È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 9, (nel testo sostituito della L. n. 74 del 1987, art. 8), sollevata in riferimento agli artt. 2,3 29 e 111 Cost.

Cass. civ. Sez. VI – 1, 14 marzo 2018, n. 6145
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 2490/2017 proposto da:
G.I., elettivamente domiciliato in ROMA piazza Cavour presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato IACOPO TOZZI;
– ricorrente –
contro
F.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA A. DEPETRIS n.86, presso lo studio dell’avvocato PIETRO CAVASOLA, che lo rappresenta e difende unitamente e disgiuntamente agli avvocati ENRICO FERRARI BRAVO, e UBERTA CACCIA;
– controricorrente –
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 18/01/2018 dal Consigliere Dott. ANTONIO VALITUTTI.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
G.I. ha proposto ricorso per cassazione – affidato a due motivi, illustrati con memoria – nei confronti della sentenza n. 1873/2016, emessa dalla Corte d’appello di Firenze, depositata il 16 novembre 2016, con la quale è stato respinto l’appello della G. avverso la sentenza non definitiva n. 4335/2015 del Tribunale di Firenze, che aveva accolto la domanda proposta da F.F. di separazione personale dalla di lui moglie;
il F. ha resistito con controricorso;
Considerato che:
va osservato, in via pregiudiziale, che l’eccezione processuale proposta dalla ricorrente nella memoria – secondo cui il presente giudizio, in quanto avente ad oggetto una controversia in materia matrimoniale, nella quale è obbligatorio l’intervento del Pubblico Ministero, dovrebbe essere trattato in pubblica udienza, non essendo prevista, dinanzi alla sezione di cui all’art. 376 c.p.c., la possibilità per il P.M. di depositare conclusioni scritte – è infondata e va rigettata;
in tema di nuovo rito camerale di legittimità “non partecipato”, il principio di pubblicità dell’udienza, pur previsto dall’art. 6 CEDU ed avente rilievo costituzionale, non riveste, invero, carattere assoluto e può essere derogato in presenza di “particolari ragioni giustificative”, ove “obiettive e razionali” (Corte cost., sent. n. 80 del 2011), da ravvisarsi in relazione alla conformazione complessiva di tale procedimento camerale, funzionale alla decisione di questioni di diritto di rapida trattazione non rivestenti peculiare complessità (Cass., 02/03/2017, n. 5371);
l’intervento del pubblico ministero nelle cause dinanzi alla Corte di cassazione è necessario, dopo le modifiche apportate all’art. 70 c.p.c., comma 2, dal D.L. n. 69 del 2013, conv. in L. n. 98 del 2013, solo nei casi previsti dalla legge (Cass., 05/09/2016, n. 17613), tra i quali non rientra l’adunanza camerale in questione;
Rilevato che:
con i due motivi di ricorso, la G. si duole del fatto che la Corte d’appello abbia ritenuto ammissibile la domanda di sentenza parziale di separazione dei coniugi ex art. 151 c.p.c., comma 1, sebbene il F. avesse proposto domanda di separazione con addebito, ai sensi del capoverso della stessa norma, ed ancorché la G. si fosse opposta alla richiesta di separazione;
la Corte territoriale, ad avviso della istante, avrebbe – invero – fondato la decisione su di una causa petendi (il primo comma dell’art. 151 c.c.) non dedotta dal F., che aveva fondato la richiesta di separazione esclusivamente sulla denunciata violazione dei doveri derivanti dal matrimonio da parte della moglie;
in ogni caso, a parere della istante, gli artt. 151, secondo comma e 156, primo comma, cod. civ. sarebbero costituzionalmente illegittimi poiché in contrasto, con gli artt. 3, 29 e 111 Cost. nonché 21 CEDU, in quanto – in relazione all’art. 709 bis cod. proc. civ. – consentirebbero al coniuge patrimonialmente più forte di richiedere una sentenza parziale sulla separazione, per poi proseguire il giudizio per la pronuncia sulla domanda di addebito;
Ritenuto che:
la disposizione di cui all’art. 709 bis c.p.c., come definitivamente modificata dalla L. 25 dicembre 2005, n. 263, art. 1, comma 4, sancisca in maniera esplicita, in materia di pronuncia immediata sullo “status”, la già ritenuta equiparazione fra il procedimento di separazione tra i coniugi e quello di divorzio, volendo evitare condotte processuali dilatorie, tali da incidere negativamente sul diritto di una delle parti ad ottenere una pronuncia sollecita in ordine al proprio “status” (Cass., 22 giugno 2012, n. 10484; Cass., 311/08/2017, n. 20666);
come affermato sin dal 1992 (Cass., 10 giugno 1992, n. 7148) e ribadito anche di recente (Cass., 29 aprile 2015, n. 8713), la situazione di intollerabilità della convivenza possa dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco spirituale anche di uno solo dei coniugi, e che, pertanto, il Tribunale sia tenuto a pronunciare la sentenza non definitiva di separazione (scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio) quando la causa sia, sul punto, matura per la decisione, facendo ad essa seguito la prosecuzione del giudizio per le altre statuizioni;
tale pronuncia non definitiva costituisca uno strumento di accelerazione dello svolgimento del processo che non determina un’arbitraria discriminazione nei confronti del coniuge economicamente più debole, sia perché è sempre possibile richiedere provvedimenti temporanei ed urgenti, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 4, peraltro modificabili e revocabili dal giudice istruttore al mutare delle circostanze, sia per l’effetto retroattivo, fino al momento della domanda, che può essere attribuito in sentenza al riconoscimento dell’assegno di divorzio; pertanto, debba reputarsi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 9, (nel testo sostituito della L. n. 74 del 1987, art. 8), sollevata in riferimento agli artt. 2,3 29 e 111 Cost. (Cass. 20666/2017);
siffatti principi, siano applicabili – per le ragioni suindicate – anche alla separazione personale dei coniugi;
Ritenuto che:
alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con condanna della ricorrente alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente, in favore della controricorrente, alle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.100,00, di cui Euro 100, per esborsi, oltre spese forfettarie e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 14 marzo 2018

Il coniuge che rifiuta immotivatamente un lavoro non ha diritto all’assegno di mantenimento

Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 marzo 2018, n. 5817
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 717/2016 proposto da:
B.Y.M., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEL CARAVAGGIO 6, presso lo studio dell’avvocato GERARDO TUORTO, rappresentata e difesa dall’avvocato DANIELE CARDENIA;
– ricorrente –
contro
D.C.R.R., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DELLE IRIS 18, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO DE GIOVANNI, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5837/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 22/10/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 15/05/2017 dal Consigliere Dott. FRANCESCO TERRUSI.
Svolgimento del processo
che:
B.Y.M. propone ricorso per cassazione, in due motivi, avverso la sentenza con la quale la corte d’appello di Roma, in controversia relativa alla separazione personale tra la predetta B. e il marito D.C.R., ha rigettato la doglianza relativa alla revoca dell’assegno di mantenimento; l’intimato si è difeso con controricorso;
le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

che:
la corte del merito ha disatteso il gravame; affermando (1) che la B. aveva ammesso di aver rifiutato varie proposte di lavoro, di cui aveva peraltro allegato la strumentalità, per non essere stati i colloqui finalizzati a vere assunzioni; (2) che le deduzioni riguardo alla detta strumentalità delle proposte erano rimaste del tutto sfornite di riscontro;
il primo motivo, col quale la ricorrente denunzia la nullità della sentenza e del procedimento, in relazione all’art. 112 c.p.c., per omessa pronunzia su un motivo di gravame, nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 183 c.p.c., comma 6, artt. 115 e 116 c.p.c. per inidoneità dei documenti a fondare il giudizio espresso, è inammissibile giacché: (a) dal ricorso non è minimamente spiegato, in prospettiva di autosufficienza, quale sarebbe stato il motivo oggetto di omissione di pronunzia una volta che dalla sentenza risulta che solo la questione sopra detta, della revoca dell’assegno di mantenimento, era stata consegnata al gravame; (b) la doglianza relativa alla presunta inidoneità dei documenti si risolve in un sindacato di fatto circa l’esito della valutazione probatoria;
il secondo motivo, col quale la ricorrente nuovamente denunzia la nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c., per omessa pronunzia su motivo di gravame, e la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.c., è in parte inammissibile e in parte manifestamente infondato: il motivo è inammissibile nel riferimento alla violazione dell’art. 112 c.p.c., per difetto di autosufficienza, non essendo riportati gli asseriti ulteriori motivi di gravame che si dice non considerati dalla corte d’appello; ed è manifestamente infondato in relazione all’art. 156 c.c., perché, in tema di separazione personale dei coniugi, l’attitudine al lavoro proficuo dei medesimi, quale potenziale capacità di guadagno, costituisce elemento valutabile ai fini delle statuizioni afferenti l’assegno di mantenimento; tale attitudine del coniuge al lavoro assume in tal caso rilievo se venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale e ambientale, e con esclusione di mere valutazioni astratte e ipotetiche (cfr. per tutte Cass. 18547-06; n. 3502-13);
l’impugnata sentenza ha escluso il diritto al mantenimento sul rilievo di essere stata la ricorrente ben in grado di procurarsi redditi adeguati, stante la pacifica esistenza di proposte di lavoro, le quali proposte immotivatamente non erano state accettate;
si tratta di una valutazione in punto di fatto, non censurata sul versante della motivazione e non in contrasto con l’insegnamento di questa Corte;
il ricorso va quindi definito con pronuncia di manifesta infondatezza;
le spese seguono la soccombenza;
peraltro la ricorrente risulta ammessa al patrocinio a spese dello Stato, con conseguente prenotazione a debito del contributo unificato (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 131, comma 2); per tale ragione non opera l’art. 13, comma 1-quater, stesso D.P.R..
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, che liquida in Euro 4.100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso forfettario di spese generali nella percentuale di legge.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, su relazione del Cons. Dott. Terrusi (est.), il 15 maggio 2017.
Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2018

Perde l’assegno di mantenimento il figlio che diventa avvocato

Cass. civ. Sez. VI – 1, 5 marzo 2018, n. 5088
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 2266-2017 proposto da:
R.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE MAZZINI 6, presso lo studio dell’avvocato RENATO MACRO, rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNI FRANZESE;
– ricorrente – contro
S.A.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TOSCANA 30, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO CARAVETTA, rappresentata e difesa dall’avvocato BENEDETTO RONCHI;
– controricorrente –
avverso il decreto n. R.G. 153/2015 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositato l’08/11/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 14/12/2017 dal Consigliere Dott. MARIA ACIERNO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con decreto del 19/10/2016 la Corte d’appello di Bari ha rigettato il reclamo proposto ai sensi dell’art. 739 c.p.c. da R.F. avverso il provvedimento con cui il Tribunale di Trani aveva rigettato il ricorso L. n. 300 del 1970, ex art. 9, volto ad ottenere la revoca o, in subordine, la riduzione dell’assegno di mantenimento versato al figlio maggiorenne R.D..
A sostegno della decisione la Corte territoriale ha affermato:
il Tribunale non ha ignorato il fatto nuovo (rispetto a quanto dedotto nel precedente procedimento) costituito dal superamento, da parte di D., dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense e dell’iscrizione all’Albo degli avvocati, ma ha ritenuto tale circostanza non sufficiente, da sola, a provare l’acquisita autonomia economica del figlio medesimo;
– non è stata fornita la prova da parte del reclamante della sussistenza di uno dei presupposti legittimanti la cessazione dell’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne, perché l’iscrizione all’albo degli avvocati non dimostra la titolarità di un reddito né tale elemento può essere presuntivamente dedotto dal fatto che D. lavori presso lo studio legale del fratello;
– le richieste di informative sui rapporti bancari intrattenuti da D. sono state correttamente rigettate dal Tribunale, perché si tratta di indagine meramente esplorativa, in difetto di prova sia della titolarità del conto sia della riconducibilità di eventuali crediti allo svolgimento dell’attività forense.
Avverso questa pronuncia propone ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. R.F., sulla base di tre motivi, cui resiste con controricorso S.A.R..
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c. Con il primo motivo viene denunciata la violazione, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, della L. n. 300 del 1970, art. 9 perché la Corte d’appello, confermando la decisione di primo grado, ha anch’essa omesso di considerare il fatto nuovo costituito dall’avvenuto superamento da parte del figlio D. dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense e l’iscrizione all’albo degli avvocati.
Con il secondo motivo viene denunciata la violazione degli artt. 147, 148, 315bis, 316bis, 155quinquies (poi 337 septies), ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, perché la Corte d’appello, in ordine alla sussistenza dei presupposti legittimanti la cessazione dell’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne, non ha considerato che egli lavora presso lo studio del fratello e percepisce costantemente compensi per la professione svolta. La richiesta di informativa sui conti correnti e i depositi bancari di R.D. è stata illegittimamente disattesa dalla Corte d’appello perché ritenuta esplorativa, nonostante l’appellante abbia prodotto documentazione da cui si evince che il figlio intrattiene effettivamente rapporti di conto corrente con gli Istituti indicati. Peraltro la persistenza dei presupposti giustificanti l’obbligo genitoriale di mantenimento dovrebbe essere contemperata con criteri di rigore proporzionalmente crescente in rapporto all’età dei figli beneficiari.
Con il terzo e ultimo motivo è denunciata la violazione dell’art. 92 c.p.c. e art. 96 c.p.c., comma 3, perché la Corte territoriale ha confermato la statuizione del Tribunale in ordine alle spese processuali nonostante la soccombenza reciproca e ha altresì condannato l’appellante per responsabilità aggravata.
I primi due motivi, che possono esaminarsi congiuntamente in quanto connessi, sono fondati.
Il provvedimento impugnato non è conforme al più recente orientamento di questa Corte (in particolare Cass. n. 12952 del 22/06/2016) circa l’accertamento dei presupposti dell’obbligo genitoriale di mantenimento del figlio maggiorenne cui il Collegio ritiene di aderire. Vero è che, per costante indirizzo della giurisprudenza di legittimità, l’obbligo dei genitori di concorrere al mantenimento dei figli, a norma degli artt. 147 e 148 c.c., non cessa ipso facto con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, in linea di principio, finché essi non abbiano raggiunto una propria indipendenza economica (Cass. 7168/2016); il genitore, qualora domandi la modifica o la declaratoria di cessazione dell’obbligo di mantenimento, è tenuto a dimostrare tale circostanza, oppure che il mancato svolgimento di un’attività produttiva di reddito dipende da un atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato. Tuttavia, l’onere della prova ben può essere assolto mediante l’allegazione di circostanze di fatto da cui desumere in via presuntiva l’estinzione dell’obbligazione dedotta, tenendo presente che l’avanzare dell’età è un elemento che necessariamente concorre a conformare l’onus probandi, giacché “con il raggiungimento di un’età nella quale il percorso formativo e di studi, nella normalità dei casi, è ampiamente concluso e la persona è da tempo inserita nella società, la condizione di persistente mancanza di autosufficienza economico reddituale, in mancanza di ragioni individuali specifiche (di salute, o dovute ad altre peculiari contingenze personali, o oggettive quali le difficoltà di reperimento o di conservazione di un’occupazione) costituisce un indicatore forte d’inerzia colpevole” (Cass. 12952/2016). Invero, il diritto del figlio si giustifica all’interno e nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso formativo, tenendo conto delle sue capacità, inclinazioni ed aspirazioni, posto che la funzione educativa del mantenimento è nozione idonea a circoscrivere la portata dell’obbligo di mantenimento, sia in termini di contenuto, sia di durata, avendo riguardo al tempo occorrente e mediamente necessario per il suo inserimento nella società.
Nella specie la Corte d’appello ha omesso di considerare, alla luce dei principi appena richiamati, gli elementi presuntivi offerti dal ricorrente circa l’avvenuta iscrizione all’Albo degli avvocati del figlio, nato nel (OMISSIS), e la circostanza che egli abbia continuato a frequentare lo Studio legale del fratello anche dopo aver conseguito il titolo. Ha inoltre rigettato le specifiche istanze istruttorie volte a dimostrare la percezione di un reddito da lavoro ed ad avere un peculio idoneo a garantire l’autosufficienza economica. Giova premettere, in risposta a quanto dedotto dalla controricorrente nella propria memoria, che il vizio di motivazione per omessa ammissione di una prova può essere denunciato per cassazione quando – come nel caso di specie – abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (da ultimo, Cass. 1570/2018).
Nella specie la Corte d’appello ha rigettato le richieste di informative circa i rapporti bancari di R.D. con motivazione apparente e formulata in termini di mera adesione a quanto statuito dal giudice di primo grado, non consentendo alla parte di essere ammessa a fornire la prova presuntiva del raggiungimento dell’autosufficienza economica del figlio maggiorenne.
Infatti, secondo il principio di diritto espresso da questa Corte nella succitata pronuncia, “La cessazione dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti deve essere fondata su un accertamento di fatto che abbia riguardo all’età, all’effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all’impegno rivolto verso la ricerca di un’occupazione lavorativa ed, in particolare, alla complessiva condotta personale tenuta dal raggiungimento della maggiore età da parte dell’avente diritto”.
Priva di pregio l’eccezione, formulata dalla controricorrente in memoria, di inammissibilità del ricorso per intervenuta acquiescenza tacita (ex art. 329 c.p.c.) al decreto impugnato, come sarebbe desumibile dal fatto l’odierno ricorrente, nelle more del presente giudizio di legittimità, ha instaurato un nuovo identico processo riguardante le medesime parti, il medesimo oggetto e la medesima domanda. Invero, gli atti che implicano una tacita acquiescenza alla sentenza sono esclusivamente quelli che possono essere spiegati solo supponendo il proposito della parte di non contrastare gli effetti giuridici della decisione, così rivelando, oggettivamente, in modo inequivoco, una corrispondente volontà della parte che li ha posti in essere (Cass. n. 21491 del 10/10/2014). Tale non può essere evidentemente considerato il comportamento della parte che abbia instaurato un nuovo procedimento, permanendo ciononostante l’interesse all’esito del presente giudizio.
L’accoglimento dei primi due mezzi di ricorso comporta l’assorbimento del terzo, con cui si denuncia la violazione degli artt. 92 e 96 c.p.c., atteso che le spese del giudizio di merito andranno riliquidate all’esito del giudizio di rinvio.
Conclusivamente, i primi due motivi devono essere accolti, con assorbimento del terzo; il decreto impugnato deve essere cassato con rinvio alla Corte d’appello di Bari, in diversa composizione, che provvederà anche alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi due motivi di ricorso e dichiara assorbito il terzo; cassa il decreto impugnato con rinvio alla Corte d’appello di Bari, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 dicembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2018

Salva prova contraria, il prelevamento sul conto corrente cointestato con il de cujus non costituisce accettazione tacita dell’eredità

Cass. civ. Sez. II, 22 febbraio 2018, n. 4320
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 28518/2014 proposto da:
ELIPSO FINANCE S.r.l., e, per essa, quale mandataria FBS S.p.A., in persona della sua procuratrice speciale Avv. Mirka Stretti, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA BUFALOTTA 174, presso lo studio dell’avvocato PATRIZIA BARLETTELLI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CINZIA MARIA BERNINI ASTI;
– ricorrente –
contro
F.M.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 1874/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 21/05/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/11/2017 dal Consigliere RAFFAELE SABATO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
1. La Elipso Finance s.r.l., a mezzo della procuratrice speciale Prelios Credit Servicing s.p.a., ha convenuto in giudizio F.M., chiedendo con citazione del 16/12/2011 dichiararsi l’intervenuta accettazione tacita dell’eredità del coniuge deceduto P.P., al fine di veder tutelati i propri diritti nell’ambito di procedura esecutiva immobiliare. La convenuta ha resistito alla domanda, chiedendone il rigetto.
2. Il tribunale di Varese ha rigettato la domanda con sentenza depositata il 4/7/2013.
3. Sul gravame proposto dalla Elipso Finance s.r.l., la corte d’appello di Milano con sentenza depositata il 21/5/2014 ha confermato la pronuncia di primo grado.
4. Per la cassazione della sentenza di appello ha proposto ricorso la Elipso Finance s.r.l. sulla base di tre motivi; F.M., ritualmente intimata, non ha svolto attività difensiva.
Considerato che:
1. Con il primo motivo di ricorso si deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, per non avere la corte d’appello considerato che la signora F., effettuando prelievi sul conto corrente cointestato con il de cuius fino a farne calare il saldo a debito, salvo successivo riporto a zero, sia pure al fine di estinguere le rate del finanziamento fondiario concesso ad entrambi i coniugi, aveva di fatto attinto anche dalla quota di spettanza di quest’ultimo.
1.1. Il motivo è inammissibile. Esso, sotto la veste di critiche per omesso esame, sostanzia in effetti un’istanza di riesame delle risultanze probatorie poste dalla corte territoriale alla base del convincimento che “essendo il conto cointestato l’appellata poteva legittimamente operare sullo stesso, senza che fosse possibile estrapolare da tale dato alcun atto attestante in maniera inconfutabile l’acquisizione della qualità di erede” (p. 4 della sentenza), attività questa di valutazione delle prove riservata al giudice del merito.
1.2. Al riguardo, va richiamato che il vizio di omesso esame, essendo stata la sentenza impugnata depositata successivamente all’11/9/2012, è declinato nel presente procedimento ratione temporis secondo il testodell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, successivo alla modifica di cui alD.L. n. 83 del 2012, convertito inL. n. 134 del 2012. L’avvenuta limitazione al minimo costituzionale dell’ “omesso esame” di fatti storici del controllo sulla motivazione non consente più mere critiche alla motivazione, in assenza di indicazione di effettivi “fatti storici” del tutto trascurati.
1.3. Nel caso di specie, il presunto fatto storico negletto sarebbe da individuarsi nell’attingimento, mediante prelievo, anche “della restante quota del 50% di proprietà” del de cuius del saldo del conto all’apertura della successione. Non è chi non veda, al riguardo, come, anzitutto, la questione delle “proprietà” delle somme in essere sul conto sia una valutazione giuridica, piuttosto che un fatto storico.
1.4. In secondo luogo, poi, va considerato che la corte d’appello (v. pp. 3 e 4 della sentenza) ha ampiamente ricostruito, anche mediante richiamo della sentenza di primo grado, i comportamenti e le operazioni sul conto, così mostrando che i fatti storici sottostanti alla predetta valutazione giuridica sono stati tutti avuti presenti. Anche nell’ipotesi – invero indimostrata – in cui sussistesse un qualche elemento istruttorio, peraltro non specificato nel ricorso, indicativo della “proprietà” del de cuius della quota del 50% del saldo del conto cointestato (valutazione questa che la parte ricorrente dà per scontata, ma che non lo è – cfr. in prosieguo), andrebbe comunque applicata la regola per cui l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa (nel caso di specie, i prelevamenti), sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. sez. U, n. 8053 del 07/04/2014).
1.5. Solo per completezza, dunque, può richiamarsi che, da un lato, è vero che, in tema di successioni per causa di morte, un pagamento del debito del de cuius ad opera del chiamato all’eredità, a differenza di un mero adempimento dallo stesso eseguito con denaro proprio, configura un’accettazione tacita, non potendosi estinguere un debito ereditario se non da colui che agisce quale erede; a tal fine, è quindi necessario che sia fornita la prova che il pagamento sia stato effettuato con danaro prelevato dall’asse ereditario, mentre nel caso in cui il chiamato adempia al debito ereditario con denaro proprio, quest’ultimo non può ritenersi per ciò stesso che abbia accettato l’eredità (Cass. 27/01/2014, n. 1634; ciò in quanto la norma che legittima qualsiasi terzo all’adempimento del debito altrui -art. 1180 c.c.- esclude che si tratti di un atto che il chiamato “non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede” -art. 476 c.c.-). D’altro lato, però, è anche vero che nel conto corrente bancario intestato a più persone, i rapporti interni tra correntisti, anche aventi facoltà di compiere operazioni disgiuntamente, sono regolati nondall’art. 1854 c.c., riguardante i rapporti con la banca, bensìdall’art. 1298 c.c., comma 2, in virtù del quale debito e credito solidale si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente; ne consegue che, ove il saldo attivo risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno solo dei correntisti, si deve escludere che l’altro possa, nel rapporto interno, avanzare diritti sul saldo medesimo (cfr. Cass. n. 26991 del 02/12/2013 e n. 4066 del 19/02/2009). A fronte di tale dato, il mero probabile richiamo (implicito) della parte ricorrente alla spettanza al de cuius della metà del saldo in base alla presunzionedell’art. 1298 c.c., non è idoneo a far emergere che il prelievo totale abbia rappresentato un atto che il chiamato “non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede” (art. 476 c.c.), non risultando in alcun modo che si sia discusso in causa chi abbia effettuato i versamenti che hanno condotto al saldo, al netto dei prelevamenti, nell’ambito di un’azione di accertamento della qualità di erede in cui l’onere probatorio dell’accettazione è a carico di chi agisce in giudizio contro il chiamato (Cass. n. 10525 del 30/04/2010); per cui rettamente la corte d’appello ha ritenuto che i prelevamenti anche dell’intera giacenza non potessero ritenersi effettuati “se non nella qualità di erede”, potendo effettuarsi anche quale mero cointestatario, titolare di poteri disgiunti verso la banca del tutto avulsi rispetto al contesto dell’apertura della successione. In tal senso, questa corte ha affermato (ovviamente nel diverso contesto di applicabilitàdell’art. 1854 c.c.- Cass. n. 5071 del 28/02/2017) che il contratto di conto corrente bancario svolge, a differenza di quello ordinario, una semplice funzione di servizio di cassa per il correntista, sicché, in caso di cointestazione del conto, non rileva chi dei titolari sia beneficiario dell’accredito o chi abbia utilizzato la somma accreditata (rilevante nei rapporti interni tra i correntisti). Pertanto, quando una certa somma sia affluita sul conto, la stessa rientra nella disponibilità di tutti i correntisti, i quali, exart. 1854 c.c., ne divengono condebitori, restando irrilevante che taluno dei cointestatari non abbia in concreto compiuto operazioni sul conto, atteso che è sufficiente, ai fini della norma suddetta, che avesse titolo per compierle.
1.6. Tanto esime da ogni considerazione della circostanza circa la scaturigine dei prelevamenti in conto (ordine permanente di addebito in conto preesistente e non revocato), che pure avrebbe rappresentato un importante elemento argomentativo, al fine di farne derivare l’ammissibilità, per pertinenza rispetto alla ratio decidendi, del primo mezzo di ricorso. Quanto sopra considerato per completezza, dunque, conferma l’inammissibilità del motivo, comunque non tale – anche se per ipotesi sussistesse un fatto storico di cui fosse stato omesso l’esame nei sensi di cui innanzi – da attingere l’impianto del decisum.
2. Il secondo motivo di ricorso – con il quale si deduce la violazione o la falsa applicazionedell’art. 476 c.c., per non avere la corte d’appello considerato che la signora F., successivamente al decesso del coniuge, aveva mantenuto in essere l’addebito mensile diretto in conto corrente a titolo di pagamento del mutuo ipotecario, laddove, al fine di evitare l’uso delle somme depositate con riferimento alla quota di spettanza del marito, avrebbe potuto revocare l’ordine di prelievo automatico – è anch’esso inammissibile, in quanto il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di legge exart. 360 c.p.c., n. 3, consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione della fattispecie astratta di una norma di legge e, perciò, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, con la conseguenza che il ricorrente che presenti la doglianza è tenuto a prospettare quale sia stata l’erronea interpretazione della norma in questione da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, a prescindere dalla motivazione posta a fondamento di questa (Cass., n. 26307 del 15/12/2014); al contrario, se, come nel caso di specie, l’erronea ricognizione riguarda la fattispecie concreta, il gravame inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo ai sensidell’art. 360 c.p.c., n. 5, (Cass., n. 8315 del 4/4/2013).
3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce la violazione o la falsa applicazione degliartt. 752, 754, 1292 e 1294 c.c., per non avere la corte d’appello considerato che con la morte del debitore in solido non cessa il vincolo di solidarietà, ma si determina un frazionamento pro quota dell’originario debito del de cuius fra gli aventi causa, nel senso che ciascun erede rimane obbligato solidalmente con i debitori originari fino a concorrenza della propria quota ereditaria.
3.1. Il motivo è inammissibile, in quanto non coglie la ratio della decisione impugnata. Con essa si è infatti sottolineato come la signora F. fosse condebitrice solidale unitamente al marito poi defunto ai fini del mutuo. Pertanto, in piena linea con il principio di diritto di cui innanzi, la corte d’appello ha affermato essere la signora F. una debitrice originaria, non già uno degli eredi dell’altro condebitore (tra i quali si verifica il frazionamento exartt. 752 e 754 c.c.), quale invece viene qualificata dalla ricorrente (e quale sarebbe divenuta, in aggiunta alla veste originaria, solo con l’accettazione).
4. Il ricorso va dunque rigettato, non dovendo provvedersi sulle spese per non essersi costituita l’intimata. Trattandosi di ricorso notificato dopo il 30/01/2013, ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, va dato atto del sussistere dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis cit..
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, dà atto del sussistere dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis cit..
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 30 novembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2018

Condominio – Accessione – Costruzione su suolo comune da parte di comproprietario – Acquisto per accessione dei comproprietari non costruttori – Sussistenza – Condizioni

