Viene meno alla sua responsabilità genitoriale, l’affido è super esclusivo.

Tribunale di Genova, 5 gennaio 2024
TRIBUNALE DI GENOVA
Sezione IV Civile
Riunito in camera di consiglio nelle persone dei magistrati:
Dott. Domenico Pellegrini Presidente
Dott.ssa Marina Pugliese Giudice
Dott.ssa Maria Antonia Di Lazzaro Giudice Rel.
Nel procedimento ex art. 337 bis e segg. c.c. promosso da:
TIZIA (C.F.: _____) nata a ____ il ____.1989, elettivamente domiciliata in Genova, alla Via Corsica 9/7 sc E
presso e nello studio dell’avvocato FRANCESCA ZADNIK, (C.F. __) che la rappresenta e difende giusta procura
in atti;
Ricorrente
nei confronti di
CAIO (C.F.: _____) nato a ____, il ____/1986, elettivamente domiciliato in Genova, alla Via ____ presso e
nello studio dell’Avv. ______ (C.F.: ______) che lo rappresenta e difende giusta procura in atti
Resistente
letti gli atti e sentita la relazione del Giudice Delegato, ha pronunciato il seguente
DECRETO
Con ricorso depositato in data 18/05/2022, la signora TIZIA allegava di aver intrapreso una relazione
sentimentale con il signor CAIO sfociata in convivenza more uxorio dalla quale, in data ____.2014, era nata
la figlia Sempronia; che la convivenza, durata per oltre 10 anni durante i quali il nucleo aveva abitato in
Albisola Superiore (SV), si interrompeva a causa dei comportamenti aggressivi del compagno, onde, nel
dicembre del 2020 la ricorrente si trasferiva assieme alla figlia presso la casa della propria madre in Genova;
che attualmente la stessa vive con il nuovo compagno in un appartamento condotto in locazione, sempre a
Genova, ove la figlia ha la possibilità di frequentare i familiari del ramo materno; che la minore aveva
iniziato a frequentare il padre, ma al rientro presso la madre appariva spesso agitata e confusa; che in varie
occasioni la bambina aveva raccontato che a casa del padre soggiornavano persone a lei sconosciute e che
di notte il padre spesso si assentava; che per tali motivi le frequentazioni si erano interrotte; che, per
quanto riguarda gli aspetti economici, la ricorrente lavora dal mese di marzo 2022 quale barista con
contratto a tempo indeterminato e percepisce uno stipendio mensile di circa euro 870,00 e divide con il
compagno le spese del canone di locazione dell’immobile in cui vivono.
Sulla base di tutto quanto sopra nonché di quanto meglio esposto in ricorso, la signora TIZIA chiedeva
disporsi l’affidamento condiviso della figlia con collocazione presso di sé e regolamentazione del regime di
frequentazione col padre, nonché un contributo al mantenimento della figlia nella misura di almeno euro
350,00 mensili oltre al 50% delle spese straordinarie.
Con comparsa del 23/10/2022 si costituiva il resistente allegando anzitutto di essere sempre stato
disponibile ad un accordo con la ex compagna per regolamentare il regime di frequentazione con la figlia;
che le occasioni di vedere Sempronia si erano ridotte da quando la signora TIZIA aveva costituito una nuova
famiglia; che nella propria abitazione non vivevano affatto persone “estranee” ma unicamente la propria
madre e il proprio fratello, rispettivamente nonna e zio di Sempronia; che da circa tre anni egli svolgeva
attività lavorative saltuarie e in forma non regolarizzata, pertanto si dichiarava disponibile a contribuire la
mantenimento della figlia versando la somma di euro 150,00 mensili.
All’udienza del 24/10/2022 comparivano le parti personalmente; il procedimento veniva istruito tramite
conferimento di incarico al SS al fine verificare il contesto familiare della minore e ripristinare le
frequentazioni con il padre.
Nelle more del procedimento, alla successiva udienza del 6/03/2023 parte ricorrente chiedeva emettersi
provvedimento non definitivo in punto economico, dichiarando che il signor CAIO, nonostante la propria
disponibilità a versare euro 150,00 mensili, per la figlia continuava ad essere del tutto inadempiente.
Con decreto del 10/03/2023 il Collegio, in via provvisoria, dichiarava tenuto il signor CAIO al versamento in
favore della signora TIZIA della somma di euro 250,00 a titolo di contributo al mantenimento per la figlia
Sempronia oltre al 50% delle spese straordinarie.
Il procedimento veniva quindi istruito anche tramite indagini di PT e successivi aggiornamenti del SS e, in
esito all’udienza del 23.10.2023 nel corso della quale compariva unicamente la parte ricorrente, il GD si
riservava di riferire al Collegio.
********
Regime di affidamento della figlia minore, collocazione abitativa e calendario di frequentazione con il
genitore non collocatario.
In merito al regime di affidamento dei figli minori, va anzitutto osservato che in base all’art. 337 ter c.c.
anche in caso di separazione dei genitori “il figlio minore ha diritto di mantenere un rapporto equilibrato e
continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi…”: a tal fine,
dispone la norma, il giudice “adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo interesse morale e
materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati ad entrambi i
genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati” determinando i tempi e le modalità della loro
presenza presso ciascuno di essi e l’ammontare della somma dovuta da ciascun genitore a titolo di
mantenimento.
Il legislatore ha pertanto inteso prevedere come regola generale quella dell’affidamento condiviso, il quale
può essere escluso solo in presenza di concrete ragioni contrarie all’interesse del minore.
Va peraltro osservato che l’affidamento condiviso consiste nella paritaria condivisione del ruolo genitoriale
ed implica la necessità che ogni decisione comportante un rielevante mutamento nella vita dei figli sia
assunta all’esito di un leale confronto tra i genitori: entrambi devono quindi aver dimostrato di avere
sufficiente consapevolezza della delicatezza del loro ruolo affettivo ed educativo. Si veda, sul punto Cass.
Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 28244 del 04/11/2019: “In materia di affidamento dei figli minori, il giudice deve
attenersi al criterio fondamentale rappresentato dall’esclusivo interesse morale e materiale della prole,
privilegiando quel genitore che appaia il più idoneo a ridurre al massimo il pregiudizio derivante dalla
disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo della personalità del minore.
L’individuazione di tale genitore deve essere fatta sulla base di un giudizio prognostico circa la capacità del
padre o della madre di crescere ed educare il figlio, che potrà fondarsi sulle modalità con cui il medesimo ha
svolto in passato il proprio ruolo, con particolare riguardo alla sua capacità di relazione affettiva, di
attenzione, di comprensione, di educazione, di disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché
sull’apprezzamento della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente che è in
grado di offrire al minore. La questione dell’affidamento della prole è rimessa alla valutazione discrezionale
del giudice di merito, il quale, ove dia sufficientemente conto delle ragioni della decisione adottata, esprime
un apprezzamento di fatto non suscettibile di censura in sede di legittimità.”
Rapportando tali principi al caso di specie, va anzitutto osservato che dalle relazioni dei SS incaricati di
monitorare il nucleo familiare è emerso che il signor CAIO inizialmente ha partecipato agli incontri protetti
cercando di instaurare un rapporto con la figlia; che “la bambina ha sempre accolto positivamente la
possibilità di incontrare il padre chiedendo però la presenza dell’educatrice, ricercandola soprattutto
all’inizio per avere il suo appoggio, per tali motivi gli incontri si sono sempre continuati a svolgere in
modalità protetta; è stata osservata una sofferenza di Sempronia al termine di alcuni incontri sfociata in
pianti; la bambina era sostenuta dall’educatrice e ha dichiarato di sentirsi infastidita dalle modalità molto
fisiche paterne”; che il signor CAIO a volte manifestava sentimenti di affetto nei confronti della ex
compagna, mentre altre volte si rivolgeva alla stessa in modo aggressivo; che successivamente, convocati i
genitori, il signor CAIO comunicava inopinatamente agli operatori di non essere più disponibile a recarsi a
Genova da Savona per incontrare la figlia e di non essere intenzionato a proseguire le frequentazioni con le
modalità – protette – indicate dai SS (“ha dichiarato che si sarebbe trasferito altrove dicendo di non dover
dare spiegazioni alle operatrici circa il luogo del suo, trasferimento. Le operatrici hanno cercato di far
riflettere il CAIO sulle ripercussioni che la sua decisione avrebbe potuto avare sulla bambina., lo stesso ha
dichiarato che si sarebbe recato lui a scuola per spiegare e motivare alla figlia la sua decisione.,
successivamente in modo concitato il signor CAIO ha iniziato rivolgere accusa alla signora TIZIA, al suo
compagno e alla nonna materna di aver ‘robotizzato’ la figlia” Cfr. Relazione del SS ATS n., 46 del
09.10.2023).
Va altresì osservato che il resistente, regolarmente costituito, ha poi, di fatto, abbandonato il giudizio in
quanto all’udienza del 23.10.2023 nessuno compariva per la parte convenuta.
Alla luce di tutto quanto sopra e tenuto conto dei principi giuridici in materia come sopra sinteticamente
evidenziati, ritiene il Collegio che – allo stato – non possa che essere disposto l’affidamento cd. super
esclusivo della figlia minore in capo alla madre, con collocazione abitativa e residenza anagrafica presso la
stessa; per l’effetto dispone che la signora TIZIA possa esercitare autonomamente i seguenti poteri connessi
alla responsabilità genitoriale e quindi assumere autonomamente ogni decisione, senza necessità di
consultare l’altro genitore e senza necessità di partecipazione di questo alle decisioni, in relazione alle
seguenti questioni: a) questioni mediche di ogni genere compresa l’espressione del consenso informato per
qualunque pratica sanitaria; b) questioni attinenti all’istruzione, alla iscrizione ai corsi di studio di qualunque
grado e ordine, ai rapporti con le strutture scolastiche, alle autorizzazioni connesse alle attività scolastiche;
c) questioni attinenti ad attività ludiche e sportive, alla scelta degli sport da praticare, alla iscrizione a
società sportive, ai rapporti con le strutture sportive, alla scelta e pratica di attività ludiche; d) scelta della
residenza del figlio e conseguente gestione di tutte le pratiche amministrative; e) autorizzazione al rilascio
dei documenti di identità del figlio validi anche per l’espatrio, nonché del passaporto, con facoltà di gestire
tutte le pratiche amministrative e firmare ogni consenso o autorizzazione necessaria;
di conseguenza il genitore affidatario esclusivo potrà firmare autonomamente, senza il concorso del padre,
ogni documentazione relativa alle attività sopra indicate.
Eventuali e future frequentazioni tra padre e figlia potranno avvenire in forma protetta nel rispetto delle
esigenze e dei tempi della minore.
Sul contributo paterno per il mantenimento della figlia
La signora TIZIA risulta svolgere l’attività di barista con contratto a tempo indeterminato dal mese di marzo
2022.
Dalla documentazione prodotta si evince quanto segue:
CU 2023:reddito da lavoro dipendente con contratto a tempo indeterminato euro 3.927,77 + reddito da
contratto di lavoro a tempo determinato: euro 5.654,74 relativamente a 306 giorni di lavoro per un totale
complessivo, quali redditi da lavoro, di euro: 9.582,51.
Risultano altresì prodotte le buste paga dei mei da gennaio 2023 a settembre 2023:
– gennaio 2023: 910,00
– febbraio 2023: 869,00
– marzo 2023: 885,00
– aprile 2023: 879,00
– maggio 2023: 884,00
– giugno 2023: 879,00
– luglio 2023: 1.097,00
– agosto 2023: 1.082,00
– settembre 2023: 909,00
la ricorrente ha dichiarato di percepire per intero l’assegno unico per la figlia pari ad euro 220,00 mensili, di
vivere in locazione con contratto cointestato con l’attuale compagno – il quale lavora quale soccorritore
antincendio in autostrada – con canone di euro 680,00 mensili comprese le spese di amministrazione.
Per quanto riguarda il signor CAIO, dalla documentazione acquisita tramite le indagini di PT risulta quanto
segue:
l’ultima DR presentata risale al 2019 e riporta un reddito di euro 5.209,00; nel 2021, risulta aver percepito
un reddito di euro 796,10 e, nel 2022 di euro 2.048,17; ha stipulato un contratto di locazione di immobile ad
uso abitativo in data 29.09.2021 per un importo annuale di euro 4.800,00; risulta
intestatario di utenza di gas, luce ed acqua presso l’indirizzo di via _____ in SAVONA; risulta infine essere
intestatario di due motoveicoli HONDA 125 e 150 immatricolati rispettivamente nel 2001 e nel 2000.
È intestatario di C/C presso INTESA SAN PAOLO con saldo negativo al 31.12.2022 (-6,01 euro), nonché risulta
aver stipulato in data 31.09.2019 un prestito per un importo di euro 2.500,00 rimborsabile con dieci rate
mensili di euro 264,95.
Dall’estratto contributivo INPS risulta infine che il signor CAIO, alla data del 28.02.2023 e con decorrenza dal
22.11.2022, sia assunto come lavoratore dipendente presso la ditta _____ .
Sulla base di tutto quanto sopra, valutate comparativamente le condizioni economiche delle parti, tenuto
conto delle esigenze della minore in relazione alla sua età e del fatto che ad oggi non vi sono frequentazioni
con il padre per cui il relativo onere è integralmente a carico della madre, pare euro stabilire in euro 300,00
il contributo a carico del signor CAIO, con decorrenza dalla data di pubblicazione del presente Decreto, oltre
al 50% delle relative spese straordinarie.
Sulle spese di lite
Le spese di lite seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
AFFIDA la figlia minore Sempronia, nata in Savona il ____/2014 in via cd. super esclusiva ex art. 337 quater
u.c. secondo periodo c.c. alla madre, signora TIZIA con collocazione abitativa e residenza anagrafica presso
la stessa;
DISPONE che la madre, signora TIZIA , possa esercitare autonomamente i seguenti poteri connessi alla
responsabilità genitoriale e quindi assumere autonomamente ogni decisione, senza necessità di consultare
l’altro genitore e senza necessità di partecipazione di questo alle decisioni, in relazione alle seguenti
questioni: a) questioni mediche di ogni genere compresa l’espressione del consenso informato per
qualunque pratica sanitaria; b) questioni attinenti all’istruzione, alla iscrizione ai corsi di studio di qualunque
grado e ordine, ai rapporti con le strutture scolastiche, alle autorizzazioni connesse alle attività scolastiche;
c) questioni attinenti ad attività ludiche e sportive, alla scelta degli sport da praticare, alla iscrizione a
società sportive, ai rapporti con le strutture sportive, alla scelta e pratica di attività ludiche; d) scelta della
residenza della figlia e conseguente gestione di tutte le pratiche amministrative; e) autorizzazione al rilascio
dei documenti di identità della figlia validi anche per l’espatrio, nonché del passaporto, con facoltà di gestire
tutte le pratiche amministrative e firmare ogni consenso o autorizzazione necessaria; di conseguenza il
genitore affidatario esclusivo potrà firmare autonomamente, senza il concorso del padre, ogni
documentazione relativa alle attività sopra indicate;
DICHIARA TENUTO il signor CAIO a versare, entro il giorno dieci di ogni mese, in favore della signora TIZIA ,
a titolo di contributo per il mantenimento della figlia, la somma di euro 300,00 previa rivalutazione annuale
ISTAT come di legge, oltre al 50% delle spese straordinarie relative alle minori secondo la disciplina e lo
schema di cui al Verbale ex art. 47 O.G. della Sezione Famiglia del Tribunale di Genova pubblicato sul sito del
Tribunale e sul sito dell’URP degli Uffici Giudiziari di Genova (http://www.urp.ufficigiudiziarigenova.it/;
https://www.urp.ufficigiudiziarigenova.it/comefare.aspx?cfp_id_scheda=1681).
CONDANNA il signor CAIO al pagamento delle spese di lite in favore della signora TIZIA , nella misura di euro
2.340,00 oltre 15% per spese generali, oltre IVA (se dovuta) e CPA come di legge.
Manda alla Cancelleria per quanto di competenza ed anche per l’invio di copia del presente Decreto al SS
del Comune di Genova ATS n. 46 ed al competente Consultorio Familiare con incarico di proseguire il
monitoraggio del nucleo familiare e fornire sostegno psicologico alla minore Sempronia.
Così deciso in Genova il 05.01.2024
Il Giudice Il Presidente
Dott.ssa Maria Antonia Di Lazzaro Dott. Domenico Pellegrini

Risarcito il patema d’animo patito da una madre per la ritardata diagnosi di sordità del figlio

