minore
Articolo 40
Campo d’applicazione
1. La presente sezione si applica:
a) al diritto di visita;
e
b) al ritorno del minore ordinato in seguito a una decisione che prescrive il ritorno del minore di cui all’articolo 11, paragrafo 8.
2. Le disposizioni della presente sezione non ostano a che il titolare della responsabilità genitoriale chieda il rico¬noscimento e l’esecuzione in forza delle disposizioni contenute nelle sezioni 1 e 2 del presente capo.
Articolo 41
Diritto di visita
1. Il diritto di visita di cui all’articolo 40, paragrafo 1, lettera a), conferito in forza di una decisione esecutiva emessa in uno Stato membro, è riconosciuto ed è eseguibile in un altro Stato membro senza che sia necessaria alcuna dichiarazione di esecutività e senza che sia possibile opporsi al suo riconoscimento se la decisione è stata certificata nello Stato membro d’origine in accordo con il paragrafo 2.
Anche se il diritto interno non prevede l’esecutività di diritto, nonostante un eventuale ricorso, di una decisione che accorda un diritto di visita, l’autorità giurisdizionale può dichiarare la decisione esecutiva.
2. Il giudice di origine rilascia il certificato di cui al paragrafo 1, sulla base del modello standard di cui all’allegato III (certificato sul diritto di visita), solo nei seguenti casi:
a) in caso di procedimento in contumacia, la domanda giudiziale o un atto equivalente è stato notificato o comu¬nicato al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale che questi possa presentare le proprie difese, o, è stato notificato o comunicato nel mancato rispetto di queste condizioni, sia comunque accertato che il convenuto ha accettato la decisione inequivocabilmente;
b) tutte le parti interessate hanno avuto la possibilità di essere ascoltate;
e
c) il minore ha avuto la possibilità di essere ascoltato, salvo che l’audizione non sia stata ritenuta inopportuna in ragione della sua età o del suo grado di maturità.
Il certificato standard deve essere compilato nella lingua della decisione.
3. Se il diritto di visita riguarda un caso che sin dall’atto della pronuncia della decisione riveste un carattere transfrontaliero, il certificato è rilasciato d’ufficio quando la decisione diventa esecutiva, anche se solo provviso¬riamente. Se il caso diventa transfrontaliero solo in seguito, il certificato è rilasciato a richiesta di una della parti.
Articolo 42
Ritorno del minore
1. Il ritorno del minore di cui all’articolo 40, paragrafo 1, lettera b), ordinato con una decisione esecutiva emessa in uno Stato membro, è riconosciuto ed è eseguibile in un altro Stato membro senza che sia necessaria una dichiarazione di esecutività e senza che sia possibile opporsi al riconoscimento, se la decisione è stata certificata nello Stato membro d’origine conformemente al paragrafo 2.
Anche se la legislazione nazionale non prevede l’esecutività di diritto, nonostante eventuali impugnazioni, di una decisione che prescrive il ritorno del minore di cui all’articolo 11, paragrafo 8, l’autorità giurisdizionale può dichiarare che la decisione in questione è esecutiva.
2. Il giudice di origine che ha emanato la decisione di cui all’articolo 40, paragrafo 1, lettera b), rilascia il certi¬ficato di cui al paragrafo 1 solo se:
a) il minore ha avuto la possibilità di essere ascoltato, salvo che l’audizione sia stata ritenuta inopportuna in ragione della sua età o del suo grado di maturità;
b) le parti hanno avuto la possibilità di essere ascoltate; e
c) l’autorità giurisdizionale ha tenuto conto, nel rendere la sua decisione, dei motivi e degli elementi di prova alla base del provvedimento emesso conformemente all’articolo 13 della convenzione dell’Aja del 1980.
Nel caso in cui l’autorità giurisdizionale o qualsiasi altra autorità adotti misure per assicurare la protezione del minore dopo il suo ritorno nello Stato della residenza abituale, il certificato contiene i dettagli di tali misure.
Il giudice d’origine rilascia detto certificato di sua iniziativa e utilizzando il modello standard di cui all’allegato IV (certificato sul ritorno del minore).
Il certificato è compilato nella lingua della decisione.