Cassazione Sez. Un. Civili, 16 Febbraio 2018, n. 3873. Est. Lombardo.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
omissis
Svolgimento del processo
1. – P.F. convenne, dinanzi al Tribunale di Belluno (Sezione distaccata di Pieve di Cadore), la società Cà D’Oro 3 s.r.l. Premettendo di essere comproprietario pro indiviso, con la società convenuta, di un terreno sito in (*), adiacente al fabbricato condominiale delle parti, chiese lo scioglimento della comunione delle unità immobiliari edificate dalla società Cà D’Oro sul suolo comune (costituite da un corpo edilizio interrato composto da due piani sovrapposti e da altra costruzione a livello seminterrato adibita ad autorimessa e cantina), con conseguente attribuzione delle quote di spettanza di ciascuno e con determinazione degli eventuali conguagli.
La società convenuta, costituendosi e resistendo alle domande attoree, chiese dichiararsi non luogo a provvedere sulla divisione dei locali seminterrati comuni destinati ad autorimessa, cantina ed accessori, stante l’intervenuto accordo fra le parti in ordine all’attribuzione dei beni; chiese, invece, l’attribuzione in proprietà esclusiva del corpo edilizio interrato, sul presupposto che lo stesso fosse di sua proprietà esclusiva; in subordine, nell’ipotesi di accoglimento anche parziale della domanda attorea, chiese la condanna del P. a corrispondere ad essa convenuta un indennizzo per l’indebito arricchimento.
L’adito Tribunale, con sentenza dell’8 aprile 2011, dichiarò che la società Cà D’Oro 3 s.r.l. era esclusiva proprietaria del corpo di fabbrica interrato edificato nel terreno comune; dichiarò che il P. e la Cà D’Oro erano proprietari esclusivi dei locali al piano seminterrato meglio descritti nella relazione del C.T.U., salva la comunione sull’area di manovra.
2. – Sul gravame proposto dal P., la Corte di Appello di Venezia ha confermato la pronuncia di primo grado.
Nel rilevare la carenza dei presupposti per poter ritenere “cosa comune” il corpo di fabbrica interrato edificato dalla società convenuta (che costituisce l’immobile cui attiene la questione di diritto sottoposta a questa Corte), i giudici di appello hanno osservato che tale corpo di fabbrica: (a) risulta essenzialmente incorporato alla proprietà esclusiva della convenuta società Cà D’Oro (che vi accede per mezzo di una scala interna dall’unità abitativa di sua proprietà, situata al piano terra dell’edificio condominiale) ed è stato realizzato su progetto e con lavori eseguiti dallo stesso attore P. (socio e legale rappresentante dell’omonima impresa edile), ma pagati esclusivamente dalla Cà D’Oro sul presupposto che esso sarebbe stato di proprietà esclusiva di quest’ultima e non di proprietà comune; (b) non è incorporato nè è funzionalmente legato alla proprietà del P.; (c) è privo di caratteristiche (quali un muro maestro o un tetto) tali da indurre a ritenerlo essenziale all’esistenza dei beni comuni; (d) infine, è stato progettato e realizzato in funzione esclusiva delle preesistenti unità immobiliari di proprietà della società Cà D’Oro.
Rilevando che, nella specie, vi sarebbe stato un valido accordo assunto ed osservato dalle parti, provato documentalmente, la Corte di Appello di Venezia, nell’escludere la comproprietà di quanto realizzato nel sottosuolo, ha richiamato il principio di diritto secondo cui alle costruzioni eseguite da uno dei comproprietari sul suolo comune non si applica la disciplina sull’accessione contenuta nell’art. 934 cod. civ., ma quella in materia di comunione, con la conseguenza che la nuova costruzione diviene di proprietà comune ai condomini non costruttori solo se essa sia stata realizzata in conformità a detta disciplina, ossia nel rispetto delle norme che disciplinano l’uso della cosa comune; altrimenti essa, quando sia stata abusivamente realizzata, non diviene comune neppure per accessione.
3. – Per la cassazione della sentenza di appello ha proposto ricorso P.F. sulla base di dodici motivi.
Ha resistito con controricorso la società Cà D’Oro.
4. – All’esito dell’udienza pubblica del 21 marzo 2017, la Seconda sezione civile di questa Corte, con ordinanza n. 9316 dell’U aprile 2017, ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, rilevando un contrasto diacronico nella giurisprudenza di legittimità sulla questione di diritto, sottostante al secondo motivo di ricorso, vertente sulla proprietà della costruzione realizzata da uno dei comproprietari sul suolo comune.
In particolare, l’ordinanza interlocutoria ha sottolineato come, sulla questione, esistano due contrapposti orientamenti nella giurisprudenza della Corte:
– un primo orientamento, più tralatizio, secondo cui, per il principio dell’accessione (art. 934 cod. civ.), la costruzione su suolo comune è anch’essa comune, mano a mano che si innalza, salvo contrario accordo scritto ad substantiam (art. 1350 cod. civ.); pertanto, per l’attribuzione in proprietà esclusiva, ai contitolari dell’area comune, dei singoli piani che compongono la costruzione, sono inidonei sia il corrispondente possesso esclusivo del piano, sia il relativo accordo verbale, sia il proporzionale diverso contributo alle spese (Cass., Sez. 2, 11/11/1997, n. 11120; Cass., Sez. 1, 12/05/1973, n. 1297; Cass., Sez. 2, 11/07/1978, n. 3479; Cass., Sez. 2, 10/11/1980, n. 6034);
– un secondo e più recente orientamento – fatto proprio dai giudici di merito – secondo cui, invece, la disciplina sull’accessione, contenuta nell’art. 934 cod. civ., si riferisce solo alle costruzioni su terreno altrui, mentre alle costruzioni eseguite da uno dei comproprietari su terreno comune non si applica tale disciplina, ma quella in materia di comunione, con la conseguenza che la comproprietà della nuova opera sorge a favore dei condomini non costruttori solo se essa sia realizzata in conformità a detta disciplina, ossia con il rispetto delle norme che dettano i limiti che ciascun comproprietario deve osservare nell’uso della cosa comune, mentre le opere abusivamente realizzate non possono considerarsi beni condominiali per accessione, ma vanno considerate appartenenti al comproprietario costruttore e rientranti nella sua esclusiva sfera giuridica (Cass., Sez. 2, 22/03/2001, n. 4120; Cass., Sez. 2, 27/03/2007, n. 7523).
La Seconda Sezione ha evidenziato la necessità di rimeditare il più recente orientamento, per la perplessità che desta la conclusione secondo cui l’edificazione sull’area comune da parte di uno solo dei comunisti, in violazione degli artt. 1102 e segg. cod. civ., determini l’assegnazione della proprietà esclusiva dell’opera e del suolo in favore del comproprietario costruttore, effetto giuridico – questo difficilmente inquadrabile in uno dei modi di acquisto stabiliti dall’art. 922 cod. civ.; e prospetta l’esigenza di tracciare una linea interpretativa in grado di coniugare la disciplina dell’accessione e quella della comunione, facendo convivere l’espansione oggettiva della comproprietà in caso di inaedificatio ad opera di uno dei comunisti (salvo che non sia stato costituito, nei modi e nelle forme di legge, altro diritto reale a favore del comproprietario costruttore) con la facoltà del comproprietario non costruttore di pretendere la demolizione della costruzione ove quest’ultima sia stata realizzata dall’altro comunista in violazione dei limiti posti dall’art. 1102 cod. civ. al godimento della cosa comune.
5. – Il Primo Presidente ha disposto, ai sensi dell’art. 374 cod. proc. civ., comma 2, che sulla questione la Corte pronunci a Sezioni Unite.
6. – Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
Motivi della decisione
1. – Col primo motivo di ricorso, si deduce (ex art. 360 cod. proc. civ., n. 4), la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere la Corte di Appello erroneamente escluso che la sentenza di primo grado, nel dichiarare che la società convenuta aveva acquistato a titolo originario la proprietà esclusiva del corpo di fabbrica interrato, fosse incorsa in nullità per extrapetizione. Secondo il ricorrente, la società Cà D’Oro non avrebbe proposto alcuna domanda di accertamento dell’acquisto a titolo originario del corpo di fabbrica per cui è causa, avendo invece posto a fondamento della sua domanda di assegnazione del fabbricato in proprietà esclusiva la circostanza dell’assunzione per intero delle spese di costruzione con l’asserito consenso del P.. Tale fatto, secondo il ricorrente, non potrebbe qualificarsi come “costitutivo” di un acquisto a titolo originario, ma (a tutto concedere) di un acquisto a titolo derivativo.
Unitamente a tale mezzo va esaminato, per la sua stretta connessione, il quinto motivo di ricorso, col quale si deduce (ex art. 360 cod. proc. civ., n. 4) la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere la Corte territoriale ritenuto che la domanda riconvenzionale della società Cà D’Oro, relativa all’accertamento della proprietà esclusiva del fabbricato, fosse autodeterminata e per avere altresì ritenuto che la Cà D’Oro avesse fatto valere un titolo di acquisto della proprietà a titolo originario, piuttosto che un titolo di acquisto a titolo derivativo.
Le censure non sono fondate.
Va premesso, che, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, alla quale il Collegio ritiene di dare continuità, il diritto di proprietà e gli altri diritti reali di godimento sono individuati solo in base al loro contenuto (ossia con riferimento al bene che ne costituisce l’oggetto), cosicchè la causa petendi della domanda con la quale è chiesto l’accertamento di tali diritti si identifica con il diritto stesso (c.d. “diritti autodeterminati”) e non, come nel caso dei diritti di credito, con il titolo che ne costituisce la fonte (contratto, successione, usucapione etc.); titolo la cui deduzione, nel caso di diritti “autodeterminati”, è necessaria ai fini della prova del diritto, ma non ha alcuna funzione di specificazione della domanda (Cass., Sez. 2, 16/05/2007, n. 11293; Cass., Sez. 2, 08/01/2015, n. 40). Pertanto, non ricorre alcuna violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato ove il giudice accolga la domanda, accertando la sussistenza di un diritto c.d. “autodeterminato”, sulla scorta di un titolo diverso da quello invocato dalla parte (Cass., Sez. 2, 21/11/2006, n. 24702; Cass., Sez. 2, 24/11/2010, n. 23851; Cass., Sez. 2, 20/11/2007, n. 24141).
Alla stregua del richiamato principio di diritto, va esclusa la configurabilità del dedotto vizio di extrapetizione, non rilevando il titolo posto dalla società convenuta a fondamento della pretesa declaratoria della proprietà esclusiva.
Va peraltro osservato che – nella specie – la società convenuta non ha posto a fondamento del proprio asserito diritto di proprietà esclusiva scritture traslative della proprietà del suolo o costitutive di un diritto di superficie sul suolo comune o di una proprietà superficiaria dell’immobile (sul punto, cfr. Cass., Sez. 2, 09/10/2017, n. 23547), ma ha dedotto – come fatti costitutivi del suo preteso diritto – mere situazioni fattuali, quali l’avvenuta assunzione dei costi di costruzione da parte della società Cà D’Oro con il consenso del P., nonchè la progettazione e costruzione delle opere “come aventi destinazione originaria, esclusiva, pertinenziale alle unità immobiliari di proprietà esclusiva Cà D’Oro”.
In questo quadro, a prescindere dalla ricordata irrilevanza del titolo in un giudizio avente ad oggetto l’accertamento di un diritto c.d. “autodeterminato”, risulta esente da vizi logici e giuridici la sentenza impugnata laddove essa ha escluso che la società convenuta avesse chiesto l’accertamento dell’avvenuto acquisto della proprietà esclusiva della costruzione per cui è causa “a titolo derivativo”.
2. – Col secondo motivo, si deduce (ex art. 360 cod. proc. civ., n. 3) la violazione e la falsa applicazione degli artt. 934, 840, 1102 e 1121 cod. civ., per avere la Corte di Appello ritenuto che l’assunzione dei costi delle opere da parte della società Cà D’Oro avesse determinato in suo favore l’acquisto della proprietà dell’area ove insiste la costruzione, sottraendola all’altro comproprietario. Tale conclusione, a dire del ricorrente, darebbe luogo ad una sorta di espropriazione senza indennizzo nei confronti del comproprietario non costruttore e sarebbe, perciò, in patente contrasto con l’art. 42 Cost..
Secondo il ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe potuto escludere, nella specie, l’applicabilità del principio dell’accessione, tanto più che i comproprietari del suolo non avevano concluso alcuna pattuizione che legittimasse l’appropriazione dell’area comune da parte della Cà D’Oro, pattuizione che, trattandosi di beni immobili, avrebbe dovuto comunque rivestire la forma scritta ad substantiam. Dovrebbe dunque essere riconosciuto che le unità immobiliari realizzate nel sottosuolo sono di proprietà comune dei comproprietari del suolo in rapporto alle rispettive quote, salva la ripartizione tra di essi delle spese sostenute per la costruzione; in subordine, dovrebbe essere sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 934 cod. civ., come interpretato dalla giurisprudenza, per violazione dell’art. 42 Cost..
Unitamente a tale motivo, va esaminato, in ragione della stretta connessione, il quarto mezzo di ricorso, col quale si deduce (ex art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5) la violazione dell’art. 1350 cod. civ., nonchè il difetto di motivazione della sentenza impugnata, per avere la Corte territoriale dato rilievo ad asseriti accordi intervenuti tra le parti circa la proprietà delle unità immobiliari da costruire, omettendo di considerare che tali pretesi accordi – ove mai sussistenti sarebbero comunque nulli per mancanza della necessaria forma scritta, richiesta dalla legge ad substantiam in materia di costituzione, modificazione o trasferimento di diritti reali immobiliari. Si deduce ancora che i giudici di merito avrebbero omesso, nella motivazione della sentenza, di individuare l’atto scritto col quale le parti avrebbero legittimato il trasferimento della proprietà del suolo comune in favore della Cà D’Oro 3 ovvero – eventualmente – costituito su di esso un diritto di superficie.
2.1. – Preliminarmente, va esaminata l’eccezione formulata dalla controricorrente società, con la quale si è dedotto che il P. avrebbe chiesto solo in appello l’accertamento dell’avvenuto acquisto per accessione, ai sensi dell’art. 934 cod. civ., della proprietà della costruzione per cui è causa.
L’eccezione va rigettata, dovendo ritenersi che la richiesta di accertamento dell’avvenuto acquisto per accessione, da parte del P., della proprietà della costruzione de qua era implicita nella proposta domanda di scioglimento della comunione, costituendo il presupposto logico-giuridico di essa.
2.2. – Ciò posto, prima di passare allo scrutinio dei motivi in esame, il Collegio ritiene di doversi brevemente soffermare sui caratteri essenziali dell’istituto dell’accessione.
Com’è noto, l’accessione costituisce espressione del carattere “assoluto” del diritto di proprietà (che l’art. 832 cod. civ. definisce il “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”), della pretesa del suo titolare – valevole erga omnes – di non essere disturbato nel suo godimento da qualsiasi terzo; dal che l’idea che il dominium su una determinata res non consente un concorrente dominio altrui su una cosa che sia divenuta parte della stessa res, sì da perdere la propria autonomia.
L’istituto dell’accessione, quale modo di acquisto della proprietà “a titolo originario”, affonda le sue radici nel diritto romano, che però non pervenne all’elaborazione di un concetto unitario di esso in grado di ricomprenderne le varie fattispecie (inaedificatio, satio, implantatio, adluvio, avulsio, etc.); si deve, invece, all’opera dei giuristi medievali (soprattutto dei glossatori) l’elaborazione dell’accessione come figura giuridica unitaria (nella quale furono inquadrate le varie fattispecie di tradizione romanistica), che – come tale – fu recepita nel codice napoleonico, per essere poi trasfusa nel primo codice civile dell’Italia unita.
Non è un caso se il codice civile del 1865, ancora ispirato al mito illuministico della completezza ed esaustività della legge, forniva una definizione unitaria dell’accessione. L’art. 443 di tale codice disponeva, infatti, che “La proprietà di una cosa, sia mobile che immobile, attribuisce diritto su quanto essa produce, o vi si unisce naturalmente o coll’arte: questo diritto si chiama diritto d’accessione”.
Il codificatore del 1942, a fronte delle critiche della dottrina, non ha inteso dare una definizione legislativa dell’accessione; esso, piuttosto, ha dettato una disciplina più agile dell’istituto, espungendo dalle norme sull’accessione la materia dei frutti (disciplinata nel titolo I, dedicato ai “beni”, del libro della proprietà) e adottando dell’accessione una nozione più ristretta (come si evince dalla intitolazione della sezione II del capo III del titolo II dello stesso libro) – limitata alle piantagioni, costruzioni o altre opere fatte sopra il suolo (c.d. “accessione di mobile ad immobile” o “accessione verticale”) – che lascia fuori, quali figure autonome, tanto quelle tradizionalmente ricondotte alla “accessione di mobile a mobile” (unione e commistione, specificazione) quanto quelle ricondotte alla “accessione di immobile ad immobile” o “accessione orizzontale” (le varie figure dei c.d. incrementi fluviali).
Nonostante la frammentazione delle varie fattispecie tradizionalmente ricondotte all’accessione, la dottrina rinviene il carattere ad esse comune nel fatto che l’acquisto della proprietà è legato al solo fatto materiale ed obiettivo dell’incorporazione (c.d. “attrazione reale”), da intendersi come “unione stabile” di una cosa con un’altra, non rilevando se essa sia avvenuta per evento naturale o per opera dell’uomo. La proprietà si acquista ipso iure al momento dell’incorporazione; quest’ultima è un fatto giuridico in senso stretto, ossia un fatto che determina l’effetto giuridico dell’acquisto della proprietà a prescindere dalla volontà dell’uomo.
In questo senso, l’accessione costituisce un “meccanismo oggettivo” di acquisto della proprietà: la volontà dell’uomo – ove pure vi sia – non assume rilievo giuridico nè influisce positivamente sull’acquisto della proprietà (cfr. Cass., sez. 2, 06/06/2006, 13215; Cass., Sez. 2, 15/05/2013, n. 11742; Cass., Sez. 1, 12/06/1987, n. 5135).
Fattore unificante delle varie figure di accessione è la regola per cui il proprietario della “cosa principale” diviene proprietario della “cosa accessoria” quando quest’ultima si congiunge stabilmente alla prima (“accessorium cedit principali”). Il diritto di proprietà sulla cosa principale esercita, perciò, una vis attractiva sulla proprietà della cosa accessoria. E mentre con riguardo all’accessione di mobile a mobile spetta al giudice accertare in concreto – tenendo conto dei criteri della funzione e del valore – quale sia la cosa principale e quale quella accessoria, nel caso dell’accessione c.d. verticale è la stessa legge (art. 934 e segg. cod. civ.) ad individuare la “cosa principale” nel bene immobile (il suolo), sancendo la sua preminenza sulle cose mobili che vi sono incorporate, in ragione dell’importanza economico-sociale che ad esso si riconosce (anche se tale regola non manca delle sue eccezioni: come nel caso della c.d. “accessione invertita” di cui all’art. 938 cod. civ., cui può farsi ricorso ove vi sia stata occupazione parziale di un fondo altrui). Sicchè, quando riguarda un bene immobile, l’accessione si coniuga col principio per cui la proprietà immobiliare (c.d. “proprietà fondiaria”) si estende in linea verticale teoricamente all’infinito, sia nel sottosuolo che nello spazio sovrastante al suolo, fin dove l’uno e l’altro siano suscettibili di utilizzazione economica, ossia fin dove il proprietario del suolo abbia interesse ad escludere le attività di terzi (art. 840 cod. civ., comma 2).
L’art. 934 cod. civ., che apre le disposizioni codicistiche dedicate all’accessione, detta la “regola generale” di tale modo di acquisto della proprietà – trasposizione dell’antico principio romanistico “quidquid inaedificatur solo cedit” (o “superficies solo cedit”) secondo cui “Qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo, salvo quanto disposto dagli artt. 935, 936, 937 e 938 e salvo che risulti diversamente dal titolo e dalla legge”; e gli articoli che seguono tale disposizione – disciplinando specificamente il caso delle opere fatte dal proprietario del suolo con materiali altrui (art. 935 cod. civ.), quello delle opere fatte dal terzo con materiali propri (art. 936 cod. civ.) e quello delle opere fatte dal terzo con materiali altrui (art. 937 cod. civ.) – confermano la preminenza assegnata dal legislatore al bene immobile sul bene mobile (sia pure con i temperamenti di volta in volta previsti).
La regola dell’accessione, nella misura in cui consente la ricompattazione e la semplificazione delle situazioni di appartenenza punta a salvaguardare l’interesse generale al più razionale sfruttamento economico del suolo, ma costituisce soprattutto – anche grazie al sistema della pubblicità immobiliare – presidio della certezza dei rapporti giuridici e della sicurezza della circolazione della proprietà. Essa finisce per limitare lo stesso potere del proprietario del suolo di disporre del suo diritto, non potendo egli alienare il suolo e la costruzione l’uno separatamente dall’altro, salvo a costituire con atto redatto nelle forme di legge (art. 1350 cod. civ.) e soggetto all’onere della trascrizione (art. 2643 e segg. cod. civ.) – un diritto reale di superficie (sub specie di proprietà superficiaria) (artt. 952 e segg. cod. civ.).
2.3. – Orbene, premesso quanto sopra in ordine ai caratteri essenziali dell’accessione, occorre ritornare ora allo scrutinio del secondo e del quarto motivo di ricorso, con i quali – come si è veduto – viene sottoposta la questione circa la possibilità che l’accessione operi quando la proprietà del suolo sia comune a più soggetti (c.d. comunione o comproprietà) ed uno solo (o alcuni soltanto) di essi abbia edificato sul suolo comune; questione, questa, relativamente alla quale – come ha evidenziato l’ordinanza di rimessione – si fronteggiano due opposti indirizzi giurisprudenziali.
Secondo un primo indirizzo, più risalente, il principio dell’accessione (art. 934 cod. civ.) opererebbe anche nel caso di comunione, per cui la costruzione su suolo comune, pur se eseguita da uno solo dei comunisti, diverrebbe anch’essa comune, mano a mano che viene edificata, salvo contrario accordo scritto. La nuova costruzione diverrebbe, ai sensi dell’art. 934 cod. civ., automaticamente di proprietà di tutti i contitolari del suolo comune, secondo le quote spettanti su detto suolo a ciascuno di essi, salvo il diritto del costruttore al rimborso pro quota delle spese sostenute (Cass., Sez. 2, 11/07/1978, n. 3479; Cass., Sez. 2, 11/11/1997, n. 11120; Cass., Sez. 1, 23/02/1999, n. 1543).
Secondo l’opposto e più recente orientamento, oggi prevalente, la fattispecie dell’accessione di cui all’art. 934 cod. civ. si riferirebbe solo alle costruzioni od opere eseguite su terreno altrui, presupporrebbe cioè che il costruttore sia un “terzo” rispetto ai proprietari del suolo; e poichè il comproprietario costruttore non può essere considerato “terzo” rispetto agli altri comunisti, la fattispecie della costruzione eseguita da uno dei comproprietari su suolo comune non potrebbe essere regolata dall’art. 934 cod. civ., ma sarebbe invece regolata dalla disciplina in materia di comunione, che configurerebbe una deroga al principio dell’accessione. In particolare, secondo tale giurisprudenza, la nuova costruzione sarebbe di proprietà comune a tutti i comunisti se eseguita in conformità alle regole del condominio, cioè con il rispetto delle norme sui limiti del comproprietario all’uso delle cose comuni (art. 1102 cod. civ.); apparterrebbe, invece, solo al comproprietario costruttore se eseguita in violazione della disciplina condominiale (costruzione “illegittima”) (Cass., Sez. 2, 27/03/2007, n. 7523; Cass., Sez. 2, 18/04/1996, n. 3675; Cass., Sez. 2, 22/03/2001, n. 4120; Cass., Sez. 2, 24/01/2011, n. 1556).
2.4. – La Corte ritiene che il più recente orientamento giurisprudenziale non possa essere condiviso per le seguenti ragioni.
2.4.1. – Innanzitutto, il Collegio non reputa fondato l’assunto posto a fondamento dell’indirizzo giurisprudenziale in esame secondo cui presupposto indefettibile dell’accessione sarebbe la qualità di “terzo” del costruttore rispetto al proprietario del suolo; dal che discenderebbe – secondo tale opinione – che, nel caso in cui il suolo appartenga in comunione a più soggetti, non potendo il comproprietario costruttore essere considerato “terzo” rispetto agli altri comunisti, l’accessione non potrebbe operare.
Va premesso che, secondo l’insegnamento consolidato di questa Corte regolatrice, in materia di accessione, è “terzo” colui che non sia legato al proprietario del suolo da un rapporto giuridico, di natura reale o personale, che lo legittimi a costruire sul fondo medesimo. Ove invece sussista un diritto reale o personale che assegni al terzo la facoltà di edificare su suolo altrui viene meno la ragione di applicare la disciplina dell’accessione intesa come ipotesi di soluzione del conflitto tra contrapposti interessi, perchè il conflitto risulta assoggettato ad una disciplina specifica (ad es.: gli artt. 1592 e 1593 cod. civ. in tema di miglioramenti e addizioni nel rapporto di locazione; gli artt. 983, 985 e 986 in tema di usufrutto; etc.) (cfr. Cass., Sez. 2, 05/02/1983, n. 970; Cass., Sez. 2, 14/12/1994, n. 10699). Si è ritenuto perciò che, ove sussista una comunione del suolo ed uno solo dei comproprietari del suolo costruisca su di esso, non è applicabile l’art. 936 cod. civ. (dettato per le “Opere fatte da un terzo”), non potendo il comproprietario costruttore essere qualificato “terzo” rispetto agli altri comproprietari del suolo (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 2, 14/01/2009, n. 743; Cass., Sez. 2, 14/12/1994, n. 10699; Cass., Sez. 2, 27/08/1986, n. 5242).
Ciò premesso, va tuttavia osservato che un esame obiettivo del complesso della disciplina codicistica consente di ritenere, in accordo con autorevole dottrina, che l’operare dell’istituto dell’accessione non è affatto precluso dalla circostanza che, in presenza di una comunione del suolo, la costruzione sia realizzata da uno (o da alcuni) soltanto dei comproprietari.
Diversi argomenti conducono a tale conclusione.
In primo luogo, sul piano dell’interpretazione letterale della legge, va rilevato che l’art. 934 cod. civ. – che detta la “regola generale” in materia di accessione – non contiene alcun riferimento soggettivo al costruttore. La norma enuncia il principio per cui “Qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo” e prescinde del tutto da chi sia la persona del costruttore.