Trib. Firenze, Sez. II, Sent., 30 dicembre 2023; Dott. Zanda
Fatto e diritto
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e diritto della decisione
Gli attori hanno citato in giudizio i due convenuti allegando:
– Il 04.08.2003 nasceva (omissis) e successivamente venivano effettuati sul bambino i controlli di
routine. In esito agli stessi, la pediatra che seguiva il bambino consigliava ai genitori degli esami di
approfondimento sulla capacità uditive del piccolo a seguito di un Boel Test dubbio.
Conformemente alla indicazione del medico i genitori provvedevano, dunque, a far effettuare
accertamenti audiologici sul bambino ed il 04.06.2004 portavano il figlio al C.R.O. (centro
rieducazione ortofonica) ove il piccolo veniva sottoposto a tests uditivi le cui risultanze negavano
qualsiasi difficoltà uditiva: “Boel test buone risposte a giochi sonori. Udito nella norma” (cfr. doc. 2
certificazione CRO 04.06.2004);
– Il bambino crescendo presentava, però, evidenti difficoltà nel linguaggio tanto da determinare i
genitori a sollecitare la azienda sanitaria di competenza all’esame del caso del proprio figlio (doc. 3
cartella 19.07.2006 Azienda USL 11 di Empoli) nella quale viene esplicitato il motivo della
osservazione del bambino: “ritardo nel linguaggio parla un gergo incomprensibile.. è un bambino
tranquillo ben regolato e comunicativo. Accenna gioco simbolico (cfr. doc. 3 osservazione clinica
esame obbiettivo del 19.07.06).
In sede di giudizio conclusivo del 19.09.2006, valutata anche la osservazione del comportamento del
bambino alla scuola materna: “bimbo cerca la maestra e gli altri bambini per giocare con loro. Molte
perplessità sulle capacità di comprensione. Ci sono dei comandi che non capisce sembra non sentire.
E’ un bambino presente nelle attività. Va in bagno da solo. Imita molto e sembra così bypassare i
deficit di comprensione (cfr doc. 3 “osservazione psicologica logopedica psicomotoria sociale”) —
veniva deciso di iniziare — stante raccertato disturbo del linguaggio — trattamento logopedico (cfr
doc. 3 “Giudizio conclusivo”).
Ed infatti sin dal dicembre 2006 il piccolo (omissis) veniva seguito con un programma personalizzato
di aiuto e supporto presso la Azienda USL 11 di Empoli (cfr doc. 4 diario dei trattamenti dal dicembre
2006).
Vale la pena riportare quanto verbalizzato in sede di primo incontro: “a 9 mesi ha fatto l’esame
audiometrico per la mamma (incomprensibile)..dubbio di problemi di udito, invece no.” (cfr doc. 4
diario del 06.12.2006).
Seguiva un ininterrotto percorso terapeutico il cui sviluppo viene tracciato sempre nella scheda di cui
al doc. 3:
“10.01.2007 gruppo di logopedia
07.02.2007 colloquio con i genitori si programmano ..approfondimenti diagnostici (RMN ECG e
indagini genetiche)
11.02.2007 certificazione di handicap
05.03.2007 inizia terapia individuale
11.10.2007 inizio gruppo psicoeducativo (2 ore 2 volte a settimana)
11.11.2007 colloquio con la logopedista è migliorato più collaborativo e pure l’intenzionalità
comunicativa più il lessico
07.05.2008 colloquio con i genitori la logopedista e l’educatrice. Bimbo è ulteriormente migliorato
sia il linguaggio che il comportamento. Qualche perplessità sulla comprensione verbale
11.06.2008 colloquio con le insegnanti bimbo presenta delle fobie a scuola (finestre chiuse)
07.07.2008 si programma leiter per agosto 1
1 Leiter-R è un test per la misura del QI e dell’abilità cognitiva particolarmente adatto per bambini e
adolescenti, da 2 a 20 anni, con ritardo cognitivo e con disturbi verbali.
03.09.2008 Test Leiter completo
23.09.2008 colloquio con la madre (stanca)
07.10.2008 incontro multidisciplinare”.
Seguivano ulteriori annotazioni su incontri e valutazioni dei progressi del bambino sino alla
certificazione dei 21.07.2011 di fine trattamento logopedico.
Si evidenzia fin d’ora come tutte le relazioni redatte nel periodo indicato riportino come patologia
“Grave disturbo del linguaggio e ritardo degli apprendimenti” (cfr. doc. 5).
– in data 20.11.2009 il minore veniva sottoposto, su insistenza della madre, ad ulteriore esame
audiometrico presso il C.R.O. di Firenze, che ancora una volta dava esito negativo: “esame
audioimpedenzometrico nei limiti della norma” (cfr. doc. 6).
Successivamente alla fine del trattamento logopedico erano evidenti degli innegabili progressi del
minore da ascriversi però, non alla miracolosa riuscita di far evolvere un bambino minorato psichico,
bensì alla circostanza che in seguito ad ulteriori accertamenti il 18.06.2010 veniva finalmente
refertato che (omissis) era afflitto da ipoacusia bilaterale prevalente sinistra di entità medio grave (cfr.
doc. 7).
Tradotto nei fatti il bambino era afflitto da sordità sin dalla nascita ma tale circostanza non è emersa
che dopo oltre sei anni dalla nascita del bimbo.
Tutto questo nonostante che il bambino avesse conseguito, come sopra esposto, da parte del C.R.O.
due diverse certificazioni di assenza di problemi uditivi, si ricorda infatti che:
– venne portato al C.R.O. pochi mesi dopo la nascita – .. – su indicazione della pediatra per sospette
irregolarità nell’udito ottenendo una certificazione di piena rassicurazione sulla funzionalità uditiva
del bambino (cfr doc. 2 certificazione C.R.O. 04.06.2004 Boel test buone risposte a giochi sonori.
Udito nella norma) ma pure successivamente;
– Stante l’incoercibile e pervicace convinzione della madre sulla perfetta regolarità psichica del bimbo
e della sussistenza, invece, di problemi funzionali la stessa riportò (omissis) qualche anno dopo (e
dopo averlo sottoposto a tutta una serie di controlli) al C.R.O. ove nuovamente ebbe certificazione di
perfetta regolarità della funzione uditiva del bambino (cfr. doc. 6 Certificazione C.R.O. 20.11.2009
timpanogramma sx e dx nella norma conclusioni esame audioimpedenzometrico nei limiti della
norma).
La colpa dei convenuti sta nel fatto che l’inescusabile omessa diagnosi di sordità proviene da un centro
di alta specializzazione audiologica e ad essa si è aggiunta la mancata percezione da parte anche degli
operatori dell’ASL di Empoli che il bimbo fosse sordo nonostante lo avessero in cura per ben tre anni
e mezzo senza arrivare a comprendere la natura e l’entità dei problemi del bambino.
A detta degli attori si tratta di un caso di inefficienza delle strutture sanitarie convenute che ha
determinato che (omissis) sia stato tenuto scisso dal mondo, privato della possibilità di interagire
correttamente con la realtà che lo circondava nonostante anzi a causa della continua attenzione
terapeutica nei suoi confronti.
La diagnosi di ipoacusia bilaterale è stata peraltro confermata successivamente dall’ospedale Meyer
di Firenze ed il piccolo (omissis) ha potuto finalmente intraprendere il giusto percorso in relazione
all’invalidità da cui è affetto (doc. 8), mediante l’ausilio di apparecchi acustici che gli hanno consentito
di migliorare la propria situazione.
In ordine alla responsabilità delle controparti anche a seguito del supplemento di CTU alcun dubbio
può ormai residuare.
Il (omissis) ha chiaramente rappresentato più volte che sussiste un errore diagnostico ed un ritardo
diagnostico con responsabilità da ascriversi al 50% ciascuno fra i due convenuti.
Appare evidente come non possa dunque dubitarsi dell’errore diagnostico commesso dal CRO né
tanto meno della negligenza, imprudenza ed imperizia dei sanitari dell’azienda USL, di gravità tale
da essere definita “diabolica ed illogica ostinazione” da parte del CTU, circostanze che hanno
purtroppo determinato una trattazione dell’allora minore (omissis) come un soggetto affetto da un
disturbo di natura mentale con le conseguenze ben descritte dal (omissis).
Peraltro occorre evidenziare come anche a seguito del supplemento disposto permanga il contrasto
fra i due consulenti, posto che il (omissis) rappresenta che il disturbo da cui è affetto (omissis) era
presente sin dalla nascita e non è stato riconosciuto per ben due volte con gli esami condotti dal CRO,
mentre la Dr.ssa (omissis) parla di disturbo a formazione progressiva (?), e ciò subito dopo aver
evidenziato che in campo neuropsichiatrico non sussistono linea guida per la diagnosi differenziale
di sordità, in quanto l’ipoacusia non è patologia di interesse primariamente neuropsichiatrico ma di
competenza di altra specialità, donde ogni commento sulla confusa trattazione della consulente appare
davvero superfluo.
***
Il CTU ha ritenuto resistenza del solo danno biologico temporaneo del ragazzo, quantificato nella
misura del 15-20% per circa 4 anni (dal luglio 2006 al giugno 2010) in considerazione del periodo di
parziale isolamento dal mondo sonoro per mancata diagnosi di ipoacusia, omessa protesizzazione ed
inutili trattamenti neuropsichiatrici, cui hanno concorso entrambe gli enti convenuti, CENTRO di
RIEDUCAZIONE ORTOFONICA ovvero C.R.O. S.r.l. e AZIENDA USL TOSCANA CENTRO, in
uguale proporzione (50% e 50%).
La quantificazione così operata appare però inadeguata al danno concretamente subito.
Ed invero gli anni trascorsi in condizione di ridotta comunicazione corrispondono infatti ai più
rilevanti e sensibili passaggi dello sviluppo somatopsichico è quest’ultimo deve quindi presumersi
compromesso, o al limite inferiore, deviato rispetto alla evoluzione che avrebbe avuto con un
tempestivo inquadramento della sordità. La vicenda vissuta da (omissis) non può considerarsi esaurita
con la ritrovata funzione uditiva.
Ciò risulta confermato a seguito di approfondita valutazione neuropsicologica condotta dalla Dr.ssa
(omissis) che anche il Dr. (omissis) nel supplemento di CTU evidenzia, rappresentando che residua
un “deficit di accesso al lessico in chiave fonemica e per immagini, cui si associa inefficienza a carico
dei processi di codificazione/recupero delle informazioni dalla memoria a lungo termine… con
fragilità ai limiti inferiori di norma per quanto concerne gli apprendimenti nella lettura, nonché nelle
competenze ortografiche”.
Il danno psicologico così ben documentato e cosi attinente le funzioni verbali (e quindi dell’udito)
non può essere di così limitata entità come stabilito dai CTU, considerando che per anni è stato
trascurato il deficit uditivo, il ragazzo è stato emarginato di fatto dai coetanei, sottoposto a quanto di
solito è indicato per tutt’altra patologia di ordine psichiatrico, munito di protesi quando ormai i suoi
coetanei erano padroni da anni della funzione verbale, e infine alle soglie dell’età adulta riconosciuto
portatore comunque di una sofferenza delle funzioni superiori connesse con l’udito, tutte circostanze
emerse in sede di colloquio col ragazzo durante la CTU. Un udito normale è infatti requisito
fondamentale per uno sviluppo adeguato della comunicazione verbale. Pertanto, in presenza di un
problema di udito non trattato, il bambino presenterà un ritardo e uno sviluppo atipico della
comprensione e della produzione del linguaggio, tanto più grave quanto più è grave la perdita uditiva.
Gli effetti negativi della sordità sul linguaggio si possono riassumere in quattro punti: 1. Il deficit
uditivo causa un ritardo nello sviluppo delle abilità di espressione e comprensione linguistica; 2. Il
deficit linguistico provoca problemi nell’apprendimento della lettura e della scrittura con conseguenti
difficoltà scolastiche; 3. Difficoltà nella comunicazione spesso portano ad isolamento sociale e scarsa
concezione di sé; 4. Può avere un impatto sulle scelte vocazionali.
Per prevenire danni irreversibili nello sviluppo cognitivo è infatti fondamentale agire
tempestivamente. Ipoacusie, anche di lieve o media entità, se protratte nel tempo, possono
determinare difficoltà nell’ascolto in presenza di rumore – ad esempio in una classe scolastica – e nella
localizzazione delle sorgenti sonore – basti pensare a quanto questa capacità sia importante anche
soltanto per attraversare la strada in sicurezza. È utile anche considerare che un bambino con difficoltà
uditive importanti, non riuscirà a riprodurre i suoni delle parole che sente, non potrà essere calmato e
rassicurato dalla voce della mamma e inoltre non potrà recepire correttamente buona parte di tutte le
esperienze sensoriali che compiono i suoi coetanei. Ed è anche questa mancanza di stimolazione che
arresta o altera il normale sviluppo uditivo ed è bene ricordare che la durata della sordità prima della
diagnosi e dell’intervento protesico-riabilitativo, è negativamente correlata con la capacità che avrà
in futuro il bambino di esprimersi e comunicare. Generalmente l’età consigliata per l’adattamento
audioprotesico, è entro i primi 6 mesi di vita.
Nel caso di specie, ad (omissis), proprio il fatto che il deficit uditivo di cui era affetto sia stato
trascurato, ha determinato una non corretta e non completa interconnessione con l’apprendimento del
linguaggio e conseguentemente ha causato un’incompleta formazione degli elementi cognitivi basilari
per il suo regolare sviluppo, elementi che devono assolutamente essere considerati nella
quantificazione del danno biologico.
Il danno va infatti considerato nel suo rilievo di base e, quindi, adeguatamente rimodulato in
considerazione della vicenda clinica e della situazione concreta della parte lesa: ciò sotto ogni profilo
rilevante e attinente ai riflessi sulla sua integrità psico-biologica, al condizionamento e al pregiudizio
nello svolgimento delle sue attività areddituali, ad ogni ulteriore aspetto morale che concorre a
descrivere il danno non patrimoniale, e, necessariamente, sulla base delle risultanze e delle allegazioni
anche presuntive offerte dalla parte (in sede di CTU tutto questo è stato evidenziato sia dai colloqui
col ragazzo che con la madre).
Del tutto fuorviarne il richiamo della Dr.ssa (omissis) ad una eventuale comorbilità per DSA, posto
che appare evidente come l’unico disturbo da cui è sempre stato affetto (omissis) è un’ipoacusia,
circostanza emersa chiaramente nelle indagini peritali; è veramente incredibile che si continui a
dipingere il ragazzo come affetto da patologie neuropsichiatriche quando invece si tratta di sordità!
***
Non si può peraltro neanche concordare con l’esclusione del danno iatrogeno da parte di entrambi i
CTU, ovvero l’aggravamento ascrivibile a condotta imperita del medico delle conseguenze di un fatto
dannoso già verificatosi e non imputabile al medico.
Il danno iatrogeno è il pregiudizio alla salute, causato da colpa di un sanitario, che ha per effetto
l’aggravamento di una lesione già esistente, a sua volta ascrivibile a colpa di un terzo od a cause
naturali. Questo pregiudizio sussiste dunque quando si verifichi la seguente successione causale: a)
una lesione della salute; b) l’intervento di un medico per farvi fronte; c) l’errore del medico; d)
l’aggravamento o la mancata guarigione della lesione iniziale, sub a).
Pertanto, il danno non patrimoniale prodottosi risulta riconducibile al concorso di due condotte umane
distinte: quella del soggetto che ha causato la lesione originaria (nel nostro caso il C.R.O. per errata
e/o omessa diagnosi); e quella della Azienda USL Toscana Centro, chiamata a curare la patologia di
(omissis), che l’ha invece aggravata.
Nella fattispecie per cui è causa le distinte azioni da un lato del C.R.O. e dall’altro dell’Azienda USL
hanno contribuito a cagionare un evento dannoso unitario anche se non dovesse risultare possibile
distinguere l’efficienza causale del comportamento dell’uno e dell’altro.
Si pensi infatti come a seguito dell’errore del C.R.O. la Azienda sanitaria abbia intrapreso un percorso
terapeutico del tutto errato e dannoso per (omissis), che ha evidentemente aggravato la situazione,
circostanza cui deve necessariamente aggiungersi e considerarsi il fatto che la Azienda, nonostante
molteplici sollecitazioni in tal senso provenienti in primis dalla madre, non ha ritenuto opportuno
rivedere l’inquadramento diagnostico persistendo pertanto senza alcuna giustificazione in un
trattamento dimostratosi dopo ben ulteriori 3 anni inadeguato.
La Azienda sanitaria non ha ritenuto necessario, negli anni dal 2007 al 2010, eseguire alcun
approfondimento di diagnostica nei confronti dell’allora minore, né disporre alcuna verifica sulla
asserita normalità audiologica, ribadendo invece la sussistenza di ritardo cognitivo, e ciò in palese
contrasto rispetto al quadro clinico di difficoltà nell’esecuzione e comprensione di ordini, condotta
assolutamente censurabile sia dal punto di vista giuridico che morale.
Si insiste dunque anche per la condanna per danno iatrogeno nella quantificazione che sarà ritenuta
di giustizia.
***
Non va sottovalutato nemmeno il danno morale subito da (omissis).
Basta invero leggere la prima CTU nella quale è ben spiegato come il ragazzo si porti dietro come
bagaglio un’angoscia che non dovrebbe avere e come sia molto apprensivo perché da sempre abituato
a stare molto vicino alla madre.
È lo stesso (omissis) che afferma “Lo vedo che non mi pare giusto che un dottore studia per tutta la
vita e poi non trova la cosa giusta per un bambino… È ironico che andiamo a Siena (la mamma aveva
dimenticato i documenti) e ci dicono che siamo sordi…. che sono sordo… Mi fa arrabbiare … Potevo
fare tante cose … esempio il calcio .. Potevo essere in là con lo studio”.
È dunque evidente la sofferenza interiore del ragazzo per la vicenda che lo ha visto coinvolto. Appare
davvero impossibile negare che ci sia stato un danno morale se solo si considera che egli è stato
trattato come affetto da disturbo neuropsichiatrico quando invece era non udente.
Peraltro, si rileva che detto aspetto non è assolutamente trascurabile, in quanto anche nel diventare
adulto (omissis) si renderà sempre più conto di quanto gli è accaduto e l’elaborazione della sua
sofferenza sarà presumibilmente maggiore via via che egli riuscirà a comprendere appieno tutti gli
eventi occorsi.
Per questi motivi gli attori deducono che la quantificazione operata dal CTU sia troppo esigua sia con
riferimento al danno biologico che alla sofferenza morale che, come detto, sarà maggiore una volta
che (omissis) sarà divenuto adulto e in grado di comprendere ancora meglio le conseguenze degli
errori e ritardi diagnostici ed errati trattamenti sanitari cui è stato sottoposto per negligenza,
imprudenza ed imperizia dei convenuti.
Hanno rilevato, infine, che con la sentenza n. 25164 del 10.11.2020 la Corte di Cassazione ha ribadito
il principio secondo cui la voce di danno morale è autonoma e non conglobabile nel danno biologico,
trattandosi di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale, quindi, meritevole di un
compenso aggiuntivo al di là della “personalizzazione”, e detta, dunque, le regole precise per la sua
liquidazione.
La Suprema Corte precisa che il danno morale sì sostanzia nella rappresentazione di uno stato d’animo
di sofferenza interiore, che prescinde del tutto dalle vicende dinamico-relazionali della vita del
danneggiato.
L’autonomia del danno morale è infatti da leggersi nella più grande fenomenologia del danno non
patrimoniale al bene salute. La sofferenza conseguente alla lesione del bene salute, infatti, può essere
declinata in due differenti contenuti: quella “fisica e della vita di relazione” e quella “interiore” (intesa
come dolore, la vergogna, la paura, la disperazione).
***
Accanto al danno biologico e a quello morale va risarcito anche il danno da perdita di chance legato
alla possibilità di poter essere tempestivamente trattato con protesi con beneficio per lo sviluppo
somatopsichico ed anche migliori prospettive di adattamento alla protesi.
Nella fattispecie in esame emerge con palese evidenza come (omissis), a causa di un errore
diagnostico ripetuto negli anni, nonché a causa di una incomprensibile ed ingiustificata pervicacia
dell’azienda sanitaria nell’intraprendere un percorso curativo senza alcuna rivalutazione della
sintomatologia, sia stato privato delle concrete possibilità di un trattamento terapeutico adeguato in
relazione all’invalidità sofferta, e come dunque le chance di guarigione e/o di miglioramento siano
state effettivamente perdute a causa della condotta gravemente colposa delle odierne convenute.
Il CTU Dr. (omissis) nel supplemento di perizia evidenzia la sussistenza di detto danno, causato dalle
difficoltà nel raggiungere le migliori performances neurocognitive teoricamente attendibili, e lo
quantifica in una percentuale fra il 5 e 10%.
Anche in questo caso si ribadiscono le osservazioni sopra riportate e si insiste per la quantificazione
che risulterà di giustizia, con considerazione di tutte le circostanze del caso concreto.
***
Nel caso in esame, come già esposto, (omissis) in conseguenza degli eventi narrati è stato privato
negli anni più importanti della formazione della possibilità di interagire con l’esterno, e ciò ha
evidentemente determinato una “deviazione” del suo percorso di vita rispetto a quello che avrebbe
avuto se la patologia fosse stata correttamente inquadrata dalla nascita.
Dette circostanze dovranno essere risarcite dal punto di vista del danno esistenziale.
***
Hanno insistito anche per i danni subiti dai genitori di (omissis) a causa della vicenda che li ha visti
coinvolti.
Gli stessi hanno subito un danno non patrimoniale nella compiuta accezione del danno morale
laddove per anni hanno creduto che il figlio fosse affetto da disabilità psichiche, per poi scoprire che
egli aveva invece problemi uditivi, circostanza che evidenzia in pieno la colposa negligenza delle
convenute.
A ciò deve aggiungersi la concreta sofferenza patita per le lesioni credute nel figlio minore, aggravata
in seguito dal dolore causato dal ritardo con cui ad (omissis) sono state finalmente prestate le
opportune cure e terapie.
In questa sede si evidenzia come soprattutto la madre che, come emerso in sede di perizia, è sempre
stata accanto al figlio con il quale sussiste un attaccamento particolare, abbia riportato una sofferenza
notevole per quanto occorso, dapprima scoprendo dopo anni che era affetto da ipoacusia e poi
successivamente nel constatare i ritardi causati dalla negligenza dei convenuti nello sviluppo psichico
e nel percorso scolastico del figlio; dette circostanze sono emerse chiaramente in sede di colloqui con
i CTU.
E’ notorio come il danno morale possa essere provato anche a mezzo presunzioni: “Stante la piena
autonomia del danno morale rispetto al danno biologico il giudice è tenuto a esperire la strada della
risarcibilità del danno, anche affidandosi a criteri presuntivi ed in riferimento a quanto
ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza ed alla gravità delle ricadute della
condotta in atti” (Cassazione Civile, Sez. III, sentenza n. 21970 pubblicata il 12/10/2020).
Lo strettissimo rapporto affettivo sussistente tra madre e figlio, la convivenza nonché la tenera età in
cui sono avvenuti i fatti di causa costituiscono tutti elementi presuntivi del danno morale sofferto
dalla madre e dai genitori entrambi per le condotte illecite dei convenuti.
Sul danno patrimoniale della sig.ra (omissis) si rinvia espressamente a tutto quanto dedotto,
argomentato e prodotto nella memoria ex art. 183, VI comma, n. 1, c.p.c.
***
Infine, hanno osservato come permanga l’insanabile contrasto – anche a seguito dei due supplementi
di CTU – il contrasto tra la valutazione della (omissis) e quella degli altri specialisti, in primis il
(omissis) esperto audiologo e quindi competente in detto specifico ambito.
Hanno chiesto in ogni caso che il Tribunale di Firenze voglia considerare nella propria decisione
esclusivamente l’elaborato e il supplemento di perizia redatti dal Dr. (omissis) – nel quale sono
comunque incluse le valutazioni della Dr.ssa (omissis) -, anche in considerazione dell’atteggiamento
immotivatamente ostile e poco collaborativo della dottoressa.
DIFESA Di C.R.O. s.r.l.
1) Il ctu Dott. (omissis) ha ribadito l’insussistenza di qualsiasi invalidità permanente, riconoscendo
ad (omissis) la sola invalidità temporanea del 15% (e non del 25%) per un periodo ricompreso tra il
luglio 2006 e il giugno 2010 e imputando la responsabilità al 50% tra C.R.O. e la ASL.
Il CTU ha altresì escluso esiti incidenti sulla capacità produttiva specifica del minore di produrre
reddito, quantificando una perdita di chances in misura “percentualmente trascurabile, da identificare
in un range tra il 5 e il 10%”. Occorre rilevare, ancora una volta, che (omissis) è risultato affetto da
un’ipoacusia ereditaria ad insorgenza progressiva: vi è quindi un momento in cui la malattia insorge,
ma in un momento precedente la patologia non era presente e in questo senso, come ampiamente
argomentato dal CTP di C.R.O., Prof. (omissis), anche nelle osservazioni a quest’ultimo supplemento
di consulenza, sono contestabili le conclusioni cui giunge il Dott. (omissis), perché non è possibile, a
priori, affermare che l’esame del novembre 2009 non fosse rappresentativo dello stato uditivo non
patologico del bambino in tale momento storico, dal momento che la diagnosi di ipoacusia perviene
sette mesi dopo, ovvero nel giugno 2010.
È in ogni caso ingiustificata la ripartizione a perfetta metà operata dal CTU tra C.R.O. che ha visto il
bambino, in quell’arco temporale, una sola volta, appunto nel novembre 2009, e la ASL che lo ha
avuto in cura per oltre quattro anni.
Si contesta comunque che ricorra una perdita di chance, circostanza che peraltro appare in contrasto
con l’esclusione di qualsiasi danno permanente e si ribadisce che la percentuale quantificata dal CTU
è (5/10%) è assolutamente trascurabile e priva di dignità risarcitoria.
Oltre alle deduzioni del proprio CTP, C.R.O. si riporta a quanto esposto e dedotto nella propria
comparsa conclusionale 7.9.2020 e nella replica 29.9.2020, anche con riferimento all’invalidità
temporanea.
2) Per quanto attiene il supplemento alla CTU neuropsichiatrica, la Dott.ssa (omissis) ha confermato
le conclusioni cui era già pervenuta, ovvero che non sussiste alcun danno, neanche in termini di
perdita di chance, in relazione all’asserita tardività della diagnosi, posto che — si ribadisce — trattasi
di una patologia progressiva e non è possibile stabilire precisamente quando si sia resa clinicamente
manifesta nel soggetto.
Nulla C.R.O. ha da aggiungere a quanto correttamente rilevato dalla Dott.ssa (omissis), anche in
questa fase supplementare.
3) Si rileva, ancora una volta, l’infondatezza della domanda attrice, sia nell’an che nel quantum, che è
stato ripetutamente modificato in corso di causa e mai motivato sulla base delle evidenze delle CTU,
le cui risultanze sconfessano completamente la richiesta dei sig.ri (omissis) e (omissis).
Da ciò non può che derivare la temerarietà della lite.
DIFESA USL 11 E.
La convenuta ha dedotto una palese mancanza di responsabilità dei sanitari empolesi ritenendo non
sussista alcun nesso di causa tra le presunte condotte omissive e/o commissive degli operatori dell’ex
Azienda USL 11 di E. e la menomazione in seguito riscontrata sul minore (ipoacusia bilaterale)
nemmeno, in ipotesi, in termini di aggravamento della patologia lamentata.
I sanitari afferenti al reparto di neuropsichiatria infantile, come detto in più occasioni, non avevano e
non avrebbero avuto le competenze specifiche né gli strumenti necessari per diagnosticare l’ipoacusia
bilaterale da cui era affetto al tempo il piccolo (omissis) trattandosi di una unità operativa complessa
che si occupa della prevenzione, della diagnosi, della cura e della riabilitazione dei disturbi
neurologici, neuropsicologici e psicopatologici della popolazione in età tra 0-17 anni nonché di tutti
i disturbi dello sviluppo nelle sue varie linee di espressione psicomotoria, cognitiva, linguistica,
affettiva e relazionale.
A tal proposito peraltro corre l’obbligo di evidenziare come lo stesso Dott. (omissis) nel proprio
elaborato (cfr. pagg. 42-43 dell’elaborato peritale), stante l’inapparente o poco apparente presenza di
deficit percettivi alla nascita, predominante sulle frequenze acute (e senza alcun altro soggetto colpito
nel ceppo familiare), abbia definito la diagnosi dell’ipoacusia neurosensoriale bilaterale di tipo
ereditario una complessa sfida diagnostica più spesso intercettabile in età scolastica.
Desta dunque molte perplessità leggere nel proseguo dell’elaborato che il consulente ravveda
comunque una evidente responsabilità da parte dei sanitari colpevoli – a suo dire – di non aver
diagnosticato la patologia dell’apparato uditivo e/o non aver approfondito le indagini svolte.
Le cartelle cliniche depositate in atti evidenziano un atteggiamento assai scrupoloso e oltremodo
diligente da parte dei medici afferenti alla UOC di Neuropsichiatria i quali, raccolti i dati anemnestici
dai genitori del minore e valutate le problematiche rilevate durante un periodo di osservazione
scolastica, intraprendevano un percorso terapeutico – che peraltro secondo la Dott.ssa (omissis) è
risultato congruo e necessario – e per ben 2 volte, sospettando problematiche che potessero radicarsi
fuori dal proprio campo di competenza (patologia che verosimilmente potevano essere in relazione
con l’apparato uditivo del minore) non hanno esitato a rivalutare il quadro clinico ed inviare il piccolo
presso un ambulatorio medico specialistico di diagnosi (CRO di F., prima, e Istituto di disciplina
Otorinolarigologiche dell’A.U.O. di S., poi) per l’esecuzione di approfondimenti strumentali. Appare
pertanto logico che i medici della convenuta azienda, considerati i risultati degli esami specialistici
svolti in ordine alla capacità uditiva del minore, si trovarono “costretti” a porre una diagnosi
alternativa differenziale che comunque escludesse l’ipoacusia bilaterale.
Non paiono pertanto condivisibili gli assunti e le conclusioni del Dott. (omissis) il quale sostiene una
evidente responsabilità dei sanitari empolesi per il ritardo diagnostico solo per il fatto che questi
avessero trascritto in cartella clinica, in ordine alla capacità di comprensione del minore, l’inciso
“sembra non sentire” e non ebbero, come da lui sostenuto, indagato più approfonditamente su tale
aspetto.
Nel momento in cui i genitori del minore si rivolgevano al centro “L.B.” per gli evidenti problemi e
le difficoltà di linguaggio riscontrati nel piccolo durante i primi anni di crescita (problemi che come
confermato dalla Dott.ssa (omissis) erano ben presenti nel minore), venivano anche tempestivamente
eseguiti tutti i necessari esami diagnostici strumentali per una corretta ricerca eziologica del
riscontrato disturbo del linguaggio.
Si deve, poi, tener conto della circostanza che il minore fosse bilingue e tale circostanza, secondo
quanto riportato dalla maggioritaria dottrina medica e dagli studi relativi all’analisi dello sviluppo del
linguaggio dei bambini bilingue, influenzasse notevolmente la possibilità di individuare la presenza
di un disturbo specifico del linguaggio nel piccolo.
Escluso quindi con certezza il problema audiometrico sulla scorta dei risultati del predetto esame,
correttamente i sanitari dell’Azienda convenuta, tenuto conto del quadro clinico nel frattempo
rilevato, iniziavano un percorso terapeutico e riabilitativo mirato alla risoluzione dei disturbi specifici
del linguaggio.
Il piccolo (omissis), anche nel periodo successivo alla presa in carico da parte dei sanitari, veniva
visitato ed indagato mediante ulteriori approfondimenti specialistici ad ampio raggio per cercare di
trovare la causa del disturbo di linguaggio.
Veniva quindi eseguito, presso la struttura di S. M., un elettroencefalogramma che, però, non
evidenziava alcuna anomalia parossistica né alcuna alterazione comportamentale di possibile
significato epilettico.
Contestualmente veniva impostato un progetto terapeutico individualizzato che prevedeva un
trattamento logopedico, prima, e un trattamento psicoeducativo in gruppo, poi.
La diagnosi iniziale veniva peraltro confermata anche dal test Ieiter-R (test della misura del QI),
effettuato nel settembre del 2008, il quale evidenziava i problemi relativi al disturbo del linguaggio
ed il ritardo di apprendimento.
A dir il vero non si comprende cosa i sanitari empolesi avrebbero dovuto fare in termini di condotte
alternative anche perché il consulente, chiamato a chiarimenti sul punto, non ha fornito spiegazioni
eloquenti ma si è limitato a riportare uno stralcio della perizia già depositata (cfr. pag. 143 elaborato
peritale).
Tutte le volte che i medici hanno avuto un dubbio in ordine alla capacita uditiva del minore lo hanno
inviato presso un centro specializzato che ha sempre reso pareri negativi in ordine a possibili patologie
dell’apparato uditivo.
Contrariamente a quanto sostenuto sul punto dal CTU è stato anche grazie alla costanza dei medici
della convenuta che è stato possibile addivenire alla diagnosi di ipoacusia: nonostante le risultanze
degli esami condotti dal CRO, il personale sanitario della UOC di Neuropsichiatria, nutrendo ancora
qualche dubbio sulle capacità uditive del minore, decideva di inviare il piccolo (omissis) presso altro
centro specializzato (AOU di S.).
Tempestiva è stata infine la decisione di protesizzare il minore al momento in cui l’istituto senese ha
ripetuto gli esami rilevando che il minore era affetto da una ipoacusia bilaterale.
Deve essere giudicato quindi come notevolmente scrupoloso, ed informato allo stato di diligenza
dovuta nel caso di specie, il comportamento diagnostico e terapeutico del personale sanitario.
Ciò premesso, vista l’evidente mancanza di qualsivoglia responsabilità da parte degli operatori