Articolo 43
Domanda di rettifica
1. Il diritto dello Stato membro di origine è applicabile a qualsiasi rettifica del certificato.
2. Il rilascio di un certificato a norma dell’articolo 41, paragrafo 1, o dell’articolo 42, paragrafo 1, non è inoltre soggetto ad alcun mezzo di impugnazione.
Articolo 44
Effetti del certificato
Il certificato ha effetto soltanto nei limiti del carattere esecutivo della sentenza.
Articolo 45
Documenti
1. La parte che chiede l’esecuzione di una decisione deve produrre quanto segue:
a) una copia della decisione, che presenti le condizioni di autenticità prescritte;
e
b) il certificato di cui all’articolo 41, paragrafo 1, o all’articolo 42, paragrafo 1.
2. Ai fini del presente articolo:
– il certificato di cui all’articolo 41, paragrafo 1, è corredato della traduzione del punto 12 relativo alle modalità per l’esercizio del diritto di visita,
– il certificato di cui all’articolo 42, paragrafo 1, è corredato della traduzione del punto 14 relativo alle misure adottate per assicurare il ritorno del minore.
La traduzione deve essere nella lingua ufficiale o in una delle lingue ufficiali dello Stato membro dell’esecuzione o in un’altra lingua che quello Stato membro abbia dichiarato di accettare. La traduzione è autenticata da una persona a tal fine abilitata in uno degli Stati membri.
SEZIONE 5
Atti pubblici e accordi
Articolo 46
Gli atti pubblici formati e aventi efficacia esecutiva in uno Stato membro nonché gli accordi tra le parti aventi efficacia esecutiva nello Stato membro di origine sono riconosciuti ed eseguiti alle stesse condizioni previste per le decisioni.
SEZIONE 6
Altre disposizioni
Articolo 47
Procedimento di esecuzione
1. Il procedimento di esecuzione è disciplinato dalla legge dello Stato membro dell’esecuzione.
2. Ogni decisione pronunciata dall’autorità giurisdizionale di uno Stato membro e dichiarata esecutiva ai sensi della sezione 2 o certificata conformemente all’articolo 41, paragrafo 1, o all’articolo 42, paragrafo 1, è eseguita nello Stato membro dell’esecuzione alle stesse condizioni che si applicherebbero se la decisione fosse stata pro¬nunciata in tale Stato membro.
In particolare una decisione certificata conformemente all’articolo 41, paragrafo 1, o all’articolo 42, paragrafo 1, non può essere eseguita se è incompatibile con una decisione esecutiva emessa posteriormente.
Articolo 48
Modalità pratiche per l’esercizio del diritto di visita
1. L’autorità giurisdizionale dello Stato membro dell’esecuzione possono stabilire modalità pratiche volte ad organizzare l’esercizio del diritto di visita, qualora le modalità necessarie non siano o siano insufficientemente previste nella decisione emessa dalle autorità giurisdizionali dello Stato membro competente a conoscere del merito e a condizione che siano rispettati gli elementi essenziali di quella decisione.
2. Le modalità pratiche stabilite a norma del paragrafo 1 cessano di essere applicabili in virtù di una decisione posteriore emessa dalle autorità giurisdizionali dello Stato membro competenti a conoscere del merito.
Articolo 49
Spese
Le disposizioni del presente capo, eccettuate quelle previste alla sezione 4, si applicano altresì alla determinazio¬ne dell’importo delle spese per i procedimenti instaurati in base al presente regolamento nonché all’esecuzione di qualsiasi decisione relativa a tali spese.
Articolo 50
Patrocinio a spese dello Stato
L’istante che nello Stato membro d’origine ha usufruito in tutto o in parte del patrocinio a spese dello Stato o dell’esenzione dalle spese beneficia, nel procedimento di cui agli articoli 21, 28, 41, 42 e 48, dell’assistenza più favorevole o dell’esenzione più ampia prevista dalla legge dello Stato membro dell’esecuzione.
Articolo 51
Cauzione o deposito
Non può essere imposta la costituzione di cauzioni o depositi, comunque denominati, alla parte che chiede l’e¬secuzione in uno Stato membro di una decisione pronunciata in un altro Stato membro per i seguenti motivi:
a) per il difetto di residenza abituale nello Stato membro richiesto, o
b) per la sua qualità di straniero oppure, qualora l’esecuzione sia richiesta nel Regno Unito o in Irlanda, per difetto di “domicile” in uno di tali Stati membri.