Si tratta di una nozione ampia di accessione che fa parte della tradizione giuridica dell’istituto nel nostro ordinamento e che si collega idealmente alla onnicomprensiva definizione di accessione contenuta nell’art. 443 cod. civ. 1865, che includeva persino l’acquisto dei frutti prodotti dal fondo (cfr. art. 444 cod. civ. abrogato); una nozione che non esclude l’accessione neppure nel caso di costruzioni realizzate dallo stesso proprietario del suolo.
Conferma di quanto detto si ricava dall’interpretazione sistematica del complesso delle norme relative all’accessione e, in particolare, dal fatto che le fattispecie di accessione relative al caso in cui il costruttore sia un “terzo” rispetto ai proprietari del suolo sono specificamente contemplate e regolate negli artt. 936 e 937 cod. civ. (disposizioni che disciplinano l’accessione rispettivamente nel caso in cui le opere siano state realizzate “da un terzo con materiali propri” ovvero “da un terzo con materiali altrui”).
Essendo le ipotesi in cui le opere siano state eseguite da un soggetto “terzo” rispetto al proprietario del suolo regolate dai richiamati artt. 936 e 937 cod. civ., va escluso che l’art. 934 cod. civ. possa riferirsi alle medesime opere eseguite dal terzo.
Altra conferma del fatto che l’applicabilità dell’art. 934 cod. civ. non è subordinata alla qualità di terzo del costruttore si desume, peraltro, dall’art. 935 cod. civ., che disciplina l’accessione nel caso in cui l’opera sia stata edificata dal proprietario del suolo “con materiali altrui”; fattispecie – questa – nella quale l’accessione opera nonostante vi sia coincidenza tra costruttore e dominus soli.
Infine, ulteriore conferma del fatto che l’accessione non presuppone affatto l’alterità soggettiva tra proprietario del suolo e costruttore si ricava anche dalla giurisprudenza elaborata da questa Corte in tema di “comunione legale tra i coniugi”, laddove si è affermato che la costruzione realizzata durante il matrimonio da entrambi i coniugi sul suolo di proprietà esclusiva di uno solo di essi, appartiene a quest’ultimo in forza del principio di accessione e, pertanto, non entra a far parte della comunione legale (Cass., Sez. U, 27/01/1996, n. 651; Cass., Sez. 1, 30/09/2010, n. 20508).
Si tratta di un principio che riconosce l’operare dell’accessione, ai sensi dell’art. 934 cod. civ., in favore del coniuge proprietario esclusivo del suolo, nonostante che egli stesso sia l’autore della costruzione (sia pure unitamente all’altro coniuge), nonostante cioè che il costruttore non sia “terzo” rispetto al proprietario del suolo. Anche da tale principio giurisprudenziale si ricava, perciò, conferma della conclusione secondo cui l’accessione non presuppone che il costruttore dell’opera sia “terzo” rispetto alla proprietà del suolo.
E allora, a meno di voler ridurre l’art. 934 cod. civ. ad una disposizione meramente enunciativa di una definizione giuridica (simile all’art. 443 cod. civ. abrogato) priva di immediata efficacia precettiva (ciò che, tuttavia, non sarebbe conforme nè alla lettera della legge nè all’intenzione del codificatore), deve concludersi che l’art. 934 cod. civ. detta la “regola generale” dell’accessione, che costituisce norma immediatamente applicabile e destinata a regolare tutte quelle fattispecie in cui l’incorporazione di piantagioni o materiali al suolo non trovi specifica disciplina in diverse disposizioni di legge.
Tra tali fattispecie rientra certamente il caso in cui il suolo appartenga in comunione a più soggetti ed uno (o alcuni) soltanto di essi abbia realizzato una costruzione sul suolo comune.
Non è inutile osservare in proposito che, nel caso di costruzione del singolo comunista sul suolo comune, l’accessione non perde la propria ragion d’essere giuridica: basti considerare che, proprio grazie all’accessione, l’alienazione del suolo comporta l’automatica alienazione di quanto su di esso incorporato, senza necessità di un separato atto di alienazione dei materiali ad esso stabilmente uniti e senza che – in mancanza di un tale atto – l’acquirente corra il rischio di vedersi disturbato nel godimento del fondo da alcuno dei suoi danti causa.
Può ritenersi, dunque, che tanto l’interpretazione letterale quanto l’interpretazione sistematica delle norme codicistiche relative all’accessione depongono nel senso che la “regola generale” dell’accessione di cui all’art. 934 cod. civ. prescinde dal riferimento soggettivo all’autore della costruzione e che non vi sono ragioni per escludere che essa – legata com’è al mero fatto dell’incorporazione dei materiali al suolo – operi anche nel caso di costruzione realizzata dal singolo comproprietario sul suolo comune.
2.4.2. – Il Collegio non condivide neanche l’altro assunto, posto a fondamento della giurisprudenza criticata, secondo cui, allorquando il suolo su cui sono eseguite le opere appartiene a più soggetti, l’art. 934 cod. civ. sarebbe derogato dalla disciplina della comunione.
E’ vero che la regola generale dell’accessione posta dall’art. 934 cod. civ. vale – secondo quanto previsto dall’ultimo inciso della disposizione (“salvo che risulti diversamente (…) dalla legge”) – a condizione che non sia derogata da una norma di legge a carattere speciale (“lex specialis derogat legi generali”). Non è vero, tuttavia, che la disciplina giuridica della comunione integri una deroga all’istituto dell’accessione.
Non esiste, tra accessione e comunione, alcun rapporto tra genus ad speciem.
Invero, la disciplina giuridica della comunione (art. 1100 e segg. cod. civ.) punta a regolare i rapporti tra comproprietari nell’uso e nel godimento della cosa comune (art. 1102 cod. civ.), a fissare i limiti entro cui è consentito il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione del bene comune o sono permesse le innovazioni e la disposizione della cosa comune, con la garanzia delle ragioni delle minoranze (artt. 1108 e 1120 cod. civ.). Nessuna delle norme che regolano la comunione è, tuttavia, atta ad incidere sui modi di acquisto della proprietà o a mutare l’assetto della proprietà comune, sì da poter configurare una disciplina speciale, e quindi una deroga, rispetto al principio di accessione.
Peraltro, l’art. 1102 cod. civ. – che costituisce la norma fondamentale in materia di comunione (applicabile anche alla materia del condominio degli edifici in virtù del richiamo contenuto nell’art. 1139 cod. civ.) – consente a ciascun partecipante alla comunione di servirsi della cosa comune “purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”.
La medesima ratio è posta a fondamento degli artt. 1108 e 1120 cod. civ., che consentono le innovazioni deliberate dalle maggioranze ivi previste, ma sempre a condizione che si tratti di innovazioni che non pregiudichino l’uso e il godimento della cosa comune da parte di alcuno dei partecipanti.
Orbene, queste norme escludono in radice che il singolo comproprietario, senza il consenso degli altri comunisti, possa cambiare destinazione al suolo comune ed edificare su di esso con l’intento di appropriarsi del medesimo ed escludere gli altri comproprietari dal suo godimento.
L’esistenza di un pari diritto di ogni comunista sulla cosa comune, infatti, è incompatibile con l’assunto che uno solo di essi possa divenire proprietario esclusivo dell’opera e del suolo comune su cui essa insiste.
D’altra parte, il comproprietario che costruisce senza il consenso degli altri partecipanti alla comunione realizza una alterazione della destinazione della cosa comune ed impedisce agli altri comunisti di fare uso di essa secondo il loro diritto; egli infrange la disciplina della comunione e commette un “atto illecito”, come “illegittima” è la costruzione realizzata sul suolo comune (Cass., Sez. 2, 24/01/2011, n. 1556; Cass., Sez. 2, 21/05/2001, n. 6921).
Dunque, essendo la disciplina della comunione destinata a regolare i rapporti tra comproprietari nell’uso e nel godimento della cosa comune e non contenendo tale disciplina alcuna norma in grado di determinare l’attrazione della nuova opera nella sfera patrimoniale esclusiva del comunista costruttore, va ripudiata l’idea che la disciplina della comunione costituisca deroga a quella relativa ai modi di acquisto della proprietà, sì da escludere l’operare dell’accessione.
2.4.3. – Il Collegio non condivide neppure la conclusione secondo cui la costruzione edificata da uno solo dei comproprietari sul suolo comune diverrebbe di proprietà comune di tutti i comunisti solo se eseguita in conformità alle regole che disciplinano la comunione, cioè con il rispetto dei limiti posti al comproprietario nell’uso della cosa comune (art. 1102 cod. civ.), mentre apparterrebbe in proprietà esclusiva al solo comproprietario costruttore se eseguita in violazione della detta disciplina (costruzione “illegittima”).
Innanzitutto, se venisse esclusa l’applicabilità del principio di accessione in materia di comunione, non sarebbe dato comprendere sulla base di quale diverso principio la costruzione edificata da uno solo dei comproprietari possa divenire comune agli altri comunisti ove sia eseguita in conformità alle regole che disciplinano la comunione; ma risulterebbe anche, a maggior ragione, incomprensibile come il comproprietario costruttore che, violando la disciplina della comunione, abbia edificato sul suolo comune possa divenire proprietario esclusivo della costruzione, così sottraendo agli altri comunisti la proprietà del suolo su cui insiste la costruzione (a tale conclusione sembra addivenire la giurisprudenza criticata nella misura in cui non prospetta una proprietà del suolo occupato dalla costruzione diversa dalla proprietà della costruzione stessa).
Il vero è che, nella sostanza, la giurisprudenza criticata, una volta esclusa l’applicabilità del principio di accessione in materia di comunione e ritenuta applicabile solo la disciplina di cui agli artt. 1100 e segg. cod. civ., è venuta a creare di fatto, per via pretoria, una nuova figura di “acquisto a titolo originario” della proprietà, che non ha base legale.
Sul punto, va però osservato che sia la Costituzione (art. 42, secondo comma, a tenore del quale spetta alla legge determinare i modi di acquisto della proprietà) che il codice civile (art. 922, che, nell’elencare i vari modi di acquisto della proprietà, conclude con la formula “e negli altri modi stabiliti dalla legge”) configurano una vera e propria “riserva di legge” in ordine ai modi di acquisto della proprietà, in forza della quale la proprietà può acquistarsi solo nei modi “legali”, solo nei modi che il legislatore ha inteso prevedere (non solo – ovviamente – in seno al codice civile, ma anche in altri campi del diritto: si pensi ai vari casi di appropriazione coattiva previsti dal diritto pubblico o dal diritto processuale in materia esecutiva), non potendosi ammettere modi di acquisto della proprietà (o di altri diritti reali) diversi da quelli che il legislatore abbia previsto e disciplinato.
E allora, ritenere, per via pretoria, che la violazione delle norme sulla comunione consenta al singolo comproprietario che costruisca sul suolo comune di acquistare la proprietà della costruzione e del suolo, in danno degli altri comunisti, costituirebbe una patente violazione della “riserva di legge” relativa ai modi di acquisto della proprietà.
Per di più, va ricordato che la tutela della proprietà privata trova fondamento, oltre che nell’art. 42 Cost., nello stesso codice del 1942. L’art. 834 cod. civ., comma 1, quasi anticipando la previsione della futura Carta costituzionale, stabilisce “Nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua proprietà, se non per causa di pubblico interesse, legalmente dichiarata, e contro il pagamento di giusta indennità”; e l’art. 1102 cod. civ., comma 2, espressamente preclude al singolo compartecipe di estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri compartecipi, salvo che “muti il titolo del suo possesso” (addivenendo all’acquisto per usucapione ove ricorrano i presupposti richiesti dall’art. 1158 cod. civ.).
Perciò, ammettere che i comproprietari non costruttori possano perdere la proprietà della cosa comune per il semplice fatto della iniziativa di altro comproprietario, dando luogo ad una sorta di espropriazione della proprietà privata in assenza di un interesse generale e senza indennizzo, contrasta con i principi generali che reggono la materia e con la stessa Carta fondamentale (art. 42 Cost.).
Si tratta, peraltro, di una soluzione contraria ad ogni logica e al comune senso di giustizia, perchè finisce col premiare, piuttosto che sanzionare, il comproprietario che commette un abuso in danno degli altri comproprietari.
2.5. – In definitiva, alla luce di quanto sopra detto, il Collegio ritiene che la disciplina della comunione non configuri affatto una deroga legale al principio di accessione di cui all’art. 934 cod. civ. e che quest’ultimo operi anche quando il suolo appartiene in comunione a più soggetti ed uno solo (o alcuni soltanto) di essi abbia provveduto a realizzare una costruzione o altra opera.
Come si è detto, l’accessione costituisce un mero fatto giuridico, che opera per il solo fatto dell’incorporazione. L’acquisto della proprietà per accessione prescinde dalla volontà di alcuno e non è escluso dalla buona fede del costruttore; cosicchè, nel caso di comunione del suolo e di costruzione eseguita su di esso da uno o da alcuni soltanto dei comunisti, tutti i comproprietari del suolo (costruttori e non costruttori) acquistano la proprietà della costruzione, in rapporto alle rispettive quote, per il semplice fatto di essere comproprietari del suolo.
E’ ben vero che l’art. 934 cod. civ. fa salve le deroghe alla regola dell’accessione previste dalla “legge” o dal “titolo”.
Tuttavia, nessuna delle deroghe all’operare dell’accessione previste dalla legge – quella relativa alle opere destinate all’esercizio della servitù eseguite dal proprietario del fondo dominante sul fondo servente (art. 1069 cod. civ.); o quelle relative alle addizioni eseguite dall’enfiteuta (art. 975 cod. civ., comma 3), dall’usufruttuario (art. 986 cod. civ., comma 2), dal possessore (art. 1150 cod. civ., comma 5) e dal locatore (art. 1593 cod. civ.), laddove lo ius tollendi opera quasi sempre in deroga all’accessione, se non ne venga nocumento alla cosa – riguardano il caso della comunione del suolo.
Quanto al titolo negoziale idoneo ad escludere l’operare dell’accessione, esso – com’è noto – non può essere costituito da un negozio unilaterale, essendo invece necessario un apposito contratto stipulato tra il proprietario del suolo e il costruttore dell’opera, che attribuisca a quest’ultimo il diritto di proprietà sulle opere realizzate (Cass., Sez. 3, 07/07/1980, n. 4337; Cass., Sez. 2, 21/02/2005, n. 3440).
Costituiscono titoli idonei a impedire l’operare dell’accessione, quelli costitutivi di diritti reali, fra i quali si colloca, oltre alla costituzione diretta di un diritto di superficie (art. 952 e segg. cod. civ.), la c.d. concessione ad aedificandum, con la quale il proprietario del suolo rinuncia a fare propria la costruzione che sorgerà su di esso. Trattandosi di contratti relativi a diritti reali immobiliari, essi, ai sensi dell’art. 1350 cod. civ., devono rivestire la forma scritta ad substantiam (Cass., Sez. 1, 23/02/1999, n. 1543; Cass., Sez. 2, 11/11/1997, n. 11120; Cass., Sez. 2, 19/04/1994, n. 3714; Cass., Sez. 2, 27/10/1984, n. 5511); come anche per iscritto deve risultare la rinuncia del proprietario al diritto di accessione, che si traduce sostanzialmente nella costituzione di un diritto di superficie (Cass., Sez. 1, 15/12/1966, n. 2946).
Perciò, in mancanza di valido contrario titolo, qualunque costruzione edificata sul suolo comune – non solo da terzi (caso che ricadrebbe nelle fattispecie di cui agli artt. 936 e 937 cod. civ.), ma anche da uno o da alcuni soltanto dei comproprietari – diviene ipso iure, per il solo fatto dell’incorporazione e a prescindere dalla volontà manifestata dalle parti al di fuori delle forme prescritte dall’art. 1350 cod. civ., di proprietà comune di tutti comproprietari del suolo in proporzione alle rispettive quote dominicali.
2.6. – Una volta stabilito che – in virtù dell’operare dell’accessione – la costruzione su suolo comune appartiene a tutti i comproprietari del medesimo in proporzione alle rispettive quote di proprietà (salva l’esistenza di contrario titolo, nei termini sopra richiamati), rimane da stabilire quale sia il “regime giuridico” che deve disciplinare i rapporti tra il comproprietario costruttore e gli altri comproprietari (divenuti ope legis comproprietari della costruzione).
L’art. 934 cod. civ. nulla dispone circa la disciplina che deve regolare i rapporti tra costruttore e proprietario del suolo; e la giurisprudenza di questa Corte – come si è detto – è costante nell’escludere che la materia possa essere regolata dall’art. 936 cod. civ., essendo questa una disposizione relativa alle “Opere fatte da un terzo” e non potendo il comproprietario essere qualificato “terzo” rispetto agli altri comproprietari del suolo (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 2, 14/01/2009, n. 743; Cass., Sez. 2, 14/12/1994, n. 10699).
Il Collegio ritiene che la disciplina giuridica che deve regolare i rapporti tra comproprietario costruttore e comproprietario non costruttore vada ricavata dalle norme che regolano la comunione: innanzitutto, dalle norme che regolano l’uso della cosa comune e le innovazioni.
Invero, la costruzione su suolo comune – in quanto innovazione deve essere deliberata secondo quanto previsto dall’art. 1108 cod. civ. (per la comunione ordinaria) e dagli artt. 1120 e 1121 cod. civ. (per il condominio degli edifici), sempre col limite di non pregiudicare il godimento della cosa comune da parte di alcuno dei partecipanti.
Perciò, quando la costruzione è stata edificata senza la preventiva autorizzazione della maggioranza dei condomini ovvero quando essa pregiudichi comunque il godimento della cosa comune da parte di tutti i comproprietari, il comproprietario che ha patito pregiudizio dalla costruzione può esercitare – nei confronti del comproprietario costruttore – le ordinarie azioni possessorie (cfr., in tema di azione di manutenzione, Cass., Sez. 2, 17/10/2006, n. 22227) e l’azione di rivendicazione (Cass., Sez. 2, 28/08/1990, n. 8884).
Il comproprietario leso può anche esercitare lo ius tollendi e pretendere la demolizione dell’opera lesiva del suo diritto, ricorrendo alla tutela in forma specifica ex art. 2933 cod. civ. (cfr. Cass., Sez. 2, 13/11/1997, n. 11227). La demolizione dell’opera può essere anche decisa – al di fuori del caso di lesione del diritto del singolo comunista – dalla maggioranza dei comproprietari ai sensi dell’art. 1108 cod. civ..
Il Collegio ritiene, tuttavia, che l’esercizio dello ius tollendi debba essere coniugato con il principio di “tolleranza”, col principio di “affidamento” e con quello di “buona fede” (in ordine a tali principi, ex plurimis, v. Cass., Sez. U, 27/04/2017, n. 10413; Cass., Sez. U, 15/11/2007, n. 23726).
Si tratta, peraltro, di principi sottesi al disposto dell’art. 936 cod. civ., comma 4, laddove esso stabilisce che “il proprietario non può obbligare il terzo a togliere le piantagioni, costruzioni ed opere, quando sono state fatte a sua scienza e senza opposizione o quando sono state fatte dal terzo in buona fede”.
E’ vero che tale disposizione (relativa al caso del “terzo costruttore”) non è applicabile al diverso caso delle opere edificate dal comproprietario sul suolo comune; ciò non vuol dire però che in tale ipotesi non debba tenersi conto egualmente dei principi di tolleranza e di affidamento, nonchè del principio di buona fede.
Trattasi di principi generali immanenti all’ordinamento giuridico, in quanto tali sottesi all’intera disciplina del codice civile, che devono sempre essere tenuti in conto dal giudice.
E’ necessario, allora, tener distinti il caso in cui il comproprietario costruttore abbia agito contro l’esplicito divieto del comproprietario o all’insaputa di questi dal diverso caso in cui egli abbia agito, se non col consenso, quanto meno a scienza e senza opposizioni dell’altro comproprietario.
Nel primo caso, ove vi sia stata violazione delle norme in tema di condominio, va riconosciuto lo ius tollendi al comproprietario non costruttore, il quale può senz’altro agire per ottenere il ripristino dello status quo ante.
Nel secondo caso, invece, essendovi stato il consenso esplicito o anche meramente implicito del comproprietario non costruttore, va escluso – a tutela della buona fede e dell’affidamento del costruttore – che il primo possa pretendere la demolizione dell’opera.
Per la medesima ragione anche la mera tolleranza, ossia la mancata reazione da parte del comproprietario non costruttore all’abuso intrapreso dal comunista costruttore, protratta per un congruo periodo di tempo dal giorno in cui ha avuto notizia dei lavori, preclude l’esercizio dello ius tollendi, facendo sorgere l’affidamento del costruttore sul sopravvenuto consenso implicito del compartecipe alla comunione.
Il consenso alla costruzione dell’opera, manifestato da un comunista all’altro, può essere dato con qualunque forma (anche verbalmente), non attenendo esso alla sfera dei diritti reali e non facendo venir meno l’operatività dell’accessione e, quindi, l’acquisto della proprietà della costruzione da parte di tutti i comunisti in rapporto alle rispettive quote dominicali; il suo rilievo giuridico non attiene all’acquisto della proprietà della costruzione, ma ai reciproci diritti e obblighi dei comproprietari, e ai loro rispettivi poteri, relativamente ad un’opera divenuta comunque comune.
Trattandosi di un consenso che non incide sulla proprietà della costruzione, esso può essere dimostrato con ogni mezzo di prova.
Va aggiunto che, ove lo ius tollendi non venga (o non possa essere) esercitato, sorge, in favore del comproprietario costruttore, un diritto di credito nei confronti degli altri comunisti, divenuti per accessione comproprietari dell’opera; nasce cioè tra le parti un rapporto obbligatorio in forza del quale i comproprietari non costruttori sono tenuti a rimborsare al comproprietario costruttore, in proporzione alle rispettive quote di proprietà, le spese sopportate per l’edificazione dell’opera, secondo le norme che regolano la comunione e gli altri istituti di volta in volta applicabili (mandato, negotiorum gestio, arricchimento senza causa, etc.).
2.7. – Premesso quanto sopra, tornando all’esame della fattispecie concreta sottoposta al giudizio di questa Suprema Corte, va rilevato come le rationes decidendi della sentenza impugnata contrastino con i principi di diritto sopra esposti.
I giudici di merito hanno ritenuto che l’istituto dell’accessione di cui all’art. 934 non potesse operare nel caso di costruzione edificata da uno solo dei comproprietari su suolo comune ed hanno ritenuto che la costruttrice società Cà D’Oro fosse divenuta ab origine unica proprietaria della costruzione in virtù di accordi non bene individuati, nè in ordine al loro contenuto nè in ordine alla loro forma.
Così facendo, la Corte territoriale ha mostrato di non tener conto del principio di diritto ripetutamente affermato da questa Corte regolatrice secondo cui i contratti traslativi della proprietà di beni immobili o costitutivi, modificativi o traslativi di diritti reali immobiliari su cosa altrui devono, ai sensi dell’art. 1350 cod. civ., rivestire la forma scritta ad substantiam (Cass., Sez. 1, 23/02/1999, n. 1543; Cass., Sez. 2, 19/04/1994, n. 3714; Cass., Sez. 2, 27/10/1984, n. 5511; Cass., Sez. 2, 16/03/1984, n. 1811); sicchè è nulla la promessa verbale del proprietario del suolo di trasferire ad altro la proprietà del manufatto su di esso edificato (cfr. Cass., Sez. 2, 26/11/1988, n. 6380); come, d’altra parte, la concessione ad aedificandum convenuta verbalmente, e quindi senza un atto scritto, non acquista efficacia reale, ma dà vita ad un rapporto meramente obbligatorio, ossia ad un diritto personale nei confronti del concedente (Cass., Sez. 1, 17/12/1968, n. 4006; Cass., Sez. 2, 10/07/1985, n. 4111).
La Corte territoriale avrebbe dovuto, invece, verificare se fosse stato stipulato tra le parti un contratto redatto in forma scritta avente ad oggetto il trasferimento della proprietà del suolo su cui insiste la costruzione realizzata dalla società convenuta ovvero la costituzione di un diritto di superficie o di altro diritto reale in grado di separare la proprietà del suolo dalla proprietà della costruzione ovvero – ancora se il P. avesse posto in essere (sempre con la dovuta forma scritta richiesta dall’art. 1350 cod. civ., n. 5) una rinunzia abdicativa alla propria quota di comproprietà (con conseguente accrescimento del diritto di proprietà della Cà D’Oro) ai sensi dell’art. 1104 cod. civ., comma 1, (sul punto, cfr. Cass., Sez. 2, 25/02/2015, n. 3819; Cass., Sez. 2, 06/07/1968, n. 2316); e non avrebbe potuto dare improprio rilievo, ai fini del riconoscimento della proprietà della costruzione, al consenso manifestato “verbalmente” dal P. o al fatto che quest’ultimo si fosse reso esecutore materiale della costruzione su incarico della società Cà D’Oro o alla circostanza che soltanto tale società avesse sopportato i costi di costruzione (circostanze – queste – rilevanti ai fini della verifica della spettanza al P. dello ius tollendi, ma non in grado di incidere sull’acquisto della proprietà della costruzione).
Non rimane, pertanto, che cassare la sentenza impugnata in relazione al secondo e al quarto motivo di ricorso, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia, che, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., comma 2, si uniformerà ai seguenti principi di diritto:
– “La costruzione eseguita dal comproprietario sul suolo comune diviene per accessione, ai sensi dell’art. 934 cod. civ., di proprietà comune agli altri comproprietari del suolo, salvo contrario accordo, traslativo della proprietà del suolo o costitutivo di un diritto reale su di esso, che deve rivestire la forma scritta ad substantiam”;
– “Il consenso alla costruzione manifestato dal comproprietario non costruttore, pur non essendo idoneo a costituire un diritto di superficie o altro diritto reale, vale a precludergli l’esercizio dello ius tollendi”;
– “Ove lo ius tollendi non venga o non possa essere esercitato, i comproprietari del suolo sono tenuti a rimborsare al comproprietario costruttore, in proporzione alle rispettive quote di proprietà, le spese sopportate per l’edificazione dell’opera”.
3. – Gli altri motivi rimangono assorbiti.
4. – Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese relative al presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, pronunciando a Sezioni Unite, accoglie il secondo e il quarto motivo di ricorso, rigetta il primo e il quinto, dichiara assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 7 novembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2018