sanitari fiorentini, vorrà il Giudicante respingere ogni addebito di responsabilità mosso dagli attori.
3. Sulla correttezza dell’operato dei medici della Neuropsichiatria Infantile della Azienda USL
Toscana Centro
Parimenti non condivisibili sono le conclusioni del Dott. (omissis) in ordine al percorso elaborato dai
sanitari della UOC Neuropsichiatria Infantile i quali, secondo la sua tesi, sarebbero rei di aver trattato
il minore con un approccio terapeutico errato dovuto proprio all’asserita omessa diagnosi circa
l’ipoacusia bilaterale di cui era affetto il piccolo (omissis).
Tali conclusioni destano ancor più stupore laddove si tenga in considerazione che l’altro membro del
collegio peritale, la Dott.ssa (omissis), specialista in neuropsichiatria infantile, è giunta a
considerazioni diametralmente opposte, concludendo la propria relazione non individuando, sia dal
punto di vista diagnostico sia dal punto di vista riabilitativo, comportamenti manchevoli e/o omissivi
da parte della NPI dell’Usl di E..
Secondo la neuropsichiatra infantile – nominata dal Giudice proprio con lo scopo di condurre un
approfondimento sul ritardo del linguaggio da cui era affetto il piccolo (omissis) e sulla
corrispondenza della terapia posta in essere dagli operatori sanitari – il minore era affetto (e lo è
tutt’oggi) anche da un disturbo del linguaggio espressivo non del tutto compensato in associazione a
fragilità nella lettura e nelle componenti ortografiche in soggetto con ipoacusia neurosensoriale. La
specialista ha rilevato dunque la necessita di un percorso di tutoring DSA finalizzato al potenziamento
delle abilità di studio e degli apprendimenti, nonché di potenziamento lessicale e di potenziamento
della memoria a lungo termine verbale (cfr. pag. 27 relazione). La Dott.ssa (omissis) conclude sul
punto sostenendo che
anche supponendo che fosse necessario protesizzare il minore prima di quando effettivamente ciò è
accaduto e che questo accadesse, non è certa che la qualità del linguaggio e le competenze sugli
apprendimenti sarebbero state migliori di quelle odierne.
Al fine della valutazione della correttezza e della bontà del trattamento terapeutico/riabilitativo,
occorre, infine, precisare come il minore, visti i miglioramenti del disturbo presentato, sia rimasto in
cura presso il presidio de “L. B.” anche successivamente alla diagnosi dell’ipoacusia bilaterale
(2010)ed alla conseguente protesizzazione sino al novembre del 2013, allorquando il trattamento
veniva sospeso a causa del trasferimento della famiglia in altro comune, proprio perché i problemi
relativi al disturbo specifico del linguaggio persistevano (cfr. doc. 2 e 3 fascicolo di parte convenuta
Azienda USL Toscana Centro).
Il consulente del Giudice ritiene dunque corretto il percorso intrapreso dal minore per cercare di
recuperare il disturbo del linguaggio con ciò escludendo ogni responsabilità in ordine alle condotte
dei sanitari empolesi.
MOTIVAZIONE
Letto il lungo elaborato peritale comprensivo delle osservazioni dei ctp delle parti e del supplemento
richiesto dal Giudice, a seguito del contrasto tra il ctu audiologo e del ctu neuropsichiatra infantile, si
ritiene che sussista effettivamente una colpa medica sia del Centro C.,R.O. s.r.l. che degli operatori
dell’Ausl 11 di E.; la madre infatti si rivolse fin dal 2004 al Centro di Rieducazione Ortofonica per
sospetta sordità e per alcune criticità riscontrate nel comportamento e nello sviluppo del linguaggio,
ciò emerge per tabulas dai certificati prodotti, che il bambino presentava una difficoltà del linguaggio
che non si risolveva nel tempo e che non venne indagato in modo completo con gli esami oggettivi,
collaudati da decenni, e che sono stati indicati dal ctu dott. (omissis) tra cui i potenziali evocati uditivi,
cui provvide solamente la struttura universitaria di Siena ben 6 anni dopo nel 2010.
Il dott. (omissis) chiarisce nel supplemento ctu, che più probabilmente che non, era sordo fin dal
2004, quando venne visitato presso il C.R.O. e detto ctu ripercorre i vari documenti che attestano i
problemi di linguaggio annotati dai sanitari fin dal 2004.
Il dott. (omissis) con ragionamento immune da vizi logici, discostandosi peraltro dalle non
condivisibili considerazioni della neuropsichiatra dott.ssa (omissis), non esperta in branca
audiologica, afferma che il ritardo cognitivo non è una patologia autonoma di (omissis), sebbene
appare correlata con la sordità; quest’ultima viene collocata nella fase anteriore al pieno sviluppo del
linguaggio, in quanto effettivamente la madre fin dal 2004 riferiva di tali criticità ai sanitari del C.R.O.
sollecitando indagini sul versante audiologico; il ctu dott. (omissis) infatti ripercorre tutta la
documentazione medica dal 2004 in poi, che dimostra come il problema dello sviluppo del linguaggio
sia presente fin dal 2004, e tale disturbo del linguaggio viene condivisibilmente associato causalmente
alla sordità, e non considerato come espressione di una patologia da ritardo mentale autonoma rispetto
alla sordità.
Appare più logica e coerente questa valutazione del dott. (omissis) sia con le linee guida e gli studi
dettagliatamente riportati nel suo elaborato, e nelle osservazioni dei ctp, in quanto si sottolinea il fatto
che la sordità interferisce nel pieno e armonico sviluppo cognitivo del soggetto, causando
evidentemente difficoltà di comunicazione, di apprendimento, di linguaggio, qualora si manifesti
appunto prima del pieno sviluppo del linguaggio e dell’apprendimento.
A questi argomenti, collegati alla documentazione sanitaria in atti dove si richiama costantemente
questo problema di un irregolare sviluppo del linguaggio si aggiunge il fatto che allorquando
(omissis) fu finalmente protesizzato, recuperò le sue capacità di apprendimento e di linguaggio
giungendo a livelli di quasi normalità, con recupero di normalità anche del suo quoziente intellettivo;
tutto ciò mal si concilia con quanto opinato dalla dott.ssa (omissis), che parla di una sordità
manifestatasi solo nel 2009 con le indagini oggettive complete eseguite tardivamente solo
all’Università di Siena, includenti i potenziali evocati uditivi, mai eseguiti dal CRO né nel 2004, e
persino, sorprendentemente , nel 2006.
Si riporta quindi la pag. 142 della ctu depositata nel 2022 in causa con le considerazioni del ctu
specialista in branca dott. (omissis) di Milano (medico chirurgo, specialista in Medicina Legale e
delle Assicurazioni e specialista in Otorinolaringoiatria ed in Audiologia):
“devono essere giudicate erronee le conclusioni diagnostiche degli accertamenti del novembre 2009,
confrontate con quelle degli esiti degli accertamenti effettuati nel giugno 2010, le cui differenze non
si possono spiegare sulla base di un semplice, repentino peggioramento di soglia in un arco temporale
limitato a pochi mesi, a fronte di una sostanziale invariazione della soglia uditiva rilevata durante le
recenti operazioni peritali e della storia anamnestica, che depone per una difficoltà di correlazione col
mondo dei suoni in tutta la vita precedente del giovane, il sottoscritto CTU ha comunque ritenuto di
suddividere la responsabilità per tale ritardo diagnostico al 50% con l’azienda sanitaria di Empoli, che
aveva il paziente sotto osservazione, potendo rilevare tutte le incongruenze di comportamento dello
stesso, già ad iniziare dal 2006.
Punto tre: con riferimento all’ipoacusia progressiva ad esordio tardivo, senza precedenti familiari e in
assenza di altri fattori di rischio, occorre ragionare con mente serena.
Le linee guida, già del 2000 e 2007, davano delle indicazioni precise, sia per lo screening che per la
diagnosi precoce delle ipoacusie infantili.
Il ruolo dell’audiometria obiettiva è indiscutibile per le sue capacità di definire la soglia uditiva in
termini precisi, arrivando a delineare tutto il campo tonale con differenti modalità di registrazione
dell’audiometria a risposta elettriche.
Anche gli echi cocleari (nel caso in discussione mai registrati fino al 2010) sono stati molto
caldeggiati come screening neonatale e in Lombardia venivano ricercati nei reparti di ostetricia già a
finire dagli anni 90.
Del resto, non si può ritenere che il caso del giovane sia stato ben affrontato ed in particolare
tempestivamente diagnosticato, se si considerano i seguenti dati:
1) sin dai primi mesi di vita risulta anamnesticamente che il bambino non si girasse e/o non cogliesse
ì rumori ambientali;
2) anche alla scuola materna non partecipava al mondo sonoro, non cantava e non ripeteva le
filastrocche;
3) conseguentemente comparve un ritardo di linguaggio, che non tendeva a risolversi;
4) gli accertamenti di neuropsichiatria infantile dal 2006 denunciarono più volte un gergo
incomprensibile con comprensione deficitaria… disturbi del linguaggio… ci sono dei comandi che non
capisce, sembra non sentire… difficoltà ad adeguarsi alla consegna anche per le sue difficoltà a
comprendere ciò che gli viene richiesto, eccetera;
5) nel 2004 e nel novembre 2009 venero fatti accertamenti audiologici incompleti, refertati come
normali
6) nel giugno 2010 venne finalmente posta la diagnosi di ipoacusia neurosensoriale bilaterale, dopo
aver eseguito un esame audiometrico infantile, un esame impedenzometrico, uno studio di potenziali
evocali del monco encefalico ed uno studio dei prodotti di distorsione cocleare;
7) al ragazzo fu quindi accertata un’ipoacusia ereditaria;
8) applicate le protesi, il giovane soggetto chiuse il “gap” comunicativo.
Sostenere quindi che il giovane non fosse sordo fino al 2010, a fonte dell’anamnesi sopra riportala,
non ha alcun presupposto logico; l’ipoacusia era sicuramente già presente, perlomeno dal 2006, e
molto probabilmente fin dal primo accertamento del 2004, e poteva essere riconosciuta utilizzando
adeguate metodiche diagnostiche, già a disposizione ed ampiamente diffuse a quei tempi”.
Infatti, da pag. 43 a pag. 46 il ctu riporta il contenuto della documentazione sanitaria di dal 2004 al
2010 da cui emerge la logicità e condivisibilità delle sue valutazioni tecniche ossia la sussistenza di
nesso di causa tra sordità e disturbi del linguaggio e apprendimento documentati dal 2004 e comunque
certamente dal 2006.
A pag. 43: “omissis… Riguardo al primo punto soccorrono i dati anamnestico/documentali, che
rivelano un ritardo nell’acquisizione del linguaggio e successivamente anche dell’apprendimento
scolastico, a fronte peraltro di accertamenti audiologici apparentemente normali (4 giugno 2004, a 10
mesi; timpanogramma bilateralmente tipo “C” [con picco a pressione negativa], riflessi stapediali
evocabili e buone risposte all’acumetria tramite giochi sonori [Boel test]).
Persistendo il ritardo di linguaggio il bambino fu quindi avviato ad indagini dì neuropsichiatria
infantile, che in data 19/07/2006 segnalarono: “… parla un gergo incomprensibile, anche la
comprensione appare deficitaria… “; contestualmente alla scuola materna, fu descritto: “il bambino
cerca le maestre e gli altri bambini, gioca con loro. Molte perplessità sulle capacità di comprensione:
ci sono dei comandi che non capisce, sembra non sentire”.
Il 5 marzo 2007 e 13 giugno 2007, a quattro anni, rispettivamente un elettroencefalogramma ed una
risonanza magnetico nucleare encefalica risultarono nella norma; nel frattempo il piccolo fu affidato
ad un servizio di rieducazione logopedica e riabilitazione all’apprendimento scolastico, ma senza
sostanziale miglioramento del quadro rilevato.
Il 15/10/2007 un certificato del centro di NPI statuiva: “il minore presenta disturbi del linguaggio e
un ritardo degli apprendimento che non è possibile valutare con tests standardizzati; la comunicazione
verbale è sufficientemente investita, nonostante il disturbo linguistico; il linguaggio di (omissis) è
caratterizzato in produzione da un repertorio lessicale limitato a poche parole onomatopeiche con
rilevanti semplificazioni fonologiche; in comprensione il linguaggio, relativamente ad ordini semplici
e contestuali, appare relativamente adeguato; il bambino ha ridotte capacità attentive e di fronte a
certe richieste emerge la sua difficoltà ad adeguarsi alla consegna anche per le sue difficoltà a
comprendere ciò che gli viene richiesto e cerca dì manipolare e gestire la situazione; è stata eseguita
RMN encefalo ed EEG, che hanno dato esili negativi; le indagini e gli accertamenti sono ancora in
corso, attualmente il bambino segue un trattamento riabilitativo logopedico presso il nostro servizio
alla badia di San Minialo “.
A distanza di circa 17 mesi, il 09/03/2009 fu rilasciata la seguente diagnosi funzionale: “non si
evidenziano deficit a livello motorio, a parte un certo impaccio più evidente nella motricità fine e
nella coordinazione motoria; non si evidenziano nemmeno deficit a livello sensoriale (NDR: ???); il
linguaggio è fortemente disturbato, sia nella comprensione, che produzione verbale; il linguaggio di
(omissis) è ancora caratterizzato da un marcato ritardo, ma con dei miglioramenti, che si sono avuti
sia in comprensione, che in produzione; la produzione verbale è ancora caratterizzata da un repertorio
lessicale molto ridotto e limitato a poche parole con rilevanti semplificazioni fonologiche; c’è
un’iniziale costruzione della frase; anche in comprensione il linguaggio è compromesso, ma,
relativamente ad ordini semplici e contestuali, può essere adeguato, è molto migliorata la usa capacità
comunicativa ed il bambino appare più in grado di gestire situazioni ambientali che in passato lo
mettevano fortemente in difficoltà creandogli ansia e dalle quali si difendeva con comportamenti
oppositivi e cercando di manipolare la situazione; per quanto riguarda il suo livello cognitivo è stato
testato con Scala di Leiter, della quale è stato possibile somministrare le prove per il 01 completo: il
livello ottenuto con la scala ha dato valori ai limiti inferiore della norma.
A distanza di circa cinque anni e mezzo dai primi, il 20 novembre 2009 ulteriori esami funzionali
dell’udito (esame impedenzometrico ed audiometrico), eseguiti presso il medesimo centro ortofonico,
furono ancora refertati come nei limiti della norma, ma anche in questa occasione, come del resto
nella precedente rilevazione, furono del tutto omessi accertamenti audiologici obiettivi, come i
potenziali evocati uditivi.
Finalmente il 16 giugno 2010, persistendo il dubbio di una minorazione uditiva, furono ripetuti
opportuni accertamenti funzionali, questa volta presso altra struttura sanitaria (Azienda Ospedaliera
Universitaria di Siena), che portarono alla corretta diagnosi di ipoacusia neurosensoriale bilaterale,
di medio-grave entità (soglia media sui 50 60 dB HL) con, all’esame impedenzometrico, test di Metz
positivo, allo studio dei potenziali evocati del tronco cefalico, onda V rilevabile bilateralmente fino a
circa 90 80 dB SPL (equivalente a 60 50 dB HL) e prodotti di distorsione cocleare compatibili con la
soglia uditiva rilevata audiometricamente.
Audioprotesizzato nell’estate successiva, il bambino poté così chiudere il “gap” comunicazionale e dì
apprendimento”.
Nel rispondere alle osservazioni dei periti di parte attrice che hanno sostenuto la contraddittorietà del
ctu (omissis) tra premesse e conclusioni, e particolarmente nell’aver da un lato riconosciuto la
risalenza della sordità all’epoca pre-linguale e dall’altro nell’aver escluso che l’omessa tempestiva
protesizzazione avesse determinato l’attuale stato di non perfetta performance cognitiva di accertata
anche ufficialmente e che aveva dato luogo alla necessità di sostegno a scuola, questo giudice si
riporta alle valutazioni del dott. (omissis), che sostanzialmente esclude un danno permanente, laddove
a pag. 148 conferma tale valutazione, ascrivendo le difficoltà di (omissis) nell’apprendimento, nella
lettura e scrittura, alla sua malattia di base ossia alla sua sordità genetica, che anche se
tempestivamente trattata, avrebbe avuto comunque delle ripercussioni nel pieno sviluppo cognitivo.
Il dott. (omissis) si esprime, infatti, col dire a pag. 150 “Infine per quanto riportato nella consulenza
psicologica della Dott.ssa (omissis) che denuncia un u deficit di accesso al lessico in chiave fonemica
e per immagini, cui si associa inefficienza a carico dei processi di codificazione/recupero delle
informazioni dalla memoria a lungo termine… con fragilità ai limiti inferiori dì norma per quanto
concerne gli apprendimenti nella lettura, si reputa che tali deficit nonché nelle competenze
ortografiche”, non siano di entità tale da delineare un danno biologico permanente, ma possano
semmai esprimere una perdita di chances nel raggiungere le migliori performance neurocognitive
teoricamente attendibili”.
Pag. 151: “….Dopo la protesizzazione il ragazzo ha comunque recuperato pressoché totalmente il
proprio handicap cognitivo/comunicativo (una quota minimale del quale sarebbe comunque da
considerare intrinseca allo stato di ipoacusico e quindi non necessariamente rimediabile con
qualsivoglia approccio terapeutico, anche il più tempestivo), tanto che le “attuali fragilità”,
individuate dalla dottoressa (omissis) non possono configurare altro che una perdita di chances nel
raggiungere le migliori performance neurocognitive pag. 165: “…. omissis l’individuata bassa
percentuale di perdita di chance nel raggiungere le migliori performance neurocognitive Attendibili
(stimato tra il 5 e il 10%), fa riferimento a quanto riportato nella consulenza psicologica dalla
dottoressa (omissis), su cui si ritiene che possa avere inciso il ritardo di applicazione della terapia
protesica, atta a compensare il deficit uditivo, comunicativo e di sviluppo cognitivo del giovane
soggetto”.
Visto l’ampio dibattito tra i periti delle parti e il ctu (omissis) e il contrasto tra il ctu (omissis) e il ctu
(omissis), e tenendo in considerazione anche quanto obbiettivamente rilevato dalla dott.ssa (omissis),
ausiliaria della dott.ssa (omissis) che ha proceduto alla somministrazione di test ad (omissis);
considerate anche le linee guida indicate dai periti di parte e dal ctu (omissis), anche in punto di
efficacia di una immediata protesizzazione acustica prima che venga portato a compimento lo
sviluppo della fase del linguaggio e dell’apprendimento, rimane il dubbio che effettivamente l’attuale
stato del giovane (omissis) e le sue evidenziate fragilità, che lo collocano come soggetto ufficialmente
disabile, sia una condizione ineludibile, che si sarebbe verificata comunque anche col comportamento
corretto dei sanitari, e interamente determinata dalla sua sordità incurabile, o se invece la precoce
protesizzazione a uno o due anni di età, avrebbe dato dei risultati in termini di normale performance
cognitiva, ben diversamente da quanto accaduto, ovvero una protesizzazione a 6 anni di età.
Aderendo, tuttavia, alle conclusioni del ctu (omissis), super partes, ed esperto in branca, di cui è stata
eccepita la contraddittorietà, v’è da chiedersi come mai le linee guida prevedano una protesizzazione
acustica “quanto prima”, se essa poi non fosse capace di incidere sul normale sviluppo del linguaggio
e dell’apprendimento, con ciò quindi evitando la cristallizzazione di un danno cognitivo permanente.
Dunque, effettivamente il dibattito tecnico dei ctp col ctu, lascia comunque spazi al dubbio di un
danno iatrogeno permanente di tipo cognitivo causato dalla ritardata protesizzazione.
Pur con tale dubbio, tuttavia, si recepisce quanto conclude il dott. (omissis) laddove nega l’invalidità
permanente e afferma che sussista nesso di causalità tra omessa protesizzazione precoce al 2004 o al
2006 e inabilità solo temporanea al 15-20%, quale danno esistenziale relazionale sofferto da (omissis)
a causa dell’isolamento sonoro e ambientale per tutta la durata del ritardato intervento.
Dunque si ritiene di recepire la conclusione finale del ctu, che non riconosce alcuna invalidità
permanente ma solamente una inabilità temporanea per tutto il tempo del ritardo nella protesizzazione
che va dal 4 giugno 2004 (data in cui la madre si rivolse all’ASL di Empoli n. 11 che negligentemente
non pose la corretta diagnosi di sordità, omettendo di procedere ad effettuare i corretti esami
strumentali specifici per rilevamento obbiettivo della sordità descritti dal dott. (omissis)), oppure, dal
19 luglio 2006 (data certa indicata dal ctu) fino ad arrivare al 16 giugno 2010, coincidente con la data
dell’effettuazione, per la prima volta, dei potenziali del tronco cefalico e degli altri esami corretti,
nella diversa struttura di Siena; oltre un danno per perdita di chance di raggiungimento di normali
performance cognitive stimata al 5-10%.
Sulla inabilità temporanea il valore della inabilità che viene presa a base del calcolo è quello tratto
dalle tabelle meneghine, in quanto nello specifico caso di che trattasi, appare un criterio liquidatorio
più equo, rispetto a quello fondato sulla legge Gelli Bianco e rimando in essa contenuto all’art. 139
codice delle assicurazioni, peraltro nel diverso caso delle lesioni micropermanenti (qui, infatti, non
vi è alcuna lesione permanente in base a quanto riferito dal ctu (omissis). Inoltre, deve considerarsi
che la citazione qui risulta notificata prima dell’entrata in vigore della Legge Gelli Bianco per cui
applicando l’art. 11 Pre-leggi non troverebbe applicazione detta ultima disposizione.
Si noti che qualora si applicasse l’art. 139 cda partendo dalla premessa che ci si trova in presenza di
lesioni micropermanenti tra l’1 e il 9% di IP, qui non calzante, si addiverrebbe a liquidare al minore
al minore un importo che appare non satisfattivo del reale danno sofferto in termini di danno
esistenziale, relazionale e morale, per gli anni del suo isolamento acustico nei primi sei anni di vita,
perché si giungerebbe a riconoscere un importo inferiore a 10 euro al giorno, laddove il valore di
questo isolamento in questa particolare e importante fase dell’età evolutiva appare ben maggiore.
A questi argomenti si aggiunge il fatto che il ctu esperto in branca dott. (omissis) espressamente che
con molta probabilità il bambino era sordo già alla visita del 4 giugno 2004 presso Asl n. 11 di Empoli,
quando la madre lo aveva portato lamentando proprio i disturbi del linguaggio e il pediatra lo aveva
indirizzato proprio agli accertamenti audiologici.
Da lì fino al 19 luglio 2006 proprio nell’età dello sviluppo, quando il minore si trovava nella fascia di
età tra uno e quasi tre anni, nessun’alma indagine audiologica venne colpevolmente svolta dall’ASL
di Empoli, e dal Centro di Rieducazione Ortofonica di Firenze, nonostante l’elevata specializzazione
di quest’ultimo ente, e nonostante il permanere dei disturbi di linguaggio e apprendimento; nessuna
indagine audiologica obbiettiva venne disposta dalle convenute, ma anzi il minore fu erroneamente
avviato ai trattamenti di neuropsichiatria infantile, logopedia ecc. che erano inutili e non risolsero
alcunché. E ciò si sottolinea, quando era ben possibile impiegare esami strumentali per giungere ad
una corretta diagnosi differenziale.
Alla luce di tali considerazioni e facendo datare il danno risarcibile comunque al 19 luglio 2006 invece
che al 4 giugno 2004, nonostante con buona probabilità la sordità fosse già riscontrabile con
appropriati accertamenti fin dal 2004, come dice il dott. (omissis), pare equo partire in termini
monetari agganciandosi all’importo attuale previsto per inabilità temporanea dalle tabelle di Milano,
e dunque partire da euro 145,00 al giorno di ITA, enucleandone il 20% ottenendosi euro 29,00 al
giorno.
Si moltiplica euro 29,00 per il numero dei giorni di ritardata diagnosi e ritardo protesico, 1.430 giorni
(dal 19.7.2006 al 16 giugno 2010 totali quattro anni circa) e si ottiene euro 42.340,00 somma da
devalutare al 19.7.2006 e successivamente rivalutare con indici istat, applicando sulla somma via via
rivalutata, gli interessi al tasso di legge fino al soddisfo, e ciò al fine di liquidare anche il danno da
ritardo (cass. S.u. 1712/95).
A questo importo si aggiunge il danno da perdita di chance, stimato tra il 5 e il 10%, ossia la chance
perduta di acquisire normali performance cognitive; sul punto occorre dire che non è fondata la
deduzione del CRO secondo cui una tale modesta percentuale di chance perduta non abbia dignità
risarcitoria; infatti il 50% più 1 è richiesto nel diverso giudizio di causalità nella produzione di tale
danno da chance perduta, ma non per la risarcibilità della chance, che potrebbe essere anche inferiore
al 50%. A tal riguardo la Suprema corte di Cassazione ha ad es. affermato: Sez. 3 -, Sentenza n. 5641
del 09/03/2018 , Cassando con rinvio, CORTE D’APPELLO ROMA, 15/07/2015 che “In materia
perdita di “chance”, l’attività del giudice deve tenere distinta la dimensione della causalità da quella
dell’evento di danno e deve altresì adeguatamente valutare il grado di incertezza dell’una e dell’altra,
muovendo dalla previa e necessaria indagine sul nesso causale tra la condotta e l’evento, secondo il
criterio civilistico del “più probabile che non”, e procedendo, poi, all’identificazione dell’evento di
danno, la cui riconducibilità al concetto di chance postula una incertezza del risultato sperato, e non
già il mancato risultato stesso, in presenza del quale non è lecito discorrere di una chance perduta, ma
di un altro e diverso danno; ne consegue che, provato il nesso causale rispetto ad un evento di danno
accertato nella sua esistenza e nelle sue conseguenze dannose risarcibili, il risarcimento di quel danno
sarà dovuto integralmente”.
Fatta questa premessa la chance di raggiungimento di normali performance cognitive dal 5 al 10%,
riferita dal CTU esperto in branca e collegata causalmente secondo un giudizio di maggiore
probabilità al ritardo diagnostico e da ritardata protesizzazione, appare meritevole di tutela risarcitoria
afferendo al bene della salute, di valore costituzionale; questa posta risarcibile non è tabellata in alcun
modo, per cui viene qui liquidata equitativamente in un importo di euro 30 mila a valori attuali
agganciati non all’aspettativa di vita di anni 82 per un soggetto maschio, ma dando un valore
monetario equitativo globale alla chance perduta, tenuto conto delle linee guida riferite dal ctu e dai
ctp che indicavano la protesizzazione precoce proprio per garantire un normale sviluppo del
linguaggio e dell’apprendimento francamente compromessi per (omissis) come emerge dalla
descrizione della dott.ssa (omissis) e dal riconoscimento anche ufficiale della sua condizione di
disabilità; infatti, tenuto conto della peculiarità del caso concreto non appaiono utilizzabili le
metodologie liquidatone di cui ai vari precedenti giurisprudenziali esaminati e che riguardano casi
del tutto differenti come ad es. trib. di Firenze n. 1451/2020 Giudice dott. (omissis) (tardiva diagnosi
di malattia ad esito però infausto, e dove fu possibile tener conto dell’aspettativa di vita di soggetto
però deceduto anticipatamente sì da liquidare la perdita di chance sul valore del singolo anno di vita
attendibile); e nemmeno può valere il criterio utilizzato nella sent. Larino 107/2022; Napoli Nord
536/2022 (chance pretensiva) o Corte Appello Firenze 1685/2022.
Quindi non rimane che riconoscere una somma di euro 30.000,00, ricavata dal raffronto coi danni
tabellati e bilanciando l’importanza per la persona del leso, di ciò che con criterio di maggior
probabilità risulta perduto al suo patrimonio “cognitivo” e dunque eminentemente “personologico”,
con possibili ripercussioni su tutta la durata della sua vita, stimabile ad 82 anni secondo i dati istat di
mortalità; qui la chance perduta consiste in minori possibilità di acquisizione da parte di (omissis) di
una piena performance cognitiva, nonostante la patologia della sordità di tipo genetico, di cui risulta
essere affetta anche la madre senza sintomi; il ctu ci spiega che con questo tipo di patologia, la
protesizzazione non svolge un ruolo di cura della malattia, ma di semplice elisione delle conseguenze
sul piano esistenziale, amplificando mediante una protesi la portata dei suoni nel loro ingresso sul
paziente. D’altra parte il grado di sordità accertato a S. sul ragazzo nel 2010 all’età di anni sei, risulta
medio grave, ciò che da un lato esclude di poter affermare che tale sordità compaia improvvisamente
nel 2010, come invece sembra sostenere la dott.ssa (omissis) e suggerisce invece che la sordità
risalisse ad anni addietro (molto probabilmente al 2004 come dice il ctu) o quantomeno al 2006, e
dall’altro lato determina la conclusione che una anticipata protesizzazione avrebbe determinato una
chance del 5/10% di avere una migliore performence cognitiva, performence che comunque viene
riferito essere in buona parte naturalmente preclusa dalla ineliminabile sordità degenerativa del
bimbo, sia pure a progressione non veloce, come dimostra il fatto che i decibell perduti sono simili
alla data di accertamento peritale (anno 2020 n. 58 decibell) rispetto all’anno 2010 (50 decibell) data
accertamento presso la struttura di Siena (perdita di 8 decibell in 10 anni).
Dunque, dovendo esprimere in termini monetari questa modesta chance perduta, si ritiene equo
stimarla appunto in euro 30.000,00, tenuto conto del raffronto con i danni tabellati, e i precedenti
giurisprudenziali sopra indicati; tale somma va devalutata e rivalutata fino al soddisfo, con interessi,
per includere il danno da ritardato pagamento, secondo la sorte delle obbligazioni di valore e la teoria
del rimpiazzo (aestimatio rei e taxatio rei).
Quanto al danno morale/esistenziale richiesto dalla madre (omissis) per aver dovuto assistere per 6
anni alla triste condizione del piccolo (omissis) che a meno di un anno presentava oggettive criticità
nella sua crescita, che potevano essere agevolmente risolte con una tempestiva diagnosi e
protesizzazione, che avrebbe agevolato lo sviluppo del linguaggio e la capacità di apprendimento,
obbiettivamente risultati compromessi come emerge dai test somministrati e dalle conclusioni della
dott.ssa ausiliaria della dott.ssa (omissis) tale danno morale ed esistenziale della madre è meritevole
di tutela, secondo l’attuale sentire sociale, e dunque supera la soglia dell’irrilevanza risarcitoria,
secondo la norma in bianco dell’art. 2043 c.c. soggetta ad interpretazioni storicizzanti e capace
appunto di adattarsi alla coscienza sociale e giuridica di una data epoca storica; appare infatti
meritevole di tutela il prossimo congiunto e nella specie una madre di un piccolo bambino convivente
per il presumibile e documentato (dalle innumerevoli visite del bambino) patema d’animo di una
mamma, che fece di tutto per assicurare al bambino le migliori cure, portandolo di continuo alle visite
e ai trattamenti, senza mai ottenere alcun riscontro, per ben sei anni, in un crescendo di speranze
continuamente deluse, e con una presumibile e crescente angoscia ed inquietudine esistenziale e
sofferenza per la condizione di un figlio di tenera età, di cui non si poteva prevedere la possibilità di
cura. Ebbene si stima equo valutare questo danno morale ed esistenziale della madre, per tutto il
tempo speso inutilmente in percorsi terapeutici del tutto inutili e non risolutori, liquidandole la somma
equitativamente determinata di euro 20 mila da attualizzare con il danno da ritardo, e ciò mediante
un giudizio di raffronto con i danni tabellati alla persona, per casi tuttavia diversi, come la lesione
dell’integrità fisica o i danni ai parenti del macroleso e dunque facendo un bilanciamento dei vari
interessi coinvolti.
Sulla suddivisione delle responsabilità tra i convenuti si recepisce la valutazione del ctu che pone al
50% ciascuna la responsabilità del ritardo diagnostico, perchè da un lato il CRO centro di elevata
specializzazione non è giunto alla corretta diagnosi nel 2004 e nemmeno inescusabilmente nel 2006
e dall’altro lato L’Asl di E. proseguì in un trattamento neuropsichiatrico e logopedico inutile, ben
potendo porre diagnosi differenziale ed evitare anni inutili di un percorso terapeutico inconcludente,
tanto più che emerge dalle annotazioni del personale Asl che il bambino non sentiva.
Le spese legali, di ctu e ctp seguono la soccombenza come in dispositivo tenuto conto della difesa di
più parti e contro più parti.
P.Q.M.
il tribunale
con sentenza che definisce il giudizio
1) condanna le convenute in solido tra loro a risarcire i danni da ritardata diagnosi di sordità,
liquidandoli ad (omissis) in misura pari ad euro 72.340,00 da devalutare al 19.7.2006 e rivalutare con
indici istat dal 19.7.2006 all’effettivo soddisfo, applicando sulla somma via via rivalutata gli interessi
al tasso di legge previsti per il singolo anno di ritardo.
2) Condanna le convenute in solido a risarcire (omissis) il danno morale ed esistenziale causato
dall’omessa diagnosi di sordità del figlio, liquidandolo in euro 20 mila, da devalutare al 19.7.2006 e
rivalutare con indici istat dal 19.7.2006 all’effettivo soddisfo, applicando sulla somma via via
rivalutata gli interessi al tasso di legge previsti per il singolo anno di ritardo.
3) Condanna le convenute a rimborsare agli attori le spese del presente giudizio che liquida in euro
16.923,60 per onorari, oltre accessori di legge, oltre spese vive, oltre spese di ctp e anticipazione del
ctu.
4) Dispone la suddivisione al 50% per ciascuno dei convenuti, degli oneri derivanti dalla presente
sentenza per capitale interessi e spese legali, anche per spese della ctu.