Articolo 52
Legalizzazione o altra formalità analoga
Non è richiesta alcuna legalizzazione o altra formalità analoga per i documenti indicati negli articoli 37, 38 e 45, né per l’eventuale procura alle liti.
CAPO IV
COOPERAZIONE FRA AUTORITÀ CENTRALI IN MATERIA DI RESPONSABILITÀ GENITORIALE
Articolo 53
Designazione
Ciascuno Stato membro designa una o più autorità centrali incaricata di assisterlo nell’applicazione del presente regolamento e ne specifica le competenze territoriali e materiali. Qualora uno Stato membro abbia designato più autorità centrali, le comunicazioni dovrebbero essere inviate direttamente all’autorità centrale competente. Se una comunicazione è stata inviata a un’autorità centrale non competente, quest’ultima deve inoltrarla all’autorità centrale competente e informare il mittente al riguardo.
Articolo 54
Funzioni generali
Le autorità centrali mettono a disposizione informazioni sull’ordinamento e sulle procedure nazionali e adottano misure generali per migliorare l’applicazione del presente regolamento e rafforzare la cooperazione. A tal fine si ricorre alla rete giudiziaria europea in materia civile e commerciale, istituita con decisione 2001/470/CE.
Articolo 55
Cooperazione nell’ambito di cause specifiche alla responsabilità genitoriale
Le autorità centrali, su richiesta di un’autorità centrale di un altro Stato membro o del titolare della responsabi¬lità genitoriale, cooperano nell’ambito di cause specifiche per realizzare gli obiettivi del presente regolamento. A tal fine esse provvedono, direttamente o tramite le autorità pubbliche o altri organismi, compatibilmente con l’ordinamento di tale Stato membro in materia di protezione dei dati personali:
a) a raccogliere e a scambiare informazioni:
i) sulla situazione del minore;
ii) sugli eventuali procedimenti in corso; o
iii) sulle decisioni adottate relativamente al minore;
b) a fornire informazioni e assistenza ai titolari della responsabilità genitoriale che chiedono il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni sul loro territorio, relativamente in particolare al diritto di visita e al ritorno del minore;
c) a facilitare la comunicazione fra le autorità giurisdizionali, in relazione soprattutto all’attuazione dell’articolo 11, paragrafi 6 e 7, e dell’articolo 15;
d) a fornire informazioni e sostegno utili all’attuazione dell’articolo 56 da parte delle autorità giurisdizionali;
e) a facilitare un accordo fra i titolari della responsabilità genitoriale, ricorrendo alla mediazione o con altri mezzi, e ad agevolare a tal fine la cooperazione transfrontaliera.
Articolo 56
Collocamento del minore in un altro Stato membro
1. Qualora l’autorità giurisdizionale competente in virtù degli articoli da 8 a 15 intenda collocare il minore in istituto o in una famiglia affidataria e tale collocamento abbia luogo in un altro Stato membro, egli consulta preventivamente l’autorità centrale o un’altra autorità competente di quest’ultimo Stato membro se in tale Stato membro è previsto l’intervento di un’autorità pubblica nei casi nazionali di collocamento di minori.
2. La decisione sul collocamento di cui al paragrafo 1 può essere presa nello Stato membro richiedente soltanto se l’autorità centrale o un’altra autorità competente dello Stato richiesto ha approvato tale collocamento.
3. Le modalità relative alla consultazione o all’approvazione di cui ai paragrafi 1 e 2 sono disciplinate dal diritto nazionale dello Stato membro richiesto.
4. Qualora l’autorità giurisdizionale competente ai sensi degli articoli da 8 a 15 decida di collocare il minore in una famiglia affidataria e tale collocamento abbia luogo in un altro Stato membro, e in quest’ultimo Stato membro non sia previsto l’intervento di un’autorità pubblica nei casi nazionali di collocamento di minori, egli lo comunica all’autorità centrale o ad un’autorità competente di quest’ultimo Stato membro.