ASSEGNI FAMILIARI

Di Gianfranco Dosi
I. Il quadro giuridico
II. Gli assegni familiari in caso di separazione e divorzio
III. Il diritto in caso di affidatario non lavoratore
IV. Gli assegni familiari nella famiglia di fatto
V. I figli maggiorenni
VI. Gli assegni familiari per i figli si aggiungono al contributo di mantenimento
VII. Gli assegni familiari in caso di affidamento al servizio sociale
c) Atti traslativi nel corso del matrimonio
d) Attribuzioni patrimoniali in sede di separazione
XV. L’azione revocatoria può essere esercitata a tutela dell’assegnazione della casa fa¬miliare?
XVI. L’esecuzione diretta o presso terzi senza previa revocatoria: l’art. 2929-bis del codice civile
I Il quadro giuridico
Gli assegni familiari sono stati introdotti nel nostro ordinamento dalla contrattazione collettiva di lavoro nel lontano 1934 e sono stati poi regolamentati dapprima con il R.D.L. 21 agosto 1936, n. 1632 e, in seguito, per tutti i lavoratori dipendenti nel 1955 (DPR 30 maggio 1955, n. 797, Testo Unico delle norme concernenti gli assegni familiari). L’art. 9 della legge 9 dicembre 1977 n. 903 (parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro) introdusse il principio che gli as¬segni familiari possono essere corrisposti in alternativa tanto all’uomo che alla donna lavoratrice.
Nel 1988, con l’art. 2 del Decreto legge 13 marzo 1988, n. 69 convertito nella legge 13 maggio 1988, n. 153 (Norme in materia previdenziale, per il miglioramento delle gestioni degli enti por¬tuali ed altre disposizioni urgenti) – illustrata da una apposita circolare Ministero del Tesoro del 27 giugno 1988, n. 31 – furono oggetto di una ampia riforma che ne cambiò anche il nome: da “as¬segni familiari” divennero “assegno al nucleo familiare” attribuito a tutti “i lavoratori dipendenti, i titolari delle pensioni e delle prestazioni economiche previdenziali derivanti da lavoro dipendente, i lavoratori assistiti dall’assicurazione contro la tubercolosi, il personale statale in attività di ser¬vizio ed in quiescenza, i dipendenti e pensionati degli enti pubblici anche non territoriali”, quindi sostanzialmente tutti i lavoratori. Anche se disoccupati senza indennità (Corte cost. 2 febbraio 1990, n. 42). Ai coltivatori diretti, mezzadri e coloni sono, invece, corrisposti sempre con il nome di “assegni familiari”.
L’assegno al nucleo familiare e gli assegni familiari sostituirono ogni trattamento di sostegno alla famiglia precedente comunque denominato.
Per comodità espositiva continueremo a chiamarli assegni familiari.
Sono corrisposti, per conto dell’Inps, dal datore di lavoro (al quale va quindi presentata la doman¬da) in occasione del pagamento della retribuzione. Sono, invece, direttamente corrisposti dall’Inps se il richiedente è addetto ai servizi domestici ovvero iscritto alla Gestione separata o in altre poche situazioni.
L’assegno compete in misura differenziata in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare, secondo una tabella aggiornata di anno in anno. Nell’ ultimo aggiornamento (cir¬colare Inps n. 87 del 18 maggio 2017) sono indicati i limiti di reddito da considerare nel periodo compreso dal 1° luglio 2017 al 30 giugno 2018 per la concessione dell’assegno al nucleo familiare e gli importi dell’assegno. La tabella può essere scaricata facilmente nel sito ufficiale dell’Inps.
Secondo il sesto comma dell’art. 2 del Decreto legge 13 marzo 1988, n. 69 sopra richiamato, per “nucleo familiare” si intende quello composto “dai coniugi [o parti dell’unione civile] con esclu¬sione del coniuge legalmente ed effettivamente separato, e dai figli ed equiparati, ai sensi dell’articolo 38 del DPR 26 aprile 1957, n. 818 (che equipara ai figli legittimi o legittimati, i figli adottivi, quelli naturali riconosciuti o giudizialmente dichiarati, quelli nati da precedente ma¬trimonio dell’altro coniuge, nonché i minori regolarmente affidati dagli organi competenti), di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero, senza limite di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro”.
Col tempo, anche in connessione con decisioni della Corte costituzionale l’elenco dei componenti del nucleo familiare si è allargato.
L’assegno al nucleo familiare spetta oggi per i seguenti soggetti: nucleo composto dal richiedente lavoratore o titolare della pensione; il coniuge/parte di unione civile che non sia legalmente ed effettivamente separato o sciolto da unione civile, anche se non convivente, o che non abbia ab-bandonato la famiglia; i figli ed equiparati di età inferiore a 18 anni, conviventi o meno; i figli ed equiparati maggiorenni inabili, purché non coniugati; i figli ed equiparati, studenti o apprendisti, di età superiore ai 18 anni e inferiore ai 21 anni, purché facenti parte di “nuclei numerosi”, cioè nuclei familiari con almeno quattro figli tutti di età inferiore ai 26 anni; i fratelli, le sorelle del ri¬chiedente e i nipoti (collaterali o in linea retta non a carico dell’ascendente), minori o maggiorenni inabili, solo se sono orfani di entrambi i genitori, che non hanno conseguito il diritto alla pensione ai superstiti e non sono coniugati; i nipoti in linea retta di età inferiore a 18 anni e viventi a carico dell’ascendente.
L’assegno per il nucleo familiare compete, come sopra detto, in misura differenziata in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo stesso secondo tabelle prestabilite e i livelli di reddito sono aumentati nei casi in cui il nucleo familiare comprenda soggetti che si trovino nell’as¬soluta e permanente impossibilità di dedicarsi a proficuo lavoro, ovvero, se minorenni, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere compiti e funzioni proprie della loro età. L’importo quindi varia in base alla composizione del nucleo famigliare e in base al reddito, secondo le tabelle che vengono aggiornate annualmente.
Poiché si tratta di una prestazione previdenziale unica (con divieto di cumulo in capo ad entrambi i genitori), l’individuazione di chi tra i due genitori effettuerà la richiesta di autorizzazione alla cor-responsione, è riferibile all’accordo tra i coniugi.
Gli assegni familiari sono corrisposti anche ai lavoratori extracomunitari (esclusi quelli con con¬tratto di lavoro stagionale) o a quelli con permesso di soggiorno di lungo periodo, in genere per i familiari residenti in Italia ma in taluni casi anche per quelli residenti all’estero.
Il reddito del nucleo familiare è costituito, ai sensi del comma 9, dall’ammontare dei redditi com¬plessivi, assoggettabili all’Irpef, conseguiti dai suoi componenti nell’anno solare precedente il 1 luglio di ciascun anno ed ha valore per la corresponsione dell’assegno fino al 30 giugno dell’anno successivo. Alla formazione del reddito (ai fini dei limiti sopra indicati) concorrono i redditi di qualsiasi natura (anche quelli, quindi, da fabbricati o da terreni), ivi compresi quelli esenti da im¬poste e quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva se superiori a 1.032,91 euro. Non si computano, invece nel reddito i trattamenti di fine rapporto comunque denominati e le anticipazioni sui trattamenti stessi, nonché l’assegno al nucleo familiare.
L’attestazione del reddito del nucleo familiare è resa con dichiarazione, la cui sottoscrizione non è soggetta ad autenticazione. L’ente al quale è resa deve trasmetterne copia al comune di residenza del dichiarante.
L’assegno – che non concorre a formare la base imponibile dell’imposta – non spetta se la somma dei redditi da lavoro dipendente, da pensione o da altra prestazione previdenziale derivante da lavoro dipendente è inferiore al 70 per cento del reddito complessivo del nucleo familiare. Il principio è quindi quello della necessaria prevalenza del lavoro dipendente sul reddito comples¬sivo. Quindi, per esempio, se un lavoratore ha redditi da lavoro dipendente oltre che immobiliari o mobiliari da investimenti soggetti alla ritenuta alla fonte per 30.000 euro annui complessivi, gli assegni familiari spettano solo se il reddito da lavoro dipendente è pari o superiore a 21.000 euro (cioè il 70% del reddito complessivo).
La legge 448 del 1998, agli art. 65 e 66, prevede l’erogazione di un “assegno familiare” (un sus¬sidio chiamato così, ma evidentemente diverso dalla categoria degli assegni familiari di cui si sta parlando) a favore dei nuclei familiari che si compongono di almeno tre figli minori.
II Gli assegni familiari in caso di separazione e divorzio
In caso di separazione o divorzio la disciplina giuridica dell’assegno al nucleo familiare ha la sua fonte nell’art. 211 della legge di riforma del diritto di famiglia.
L’art. 211 della legge 19 maggio 1975, n. 151, infatti, ha introdotto una norma specifica in materia di assegni familiari del seguente tenore: “Il coniuge cui i figli sono affidati ha diritto in ogni caso a percepire gli assegni familiari per i figli, sia che ad essi abbia diritto per un suo rapporto di lavoro, sia che di essi sia titolare l’altro coniuge”.
La norma si riferisce al caso di affidamento esclusivo ad un genitore dei figli, che all’epoca era la forma unica di affidamento prevista. Vedremo più oltre cosa avviene in caso di affidamento (con¬diviso) ad entrambi i genitori.
La sopra richiamata Circolare del Ministero del Tesoro del 27 giugno 1988, n. 31, aveva interpre¬tato inizialmente la normativa sull’assegno al nucleo familiare (cioè l’art. 2 del decreto legge 13 marzo 1988, n. 69 convertito nella legge 13 maggio 1988, n. 153) prevedendo che l’assegno al nucleo familiare spettasse in caso di separazione solo nel caso in cui anche il genitore affidatario fosse stato lavoratore dipendente. Questo in quanto il “nucleo familiare” è, secondo la legge, quel¬lo composto dai coniugi, con esclusione di quello legalmente ed effettivamente separato. Questa interpretazione finiva per ledere quindi i diritti del genitore affidatario non lavoratore a seguito della separazione con ingiusta possibile perdita del diritto alla prestazione.
Nonostante l’interpretazione del Ministero del tesoro, la Circolare dell’Inps n. 48 del 19 febbraio 1992, sulla corresponsione della prestazione nei casi di separazione legale o divorzio, aveva affer¬mato il principio che il diritto attribuito dall’art. 211 al coniuge affidatario di percepire gli assegni familiari, spetta anche se lo stesso non sia “titolare di una propria posizione protetta” (rapporto di lavoro, pensione, ecc.). Si stabiliva, quindi, che l’assegno spetta sempre e comunque al coniuge af¬fidatario, e ciò perché, in caso di separazione “viene a costituirsi un nucleo familiare autonomo che fa capo al coniuge affidatario”. Così essendo, si dovrà verificare con riguardo al nucleo familiare del coniuge affidatario se ricorrano i requisiti reddituali necessari per l’ottenimento della prestazione.
Effettivamente in seguito anche il legislatore ebbe modo di interpretare nello stesso modo auten-ticamente la normativa, con l’art. 1, comma 559, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (legge finanziaria 2005) in cui si prevede che “l’assegno per il nucleo familiare viene erogato al coniuge dell’avente diritto…” e il D.M. del Lavoro e delle Politiche Sociali del 4 aprile 2005 ha previsto al primo comma che: “Il coniuge non titolare di un autonomo diritto alla corresponsione dell’assegno per il nucleo familiare che intende esercitare il diritto di cui all’art. 1, comma 559, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, formula apposita domanda al datore di lavoro dell’altro coniuge (lavora¬tore) … che provvede alla corresponsione dell’assegno per il nucleo familiare secondo le modalità indicate dal coniuge medesimo”. Il comma 4 successivo afferma, altresì, “Resta ferma la disciplina di cui all’art. 211 della legge 19 maggio 1975, n. 151”. Ed è anche questa, come si vedrà, la solu¬zione adottata in giurisprudenza.
Il titolare del diritto sembra quindi rimanere il coniuge lavoratore ma il diritto può essere richiesto dal coniuge affidatario (il cui nucleo familiare è quello di riferimento ai fini del reddito presupposto) che poi percepirà gli assegni familiari. La giurisprudenza, però, sembra propendere per l’attribu¬zione della stessa titolarità del diritto al coniuge affidatario ammettendo che il convenuto nella relativa causa sia non l’Inps ma il coniuge titolare della situazione protetta.
Quale che sia la soluzione teorica più plausibile, nel caso di genitore affidatario di figli, a seguito di separazione, fermo il criterio generale del divieto di cumulo dello stesso assegno in capo ad en¬trambi i genitori: a) l’assegno per il nucleo familiare può essere richiesto direttamente dal coniuge non titolare di una posizione protetta (cioè non lavoratore o non pensionato); b) il nucleo familiare ed il reddito di riferimento vanno determinati escludendo l’altro coniuge separato che del nucleo non fa più parte.
Nel caso di coniugi separati con affidamento esclusivo dei figli minori l’assegno va corrisposto all’affidatario. In tal caso il genitore affidatario è l‘unico soggetto legittimato a richiedere l’assegno per il nucleo familiare perché è solo intorno al genitore affidatario che si viene a formare il nuovo nucleo. Naturalmente il genitore separato, al fine di poter godere dell’attribuzione, è tenuto a di¬mostrare l’affidamento ad esso della prole (App. Genova Sez. lavoro, 29 marzo 2013 che ha ritenuto non sufficiente un verbale di separazione omologato in cui la modalità di affidamento non appariva specificata).
In caso di affidamento condiviso dei figli il soggetto legittimato alla percezione degli assegni fa¬miliari è il genitore con il quale i minori stessi convivono (Trib. Nocera Inferiore Ordinanza, 9 ottobre 2013 che, in un caso in cui la figlia minore coabitava con la madre ma era stata affidata congiuntamente ad entrambi i genitori, ha ritenuto la madre stessa legittimata a percepire gli assegni familiari).
L’assegno al nucleo familiare va comunque richiesto da uno solo dei due genitori ed è necessario l’accordo. Esattamente come avviene quando la famiglia vive unita. Sono, perciò, i genitori che devono stabilire, di comune accordo, chi dei due effettuerà la richiesta ai fini della corresponsione dell’assegno per il nucleo familiare. In caso di mancato accordo, scatta il requisito della convivenza con il figlio, secondo quanto stabilito dall’art. 9 della Legge 903 del 1977.
La prescrizione in materia è quinquennale (Cass. civ. Sez. lavoro, 19 ottobre 2007, n. 21960).
III Il diritto in caso di affidatario non lavoratore
Come si è detto il diritto agli assegni familiari spetta al coniuge affidatario anche se non lavoratore dipendente (o non titolare di nessuna altra posizione protetta che dà diritto alla prestazione).
Secondo l’art. 211 della legge 19 maggio 1975, n. 151 infatti, come anche si è detto, il coniuge cui i figli sono affidati ha diritto in ogni caso a percepire gli assegni familiari per i figli, “sia che ad essi abbia diritto per un suo rapporto di lavoro, sia che di essi sia titolare l’altro coniuge”.
Il principio desumibile dall’art. 211 è, insomma, che il coniuge affidatario dei figli, quando non possa percepire l’assegno in virtù di un proprio rapporto di lavoro, ha diritto di percepirlo per il tramite del genitore (lavoratore dipendente) non affidatario.
Si tratta di un principio ribadito costantemente in molte decisioni (Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 2003, n. 5060; Cass. civ. Sez. lavoro, 30 dicembre 2004, n. 24204; Cass. civ. Sez. lavoro, 30 marzo 2015, n. 6351; Cass. civ. Sez. lavoro, 11 maggio 2017, n. 11569).
IV Gli assegni familiari nella famiglia di fatto
I principi sono esaminati valgono anche nel caso di filiazione fuori dal matrimonio.
Secondo Cass. civ. Sez. lavoro, 18 giugno 2010, n. 14783 il diritto all’assegno per il nucleo familiare compete anche in relazione ai figli riconosciuti nati nell’ambito di una coppia di fatto. Nel caso specifico si trattava di tre figli naturali di una coppia; il padre dei minori era ancora sposato con altra persona e l’Inps aveva eccepito che i figli non erano inseriti nel nucleo familiare del ri¬chiedente che era quello formalmente composto da lui e dalla moglie. La Corte accoglie il ricorso dell’uomo in quanto “la nozione di nucleo familiare delineata dal legislatore presuppone solamente la condizione di figlio naturale riconosciuto, e non anche l’inserimento nella famiglia legittima”.
In particolare la sentenza precisa che l’assegno per il nucleo familiare, istituito e regolato dal De¬creto legge n. 69 del 1988, spetta ai lavoratori dipendenti privati e pubblici, oltre ai pensionati, ed è commisurato al numero di componenti del nucleo familiare oltre che, ovviamente, all’entità del reddito percepito dall’avente diritto. In applicazione dell’art. 38 del D.P.R. n. 818 del 1957, che specifica la composizione del “nucleo familiare”, sono da considerare componenti dello stesso, tra gli altri, i figli naturali legalmente riconosciuti che, ai sensi dell’art. 250 c.c., sono quelli ricono¬sciuti nei modi indicati dall’art. 254 c.c. dal padre o dalla madre, anche se uniti in matrimonio con persona diversa all’epoca del concepimento. La condizione di figlio naturale riconosciuto, peraltro, per quanto qui rileva, non è assolutamente inficiata dall’assenza di inserimento nella famiglia le¬gittima. Ebbene, la normativa sull’assegno familiare non richiede l’inserimento nell’ambito della famiglia legittima ma si limita a richiedere, ai fini del relativo riconoscimento, la condizione di figlio naturale per cui anche il soggetto coniugato e mai separato ma convivente con altra persona ha diritto alla percezione dell’assegno familiare per i figli naturali, minori, legalmente riconosciuti se prova che, essendo posti a suo carico, provvede al loro mantenimento.
L’argomento era stato anche trattato nella circolare Inps 6.8.2012 n. 104 in cui era stato da un lato chiarito che, nella impossibilità di un’applicazione estensiva ai casi di genitori naturali di quanto disposto per i genitori separati dall’art. 211 della legge n. 151 del 1975, il titolare della richiesta dei trattamenti di famiglia è sempre e solamente il genitore che lavora o che percepisce una retribuzione; e dall’altro che, in ragione delle esigenze di armonizzazione con principi co¬munitari, “dalla data di pubblicazione della presente circolare, le domande di autorizzazione e di richiesta del trattamento di famiglia sulla posizione di lavoro dell’altro genitore potranno essere presentate direttamente dai genitori naturali conviventi con la prole, anche se non titolari di pro¬pria posizione tutelata”.
In precedenza analogo orientamento era stato espresso da Cass. civ. Sez. lavoro, 7 aprile 2000, n. 4419 dove si afferma che nel regime previsto dal decreto legge 13 marzo 1988 n. 69 (convertito con modifiche nella legge n. 153 del 1988) la convivenza non è richiesta quale presupposto perché sorga il diritto a percepire l’assegno per il nucleo familiare è sufficiente per l’insorgenza del diritto al beneficio, che il genitore, cui spetta l’assegno, provveda abitualmente al mantenimento dei figli, tali essendo quelli nati nel matrimonio o fuori dal matrimonio.
V I figli maggiorenni
Come si è detto il principio desumibile dall’art. 211 della legge di riforma del diritto di famiglia è che il coniuge affidatario dei figli, quando non possa percepire l’assegno in virtù di un proprio rapporto di lavoro, ha diritto di percepirlo per il tramite del genitore (lavoratore dipendente o pen¬sionato) non affidatario.
E’ possibile estendere le regole in questione al caso di figli maggiorenni sebbene per essi non è concepibile parlare di affidamento. In caso, perciò, di convivenza del figlio maggiorenne con uno dei genitori, gli assegni familiari possono essere richiesti dal genitore collocatario nei limiti con cui le norme prevedono l’attribuzione per i figli (e cioè, come detto, per i figli senza limite di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro ovvero per i figli studenti di età superiore ai 18 anni e inferiore ai 21 anni, purché facenti parte di “nuclei numerosi”, cioè nuclei familiari con almeno quattro figli tutti di età inferiore ai 26 anni).
VI Gli assegni familiari per i figli si aggiungono al contributo di mantenimento
Gli assegni familiari percepiti dal coniuge non affidatario si cumulano con il contributo per il man¬tenimento dei figli fissato in sede di separazione coniugale, salva l’eventuale diversa statuizione giudiziale o la diversa condizione pattuita in sede di separazione consensuale. D’altra parte – se¬condo quanto pacificamente si ritiene in dottrina e nella giurisprudenza costituzionale (per esem¬pio Corte cost., 3 aprile 1987, n. 98; Corte cost. 21 luglio 1988, n. 851; Corte cost. 27 luglio 1989, n. 458; Corte cost. 2 febbraio 1990, n. 42; Corte cost., 22 dicembre 1995, n. 516) – gli assegni familiari costituiscono una prestazione previdenziale, che compete al lavoratore, destinata proprio al sostentamento del nucleo familiare a suo carico, e non rappresenta una parte del trattamento stipendiale, pur essendo elargita sotto forma di integrazione della retribuzione.
Il principio fu per la prima volta affermato da Cass. civ. Sez. I, 27 novembre 1989, n. 5135 in caso di separazione il genitore affidatario del figlio minorenne ha diritto, ai sensi dell’art. 211, della legge 19 maggio 1975, n. 151, a percepire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro genitore in funzione di un rapporto di lavoro subordinato di cui quest’ultimo sia parte, indipendentemente dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fissato in sede di separazione consensuale a carico del coniuge non affidatario, salvo che sia diversamente stabilito in modo espresso negli accordi di separazione.
E’ il coniuge cui sono affidati i figli, pertanto, che ha diritto a percepire gli assegni familiari per loro. Questi assegni dunque gli spettano ex lege e non in forza delle convenzioni stipulate tra le parti in sede di separazione consensuale. Ove gli assegni siano stati perciò percepiti dal genitore non affidatario e non versati al genitore affidatario, quest’ultimo ha diritto a richiederne la restituzione.
Molto chiara in proposito era stata in passato Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 2003, n. 5060 in cui, dopo l’affermazione che il coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto, ai sensi dell’art. 211 della L. 19 maggio 1975, n. 151, a percepire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge, indipendentemente dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fissato in sede di separazione consensuale, salvo che sia diversamente stabilito, precisa che in difetto di una specifica pattuizione, non si possono interpretare le condizioni di separazione personale relative al riconoscimento di un assegno di mantenimento a favore del coniuge affidatario dei figli come comprensive dell’importo degli assegni familiari spettanti al coniuge non affidatario per i figli, spettando per legge l’importo di tali assegni al coniuge affidatario.
Il principio è stato ribadito successivamente da Cass. civ. Sez. VI – 1, 23 maggio 2013, n. 12770 dove si chiarisce ancora che il coniuge affidatario dei figli minori in sede di separazione coniugale, acquista ex lege, ai sensi dell’art. 211 della legge 19 maggio 1975, n. 151, il diritto a percepire gli assegni familiari corrisposti per i medesimi figli all’altro coniuge in virtu` del rapporto di lavoro di cui questi sia parte, in aggiunta ed indipendentemente dal tipo e dall’ammontare del contributo al mantenimento della medesima prole fissato in sede di separazione dal giudice o con¬venuto consensualmente, cumulandosi in ogni caso a questo.
L’orientamento è anche consolidato nella giurisprudenza di merito. Per esempio Trib. Bari Sez. I, 14 marzo 2017; Trib. Cagliari Sez. I, 12 luglio 2016; Trib. Cassino, 19 giugno 2007; Trib. Bari Sez. I, 1 agosto 2006; App. Cagliari, 14 maggio 1993, hanno tutte proprio precisato che il coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto, ai sensi dell’art. 211 della legge n. 151 del 1975, a percepire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge, indipendente¬mente dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fissato in sede di separazione a carico del coniuge non affidatario, salvo che sia diversamente stabilito in modo espresso negli accordi o nel provvedimento di separazione (unica voce contraria in passato App. Brescia, 19 luglio 1990 che aveva ritenuto compresi gli assegna familiari nel contributo di mantenimento).
In un caso, tuttavia, in cui il padre naturale di una minore aveva omesso di versare l’assegno di mantenimento per la figlia ma aveva dato disposizioni al proprio datore di lavoro di corrispondere gli assegni familiari alla madre della minore Cass. pen. Sez. VI, 15 settembre 2015, n. 44765 ha ritenuto (ma in punto di fatto) che non sussistesse il reato di violazione degli obblighi di assistenza.
Ovviamente quanto fin qui considerato vale soltanto con riferimento a ciò che il coniuge non affida¬tario percepisce come assegni per il figlio. Diversamente infatti stanno le cose per gli assegni che il lavoratore percepisca per il coniuge se da questi si sia separato giudizialmente o consensualmente. E’ indubbia, in questo caso, la titolarità della provvidenza in capo esclusivo al coniuge lavoratore onerato del mantenimento del coniuge separato. Manca a questo proposito una disposizione spe¬ciale quale quella ex art. 211 della legge 151/75, sì che valgono i principi generali. L’assegno per il coniuge è corrisposto al fine di consentire al lavoratore, a lui che ne è il solo titolare e l’unico che può percepirli, di far fronte al suo obbligo di mantenimento ex art. 143 e 156 (in caso di separazio¬ne) codice civile E’ dunque denaro suo e soltanto suo. Correttamente pertanto se nulla di diverso appare dalla pattuizione tra le parti o dalla statuizione giudiziale, si deve ritenere che anche di queste particolare entrata pecuniaria le parti o il giudice hanno tenuto conto quando hanno fissato il contributo che il coniuge deve dare all’altro coniuge per il mantenimento di questi.
Proprio in ragione di questa differenza di disciplina tra assegni familiari per i figli e per il coniuge ha indotto la dottrina a parlare di sistema a doppio binario.
VII Gli assegni familiari in caso di affidamento al servizio sociale
Secondo quanto affermato da Cass. civ. Sez. lavoro, 6 agosto 2003, n. 11876 qualora sia adottato dall’autorità giudiziaria un provvedimento di affidamento del minore al servizio sociale minorile e, per esso, all’azienda unità sanitaria locale, a norma dell’art. 26, ultimo comma, R.D.L. 20 luglio 1934, n. 1404, convertito nella legge 27 maggio 1935, n. 835, e successive modificazioni [affidamento disposto dal tribunale per i minorenni in sede penale® disponendosi tuttavia che il minore resti collocato presso il proprio genitore naturale, quest’ultimo mantiene il diritto alla cor¬responsione degli assegni familiari per il minore stesso, per tutto il tempo di detto collocamento, dato che il provvedimento di affidamento non determina di per sé modifiche in ordine al dovere del genitore di mantenere il minore, come d’altra parte risulta anche dalla previsione dell’ art. 25, terzo comma, del medesimo R.D.L [cosiddetto affidamento in sede amministrativa], a norma del quale le spese di affidamento, benché anticipate dall’erario, restano comunque a carico del genito¬re; ne consegue che opera in tale ipotesi la presunzione di cui all’art. 5 del D.P.R. 30 maggio 1955, n. 797, in base alla quale i figli ed equiparati devono ritenersi a carico del capofamiglia quando convivano con lo stesso, realizzandosi, in caso di collocamento presso la famiglia di origine del minore affidato al servizio sociale, un’ipotesi di convivenza, con correlati oneri economici a carico del capofamiglia, salva la prova, incombente sul debitore dell’assegno per il nucleo familiare, che, nel caso concreto, la collocazione presso la famiglia non comporti per quest’ultima siffatti oneri.
Naturalmente il principio vale anche nell’ipotesi in cui l’affidamento sia disposto dal giudice non sulla base della normativa minorile sopra richiamata ma anche sulla base di provvedimenti del giudice in sede di separazione, divorzio o regolamentazione dell’affidamento di figli nati fuori dal matrimonio.

Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. lavoro, 11 maggio 2017, n. 11569
La legge 19 maggio 1975, n. 151, art. 211, prevede che “il coniuge cui i figli sono affidati ha diritto in ogni caso a percepire gli assegni familiari per i figli, sia che ad essi abbia diritto per un suo rapporto di lavoro, sia che di essi sia titolare l’altro coniuge”. La lettera della norma porta a ritenere che il coniuge affidatario dei figli, quando non possa percepire l’assegno in questione in virtù di un proprio rapporto di lavoro, ha diritto di percepirlo per il tramite di quello non affidatario.
Trib. Bari Sez. I, 14 marzo 2017
Il coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto, ai sensi dell’art. 211 della legge n. 151 del 1975, a perce¬pire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge in funzione di un rapporto subordinato di cui quest’ultimo sia parte, indipendentemente dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fissato in sede di separazione consensuale omologata a carico del coniuge non affidatario, salvo che sia diversamente stabilito in modo espresso negli accordi di separazione.
Trib. Cagliari Sez. I, 12 luglio 2016
Il coniuge affidatario del figlio minorenne, ha il diritto di percepire gli assegni familiari corrisposti, per il minore, all’altro coniuge in funzione di un rapporto di lavoro subordinato di cui quest’ultimo sia parte e ciò a prescindere dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fissato in sede di separazione consensuale omolo¬gata a carico del coniuge non affidatario, salvo che sia diversamente stabilito in modo espresso negli accordi di separazione.
Cass. pen. Sez. VI, 15 settembre 2015, n. 44765
Non integra il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare il comportamento del genitore naturale, lavoratore non affidatario, che spontaneamente, e in assenza di diversa specifica indicazione del giudice civile in sede di determinazione dell’assegno di mantenimento, dà disposizione al proprio datore di lavoro di corri¬spondere direttamente alla madre della figlia minorenne l’importo degli assegni familiari, giacché tali assegni concorrono ad integrare la somma alla cui periodica corresponsione lo stesso è obbligato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 30 marzo 2015, n. 6351
L’assegno per il nucleo familiare, disciplinato dall’art. 2 del decreto legge 13 marzo 1988, n. 69, convertito in legge 13 maggio 1988, n. 153 – finalizzato ad assicurare una tutela in favore delle famiglie in stato di effettivo bisogno economico ed attribuito in modo differenziato in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare, tenendo conto dell’eventuale esistenza di soggetti colpiti da infermità o difetti fisici o mentali (e, quindi, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro) ovvero di minorenni che ab¬biano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età – ha natura assistenziale, sicché, ai sensi dei commi 2 e 6 dell’art. 2 cit., il reddito rilevante ai fini dell’ammontare dell’assegno è quello del nucleo familiare composto dal coniuge affidatario e dai figli, con esclusione del coniuge legalmente separato, anche se titolare del diritto alla corresponsione, il cui reddito rileva solo ai fini del diritto all’erogazione della provvidenza.
Trib. Nocera Inferiore Ordinanza, 9 ottobre 2013
Nel caso di affidamento condiviso di minori, il soggetto legittimato alla percezione degli assegni familiari è il genitore con il quale i minori stessi convivono.
Cass. civ. Sez. VI – 1, 23 maggio 2013, n. 12770
Il coniuge affidatario dei figli minori in sede di separazione coniugale, acquista ex lege, ai sensi dell’art. 211 Legge 19 maggio 1975, n. 151, il diritto a percepire gli assegni familiari corrisposti per i medesimi figli all’altro coniuge in virtu` del rapporto di lavoro di cui questi sia parte, in aggiunta ed indipendentemente dal tipo e dall’ammontare del contributo al mantenimento della medesima prole fissato in sede di separazione dal giudice o convenuto consensualmente, cumulandosi in ogni caso a questo.
App. Genova Sez. lavoro, 29 marzo 2013
Il genitore separato dal coniuge, al fine di poter godere degli effetti di cui all’art. 211 della legge n. 151 del 1975, e dunque dell’attribuzione ad esso degli assegni familiari per i figli, è tenuto a dimostrare l’affidamento ad esso della prole. A tal fine non assume alcun rilievo la produzione del provvedimento di omologa della se¬parazione consensuale dal quale nulla si evince in merito all’affidamento, qualora carente del relativo accordo di separazione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 giugno 2010, n. 14783 (Fam. Pers. Succ., 2010, 12, 827 nota di CORSO)
Il diritto all’assegno per il nucleo familiare compete anche in relazione ai figli riconosciuti nati nell’ambito di una coppia di fatto, senza che rilevi la circostanza che il genitore sia ancora legato in matrimonio con altra persona, atteso che la nozione di “nucleo familiare” delineata dal legislatore presuppone solamente la condizione di figlio naturale riconosciuto, e non anche l’inserimento nella famiglia legittima.
L’assegno per il nucleo familiare, istituito e regolato dal D.L. n. 69 del 1988, spetta ai lavoratori dipendenti privati e pubblici, oltre ai pensionati, ed è commisurato al numero di componenti del nucleo familiare oltre che, ovviamente, all’entità del reddito percepito dall’avente diritto. In applicazione dell’art. 38 del D.P.R. n. 818 del 1957, che specifica la composizione del “nucleo familiare”, sono da considerare componenti dello stesso, tra gli altri, i figli naturali legalmente riconosciuti che, ai sensi dell’art. 250 c.c., sono quelli riconosciuti nei modi indicati dall’art. 254 c.c. dal padre o dalla madre, anche se uniti in matrimonio con persona diversa all’epoca del concepi¬mento. La condizione di figlio naturale riconosciuto, peraltro, per quanto qui rileva, non è assolutamente inficiata dall’assenza di inserimento nella famiglia legittima. Ebbene, la normativa sull’assegno familiare non richiede l’inserimento nell’ambito della famiglia legittima ma si limita a richiedere, ai fini del relativo riconoscimento, la condizione di figlio naturale per cui anche il soggetto coniugato e mai separato ma convivente con altra persona ha diritto alla percezione dell’assegno familiare per i figli naturali, minori, legalmente riconosciuti se prova che, essendo posti a suo carico, provvede al loro mantenimento.
Cass. civ. Sez. lavoro, 19 ottobre 2007, n. 21960
In tema di assegni per il nucleo familiare, alla stregua del disposto dell’art. 2, comma 3, del d.l. n. 69 del 1988(convertito con modificazioni in legge n. 153 del 1988) che rinvia, per quanto non specificamente discipli¬nato, alle norme contenute nel testo unico in materia di assegni familiari approvato con d.P.R. n. 797/1995, la prescrizione quinquennale del relativo diritto decorre dal primo giorno del mese successivo a quello nel quale è compreso il periodo di lavoro cui l’assegno si riferisce. Conseguentemente ove, come nella specie, le quote di maggiorazione attengano all’assegno di invalidità, l’assicurato non incorre nella prescrizione ove richieda dette quote negli stessi tempi dell’assegno, e cioè contestualmente alla domanda amministrativa ovvero con il ricorso giudiziale diretto ad ottenere l’assegno stesso. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte territo¬riale che aveva fatto decorrere la prescrizione quinquennale dalla data della sentenza pretorile di riconoscimento dell’assegno di invalidità, sul presupposto che solo a tale data la prestazione previdenziale rappresentasse il sessanta per cento del reddito familiare per gli anni dal 1986 al 1988, ritenendo tempestiva la domanda di attri¬buzione degli assegni presentata nell’aprile 1994).
Trib. Cassino, 19 giugno 2007
Ai sensi dell’art. 211, L. n. 151/1975, il coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto alla percezione degli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge in funzione di un rapporto di lavoro subordinato di cui questi sia parte, indipendentemente dal contributo fissato, in sede di separazione consensuale omologata, per il mantenimento del figlio stesso, salvo diversa ed espressa pattuizione contenuta negli accordi di separazione. Nella specie, posto che l’accordo stragiudiziale con il quale le parti avrebbero convenuto la onnicomprensività del contributo di mantenimento non soltanto non risulta trasfuso nel decreto di omologa della separazione con¬sensuale, ma non è richiamato né nel ricorso per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, né nel verbale di udienza presidenziale, né, soprattutto, nella sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio, e dal momento che le condizioni patrimoniali stabilite in sede di divorzio si sostituiscono integralmente a quanto in precedenza stabilito, deve ritenersi che nel contributo di mantenimento dovuto dal con
Trib. Bari Sez. I, 1 agosto 2006
Ai sensi dell’art. 211 della legge n. 151 del 1975, è il coniuge cui sono affidati i figli che ha diritto di percepire gli assegni familiari per loro; b) detti assegni spettano, quindi, ex lege al coniuge affidatario, non già in forza delle convenzioni stipulate tra le parti in sede di separazione consensuale; c) il marito è, perciò, tenuto a corri¬spondere gli assegni familiari non come suo contributo al mantenimento dei figli, ma perché non fanno parte del suo reddito, bensì di quello della moglie; d) gli accordi presi in sede di separazione consensuale, hanno per oggetto la misura, ed il modo con cui il coniuge non affidatario deve contribuire al mantenimento, all’istruzione e all’educazione dei figli, stabilendo cioè il quantum del concorso agli oneri (ex art. 148 c.c.) in proporzione alle ri¬spettive sostanze ed ai rispettivi redditi da lavoro; e) le pattuizioni della separazione consensuale, possono tener conto del fatto che uno dei coniugi percepisce gli assegni familiari per i figli, sia esso il coniuge affidatario o l’altro, al fine di stabilire eque modalità di concorso o di contributo, tenendo appunto conto dell’ammontare degli assegni familiari per i figli e di chi li percepisce materialmente; f) una simile valutazione deve però risultare chiaramente dalla convenzione o dalla motivazione giudiziaria, trattandosi di, due momenti logici ben distinti, relativi, l’uno, alla determinazione di quanto occorre per il mantenimento del figlio e di quanto occorre in specie oltre l’importo dell’assegno familiare corrisposto per lui, l’altro alla determinazione di quale debba essere il con¬tributo del coniuge non affidatario; g) ove questa valutazione non risulti, l’interprete deve considerare l’accordo per quello che è in sé, ovvero in termini di determinazione del contributo che il coniuge non affidatario deve ai fini del mantenimento del figlio. S.C. (testualmente in sent. n. 5060 del 2003).
Cass. civ. Sez. lavoro, 30 dicembre 2004, n. 24204
Il lavoratore dipendente è titolare del diritto a percepire l’assegno per il nucleo familiare (così come disciplinato dal D.L. 13 marzo 1988, n. 69, convertito con modifiche nella legge 13 maggio 1988, n. 153) per i figli in rela¬zione ai quali provveda o contribuisca abitualmente al mantenimento, rimanendo irrilevante sia che i figli siano con lui conviventi, sia che, in caso di separazione personale, essi risultino affidati all’altro genitore in base agli accordi intervenuti in sede di separazione, in quanto il non essere affidatario non fa venir meno l’obbligo del genitore al mantenimento.
Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 2003, n. 5060 (Lavoro nella Giur., 2004, 474 nota di SLATAPER)
II coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto, ai sensi dell’art. 211 della L. 19 maggio 1975, n. 151, a percepire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge, indipendentemente dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fissato in sede di separazione consensuale, salvo che sia diversamente stabilito.
In difetto di una specifica pattuizione, non si possono interpretare le condizioni di separazione personale relative al riconoscimento di un assegno di mantenimento a favore del coniuge affidatario dei figli come comprensive dell’importo degli assegni familiari spettanti al coniuge non affidatario per i figli, spettando per legge l’importo di tali assegni al coniuge affidatario.
Cass. civ. Sez. lavoro, 6 agosto 2003, n. 11876
Qualora sia adottato dalla competente autorità giudiziaria un provvedimento di affidamento del minore al servi¬zio sociale minorile e, per esso, all’Azienda unità sanitaria locale, a norma dell’art. 26, ultimo comma, R.D.L. 20 luglio 1934, n. 1404, convertito nella legge 27 maggio 1935, n. 835, e successive modificazioni, disponendosi tuttavia che il minore resti collocato presso il proprio genitore naturale, quest’ultimo mantiene il diritto alla corresponsione degli assegni familiari per il minore stesso, per tutto il tempo di detto collocamento, dato che il provvedimento di affidamento non determina di per sé modifiche in ordine al dovere del genitore di mantenere il minore, come d’altra parte risulta anche dalla previsione dell’ art. 25, terzo comma, del medesimo R.D.L, a norma del quale le spese di affidamento, benché anticipate dall’erario, restano comunque a carico del genitore; ne consegue che opera in tale ipotesi la presunzione di cui all’art. 5 del D.P.R. 30 maggio 1955, n. 797, in base alla quale i figli ed equiparati devono ritenersi a carico del capofamiglia quando convivano con lo stesso, realiz¬zandosi, in caso di collocamento presso la famiglia di origine del minore affidato al servizio sociale, un’ipotesi di convivenza, con correlati oneri economici a carico del capofamiglia, salva la prova, incombente sul debitore dell’assegno per il nucleo familiare, che, nel caso concreto, la collocazione presso la famiglia non comporti per quest’ultima siffatti oneri.
Cass. civ. Sez. lavoro, 7 aprile 2000, n. 4419 (Giust. Civ., 2000, 2275 nota di BAGIANTI)
Nel regime posto dal d.l. 13 marzo 1988 n. 69 (conv. con modifiche nella l. n. 153 del 1988) la convivenza non è richiesta quale presupposto perchè sorga il diritto a percepire l’assegno per il nucleo familiare (composto dai coniugi e dai figli, compresi quelli naturali legalmente riconosciuti), ma rappresenta soltanto un elemento di fatto idoneo a comprovare presuntivamente il requisito della vivenza a carico, essendo sufficiente per l’insorgenza del diritto al beneficio, sensibilmente diverso da quello agli assegni familiari, che il genitore, cui spetta l’assegno, provveda abitualmente al mantenimento dei figli. Nè è di ostacolo l’astratta configurabilità di due nuclei familiari in caso di genitori del figlio naturale non riconosciuto, i quali, non legati tra loro da coniugio, non facciano parte dello stesso nucleo familiare, atteso che comunque opera la prescrizione posta dall’art. 2, comma 8 bis, d.l. n. 69 del 1988, secondo cui, per i componenti del nucleo familiare al quale la prestazione è corrisposta, l’assegno stesso non è compatibile con altro assegno o diverso trattamento di famiglia a chiunque spettante.
Corte cost., 22 dicembre 1995, n. 516
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto legge 13 marzo 1988, n. 69, con¬vertito con modificazioni nella legge 13 maggio 1988, n. 153, impugnato, in riferimento all’art. 3 della Costi¬tuzione, nella parte in cui prevede che l’assegno per il nucleo familiare spetti ai titolari delle pensioni derivanti esclusivamente da lavoro dipendente, negando tale prestazione ai titolari di pensioni a carico di gestioni assicu¬rative per lavoratori autonomi, ma conseguite con utilizzazione, in misura prevalente, di contribuzione versata per lavoro dipendente, in quanto la trasformazione dell’istituto degli assegni familiari in quello dell’assegno per il nucleo familiare, disposta con una normativa non applicabile ai lavoratori autonomi, rende non irragionevole né incoerente la diversità, sotto questo profilo, dei regimi previdenziali goduti dalle due categorie di pensionati già lavoratori dipendenti e di pensionati già lavoratori autonomi.
App. Cagliari, 14 maggio 1993 (Riv. Giur. Sarda, 1996, 374 nota di OBINO)
Gli assegni familiari corrisposti al lavoratore subordinato per l’altro coniuge, se nulla al riguardo è stato espres¬samente pattuito dalle parti in sede di separazione consensuale, spettano a quest’ultimo, dovendosi ritenere che nella fissazione del contributo per il mantenimento, anche in considerazione del suo ammontare, non si sia tenuto conto di questa particolare entrata.
Il coniuge affidatario dei figli minorenni ha diritto, ai sensi dell’art. 211, l. 19 maggio 1975 n. 151, a percepire gli assegni familiari corrisposti per i figli all’altro coniuge in funzione di un rapporto di lavoro subordinato di cui quest’ultimo sia parte, indipendentemente dall’ammontare del contributo per il mantenimento fissato in sede di separazione consensuale a carico del coniuge non affidatario.
Corte cost. 2 febbraio 1990, n. 42
L’omessa previsione, nella legge sugli assegni familiari, dell’ipotesi in cui il genitore risulti disoccupato senza indennità, e l’omessa equiparazione di tale ipotesi allo stato di abbandono – in cui è riconosciuto al figlio (mag¬giorenne) lavoratore il diritto agli assegni per fratelli o sorelle minori a carico – crea non soltanto un’irrazionale disparità di trattamento di situazioni omogenee, ma lede altresì i precetti costituzionali relativi alla tutela della famiglia. Pertanto, per contrasto con gli artt. 3, 31 e 38 Cost. va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 del D.P.R. 30 maggio 1955 n. 797, comma secondo, lett. a) nella parte in cui, ai fini dell’attribuzione degli asse¬gni familiari, non prevede anche l’ipotesi dello stato di disoccupazione del padre senza indennità. N.B.: Massima redatta con riferimento al testo della decisione così come modificato dall’ordinanza di correzione n. 511 del 1990.
App. Brescia, 19 luglio 1990 (Giust. Civ., 1990, I, 2156)
L’art. 211, l. 19 maggio 1975, n. 151 – che attribuisce al coniuge, affidatario dei figli minori, il diritto a percepire i relativi assegni familiari, di cui sia titolare l’altro coniuge – opera una distrazione di tali somme dal beneficiario, titolare del rapporto di lavoro, al coniuge con il quale i figli stessi convivono; ne segue, per l’effetto, ove non sia diversamente disposto, che detti assegni non competono in aggiunta all’assegno per il mantenimento della prole come fissato dal tribunale nella sentenza di separazione, o concordato dai coniugi, in occasione della loro consensuale separazione.
Cass. civ. Sez. I, 27 novembre 1989, n. 5135 (Giust. Civ., 1990, I, 973)
Il coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto, ai sensi dell’art. 211, l. 19 maggio 1975, n. 151, a percepire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge in funzione di un rapporto di lavoro subordinato di cui quest’ultimo sia parte, indipendentemente dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fis¬sato in sede di separazione consensuale a carico del coniuge non affidatario, salvo che sia diversamente stabilito in modo espresso negli accordi di separazione; gli assegni familiari per il coniuge, invece, in mancanza di una previsione analoga al cit. art. 211, spettano al lavoratore – cui sono corrisposti per consentirgli di far fronte al suo obbligo di mantenere il coniuge ex art. 143 e 156 c. c. – con la conseguenza che, se nulla al riguardo è stato pattuito dalle parti in sede di separazione consensuale (ovvero è stato stabilito dal giudice in quella giudiziale), deve ritenersi che nella fissazione del contributo per il mantenimento del coniuge si sia tenuto conto anche di questa particolare entrata.
Corte cost. 27 luglio 1989, n. 458
Posta anche la non comparabilità – per differenze di struttura e finalità della relativa disciplina – dei trattamenti previdenziali per carichi di famiglia dei pensionati già lavoratori autonomi e dei pensionati già lavoratori dipen¬denti, non appare irragionevole né arbitraria la scelta del legislatore – condizionata anche dalla ristrettezza delle disponibilità finanziarie – di limitare al solo settore del lavoro subordinato la maggiorazione degli assegni familiari con esclusione delle categorie del lavoro autonomo, le quali in ragione del reddito derivato dalla propria attività – rispetto alla retribuzione fissa dei lavoratori dipendenti – non sono gravate dai medesimi sacrifici di questi e sono in grado di difendersi dall’erosione inflazionistica.
Corte cost. 21 luglio 1988, n. 851
Le norme secondo le quali le quote di aggiunta di famiglia nonché ogni altro trattamento di famiglia comunque denominato cessano di essere corrisposte, ad iniziare da quelli di importo più elevato in relazione al reddito fami¬liare ed al numero delle persone a carico dei soggetti percettori, non contrastono a) con il principio di eguaglian¬za rappresentano o una scelta discrezionale del legislatore; b) con l’art. 31 della Costituzione non risultandone ostacolata la finalità di favorire l’adempimento dei doveri familiari; c) con l’art. 36 Cost. in considerazione della natura non retributiva dell’emolumento; d) con l’art. 53 Cost. perché i redditi debbono essere presi in consi¬derazione, agli effetti che qui interessano, come tali, a prescindere dal soddisfacimento degli obblighi tributari.
Corte cost. 3 aprile 1987, n. 98
Gli assegni familiari costituiscono una prestazione previdenziale cui il lavoratore o i suoi superstiti hanno diritto. Anche nel giudizio che i beneficiari sono costretti ad instaurare per ottenere gli assegni o, in genere, per dirimere un’eventuale contestazione – sempre che la lite non sia temeraria o manifestamente infondata – trova applicazio¬ne il beneficio dell’esonero dal pagamento delle spese processuali, di cui all’art. 152 disp. trans. c.p.c., ricorrendo nel caso, la stessa “ratio” di tale norma: quella di garantire al lavoratore la tutela giudiziale della sua fondata pretesa al conseguimento delle prestazioni previdenziali o assistenziali mediante l’esonero del pagamento delle predette spese, in caso di soccombenza.