Protezione sussidiaria per le donne vittime di violenza domestica

Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza 16 gennaio 2024 n. 621/21
La Corte di giustizia Ue ha affermato il riconoscimento della protezione sussidiaria per le donne
vittime di violenza domestica o esposte al rischio di subirla.
Una cittadina turca di origine curda aveva chiesto protezione internazionale alla Bulgaria, sebbene
non avesse i requisiti per essere considerata rifugiata categoria dei rifugiati. la questione sollevata
davanti alla Corte di Giustizia dalla Bulgaria riguarda il fatto se sia possibile riconoscere una
protezione sussidiaria per una donna la cui vita era minacciata non da motivi politici, ma da minacce
provenienti dall’ambito familiare.
La richiedente aveva divorziato ponendo fine ad un matrimonio che di fatto le era stato imposto, ma
aveva dovuto abbandonare il suo Paese per sottrarsi alle intimidazioni di morte e di violenze
ricevute dall’ex marito.
Quindi in assenza dei requisiti per ottenere l’asilo politico in una siffatta situazione va riconosciuto
che la persona sia meritevole dell’altra forma di protezione internazionale, cioè quella sussidiaria.
La Corte (Grande Sezione) dichiara:
1) L’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi,
della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o
per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della
protezione riconosciuta, deve essere interpretato nel senso che:
sulla base delle condizioni esistenti nel paese d’origine, possono essere considerate appartenenti a
“un determinato gruppo sociale”, come “motivo di persecuzione” che può condurre al
riconoscimento dello status di rifugiato, tanto le donne di tale paese nel loro insieme quanto gruppi
più ristretti di donne che condividono una caratteristica comune supplementare.
2) L’articolo 9, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 deve essere interpretato nel senso che:
qualora un richiedente alleghi il timore di essere perseguitato nel suo paese d’origine da soggetti
non statuali, non è necessario stabilire un collegamento tra uno dei motivi di persecuzione
menzionati all’articolo 10, paragrafo 1, di detta direttiva e tali atti di persecuzione, se può essere
stabilito un tale collegamento tra uno di detti motivi di persecuzione e la mancanza di protezione
contro tali atti da parte dei soggetti che offrono protezione, di cui all’articolo 7, paragrafo 1, di detta
direttiva.
3) L’articolo 15, lettere a) e b), della direttiva 2011/95 deve essere interpretato nel senso che:
la nozione di “danno grave” ricomprende la minaccia effettiva, gravante sul richiedente, di essere
ucciso o di subire atti di violenza da parte di un membro della sua famiglia o della sua comunità, a
causa della presunta trasgressione di norme culturali, religiose o tradizionali, e che tale nozione può
quindi condurre al riconoscimento dello status di protezione sussidiaria, ai sensi dell’articolo 2,
lettera g), di tale direttiva.
Violenza di genere – Motivi di persecuzione – Appartenenza a un determinato gruppo sociale – Rif.
Leg. Artt. 2, lettera d) ed f); art. 10, paragrafo 1, lettera d); art. 6, lettera c) della Direttiva 2011/95/UE
SENTENZA DELLA CORTE
Grande Sezione
16 gennaio 2024 (*)
“Rinvio pregiudiziale – Spazio di libertà, sicurezza e giustizia – Politica comune in materia di asilo –
Direttiva 2011/95/UE – Condizioni per la concessione dello status di rifugiato – Articolo 2, lettera d)
– Motivi di persecuzione – “Appartenenza a un determinato gruppo sociale” – Articolo 10, paragrafo
1, lettera d) – Atti di persecuzione – Articolo 9, paragrafi 1 e 2 – Collegamento tra i motivi e gli atti di
persecuzione, o tra i motivi di persecuzione e la mancanza di protezione contro tali atti – Articolo 9,
paragrafo 3 – Soggetti non statuali – Articolo 6, lettera c) – Condizioni per la protezione sussidiaria –
Articolo 2, lettera f) – “Danno grave” – Articolo 15, lettere a) e b) – Valutazione delle domande di
protezione internazionale ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato o dello status di
protezione sussidiaria – Articolo 4 – Violenza contro le donne basata sul genere – Violenza domestica
– Minaccia di “delitto d’onore””
Nella causa C-621/21,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo
267 TFUE, dall’Administrativen sad Sofia-grad (Tribunale amministrativo della città di Sofia,
Bulgaria), con decisione del 29 settembre 2021, pervenuta in cancelleria il 6 ottobre 2021, nel
procedimento
Ws.
contro
Intervyuirasht organ na Darzhavna agentsia za bezhantsite pri Ministerskia savet,
con l’intervento di:
Predstavitelstvo na Varhovnia komisar na Organizatsiyata na obedinenite natsii za bezhantsite v
Bulgaria,
LA CORTE
Grande Sezione,
composta da K. Lenaerts, presidente, L. Bay Larsen, vicepresidente, K. Jürimäe, C. Lycourgos, E.
Regan, F. Biltgen e N. Piçarra (relatore), presidenti di sezione, M. Safjan, S. Rodin, P.G. Xuereb, I.
Ziemele, J. Passer, D. Gratsias, M.L. Arastey Sahún e M. Gavalec, giudici,
avvocato generale: J. Ri.de.la.To.
cancelliere: A. Ca.Es.
vista la fase scritta del procedimento,
considerate le osservazioni presentate:
– per Ws., da V.B. Il., advokat;
– per il Predstavitelstvo na Varhovnia komisar na Organizatsiyata na obedinenite natsii za
bezhantsite v Bulgaria, da M. De., J. Ma., BL, e C.F. Kr., advocaat;
– per il governo tedesco, da J. Mö. e R. Ka., in qualità di agenti;
– per il governo francese, da A.-L. De. e J. Il., in qualità di agenti;
– per la Commissione europea, da A. Az. e I. Za., in qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 20 aprile 2023,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione del considerando 17,
dell’articolo 6, lettera c), dell’articolo 9, paragrafo 2, lettere a) e f), dell’articolo 9, paragrafo 3,
dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), nonché dell’articolo 15, lettere a) e b), della direttiva
2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme
sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione
internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della
protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (GU 2011, L 337, pag. 9).
2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra Ws. e l’Intervyuirasht organ
na Darzhavna agentsia za bezhantsite pri Ministerskia savet (Ufficio delle udienze dell’Agenzia
nazionale per i rifugiati presso il Consiglio dei Ministri), (in prosieguo: la “DAB”) in merito a una
decisione recante rifiuto di riavviare una procedura di riconoscimento di protezione internazionale
a seguito di una domanda ulteriore di Ws..
Contesto normativo
Diritto internazionale
Convenzione di Ginevra
3 Ai sensi dell’articolo 1, sezione A, punto 2, della Convenzione relativa allo status dei rifugiati,
firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 [Recueil des traités des Nations unies, vol. 189, pag. 150, n. 2545
(1954)], entrata in vigore il 22 aprile 1954, come integrata dal protocollo relativo allo status dei
rifugiati, concluso a New York il 31 gennaio 1967 ed entrato in vigore il 4 ottobre 1967 (in prosieguo:
la “convenzione di Ginevra”), “[a]i fini della presente Convenzione, il termine “rifugiato” è
applicabile: a chiunque, (…) nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua
religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni
politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non
vuole domandare la protezione di detto Stato”.
CEDAW
4 Ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei
confronti della donna (in prosieguo: la “CEDAW”), adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni
Unite il 18 dicembre 1979, entrata in vigore il 3 settembre 1981 (Recueil des traités des Nations unies,
vol. 1249, n. I – 20378, pag. 13) e di cui tutti gli Stati membri sono parti, “[a]i fini [di tale convenzione],
l’espressione “discriminazione nei confronti della donna” concerne ogni distinzione, esclusione o
limitazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza, o come scopo, di compromettere o
distruggere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, da parte delle donne quale che sia il loro
stato matrimoniale, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico,
sociale, culturale e civile o in ogni altro campo, su una base di parità tra l’uomo e la donna”.
Convenzione di Istanbul
5 L’articolo 2 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la
violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, conclusa a Istanbul l’11 maggio 2011,
firmata dall’Unione europea il 13 giugno 2017, approvata a nome di quest’ultima con decisione (UE)
2023/1076 del Consiglio, del 1º giugno 2023 (GU 2023, L 143 I, pag. 4) (in prosieguo: la “Convenzione
di Istanbul”), ed entrata in vigore, per quanto riguarda l’Unione, il 1º ottobre 2023, prevede quanto
segue:
“1 La presente Convenzione si applica a tutte le forme di violenza contro le donne, compresa la
violenza domestica, che colpisce le donne in modo sproporzionato.
2 Le Parti contraenti sono incoraggiate ad applicare le disposizioni della presente Convenzione a
tutte le vittime di violenza domestica. Nell’applicazione delle disposizioni della presente
Convenzione, le Parti presteranno particolare attenzione alla protezione delle donne vittime di
violenza di genere.
(…)”.
6 L’articolo 60 di tale convenzione, intitolato “Richieste di asilo basate sul genere”, è così formulato:
“1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violenza contro
le donne basata sul genere possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione ai sensi
dell’articolo 1, [sezione] A, [punto 2,] della [Convenzione di Ginevra] e come una forma di grave
pregiudizio che dia luogo a una protezione complementare/sussidiaria.
2 Le Parti si accertano che un’interpretazione sensibile al genere sia applicata a ciascuno dei motivi
della Convenzione, e che nei casi in cui sia stabilito che il timore di persecuzione è basato su uno o
più di tali motivi, sia concesso ai richiedenti asilo lo status di rifugiato, in funzione degli strumenti
pertinenti applicabili.
(…)”.
Diritto dell’Unione
7 I considerando 4, 10, 12, 17, 29, 30 e 34 della direttiva 2011/95 così recitano:
“(4) La convenzione di Ginevra e il relativo protocollo costituiscono la pietra angolare della
disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati.
(…)
(10) (…) è opportuno in questa fase ribadire i principi che ispirano la direttiva 2004/83/CE [del
Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o
apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale,
nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta (GU 2004, L 304, pag. 12),] e
cercare di realizzare un maggiore ravvicinamento delle norme relative al riconoscimento e agli
elementi essenziali della protezione internazionale sulla base di livelli più elevati
(…)
(12) Lo scopo principale della presente direttiva è quello, da una parte, di assicurare che gli Stati
membri applichino criteri comuni per identificare le persone che hanno effettivamente bisogno di
protezione internazionale e, dall’altra, di assicurare che un livello minimo di prestazioni sia
disponibile per tali persone in tutti gli Stati membri.
(…)
(17) Per quanto riguarda il trattamento delle persone che rientrano nell’ambito di applicazione della
presente direttiva, gli Stati membri sono vincolati dagli obblighi previsti dagli strumenti di diritto
internazionale di cui sono parti, tra cui in particolare quelli che vietano le discriminazioni.
(…)
(29) Una delle condizioni per l’attribuzione dello status di rifugiato ai sensi dell’articolo 1 A della
convenzione di Ginevra è l’esistenza di un nesso causale tra i motivi di persecuzione, tra cui razza,
religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale, e gli atti di
persecuzione o la mancanza di protezione contro tali atti.
(30) È altresì necessario introdurre una definizione comune del motivo di persecuzione costituito
dall’”appartenenza a un determinato gruppo sociale”. Per la definizione di un determinato gruppo
sociale, occorre tenere debito conto, degli aspetti connessi al sesso del richiedente, tra cui l’identità
di genere e l’orientamento sessuale, che possono essere legati a determinate tradizioni giuridiche e
consuetudini, che comportano ad esempio le mutilazioni genitali, la sterilizzazione forzata o l’aborto
coatto, nella misura in cui sono correlati al timore fondato del richiedente di subire persecuzioni.
(…)
(34) È necessario introdurre criteri comuni per l’attribuzione, alle persone richiedenti protezione
internazionale, della qualifica di beneficiari della protezione sussidiaria. Tali criteri dovrebbero
essere elaborati sulla base degli obblighi internazionali derivanti da atti internazionali in materia di
diritti dell’uomo e sulla base della prassi esistente negli Stati membri”.
8 Ai sensi dell’articolo 2, lettere a), da d) a i), e n), di tale direttiva:
“Ai fini della presente direttiva, si intende per:
a) “protezione internazionale”: lo status di rifugiato o lo status di protezione sussidiaria quale
definito alle lettere e) e g);
(…)
d) “rifugiato”: cittadino di un paese terzo il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per
motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo
sociale, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole
avvalersi della protezione di detto paese (…);
e) “status di rifugiato”: il riconoscimento, da parte di uno Stato membro, di un cittadino di un paese
terzo o di un apolide quale rifugiato;
f) “persona avente titolo a beneficiare della protezione sussidiaria”: cittadino di un paese terzo o
apolide che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti
sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese di origine, o, nel caso di un apolide,
se ritornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio
effettivo di subire un grave danno come definito all’articolo 15, e al quale non si applica l’articolo
17, paragrafi 1 e 2, e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione
di detto paese;
g) “status di protezione sussidiaria”: il riconoscimento, da parte di uno Stato membro, di un
cittadino di un paese terzo o di un apolide quale persona avente titolo alla protezione sussidiaria;
h) “domanda di protezione internazionale”: una richiesta di protezione rivolta a uno Stato membro
da un cittadino di un paese terzo o da un apolide di cui si può ritenere che intende ottenere lo status
di rifugiato o lo status di protezione sussidiaria, e che non sollecita esplicitamente un diverso tipo
di protezione non contemplato nell’ambito di applicazione della presente direttiva e che possa essere
richiesto con domanda separata;
i) “richiedente”: qualsiasi cittadino di un paese terzo o apolide che abbia presentato una domanda
di protezione internazionale sulla quale non sia stata ancora adottata una decisione definitiva;
(…)
n) “paese di origine”: il paese o i paesi di cui il richiedente è cittadino o, per un apolide, in cui aveva
precedentemente la dimora abituale”.
9 Al capo II della direttiva in parola, intitolato “Valutazione delle domande di protezione
internazionale”, l’articolo 4 intitolato “Esame dei fatti e delle circostanze”, ai paragrafi 3 e 4, così
dispone:
“3. L’esame della domanda di protezione internazionale deve essere effettuato su base individuale e
prevede la valutazione:
a) di tutti i fatti pertinenti che riguardano il paese d’origine al momento dell’adozione della decisione
in merito alla domanda, comprese le disposizioni legislative e regolamentari del paese d’origine e le
relative modalità di applicazione;
b) delle dichiarazioni e della documentazione pertinenti presentate dal richiedente che deve anche
render noto se ha già subito o rischia di subire persecuzioni o danni gravi;
c) della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, in particolare
l’estrazione, il sesso e l’età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente,
gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave;
(…)
Il fatto che un richiedente abbia già subito persecuzioni o danni gravi o minacce dirette di siffatte
persecuzioni o danni costituisce un serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire
persecuzioni o del rischio effettivo di subire danni gravi, a meno che vi siano buoni motivi per
ritenere che tali persecuzioni o danni gravi non si ripeteranno”.
10 L’articolo 6 della medesima direttiva, intitolato “Responsabili della persecuzione o del danno
grave”, prevede quanto segue:
“I responsabili della persecuzione o del danno grave possono essere:
a) lo Stato;
b) i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio;
c) soggetti non statuali, se può essere dimostrato che i responsabili di cui alle lettere a) e b), comprese
le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire la protezione contro
persecuzioni o danni gravi di cui all’articolo 7”.
11 L’articolo 7 della direttiva 2011/95, intitolato “Soggetti che offrono protezione”, è così formulato:
“1. La protezione contro persecuzioni o danni gravi può essere offerta esclusivamente:
a) dallo Stato; oppure
b) dai partiti o organizzazioni, comprese le organizzazioni internazionali, che controllano lo Stato o
una parte consistente del suo territorio,
a condizione che abbiano la volontà e la capacità di offrire protezione conformemente al paragrafo
2.
La protezione contro persecuzioni o danni gravi è effettiva e non temporanea. Tale protezione è in
generale fornita se i soggetti di cui al paragrafo 1, lettere a) e b), adottano adeguate misure per
impedire che possano essere inflitti atti persecutori o danni gravi, avvalendosi tra l’altro di un
sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti
che costituiscono persecuzione o danno grave e se il richiedente ha accesso a tale protezione.
(…)”.
12 L’articolo 9 della medesima direttiva, intitolato “Atti di persecuzione”, così dispone:
“1. Sono atti di persecuzione ai sensi dell’articolo 1 A della [C]onvenzione di Ginevra gli atti che:
a) sono, per loro natura o frequenza, sufficientemente gravi da rappresentare una violazione grave
dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa a norma
dell’articolo 15, paragrafo 2, della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali[, firmata a Roma, il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la “CEDU”]; oppure
b) costituiscono la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia
sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lettera a).
Gli atti di persecuzione che rientrano nella definizione di cui al paragrafo 1 possono, tra l’altro,
assumere la forma di:
a) atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale;
(…)
f) atti specificamente diretti contro un sesso (…)
In conformità dell’articolo 2, lettera d), i motivi di cui all’articolo 10 devono essere collegati agli atti
di persecuzione quali definiti al paragrafo 1 del presente articolo o alla mancanza di protezione
contro tali atti”.
13 Ai sensi dell’articolo 10 di detta direttiva, intitolato “Motivi di persecuzione”:
“1. Nel valutare i motivi di persecuzione, gli Stati membri tengono conto dei seguenti elementi:
(…)
d) si considera che un gruppo costituisce un particolare gruppo sociale in particolare quando:
– i membri di tale gruppo condividono una caratteristica innata o una storia comune che non può
essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per
l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi, e
– tale gruppo possiede un’identità distinta nel paese di cui trattasi, perché vi è percepito come
diverso dalla società circostante.
In funzione delle circostanze nel paese d’origine, un particolare gruppo sociale può includere un
gruppo fondato sulla caratteristica comune dell’orientamento sessuale. L’interpretazione
dell’espressione “orientamento sessuale” non può includere atti penalmente rilevanti ai sensi del
diritto interno degli Stati membri. Ai fini della determinazione dell’appartenenza a un determinato
gruppo sociale o dell’individuazione delle caratteristiche proprie di tale gruppo, si tiene debito conto
delle considerazioni di genere, compresa l’identità di genere;
(…)
Nell’esaminare se un richiedente abbia un timore fondato di essere perseguitato è irrilevante che il
richiedente possegga effettivamente le caratteristiche (…) sociali (…) che provocano gli atti di
persecuzione, purché una siffatta caratteristica gli venga attribuita dall’autore delle persecuzioni”.
14 L’articolo 13 della medesima direttiva, intitolato “Riconoscimento dello status di rifugiato”,
prevede quanto segue:
“Gli Stati membri riconoscono lo status di rifugiato al cittadino di un paese terzo o all’apolide aventi
titolo al riconoscimento dello status di rifugiato in conformità dei capi II e III”.
15 L’articolo 15 della direttiva 2011/95, intitolato “Danno grave”, così dispone:
“Sono considerati danni gravi:
a) la pena di morte o l’essere giustiziato; o
b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel
suo paese di origine; (…)
(…)”.
16 L’articolo 18 di tale direttiva, intitolato “Riconoscimento dello status di protezione sussidiaria”, è
così formulato:
“Gli Stati membri riconoscono lo status di protezione sussidiaria a un cittadino di un paese terzo o a
un apolide aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria in conformità dei capi II e V”.
Diritto bulgaro
17 Dalla decisione di rinvio emerge che l’articolo 8, paragrafi 1, da 3 a 5 e 7, dello Zakon za
ubezhishteto i bezhantsite (legge sull’asilo e sui rifugiati; in prosieguo: lo “ZUB”) traspone
nell’ordinamento giuridico bulgaro l’articolo 2, lettera d), nonché gli articoli 6, 7 e 9 della direttiva
2011/95 e che l’articolo 9, paragrafo 1, di tale legge traspone l’articolo 15 di tale direttiva.
18 Il paragrafo 1, punto 5, delle disposizioni complementari dello ZUB, nella versione vigente dal 16
ottobre 2015 (DV n. 80 del 2015), precisa che “[l] e nozioni di “razza, religione, nazionalità, particolare
gruppo sociale e opinioni o convinzioni politiche” sono quelle ai sensi della [Convenzione di
Ginevra] e dell’articolo 10, paragrafo 1, della direttiva [2011/95]”.
Procedimento principale e questioni pregiudiziali
19 Ws. è una cittadina turca appartenente al gruppo etnico curdo, musulmana sunnita e divorziata.
È giunta legalmente in Bulgaria nel giugno 2018. Successivamente, essa ha raggiunto un suo
familiare a Berlino (Germania), dove ha presentato una domanda di protezione internazionale. Con
decisione della DAB del 28 febbraio 2019, adottata a seguito di una domanda delle autorità tedesche,
Ws. è stata ripresa in carico dalle autorità bulgare ai fini dell’esame della sua domanda di protezione
internazionale.
20 In occasione di tre interrogatori effettuati dalla DAB nell’ottobre 2019, Ws. ha dichiarato di essere
stata costretta a contrarre matrimonio, all’età di sedici anni, e di aver avuto tre figlie. Il coniuge
l’avrebbe picchiata nel corso della loro vita coniugale, senza che la sua famiglia biologica, che era a
conoscenza di tale situazione, l’abbia aiutata. Ws. sarebbe fuggita dal domicilio coniugale nel
settembre 2016, avrebbe contratto matrimonio religioso nel 2017 e avrebbe avuto un figlio, nato da
tale matrimonio, nel maggio 2018. Dopo aver lasciato la Turchia, avrebbe divorziato ufficialmente
dal suo primo marito nel settembre 2018, nonostante l’opposizione di quest’ultimo. Per tali motivi,
essa ha espresso il timore di essere uccisa dalla sua famiglia nel caso in cui fosse tornata in Turchia.
21 Dinanzi alla DAB, Ws. ha prodotto la decisione, divenuta definitiva, del tribunale civile turco che
ha pronunciato il suo divorzio, nonché la denuncia da essa presentata nei confronti del marito, della
sua famiglia biologica e della famiglia di suo marito, nel gennaio 2017, presso la procura generale di
Torbali (Turchia), il cui verbale, redatto il 9 gennaio 2017, menziona messaggi telefonici di minaccia
che il marito le avrebbe inviato. Essa ha altresì prodotto una decisione del 30 giugno 2017 di un
tribunale turco che la collocava in una casa di accoglienza per donne vittime di violenza, nella quale
non si sarebbe sentita al sicuro.
22 Con decisione del 21 maggio 2020, il presidente della DAB ha respinto la domanda di protezione
internazionale presentata da Ws., ritenendo, da un lato, che i motivi invocati da quest’ultima per
lasciare la Turchia, in particolare gli atti di violenza domestica e le minacce di morte da parte del
coniuge e dei membri della sua famiglia biologica, non fossero pertinenti ai fini del riconoscimento
di tale status, nella misura in cui non potevano essere collegati ad alcuno dei motivi di persecuzione
di cui all’articolo 8, paragrafo 1, dello ZUB. Inoltre, Ws. non avrebbe dichiarato di essere vittima di
atti di persecuzione a causa del suo sesso.
23 Dall’altro lato, il presidente della DAB ha negato a Ws. il riconoscimento dello status di protezione
sussidiaria. Esso ha ritenuto che quest’ultima non soddisfacesse le condizioni richieste a tal fine, nei
limiti in cui “né le autorità ufficiali né determinati gruppi avrebbero intrapreso contro la richiedente
azioni che lo Stato non è in grado di controllare” e nei limiti in cui essa “sarebbe stata oggetto di
aggressioni criminali di cui non aveva neppure informato la polizia e per le quali non aveva sporto
denuncia e (…) avrebbe lasciato legalmente la Turchia”.
24 Con sentenza del 15 ottobre 2020, confermata il 9 marzo 2021 dal Varhoven administrativen sad
(Corte suprema amministrativa, Bulgaria) e divenuta definitiva, l’Administrativen sad Sofia-grad
(Tribunale amministrativo della città di Sofia, Bulgaria) ha respinto il ricorso proposto da Ws.
avverso la decisione menzionata al punto 22 della presente sentenza.
25 Il 13 aprile 2021 Ws. ha presentato, sulla base di nuovi elementi di prova, un’ulteriore domanda
di protezione internazionale, facendo valere fondati timori di persecuzione, da parte di soggetti non
statuali, a causa della sua appartenenza a un “determinato gruppo sociale”, ossia quello delle donne
vittime di violenza domestica nonché delle donne che possono essere vittime di “delitti d’onore”.
Essa ha affermato che lo Stato turco non era in grado di difenderla contro tali soggetti non statuali e
ha sostenuto che il suo respingimento in Turchia l’esporrebbe a un “delitto d’onore” o a un
matrimonio forzato e, di conseguenza, a una violazione degli articoli 2 e 3 della CEDU.
26 A sostegno di tale domanda, Ws. ha prodotto, quale nuovo elemento di prova, una decisione di
un tribunale penale turco che condannava il suo ex marito a una pena privativa della libertà di
cinque mesi per il reato di minacce perpetrate nei suoi confronti nel settembre 2016. Tale pena è stata
accompagnata dalla sospensione dell’esecuzione e da un periodo di prova di cinque anni, tenuto
conto dell’assenza di precedenti condanne, di caratteristiche personali e dell’accettazione di detta
pena. Essa ha allegato a detta domanda alcuni articoli del giornale Deutsche Welle risalenti al 2021
e che riportavano brutali uccisioni di donne in Turchia. Inoltre, come nuova circostanza, Ws. ha
invocato il ritiro della Repubblica di Turchia dalla Convenzione di Istanbul nel marzo 2021.
27 Con decisione del 5 maggio 2021, la DAB ha rifiutato di riaprire la procedura di riconoscimento
della protezione internazionale a seguito dell’ulteriore domanda di Ws., per il motivo che
quest’ultima non avrebbe dedotto alcun elemento nuovo importante relativo alla sua situazione
personale o al suo Stato d’origine. La DAB ha sottolineato che le autorità turche l’avrebbero aiutata
in diverse occasioni e si sarebbero dichiarate pronte ad assisterla con tutti i mezzi legali.
28 Il giudice del rinvio precisa innanzitutto che, anche se la domanda ulteriore di protezione
internazionale presentata da Ws. è stata respinta in quanto irricevibile, l’interpretazione delle
condizioni di diritto sostanziale per il riconoscimento della protezione internazionale è comunque
necessaria per consentirgli di stabilire se Ws. abbia dedotto elementi o fatti nuovi che giustificano la
concessione di una siffatta protezione.
29 A tal riguardo, essa rileva che la Corte non ha mai statuito sulle questioni sollevate dalla presente
causa, “relativ[e] a violenze contro le donne, fondate sul genere, sotto forma di violenza domestica
e di minaccia di delitto d’onore, come motivo della concessione di protezione internazionale”. Tale
giudice si chiede se, per constatare se una donna, vittima di tali violenze, appartenga a un
determinato gruppo sociale, come motivo di persecuzione, ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1,
lettera d), della direttiva 2011/95, il genere biologico o sociale sia sufficiente e se gli atti di
persecuzione, inclusa la violenza domestica, possano risultare decisivi per stabilire la visibilità di
tale gruppo nella società.
30 In tale contesto, il giudice del rinvio chiede, innanzitutto, se, ai fini dell’interpretazione di tale
disposizione e tenuto conto del considerando 17 della direttiva 2011/95, si debbano prendere in
considerazione la CEDAW e la Convenzione di Istanbul, sebbene la Repubblica di Bulgaria non sia
parte di quest’ultima convenzione.
31 Tale giudice osserva che gli atti elencati agli articoli da 34 a 40 della Convenzione di Istanbul, vale
a dire, in particolare, la violenza fisica o sessuale, i matrimoni forzati o le molestie, rientrano
nell’ambito delle violenze contro le donne fondate sul genere che sono menzionate, in modo non
esaustivo, al considerando 30 della direttiva 2011/95 e possono essere qualificate come “atti di
persecuzione”, ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, lettere a) e f), di tale direttiva.
32 Il giudice del rinvio chiede poi come debba essere interpretato l’articolo 9, paragrafo 3, della
direttiva 2011/95 nel caso in cui gli atti di persecuzione fondati sul genere, che assumono la forma
di violenza domestica, siano commessi da soggetti non statuali, ai sensi dell’articolo 6, lettera c), di
tale direttiva. Esso chiede, in particolare, se il collegamento richiesto da tale articolo 9, paragrafo 3,
presupponga che i soggetti non statuali riconoscano che gli atti di persecuzione da essi commessi
sono determinati dal genere biologico o sociale delle vittime di tali atti.
33 Infine, nel caso in cui non fosse dimostrata l’appartenenza a “un determinato gruppo sociale”, ai
sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2011/95, di una donna vittima di violenza
domestica e che può essere vittima di un delitto d’onore, il giudice del rinvio sottolinea che Ws.
potrebbe essere respinta verso il suo paese d’origine solo dopo che sia stato accertato che tale
respingimento non l’esporrebbe a un rischio effettivo di subire un “grave danno”, ai sensi
dell’articolo 2, lettera f), di tale direttiva. In tale contesto, esso chiede, in particolare, se una minaccia
di “delitto d’onore” costituisca un rischio effettivo di danno grave rientrante nell’ambito di
applicazione dell’articolo 15, lettera a), di detta direttiva, in combinato disposto con l’articolo 2 della
CEDU, o dell’articolo 15, lettera b), della medesima direttiva, in combinato disposto con l’articolo 3
della CEDU.
34 In tali circostanze, l’Administrativen sad Sofia-grad (Tribunale amministrativo della città di Sofia)
ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
“1) Se, ai fini della classificazione della violenza contro le donne basata sul genere e della violenza
domestica come motivo per il riconoscimento della protezione internazionale ai sensi della
[Convenzione di Ginevra] e della direttiva [2011/95], trovino applicazione, in conformità del
considerando 17 della direttiva [2011/95], le definizioni e nozioni della [CEDAW] e della