Articolo 57
Metodo di lavoro
1. I titolari della responsabilità genitoriale possono rivolgere una domanda di assistenza, di cui all’articolo 55, all’autorità centrale dello Stato membro in cui risiedono abitualmente ovvero all’autorità centrale dello Stato membro in cui si può trovare o risiede abitualmente il minore. In generale, la domanda contiene tutte le informa¬zioni disponibili che ne possono agevolare l’esecuzione. Se la domanda di assistenza riguarda il riconoscimento o l’esecuzione di una decisione in materia di responsabilità genitoriale che rientra nel campo di applicazione del presente regolamento, il titolare della responsabilità genitoriale vi acclude i pertinenti certificati di cui all’articolo 39, all’articolo 41, paragrafo 1, o all’articolo 42, paragrafo 1.
2. Gli Stati membri comunicano alla Commissione la o le lingue ufficiali delle Istituzioni della Comunità, diverse dalla sua, nelle quali le comunicazioni alle autorità centrali possono essere redatte.
3. L’assistenza delle autorità centrali a norma dell’articolo 55 è gratuita.
4. Ciascuna autorità centrale sostiene i propri costi.
Articolo 58
Riunioni
1. Per facilitare l’applicazione del presente regolamento le autorità centrali si riuniscono periodicamente.
2. Le riunioni sono convocate conformemente alla decisione 2001/470/CE relativa all’istituzione di una rete giu¬diziaria europea in materia civile e commerciale.
CAPO V
RELAZIONI CON GLI ALTRI ATTI NORMATIVI
Articolo 59
Relazione con altri strumenti
1. Fatti salvi gli articoli 60, 63, 64 e il paragrafo 2 del presente articolo, il presente regolamento sostituisce, nei rapporti tra gli Stati membri, le convenzioni vigenti alla data della sua entrata in vigore, concluse tra due o più Stati membri su materie disciplinate dal presente regolamento.
2. a) La Finlandia e la Svezia hanno facoltà di dichiarare che nei loro rapporti reciproci, in luogo delle norme del presente regolamento, si applica in tutto o in parte la convenzione del 6 febbraio 1931 tra Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia contenente disposizioni di diritto internazionale privato in materia di matrimonio, adozione e tutela, nonché il relativo protocollo finale. Queste dichiarazioni sono pubblicate nella Gazzetta uffi¬ciale dell’Unione europea in allegato al presente regolamento. Tali Stati membri possono dichiarare in qualsiasi momento di rinunciarvi in tutto o in parte.
b) È fatto obbligo di rispettare il principio di non discriminazione in base alla cittadinanza tra i cittadini dell’Unione europea.
c) I criteri di competenza giurisdizionale di qualsiasi accordo che sarà concluso tra gli Stati membri di cui alla lettera a) su materie disciplinate dal presente regolamento devono corrispondere a quelli stabiliti dal regola¬mento stesso.
d) Le decisioni pronunciate in uno degli Stati nordici che abbia reso la dichiarazione di cui alla lettera a), in base a un criterio di competenza giurisdizionale corrispondente a quelli previsti nel capo II del presente regolamento, sono riconosciute ed eseguite negli altri Stati membri secondo le disposizioni del capo III del regolamento stesso.
3. Gli Stati membri comunicano alla Commissione:
a) copia degli accordi di cui al paragrafo 2, lettere a) e c), e delle relative leggi uniformi di applicazione;
b) qualsiasi denuncia o modifica di tali accordi o leggi uniformi.
Articolo 60
Relazione con talune convenzioni multilaterali
Nei rapporti tra gli Stati che ne sono parti, il presente regolamento prevale sulle convenzioni seguenti, nella misura in cui queste riguardino materie da esso disciplinate:
a) convenzione dell’Aja, del 5 ottobre 1961, sulla competenza delle autorità e sulla legge applicabile in materia di protezione dei minori;
b) convenzione del Lussemburgo, dell’8 settembre 1967, sul riconoscimento delle decisioni relative al vincolo matrimoniale;
c) convenzione dell’Aja, del 1o giugno 1970, sul riconoscimento dei divorzi e delle separazioni personali;
d) convenzione europea, del 20 maggio 1980, sul riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia di affidamento dei minori e di ristabilimento dell’affidamento;
e
e) convenzione dell’Aja, del 25 ottobre 1980, sugli aspetti civili della sottrazione internazionale dei minori.