PRESCRIZIONE (civile)

di Gianfranco Dosi

I. La prescrizione nell’ambito del diritto di famiglia
II. I diritti indisponibili (imprescrittibili)
a) I casi di azione e di intervento del Pubblico Ministero
b) Il regime primario contributivo
c) I provvedimenti riguardanti i figli minori
III. I diritti patrimoniali disponibili (imprescrittibili)
a) Diritti patrimoniali disponibili e imprescrittibilità
b) La tesi della giurisprudenza sulla indisponibilità
c) La tesi della giurisprudenza sulla disponibilità
d) Disponibilità e negozialità
e) La riforma del 2014 sugli accordi al di fuori dei tribunali
IV. Il principio in base al quale i diritti patrimoniali diventano prescrittibili dopo la loro regolamentazione legale
V. La prescrizione in materia di mantenimento coniugale e per i figli
a) Il mantenimento coniugale
b) Il mantenimento dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti
c) L’azione di regresso in caso di riconoscimento tardivo del figlio nato fuori dal matrimonio
VI. La sospensione della prescrizione tra coniugi si applica anche ai coniugi separati?
VII. La prescrizione nelle azioni di status
I La prescrizione nell’ambito del diritto di famiglia
La prescrizione è un istituto generale disciplinato – insieme alla decadenza – nel titolo V del VI sesto libro del codice civile e le problematiche che vi sono connesse sono numerose.
Il principio di fondo che l’istituto richiama è quello secondo cui i diritti si estinguono se non vengono esercitati, in quanto il mancato esercizio ingenera nella collettività il convincimento che ad essi il titolare abbia rinunciato. E’ una questione di certezza nei rapporti giuridici. Fanno eccezione a questa regola “i diritti indisponibili e gli altri diritti indicati dalla legge” (art. 2934 c.c.), tra questi ultimi, per esempio, l’azione di rivendicazione della proprietà (art. 948 c.c.) e l’azione di nullità del contratto (art. 1422 c.c.) che non si estinguono mai e che sono, quindi, imprescrittibili.
In questa sede si tratteranno le questioni che, in tema di prescrizione, si pongono nell’ambito del diritto di famiglia dove valgono, tuttavia, i medesimi principi generali applicabili negli altri settori del diritto e cioè che la prescrizione comincia a decorrere da quando il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.); che è nullo ogni patto diretto a modificare la disciplina della prescrizione (art. 2936 c.c.); che si può rinunciare alla prescrizione solo dopo che questa si è compiuta (art. 2937 c.c.); che la prescrizione non può mai essere rilevata d’ufficio (art. 2938 c.c.) – al pari della decadenza (art.2969 c.c. il quale però precisa che il rilievo d’ufficio della decadenza è possibile per le materie sottratte alla disponibilità delle parti) – e che in ogni caso essa può sempre essere opposta dai creditori e da chiunque vi abbia interesse ove l’interessato non la faccia valere (art. 2939 c.c.); infine che l’adempimento spontaneo di un debito prescritto non consente l’azione di ripetizione (art. 2940 c.c.).
Nel contesto delle norme sulle persone e sulla famiglia una prima questione problematica, di carattere generale, è collegata al tema della imprescrittibilità dei diritti indisponibili (art. 2934, secondo comma, c.c.) che proprio nel diritto di famiglia costituiscono un’area particolarmente affollata. Si tratta di verificare quale sia in concreto nel diritto di famiglia la distinzione più plausibile tra diritti disponibili e diritti indisponibili per collegare solo a questi ultimi la loro imprescrittibilità. E in questa analisi non potrà non tenersi conto della rilevante incidenza apportata dalla normativa sulla negoziazione assistita che ha relativizzato la natura tradizionalmente indisponibile delle norme sui rapporti tra coniugi consentendo accordi di negoziazione anche in sede di separazione e divorzio con il solo intervento del Pubblico Ministero (art. 6, decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162) e perfino accordi davanti all’ufficiale di stato civile, senza alcun intervento di controllo giudiziario (art. 12, decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162)1.
La seconda area da indagare è costituita dal tema della prescrizione nel settore delle azioni di status della filiazione dove la riforma operata con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 e con il decreto legislativo di attuazione (D.Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) ha apportato notevoli e significative modificazioni.
Il terzo settore problematico è quello della sospensione della prescrizione in relazione alla qualità delle parti (art. 2941 c.c.), soprattutto della sospensione della prescrizione tra coniugi dove la giurisprudenza con alcune decisioni a sorpresa del 2014 ha apportato cambiamenti di rilevo rispetto a principi che apparivano ormai consolidati.
Ulteriore area problematica che verrà qui indagata è quella della prescrizione in materia di assegno di mantenimento trattandosi di un settore nel quale, anche a causa di alcune decisioni della giurisprudenza non del tutto lineari, si è creata qualche confusione che non ha reso sufficientemente intellegibile la disciplina.
Infine si parlerà delle interferenze tra la disciplina della prescrizione e quella della mediazione (art. 5, comma 6m D. Lgs 4 marzo 2010, n. 28) e della negoziazione assistita da avvocati (art. 8, D. L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni nella legge 10 novembre 2014, n. 162).
II I diritti indisponibili
a) I casi di azione e di intervento del Pubblico Ministero
Il diritto di famiglia, come si è accennato, costituisce certamente il settore nel quale tradizionalmente sono allocati i diritti indisponibili (che, quindi, sono imprescrittibili in base a quanto prevede l’art. 2934, secondo comma, c.c.).
Hanno certamente natura indisponibile e imprescrittibile i diritti per i quali è previsto il potere di azione (art. 69 c.p.c.) o il dovere di intervento (art. 70 c.p.c.) del Pubblico Ministero, considerati sintomatici dell’esistenza di diritti che la legge non lascia alla completa libertà dell’autonomia privata.
Il potere di azione del Pubblico Ministero è previsto in materia di famiglia nelle ipotesi di nomina di un curatore alla persona incapace (art. 79 c.p.c.), o in caso di scomparsa (art. 48 c.c.) e di morte presunta (art. 58 c.c.), per l’interdizione (art. 417 c.c.) o l’amministrazione di sostegno (art.406 c.c.), per l’annullamento del matrimonio contratto in violazione di legge (art. 117 c.c. nei limiti indicati dalla norma) o contratto dall’interdetto (art. 119 c.c. nei limiti indicati dalla norma), per la nomina di un curatore al minorenne in caso di inerzia dei genitori (art. 321 c.c.), per la richiesta di provvedimenti de potestate in materia di abusi della responsabilità genitoriale (art. 336 c.c.) o per la dichiarazione di adottabilità (art. 9, legge 4 maggio 1984, n. 183).
Il potere di intervento del Pubblico Ministero si esercita in tutte le cause in cui egli ha anche il potere di azione (art. 70, n. 1 c.p.c.), nelle cause matrimoniali, compresa la separazione dei coniugi (art. 70, n. 2 c.p.c.), nelle cause riguardanti lo stato o la capacità delle persone (art. 70, n. 3 c.p.c.) come la nullità e il divorzio.
Ogni volta che la legge prevede la presenza nella causa del Pubblico Ministero, sotto forma di potere di azione o di dovere di intervento, si è, quindi, necessariamente in presenza di un diritto indisponibile (e pertanto imprescrittibile).
Con la precisazione importante che, non essendovi impedimenti di natura costituzionale, al legislatore non è interdetto prevedere – come avvenuto con l’art. 6 e con l’art. 12 del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162 – che in presenza di determinate circostanze i rapporti personali e patrimoniali anche relativi ai figli e lo stesso status coniugale possano essere oggetto di autonomi accordi e di regolamentazione (con la separazione o con il divorzio) da parte dei coniugi anche senza passare per il tribunale ovvero direttamente davanti all’ufficiale di stato civile. Non si può non osservare in ogni caso che sia pure all’interno di precisi confini normativi qui la tradizionale indisponibilità dei diritti sullo status resta oggettivamente fortemente ridimensionata.
b) Il regime primario contributivo
L’art. 143 del codice civile dopo aver disposto nei primi due commi che con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri e che dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione, al terzo comma prevede che “Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”.
Simmetricamente l’art. 1, comma 11, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) dopo aver chiarito che con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri e che dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione, espressamente dispone che “Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni”.
Il nostro sistema giuridico prevede, perciò, un’obbligazione contributiva a carico dei coniugi (tenuti a contribuire ai bisogni della famiglia) e delle parti dell’unione civile (tenute a contribuire ai bisogni comuni) e dà per scontato che essa, sia pure sotto la forma del dovere morale, esita anche tra conviventi di fatto.
L’importanza fondamentale del principio contributivo2 è rimarcata dalla constatazione che esso fonda il regime primario della famiglia indipendentemente dal regime patrimoniale scelto. La solidarietà e la reciproca assistenza materiale sono alla base della stessa vita matrimoniale senza subire nessun condizionamento derivante dal regime secondario scelto per disciplinare la distribuzione della ricchezza.
Alla base del principio contributivo solennemente previsto nel terzo comma dell’art. 143 c.c. sta la regola fondamentale della parità del lavoro professionale (cioè del lavoro che produce redditi monetari) e di quello casalingo (domestico), quest’ultimo da intendersi come il lavoro di cura della famiglia e dei figli prestato nell’ambito della vita familiare, in via esclusiva o aggiuntiva rispetto al lavoro professionale. Le condizioni e il tenore di vita della famiglia dipendono dalla distribuzione dei compiti attraverso i quali i coniugi realizzano l’obbligazione contributiva.
Il dovere di contribuzione (giuridico per i coniugi e per le unioni civili e morale per i conviventi di fatto) è quindi strettamente collegato al principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) ed ha natura di diritto indisponibile. Tutto il regime primario è per forza di cose indisponibile.
I coniugi possono, invece, liberamente determinare, modificare e regolamentare il proprio regime patrimoniale coniugale che è questione che attiene non al regime primario (contributivo) ma al regime secondario (distributivo) del matrimonio, cioè alle modalità con cui i coniugi scelgono di distribuire la futura ricchezza. L’espansione dell’autonomia privata è qui riconosciuta ampiamente nei limiti, s’intende, che la legge stessa dichiara non superabili (art. 160 c.c. che esclude la derogabilità ai diritti e ai doveri – sostanzialmente richiamati dall’art. 143 c.c. – previsti dalla legge per effetto del matrimonio). Pertanto anche le controversie che hanno ad oggetto l’adempimento o l’attuazione dei regimi patrimoniali di tipo secondario – si pensi alla divisione dei beni in comunione (articoli 191, 192 c.c.) o all’accertamento delle rispettive proprietà in regime di separazione dei beni (art. 219 c.c.) – sono controversie su diritti disponibili (possibile oggetto di mediazione e di negoziazione) soggetti alla prescrizione ordinaria, tenendo naturalmente presente che tra i coniugi prescrizione è sospesa (art. 2941 c.c.).
c) I provvedimenti riguardanti i figli minori
La giurisprudenza costituzionale nell’ambito delle procedure della crisi familiare ha sempre ritenuto obbligatorio l’intervento del Pubblico Ministero (Corte cost. 9 novembre 1992, n. 416; Corte cost. 25 giugno 1996, n. 214) a riprova che tale intervento è sintomatico dell’esistenza di diritti indisponibili. Ed è certamente questo miminum di garanzia che ha indotto il legislatore a mantenere tale controllo sugli accordi negoziati tra coniugi in presenza di figli a carico (art. 6 e con l’art. 12 del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162).
Già nel 1985 una prima sentenza storica della Corte costituzionale (Corte cost. 14 luglio 1986, n. 185) ebbe a chiarire che era da escludere che fosse costituzionalmente illegittima l’omessa previsione della nomina di un curatore speciale per la rappresentanza in giudizio dei figli minori, nei procedimenti contenziosi relativi allo scioglimento (od alla cessazione degli effetti civili) del matrimonio ed alla separazione dei coniugi, “dovendosi ritenere idonee e sufficienti alla tutela degli interessi dei predetti minori nei procedimenti suindicati, le misure già previste in loro favore (intervento obbligatorio in giudizio del Pubblico Ministero, amplissime facoltà istruttorie del giudice, potere del collegio di decidere, in ordine ai provvedimenti relativi alla prole, ultra petitum). Gli stessi principi vennero in sostanza ribaditi in due successive sentenze della corte costituzionale. Una prima volta (Corte cost. 9 novembre 1992, n. 416) nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 710 del codice di procedura civile, anche nel testo novellato dalla legge 29 luglio 1988, n. 331, che non prevede(va) l’intervento obbligatorio del Pubblico Ministero nei procedimenti di modificazione dei provvedimenti riguardanti i figli minori in caso di separazione personale tra coniugi, essendo invece tale intervento prescritto nei procedimenti di modificazione dei provvedimenti riguardanti i figli minori in caso di divorzio dall’art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898; la Corte precisò in quella occasione che l’intervento del Pubblico Ministero nel caso di modifica dei provvedimenti relativi ai figli minori di genitori divorziati risponde alla particolare esigenza di tutela di questi ultimi (come già rimarcato da questa Corte nella sent. n. 185 del 1986 con riguardo più in generale ai giudizi per lo scioglimento del matrimonio e per la separazione fra coniugi) ed analogo (se non ancor più pressante) interesse sussiste nel caso dei provvedimenti modificativi delle condizioni della separazione riguardanti la prole. In entrambe le ipotesi la “ratio” ispiratrice è “l’esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale della prole”. Nella seconda sentenza (Corte cost. 25 giugno 1996, n. 214) la questione discussa era stabilire se nelle controversie tra genitori non coniugati, per l’adozione dei “provvedimenti relativi ai figli”, debba intervenire il Pubblico Ministero, similmente a quanto prescritto dai citati art. 9 della legge n. 878 del 1970 e art. 710 del codice di procedura civile. La risposta fu positiva e la questione di costituzionalità venne ritenuta fondata in quanto il parametro costituzionale (art. 30, comma terzo, Cost.), correttamente invocato, effettivamente postula che ai figli nati fuori dal matrimonio sia assicurata tutela uguale a quella attribuita ai figli legittimi, compatibilmente con i diritti dei membri della famiglia legittima. Ed appunto l’intervento del Pubblico Ministero, nei giudizi tra coniugi (separati o divorziati) che comportino provvedimenti relativi ai figli, innegabilmente risponde – come del resto già ritenuto con sentenza n. 416 del 1992 – ad una particolare esigenza di tutela degli interessi di questi ultimi. Identica tutela va quindi garantita ai figli nati fuori dal matrimonio, non ricorrendo, nella specie, ragione alcuna di incompatibilità, ostativa ad una siffatta equiparazione. Venne pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 70 del codice di procedura civile nella parte in cui non prescrive l’intervento del Pubblico Ministero nei giudizi tra genitori naturali che comportino l’adozione di “provvedimenti relativi ai figli”.
Espressione della tutela è nell’art. 158 c.c. la previsione del possibile rifiuto di omologazione degli accordi ritenuti contrastanti con l’interesse dei figli.
La tutela si estende alla previsione della possibile impugnazione da parte del Pubblico Ministero dei provvedimenti concernenti i figli (art. 5, comma 5, della legge sul divorzio).
III I diritti patrimoniali disponibili (e imprescrittibili)
a) Diritti patrimoniali disponibili e imprescrittibilità
Il fatto che i diritti indisponibili siano certamente imprescrittibili (art.2934, secondo comma, c.c.) non comporta che i diritti disponibili debbano essere per forza di cose tutti prescrittibili. Il secondo comma dell’art. 2934 include tra i diritti imprescrittibili anche “gli altri diritti indicati dalla legge”. Se si leggono l’art. 156 c.c. e l’art. 5, comma 8, della legge sul divorzio nonché l’art. 710 c.p.c. e l’art. 9 della legge sul divorzio, ci si avvede che le parti possono sempre chiedere un assegno di separazione o divorzile. Il che vuol dire che il diritto all’assegno di separazione o di divorzio è imprescrittibile. Da questo però non deriva che debba anche essere un diritto indisponibile.
Il regime primario contributivo indisponibile si trasforma in diritto patrimoniale disponibile in sede di separazione (in vista o nel corso della separazione) e in sede di divorzio (in vista e nel corso del divorzio). In mancanza di accordi sarà il giudice a decidere.
In effetti la dottrina più sensibile alla valorizzazione dell’autonomia privata ha in passato più volte affermato l’inclusione, nell’area della disponibilità, dei diritti patrimoniali connessi ai regimi secondari e dei diritti patrimoniali postconiugali.
La tesi è stata proposta più volte soprattutto nell’approfondimento dei contratti della crisi coniugale, ritenendosi che la possibilità offerta dal legislatore ai coniugi di accordarsi sul loro assetto patrimoniale post-matrimoniale (di separazione o di divorzio) debba essere considerato indizio chiaro della piena autonomia privata e quindi di una sostanziale disponibilità dei diritti.
b) La tesi della giurisprudenza sulla indisponibilità
La giurisprudenza nel suo complesso tende ancora a connotare il tema dell’assegno di separazione e di divorzio in chiave di indisponibilità derivante dalla natura assistenziale dell’assegno, traendone anche la conseguenza della irrinunciabilità. (Cass. civ. Sez. I, 10 marzo 2006, n. 5302; Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2079; Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2000, n. 8109; Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2076). In questi casi si afferma in sostanza il principio che gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, i reciproci rapporti economici in relazione al futuro ed eventuale divorzio con riferimento all’assegno divorzile sono nulli per illiceità della causa “avuto riguardo alla natura assistenziale di detto assegno, previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il diritto a richiederlo”.
La connotazione del diritto all’assegno come diritto indisponibile serve alla giurisprudenza per giustificare la non liceità dei patti transattivi preventivi di divorzio.
c) La tesi della giurisprudenza sulla disponibilità
La tesi invece della piena e valida negozialità tra coniugi sui diritti patrimonialità coniugali stata sostenuta da Cass. civ. Sez. I, 20 novembre 2003, n. 17607 e da Cass. civ. Sez. I, 12 settembre 2014, n. 19319, che l’hanno affermata nell’ambito di due decisioni in cui si è sostenuta l’inammissibilità dell’impugnazione della separazione consensuale per simulazione. Nelle premesse si afferma che la questione “investe i delicati problemi relativi alla natura giuridica dell’accordo che sorregge la separazione consensuale, al rapporto tra siffatto accordo ed il decreto di omologazione, alla natura e funzione dell’intervento giurisdizionale. Tali problemi – precisano – hanno lungamente impegnato la dottrina e la giurisprudenza di merito, anche per le implicazioni in ordine alla possibilità di revoca del consenso alla separazione prima del provvedimento di omologazione, ed hanno trovato negli anni soluzioni diverse, ritenendosi da alcuni, orientati per una impostazione pubblicistica dell’istituto, che il consenso costituisca mero presupposto del provvedimento giudiziale, cui va attribuito il ruolo di unico fatto costitutivo della separazione, configurandosi da altri la separazione consensuale come fattispecie a formazione progressiva, nell’ambito della quale consenso dei coniugi ed omologazione del tribunale costituiscono elementi parimenti necessari e concorrenti per il conseguimento dello stato di coniuge separato, sostenendosi ancora da altri, nell’ambito di una prospettiva privatistica della fattispecie, ispirata ad una accentuata valorizzazione dell’autonomia dei coniugi, desunta dall’intero sistema delle relazioni matrimoniali tracciato nella legge di riforma del diritto di famiglia, che la causa della separazione sta nella volontà dei coniugi, mentre l’omologazione agisce come mera condizione legale di efficacia dell’accordo. Tale ultima posizione – si legge – appare condivisa dalla più recente giurisprudenza di legittimità, orientata nel senso che la separazione trova la sua unica fonte nel consenso manifestato dai coniugi dinanzi al presidente del tribunale e che la successiva omologazione è unicamente diretta ad attribuire efficacia dall’esterno all’accordo di separazione, assumendo la funzione di condizione sospensiva della produzione degli effetti delle pattuizioni stipulate tra i coniugi, già integranti un negozio giuridico perfetto ed autonomo. A fondamento di detto orientamento – che deve essere in questa sede riaffermato – si è richiamato il chiaro tenore letterale del primo comma dell’art. 158 c.c. e del quarto comma dell’art. 711 c.p.c. In tale prospettiva questa Corte ha in più occasioni qualificato l’accordo di separazione come atto essenzialmente negoziale, espressione della capacità dei coniugi di autodeterminarsi responsabilmente, tanto da definirlo, riprendendo una efficace espressione della dottrina, come uno dei momenti di più significativa emersione della negozialità nel diritto di famiglia (così Cass. 1994 n. 657, 1993 n. 2270; v. altresì, sulla definizione della separazione consensuale come negozio di diritto familiare, Cass. 1997 n. 4306; 1991 n. 2788; nonché la più remota Cass. 1978 n. 4277, che ha ricondotto l’accordo alla categoria dei negozi o convenzioni di diritto familiare. Una linea di tendenza nel senso del riconoscimento del pieno dispiegarsi della negozialità dei coniugi e dell’espansione della sfera di operatività dell’autonomia privata anche in relazione ai negozi di diritto familiare è peraltro chiaramente ravvisabile nella giurisprudenza di questa sezione orientata a riconoscere, entro determinati e penetranti limiti ed in termini differenziati, la validità degli accordi non trasfusi nell’accordo omologato e di quelli successivi all’omologazione. Negli accordi si dispiega pienamente l’autonomia dei coniugi e la loro valutazione della gravità della crisi coniugale, con esclusione di ogni potere di indagine del giudice sui motivi della decisione di separarsi e di valutazione circa la validità di tali motivi, in piena coerenza con la centralità del principio del consenso nel modello di famiglia delineato dalla legge di riforma ed in ragione del tasso di negozialità dalla stessa legge riconosciuto in relazione ai diversi momenti ed aspetti della dinamica familiare.
Gli accordi tra coniugi quindi sono pienamente validi anche prima dell’omologazione che gli attribuisce efficacia.
Ora, poiché un accordo non sarebbe possibile in materia di diritti indisponibili (si veda per esempio l’art. 1966, secondo comma, c.c. sulla nullità della transazione avente ad oggetto diritti indisponibili) o se contrario a norme imperative (art. 1418 c.c.), ne risulta che la Corte di cassazione in queste decisioni e in quelle in esse richiamate ritiene del tutto valido un accordo anche a prescindere dall’omologazione. La negozialità esclude, insomma, l’indisponibilità.
d) Disponibilità e negozialità
La sostanziale disponibilità dei diritti patrimoniali post-coniugali è confermata quindi dalla loro possibile negozialità.
Per questo la giurisprudenza ritiene che le modificazioni pattuite dai coniugi successivamente all’omologazione, trovando fondamento nell’art. 1322 c.c. possono ritenersi valide ed efficaci anche a prescindere dallo speciale procedimento disciplinato dall’art. 710 c.p.c. sia pure a condizione che non violino diritti fondamentali delle persone (Cass. sez. I, 20 ottobre 2005, n. 20290) e ugualmente anche i patti a latere della separazione o antecedenti non omologati sempre a condizione che non siano lesivi dei diritti primari connessi al rapporto coniugale (Cass. sez. I, 11 giugno 1998, n. 5829; Cass. sez. I, 22 aprile 1982, n. 2481).
L’esclusione della validità degli accordi predivorzili (sia pure con qualche significativa apertura più recente: Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2012, n. 23713 Cass. civ. Sez. III, 21 agosto 2013, n. 19304) è stata predicata più volte in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. I, 10 marzo 2006, n. 5302; Cass. sez. I, 9 ottobre 2003, n. 15064; Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2079; Cass. civ. Sez. I, 2 dicembre 2000, n. 15349; Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2000, n. 8109; Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 1997, n. 5244; Cass. civ. Sez. I, 06/12/1991, n. 13128; Cass. civ. Sez. I, 20 settembre 1991, n. 9840) collegata, però, non solo alla ritenuta natura assistenziale dell’assegno ma anche alla possibile violazione del diritto di difesa che ne deriverebbe per il soggetto che con la sottoscrizione dell’accorso rinuncia di fatto a difendersi in modo diverso nella futura causa di divorzio. In altra parte3 si è affrontato il tema dei limiti di validità dei patti prematrimoniali e specificamente della rinuncia all’assegno divorzile (che trova confine insormontabile nel diritto agli alimenti ove sopraggiunga uno stato di bisogno) negli ordinamenti dove tali patti sono disciplinati ed anche nelle proposte di legge in materia presentate in Parlamento.
3 Cfr la voce ACCORDI PREMATRIMONIALI
e) La riforma del 2014 sugli accordi possibili al di fuori del tribunale
La tesi tradizionale della natura indisponibile dei diritti (personali e patrimoniali) collegati allo status coniugale è stata fortemente incrinata, come si è detto, dalla normativa sulla negoziazione assistita (articoli 6 e 12, D. L. 12 settembre 2014, n. 132, nel testo modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162). Secondo l’art. 6 della nuova normativa la convenzione di negoziazione assistita dagli avvocati può essere conclusa tra i coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di separazione o di divorzio (nella sola ipotesi di divorzio richiesto dopo la separazione) ovvero per accordarsi su una modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. Il decreto legge 132/2014 prevedeva la limitazione della negoziazione assistita alle sole separazioni o divorzi tra coniugi senza figli. La legge di conversione ha esteso la negoziazione assistita anche alle ipotesi di separazione e divorzio (e rispettivi procedimenti di modifica) con figli minori o non autosufficienti economicamente e questa estensione ha costituito certamente la componente più eversiva rispetto ai principi tradizionali. La legge prevede il passaggio (non in tribunale ma) nell’ufficio del Pubblico Ministero chiamato ad autorizzare l’accordo di separazione nel caso in cui vi siano figli a carico (se l’accordo viene ritenuto non in contrasto con i diritti dei figli) e a rilasciare un nulla osta nel caso in cui non ve ne siano.
Con questa riforma l’autonomia privata trova nel diritto di famiglia una valorizzazione piena che mette il giurista di fronte al problema di una ridefinizione complessiva dei limiti e dei confini tradizionali dell’indisponibilità dei diritti nell’ambito del diritto di famiglia.
Decisamente eversiva dei principi generali in materia di indisponibilità dello status coniugale è la normativa prevista nell’art. 12 del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132, nel testo modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162. Con tale norma si è introdotta la possibilità per i coniugi di chiedere congiuntamente la separazione, il divorzio (limitatamente al divorzio che consegue alla separazione) ovvero la modifica di condizioni di separazione e di divorzio direttamente rivolgendosi, con l’assistenza facoltativa di un avvocato, agli uffici di stato civile del Comune di residenza di uno di loro o di quello in cui è stato iscritto o trascritto il matrimonio. L’unica condizione è che non vi siano figli minori o maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti. L’ufficiale di stato civile riceve da ciascuna delle parti personalmente la dichiarazione che esse vogliono separarsi ovvero far cessare gli effetti civili del matrimonio o ottenerne lo scioglimento secondo condizioni tra di esse concordate ovvero che intendono modificare le condizioni di separazione o di divorzio. L’atto contenente l’accordo – che vale come se fosse una decisione del tribunale – è compilato e sottoscritto immediatamente dopo il ricevimento delle dichiarazioni. Nell’accordo può anche essere indicata la misura di un assegno di separazione o di divorzio.
La portata eversiva dei principi in tema di indisponibilità dei diritti coniugali, specificamente quelli sullo status coniugale, è molto evidente. La possibilità che viene lasciata ai coniugi di procedere alla separazione o al divorzio senza l’intervento del tribunale costituisce decisamente un elemento di novità molto significativo che rimette in discussione i confini tradizionali dell’autonomia privata nel diritto di famiglia.
IV Il principio in base al quale i diritti diventano prescrittibili dopo la loro regolamentazione legale
Una volta intervenuto il provvedimento che definisce il contenzioso tra le parti o che attribuisce piena validità agli accordi raggiunti (decisione giudiziaria, decreto di omologa, sentenza su accordo delle parti anche relativo all’una tantum, registrazione all’ufficio di stato civile dell’accordo di separazione o divorzio tra i coniugi) i diritti patrimoniali si trasformano da diritti (disponibili) imprescrittibili in diritti (disponibili) prescrittibili.
Il diritto imprescrittibile al mantenimento, una volta che la decisione del giudice o l’accordo legale hanno dichiarato la spettanza dell’assegno e lo hanno quantificato nel suo importo periodico, si trasforma in un diritto prescrittibile. Nello specifico prescrittibile nel termine di cinque anni previsto per “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi” (art. 2948 c.c.).
Il fenomeno della trasformazione in diritto prescrittibile si verifica anche per i diritti indisponibili (per esempio quelli relativi al mantenimento dei figli) dopo la regolamentazione che ne ha fatto il giudice o che gli interessati hanno concordato.
V La prescrizione in materia di mantenimento coniugale e per i figli
a) Il mantenimento coniugale
Il diritto imprescrittibile all’assegno di separazione o di divorzio si trasforma con la decisione legale in diritto quantificato che una parte può pretendere anche coattivamente dall’altra. La prescrizione è certamente quinquennale se il mantenimento è costituito da un assegno periodico (art. 2048 c.c.: “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”) mentre sarà decennale se si tratta di una corresponsione in unica soluzione (art. 2946 c.c.: “salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni”) non essendo rinvenibili nella disciplina della prescrizione indicazioni diverse.