[Convenzione di Istanbul] o se la violenza contro le donne basata sul genere, come motivo per il
riconoscimento della protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95, abbia una portata
autonoma, distinta da quella definita nei citati strumenti di diritto internazionale.
2) Qualora, nel caso in cui venga fatto valere l’esercizio di violenza contro le donne basata sul genere,
ai fini di accertare l’appartenenza a un [determinato] gruppo sociale come motivo di persecuzione
ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva [2011/95], si faccia riferimento
esclusivamente al genere biologico o sociale della vittima (violenza nei confronti di una donna, solo
perché è una donna)[; ] se forme/azioni/atti concreti di persecuzione quali quelli elencati in modo
non esaustivo al considerando 30 della direttiva [2011/95] possano risultare decisivi per la “visibilità
del gruppo nella società”, ossia possano rappresentare un criterio distintivo di detto gruppo, in
funzione delle circostanze nel paese di origine, o se tali azioni si riferiscano solo ad atti di
persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera a) o f), della direttiva [2011/95].
3) Se il genere biologico o sociale, qualora la persona che chiede protezione denunci atti di violenza
basata sul genere sotto forma di violenza domestica, costituisca un motivo sufficiente per constatare
l’appartenenza a un particolare gruppo sociale ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della
direttiva [2011/95], o se si debba accertare un ulteriore criterio distintivo, interpretando fedelmente
in base al suo tenore letterale [tale disposizione], secondo cui i requisiti sono cumulativi e gli aspetti
inerenti al genere sono presenti alternativamente.
4) Se, nel caso in cui il richiedente faccia valere di aver subito da parte di un soggetto non statale,
responsabile della persecuzione ai sensi dell’articolo 6, lettera c), della direttiva [2011/95], atti di
violenza basata sul genere sotto forma di violenza domestica, l’articolo 9, paragrafo 3, della direttiva
[2011/95] debba essere interpretato nel senso che, per il nesso causale, è sufficiente accertare un nesso
tra i motivi di persecuzione menzionati all’articolo 10 e gli atti di persecuzione di cui al[l’articolo 9,]
paragrafo 1, [di detta direttiva] o se si debba necessariamente accertare la mancanza di protezione
contro la persecuzione denunciata, ovvero se il nesso sussista in quei casi in cui i soggetti non statali
responsabili della persecuzione non ritengono che i singoli atti di persecuzione/violenza di per sé
siano basati sul genere.
5) Se l’effettiva minaccia di compimento di un delitto d’onore nel caso di un eventuale rientro nel
paese di origine possa fondare, in presenza dei rimanenti requisiti in tal senso, la concessione della
protezione sussidiaria ai sensi dell’articolo 15, lettera a), della direttiva [2011/95] in combinato
disposto con l’articolo 2 della [CEDU] (…), o se tale minaccia debba essere classificata come danno
ai sensi dell’articolo 15, lettera b), della direttiva [2011/95] in combinato disposto con l’articolo 3 della
CEDU, come interpretato nella giurisprudenza della [Corte EDU] in una valutazione complessiva
del pericolo di altri atti di violenza basata sul genere, oppure se sia sufficiente ai fini della
concessione di tale protezione che soggettivamente la persona richiedente non voglia avvalersi della
protezione del paese di origine”.
Sulle questioni pregiudiziali
Sulle prime tre questioni
35 Con le sue prime tre questioni, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio
chiede, in sostanza, se l’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2011/95 debba essere
interpretato nel senso che, sulla base delle condizioni esistenti nel paese d’origine, le donne di tale
paese, nel loro insieme, possono essere considerate appartenenti a “un determinato gruppo sociale”,
a titolo di “motivo di persecuzione” che può condurre al riconoscimento dello status di rifugiato,
oppure se le donne di cui trattasi debbano condividere una caratteristica comune supplementare al
fine di appartenere a un siffatto gruppo.
36 In via preliminare, dai considerando 4 e 12 della direttiva 2011/95 risulta che la Convenzione di
Ginevra costituisce la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla
protezione dei rifugiati e che tale direttiva è stata adottata, in particolare, affinché tutti gli Stati
membri applichino criteri comuni per identificare le persone che hanno effettivamente bisogno di
protezione internazionale [sentenza del 19 novembre 2020, Bundesamt für Migration und
Flüchtlinge (Servizio militare e asilo), C-238/19, EU:C:2020:945, punto 19].
37 L’interpretazione delle disposizioni della direttiva 2011/95 deve pertanto essere effettuata non
solo alla luce dell’impianto sistematico e della finalità di tale direttiva, ma altresì nel rispetto della
Convenzione di Ginevra e degli altri trattati pertinenti di cui all’articolo 78, paragrafo 1, TFUE. Fra
tali trattati figurano, come emerge dal considerando 17 di detta direttiva, quelli che vietano la
discriminazione per quanto riguarda il trattamento delle persone che rientrano nell’ambito di
applicazione della medesima direttiva [v., in tal senso, sentenze del 26 febbraio 2015, Shepherd, C-
472/13, EU:C:2015:117, punto 23, e del 19 novembre 2020, Bundesamt für Migration und Flüchtlinge
(Servizio militare e asilo), C-238/19, EU:C:2020:945, punto 20].
38 In tale contesto, alla luce del ruolo affidato all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
rifugiati (UNHCR) dalla Convenzione di Ginevra, i documenti emessi da quest’ultimo godono di
una pertinenza particolare [v., in tal senso, sentenze del 23 maggio 2019, Bilali, C-720/17,
EU:C:2019:448, punto 57, e del 12 gennaio 2023, Migracijos departamentas (Motivi di persecuzione
basati su opinioni politiche), C-280/21, EU:C:2023:13, punto 27].
39 Conformemente all’articolo 2, lettera d), della direttiva 2011/95, che riproduce l’articolo 1, sezione
A, punto 2, della Convenzione di Ginevra, si intende per “rifugiato”, in particolare, il cittadino di un
paese terzo il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione,
nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal
paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della
protezione di detto paese. L’articolo 10, paragrafo 1, di tale direttiva elenca, per ciascuno di tali
cinque motivi di persecuzione che possono condurre al riconoscimento dello status di rifugiato,
elementi di cui gli Stati membri devono tener conto.
40 Per quanto riguarda, in particolare, il motivo dell’”appartenenza ad un determinato gruppo
sociale”, da tale articolo 10, paragrafo 1, lettera d), primo comma, emerge che un gruppo è
considerato come un “determinato gruppo sociale” quando sono soddisfatte due condizioni
cumulative. Innanzitutto, i membri del gruppo devono condividere almeno uno dei tre aspetti
identificativi seguenti, ossia una “caratteristica innata”, una “storia comune che non può essere
mutata”, oppure una “caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza
che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi”. Tale gruppo deve poi possedere
un’”identità distinta” nel paese d’origine “perché vi è percepito come diverso dalla società
circostante”.
41 Inoltre, il secondo comma di detto articolo 10, paragrafo 1, lettera d), precisa, tra l’altro, che “[a]i
fini della determinazione dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale o dell’individuazione
delle caratteristiche proprie di tale gruppo, si tiene debito conto delle considerazioni di genere,
compresa l’identità di genere”. Tale disposizione deve essere letta alla luce del considerando 30 della
direttiva 2011/95, secondo cui l’identità di genere può essere legata a determinate tradizioni
giuridiche o consuetudini, che comportano ad esempio le mutilazioni genitali, la sterilizzazione
forzata o l’aborto coatto.
42 Inoltre, il punto 30 delle linee guida dell’UNHCR sulla protezione internazionale n. 1, relative
alla persecuzione di genere nel contesto dell’articolo 1, sezione A, punto 2, della Convenzione di
Ginevra, precisa, per quanto riguarda la nozione di “gruppo sociale” di cui a tale convenzione e
definita all’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2011/95, che “la caratteristica del sesso
può essere correttamente collocata nella categoria di gruppo sociale, con le donne che costituiscono
un chiaro esempio di sottoinsieme sociale definito da caratteristiche innate e immutabili e che sono
di frequente trattate in maniera differente rispetto agli uomini. (…) Le loro caratteristiche inoltre le
identificano come gruppo in una società, rendendole soggette, in alcuni paesi, a trattamenti e
standard differenti”.
43 È alla luce di tali precisazioni preliminari che si deve rispondere alle questioni sollevate dal
giudice del rinvio.
44 In primo luogo, tenuto conto dei dubbi espressi da tale giudice quanto alla pertinenza della
CEDAW e della Convenzione di Istanbul ai fini dell’interpretazione dell’articolo 10, paragrafo 1,
lettera d), della direttiva 2011/95, occorre precisare, da un lato, che, sebbene l’Unione non sia parte
della prima convenzione, tutti gli Stati membri l’hanno però ratificata. La CEDAW figura quindi tra
i trattati pertinenti di cui all’articolo 78, paragrafo 1, TFUE, nel rispetto dei quali tale direttiva, in
particolare l’articolo 10, paragrafo 1, lettera d) di quest’ultima, deve essere interpretata.
45 Inoltre, secondo il considerando 17 della direttiva in parola, per quanto riguarda il trattamento
delle persone che rientrano nell’ambito di applicazione di quest’ultima, gli Stati membri sono
vincolati dagli obblighi previsti dagli strumenti di diritto internazionale di cui sono parti, tra cui in
particolare quelli che vietano le discriminazioni, come la CEDAW. Il Comitato per l’eliminazione
della discriminazione nei confronti della donna, incaricato di monitorare l’applicazione della
CEDAW, ha precisato che tale convenzione rafforza e completa il regime internazionale di
protezione giuridica applicabile alle donne e alle ragazze, anche nel contesto relativo ai rifugiati.
46 Dall’altro lato, per quanto riguarda la Convenzione di Istanbul che vincola l’Unione dal 1º ottobre
2023, occorre sottolineare che tale convenzione enuncia obblighi rientranti nell’ambito di
applicazione dell’articolo 78, paragrafo 2, TFUE, che conferisce al legislatore dell’Unione il potere di
adottare misure relative a un sistema europeo comune di asilo, quali la direttiva 2011/95 [v., in tal
senso, parere 1/19 (Convenzione di Istanbul), del 6 ottobre 2021, EU:C:2021:832, punti 294, 302 e 303].
Pertanto, detta convenzione, nei limiti in cui presenta un collegamento con l’asilo e il non-
refoulement, fa anch’essa parte dei trattati pertinenti di cui all’articolo 78, paragrafo 1, TFUE.
47 In tali circostanze, occorre interpretare le disposizioni di tale direttiva, in particolare l’articolo 10,
paragrafo 1, lettera d), di quest’ultima, nel rispetto della Convenzione di Istanbul, anche se taluni
Stati membri, tra cui la Repubblica di Bulgaria, non hanno ratificato detta convenzione.
48 Al riguardo, si deve rilevare, da un lato, che l’articolo 60, paragrafo 1, della Convenzione di
Istanbul dispone che la violenza contro le donne basata sul genere deve essere riconosciuta come
una forma di persecuzione ai sensi dell’articolo 1, sezione A, punto 2, della Convenzione di Ginevra.
Dall’altro lato, tale articolo 60, paragrafo 2, impone alle parti di accertarsi che un’interpretazione
sensibile al genere sia applicata a ciascuno dei motivi di persecuzione previsti dalla Convenzione di
Ginevra, e che nei casi in cui sia stabilito che il timore di persecuzione è basato su uno o più di tali
motivi, sia riconosciuto ai richiedenti asilo lo status di rifugiato.
49 In secondo luogo, per quanto riguarda la prima condizione di identificazione di un “determinato
gruppo sociale”, prevista all’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), primo comma, della direttiva 2011/95
e rammentata al punto 40 della presente sentenza, vale a dire quella di condividere almeno uno dei
tre aspetti identificativi di cui a tale disposizione, occorre rilevare che il fatto di appartenere al sesso
femminile costituisce una caratteristica innata ed è, di conseguenza, sufficiente a soddisfare tale
condizione.
50 Ciò non esclude che anche donne che condividono un aspetto comune supplementare come, ad
esempio, un’altra caratteristica innata, o una storia comune che non può essere mutata, quale una
situazione familiare particolare, oppure una caratteristica o una fede che è così fondamentale per
l’identità o la coscienza che tali donne non dovrebbero essere costrette a rinunciarvi, possano
appartenere a un “determinato gruppo sociale”, ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della
direttiva 2011/95.
51 Alla luce delle informazioni contenute nella decisione di rinvio, si deve rilevare, in particolare,
che il fatto che delle donne si siano sottratte a un matrimonio forzato o, nel caso di donne sposate,
abbiano abbandonato il tetto coniugale, può essere considerato una “storia comune che non può
essere mutata”, ai sensi di tale disposizione.
52 In terzo luogo, per quanto riguarda la seconda condizione di identificazione di un “determinato
gruppo sociale”, relativa alla “identità distinta” del gruppo nel paese d’origine, si deve rilevare che
le donne possono essere percepite in modo diverso dalla società circostante e può essere riconosciuta
loro un’identità distinta in tale società, in ragione, in particolare, di norme sociali, morali o giuridiche
vigenti nel loro paese d’origine.
53 Tale seconda condizione d’identificazione è soddisfatta anche nel caso di donne che condividono
una caratteristica comune supplementare, come una di quelle menzionate ai punti 50 e 51 della
presente sentenza, quando le norme sociali, morali o giuridiche vigenti nel loro paese d’origine
hanno come conseguenza che tali donne, in ragione di tale caratteristica comune, sono percepite
come diverse dalla società circostante.
54 In tale contesto, occorre precisare che spetta allo Stato membro interessato determinare quale
società circostante sia pertinente per valutare l’esistenza di tale gruppo sociale. Tale società può
coincidere con l’intero paese terzo di origine del richiedente protezione internazionale o essere più
circoscritta, ad esempio a una parte del territorio o della popolazione di tale paese terzo.
55 In quarto luogo, nei limiti in cui il giudice del rinvio chiede alla Corte se atti come quelli di cui al
considerando 30 della direttiva 2011/95 possano essere presi in considerazione al fine di determinare
l’identità distinta di un “gruppo sociale”, ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), di tale
direttiva, si deve precisare che l’appartenenza a un determinato gruppo sociale deve essere
constatata indipendentemente dagli atti di persecuzione, ai sensi dell’articolo 9 di detta direttiva, di
cui i membri di tale gruppo possono essere vittime nel paese d’origine.
56 Ciò nondimeno una discriminazione o una persecuzione subita da persone che condividono una
caratteristica comune può costituire un fattore pertinente quando, al fine di verificare se sia
soddisfatta la seconda condizione di identificazione di un gruppo sociale prevista all’articolo 10,
paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2011/95, si deve valutare se il gruppo di cui trattasi risulti
distinto alla luce delle norme sociali, morali o giuridiche del paese d’origine di cui trattasi. Tale
interpretazione è corroborata dal punto 14 delle linee guida dell’UNHCR in materia di protezione
internazionale n. 2, relative alla “appartenenza ad un determinato gruppo sociale” ai sensi
dell’articolo 1, sezione A, punto 2, della Convenzione di Ginevra.
57 Di conseguenza, le donne, nel loro insieme, possono essere considerate come appartenenti a un
“determinato gruppo sociale”, ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2011/95,
qualora sia accertato che, nel loro paese d’origine, esse sono, a causa del loro sesso, esposte a violenze
fisiche o mentali, incluse violenze sessuali e violenze domestiche.
58 Come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 79 delle sue conclusioni, le donne che rifiutano
un matrimonio forzato, allorquando una tale prassi può essere considerata una norma sociale
all’interno della loro società, o trasgrediscono una siffatta norma ponendo fine a tale matrimonio,
possono essere considerate appartenenti a un gruppo sociale con un’identità distinta nel loro paese
d’origine, se, a causa di tali comportamenti, esse sono stigmatizzate ed esposte alla riprovazione
della società circostante che porta alla loro esclusione sociale o ad atti di violenza.
59 In quinto luogo, ai fini della valutazione di una domanda di protezione internazionale basata
sull’appartenenza a un determinato gruppo sociale, spetta allo Stato membro interessato verificare
se la persona che invoca tale motivo di persecuzione abbia “il timore fondato” di essere perseguitata,
nel suo paese d’origine, a motivo di tale appartenenza, ai sensi dell’articolo 2, lettera d), della
direttiva 2011/95.
60 Al riguardo, conformemente all’articolo 4, paragrafo 3, di tale direttiva, la valutazione della
fondatezza del timore di un richiedente di essere perseguitato deve avere carattere individuale ed
essere effettuata caso per caso con vigilanza e prudenza, fondandosi unicamente su una valutazione
concreta dei fatti e delle circostanze conformemente alle disposizioni enunciate, non solo in tale
paragrafo 3, ma anche al paragrafo 4 di tale articolo, al fine di determinare se i fatti e le circostanze
accertati costituiscano una minaccia tale da far fondatamente temere alla persona interessata, alla
luce della sua situazione individuale, di essere effettivamente vittima di atti di persecuzione qualora
dovesse tornare nel suo paese d’origine [v., in tal senso, sentenza del 21 settembre 2023,
Staatssecretaris van Veiligheid en Justitie (Opinioni politiche nello Stato membro ospitante), C-
151/22, EU:C:2023:688, punto 42 e giurisprudenza ivi citata].
61 A tal fine, come indicato al punto 36, lettera x), delle linee guida dell’UNHCR sulla protezione
internazionale n. 1, dovrebbero essere raccolte le informazioni relative al paese d’origine rilevanti
per la valutazione delle domande di riconoscimento dello status di rifugiato presentate dalle donne,
quali la posizione delle donne davanti alla legge, i loro diritti politici, sociali ed economici, i costumi
culturali e sociali del paese e le conseguenze nel caso non vi aderiscano, la frequenza di pratiche
tradizionali dannose, l’incidenza e le forme di violenza segnalate contro le donne, la protezione
disponibile per loro, la pena imposta agli autori della violenza e i rischi che una donna potrebbe
dover affrontare al suo ritorno nel paese d’origine dopo aver inoltrato una siffatta domanda.
62 Alla luce della motivazione che precede, occorre rispondere alle prime tre questioni dichiarando
che l’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2011/95 deve essere interpretato nel senso che,
sulla base delle condizioni esistenti nel paese d’origine, possono essere considerate appartenenti a
“un determinato gruppo sociale”, come “motivo di persecuzione” che può condurre al
riconoscimento dello status di rifugiato, tanto le donne di tale paese nel loro insieme quanto gruppi
più ristretti di donne che condividono una caratteristica comune supplementare.
Sulla quarta questione
63 Con la sua quarta questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 9, paragrafo 3,
della direttiva 2011/95 debba essere interpretato nel senso che esso impone, qualora un richiedente
alleghi il timore di essere perseguitato, nel suo paese d’origine, da soggetti non statuali, che sia
stabilito, in tutti i casi, un collegamento tra gli atti di persecuzione e almeno uno dei motivi di
persecuzione menzionati all’articolo 10, paragrafo 1, di tale direttiva.
64 Occorre anzitutto precisare che, in forza dell’articolo 6, lettera c), della direttiva 2011/95, affinché
soggetti non statuali possano essere qualificati come “responsabili della persecuzione o del danno
grave”, deve essere dimostrato che i soggetti che offrono protezione, di cui all’articolo 7 di tale
direttiva, tra cui in particolare lo Stato, non possono o non vogliono fornire la protezione contro tali
atti. Come sottolineato dall’avvocato generale al paragrafo 87 delle sue conclusioni, da tale articolo
7, paragrafo 1, risulta che i soggetti che offrono protezione devono avere non solo la capacità, ma
anche la volontà di proteggere il richiedente contro tali persecuzioni o danni gravi a cui è esposto.
65 Conformemente a detto articolo 7, paragrafo 2, tale protezione deve essere effettiva e non
temporanea. È quanto avviene in genere quando i soggetti che offrono protezione, di cui al
medesimo articolo 7, paragrafo 1, adottano adeguate misure per impedire che possano essere inflitti
detti atti persecutori o danni gravi, in particolare avvalendosi di un sistema giuridico effettivo, al
quale ha accesso il richiedente protezione internazionale, che permetta di individuare, di perseguire
penalmente e di punire atti del genere.
66 Ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 3, della direttiva 2011/95, in combinato disposto con l’articolo
6, lettera c), e con l’articolo 7, paragrafo 1, di quest’ultima e alla luce del considerando 29 di detta
direttiva, il riconoscimento dello status di rifugiato presuppone che sia stabilito un collegamento tra
i motivi di persecuzione di cui all’articolo 10, paragrafo 1, della medesima direttiva e gli atti di
persecuzione, ai sensi dell’articolo 9, paragrafi 1 e 2, della stessa, o tra tali motivi di persecuzione e
la mancanza di protezione, da parte dei “soggetti che offrono protezione”, contro tali atti di
persecuzione commessi da “soggetti non statuali”.
67 Pertanto, in presenza di un atto di persecuzione perpetrato da un soggetto non statuale, la
condizione stabilita all’articolo 9, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 è soddisfatta qualora tale atto
si basi su uno dei motivi di persecuzione menzionati all’articolo 10, paragrafo 1, di tale direttiva,
quand’anche la mancanza di protezione non si basasse su tali motivi. Si deve ritenere che tale
condizione sia soddisfatta anche qualora la mancanza di protezione si basi su uno dei motivi di
persecuzione menzionati in quest’ultima disposizione, quand’anche l’atto di persecuzione
perpetuato da un soggetto non statuale non si basasse su tali motivi.
68 Tale interpretazione è conforme agli obiettivi della direttiva 2011/95, enunciati ai considerando
10 e 12 di quest’ultima, consistenti nel garantire un elevato livello di protezione dei rifugiati e
nell’identificare tutte le persone che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale.
69 Una siffatta interpretazione è altresì corroborata dal punto 21 delle linee guida dell’UNHCR sulla
protezione internazionale n. 1, ai sensi del quale, “[n]ei casi in cui vi sia un rischio di essere
perseguitati da parte di un attore non statuale (ad esempio marito, partner o altri attori non statuali)
per ragioni correlate con una delle fattispecie contenute nella [Convenzione di Ginevra], il nesso
causale sussiste, sia l’assenza della protezione da parte dello Stato connessa con la [Convenzione di
Ginevra] o meno. Alternativamente, il nesso causale sussiste anche quando il rischio di essere
perseguitati ad opera di un attore non statuale non è collegato a una delle fattispecie previste dalla
[Convenzione di Ginevra], ma l’incapacità o la non volontà dello Stato di offrire protezione derivano
da una di esse”.
70 Alla luce di quanto precede, occorre rispondere alla quarta questione dichiarando che l’articolo
9, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 deve essere interpretato nel senso che, qualora un richiedente
alleghi il timore di essere perseguitato nel suo paese d’origine da soggetti non statuali, non è
necessario stabilire un collegamento tra uno dei motivi di persecuzione menzionati all’articolo 10,
paragrafo 1, di detta direttiva e tali atti di persecuzione, se può essere stabilito un tale collegamento
tra uno di detti motivi di persecuzione e la mancanza di protezione contro tali atti da parte dei
soggetti che offrono protezione, di cui all’articolo 7, paragrafo 1, di detta direttiva.
Sulla quinta questione
71 Con la sua quinta questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 15, lettere a) e
b), della direttiva 2011/95 debba essere interpretato nel senso che la nozione di “danno grave”
ricomprende la minaccia effettiva, gravante sul richiedente, di essere ucciso o di subire atti di
violenza da parte di un membro della sua famiglia o della sua comunità, a causa della presunta
trasgressione di norme culturali, religiose o tradizionali, e che tale nozione può quindi condurre al
riconoscimento dello status di protezione sussidiaria, ai sensi dell’articolo 2, lettera g), di tale
direttiva.
72 In via preliminare, occorre constatare che tale questione è pertinente, ai fini della controversia
principale, solo nell’ipotesi in cui il giudice del rinvio giungesse alla conclusione che Ws. non
soddisfa le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato. Infatti, dal momento che,
conformemente all’articolo 13 della direttiva 2011/95, gli Stati membri sono tenuti a riconoscere tale
status al richiedente che soddisfa le condizioni richieste da tale direttiva, senza disporre di un potere
discrezionale a tal riguardo [v., in tal senso, sentenze del 24 giugno 2015, T., C-373/13, EU:C:2015:413,
punto 63, nonché del 14 maggio 2019, M e a. (Revoca dello status di rifugiato), C-391/16, C-77/17 e
C-78/17, EU:C:2019:403, punto 89], è solo in un’ipotesi del genere che occorrerebbe ancora verificare
se a Ws. debba essere riconosciuto lo status conferito dalla protezione sussidiaria.
73 L’articolo 2, lettera f), della direttiva 2011/95 dispone che ha titolo a beneficiare della protezione
sussidiaria il cittadino di un paese terzo che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come
rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se tale cittadino ritornasse
nel paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito
all’articolo 15 di tale direttiva, e che non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della
protezione di detto paese.
74 L’articolo 15, lettere a) e b), della direttiva 2011/95, letto alla luce del considerando 34 di
quest’ultima, qualifica come “danno grave” “la pena di morte o l’essere giustiziato” e “la tortura o
altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di
origine”.
75 Tale articolo 15, lettera a), fa riferimento a danni che provocano la morte della vittima, mentre
detto articolo 15, lettera b), fa riferimento ad atti di tortura, indipendentemente dal fatto che tali atti
ne provochino o meno la morte. Dette disposizioni non stabiliscono, invece, alcuna distinzione a
seconda che il danno sia commesso da un soggetto statuale o da un soggetto non statuale.
76 Inoltre, tenuto conto dell’obiettivo dell’articolo 15, lettera a), della direttiva 2011/95 di garantire
una protezione alle persone il cui diritto alla vita sarebbe minacciato in caso di ritorno nel loro paese
d’origine, l’espressione “essere giustiziato” ivi contenuta non può essere interpretata nel senso di
escludere danni alla vita per il solo motivo che essi sono commessi da soggetti non statuali. Pertanto,
qualora una donna corra un rischio effettivo di essere uccisa da un membro della sua famiglia o
dalla sua comunità a motivo della presunta trasgressione di norme culturali, religiose o tradizionali,
un siffatto danno grave deve essere qualificato come rientrante nell’”essere giustiziato”, ai sensi di
tale disposizione.
77 Qualora, invece, gli atti di violenza ai quali una donna rischia di essere sottoposta a motivo della
presunta trasgressione di norme culturali, religiose o tradizionali, non abbiano come probabile
conseguenza la morte di quest’ultima, tali atti devono essere qualificati come tortura o altra forma
di pena o trattamento inumano o degradante, ai sensi dell’articolo 15, lettera b), della direttiva
2011/95.
78 Per quanto riguarda, inoltre, il riconoscimento dello status di protezione sussidiaria, ai sensi
dell’articolo 2, lettera g), della direttiva 2011/95, l’articolo 18 di quest’ultima impone agli Stati
membri, dopo aver effettuato una valutazione della domanda di protezione sussidiaria
conformemente alle disposizioni del capo II di tale direttiva, di riconoscere tale status a un cittadino
di un paese terzo o a un apolide che soddisfi le condizioni previste dal capo V di detta direttiva.
79 Dal momento che le norme contenute in tale capo II, applicabili alla valutazione di una domanda
di protezione sussidiaria, sono le stesse che disciplinano la valutazione di una domanda di
riconoscimento dello status di rifugiato, occorre rinviare all’interpretazione di tali norme accolta ai
punti 60 e 61 della presente sentenza.
80 Alla luce della motivazione che precede, occorre rispondere alla quinta questione dichiarando
che l’articolo 15, lettere a) e b), della direttiva 2011/95 deve essere interpretato nel senso che la
nozione di “danno grave” ricomprende la minaccia effettiva, gravante sul richiedente, di essere
ucciso o di subire atti di violenza da parte di un membro della sua famiglia o della sua comunità, a
causa della presunta trasgressione di norme culturali, religiose o tradizionali, e che tale nozione può
quindi condurre al riconoscimento dello status di protezione sussidiaria, ai sensi dell’articolo 2,
lettera g), di tale direttiva.
Sulle spese
81 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente
sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da
altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
1) L’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi,
della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o
per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della
protezione riconosciuta,
deve essere interpretato nel senso che:
sulla base delle condizioni esistenti nel paese d’origine, possono essere considerate appartenenti a
“un determinato gruppo sociale”, come “motivo di persecuzione” che può condurre al
riconoscimento dello status di rifugiato, tanto le donne di tale paese nel loro insieme quanto gruppi
più ristretti di donne che condividono una caratteristica comune supplementare.
2) L’articolo 9, paragrafo 3, della direttiva 2011/95
deve essere interpretato nel senso che:
qualora un richiedente alleghi il timore di essere perseguitato nel suo paese d’origine da soggetti
non statuali, non è necessario stabilire un collegamento tra uno dei motivi di persecuzione
menzionati all’articolo 10, paragrafo 1, di detta direttiva e tali atti di persecuzione, se può essere
stabilito un tale collegamento tra uno di detti motivi di persecuzione e la mancanza di protezione
contro tali atti da parte dei soggetti che offrono protezione, di cui all’articolo 7, paragrafo 1, di detta
direttiva.
3) L’articolo 15, lettere a) e b), della direttiva 2011/95
deve essere interpretato nel senso che:
la nozione di “danno grave” ricomprende la minaccia effettiva, gravante sul richiedente, di essere
ucciso o di subire atti di violenza da parte di un membro della sua famiglia o della sua comunità, a
causa della presunta trasgressione di norme culturali, religiose o tradizionali, e che tale nozione può
quindi condurre al riconoscimento dello status di protezione sussidiaria, ai sensi dell’articolo 2,
lettera g), di tale direttiva.
Firme
* Lingua processuale: il bulgaro.