Articolo 61
Relazioni con la convenzione dell’Aja del 19 ottobre 1996 sulla competenza giurisdizionale, la legge applicabile, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni, nonché la cooperazione, in materia di responsabilità genitoriale e di misure per la tutela dei minori
Nelle relazioni con la convenzione dell’Aja del 19 ottobre 1996 sulla competenza giurisdizionale, la legge ap¬plicabile, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni, nonché la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure per la tutela dei minori, il presente regolamento si applica:
a) se il minore in questione ha la sua residenza abituale nel territorio di uno Stato membro;
b) per quanto riguarda il riconoscimento e l’esecuzione di una decisione emessa dal giudice competente di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro, anche se il minore risiede abitualmente nel territorio di uno Stato non membro che è parte contraente di detta convenzione.
Articolo 62
Portata degli effetti
1. Gli accordi e le convenzioni di cui all’articolo 59, paragrafo 1, e agli articoli 60 e 61 continuano a produrre effetti nelle materie non disciplinate dal presente regolamento.
2. Le convenzioni di cui all’articolo 60, in particolare la convenzione dell’Aja del 1980, continuano ad avere effi¬cacia tra gli Stati membri che ne sono parti contraenti, conformemente all’articolo 60.
Articolo 63
Trattati con la Santa Sede
1. Il presente regolamento fa salvo il trattato internazionale (Concordato) concluso fra la Santa Sede e il Porto¬gallo, firmato nella Città del Vaticano il 7 maggio 1940.
2. Ogni decisione relativa all’invalidità di un matrimonio disciplinata dal trattato di cui al paragrafo 1 è ricono¬sciuta negli Stati membri a norma del capo III, sezione 1, del presente regolamento.
3. Le disposizioni di cui ai paragrafi 1 e 2 si applicano altresì ai seguenti trattati internazionali (Concordati) con¬clusi con la Santa Sede:
a) “Concordato lateranense”, dell’11 febbraio 1929, tra l’Italia e la Santa Sede, modificato dall’accordo, con pro¬tocollo aggiuntivo, firmato a Roma il 18 febbraio 1984;
b) accordo tra la Santa Sede e la Spagna su questioni giuridiche del 3 gennaio 1979.
4. L’Italia e la Spagna possono sottoporre il riconoscimento delle decisioni di cui al paragrafo 2 alle procedure e ai controlli applicabili alle sentenze dei tribunali ecclesiastici pronunciate in base ai trattati internazionali con la Santa Sede di cui al paragrafo 3.
5. Gli Stati membri comunicano alla Commissione:
a) una copia dei trattati di cui ai paragrafi 1 e 3;
b) eventuali denunce o modificazioni di tali trattati.
CAPO VI
DISPOSIZIONI TRANSITORIE
Articolo 64
1. Il presente regolamento si applica solo alle azioni proposte, agli atti pubblici formati e agli accordi tra le parti conclusi posteriormente alla data in cui il presente regolamento entra in applicazione secondo l’articolo 72.
2. Le decisioni pronunciate dopo l’entrata in applicazione del presente regolamento, relative ad azioni proposte prima di tale termine ma dopo l’entrata in vigore del regolamento (CE) n. 1347/2000, sono riconosciute ed eseguite secondo le disposizioni del capo III del presente regolamento se la norma sulla competenza era fon¬data su regole conformi a quelle contenute nel capo II del regolamento stesso, ovvero nel regolamento (CE) n. 1347/2000, ovvero in una convenzione in vigore tra lo Stato membro d’origine e lo Stato membro richiesto al momento della proposizione dell’azione.
3. Le decisioni pronunciate prima dell’entrata in applicazione del presente regolamento, relative ad azioni pro¬poste dopo l’entrata in vigore del regolamento (CE) n. 1347/2000, sono riconosciute ed eseguite secondo le disposizioni del capo III del presente regolamento, purché siano decisioni di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio, ovvero decisioni relative alla responsabilità dei genitori sui figli avuti in comune, emesse in occasione di quei procedimenti matrimoniali.