Nel caso di assegno periodico la decorrenza della prescrizione, cioè il dies a quo dal quale decorre il termine prescrizionale, è quello delle singole scadenze periodiche “in relazione alle quali sorge, di volta in volta, l’interesse del creditore a ciascun adempimento” (Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 1998, n. 12333; Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975); ove invece si trattasse di un assegno una tantum il termine prescrizionale non potrebbe che decorrere dalla decisione (imposta o concordata) che lo ha previsto. Per ogni altra pretesa tra coniugi vale il principio generale secondo cui “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere” (art. 2935 c.c.) e sempre che non si verifichi quanto dispone in materia risarcitoria da fatto illecito (dove la prescrizione è di cinque anni) l’ultimo capoverso dell’art. 2947 c.c. per l’ipotesi in cui il fatto illecito costituisca reato: in tal caso troverà applicazione l’eventuale più lungo periodo di prescrizione stabilito per il reato.
b) Il mantenimento dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti
In caso di procedimenti relativi ai figli minori o maggiorenni non autosufficienti il giudice è titolare di un potere-dovere improntato alla tutela dell’interesse superiore del figlio e perciò il diritto al mantenimento del figlio (art. 315-bis c.c.) ha certamente, come si è detto, natura di diritto indisponibile (Cass. civ. Sez. I, 30 dicembre 2011, n. 30196; Cass. civ. Sez. I, 25 ottobre 2000, n. 14022; Cass. sez. I, 26 febbraio 1988, n. 2043). Pertanto anche in questo caso il diritto al mantenimento non è soggetto a prescrizione.
Anche per quanto concerne il mantenimento dei figli minori è opportuno ancora una volta ribadire che il diritto al mantenimento fa parte del regime primario familiare (art. 143,147 e 148 c.c.) e che pertanto configura un sistema di norme, principi e diritti indisponibili e imprescrittibili. Tuttavia, come si è sopra detto, dopo che il diritto al mantenimento è stato regolamentato in sede legale (sentenza, omologa, registrazione all’ufficio di stato civile dopo la negoziazione assistita) il diritto così determinato diventa prescrittibile. Pertanto anche in materia di assegno periodico per i figli minori valgono le stesse regole sopra viste. Si tratta di una corresponsione periodica per la quale trova applicazione il termine prescrizionale di cinque anni dalle singole scadenze (art. 2948 c.c.) entro il quale il genitore titolare del potere di pretendere l’assegno deve richiederlo (Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 1998, n. 12333; Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975).
Come si è fatto notare in dottrina, con riferimento al mantenimento dei figli – ma con considerazioni pienamente valide anche per il mantenimento coniugale – l’art. 2948 c.c. è inteso soprattutto a liberare in tempo relativamente breve il debitore tenuto a prestazioni periodiche per effetto di una causa debendi unica e continuativa. Il titolo che fonda i versamenti periodici è la sentenza del giudice. La prescrizione quinquennale si riferisce alle obbligazioni (periodiche) cioè a quelle caratterizzate dal fatto che la prestazione è suscettibile di adempimento solo col decorso del tempo, in modo che solo con il protrarsi dell’adempimento nel tempo può essere soddisfatto l’interesse del creditore attraverso più prestazioni, aventi un titolo unico, ma ripetute nel tempo ed autonome le une dalle altre. Pertanto il titolo è unico ma l’adempimento è periodico. Perciò mentre il diritto ad ottenere il titolo è imprescrittibile, il diritto successivo alla pretesa del mantenimento periodico si prescrive in cinque anni dalle singole scadenze. In questa linea sono, come già detto, Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975, Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2004, n. 336 e Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 1998, n. 12333 dove si legge che in tema di separazione e di divorzio, il diritto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento per il coniuge, così come il diritto agli assegni di mantenimento per i figli, in quanto aventi a oggetto prestazioni autonome, distinte e periodiche, non si prescrivono a decorrere da un unico termine rappresentato dalla data della pronuncia della sentenza di separazione o di divorzio, ma dalle singole scadenze delle prestazioni dovute, in relazione alle quali sorge di volta in volta il diritto all’adempimento.
Nella giurisprudenza di merito si sono adeguati all’orientamento consolidato sulla prescrizione quinquennale Trib. Milano Sez. III, 9 giugno 2012, Trib. Monza Sez. III, 16 settembre 2010, Trib. Trani, 22 aprile 2009 nonché Trib. Napoli, 28 gennaio 2000 e Trib. Roma Sez. I, 5 luglio 2011 che affrontano, giungendo a conclusioni contrastanti, anche il tema della conversione ex art. 2953 c.c. del termine prescrizionale quinquennale in quello decennale allorché sopraggiunga una sentenza di condanna passata in giudicato4: la decisione del tribunale di Napoli applica il principio della conversione anche alle sentenze di separazione mentre la decisione del tribunale di Roma lo esclude. In effetti sembra del tutto logico escludere la conversione nel caso delle sentenze confermative di obbligazioni di mantenimento dal momento che ne deriverebbe sempre inevitabilmente la disapplicazione pacifica del termine quinquennale di prescrizione ma soprattutto perché la sentenza di condanna non modifica la natura periodica dell’obbligazione.
Proprio a proposito della conversione del termine quinquennale in quello più lungo che segue alle sentenze (penali) di condanna viene spesso citata una decisione la cui affrettata lettura può portare a considerazioni errate relativamente alla prescrizione quinquennale dell’assegno di mantenimento. Si tratta di Cass. civ. Sez. III, 12 settembre 2005, n. 18097 che ha escluso che possa invocarsi la conversione prevista dall’art. 2953 c.c. per effetto del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna escludendo, quindi, la conseguente applicabilità del termine di ordinaria prescrizione decennale. Si legge nella decisione che “la sentenza penale passata in giudicato che, ai sensi dell’art. 570 cod. pen. condanni l’obbligato in relazione all’omessa corresponsione dell’assegno di mantenimento con riferimento ai mesi per i quali fu sporta
4 Art. 2953 c.c “I diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni”.

denunzia penale comporta che sono soggetti a prescrizione decennale ai sensi dell’art. 2953 cod. civ. soltanto i crediti oggetto del giudicato penale e non anche quelli successivi a tale data. Infatti tali prestazioni, avendo natura periodica, sono assimilabili alla nozione di “pensioni alimentari” e soggette alla prescrizione quinquennale decorrente dalle singole scadenze, in relazione alle quali sorge l’interesse all’adempimento”. Nella vicenda che fa da sfondo alla sentenza un coniuge era stato condannato penalmente per non aver corrisposto gli assegni stabiliti in sede civile. Il diritto al mantenimento scaturente dalla sentenza civile si sarebbe prescritto quindi secondo l’articolo 2948 c.c. in cinque anni dalle singole scadenze periodiche. Sennonché la sentenza di condanna penale rendeva applicabile il termine più lungo previsto nell’art. 2953 c.c. Pertanto correttamente i giudici hanno applicato il termine lungo prescrizionale per i diritti sui quali era intervenuto il giudicato penale ma non per quelli successivi per i quali riprendeva a valere la prescrizione quinquennale dalle scadenze periodiche. La sentenza appare del tutto corretta ma nella massima ufficiale che la sintetizza si parla di “prescrizione quinquennale del mantenimento” e per questo la sentenza viene utilizzata talvolta a sproposito per paralizzare la pretesa creditoria ultraquinquennale del diritto al mantenimento dei figli minori quando anche quando ancora manca un titolo che lo stabilisca, non considerando (o semplicemente ignorando) che la sentenza 18097/2005 fa riferimento ad una vicenda in cui il giudice aveva già stabilito con sentenza il diritto al mantenimento. L’azione con cui si chiede il mantenimento a favore di un figlio può iniziare fino a che non sia prescritto il relativo diritto (e fino all’autosufficienza del figlio il diritto è imprescrittibile) ma la prescrizione diventa quinquennale solo dopo la sentenza dal momento che il mantenimento stabilito in sentenza deve essere corrisposto a scadenze periodiche.
Corretta invece appare, sullo stesso punto, la decisione di Trib. Palermo Sez. I, 13 aprile 2011 nella quale si chiarisce che poiché la sentenza penale di condanna concerne esclusivamente i ratei dell’assegno di mantenimento non pagati, per i quali sia stata sporta denuncia penale, consegue che si sottraggono alla prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2953 c.c. rimanendo assoggettati alla prescrizione decennale solo i crediti per i quali sia stata sporta denuncia e non anche quelli maturati successivamente a tale data.
c) L’azione di regresso in caso di riconoscimento tardivo del figlio nato fuori dal matrimonio
Nl caso di riconoscimento tardivo di un figlio nato fuori dal matrimonio il genitore che intende promuovere iure proprio un’azione di regresso di mantenimento nei confronti del genitore inadempiente è soggetto alla prescrizione decennale ex art. 2946 c.c. anche se è discussa in giurisprudenza la decorrenza di tale prescrizione. Secondo la Corte di cassazione il diritto di regresso è collegato al giudicato (pur potendo la domanda di regresso essere azionata contestualmente a quella di riconoscimento giudiziale della genitorialità: Cass. civ. Sez. I, 30 luglio 2010, n. 17914) e pertanto la decorrenza della prescrizione decennale non può che essere quella del giudicato sullo status (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986; Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596, Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328; Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124). In altre parole pur avendo l’accertamento della filiazione natura dichiarativa, la pronuncia sullo status manterrebbe la sua efficacia costituiva dei diritti patrimoniali conseguenziali. In consapevole contrasto con questo orientamento si è posta una pronuncia del tribunale di Roma (Trib. Roma, Sez. I, 1 aprile 2014) la quale, prendendo spunto dall’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’obbligazione di mantenimento decorre dalla nascita indipendentemente dall’accertamento della genitorialità (Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652; Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205; Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 1990, n. 5633) ha ritenuto che la prescrizione dell’azione di regresso, che spetta al genitore che ha sostenuto in via esclusiva sin dalla nascita gli oneri del mantenimento del figlio, decorre dal momento in cui ogni singola spesa è stata effettuata e non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza sullo status. Questo perché, avendo il genitore, la facoltà di azionare il diritto al regresso anche prima che sia promosso l’accertamento della genitorialità, non sarebbe giusto addossare al genitore che tardivamente viene ritenuto tale il peso economico di pretese creditorie che potrebbero anche essere molto lontana nel tempo. Altre decisioni di merito (lo stesso Trib. Roma Sez. I, 17 settembre 2013 e Trib. Benevento, 22 gennaio 2008 hanno, però, ritenuto di doversi adeguare all’orientamento prevalente della Cassazione circa la decorrenza del termine prescrizionale dal giudicato sullo status.
VI La sospensione della prescrizione tra coniugi si applica anche ai coniugi separati?
L’art. 2941 c.c. prevede che la prescrizione rimane sospesa in relazione a particolari rapporti tra le parti, per esempio tra i coniugi, tra chi esercita la responsabilità genitoriale e le persone minori che vi sono sottoposte, tra il tutore e il minore ed altre ipotesi. Insomma tutte le volte in cui per la particolare relazione che sussiste tra le parti non si può pretendere che una di esse agisca nei confronti dell’altra. L’istituto della sospensione in questi casi serve a conservare in capo ad una parte il potere di agire finché dura la relazione in questione.
Il termine è certo per quanto riguarda la relazione di responsabilità genitoriale tra il genitore e il minore e quella di tutela tra il tutore e il minore ed è il raggiungimento della maggiore età del soggetto incapace.
In passato si riteneva che anche nel caso della sospensione tra coniugi il termine fosse certo e che coincidesse con il divorzio. Fino al giudicato di divorzio insomma due coniugi rimangono tali e pertanto fino al giudicato di divorzio la prescrizione tra coniugi rimane sospesa.
Questa era perlomeno l’opinione della Corte costituzionale e della giurisprudenza prevalente fino al 2014.
In particolare la Corte costituzionale era intervenuta sul tema della sospensione della prescrizione tra coniugi due volte. Una prima volta allorché proprio sul tema specifico che qui interessa ebbe a dichiarare che anche durante la separazione personale, la situazione di coniuge si differenzia da quella di ogni altro cittadino; pertanto, è infondata la questione di costituzionalità dell’art. 2941, n. 1, cod. civ., per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui dispone che rimane sospesa la prescrizione fra coniugi anche se legalmente separati, atteso che il detto articolo non attribuisce al coniuge separato un ingiustificato privilegio rispetto alla generalità degli altri cittadini (Corte cost., 19 febbraio 1976, n. 35) e una seconda volta allorché escluse l’incostituzionalità dell’art. 2941 n. 1 c.c., nella parte in cui non estende anche alla situazione di convivenza “more uxorio” la causa di sospensione della prescrizione dettata per i rapporti fra coniugi in costanza di matrimonio (Corte cost., 29 gennaio 98, n. 2).
A questa interpretazione aveva finora sempre aderito la giurisprudenza sia di legittimità (Cass. civ. Sez. III, 1 aprile 2014, n. 7533 e, in passato, Cass. civ., 23 agosto 1985, n. 4502 secondo cui l’art. 2941, n. 1 c. c., il quale prevede nei rapporti fra coniugi la sospensione della prescrizione, trova applicazione anche durante il regime di separazione personale, il quale non implica il venir meno del rapporto di coniuge, ma solo una attenuazione del vincolo) che la giurisprudenza di merito (Trib. Bologna Sez. I, 21 maggio 2004; Trib. Milano, 10 febbraio 1999). Di contrario avviso Trib. Bari Sez. II, 28 febbraio 2012 che ha affermato che la sospensione della prescrizione, disciplinata dall’art. 2941 c.c. si ritiene sussistente ed operante solo fino a quando lo stato del coniuge coincida con quello di convivente dovendo ritenersi oramai superata l’interpretazione che riteneva applicabile la sospensione anche dopo l’intervenuta separazione.
Quest’ultima è diventata ora anche l’opinione prevalente della giurisprudenza di legittimità che con due sentenze del 2014 (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981 e Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078) si è assunta la responsabilità di escludere la sospensione della prescrizione tra coniugi separati. In particolare si è affermato che l’originaria idea che “lo stato di separazione, pur rivelando una incrinatura dell’unità familiare, non ne implica la definitiva frattura”, rimanendo possibile la “ricostituzione (mediante la conciliazione) della coesione familiare” è oggi ampiamente superata, se si considera che la separazione non è più un momento di riflessione e ripensamento prima di riprendere la vita di coppia, e nemmeno solo l’anticamera del futuro divorzio, ma rappresenta il momento della “sostanziale esautorazione dei principali effetti del vincolo matrimoniale” (Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981) e che, quindi, la sospensione della prescrizione tra coniugi di cui all’art. 2941 c.c., n. 1 non trova applicazione al credito dovuto per l’assegno di mantenimento previsto nel caso di separazione personale, dovendo prevalere sul criterio ermeneutico letterale un’interpretazione conforme alla ratio legis, da individuarsi alla luce dell’evoluzione della normativa e della coscienza sociale e, quindi, della valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto alla conservazione dell’unità familiare, con la conseguente tendenziale equiparazione del regime di prescrizione dei diritti post-matrimoniali e delle azioni esercitate tra coniugi separati. Nel regime di separazione, infatti, non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turbare l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state esperite le relative azioni giudiziarie, con la conseguente cessazione della convivenza, il venir meno della presunzione di paternità di cui all’art. 232 c.c. e la sospensione degli obblighi di fedeltà e collaborazione (Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078).
Pertanto allo stato attuale l’interpretazione prevalente in giurisprudenza prevede che la sospensione della prescrizione tra coniugi prevista nell’art. 2941, n. 1, c.c. non si applichi ai coniugi separati, anche se non viene chiarito nelle due sentenze sopra richiamate quale sia il termine finale del periodo di sospensione e cioè da dove cominci (o ricominci) a decorrere la prescrizione (se dalla domanda di separazione, dai provvedimenti provvisori e urgenti che autorizzano i coniugi a vivere sperati ovvero dal giudicato di separazione). Parrebbe plausibile ritenere che il termine sia costituito dal giudicato sulla separazione analogamente a quanto ritenuto dalla giurisprudenza in materia di interruzione della prescrizione (Cass. civ. Sez., I, 7 giugno 2013, n. 14427).
Naturalmente la sospensione della prescrizione non impedisce ad un coniuge di azionare la sua pretesa anche nel corso della vita matrimoniale allorché si verifichi l’evento sul quale fondare la pretesa restitutoria o creditoria.
VII La prescrizione nelle azioni di status
Nella versione riformata dalla legge 10 dicembre 2010, n. 219 e dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 dell’azione di disconoscimento della paternità e dell’azione di impugnazione per difetto di veridicità del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, risulta completamente modificato l’impianto dei termini di prescrizione delle azioni di status tendenti alla eliminazione di status difformi dalla verità biologica.
Il nuovo art. 244 c.c. prevede sempre che l’azione da parte della madre deve essere proposta nel termine di sei mesi dalla nascita del figlio (ovvero dal giorno in cui la madre è venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito al tempo del concepimento) mentre l’azione promossa dal marito di lei deve essere esercitata nel termine di un anno che decorre dal giorno della nascita quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio in caso contrario dal giorno del suo ritorno o dal giorno del ritorno nella residenza familiare; se il marito prova di aver ignorato la propria impotenza di generare ovvero l’adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza. La novità più significativa in materia di prescrizione dell’azione sta nel fatto che sia la madre che il marito di lei non possono in ogni caso proporre più l’azione oltre cinque anni dal giorno della nascita mentre per il figlio l’azione è diventata imprescrittibile. Prima della riforma del 2013 sulla filiazione il figlio era ammesso ad esercitare l’azione “entro un anno dal compimento dalla maggiore età o dal momento in cui viene successivamente a conoscenza dei fatti che rendono ammissibile il riconoscimento”).
L’ultimo comma dell’art. 244 c.c. prevede inoltre ora, dopo la riforma, che “l’azione può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto i quattordici anni [sedici prima della riforma del 2013] ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore, quando si tratta di minore di età inferiore”. Quindi oltre il quattordicesimo anno l’iniziativa non può che essere assunta dal figlio.
Poiché la legge prevede che il minore possa attivarsi per l’azione di disconoscimento (richiedendo addirittura egli stesso, se ultraquattordicenne, la nomina di un curatore) è evidente che in tal caso la rappresentanza processuale del minore non può essere lasciata alla madre o al marito di lei (cioè al padre legittimo del minore). Il conflitto di interessi è in re ipsa. Si tratta di un conflitto di interessi in verità più ampio a cui la legge con questo meccanismo pone riparo ed è il conflitto tra il diritto (imprescrittibile) attribuito al figlio e il diritto (prescrittibile) attribuito alla madre e al marito di lei. Se la madre e il marito di lei non promuovono l’azione o lasciano decorrere i termini di prescrizione, il figlio maggiorenne potrà in seguito sempre promuovere il disconoscimento mentre nel periodo della minore età la nomina di un curatore per il promovimento dell’azione può essere richiesta direttamente dal figlio ultraquattordicenne ovvero – sotto i quattordici anni – dal “Pubblico Ministero” o “dall’altro genitore”.
L’altra azione che nel contesto della filiazione (ma fuori dal matrimonio) è destinata ad eliminare lo status non veritiero è l“impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità”. Si tratta della principale – non l’unica – azione di caducazione dello status di figlio nato fuori dal matrimonio. Il primo comma dell’art. 263 c.c. prevede che “il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall’autore del riconoscimento, da colui che è stato riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse”. Chi asserisce di essere il padre biologico, in quanto soggetto che vi ha certamente interesse, è, quindi, tra i soggetti che può promuovere l’azione e partecipare poi a pieno titolo al processo.
Gli altri commi dell’art. 263 c.c. (introdotti dall’art. 18 del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154) prevedono che l’azione di impugnazione da parte dell’autore del riconoscimento deve essere proposta nel termine di un anno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita ovvero dal giorno in cui egli ne ha avuto conoscenza. L’azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento. L’azione di impugnazione da parte degli altri legittimati deve essere proposta nel termine di cinque anni che decorrono dal giorno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. Riguardo al figlio l’azione è, invece, imprescrittibile.
La scadenza del termine massimo di cinque anni previsto per l’esperibilità dell’azione di disconoscimento e dell’impugnazione del riconoscimento da parte dei legittimati diversi dal figlio renderà inattaccabile lo status a meno che il figlio non ritenga di dover esercitare il diritto imprescrittibile che la legge gli attribuisce. È anche questo un modo di risolvere un conflitto di interessi dando la prevalenza all’interesse del figlio rispetto a quello degli altri legittimati all’azione.
Sulla imprescrittibilità per il figlio dell’azione di accertamento della paternità la Corte di Cassazione ha escluso di dover sollevare questioni di legittimità costituzionale (Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960).
È anche opportuno fare un accenno alla regolamentazione della prescrizione contenuta nelle norme transitorie della riforma sulla filiazione (titolo V del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) dove si prevede all’art. 104 che “fermi gli effetti del giudicato formatosi prima dell’entrata in vigore della legge 10 dicembre 2012, n. 219, sono legittimati a proporre azioni di petizione di eredità, ai sensi dell’articolo 533 del codice civile, coloro che, in applicazione dell’articolo 74 dello stesso codice, come modificato dalla medesima legge, hanno titolo a chiedere il riconoscimento della qualità di erede” (primo comma), che “fermi gli effetti del giudicato formatosi prima dell’entrata in vigore della legge 10 dicembre 2012, n. 219, possono essere fatti valere i diritti successori che discendono dall’articolo 74 del codice civile, come modificato dalla medesima legge” (secondo comma) e che “i diritti successori che discendono dall’articolo 74 del codice civile, come modificato dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219, sulle eredità aperte anteriormente al termine della sua entrata in vigore si prescrivono a far data da suddetto termine”.
Pertanto tutti coloro che per effetto della nuova nozione di parentela (art. 74 c.c.) acquistano la qualifica di parenti e che come tali hanno acquistato con la riforma titolo alla eventuale successione, possono azionare le loro pretese nel termine prescrizionale di dieci anni decorrente dall’entrata in vigore della legge 10 dicembre 2012, n. 219 e cioè dal 1° gennaio 2013, sulle successioni apertesi prima di tale data concorrendo con coloro che prima di tale data avevano già acquistato un titolo ereditario, e quindi con effetti potenzialmente molto problematici, anche se la legge fa salvo l’eventuale giudicato già formatosi a tale data.