Principio di proporzionalità nella determinazione degli oneri di mantenimento a carico del genitore non collocatario

Cass. Civ. Sez. I, Ord. 11 dicembre 2023, n. 34383
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14561/2022 R.G. proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato in ROMA VIA NOMENTANA 257, presso lo studio dell’avvocato
DONZELLI ROMOLO, (DNZRML75C07H501X) che lo rappresenta e difende, come da procura
speciale in atti;
– ricorrente –
contro
B.B., elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA GIUSEPPE MAZZINI 27, presso lo studio
dell’avvocato MAINETTI FRANCESCO, (MNTFNC69L01H501Q) che lo rappresenta e difende
unitamente all’avvocato NICOLAIS LUCIO, (NCLLCU41B16H501E), come da procura speciale in atti;
– controricorrente –
avverso il DECRETO della CORTE D’APPELLO GENOVA n. 192/2021 depositato il 17/03/2022;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15/11/2023 dal Consigliere Dott. LAURA
TRICOMI
Svolgimento del processo
CHE:
1.-La Corte di appello di Genova con il decreto depositato il 17 marzo 2022 ha respinto il reclamo
proposto da A.A., ex coniuge di B.B., avverso il provvedimento del Tribunale omonimo. Questo, su
richiesta di B.B., aveva modificato le condizioni economiche del divorzio giudiziale e revocato
l’assegno divorzile, già previsto a favore della A.A. nella misura di Euro 250,00= mensile, avendo
ritenuto provata e non contestata la stabile e duratura relazione tra la A.A. e C.C., estrinsecantesi
anche in una coabitazione per alcuni giorni della settimana ed in una comunanza di vita
equiparabile alla convivenza matrimoniale; aveva, di contro, respinto la domanda riconvenzionale
di A.A. volta a conseguire l’incremento dell’assegno di mantenimento, ammontante ad Euro
380,00= per il figlio maggiore e a complessivi Euro 620,00= per i due figli gemelli.
A.A. ha proposto ricorso per cassazione con nove mezzi, illustrati da memoria. B.B. ha replicato con
controricorso seguito da memoria.
Motivi della decisione
CHE:
2.1.- Il primo e il secondo motivo concernono l’accertamento della stabile relazione affettiva della
A.A. con una terza persona, sulla scorta del quale è stato revocato l’assegno divorzile.
Con il primo si deduce la violazione degli artt. 2909 c.c. e art. 9 , comma 1 L. Div. , per avere il
giudice ammesso e ritenuto fondata la domanda di modifica delle condizioni di divorzio in difetto
delle sopravvenienze necessarie.
Con il secondo si deduce la violazione degli artt. 132 c.p.c., n. 4, e art. 111 Cost., comma 6, in
quanto la motivazione resa dalla Corte d’appello di Genova sottintenderebbe una massima
d’esperienza che non trova riscontro nella logica e nel sentire comuni e sarebbe insanabilmente
contraddittoria.
Come chiarito nei precedenti di legittimità (Cass. n. 3645/2023 e Cass. n. 14151/2022 ), la
coabitazione assume una valenza indiziaria, ai fini della prova dell’esistenza di un rapporto di
convivenza di fatto, “da valutarsi in ogni caso non atomisticamente… ma nel contesto e alle
circostanze in cui si inserisce”, mentre, viceversa, “l’assenza della coabitazione non è di per sè
decisivo” e la Corte di appello si è attenuta a tale principio, perchè ha valorizzato la circostanza
della lunga durata del rapporto affettivo e di un ravvisato progetto comune di vita.
I motivi, da trattare congiuntamente, sono infondati perchè la Corte di appello ha motivatamente
ravvisato nel tempo trascorso dalla data del divorzio e nella perdurante prosecuzione del rapporto
affettivo, un elemento di novità idoneo a indurre una revisione della statuizione senza che possa
ravvisarsi la violazione di un giudicato, peraltro, in materia, circoscritto all’applicazione del rebus
sic stantibus. Inoltre, propongono, sotto la veste della violazione di legge, una sollecitazione del
riesame del merito, inammissibile in sede di legittimità, e ciò nonostante la motivazione – a
differenza di quanto sostiene la ricorrente – vi sia, sia sufficiente e non risulti basata su massime di
esperienza, ma su una circostanza acclarata e non smentita costituita dalla lunga durata del
rapporto e dalle modalità di svolgimento nel corso degli anni, considerati univoci elementi indiziari
della stretta comunanza di vita e di un progetto di vita comune.
3.1.- I motivi terzo, quarto e quinto concernono il mancato riconoscimento dell’assegno divorzile
nella quota parte compensativa, secondo quanto puntualizzato dalle Sezioni Unite n. 32198/2021.
Con il terzo motivo si deduce la violazione degli artt. 2909 c.c., art. 5 , comma 6, e art. 9 , comma 1
L. Div. , in quanto il giudice di secondo grado non sarebbe attenuto all’accertamento reso in sede
divorzile delle ragioni che avevano condotto al riconoscimento dell’assegno divorzile (mancato
svolgimento di attività lavorativa durante il matrimonio, dedizione alla cura e crescita dei figli che
aveva consentito l’impiego del marito e la progressione in carriera), nonostante sia in primo grado
che con il reclamo fosse stato richiesto, mediante il richiamo delle ragioni della decisione che aveva
riconosciuto il detto assegno, che di ciò si tenesse conto perchè – a parere della ricorrente –
l’assegno originariamente attribuitole conteneva già il riconoscimento di una quota in funzione
compensativa. La ricorrente si duole che di ciò, nonostante la specifica questione fosse stata
dedotta anche dinanzi alla Corte di appello in sede di modifica delle condizioni economiche, come
da trascrizione degli atti in parte qua, non si sia tenuto conto.
Con il quarto motivo si deduce la nullità del decreto per violazione degli art. 101 c.p.c., comma 2,
art. 183 c.p.c., comma 4, art. 111 Cost., comma 2, poichè il giudice del reclamo avrebbe dovuto
sottoporre al contraddittorio la ritenuta non vincolatività degli accertamenti resi in sede divorzile,
consentendo l’esercizio dei poteri allegativi e probatori da parte dell’odierna ricorrente.
Con il quinto motivo si deduce la violazione dell’art. 2697 c.c., nonchè dell’art. 115 c.p.c. La
ricorrente sostiene, da un lato, che era onere del B.B., che aveva agito per conseguire la modifica
delle condizioni di divorzio, allegare e dimostrare tutti gli elementi estintivi – incluso quelli
comprovanti il difetto della componente compensativa – del diritto all’assegno divorzile in
precedenza riconosciuto.
Quindi, deduce che erroneamente la Corte di merito ha ritenuto che ella non avesse contestato le
deduzioni dell’ex marito in ordine alla “sua storia lavorativa”, poichè ella aveva ritualmente
contestato la ricostruzione del proprio percorso lavorativo compiuta dalla controparte mediante il
rinvio a quanto deciso nel giudizio di divorzio ed aveva rappresentato una diversa e contrapposta
ricostruzione della vicenda, che la Corte territoriale avrebbe dovuto esaminare e di cui non si era
fatta carico.
3.2.- I motivi terzo, quarto e quinto vanno trattati congiuntamente per connessione, con
accoglimento del quinto ed assorbimento degli altri.
Com’è noto, la giurisprudenza più recente di questa Corte (Cass. Sez. U. n. 18287/2018 ) ha
stabilito che il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione
assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi della L. n. 898 del 1970 , art. 5 ,
comma 6, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante e
dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla
prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia
sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno.
I criteri attributivi e determinativi dell’assegno divorzile non dipendono, pertanto, dal tenore di vita
godibile durante il matrimonio, operando lo squilibrio economico patrimoniale tra i coniugi
unicamente come precondizione fattuale, il cui accertamento è necessario per l’applicazione dei
parametri di cui alla L. n. 898 del 1970 , art. 5 , comma 6, prima parte, in ragione della finalità
composita assistenziale e perequativo-compensativa di detto assegno (Cass. n. 32398/2019 ).
Il giudizio deve essere espresso alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni
economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla
conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello
personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente
diritto.
La natura perequativo-compensativa, poi, discende direttamente dalla declinazione del principio
costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo, volto a consentire al
coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un
parametro astratto, ma il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al
contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, tenendo conto in particolare delle
aspettative professionali sacrificate.
In altre parole, il giudice del merito è chiamato ad accertare la necessità di compensare il coniuge
economicamente più debole per il particolare contributo dato, durante la vita matrimoniale, alla
formazione del patrimonio comune o dell’altro coniuge, nella constatata sussistenza di uno
squilibrio patrimoniale tra gli ex coniugi che trovi ragione nelle scelte fatte durante il matrimonio,
idonee a condurre l’istante a rinunciare a realistiche occasioni professionali-reddituali, la cui prova
in giudizio spetta al richiedente (Cass. n. 9144/2023 ; Cass. n. 23583/2022 ; Cass. n. 38362/2021 ).
Infine, qualora sia instaurata una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l’ex coniuge
economicamente più debole questi, se privo anche nell’attualità di mezzi adeguati e impossibilitato
a procurarseli per motivi oggettivi, conserva il diritto al riconoscimento dell’assegno di divorzio, in
funzione esclusivamente compensativa, dovendo fornire la prova secondo i criteri già indicati
(Cass. Sez. U. n. 32198/2021 ).
Giova rammentare che la Corte di appello, nell’esaminare la domanda di assegno compensativo, la
ha respinta ravvisando la mancanza di prova; segnatamente, ha affermato che la A.A. la aveva
avanzata deducendo esclusivamente di essersi sposata a ventidue anni e di avere allevato i figli,
circostanza questa ritenuta – nella sua mera prospettazione – non decisiva, e che nulla di specifico
aveva dedotto, né dimostrato in merito alle rinunce in ambito lavorativo ed esistenziale, né aveva
contestato la ricostruzione della sua storia lavorativa fatta dall’ex marito.
La statuizione sul punto risulta palesemente priva di riferimenti ad alcune delle circostanze di vita
familiare poste a fondamento del riconoscimento dell’assegno divorzile – per quanto dedotto dalla
ricorrente. Orbene a fronte della prospettazione della A.A., la Corte di merito avrebbe dovuto
esprimersi sulla natura o meno anche compensativa dell’assegno già in precedenza riconosciuto
alla stessa, sulla ricorrenza di un eventuale giudicato sul punto e sulle idoneità delle prove fornite
dal B.B. a inficiare il diritto anche sotto questo profilo, non potendosi ravvisare una mancata
contestazione a fronte di una contrapposta e differente esposizione dei fatti rilevanti da parte di
A.A..
Va pertanto accolto il quinto motivo, assorbiti i motivi terzo e quarto.
4.1.- I motivi sesto, settimo, ottavo e nono attengono al rigetto della domanda di aumento
dell’assegno di mantenimento per i figli gemelli, avendo rinunciato la A.A., nel corso del giudizio di
merito, alla domanda proposta nell’interesse del figlio maggiore, divenuto economicamente
autosufficiente.
Con il sesto motivo si deduce la violazione dell’art. 337 ter c.c., comma 4, n. 1, poichè il giudice del
reclamo ha negato che la crescita dei figli ed il mutare delle loro esigenze impongano una
rideterminazione dell’ammontare del mantenimento.
Con il settimo motivo si deduce la manifesta violazione dell’art. 337 ter c.c., comma 4, nn. 1-5, per
aver il giudice del reclamo ritenuto che lo spontaneo acquisto di un’autovettura usata a beneficio
dei figli maggiorenni da parte del genitore non convivente potesse rilevare ai fini della
determinazione del contributo al mantenimento ordinario degli stessi.
Con l’ottavo motivo si deduce la violazione degli art. 337 ter c.c., comma 4, e art. 9 , comma 1, L.
Div. , nonchè ex art. 360 c.p.c., n. 4, e art. 111 Cost., comma 6, lamentando che il giudice non
aveva accertato le sopravvenienze allegate dalla A.A., la capacità contributiva delle parti come
modificatasi a seguito della sentenza di divorzio e non aveva rispettato il principio di
proporzionalità, non rappresentando in ogni caso alcuna motivazione sul punto. La ricorrente si
duole che la Corte di appello abbia considerato (salvo a non ritenerla decisiva) l’estinzione del
mutuo gravante sul B.B. relativo alla casa familiare, mentre non avrebbe proprio considerato le
altre circostanze idonee a modificare le situazioni economico patrimoniali dei genitori (cessazione
della contribuzione del figlio maggiorenne, revoca dell’assegno divorzile ed altre).
Con il nono motivo si deduce la nullità del decreto per violazione dell’art. 112 c.p.c., poiché il
giudice del reclamo non si è pronunciato “su tutta la domanda” proposta in via riconvenzionale
della A.A., ovvero su tutte le circostanze sopravvenute allegate dalla stessa.
4.2.- I motivi dal sesto al nono vanno trattati congiuntamente perché connessi e, in parte, accolti.
Le censure concernono la statuizione con cui la Corte di appello ha rigettato la domanda di
aumento dell’assegno di mantenimento ordinario per i figli D.D. e E.E. (nati il (Omissis)) sul rilievo
che i redditi del padre non avevano subito modifiche incrementali e sulla mancanza di prova in
ordine ad un aumento dei bisogni dei figli.
4.3.- Va rammentato, come è stato affermato dalla più recente giurisprudenza di questa Corte, che
nei giudizi di separazione e divorzio “nel quantificare l’ammontare del contributo dovuto dal
genitore non collocatario per il mantenimento del figlio minore, deve osservarsi il principio di
proporzionalità, che richiede una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori, oltre alla
considerazione delle esigenze attuali del figlio e del tenore di vita da lui goduto.” (Cass. n.
4811/2018 ; conf. Cass. n. 19299/2020 ; ass. n. 4145/2023) e che “a fronte della richiesta di
revisione dell’assegno di mantenimento dei figli (minorenni o maggiorenni e non autosufficienti
economicamente), giustificata dall’insorgenza di maggiori oneri legati alla crescita di questi ultimi,
il giudice di merito, che ritenga necessarie tali maggiori spese, non è tenuto, in via preliminare, ad
accertare l’esistenza di sopravvenienze nel reddito del genitore obbligato, ma a verificare se tali
maggiori spese comportino la necessità di rivedere l’assegno, ben potendo l’incremento di spesa
determinare un maggiore contributo anche a condizioni economiche dei genitori immutate (o
mutate senza alterare le proporzioni delle misure di ciascuno dei due), ovvero non incidere sulla
misura del contributo di uno o di entrambi gli onerati, ove titolari di risorse non comprimibili
ulteriormente.” (Cass. n. 22075/2022 ).
4.4.- Orbene, quanto al primo profilo, concernente l’insorgenza di maggiori spese per i figli trattato
con i motivi sesto e settimo, va osservato che la decisione impugnata risulta immune dai vizi
denunciati i quali non colgono la ratio decidendi e non la censurano pertinentemente, di talché
detti motivi vanno respinti.
Va osservato, innanzi tutto, che queste censure non si fanno carico della statuizione in ordine alla
evidenziata carenza probatoria circa le maggiori esigenze economiche dei minori, che costituisce la
ratio decidendi sulla scorta della quale la Corte di appello ha escluso la necessità di maggiore
contributo, ma insistono sul diritto ad un incremento in ragione del solo innalzamento dell’età dei
figli e del tempo trascorso dalla precedente determinazione, si connotano per genericità e
astrattezza e risultano intese a sollecitare inammissibilmente il riesame del merito.
Inoltre, la critica alla notazione formulata dalla Corte di merito circa gli esborsi sostenuti sua
sponte dal padre, per porre a disposizione del figlio maggiore somme di danaro per favorire
l’attività lavorativa e per l’acquisto dell’auto per gli altri, non considera che questa non costituisce
la ratio decidendi del diniego dell’aumento, ma espone l’acquisizione di una circostanza di fatto,
non smentita dalla parte avversa, che è stata ritenuta sintomatica dell’impegno del padre a
fronteggiare esigenze straordinarie connesse anche all’incremento dell’età, a fronte del quale, a
maggior ragione, la richiesta di aumento dell’assegno ordinario avrebbe dovuto essere in concreto
circostanziata.
4.5.- A diversa conclusione si perviene per le censure svolte con i motivi ottavo e nono, che
deducono la violazione del criterio di proporzionalità nella previsione dei rispettivi oneri di
mantenimento dei figli, diretto e indiretto, a favore dei figli, e vanno accolti.
Invero, il mancato accertamento di maggiori spese non esclude, né è incompatibile con una diversa
ripartizione del contributo alla luce di modifiche reddituali o patrimoniali tali da incidere sul
criterio di proporzionalità utilizzato per la originaria ripartizione dei rispettivi oneri.
Nel caso di specie, invero, la motivazione relativa alla questione dell’estinzione del mutuo, non
risulta efficacemente impugnata perché l’ordinanza ha dato atto che tale onere era stato
sopportato dal solo B.B. per la casa familiare intestata ad entrambi i genitori, di guisa che la stessa
A.A. si era avvantaggiata dell’esborso sostenuto dall’ex marito e, sul punto, la ricorrente nulla
osserva; ugualmente non viene illustrata la decisività della cessazione del contributo indiretto
dovuto dal padre per il figlio divenuto economicamente autosufficiente, posto che è evidente che
entrambi hanno goduto dello sgravio in misura proporzionale in ragione dell’obbligo su ciascuno
gravante in precedenza.
Tuttavia, la Corte di merito non ha affatto esaminato la situazione reddituale e patrimoniale della
A.A., che pure ha dedotto di essere rimasta priva di reddito perché disoccupata dal (Omissis) ed
alla quale è stato revocato anche l’assegno divorzile.
E’ vero che l’assegno divorzile è contribuzione è del tutto autonoma da quella prevista per il
mantenimento dei figli e soggetta a propri presupposti, di guisa che la revoca dell’assegno di
divorzio non giustifica l’automatico aumento dell’assegno di mantenimento per i figli da
corrispondere al genitore collocatario che non percepisce più l’assegno divorzile, trattandosi di un
provvedimento che ha come esclusivo presupposto l’accertamento del venir meno del diritto del
coniuge a tale attribuzione economica prevista nel suo esclusivo interesse e che la perdita dello
stesso non esonera il genitore dell’onere di provvedere ai figli, tuttavia il giudicante di merito è
tenuto a considerare la capacità reddituale di entrambe le parti, al fine di applicare il criterio di
proporzionalità anche in vista di una mera ridistribuzione del carico economico complessivo per il
mantenimento, ove non siano state accertate maggiori spese, e ciò, nel caso di specie, non è stato
fatto e la Corte di merito dovrà procedervi in sede di rinvio.
14.- In conclusione, vanno rigettati i motivi primo, secondo, sesto e settimo; vanno accolti i motivi
quinto, assorbiti i motivi terzo e quarto, ottavo e nono; la sentenza impugnata va cassata con rinvio
della causa alla Corte di Appello di Genova in diversa composizione, per il riesame alla luce dei
principi espressi.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti
e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003 , art. 52 .
P.Q.M.
– Rigetta i motivi primo, secondo, sesto e settimo; accoglie i motivi quinto, assorbiti i motivi terzo e
quarto, ottavo e nono; cassa la sentenza impugnata con rinvio della causa alla Corte di appello di
Genova in diversa composizione anche per le spese;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e
dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003 , art. 52 .
Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 15 novembre 2023.
Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2023