4. Le decisioni pronunciate prima dell’entrata in applicazione del presente regolamento ma dopo l’entrata in vi¬gore del regolamento (CE) n. 1347/2000, relative ad azioni proposte prima dell’entrata in vigore del regolamento (CE) n. 1347/2000, sono riconosciute ed eseguite secondo le disposizioni del capo III del presente regolamento, purché siano decisioni di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio, ovvero decisioni rela¬tive alla responsabilità dei genitori sui figli avuti in comune, emesse in occasione di quei procedimenti matrimo¬niali, e se la norma sulla competenza era fondata su regole conformi a quelle contenute nel capo II del presente regolamento, ovvero nel regolamento (CE) n. 1347/2000, ovvero in una convenzione in vigore tra lo Stato membro d’origine e lo Stato membro richiesto al momento della proposizione dell’azione.
CAPO VII
DISPOSIZIONI FINALI
Articolo 65
Riesame
Al più tardi il 1o gennaio 2012 e successivamente ogni cinque anni, la Commissione presenta al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo, sulla base delle informazioni fornite dagli Stati membri, una relazione sull’applicazione del presente regolamento, corredata se del caso di proposte di adegua¬mento.
Articolo 66
Stati membri con sistemi normativi plurimi
Qualora in uno Stato membro vigano, in unità territoriali diverse, due o più sistemi giuridici o complessi di norme per questioni disciplinate dal presente regolamento:
a) ogni riferimento alla residenza abituale nello Stato membro va inteso come riferimento alla residenza abituale nell’unità territoriale;
b) ogni riferimento alla cittadinanza, o, nel caso del Regno Unito, al “domicile” va inteso come riferimento all’ap¬partenenza all’unità territoriale designata dalla legge di detto Stato;
c) ogni riferimento all’autorità dello Stato membro va inteso come riferimento all’autorità di un’unità territoriale interessata di tale Stato;
d) ogni riferimento alle norme dello Stato membro richiesto va inteso come riferimento alle norme dell’unità territoriale in cui si invocano la competenza giurisdizionale, il riconoscimento o l’esecuzione.
Articolo 67
Informazioni relative alle autorità centrali e alle lingue accettate
Gli Stati membri comunicano alla Commissione, entro tre mesi dall’entrata in vigore del presente regolamento:
a) denominazione, indirizzo e mezzi di comunicazione indirizzate alle autorità centrali designate a norma dell’ar¬ticolo 53;
b) le lingue accettate per le comunicazioni indirizzate alle autorità centrali di cui all’articolo 57, paragrafo 2;
e
c) le lingue accettate per la compilazione del certificato sul diritto di visita a norma dell’articolo 45, paragrafo 2.
Gli Stati membri comunicano alla Commissione ogni eventuale cambiamento di queste informazioni.
La Commissione provvede affinché tali informazioni siano accessibili a tutti.
Articolo 68
Informazioni relative ai giudici e ai mezzi di impugnazione
Gli Stati membri comunicano alla Commissione gli elenchi dei giudici e dei mezzi d’impugnazione di cui agli ar¬ticoli 21, 29, 33 e 34 e le modifiche apportate.
La Commissione aggiorna tali informazioni e le rende accessibili a tutti mediante pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea e con ogni altro mezzo appropriato.
Articolo 69
Modificazione degli allegati
Le modifiche dei certificati standard di cui agli allegati da I a IV sono adottate in conformità della procedura di cui all’articolo 70, paragrafo 2.
Articolo 70
Comitato
1. La Commissione è assistita da un comitato (di seguito, “il comitato”).
2. Nei casi in cui è fatto riferimento al presente paragrafo, si applicano gli articoli 3 e 7 della decisione 1999/468/ CE.
3. Il comitato adotta il proprio regolamento interno.
Articolo 71
Abrogazione del regolamento (CE) n. 1347/2000
1. Il regolamento (CE) n. 1347/2000 è abrogato alla data in cui il presente regolamento entra in applicazione.
2. I riferimenti al regolamento (CE) n. 1347/2000 si intendono fatti al presente regolamento secondo la tavola di concordanza che figura nell’allegato V.
Articolo 72
Entrata in vigore
Il presente regolamento entra in vigore il 1o agosto 2004.
Il presente regolamento si applica dal 1o marzo 2005, ad eccezione degli articoli 67, 68, 69 e 70 che si applicano dal 1o agosto 2004.
Il presente regolamento è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri in base al trattato che istituisce la Comunità europea.