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Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell›art. 270 c.c. nella parte in cui prevede l›imprescrittibilità dell›azione per il riconoscimento di paternità naturale proposta dal figlio, con l›effetto di sacrificare il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo, atteso che la mancata previsione di un termine, soprattutto alla luce della previgente norma che lo prevedeva, non significa che un bilanciamento con la contrapposta tutela del figlio sia mancato, ma solo che esso è stato operato rendendo recessiva l›aspettativa del padre rispetto alle esigenze di vita e di riconoscimento dell›identità personale del figlio.
Cass. civ. Sez. I, 31 luglio 2015, n. 16222 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto all’identità personale e sociale costituisce un diritto della persona costituzionalmente garantito, sicché, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 2043 e 2059 c.c., la sua lesione, per ef¬fetto di un riconoscimento della paternità consapevolmente falso e, come tale, in seguito disconosciuto, implica il risarcimento del danno non patrimoniale così arrecato, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo costi¬tuisca o meno reato. Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni conseguenti ad un riconosci¬mento di paternità consapevolmente falso e, come tale, in seguito disconosciuto, decorre dal giorno dell’azione di impugnazione dell’atto per difetto di veridicità.
Cass. civ. Sez. I, 12 settembre 2014, n. 19319 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Pur non potendosi dubitare della natura negoziale (quand’anche non contrattuale) dell’accordo che dà sostanza e fondamento alla separazione consensuale tra i coniugi, e pur non essendo ravvisabile, nell’atto di omologa¬zione, una funzione sostitutiva o integrativa della volontà delle parti o di governo dell’autonomia dei coniugi, l’accordo di separazione dei coniugi omologato non è impugnabile per simulazione, poiché l’iniziativa proces¬suale diretta ad acquisire l’omologazione, e quindi la condizione formale di coniugi separati, è volta ad assicurare efficacia alla separazione, così da superare il precedente accordo simulatorio, rispetto al quale si pone in antitesi dato che è logicamente insostenibile che i coniugi possano “disvolere” con detto accordo la condizione di separati ed al tempo stesso “volere” l’emissione di un provvedimento giudiziale destinato ad attribuire determinati effetti giuridici a tale condizione.
Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18078 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sospensione della prescrizione non opera tra coniugi separati legalmente.
L’originaria idea che “lo stato di separazione… pur rivelando una incrinatura dell’unità familiare, non ne implica la definitiva frattura”, rimanendo possibile la “ricostituzione (mediante la conciliazione) della coesione familiare” (così Corte cost. n. 35/1976 cit.), è oggi ampiamente superata, se si considera che la separazione non è più un momento di riflessione e ripensamento prima di riprendere la vita di coppia, e nemmeno solo l’anticamera del futuro divorzio, ma rappresenta il momento della “sostanziale esautorazione dei principali effetti del vincolo matrimoniale” (così Cass. n. 7981/2014). I
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7986 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di mantenimento del figlio naturale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente azionabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, che conseguentemente costituisce il “dies a quo” della decor¬renza della ordinaria prescrizione decennale.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2014, n. 7981 (Foro It., 2014, 6, 1, 1768)
La sospensione della prescrizione tra coniugi di cui all’art. 2941, n. 1, cod. civ. non trova applicazione al credito dovuto per l’assegno di mantenimento previsto nel caso di separazione personale, dovendo prevalere sul criterio ermeneutico letterale un’interpretazione conforme alla “ratio legis”, da individuarsi tenuto conto dell’evoluzione della normativa e della coscienza sociale e, quindi, della valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto alla conservazione dell’unità familiare e della tendenziale equiparazione del regime di prescrizione dei diritti post-matrimoniali e delle azioni esercitate tra coniugi separati. Nel regime di separazione, infatti, non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turba¬re l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state esperite le relative azioni giudiziarie, con la conseguente cessazione della convivenza, il venir meno della presunzione di paternità di cui all’art. 232 cod. civ. e la sospensione degli obblighi di fedeltà e collaborazione.
Cass. civ. Sez. III, 1 aprile 2014, n. 7533 (Foro It., 2014, 7-8, 1, 2124)
La regola della sospensione del decorso della prescrizione dei diritti tra i coniugi, prevista dall’art. 2941, primo comma, n. 1, cod. civ., deve ritenersi operante sia nel caso che essi abbiano comunanza di vita, sia ove si trovino in stato di separazione personale, implicando questa solo un’attenuazione del vincolo.
Trib. Roma, sez. I civile, 1 aprile 2014 (Giur. It., 1988, I,1, 1112)
L’esistenza degli obblighi previsti dagli artt. 148, 315-bis e 316-bis c.c. si riconnette al solo fatto della procre¬azione, a prescindere dal riconoscimento formale dello status. L’azione di regresso del genitore che abbia prov¬veduto da solo al mantenimento del figlio e quella di concorso negli oneri di mantenimento può essere azionata nei confronti dell’altro genitore a prescindere da una pronuncia sullo status passata in giudicato. La prescrizione dell’azione decorre da ogni singola spesa effettuata e il termine è quello decennale non vertendosi in materia di alimenti ma di regresso in materia di obbligazioni solidali.
Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo dei genitori di educare e mantenere i figli (artt. 147 e 148 cod. civ.) è eziologicamente connesso esclusivamente alla procreazione, prescindendo dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così de¬terminandosi un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore. Il presupposto di tale responsabilità e del conseguente diritto del figlio al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali è costituito dalla consa¬pevolezza del concepimento, che non si identifica con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, ma si compone di una serie di indizi univoci, quali, nella specie, la indiscussa consumazione di rapporti sessuali non protetti all’epoca del concepimento.
Trib. Roma Sez. I, 17 settembre 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi in cui il figlio, alla nascita, sia riconosciuto da uno soltanto dei genitori, da un lato il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non può sottrarsi all’obbligazione nei confronti del figlio per la quota parte posta a suo carico, essendo tenuto a provvedervi, sin dal momento della nascita e per altro verso il genitore che abbia provveduto in via esclusiva al mantenimento del figlio può agire nei confronti dell’altro per ottenere il rimborso pro quota, delle spese sostenute dalla nascita. Tale azione non è però, utilmente esercitabile se non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la conseguenza che detto momento segna altresì il dies a quo della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. III, 21 agosto 2013, n. 19304 (Nuova Giur. Civ., 2014, 94, nota di TAGLIASACCHI)
È valida ed efficace la clausola, apposta ad un contratto di mutuo concluso tra coniugi, mediante la quale la restituzione della somma ricevuta viene sospensivamente condizionata alla separazione personale.
È valido il mutuo tra coniugi nel quale l’obbligo di restituzione sia sottoposto alla condizione sospensiva dell’evento, futuro ed incerto, della separazione personale, non essendovi alcuna norma imperativa che renda tale condizione illecita agli effetti dell’art. 1354, primo comma, cod. civ.
Cass. civ. Sez. I, 7 giugno 2013, n. 14427 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La proposizione di una domanda giudiziale ha effetto interruttivo della prescrizione, protraentesi fino al pas¬saggio in giudicato della sentenza che definisca il giudizio decidendo il merito o eventuali questioni processuali di carattere pregiudiziale, con riguardo a tutti i diritti da essa coinvolti o che si ricolleghino, con stretto nesso di causalità, al rapporto cui essa inerisce, sicché una siffatta efficacia, relativamente al termine decennale di prescrizione afferente il conguaglio della indennità di espropriazione e di occupazione giudizialmente invocato, può essere attribuita alla precedente domanda di opposizione alla stima solo in presenza di una correlazione so¬stanziale o processuale tra le decisioni che abbiano definito i rispettivi giudizi. (Nella specie la S.C., confermando la sentenza impugnata, ha escluso una tale correlazione avendo il giudizio di opposizione alla stima riguardato, originariamente, indennità relative a porzioni di terreno diverse da quella per la quale era stato successivamente richiesto il suddetto conguaglio, ed essendo, altresì, rimasto incensurato il diniego di valenza interruttiva della prescrizione attribuito alla statuizione di inammissibilità concernente la domanda tardivamente ivi formulata anche con riguardo a quest’ultima).
Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2013, n. 11985 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di applicazione degli artt. 2943, primo comma, e 2945, secondo comma, cod. civ., la nullità della noti¬ficazione dell’atto introduttivo del giudizio impedisce l’interruzione della prescrizione e la conseguente sospen¬sione del suo corso fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, a nulla rilevando, in senso contrario, la mera possibilità che la nullità sia successivamente sanata, e fermo restando che, qualora la sanatoria processuale abbia poi effettivamente luogo, i relativi effetti sul corso della prescrizione decorrono dal momento della sanatoria medesima, senza efficacia retroattiva.
Trib. Milano Sez. III, 9 giugno 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I ratei mensili degli assegni di mantenimento per i figli, così come gli assegni di separazione e di divorzio per il coniuge, rappresentando prestazioni che debbono essere pagate periodicamente in termini inferiori all’anno, ai sensi dell’art. 2948, n. 4, c.c. si prescrivono in cinque anni. In tal senso, è irrilevante, al fine dell’operatività della citata norma, anziché di quella dell’art. 2953 c.c., il fatto che essi siano dovuti in forza di sentenza di separazione o divorzio passata in giudicato.
Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2012, n. 23713 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito di una stretta solidarietà tra i coniugi, può ipotizzarsi che i rapporti di dare e avere patrimoniale subiscano, sul loro accordo, una sorta di quiescenza, una sospensione che cesserà in caso di “fallimento” del ma¬trimonio, e con il venir meno, provvisoriamente con la separazione, e definitivamente con il divorzio, dei doveri e diritti coniugali. Ciò detto, ove venga stipulato un contratto “atipico”, quale espressione dell’autonomia negoziale dei coniugi, con il quale questi abbiano stabilito che, in caso di fallimento del matrimonio l’uno dovrà cedere all’altro un suo immobile, quale indennizzo delle spese sostenute da quest’ultimo per la ristrutturazione di altro immobile da adibirsi a casa coniugale, esso deve sicuramente considerarsi volto a realizzare interessi meritevoli di tutela, ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c. e la condizione del “fallimento” di certo lecita.
Trib. Bari Sez. II, 28 febbraio 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla riscossione dell’assegno alimentare soggiace al termine di prescrizione breve quinquennale, ver¬tendosi in un’ipotesi di prestazioni periodiche in termini inferiori all’anno, disciplinate dall’art. 2948, n. 4 c.c. La sospensione della prescrizione, disciplinata dall’art. 2941 c.c., invece, si ritiene sussistente ed operante solo fino a quando lo stato del coniuge coincida con quello di convivente dovendo ritenersi oramai superata l’interpretazio¬ne che riteneva applicabile la sospensione anche dopo l’intervenuta separazione non costituendo la separazione un definitivo momento di rottura dell’unità familiare che poteva sempre ricostituirsi.
Cass. civ. Sez. I, 30 dicembre 2011, n. 30196 (Famiglia e Diritto, 2013, 2, 174, nota di SERRA)
Il provvedimento relativo al mantenimento del figlio minore delle parti nel giudizio di separazione può essere assunto d’ufficio e, pertanto, la domanda del genitore, per la prima volta, nel giudizio di secondo grado, non contrasta con il disposto dell’art. 345 c.p.c., trattandosi di allegazione di omessa pronuncia.
Trib. Roma Sez. I, 5 luglio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla percezione dei ratei scaduti dell’assegno di mantenimento tanto del coniuge quanto dei figli, si prescrive dalle singole scadenze delle prestazioni dovute nel termine quinquennale disposto dall’ art. 2948 c.c, in quanto assimilabile – come tutte le prestazioni volte al sostentamento di terzi da eseguirsi periodicamente – alle pensioni alimentari, senza che possa invocarsi, trattandosi di credito scaturente da decreto di omologa delle condizioni della separazione consensuale ovvero da sentenza esecutiva, la conversione prevista dall’art. 2953 c.c. per effetto del passaggio in giudicato della sentenza di condanna e la conseguente applicabilità del termine di ordinaria prescrizione decennale.
Trib. Palermo Sez. I, 13 aprile 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In merito all’opposizione a decreto ingiuntivo, proposta in relazione all’omessa corresponsione dell’assegno di mantenimento in favore dei figli minori, è fondata l’eccezione di prescrizione quinquennale, sollevata dall’op¬ponente, limitatamente ai ratei maturati successivamente alla sentenza penale di condanna emessa in seguito all’accertamento del reato previsto e punito dall’art. 12 sexies della legge n. 898 del 1970 La sentenza penale, concernendo esclusivamente i ratei dell’assegno di mantenimento non pagati, per i quali sia stata sporta denun¬cia penale, ne consegue che si sottraggono alla prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2953 c.c. rimanendo assoggettati alla prescrizione decennale. Difatti, la sentenza penale che condanni l’obbligato ai sensi dell’art. 570 c.p. comporta che sono soggetti alla prescrizione decennale solo i crediti per i quali sia stata sporta denuncia e non anche quelli maturati successivamente a tale data.
Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2010, n. 20273 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema d’impresa familiare i crediti del lavoratore familiare al mantenimento secondo la condizione patrimo¬niale della famiglia e alla partecipazione agli utili dell’impresa familiare si prescrivono in dieci anni, giacché, in relazione ad essi, deve trovare applicazione, in assenza di una disposizione diversa, la regola generale stabilita dall’art. 2946 cod. civ.
Trib. Monza Sez. III, 16 settembre 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di mantenimento va assimilato alle prestazioni con scadenza periodica di cui all’art. 2948 c.c. e come tale soggetto alla prescrizione breve quinquennale.
Cass. civ. Sez. I, 30 luglio 2010, n. 17914 (Famiglia e Diritto, 2011, 2, 129, nota di ORTORE)
In materia di mantenimento del figlio naturale, la domanda di rimborso delle somme anticipate da un genitore può essere proposta nel giudizio di accertamento della paternità o maternità naturale, mentre
l’esecuzione del titolo e la conseguente decorrenza della prescrizione del diritto a contenuto patrimoniale richie¬dono la preventiva definitività della sentenza di accertamento dello “status”.
Trib. Trani, 22 aprile 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ art. 2953 c.c. prevede espressamente che siano soggetti alla prescrizione breve quinquennale i ratei relativi alle pensioni alimentari alle quali vanno assimilati le prestazioni alimentari di natura periodica inferiori all’anno, quali l’assegno di mantenimento stabilito in sede di separazione o divorzio.
Trib. Bologna Sez. I, 16 gennaio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegno di mantenimento stabilito dal giudice in sede di separazione dei coniugi, come tutte le prestazioni che devono essere pagate periodicamente, ha un termine di prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 2948 c.c..
Trib. Benevento, 22 gennaio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rapporto di filiazione, sia esso legittimo o naturale, pone a carico di entrambi i genitori l’obbligo di provvedere al mantenimento del figlio, perdurante fino alla intervenuta completa autosufficienza economica dello stesso. In particolare, nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore, per il periodo anteriore alla pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato da parte di entrambi i genitori. Da ciò con¬segue, per un verso, che il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non può sottrarsi alla obbligazione nei confronti del figlio per la quota parte posta a suo carico, ma è tenuto a provvedere, sin dal momento della nascita e, per altro verso, che il genitore il quale ha provveduto in via esclusiva al mantenimento del figlio ha azione nei confronti dell’altro per ottenere il rimborso pro quota delle spese sostenute dalla nascita. Tale azione non è tuttavia utilmente esercitabile se non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione naturale atteso che soltanto per effetto di tale pronuncia si costituisce lo status di figlio naturale, sia pure con effetti retroagenti alla data della nascita, con la conseguenza che detto momento segna altresì il dies a quo della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596 (Foro It., 2007, 1, 1, 86)
Il termine decennale di prescrizione del diritto del genitore naturale al rimborso da parte dell’altro genitore, coobbligato, delle spese sostenute per il mantenimento del figlio decorre dal riconoscimento da parte di detto coobbligato ovvero dal passaggio in giudicato della sentenza di accertamento giudiziale della paternità o della maternità che, in quanto attributiva dello “status” di figlio naturale, costituisce il presupposto per l’accoglimento della domanda in oggetto.
Cass. civ. Sez. I, 22 settembre 2006, n. 20692 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento del diritto, agli effetti interruttivi della prescrizione ai sensi dell’art. 2944 cod. civ. pur non richiedendo formule speciali, deve tuttavia consistere in una ricognizione chiara e specifica del diritto altrui, uni¬voca e incompatibile con la volontà di non riconoscere il diritto stesso, e l’indagine diretta a stabilire se una certa dichiarazione costituisca riconoscimento, ai sensi della norma richiamata, rientra nei poteri del giudice di merito, il cui accertamento non è sindacabile in sede di legittimità quando è sorretto da una motivazione sufficiente e non contraddittoria.
Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 cod. civ., e, quindi, a norma dell’art. 261 cod. civ., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 cod. civ. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale e assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 cod. civ.), ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 cod. civ. nei rapporti fra condebitori solidali. Tuttavia, in considerazione dello stato di incertezza che precede la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente esercitabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la conseguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 10 marzo 2006, n. 5302 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, i reciproci rapporti economici in relazione al futuro ed eventuale divorzio con riferimento all’assegno divorzile sono nulli per illiceità della causa, avuto riguardo alla natura assistenziale di detto assegno, previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il diritto a richiederlo. Ne consegue che la disposizione dell’art. 5, ottavo comma della legge n. 898 del 1970 nel testo di cui alla legge n. 74 del 1987 – a norma del quale, su accordo delle parti, la corresponsione dell’assegno divorzile può avvenire in un’unica soluzione, ove ritenuta equa dal tribunale, senza che si possa, in tal caso, proporre alcuna successiva domanda a contenuto economico – , non è applicabile al di fuori del giudizio di divorzio, e gli accordi di separazione, dovendo essere interpretati “secundum ius”, non possono implicare rinuncia all’assegno di divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo di mantenere i figli sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori. Con¬seguentemente, il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non può sottrarsi alla sua obbligazione nei confronti del figlio per la quota posta a suo carico, ma è tenuto a provvedere sin dal momento della nascita, attesa la natura dichiarativa della pronuncia che accerta la filiazione naturale. Il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è tuttavia utilmente esercitabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la con¬seguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2005, n. 20290 (Fam. Pers. Succ., 2007, 2, 107, nota di ZUCCHI)
In tema di separazione personale consensuale, le modificazioni pattuite dai coniugi successivamente all’omo¬logazione trovano fondamento nell’art. 1322 c.c., e devono ritenersi valide ed efficaci anche a prescindere dal controllo dell’Autorità giudiziaria, sempre che i loro contenuti si mantengano nei limiti dei diritti e dei doveri inderogabili delineati dall’art. 160 c.c.
Cass. civ. Sez. III, 12 settembre 2005, n. 18097 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sentenza penale passata in giudicato che, ai sensi dell’art. 570 cod. pen., condanni l’obbligato in relazione all’omessa corresponsione dell’assegno di mantenimento con riferimento ai mesi per i quali fu sporta denunzia penale comporta che sono soggetti a prescrizione decennale ai sensi dell’art. 2953 cod. civ.. soltanto i crediti oggetto del giudicato penale e non anche quelli successivi a tale data. Infatti tali prestazioni, avendo natura periodica, sono assimilabili alla nozione di “pensioni alimentari” e soggette alla prescrizione quinquennale decor¬rente dalle singole scadenze, in relazione alle quali sorge l’interesse all’adempimento.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975 (Guida al Diritto, 2005, 16, 39, nota di FIORINI)
Il diritto di percepire gli assegni di mantenimento riconosciuti, in sede di divorzio, all’ex coniuge da sentenze pas¬sate in giudicato per i figli minori a lui affidati può essere modificato, ovvero estinguersi del tutto, solo attraverso la procedura prevista dall’art. 710 c.p.c. (oltre che per accordo tra le parti), con la conseguenza che la raggiunta maggiore età e la raggiunta autosufficienza economica del figlio non sono, di per sé, condizioni sufficienti a le¬gittimare, “ipso facto”, la mancata corresponsione dell’assegno.
Il diritto a percepire gli assegni di mantenimento riconosciuti, in sede di separazione, con sentenze passate in giudicato, può essere modificato o estinguersi, solo attraverso la procedura prevista dall’art. 710 c.p.c. con la conseguenza che la raggiunta maggiore età del figlio e la raggiunta autosufficienza economica del medesimo non sono condizioni sufficienti a legittimare, ipso fatto, in mancanza di un accertamento giudiziale, la mancata corresponsione dell’assegno.
In tema di separazione e di divorzio, il diritto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento per il coniuge, così come il diritto agli assegni di mantenimento per i figli, in quanto aventi a oggetto prestazioni autonome, di¬stinte e periodiche, non si prescrivono a decorrere da un unico termine rappresentato dalla data della pronuncia della sentenza di separazione o di divorzio, ma dalle singole scadenze delle prestazioni dovute, in relazione alle quali sorge di volta in volta il diritto all’adempimento.
Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124 (Foro It., 1986, I, 2679)
Il riconoscimento del figlio naturale comporta l’assunzione di tutti i diritti e doveri propri della procreazione legit¬tima, ivi compreso l’obbligo di mantenimento, che, per il suo carattere essenzialmente patrimoniale, esula dallo stretto contenuto della potestà genitoriale, e in relazione al quale, pertanto, non rileva, come, invece, avviene con riguardo a quest’ultima, a norma dell’art. 317-bis c.c.., la circostanza che i genitori siano o no conviventi, incombendo detto obbligo su entrambi, in quanto nascente dal fatto stesso della procreazione. Ne consegue che, nell’ipotesi in cui al mantenimento abbia provveduto, integralmente o comunque al di là delle proprie sostan¬ze, uno soltanto dei genitori, a lui spetta il diritto di agire in regresso, per il recupero della quota del genitore inadempiente, secondo le regole generali del rapporto tra condebitori solidali, come si desume, in particolare, dall’art. 148 c.c., richiamato dall’art. 261 c.c., che prevede l’azione giudiziaria contro il genitore inadempiente, e senza, pertanto, che sia configurabile un caso di gestione di affari altrui. L’obbligo in esame, non avendo natura alimentare, e decorrendo dalla nascita, dalla stessa data deve essere rimborsato “pro quota”.
In tema di riconoscimento di figlio naturale, il diritto al rimborso delle spese sostenute, spettante al genitore che ha allevato il figlio nei confronti del genitore che procede al riconoscimento, non è utilmente esercitabile se non dal giorno del riconoscimento stesso (soltanto il riconoscimento comportando, ex art. 261 c.c., gli effetti tipici connessi dalla legge allo status giuridico di figlio naturale), con la conseguenza che detto giorno segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Trib. Bologna Sez. I, 21 maggio 2004 (Guida al Diritto, 2005, 2, 78)
L’articolo 2941 del c.c. che dispone la sospensione della prescrizione tra coniugi deve applicarsi, attesa la tas¬satività dei casi di sospensione previsti dagli articoli 2941 e 2942 del c.c., sia nel caso che i coniugi abbiano comunanza di vita sia allorché si trovino in stato di separazione personale. Al coniuge non proprietario dei beni per i quali sono stati effettuati esborsi con denaro comune ovvero con suo esclusivo, compete un diritto di credito quantificabile, in assenza di prova contraria, nella metà della spesa sostenuta a vantaggio del bene non facente parte della comunione ma in proprietà esclusiva dell’altro coniuge, sul quale trattandosi di debito di valuta, sono dovuti i soli interessi legali dalla messa in mora, sino al saldo effettivo.
Cass. civ. Sez. I, 14 gennaio 2004, n. 336 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio, in quanto avente ad oggetto più prestazioni periodiche, distinte ed autonome, si prescrive non a decorrere da un unico termine costituito dalla sentenza che ha pro¬nunciato sul diritto stesso, ma dalle scadenze delle singole prestazioni imposte dalla pronuncia giudiziale, in relazione alle quali sorge di volta in volta l’interesse del creditore all’adempimento. Ne consegue che, dovendo tali prestazioni essere erogate alle scadenze fissate e sino al momento della diversa determinazione del giudice in sede di revisione, ovvero fino alla morte dell’ex coniuge onerato, non può profilarsi al momento del decesso una prescrizione del diritto all’ultimo assegno spettante, tale da estinguere il diritto alla sua percezione, e quindi da impedire il sorgere del diritto alla quota della pensione di reversibilità.
Cass. civ. Sez. I, 20 novembre 2003, n. 17607 (Famiglia e Diritto, 2004, 473 nota di CONTE)
Pur non potendosi dubitare della natura negoziale (quand’anche non contrattuale) dell’accordo che dà sostanza e fondamento alla separazione consensuale tra i coniugi, e pur non essendo ravvisabile, nell’atto di omologa¬zione, una funzione sostitutiva o integrativa della volontà delle parti o di governo dell’autonomia dei coniugi, è da escludere l’impugnabilità per simulazione dell’accordo di separazione una volta omologato, giacché l’ini¬ziativa processuale diretta ad acquisire l’omologazione, e quindi la condizione formale dei coniugi separati, con le conseguenti implicazioni giuridiche, si risolve in una iniziativa nel senso della efficacia della separazione che vale a superare il precedente accordo simulatorio, ponendosi in antitesi con esso, essendo logicamente insoste¬nibile che i coniugi possano “disvolere” con detto accordo la condizione di separati ed al tempo stesso “volere” l’emissione di un provvedimento giudiziale destinato ad attribuire determinati effetti giuridici a detta condizione.
L’accordo di separazione ha natura negoziale e a esso possono applicarsi, nei limiti della loro compatibilità, le norme del regime contrattuale che riguardano in generale la disciplina del negozio giuridico o che esprimono principi generali dell’ordinamento, come quelle in tema di vizi del consenso e di capacità delle parti. È tuttavia inammissibile l’impugnazione della separazione per simulazione quando i coniugi abbiano chiesto al tribunale l’omologazione della loro (simulata) separazione. In tal caso, la volontà di conseguire lo status di separati – dal quale la legge fa derivare effetti irretrattabili tra le parti e nei confronti dei terzi, salve le ipotesi della riconcilia¬zione e dello scioglimento definitivo del vincolo – è effettiva e non simulata.
L’atto che dà sostanza e fondamento alla separazione consensuale ha natura negoziale. In tale accordo, infatti, si dispiega pienamente l’autonomia dei coniugi e la loro valutazione della gravità della crisi coniugale, con esclu¬sione di ogni potere di indagine del giudice sui motivi della decisione di separarsi e di valutazione circa la validità di tali motivi, in piena coerenza con la centralità del principio del consenso nel modello di famiglia delineato dalla legge di riforma e in ragione del tasso di negozialità dalla stessa legge riconosciuto in relazione ai diversi mo¬menti e aspetti della dinamica familiare. Quanto precede non esclude, peraltro, che non è ammissibile dedurre la natura simulata di un siffatto accodo. Nel momento, infatti, in cui i coniugi convengono, nello spirito e nella pro¬spettiva della loro intesa simulatoria, di chiedere al tribunale l’omologazione della loro apparente separazione esse in realtà concordano nel volere conseguire il riconoscimento di un nuovo status e la volontà di conseguire quest’ultimo è effettiva e non simulata, per cui appare logicamente insostenibile che i coniugi possano disvolere con detto accordo la condizione di separati e, al tempo stesso, volere l’emissione di un provvedimento giudiziale destinato ad attribuire determinati effetti giuridici a detta condizione: l’antinomia tra tali determinazioni non può trovare altra composizione che nel considerare l’iniziativa processuale come atto incompatibile con la volontà di avvalersi della simulazione.
Cass. civ. Sez. I, 9 ottobre 2003, n. 15064 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ogni patto stipulato in epoca antecedente al divorzio volto a predeterminare il contenuto dei rapporti patrimoniali del divorzio stesso deve ritenersi nullo; è consentito, invece, che le parti, in sede di divorzio, dichiarino espres¬samente che, in virtù di una pregressa operazione (ad es. trasferimento immobiliare) tra di esse, l’assegno di divorzio sia già stato corrisposto una tantum con conseguente richiesta il giudice di stabilire conformemente l’assegno medesimo, ma in assenza di tale inequivoca richiesta è inibito al giudice di determinare l’assegno riconoscendone l’avvenuta corresponsione in unica soluzione. Del tutto diversa è l’ipotesi in cui le parti abbiano già regolalo i propri rapporti patrimoniali e nessuna delle due richieda un assegno (tale regolamento, infatti non necessariamente comporta la corresponsione di un assegno una tantum potendo le parti avere regolato diversa¬mente i propri rapporti patrimoniali e riconosciuto, sulla base di ciò, la sussistenza di una situazione di equilibrio tra le rispettive condizioni economiche con conseguente non necessità della corresponsione di alcun assegno), nel qual caso l’accordo è valido per l’attualità, ma non esclude che successivi mutamenti della situazione patri¬moniale di una delle due parti possa giustificare la richiesta di corresponsione di un assegno a carico dell’altra. (Nella fattispecie la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale, escluso che i coniugi avessero dichiarato l’avvenuta corresponsione una tantum dell’assegno di divorzio in virtù di una precedente operazione di trasfe¬rimento immobiliare, aveva proceduto alla determinazione dell’assegno medesimo su richiesta di modifica delle condizioni di cui alla sentenza di divorzio presentata da uno degli ex coniugi).
Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2079 (Famiglia e Diritto, 2003, 344)
Il principio secondo il quale gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio, sono nulli per illiceità della causa, anche nella parte in cui concernono l’assegno divorzile – che per la sua natura assistenziale è indisponibile – in quanto diretti, implicitamente o esplicitamente, a circoscrivere la libertà di difendersi nel giudizio di divorzio, trova fondamento nell’esigenza di tutela del coniu¬ge economicamente più debole, la cui domanda di assegnazione dell’assegno divorzile potrebbe essere da detti accordi paralizzata o ridimensionata. (Nella specie si trattava della dichiarazione del coniuge economicamente più debole che liberava, in vista del divorzio, l’altro coniuge da ogni obbligazione patrimoniale nei suoi confronti).
Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2076 (Famiglia e Diritto, 2003, 4, 344, nota di PICCALUGA)
L’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando, al momento del divorzio, l’inadegua¬tezza dei mezzi del coniuge richiedente in rapporto al tenore di vita avuto in costanza di matrimonio, e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso, non essendo necessario uno stato di bisogno dell’avente diritto e rilevando, invece, l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche. Il principio secondo il quale gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio, sono nulli per illiceità della causa, anche nella parte in cui concernono l’assegno divorzile – che per la sua natura assistenziale è indisponibile – in quanto diretti, implicitamente o esplicitamente, a circoscrivere la libertà di difendersi nel giudizio di divorzio, trova fondamento nell’esigenza di tutela del coniuge economicamente più debole, la cui domanda di assegnazione dell’assegno di¬vorzile potrebbe essere da detti accordi paralizzata o ridimensionata. (Nella specie si trattava della dichiarazione del coniuge economicamente più debole che liberava, in vista del divorzio, l’altro coniuge da ogni obbligazione patrimoniale nei suoi confronti).
Cass. civ. Sez. I, 1 dicembre 2000, n. 15349 (Giust. Civ. 2001, I, 1592)
La nullità, per illiceità della causa, degli accordi economici con cui i coniugi, in occasione della loro separazione, fissano il regime del loro futuro ed eventuale divorzio può essere invocata esclusivamente in sede di divorzio, a tutela di chi richiede le prestazioni economiche, nel caso che il coniuge onerato invochi quegli accordi al fine di escludere il diritto dell’altro.
Cass. civ. Sez. I, 25 ottobre 2000, n. 14022 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il rito adottato dal legislatore, con l’art. 9 della legge sul divorzio, ai fini della modificazione dell’assegno divorzi¬le, risulta regolato, in via generale, dagli art. 737 e ss. del c.p.c., e, quanto alle forme, in parte risulta disciplinato espressamente da tale normativa, mentre, nella parte non regolata, risulta rimesso nel suo svolgimento – che è attuato con impulso di ufficio – alla disciplina concretamente dettata dal giudice la quale dovrà garantire il rispet¬to del principio del contraddittorio e di quello del diritto di difesa. Da ciò deriva, quanto al procedimento di primo grado, che in esso non vigano le preclusioni previste per il giudizio di cognizione ordinario, con la conseguenza che in esso: 1) potranno essere proposte per tutto il corso di esso domande nuove, anche riconvenzionali, in con¬formità delle direttive dettate dal giudice nella gestione del processo, senza con ciò peraltro che la loro eventuale mancata proposizione possa impedirne la proposizione in separato giudizio; 2) potranno essere ammesse altresì prove nuove, anche in correlazione con i fatti sopravvenuti dedotti nel corso del processo; fatti che – peraltro – anche in questo caso il giudice dovrà e potrà prendere in esame se ed ove dedotti e sempre nei limiti delle domande proposte. Più in particolare trattasi di un procedimento svolgentesi nell’interesse delle parti ed anche nel quale – diversamente da quanto accade nel caso in cui si tratti di modifica dell’assegno di mantenimento di figli minori – vige il principio della domanda e della corrispondenza fra il “chiesto” ed il “pronunciato”, investendo l’”officiosità del procedimento” unicamente il profilo dell’impulso al suo svolgimento, ed, in certa misura (ai sensi dell’art. 738, comma 3) l’acquisizione di materiale probatorio. Quanto poi al giudizio di secondo grado nascente dal “reclamo”, fermo che quest’ultimo costituisce un mezzo di impugnazione avente carattere “devolutivo” e come tale ha per oggetto la revisione della decisione di primo grado nei limiti del “devolutum” e delle censure formulate ed in correlazione alle domande formulate in quella sede, in esso giudizio, mentre possono essere allegate – stante la libertà di forme proprie del procedimento – fatti nuovi, non possono essere proposte domande nuove, in quanto queste ultime snaturerebbero la natura del reclamo quale mezzo di impugnazione e, come tale, avente la funzione di rimuovere vizi del precedente provvedimento.
Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2000, n. 8109 (Foro It., 2001, I, 1318 nota di RUSSO, CECCHERINI)
Il principio secondo il quale gli accordi dei coniugi, diretti a fissare, in sede di separazione, il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio, sono nulli per illiceità della causa, anche nella parte in cui concernono l’assegno divorzile – che per la sua natura assistenziale è indisponibile – in quanto diretti, implicitamente o esplicitamente, a circoscrivere la libertà di difendersi nel giudizio di divorzio, trova fondamento nell’esigenza di tutela del coniuge economicamente più debole, la cui domanda di attribuzione dell’assegno divorzile potrebbe essere da detti ac¬cordi paralizzata o ridimensionata. Il richiamato principio, pertanto, non trova applicazione, ove invocato, al fine di ottenere l’accertamento negativo del diritto dell’altro coniuge, da quello che dall’accordo preventivo potrebbe ricevere un aggravio dell’onere cui sia tenuto. Né può essere fatta valere, in sede di divorzio, la nullità di un accordo transattivo, ancorché parzialmente trasfuso nella separazione consensuale, già raggiunto tra i coniugi al solo scopo di porre fine ad una controversia di natura patrimoniale, tra gli stessi insorta, senza alcun riferimento, esplicito od implicito, al futuro assetto dei rapporti economici conseguenti all’eventuale pronuncia di divorzio. Siffatto accordo, peraltro, acquisterebbe rilievo su detti rapporti, sotto il profilo della necessaria considerazione, da parte del giudice, della complessiva situazione reddituale delle parti, risultante, tra l’altro, dal credito di uno dei coniugi cui corrisponde il debito dell’altro.
Trib. Napoli, 28 gennaio 2000 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto al mantenimento del minore o del figlio maggiorenne non autosufficiente è, di per sé, imprescrittibile, ma non è imprescrittibile il diritto ai singoli ratei scaduti dell’assegno di mantenimento, trovando applicazione il termine quinquennale di cui all’art. 2948 c.c., ovvero, allorché il diritto in parola discende da una sentenza divor¬zile passata in giudicato, il termine decennale di cui all’art. 2953 c.c. (fermo che per i ratei e gli interessi scaduti successivamente alla sentenza continua ad applicarsi la prescrizione breve ex art. 2948 cit.).
Trib. Milano, 10 febbraio 1999 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La prescrizione tra coniugi è sospesa di diritto durante il matrimonio e tale regola trova applicazione anche durante la separazione personale, che non implica il venire meno del rapporto di coniugio, ma soltanto un’atte¬nuazione del vincolo.
Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 1998, n. 12333 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione dei coniugi e di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il diritto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento, in quanto avente ad oggetto più prestazioni autonome, distinte e periodiche, si prescrive non a decorrere da un unico termine rappresentato dalla data della pronuncia della sentenza di sepa¬razione o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, bensì dalle singole scadenze di pagamento, in relazione alle quali sorge, di volta in volta, l’interesse del creditore a ciascun adempimento.
Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 1998, n. 5829 (Guida al Diritto, 2004, 38, 45)
Le modificazioni degli accordi, convenuti tra i coniugi, successive all’omologazione della separazione ovvero alla pronuncia presidenziale di cui all’art. 708 c.p.c., trovando legittimo fondamento nel disposto dell’art. 1322 c.c. devono ritenersi valide ed efficaci, a prescindere dall’intervento del giudice ex art. 710 c.p.c., qualora non superino il limite di derogabilità consentito dall’art. 160 c.c. e, in particolare, quando non interferiscano con l’accordo omologato ma ne specifichino il contenuto con disposizioni maggiormente rispondenti, all’evidenza, con gli interessi ivi tutelati.
Corte cost., 29 gennaio 1998, n. 2 (Famiglia e Diritto, 1998, 214, nota di FIGONE)
L’art. 2941 n. 1 c.c., nella parte in cui non estende anche alla situazione di convivenza “more uxorio” la causa di sospensione della prescrizione dettata per i rapporti fra coniugi in costanza di matrimonio, non contrasta con l’art. 2 cost., in quanto, per un verso, la disposizione codicistica si riferisce a rapporti di carattere patrimoniale, difficilmente ricadenti sotto il parametro costituzionale che presuppone l’inviolabilità dei diritti, e, per altro verso, l’assimilazione della convivenza di fatto alle formazioni sociali si risolve in un’esplicitazione della pretesa violazio¬ne del principio di eguaglianza, insussistente per difetto di un adeguato “tertium comparationis”.
Cass. civ. Sez. I, 11 giugno 1997, n. 5244 (Famiglia e Diritto, 1997, 6, 576)
Gli accordi economici intervenuti fra i coniugi al momento della separazione non possono spiegare efficacia pre¬clusiva alla determinazione giudiziale dell’assegno di divorzio, atteso che, ove la causa di tali accordi fosse la li¬quidazione preventiva e forfettaria dell’assegno di divorzio, essi sarebbero nulli, sia per l’indisponibilità dell’asse¬gno di divorzio (rafforzata dalla legge n. 74 del 1987 che ha conferito al suddetto assegno natura eminentemente assistenziale), sia per illiceità della causa (avendo tali accordi sempre l’effetto di condizionare il comportamento delle parti nel giudizio concernente uno “status”); diverso è il caso delle intese economiche prospettate dalle parti con la domanda congiunta di divorzio ai sensi dell’art. 4 l. n. 74 del 1987, poichè tali intese (che vanno pur sempre sottoposte ad una valutazione giudiziale) si riferiscono ad un divorzio che le parti hanno già deciso di conseguire e non semplicemente prefigurato.
Corte cost., 25 giugno 1996, n. 214 (Famiglia e Diritto, 1996, 5, 424, nota di CARBONE)
È costituzionalmente illegittimo – per contrasto con l’art. 30 comma 3 cost. – l’art. 70 c.p.c., nella parte in cui non prescrive l’intervento obbligatorio del p.m. nei giudizi tra genitori naturali che comportino “provvedimenti relativi ai figli”, nei sensi di cui agli art. 9 l. 1 dicembre 1970 n. 898 e 710 c.p.c., come risulta a seguito della sentenza n. 416 del 1992.
Corte cost., 9 novembre 1992, n. 416 (Giur. It., 1993, I,1, 1152, nota di DALMOTTO)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 710 c.p.c., nel testo precedente a quello sostituito dall’art. 1 l. 29 luglio 1988 n. 331, nella parte in cui non prevede l’intervento del p.m. per la modifica dei provvedimenti riguardanti la prole dei coniugi separati.
Cass. civ. Sez. I, 6 dicembre 1991, n. 13128 (Giust. Civ., 1992, I, 1239, nota di CAVALLO)
Il carattere di indisponibilità dell’assegno di divorzio è stato rafforzato a seguito della nuova disciplina di cui alla l. n. 74 del 1987; essa ha infatti conferito a tale assegno natura eminentemente assistenziale e ha quindi escluso per i soggetti interessati il potere di determinare in via preventiva e autonoma gli effetti patrimoniali del divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 20 settembre 1991, n. 9840 (Dir. Famiglia, 1992, 562)
L’accordo fra coniugi separati, con cui si preveda la persistente operatività di patti aventi contenuto economico anche in regime di divorzio, è nullo per illiceità della causa pure in riferimento al godimento della casa familiare, non assumendo rilievo la circostanza che questa sia oggetto di comproprietà fra i coniugi medesimi, purché si verta in tema di convenzione sui rapporti correlati al matrimonio e non di contratto modificativo dell’assetto dominicale o costitutivo di diritti reali implicanti detto godimento.
Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 1990, n. 5633 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel quadro normativo delineato dall’art. 30 cost., dall’art. 279 c. c. e dalle convenzioni internazionali ratificate e rese esecutive in Italia, l’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio trova la sua fonte immediata nel fatto della procreazione, anche se accertato incidenter tantum e non nello status formale del figlio naturale; pertanto, non ha causa illecita per contrarietà a norme imperative o all’ordine pubblico, bensì è pienamente valido, in quanto informato alla detta normativa, il contratto con il quale un genitore naturale, am¬mettendo che un soggetto è stato da lui procreato, si obblighi a mantenerlo, in una misura convenzionalmente determinata, indipendentemente dal suo riconoscimento formale.
Cass. civ. Sez. I, 26 febbraio 1988, n. 2043 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il contributo di mantenimento cui il coniuge non affidatario è tenuto a favore dei figli in caso di separazione o di divorzio non è governato né dal principio di disponibilità né dal principio della domanda, presupposti dell’ordina¬rio processo civile, essendo il giudice titolare al riguardo di un potere-dovere improntato a difesa di un superiore interesse dello stato alla tutela e alla cura dei minori; nell’esercizio di tale potere, pertanto, il giudice non ha bisogno di domanda, né è vincolato dagli accordi fra i coniugi, sia per la determinazione dell’assegno, sia per la sua eventuale indicizzazione, potendo procedere d’ufficio alla sua rivalutazione anche in appello
Corte cost., 14 luglio 1986, n. 185 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è fondata, in riferimento agli art. 3, 1° e 2° comma, 24, 2° comma, e 30 cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, 1° comma (in relazione all’art. 6, 2° comma) l. 1° dicembre 1970, n. 898 (disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e dell’art. 708 c. p. c. (in relazione all’art. 155 c. c., nella parte in cui, rispet¬tivamente nel giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio e nel giudizio di separazione personale dei coniugi, non prevedono la nomina di un curatore speciale che rappresenti in giudizio il minore figlio delle parti, in ordine alla pronuncia sull’affidamento e ad ogni altro provvedimento che lo riguardi; i giudizi in questione, infatti, non attengono né si riflettono sullo status dei figli, ed inoltre, essendo preordinati a scegliere la soluzione migliore per gli interessi del minore, gli interessi di quest’ultimo non rimangono senza tutela, ma sono garantiti da una serie non indifferente di misure.
Cass. civ., 23 agosto 1985, n. 4502 (Dir. Famiglia, 1985, 934)
L’art. 2941, n. 1 c. c., il quale prevede nei rapporti fra coniugi la sospensione della prescrizione, trova applicazio¬ne anche durante il regime di separazione personale, il quale non implica il venir meno del rapporto di coniuge, ma solo una attenuazione del vincolo.
Cass. civ., 22 aprile 1982, n. 2481 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
I patti modificativi delle condizioni economiche previste in sede di separazione consensuale sono validi ed ef¬ficaci, anche senza la omologazione del tribunale, qualora essi non siano lesivi del diritto di mantenimento o di alimenti, riconducibile al diritto-dovere di assistenza (art. 143 c. c.), avente natura inderogabile (art. 160 c. c.), ma la parte che lamenta tale lesione per il superamento dei limiti della derogabilità, che non è ravvisabile quando tale diritto sia maggiormente tutelato, può provocare il relativo accertamento giudiziale (nella specie: il marito aveva convenuto di corrispondere alla moglie consensualmente separata una somma mensile doppia rispetto a quella fissata in sede di omologazione a titolo di mantenimento, ma successivamente aveva dedotto la nullità di tale pattuizione; il giudice del merito aveva ritenuto valido il patto modificativo e la suprema corte ha confermato tale pronuncia).
Corte cost., 19 febbraio 1976, n. 35 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche durante la separazione personale, la situazione di coniuge si differenzia da quella di ogni altro cittadino; pertanto, è infondata la questione di costituzionalità dell’art. 2941, n. 1, cod. civ., per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui dispone che rimane sospesa la prescrizione fra coniugi anche se legalmente separati, atteso che il detto articolo non attribuisce al coniuge separato un ingiustificato privilegio rispetto alla generalità degli altri cittadini.