PMA e ricerca delle fonti del diritto applicabili al caso concreto

Cass. Civ., Sez. I, Ord., 08 gennaio 2024, n. 511
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
Svolgimento del processo
1.- Il Sindaco del Comune di Pisa, quale Ufficiale delegato del Governo nella materia dello Stato
Civile, il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Pisa hanno proposto ricorso congiunto con due mezzi
notificato il 14 settembre 2022 per la cassazione del decreto depositato e notificato in data 15 giugno
2022 dalla Corte di appello di Firenze.
B.B. e A.A. hanno resistito con controricorso e proposto ricorso incidentale notificato il 24 ottobre
2022 con due mezzi, illustrati con memoria.
L’avvocato C.C., in veste di curatore speciale del minore D.D.(nato il 20 gennaio 2016 a Pontedera)
avente cittadinanza statunitense, ha replicato con controricorso notificato il 20 ottobre 2022 e
memoria.
Il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni scritte con cui ha chiesto il rinvio della trattazione
della causa alla pubblica udienza e, in subordine, l’accoglimento del ricorso principale ed il rigetto
del ricorso incidentale.
La controversia venne introdotta in primo grado il 4/4/2016 da B.B. e A.A. dinanzi al Tribunale di
Pisa, con ricorso in cui esposero:
– di avere contratto matrimonio negli Stati Uniti d’America (Indiana) il 1° agosto 2014;
– che, nel corso del 2015, A.A. si era sottoposta in Danimarca alla fecondazione eterologa, con seme
di donatore anonimo e con il consenso di B.B.;
– che, a seguito della pratica di procreazione medicalmente assistita (PMA), era nato il 20 gennaio
2016, in Italia, a Pontedera (PI), D.D.;
– che le due donne avevano chiesto che nell’atto di nascita fosse dato atto che il bambino era stato
procreato con la PMA di tipo eterologo con il consenso della B.B. e che dunque entrambe le donne
fossero riconosciute come genitrici;
– che l’Ufficiale di Stato Civile aveva opposto il proprio rifiuto nei confronti della madre c.d.
intenzionale B.B. di procedere alla dichiarazione di riconoscimento di filiazione naturale, perché in
contrasto con quanto stabilito dall’art.250 cod.civ. che fa riferimento a genitori di sesso diverso.
B.B. e A.A. chiesero, quindi, al Tribunale di Pisa di accertare l’illegittimità del provvedimento
dell’Ufficiale di Stato Civile che aveva rifiutato di ricevere la dichiarazione di riconoscimento di
filiazione naturale da parte della B.B., relativamente al minore, figlio biologico di A.A. generato a
seguito di PMA, e che fosse ordinata la rettificazione dell’atto di nascita iscritto al numero 5, parte I,
serie B, anno 2016, del Comune di Pisa con l’indicazione come genitore anche di B.B..
Esse sostennero che, sulla base della legge n. 40/2004 era possibile riconoscere la qualifica di genitore
anche al coniuge omosessuale che presti il proprio consenso alla fecondazione eterologa dell’altro
coniuge.
Chiesero, inoltre, che si desse applicazione alla legge del Wisconsin, deducendo che questa
consentiva la omogenitorialità, all’esito della fecondazione eterologa.
Si costituirono in giudizio il Sindaco di Pisa in qualità di Ufficiale di stato Civile, la Prefettura di Pisa
ed il Ministero dell’Interno, i quali, affermata la qualità di parte processuale, chiesero il rigetto del
ricorso.
Il Tribunale, dubitando della legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 29, comma
2, del d.P.R. n. 396/2000, 250 cod.civ., 5 e 8 della legge n. 40/2004, rimise la presente controversia
alla Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 237/2019, dichiarò l’inammissibilità della questione
di legittimità costituzionale per la insuperabile perplessità del quesito posto dal giudice.
Riassunto il giudizio ad opera delle ricorrenti, il Tribunale respinse il ricorso ed affermò la legittimità
del rifiuto opposto dall’Ufficiale di Stato Civile in quanto la legge n. 40/2004 si poneva come ostativa
alla pretesa delle ricorrenti, né la giurisprudenza della CEDU avrebbe potuto obbligare gli Stati
membri a riconoscere la genitorialità omosessuale quale unica forma di tutela della vita familiare e
del legame del minore con la madre intenzionale.
Ancora, sulla richiesta di applicabilità della legge del Wisconsin, il Tribunale osservò che “nessuna
equiparazione appare possibile sulla base delle norme e della giurisprudenza rilevante e deve
escludersi che il minore abbia acquisito nello Stato di cittadinanza della madre lo status di figlio della
madre e della co-madre e pertanto non può farsi luogo a riconoscimento di tale status nel nostro
ordinamento ai sensi dell’art. 33 cit.”.
Il reclamo presentato dalle originarie ricorrenti è stato accolto dalla Corte di Appello di Firenze, con
il decreto oggetto del presente ricorso.
È stata disposta la trattazione camerale.
Motivi della decisione
2.1- Preliminarmente, si deve disattendere l’istanza di trattazione della causa in pubblica udienza
avanzata dal Procuratore generale.
Invero, in adesione all’indirizzo espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte, il collegio giudicante
ben può escludere, nell’esercizio di una valutazione discrezionale, la ricorrenza dei presupposti della
trattazione in pubblica udienza, in ragione del carattere consolidato dei principi di diritto da applicare
(Cass. Sez. U. n. n.38162/2022).
In particolare, la sede dell’adunanza camerale non è incompatibile, di per sé, anche con la statuizione
su questioni nuove, soprattutto se non oggettivamente inedite e già assistite da un consolidato
orientamento, cui la Corte fornisce il proprio contributo (Cass. n.6118/2021; Cass. n.8757/2021).
2.2.- Preliminarmente, va respinta perché infondata l’eccezione sollevata dal curatore del minore di
inammissibilità dell’intero ricorso, per violazione del canone della sinteticità e chiarezza degli atti
processuali, peraltro ormai recepito, quanto al processo civile, dal testo dell’art. 121 del cod.proc.civ.,
come novellato dal D.Lgs. n. 149 del 10 ottobre 2022 (norma, tuttavia, non applicabile ratione
temporis al presente ricorso, redatto in data 14 settembre 2022 e notificato in pari data).
Questa Corte, invero, ha affermato – anche a Sezioni Unite – che, sebbene il ricorso per cassazione
debba essere redatto “in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva, occorrendo che il
ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda “sub iudice” posti a fondamento delle
doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione
dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera
non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata
dall’art. 360 cod. proc. civ.”, resta nondimeno inteso che “l’inosservanza di tali doveri può condurre
ad una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione soltanto quando si risolva in una esposizione
oscura o lacunosa dei fatti di causa o pregiudichi l’intelligibilità delle censure mosse alla sentenza
gravata, così violando i requisiti di contenuto-forma stabiliti dai nn. 3) e 4) dell’art. 366 cod. proc.
civ.” (così Cass Sez. U. n. 37552/2011; in senso conforme Cass. n.4300/2023, Cass. 32933/2023).
Nel caso di specie, l’esposizione dei fatti di causa e dei motivi di ricorso – sebbene eccedente i limiti
stabiliti nel Protocollo d’intesa intervenuto tra questa Corte e il Consiglio Nazionale Forense
(evenienza che, peraltro, “non può radicare, di per sé, sanzioni processuali di nullità, improcedibilità
o inammissibilità che non trovino anche idonea giustificazione nelle regole del codice di rito”; cfr.
Cass. n. 21831/2021) – non incide in alcun modo sull’intellegibilità degli uni come degli altri,
escludendo, così, che il ricorso possa ritenersi inammissibile. L’eccezione suddetta, dunque, va
respinta, anche in ossequio a quell’interpretazione “non formalistica” delle cause di inammissibilità
del ricorso per cassazione, raccomandata dalla giurisprudenza sovranazionale (cfr. Corte EDU, sent.
Succi e altri c. Italia, del 28 ottobre 2021).
3.1. – Con il primo motivo del ricorso principale si denuncia la violazione e falsa applicazione degli
artt. 33 e 35 della legge n.218/1995.
3.2.- Le amministrazioni ricorrenti contestano, innanzi tutto, l’applicabilità dell’art.33 della legge
n.218/1995(DIP) e sostengono, piuttosto, l’applicabilità dell’art.35 della legge cit. Ciò perché l’art.33
DIP riguarda la filiazione naturale e, dunque, il rapporto tra A.A. ed il figlio, rapporto di filiazione
riconosciuto dall’ordinamento italiano. Di contro, argomentano che in merito al rapporto tra D.D. e
B.B., che non è la madre naturale, né genetica, non può trovare applicazione l’art.33, ma deve farsi
applicazione dell’art.35 DIP, dettato in tema di riconoscimento del figlio, e rammentano che B.B. ha
promosso un’azione di rettificazione del Registro di Stato Civile e non un’azione di stato.
3.3.- Escludono che si possa trattare non già di un riconoscimento, ma di una dichiarazione di nascita,
perché il riconoscimento è sempre richiesto per il genitore non partoriente, salvo che nel caso
dell’attribuzione in via presuntiva della paternità allorché il figlio nasce a una coppia eterosessuale in
costanza del vincolo matrimoniale e che, in caso di PMA, la prestazione anticipata del consenso
equivale a una sorta di riconoscimento anticipato.
3.4.- Sostengono che la cittadinanza americana del minore non è stata provata e che, nel caso in
esame, troverebbe applicazione l’art.35 della legge 218/1995, in base al quale per la capacità a
riconoscere è regolata dal diritto italiano e, quindi, dall’art.250 e seguenti cod.civ. che colloca la
capacità di riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio unicamente in capo alla madre e al
padre biologico, mentre non è prevista la capacità di soggetti terzi di effettuare tale riconoscimento,
né trovano applicazione, alle coppie dello stesso sesso, le norme della legge n.40/2004.
3.5.- Deducono, inoltre, che anche a ritenere applicabile il diritto americano, non vi era dimostrazione
che esso permetta ad entrambe le ricorrenti, ed in particolare alla B.B., di essere qualificate come
genitrici del figlio dato alla luce in forza di PMA.
Osservano le ricorrenti che il Capitolo 891.40 del codice del Winsconsin regola ed ammette la
genitorialità intenzionale a seguito di PMA eterologa testualmente solo per le coppie sposate di sesso
diverso; che la sentenza della Corte di appello del VII circuito federale Wolf v. Walker concerne
unicamente le problematiche inerenti ai matrimoni tra persone dello stesso sesso, vietato in
Winsconsin, così come la sentenza della Corte Suprema USA Obergefell v. Hodges; che la sentenza
della Corte Suprema USA Pavan v. Smith concerne la legge dell’Arkansas e del Winsconsin e non
appare applicabile alla fattispecie.
Aggiungono che le sentenze Baskin v. Bogan della Corte di appello del VII circuito federale e della
Corte Suprema USA concernono la sola incostituzionalità del divieto di matrimonio omosessuale.
In relazione a dette sentenze esprimono condivisione per la conclusione resa in primo grado, ove è
stato escluso che da tali pronunce potesse dedursi quanto sostenuto dalle ricorrenti in materia di
filiazione ottenuta mediante PMA eterologa in coppia omosessuale femminile, palesandosi un salto
logico.
Le ricorrenti amministrazioni, quindi, osservano che anche la sentenza Torres v. Seemayer – con cui
la Corte del Distretto del Winsconsin Occidentale ha deciso una class action rivolta avverso il
dirigente del Dipartimento dello Stato che cura i registri dello stato civile — non è decisiva, perché
— pur essendo nato il minore de quo prima del 2/5/2016 tramite PMA eterologa — allo stesso minore
il Capitolo 891.40 del Win. Statute, così come oggetto di interpretazione da parte della Corte non può
trovare applicazione perché questo si applica unicamente ai minori nati in Winsconsin,come si evince
dal capitolo 69.14, inerente ai poteri dell’ufficiale di stato civile in ordine alle nascite e alla gestione
degli atti di nascita.
Ne deducono che le originarie attrici non rientrano nella class action che beneficia dell’ingiunzione e
che per loro continua a valere il disposto testuale, ostativo perché riferito solo alle coppie sposate
eterosessuali.
Aggiungono che per esse la legge del Winsconsin non può essere utilmente invocata quale legge
straniera regolante la filiazione nel caso di specie, a norma dell’art.33 DPI. Inoltre, sostengono che
non può invocarsi l’applicazione della norma come modificata dalla sentenza Torres “come se” il
minore fosse nato in uno stato americano, per renderla poi applicabile al caso di una nascita in Italia.
4.1.- Con il secondo motivo del ricorso principale si denuncia la violazione e falsa applicazione degli
artt. 9, 11, 12, 29 30 e 43 del DPR 396/2000, degli articoli 250 e 269 cod.civ. e degli artt. 1, 4, 5, 8, 9
e 12 della legge n.40/2004.
Le amministrazioni ricorrenti contestano l’affermazione compiuta dalla Corte di appello, secondo la
quale non ricorrerebbe una violazione dell’ordine pubblico perché il caso in esame concerne l’ipotesi
del riconoscimento di uno status da parte di un altro ordinamento che viene recepito in Italia e che
non era mai stata posta in discussione la illegittimità della trascrizione di certificati di nascita di
bambini nati da coppie omosessuali all’estero, mentre non ricorreva la disapplicazione della legge
n.40/2004.
Sostengono che nessuna discriminazione è ravvisabile nei confronti dei minori in base al fatto che
siano nati in Italia o all’estero essendo, allo stato, in entrambi i casi vietata la trascrizione di un atto
di nascita recante due genitori dello stesso sesso (v. Cass. Sez. U. n. 12193/2019).
Specificano che il rifiuto opposto dall’ufficiale civile è coerente con la disposizione normative che
escludono la configurabilità di una doppia maternità risultante dagli atti dello Stato civile e
richiamano anche le sentenze della Corte costituzionale numero 230 del 2020, n.32 e 33 del 2021 che
hanno affermato l’impossibilità di una risposta giurisprudenziale alla pretesa, del cosiddetto genitore
intenzionale di una coppia dello stesso sesso, di riconoscere il figlio di un partner che è il genitore
biologico.
5.1. – La decisione impugnata.
– Sotto un primo profilo, la Corte di appello ha respinto il motivo di impugnazione volto a conseguire
il riconoscimento omogenitoriale del figlio nato da genitore biologico e genitore intenzionale a
seguito di PMA, giacché ha aderito, con statuizione non impugnata, alla costante giurisprudenza di
legittimità secondo la quale, “in caso di concepimento all’estero mediante l’impiego di tecniche di
procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, voluto da coppia omoaffettiva femminile, deve
essere rettificato l’atto di nascita del minore, nato in Italia, che indichi quale madre, oltre alla donna
che ha partorito, l’altra componente la coppia quale madre intenzionale, poiché il legislatore ha inteso
limitare l’accesso a tali tecniche di procreazione medicalmente assistita alle situazioni di infertilità
patologica, alle quali non è equiparabile l’infertilità della coppia omoaffettiva, né può invocarsi
un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 8 l. n. 40 del 2004, non potendosi ritenere tale
operazione ermeneutica imposta dalla necessità di colmare in via giurisprudenziale un vuoto di tutela
che richiede, in una materia eticamente sensibile, necessariamente l’intervento del legislatore.” (Cass.
n. 6383/2022; Cass. n. 7413/2022, Cass. n. n. 22179/2022, tra le molte);
– Sotto altro profilo, la Corte di appello ha richiamato la giurisprudenza di legittimità secondo la
quale, “in materia di stato civile, è legittimamente trascritto in Italia l’atto di nascita formato all’estero,
relativo a un minore, figlio di madre intenzionale italiana e di madre biologica straniera, non essendo
contrario all’ordine pubblico internazionale il riconoscimento di un rapporto di filiazione in assenza
di un legame biologico, quando la madre intenzionale abbia comunque prestato il consenso
all’impiego da parte della “partner” di tecniche di procreazione medicalmente assistita, anche se tali
tecniche non sono consentite nel nostro ordinamento.” (Cass. n. 23319/2021), ed ha ritenuto che la
fattispecie in esame potesse rientrare in questo ambito applicativo, diversamente dal Tribunale che lo
aveva escluso sul rilievo che il minore de quo era nato in Italia e in detto Stato era stato formato il
suo atto di nascita.
Ha, quindi, accolto il reclamo proposto da B.B. e A.A., ha ravvisato l’illegittimità del rifiuto opposto
dall’Ufficiale di Stato Civile di Pisa sotto questo diverso profilo e, di conseguenza, ha ordinato la
rettificazione dell’atto di nascita di cui sopra nel senso di aggiungere che il minore D.D. è figlio anche
della madre intenzionale B.B., con compensazione delle spese di lite e spese per CTU a carico delle
reclamanti.
Segnatamente, la Corte di appello, previa ricostruzione del sistema delle fonti, mediante l’ausilio di
un perito, ha ritenuto applicabile il diritto del Wisconsin, del quale è cittadina la madre biologica del
minore, alla luce dell’art.19 della legge n.218/1995 (DIP); ha, quindi, affermato che la fattispecie in
esame ricadeva nell’ambito di applicazione dell’art.33 DIP e non dell’art.36-bis DIP.
Secondo la Corte di appello, in base all’art. 33 della legge 218/95, lo status di figlio si individua
facendo riferimento alla legge nazionale del figlio o, se più favorevole, alla legge dello Stato di cui
uno dei genitori è cittadino, al momento della nascita.
Nel caso in esame, a dire della Corte, la madre ed il bambino, essendo cittadini USA, potevano valersi
della legge del Wisconsin. Quindi, sulla scorta della ricognizione normativa e giurisprudenziale dello
Stato estero così individuato, ha ritenuto che potevano essere qualificati come genitori, in caso di
PMA, anche i componenti di una coppia omosessuale sposata; in particolare ha richiamato la
giurisprudenza delle Corti Federali del Wisconsin dove nel caso Torres è stata accolta una class action
che tutela i bambini nati dopo il 6 giugno 2014 da coppie omosessuali che hanno praticato la PMA,
imponendo la formazione di un certificato di nascita che indichi quali genitori entrambe le madri.
6.1.- I motivi di ricorso, da trattarsi congiuntamente per connessione, sono fondati e vanno accolti nei
termini di seguito indicati.
6.2.- Va preliminarmente osservato che la contestazione circa la cittadinanza americana del minore
non appare fondata, atteso che – diversamente da quanto affermano le amministrazioni ricorrenti – la
Corte di appello l’ha accertata, a seguito della produzione del passaporto – come si evince dal decreto
impugnato — e tale accertamento di fatto non risulta efficacemente attinto da alcuna doglianza.
6.3.- Tale puntualizzazione, tuttavia, non esclude la fondatezza delle censure in merito agli altri profili
dedotti.
6.4.- Innanzi tutto, va osservato, che, nel caso di specie, il procedimento proposto ha riguardato
l’impugnazione del provvedimento dell’ufficiale di stato civile che ha opposto il rifiuto al ricevimento
della “dichiarazione di riconoscimento di filiazione naturale” da parte di B.B. ed alla richiesta di
rettificazione dell’atto di nascita del minore D.D. perché in contrasto con quanto stabilito dall’art.250
cod.civ. che fa riferimento — come soggetto legittimato a riconoscere — ad un genitore di sesso
maschile ed a un genitore di sesso femminile; va evidenziato che non risulta in alcun modo che sia
stata richiesta di trascrizione di un atto di nascita formato all’estero.
Il procedimento promosso rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 95, comma 1, del dPR
n.396/2000, secondo il quale “1. Chi intende promuovere la rettificazione di un atto dello stato civile
o la ricostituzione di un atto distrutto o smarrito al di fuori dei casi di cui all’articolo 98, comma 2-
bis, o la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato, o intende
opporsi a un rifiuto dell’ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o
di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al tribunale
nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l’atto di cui si tratta o
presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento”.
L’atto di nascita di cui si discute: riguarda un minore, in possesso della cittadinanza americana; nato
in Italia da una donna cittadina americana, a seguito di concepimento avvenuto negli USA con il
consenso ivi prestato dalla genitrice intenzionale, che con la prima aveva ivi contratto matrimonio;
alla sottoposizione della convivente a tecniche di procreazione medicalmente assistita; e la richiesta
formulata all’ufficiale di stato civile del Comune di Pisa riguarda la “dichiarazione di riconoscimento”
da parte della genitrice intenzionale, cittadina italiana sprovvista di legame biologico con il minore.
6.5.- La circostanza che non sia stata richiesta la trascrizione di un atto di nascita formato all’estero
consente di escludere che le interessate fossero tenute a promuovere il procedimento prescritto
dall’art.67 della legge n.218/1995, richiamato dall’art.68 per gli atti pubblici ricevuti all’estero, e
ritenuto applicabile anche in caso di rifiuto dell’ufficiale di stato civile di trascrivere un
provvedimento giurisdizionale straniero recante l’accertamento del rapporto di filiazione tra un
minore nato all’estero ed un cittadino italiano (cfr. Cass. Sez. U. n.12193/2019).
6.6.- Nella specie, pertanto, l’unico strumento utilizzabile ai fini della contestazione della legittimità
del rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile dev’essere individuato nel procedimento di
rettificazione ex art.95, comma 1, dPR n.396/2000 “la cui funzione, collegata a quella pubblicitaria
propria dei registri dello stato civile ed alla natura dichiarativa propria delle annotazioni in essi
contenute, aventi l’efficacia probatoria privilegiata prevista dall’art. 451 cod.civ., ma non costitutive
dello status cui i fatti da esse risultanti si riferiscono, esclude peraltro l’idoneità della decisione ad
acquistare efficacia di giudicato in ordine alla sussistenza del rapporto giuridico di filiazione” (così,
in motivazione Cass. n.23319/2021), anche se va escluso che con tale procedimento si possa
conseguire l’auspicato risultato, e cioè il riconoscimento dello status filiationis ex art.250 cod.civ.,
proprio perché le annotazioni a cui il procedimento si riferisce hanno l’efficacia probatoria privilegiata
prevista dall’art. 451 cod.civ., ma non sono costitutive dello status, cui i fatti da esse risultanti si
riferiscono (circa la efficacia esclusiva probatoria privilegiata degli atti di stato civile, v. Cass.
n.3038/1977).
6.7.- Va rammentato, in proposito, che l’ordinamento di stato civile italiano è disciplinato dal d.P.R.
n.396/2000 che, come rimarcato nella requisitoria della Procura Generale, “si basa su un sistema che
distingue le seguenti evenienze:
i. Gli atti di stato civile formati direttamente dall’ufficiale di stato italiano (-oggetto di iscrizione, se
formati dallo stesso ufficiale che li registra; -di trascrizione, se formati da altro ufficiale);
ii. Gli atti di stato civile che consistono in trascrizioni di atti stranieri (-se relativi a italiani o stranieri,
previo vaglio di non contrarietà all’ordine pubblico ex art. 18 d.P.R. n.396/2000, e con funzione di
pubblicità dichiarativa; – se relativi a stranieri residenti in Italia, ex art. 19 del d.P.R. cit., con funzione
di pubblicità notizia, in quanto destinati a riprodurre gli atti già formati all’estero per agevolare gli
stranieri nell’ottenimento delle copie degli stessi come argomentato dal Consiglio di Stato, parere 8
giugno 2011, n. 1732; – se relativi a stranieri non residenti in Italia questi atti non sono trascrivibili).
Gli atti catalogati sub i. possono essere formati solo secondo il diritto italiano mentre per gli atti sub
ii. (ovvero atti di stato civile che consistono in trascrizioni di atti stranieri) la formazione può
concretarsi nella applicazione della legge del luogo o nella applicazione della legge italiana quando
gli stessi atti siano compiuti dinanzi alle autorità consolari o diplomatiche italiane, previo il necessario
vaglio della non contrarietà all’ordine pubblico.”.
Così ricostruito il sistema dell’ordinamento dello stato civile nella sua necessaria bipartizione, è
decisivo osservare che:
– le disposizioni in esame riguardano il procedimento amministrativo di formazione degli atti di stato
civile rilevanti ai fini dell’efficacia probatoria privilegiata, prevista dall’art. 451 cod.civ., ad essi
attribuita, ma non costitutivi dello status cui i fatti da esse risultanti si riferiscono e che si tratta di
norme (quelle riguardanti la formazione dell’atto di nascita) che non regolano l’attività tra i privati,
ma che sono inserite nell’ambito di un sistema normativo di applicazione necessaria, finalizzato a
regolare l’attività della pubblica amministrazione;
– l’art.11, comma 3, del dPR n.396/2000, dove si esplicitano i limiti all’attività dell’ufficiale di stato
civile, stabilisce che questi “non può enunciare, negli atti di cui è richiesto, dichiarazioni e indicazioni
diverse da quelle che sono stabilite e permesse da ciascun atto”;
-la particolarità è costituita da atti che sono formati con una modalità di relazione a contenuto
vincolato (art.12 dPR n. 396/2000: “gli atti dello stato civile sono redatti secondo le formule e le
modalità stabilite dal Ministro dell’Interno…”), con l’esclusione di qualsivoglia discrezionalità
operativa.
6.8.- Ne consegue che, nel caso in esame, trattandosi della formazione di un atto di nascita richiesto
all’ufficiale di stato civile italiano, la legislazione applicabile è esclusivamente quella nazionale, nel
rispetto delle modalità indicate dall’art. 30 del dPR n.396/2000 previa necessaria verifica, in capo al
soggetto che effettua la dichiarazione, della condizione di paternità o maternità risultante dalle
formule approvate con D.M. del 5 aprile 2002.
In questo ambito, quindi va valutata la legittimità del rifiuto opposto dall’Ufficiale di stato civile, con
riferimento, cioè alla normativa a cui lo stesso è tenuto a dare attuazione, senza discrezionalità
operativa.
6.9.- Le disposizioni che regolano l’ordinamento dello stato civile, pertanto, non rientrano nel campo
della legge n.218/1995, il cui oggetto è definito dall’art. 1: “La presente legge determina l’ambito della
giurisdizione italiana, pone i criteri per l’individuazione del diritto applicabile e disciplina l’efficacia
delle sentenze e degli atti stranieri.”.
Ciò trova conferma nello stesso dettato dell’art.33 della legge n.218/1995, che è rubricato “filiazione”
e concerne i criteri di individuazione del diritto applicabile per determinare lo status di figlio, e non
già la disciplina regolamentare di formazione degli atti di nascita che hanno funzione probatoria e
non costitutiva del diritto di status
L’applicazione dell’art.33 DIP da parte della Corte di appello ha realizzato dunque una evidente
violazione di legge perché ha consentito la formazione, attraverso un’operazione interpretativa della
normativa americana, di un atto di nascita di un bambino nato in Italia con l’applicazione diretta del
diritto straniero, laddove ciò non è consentito all’ufficiale di stato civile in ragione del precipuo e
limitato esercizio dei poteri di carattere pubblico attribuitigli, da cui esorbitano quelli costituivi dello
status filiationis, status che può conseguire alla diretta applicazione della legge nazionale ex art.231
e seg. cod.civ. ed ex lege n.40/2004, ove ne ricorrano i presupposti ivi previsti, e/o all’esito
dell’esperimento delle azioni di stato e/o in caso di trascrizione in Italia dell’atto di nascita formato
all’estero, relativo a un minore, figlio di madre intenzionale italiana e di madrebiologica straniera
(Cass. n. 23319/2021) o di una sentenza straniera, ipotesi tutte non ricorrenti nel caso in esame.
Erroneamente, pertanto, la Corte di appello ha ritenuto applicabile alla fattispecie in esame l’art.
dell’art.33 della legge n.218/1995 e perciò la decisione va cassata, senza rinvio; la controversia va
infatti decisa nel merito, ex art. 384, secondo comma, cod.proc.civ., con il rigetto dell’originaria
domanda, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto e restando assorbite tutte le altre
questioni.
6.10.- Ciò non esime dal rilevare la singolarità del concreto esercizio della funzione ermeneutica da
parte del giudicante in merito alla normativa americana, in quanto tale esercizio risulta demandato ad
un perito le cui conclusioni la Corte di appello ha recepito (fol.7 e ss. del decr. imp.), in violazione
dei precipui compiti di interpretazione della legge ad essa riservati.
Va osservato in proposito che, come è stato più volte affermato, nelle controversie in cui è applicabile
l’art. 14 l. n. 218 del 1995, l’obbligo del giudice di ricercare d’ufficio le fonti del diritto va riferito
anche alle norme giuridiche degli ordinamenti stranieri, per la cui individuazione egli, ai fini della
conoscenza di tali leggi (in funzione dell’applicabilità dell’art. 16 delle preleggi), può avvalersi, oltre
che degli strumenti indicati nelle convenzioni internazionali e delle informazioni acquisite tramite il
Ministero della giustizia, anche di quelle assunte mediante esperti o istituzioni specializzate, potendo
ricorrere, onde garantire effettività al diritto straniero applicabile, a qualsiasi mezzo, anche informale,
valorizzando il ruolo attivo delle parti come strumento utile all’acquisizione della normativa volta a
disciplinare il caso concreto, fermo restando che non sussiste alcun onere di queste ultime né di
indicare né di documentare la legge straniera ritenuta applicabile (Cass. n. 14209/2022; Cass. n.
27365/2016; Cass. n. 14777/2009): tutto ciò, però, concerne la individuazione della legge straniera.
Resta fermo, infatti, ai sensi dell’art.14 cit. stesso che “L’accertamento della legge straniera è compiuto
d’ufficio dal giudice.” di talché la ricostruzione del sistema giuridico straniero e la individuazione
della soluzione giuridica sugli eventuali conflitti di applicazione normativa facendo uso delle norme
di diritto internazionale privato costituisce esercizio della specifica funzione ermeneutica propria del
giudice e, nel caso di specie, la Corte di appello non si è attenuta a ciò.
7.1. – Si deve passare all’esame del ricorso incidentale.
7.2. – Con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia la violazione e falsa applicazione degli
artt.91 e 92, secondo comma, cod.proc.civ., nonché degli artt. 24, primo e secondo comma, e 111,
primo comma, Cost.; le ricorrenti incidentali lamentano che la compensazione delle spese di lite sia
stata disposta in assenza dei presupposti e di cause di giustificazione a fronte della soccombenza totale
della Pubblica amministrazione e che vi sia stata violazione del diritto ad agire in giudizio e al giusto
processo.
7.3.- Con il secondo motivo del ricorso incidentale si denuncia la violazione e/o falsa applicazione
dell’art.47 della Carta dei Diritti fondamentali dell’UE, congiuntamente agli artt. 18, 20, 21 del TFUE
e 7, 21, 24, 33 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, anche singolarmente considerati. Le
ricorrenti lamentano, sempre in riferimento alla statuizione di compensazione integrale delle spese di
lite, la violazione di diritti che rientrano nel campo di applicazione del diritto dell’Unione e deducono
che la compensazione a vantaggio dello Stato membro in caso di resistenza in giudizio, con
soccombenza totale, costituirebbe violazione dell’art.47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
In ordine a tale tema, prospettano anche questioni interpretative in via pregiudiziale ex art.267 del
TFUE da sottoporre, eventualmente, alla Corte di giustizia dell’Unione Europea.
7.4.- Il ricorso incidentale è inammissibile.
7.5.- La statuizione di compensazione pronunciata dalla Corte di appello in ordine alla
regolamentazione delle spese di giudizio della fase di merito, oggetto di entrambe le censure
incidentali, è per natura provvisoria e risulta assorbita all’esito del presente giudizio di legittimità
dall’accoglimento del ricorso principale con cui, con la decisione definitiva, vengono individuate le
effettive posizioni delle parti, quali vittoriose o soccombenti in ragione dell’esito complessivo del
giudizio al fine della ripartizione delle spese (Cass. n. 16121/2011; Cass. n. 23226/2013).
8.- In conclusione, il ricorso principale va accolto ed il ricorso incidentale va dichiarato
inammissibile.
La decisione impugnata va cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la
controversia va decisa nel merito ex art. 384, secondo comma, cod.proc.civ., con il rigetto
dell’originaria domanda.
Le spese dell’intero giudizio seguono la soccombenza e vanno collocate a carico dei controricorrenti
in solido, nella misura liquidata in dispositivo; va conferma della collocazione a carico di D.D. e A.A.
delle spese della CTU svolta in sede di reclamo.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e
dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Raddoppio del contributo unificato, ove dovuto.
P.Q.M.
– Accoglie il ricorso principale; dichiara inammissibile il ricorso incidentale, cassa la sentenza
impugnata e, decidendo nel merito, respinge l’originaria domanda;
– Condanna i controricorrenti in solido alla rifusione delle spese dell’intero giudizio che liquida in
euro 2.000,00 per il primo grado, in euro 3.000,00 per la fase di reclamo ed in euro 7.200,00 per il
grado di legittimità, oltre spese prenotate a debito; conferma della collocazione delle spese di CTU a
carico di B.B. e A.A.;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e
dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52;
– Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti
per il versamento, da parte delle ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello relativo al ricorso, se dovuto.
Conclusione
Così deciso in Roma, il giorno 6 ottobre 2023.
Depositato in Cancelleria l’8 gennaio 2024.