L’art. 570 co. 2 prevede come soggetti passivi solo i figli minori o inabili al lavoro

Cass. pen. Sez. VI, 23 febbraio 2018, n. 8883
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
F.D., nato il (OMISSIS) avverso la sentenza del 03/03/2017 della CORTE APPELLO di TORINO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere LAURA SCALIA;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LUCA TAMPIERI;
Il Proc. Gen. conclude per l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
1. La Corte di appello di Torino, con sentenza del 3 marzo 2017, ha confermato quella resa dal locale Tribunale che aveva condannato l’imputato, F.D., per il reato di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 81, comma 2, art. 12-sexies,art. 570 c.p., comma 2, per avere egli, con più condotte omissive ed in esecuzione del medesimo disegno criminoso, fatto mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore, Matteo, affidato alla madre, omettendo di versare la somma mensile di duecentocinquantamila lire fissata per il mantenimento, dal Tribunale civile di Torino, con la sentenza di divorzio.
2. Ricorre in cassazione nell’interesse dell’imputato il difensore di fiducia con due motivi di annullamento.
3. La Corte di appello avrebbe, con errato apprezzamento delle prove, ritenuto la credibilità della persona offesa per una non ammissibile integrazione delle lacunose ed imprecise dichiarazioni rese dalla prima in sede di esame dibattimentale, con i contenuti della sporta denuncia-querela.
Sarebbe rimasto in tal modo inosservato il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità per il quale la querela vale solo ad accertare l’esistenza di una condizione di procedibilità e non può dare invece ricostruzione del fatto restando in tal caso integrata la violazione del principio che vuole che la prova si formi in dibattimento, nel contraddittorio tra le parti.
3.1. Un attento esame della sentenza emessa nei confronti del F. per identiche condotte, e che era stata prodotta dalla difesa al solo fine di determinare il trattamento sanzionatorio, avrebbe evidenziato l’identità delle dichiarazioni – comunque generiche e prive di ogni riferimento temporale – rese dall’offesa in entrambi i giudizi e quindi la non riferibilità dei fatti esposti nel presente giudizio all’intervallo di tempo dedotto in querela.
3.2. Il richiamo effettuato in sentenza ai contenuti della querela a sostegno dell’accertamento dello stato di bisogno della parte offesa – e tale sarebbe stata la circostanza riferita dall’ex coniuge di aver subito uno sfratto – e della sua eziologica riconducibilità all’omissione contributiva dell’imputato non avrebbe comunque integrato l’indicato presupposto.
4. Con il secondo motivo si fa valere violazione della legge penale in relazioneall’art. 570 c.p., eL. n. 898 del 1970,art.12 sexies, per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto, in adesione alla formulata imputazione, che il richiamo contenuto nell’art. 12 sexies, cit.all’art. 570 c.p., dovesse riferirsi al secondo e non al comma 1.
L’art. 12 sexies, cit. come stabilito dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 23866 del 31/01/2013 avrebbe infatti ed invece rinviato, nella finalità di individuare la sanzione applicabile all’autonoma fattispecie di cui alla richiamata normativa speciale,all’art. 570 c.p., comma 1, ed alla pena alternativa ivi prevista, in quanto opzione più favorevole all’imputato.
Il primo commadell’art. 570 c.p., sanziona penalmente la condotta di chi si sottragga agli obblighi di assistenza inerenti la potestà dei genitori o la qualità di coniuge obblighi che, destinati a collocarsi al di là di quello di non far mancare i mezzi di sussistenza, sono disciplinatidall’art. 29 Cost., e dagliartt. 143 e 147 c.c..
La nozione dei mezzi di sussistenza che implica uno stato di bisogno del soggetto passivo, chiamata ad integrare la diversa fattispecie di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, non avrebbe dovuto confondersi con quella di mantenimento, di matrice civilistica, integrativa della diversa fattispecie di cui all’art. 12 sexies cit., per la quale la pena applicabile avrebbe dovuto essere quella, alternativa, di cui al primo commadell’art. 570 c.p..
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile perché aspecifico.
Con il proposto mezzo si denuncia l’inattendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa in sede di deposizione testimoniale che nella loro genericità resterebbero non integrabili per i contenuti della proposta denuncia-querela, incorrendo altrimenti la Corte di appello di Torino per impugnata sentenza pena nella violazione del principio secondo il quale la prova deve formarsi in dibattimento, nel contraddittorio tra le parti.
L’indicato argomento non si confronta in modo concludente con i contenuti della sentenza impugnata, nella parte in cui quest’ultima avrebbe ritenuto integrato – si assume in ricorso – lo stato di bisogno del coniuge dell’imputato per avere il primo subito uno sfratto, evidenza contenuta in querela ed illegittimamente utilizzata al fine di integrare le lacunose dichiarazioni rese in sede di esame dibattimentale dalla persona offesa.
Non sono indicate le lacune delle argomentazioni sviluppate dalla Corte di appello e la centralità della segnalata oggettiva evidenza ad integrare l’estremo dello stato di bisogno.
2. Non è fondato il secondo motivo di ricorso in quanto diretto a dedurre l’illegittimità della pena applicata per una errata commistione tra la disciplina di cuiall’art. 570 c.p., e L. cit. n. 898 del 1970, art. 12 sexies, cui sarebbe pervenuta la Corte di appello di Torino nel dare quantificazione alla pena.
L’art. 12 sexies, Legge cit. delinea una fattispecie di reato autonoma rispetto a quelle definiteall’art. 570 c.p., commi 1 e 2, tra le quali solo quella prevista dal comma 1, si pone in una posizione di affinità con il reato di cui all’art. 12 sexies.
Sull’indicata premessa (Sez. U, n. 23866 del 31/01/2013, S., Rv. 255271), il reato previsto dall’art. 570, comma 1, cit. si configura tutte le volte in cui un soggetto violi i doveri di assistenza materiale in veste di coniuge e di genitore, previsti dalle norme del codice civile.
Diversamente, l’art. 570 cit., comma 2, appresta tutela ai vincoli di solidarietà nascenti dal rapporto di coniugio – che risultano attenuati nel caso di separazione o di allentamento del vincolo – che si sostanziano nel non far mancare i “mezzi di sussistenza” necessari.
Se nel primo caso si assiste ad una violazione di obblighi materiali, nel secondo invece, la punibilità della condotta non può prescindere da una valutazione sullo stato di necessità dell’avente diritto.
La Corte di appello nella determinazione della pena non è incorsa nel dedotto errore, ingenerato da un improprio richiamo alla previsione di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, al fine di determinare il trattamento sanzionatorio previsto per la diversa e contestata fattispecie di cui allaL. n. 898 del 1970, art.12 sexies, e successive modifiche, rispetto alla quale viene in applicazione invece la pena alternativa di cuiall’art. 570 c.p., comma 1.
Ed infatti il coniuge separato che faccia mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori violal’art. 570 c.p., comma 2, e per siffatta condotta va pertanto applicato il relativo trattamento sanzionatorio.
Per costante giurisprudenza di legittimità (tra le molte: Sez. 6, n. 34080 del 13/06/2013, M., Rv. 257416; Sez. 6, n. 41832 del 30/09/2014, S.), in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, sia l’obbligo morale sanzionatodall’art. 570 c.p., comma 1, che quello economico, sanzionato dal comma secondo della medesima disposizione, presuppongono la minore età del figlio, non inabile al lavoro, e sono destinate a venir meno con l’acquisizione della capacità di agire da parte del minore dovuta al raggiungimento della maggiore età, per una conclusione che è sostenuta, nel primo caso, dal richiamo dell’esercizio della potestà genitoriale e, nel secondo, dal riferimento testuale ai “discendenti di età minore”, con una previsione che differenzia la fattispecie da quella di cui allaL. n. 898 del 1970,art.12 sexies.
Ne discende, secondo quanto chiarito da questa Suprema Corte, chel’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, prevede come soggetti passivi solo i figli minori o inabili al lavoro sicché non integra tale reato la diversa violazione dell’obbligo di assicurare i mezzi di sussistenza ai figli maggiorenni, non inabili al lavoro, anche se studenti.
LaL. 1 dicembre 1970, n. 898, all’art. 12 sexies, punisce il mero inadempimento dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento stabilito dal giudice, in sede di divorzio, in favore dei figli senza limitazione di età, purché economicamente non autonomi (Sez. 6, n. 34270 del 31/05/2012, M., Rv. 253262).
Il motivo è quindi, come articolato, diretto a dedurre una questione non fondata risultando la fattispecie in esame, secondo contestazione, relativa ad ipotesi in cui il genitore fa mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore di età, ipotesi per la quale vengono in considerazione gli estremi del reato di cuiall’art. 570 c.p., comma 2, e, per gli stessi, la pena congiunta ivi prevista.
3. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2018

La prova della lesione di diritti inviolabili della persona causata dalla violazione dei doveri coniugali comporta il risarcimento dei danni

Cass. civ. Sez. I, 23 febbraio 2018, n. 4470
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 2240/2015 R.G. proposto da:
F.G., rappresentata e difesa dagli Avvocati Alfredo Bassioni e Gianmarco Cesari, con domicilio eletto in Roma, via Comano n. 95, presso lo studio dei medesimi difensori;
– ricorrente –
contro
C.G., rappresentato e difeso dall’Avv Giuseppe Sangiovanni, con domicilio eletto in Roma, via dell’Imbrecciato n. 95, presso lo studio dell’Avv. Gianluca Cicconetti;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma depositata il 20 ottobre 2014;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23 novembre 2017 dal Consigliere Alberto Pazzi.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del (OMISSIS) il Tribunale di Roma pronunciava la separazione giudiziale dei coniugi C.G. e F.G. con addebito della stessa al marito, disponeva in merito all’ affido e alla collocazione della figlia minore, individuava il contributo dovuto dal C. per il mantenimento del coniuge separato e della discendente e rigettava le differenti domande presentate, fra cui quella di risarcimento avanzata dalla F. per il ristoro dei danni causati dalla lesione dei diritti della persona costituzionalmente tutelati quali la dignità, la riservatezza, l’onore, la morale, la reputazione, la privacy, la salute e l’integrità psicofisica.
La decisione veniva impugnata tanto dal C., rispetto alla consistenza del contributo per il mantenimento fissato a suo carico, quanto dalla F., che in via incidentale sollecitava, fra l’altro, l’accoglimento della domanda di risarcimento danni presentata.
2. La Corte d’Appello di Roma, nel riformare parzialmente la statuizione impugnata rispetto alla misura del contributo per il mantenimento della moglie posto a carico del C. e alla disciplina del contributo per le spese della figlia, rigettava l’appello incidentale proposto dalla F..
3. Ha proposto ricorso per cassazione avverso tale pronuncia F.G., che ha fatto valere un unico, articolato, motivo di impugnazione.
Ha resistito con controricorso il C., che ha presentato memoria ai sensidell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
4. Il motivo di ricorso proposto denuncia la violazione degliartt. 2043 e 2059 c.c.e ritiene che non possa essere condivisa la tesi sostenuta dalla corte territoriale secondo cui la domanda risarcitoria presentata, facendo conseguire le singole voci di danno (biologico, morale ed esistenziale) ex se genericamente dalla condotta tenuta dal marito e senza alcuna deduzione precisa di circostanze tali da consentire una valutazione della sussistenza del danno circostanziata e parametrata sulla persona della resistente, non meritava accoglimento in mancanza di una specifica allegazione del pregiudizio non patrimoniale subito; secondo la ricorrente la Corte d’Appello, una volta registrato il pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la violazione dei doveri derivanti dal matrimonio può integrare gli estremi dell’ illecito civile e dare luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali arrecati, avrebbe dovuto al contrario tenere in debito conto che nel caso in esame le condotte avevano assunto un rilievo esterno ed autonomo quali lesioni dei diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, anche in considerazione delle modalità con le quali il rapporto era stato condotto.
5. Il motivo di ricorso proposto è inammissibile.
È opportuno ricordare in limine che la Corte d’Appello ha espressamente riconosciuto che i doveri derivanti ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, ben può integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensidell’art. 2059 c.c.(Sez. 1, Sentenza n. 18853 del 15/09/2011, Rv. 619619 – 01).
Nel contempo la corte territoriale ha affermato che la dignità e l’onore della moglie costituiscono beni costituzionalmente protetti e risultavano, nel caso di specie, gravemente lesi dalla condotta senz’altro peculiare tenuta dal marito; ciò nonostante il collegio d’appello ha negato il risarcimento invocato sul presupposto che la lesione dei diritti inviolabili della persona, costituendo un danno conseguenza, doveva essere specificamente allegato e provato.
Occorre poi rilevare come l’odierna ricorrente, pur lamentando la violazione del disposto degliartt. 2043 e 2059 c.c., non abbia affatto denunciato l’erronea applicazione di tali norme da parte del giudice di merito (applicazione che anzi pare condividere laddove, a pagg. 12, riconosce il principio secondo il quale la violazione dei doveri coniugali non comporta di per sé automaticamente il diritto al risarcimento del danno), ma abbia invece sostenuto che nel caso di specie la condotta della controparte aveva assunto un rilievo esterno ed autonomo provocando anche un danno patrimoniale conseguente al peggioramento delle sue condizioni fisiche.
Dunque la censura sollevata non investe le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata né rispetto al fatto che la violazione dei doveri coniugali possa essere fonte di responsabilità aquiliana, né in ordine agli oneri probatori correlati alla domanda di risarcimento del danno non patrimoniale (che non può mai ritenersi in re ipsa, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, ma va debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso presunzione semplici; si veda in questo senso, da ultimo, Cass. 17.1.2017 n. 917), ma torna a sostenere nel merito gli assunti non condivisi dalla corte territoriale senza confrontarsi con la ratio decidendi posta a base della decisione impugnata e senza individuare un preciso error in iudicando nel suo ordito argomentativo.
Questa Corte non può rivedere nel merito la motivazione offerta all’interno della sentenza impugnata circa l’impossibilità di identificare il danno lamentato, dato che il giudice di legittimità non ha il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, e si deve limitare a constatare come il ricorso in esame non assolva l’obbligo di specifica contestazione della ratio decidendi posta a fondamento della pronuncia impugnata (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 19989 del 10/08/2017, Rv. 645361 – 01).
La proposizione di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiestidall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), con la conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 20910 del 07/09/2017, Rv. 645744 – 01).
È opportuno infine sottolineare come nessuna puntuale censura è stata sollevata rispetto al passaggio motivazionale con cui la Corte d’ Appello ha espressamente escluso la sussistenza di un nesso di causalità fra l’aggravamento delle condizioni di salute dell’odierna ricorrente e i fatti addebitati al marito.
6. In forza dei motivi appena esposti il ricorso non può che essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di lite, che liquida in complessivi Euro 2.900, di cui Euro 200 per spese e Euro 2.700 per compenso professionale, oltre a spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, comma 1quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri titoli identificativi a norma delD.Lgs. n. 196 del 2003,art.52in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 23 novembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2018

La sanzione dell’annullamento degli atti compiuti senza il consenso dell’altro coniuge, non opera per i beni non ricadenti nella comunione

Cass. civ. Sez. II, 22 febbraio 2018, n. 4302
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 12566/2012 proposto da:
M.G., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MARIO FANI 37, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELE CAUDULLO, rappresentato e difeso dall’avvocato MARIAGRAZIA CARUSO;
– ricorrente –
contro
G.S., elettivamente domiciliata in ROMA, P.ZZA CAVOUR presso la CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NATALE NAPOLI;
– controricorrente –
e contro
L.V.R.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 314/2012 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 23/02/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/06/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO ORICCHIO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto,che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
L.V.R. conveniva nel 1999 in giudizio innanzi al Tribunale di Catania – Sezione Distaccata di Giarre M.G. e G.S..
L’attrice esponeva che con scrittura privata del 22 settembre 1989 il M., coniugato in regime di comunione dei beni con la G., aveva promesso di venderle due unità immobiliari site in (OMISSIS) ed in atti specificamente individuate e che, al fine di varie vicende, il promittente venditore e la di lui coniuge non si presentavano – sebbene diffidati – a stipulare l’atto pubblico di trasferimento dei beni promessi in vendita.
L’attrice chiedeva, quindi, l’emissione di sentenza ex art. 2932 c.c., in proprio favore salvo il diritto all’eventuale risoluzione del contratto preliminare del 1999.
Costituitosi in giudizio, il M. non si opponeva alle domande attorea ed instava affinché la G. rispondesse del fatto che egli non aveva potuto adempiere.
La G. chiedeva il rigetto delle domande poste nei suoi confronti in quanto priva di qualsiasi legittimazione passiva.
L’adito Tribunale di prima istanza con sentenza in data 8/9 giugno 2009, dichiarava risolto il preliminare de quo per inadempimento del promittente venditore e rigettava le domande proposte nei confronti della G..
Avverso la suddetta sentenza, di cui chiedeva la riforma, interponeva appello il M. insistendo nelle istanze già formulate in primo grado e comunque perché in ogni caso le condanne emesse in favore della L.V. fossero poste anche a carico della G..
L’adita Corte di Appello di Catania, con sentenza n. 314/2012, accoglieva parzialmente l’appello del M. rideterminando la somma dovuta, a titolo di restituzione, in Euro 26.000,42, accoglieva l’appello incidentale della G. con condanna della L.V. alla refusione in favore della prima delle spese di lite di primo grado, nonché con condanna del M. e della L.V. alla refusione in favore dell’Erario delle spese sostenute per la difesa della G. nel giudizio di secondo grado, compensando le spese del giudizio fra il M. e la L.V.. Per la cassazione della suddetta sentenza della Corte etnea il M. ricorre con atto affidato a due articolati e promiscui motivi, resistito con controricorso dalla G..
Non ha svolto attività difensiva la rimanente parte intimata.
Come da ordinanza interlocutoria del 10 novembre 2016 la causa, già fissata per la trattazione in pubblica udienza, veniva rinviata a nuovo ruolo stante la necessità della formazione di un collegio con differente composizione.
Motivi della decisione
1.- Con l’articolato primo motivo del ricorso si censura promiscuamente il vizio di “violazione e falsa applicazione dell’art. 177 c.c., dell’art. 180 c.c., dell’art. 184 c.c. e dell’art. 2932 c.c. con riferimento all’art. 360, nn. 3 e 5, nonché violazione di legge, motivazione erronea, insufficiente e contraddittoria su di un punto decisivo della controversia”.
2.- Con il secondo motivo del ricorso si deduce il vizio di “violazione e falsa applicazione dell’art. 180 c.c., art. 115 c.p.c., art. 116 c.p.c., art. 184 c.c., art. 184 bis c.p.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, nonché violazione di legge, motivazione errata, insufficiente e contraddittoria su un fatto decisivo della controversia.
3.- I due motivi, stante la loro connessione, possono essere trattati congiuntamente.
Le doglianze, nel loro complesso sottese ad entrambi i motivi, attengono, in sostanza, alla lamentata esclusione della G. dal dover rispondere nei confronti della L.V. – in via solidale con il ricorrente – per il mancato perfezionamento del preliminare de quo.
La censura non è fondata.
E’ corretto, infatti, il rigetto della pretesa del M., secondo cui doveva rispondere dell’inadempimento lamentato dalla L.V. anche la G..
Stanti gli effetti meramente obbligatori del contratto preliminare sottoscritto dal M. (che ebbe a promettere in vendita alla L.V. la stessa unità immobiliare oggetto di precedente preliminare, cui la G. era estranea, con tale Mo.) è del tutto infondata la pretesa del M. di cui al motivo.
Del tutto irrilevante è, poi, il riferimento di cui al ricorso in esame alla circostanza del consenso che sarebbe stato prestato dalla coniuge G. al contratto preliminare per cui è causa, atteso – come già detto – gli effetti meramente obbligatori nascenti da quest’ultimo.
Il riferimento alla norma, invocata dal ricorrente, di cui all’art. 184 c.c., è, per di più, del tutto errato in quanto quella norma si riferisce ad altra fattispecie ovvero all’ipotesi in cui vi sia stato trasferimento di bene già entrato a far parte della comunione legale fra coniugi, ma ceduto da uno solo dei due coniugi (peraltro in tale ipotesi, comunque differente da quella in esame, l’atto posto in essere dal singolo coniuge sarebbe valido ed efficace e soggetto, ai sensi della detta norma, alla sola annullabilità richiesta tempestivamente dall’altro coniuge).
In tal senso risulta corretto il riferimento al relativo principio enunciato dall’impugnata sentenza e di cui a Cass. n. 1252/1995. Peraltro quel principio risulta più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis: Cass. n.ri 12923/2012 e 9888/2016), né parte ricorrente ha enunciato altri principi né esposto valide ragioni idonee a mutare il consolidato orientamento di questa Corte.
I motivi, in quanto infondati, vanno perciò respinti.
4.- Il ricorso deve, dunque, essere rigettato.
5.- Le spese seguono la soccombenza e si determinano così come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio, determinate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 giugno 2017.
Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2018