No all’assegno di mantenimento in favore del coniuge che non dimostri di essersi inutilmente proposto sul mercato del lavoro.

Corte di Cassazione, Sezione Prima Civile, Ord. 18 gennaio 2024, n. 1894
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 17627/2022 R.G. proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato in ROMA VIA Ro.89, presso lo studio dell’avvocato MELONI
CINZIA (Omissis) rappresentato e difeso dall’avvocato RONCHIETTO CLAUDIO (Omissis)
– ricorrente –
contro
B.B., elettivamente domiciliato in ROMA VIA G.Pi., 2, presso lo studio dell’avvocato
D’INTINO MARIA ANTONIETTA (Omissis) che lo rappresenta e difende unitamente
all’avvocato SICARI GIORGIO (Omissi)
– contro ricorrente –
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO ROMA n. 3046/2022 depositata il 09/05/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14/12/2023 dal Consigliere MARINA
MELONI.
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Roma, su ricorso di A.A., con sentenza n. 8143/2020, dichiarava la
separazione personale dei coniugi A.A. e Eu.Ma., che avevano contratto matrimonio civile
in Roma, in data 8/10/2011, e rigettava le rispettive domande di addebito nonché, sulla
base di una CTU per la valutazione della situazione economica delle parti (sulla richiesta
della A.A. di ottenere un assegno di mantenimento dal marito, in ragione del tenore di vita
tenuto durante il matrimonio), ritenendo che i debiti del coniuge fossero gravosi e tali da
rendere sostanzialmente paritarie fra le parti le condizioni patrimoniali e reddituali,
respingeva anche la richiesta economica.
Avverso tale sentenza, la sig.ra A.A. proponeva appello, rilevando preliminarmente che il
giudice istruttore aveva adottato un’ordinanza istruttoria mentre era già stata depositata
l’istanza per la sua ricusazione, la quale determinava la sospensione del processo. Nel
merito lamentava che il Tribunale erroneamente non aveva addebitato la separazione al
marito e contestava la circostanza che non fosse stato disposto in suo favore un assegno
di mantenimento, da porsi a carico del coniuge. Il sig. Ma. eccepiva l’infondatezza
dell’impugnazione, proponendo appello incidentale in relazione al mancato addebito la
separazione alla moglie.
Con sentenza n. 3046/2022, la Corte di Appello di Roma respinse sia l’appello principale
sia l’appello incidentale e compensò tra le parti le spese del giudizio. Avverso tale
sentenza, A.A. propone ricorso per Cassazione con tre motivi e memoria; resiste il sig. Ma.
Con controricorso e memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione di
norme di diritto ex art 360 n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 52 e 295 c.p.c., per non aver la
Corte d’appello rilevato la nullità di tutti gli atti compiuti dal giudice durante il periodo di
sospensione del processo, determinato per effetto dell’avvenuto deposito della sua istanza
di ricusazione.
La ricorrente ritiene erronea la valutazione della Corte di appello che ha ritenuto
sostanzialmente improduttive di pregiudizio per l’appellante la violazione delle norme
procedurali in materia di efficacia degli atti giudiziali a seguito di istanza di ricusazione.
Con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione
dell’art 156 , commi 1 e 2, c.c. in relazione all’art 360 n. 3 c.p.c., per non avere la Corte
ricostruito il tenore di vita della coppia in corso di matrimonio. Nella motivazione, la Corte
avrebbe erroneamente applicato la normativa in materia di assegno divorzile ex art 5 L. n.
898/1970 , in luogo dell’art 156 c.c.
La Corte non avrebbe poi considerato che la separazione personale presuppone la
permanenza del vincolo coniugale, in guisa che, in assenza di addebito, resta attuale il
dovere di assistenza morale e materiale, posto che dalla temporanea situazione di
separazione deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale e di fedeltà,
convivenza e collaborazione. La stessa avrebbe inoltre omesso di valutare il tenore di vita
tenuto dalla coppia nel corso del matrimonio (per come emerso dalle dichiarazioni dei
redditi e dalle indagini della CTU), che era molto elevato esclusivamente grazie agli
apporti economici forniti dal marito.
1 Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente lamenta omesso esame di un fatto decisivo
per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per avere la corte omesso l’esame di
documenti forniti dalle parti, dai quali si ricaverebbe che la situazione economica e
reddituale dei coniugi dal momento dell’emissione della sentenza di primo grado fino al
momento della decisione in appello si fosse evoluta, di modo che, mentre il marito non
risultava più essere gravato da ingenti debiti per garanzia fideiussoria, la moglie si trovava
affetta da grave patologia oncologica che l’aveva resa invalida al 100%.
La situazione economica e lavorativa della ricorrente, già pregiudicata dalla pandemia, ha
subito un blocco totale a causa delle terapie connesse alla malattia e ciò conclamerebbe
ulteriormente il dovere di assistenza morale e materiale, a carico del marito, verso lei,
coniuge più debole. Il primo motivo di ricorso è infondato e deve essere respinto. Infatti, la
reiterazione della questione processuale relativa all’avvenuto deposito dell’istanza di
ricusazione del giudice istruttore da parte della ricorrente, essendo del tutto esauriente e
condivisibile la motivazione sul punto della sentenza impugnata. Infatti, la sola
proposizione del ricorso per ricusazione non determina “ipso iure” la sospensione del
procedimento e la devoluzione della questione al giudice competente a decidere della
questione stessa, in quanto spetta pur sempre al giudice “a quo” una sommaria
delibazione della sua ammissibilità, all’esito della quale, ove risultino “ictu oculi” carenti i
requisiti formali di legge per l’ammissibilità dell’istanza, il procedimento può continuare
(Cassazione n. 5236 del 2006 ; 26267 del 2011 ; 25709 del 2014 ; 1624 del 2022 ).
Il ricorso è fondato e deve essere accolto, invece, in ordine al secondo e terzo mezzo di
cassazione da trattare congiuntamente.
Occorre premettere al riguardo che la separazione personale, a differenza dello
scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del
vincolo coniugale, sicché i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.c.,
l’assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa
dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di
matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza, anche di tipo materiale, che
non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva
solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e
collaborazione, e che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale,
presupposto dell’assegno di divorzio (Sez. 1 nr. 12196 del 2017).
Sul punto occorre poi precisare che “In materia di separazione dei coniugi, grava sul
richiedente l’assegno di mantenimento, ove risulti accertata in fatto la sua capacità di
lavorare, l’onere della dimostrazione di essersi inutilmente attivato e proposto sul mercato
per reperire un’occupazione retribuita confacente alle proprie attitudini professionali,
poiché il riconoscimento dell’assegno a causa della mancanza di adeguati redditi propri,
previsto dall’art. 156 c.c., pur essendo espressione del dovere solidaristico di assistenza
materiale, non può estendersi fino a comprendere ciò che, secondo il canone dell’ordinaria
diligenza, l’istante sia in grado di procurarsi da solo”.
(Sez. 1 – , Ordinanza n. 20866 del 21/07/2021 )
Ebbene la ricorrente ha prodotto documentazione, non adeguatamente valutata dalla
Corte di Appello di Roma, al fine di dimostrare di essere affetta da malattia oncologica e, a
cagione di ciò, di avere completamente l’attività lavorativa di avvocato che svolgeva
antecedentemente alla malattia. Ma, al riguardo, non risulta alcuna valutazione da parte
del giudice di merito della documentazione prodotta dalla A.A. nelle memorie ex art. 183
co. 6. nn 1,2,3, e degli allegati alle note autorizzate in appello: documentazione dalla quale
risulterebbe una invalidità al 100% della moglie (con evidente pregiudizio in ordine alla
capacità lavorativa, situazione documentata da verbali di visite presso l’INPS, con
concessione dei benefici ex L 104, e dall’altro che il marito, costruttore, aveva invece
risolto i problemi societari con operazioni inerenti la sola società Leamar Srl, e con
conseguente venir meno delle fideiussioni personali).
La Corte d’Appello non risulta aver valutato gli effetti e le conseguenze economiche della
grave e documentata patologia tumorale di cui è portatrice la A.A. (appena menzionata a
pag. 7) che – secondo quanto allegato – ha costretto la richiedente ad interrompere ogni
attività lavorativa, siccome riconosciuta invalida al 100% con diritto di accompagnamento,
stante le pesanti terapie oncologie documentate cui deve sottoporsi.
Per tutto ciò deve essere accolto il ricorso in ordine al secondo e terzo motivo, infondato il
primo, e cassata la sentenza va fatto rinvio della causa alla Corte di Appello di Roma, in
diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il secondo e terzo motivo, infondato il primo, cassa la sentenza impugnata in
relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte di Appello di Roma in diversa
composizione anche per le spese del giudizio di legittimità. Dispone che, in caso di
utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, sia omessa l’indicazione delle
generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 14 Dicembre 2023.
Depositata in Cancelleria il 18 gennaio 2024.

Le festività natalizie come momento di condivisione da tutelare con provvedimento interlocutorio.

Tribunale di Matera, Decreto 21 dicembre 2023,
Presidente Riccardo Greco
TRIBUNALE DI MATERA
XXXX 2023
Il Presidente;
Letto il ricorso proposto da
TIZIA, con l’avv. ___
nei confronti di
CAIO, con l avv. MAFFEI LUCIA ELSA
Avente ad oggetto la pronuncia della separazione giudiziale fra coniugi;
Giurisprudenza di merito Ondif
Rilevato
che con decreto presidenziale il sottoscritto ha nominato sé stesso come
giudice relatore riservando l’emissione di provvedimenti indifferibili;
che in effetti in sede di comparsa di costituzione il sig. Caio ha
rappresentato l’urgenza della decisione in tema di regolamentazione dei
rapporti con la figlia Sempronia assumendo di essere ostacolato dal coniuge
nell’esercizio delle funzioni genitoriali;
Ritenuto
che l’emissione dei provvedimenti indifferibili fa riferimento, per espressa
previsione normativa, a situazioni di pregiudizio imminente e irreparabile
e dunque è da escludersi che possa comprendersi in questa locuzione la
disciplina del regime ordinario di incontri dei genitori con la prole, che
costituisce oggetto del giudizio di merito compreso nella più ampia
decisione sull’affidamento e sul collocamento prioritario;
che in quest’ottica può essere ravvisata una condizione di irreparabilità solo
limitatamente al trascorrere delle festività natalizie come momento di
condivisione di valori etico-religiosi e di unione familiare irripetibili nella
loro annuale ricorrenza;
che d’altra parte la ravvicinata data di udienza di comparizione dei coniugi
(12 gennaio 2024) assicura di per sé l’emissione di tempestivi provvedimenti
temporanei utili ad assicurare la continuità delle relazioni genitoriali nella
stabilità successiva dei rapporti, correlata alla durata del processo, dovendo
Giurisprudenza di merito Ondif
attribuirsi, al momento, al dovere di ciascun genitore una prescrizione atta a
favorire le relazioni dei figli con l’altro;
visti gli artt. 473-bis 15 e ss. c.p.c.;
prescrive alla signora Tizia, genitrice con cui la minore Sempronia di
fatto dimora, di assicurare, con carattere di stabilità e continuatività nel corso
delle settimane, il mantenimento di relazioni di lei con il padre sig. Caio,
garantendo che siano dedicati ai loro incontri giorni e orari consoni
all’esercizio di significativi rapporti nel rispetto del principio della
bigenitorialità;
dispone in ogni caso, in assenza di una diversa regolamentazione concordata
fra i coniugi e meglio aderente delle reciproche esigenze, e in aggiunta
all’ordinarietà degli incontri dipendente dalla prescrizione di cui sopra, che
la minore Sempronia trascorra con il padre la giornata del 25 dicembre 2023
dalle ore 11,00 alle ore 17,00 e l’intera giornata del 26 dicembre 2023 dalle
ore 9,00 alle ore 20,00, nonché la giornata del 6 gennaio 2024 dalle ore 9,00
alle ore 20,00.
fissa la comparizione dei coniugi all’udienza del 5 gennaio 2024 ore 10,30
per la conferma, revoca o modifica del presente provvedimento indifferibile.
Dispone che il presente decreto sia notificato a cura del resistente alla
controparte entro il 24 dicembre 2023.
Matera 21 dicembre 2023.
Il Presidente
Dott. Riccardo Greco

La valutazione della consistenza patrimoniale è rimessa al giudice di merito.

Cassazione civile sez. I – 03/11/2023, n. 30712
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 15797 2022 r.g. proposto da:
L.D. (cod. fisc. (Omissis)), rappresentato e difeso, giusta
procura speciale apposta in calce al ricorso, dagli Avv.ti Luciana
Petrella e Giovanni Galoppi, con cui elettivamente domicilia in Roma
Via Sistina n. 42, presso lo studio dell’Avvocato Galoppi.
– ricorrente –
contro
B.S., nata il (Omissis) ed ivi residente (Omissis), con il
patrocinio dell’avv. Cristiana Corsini e dell’avv. Tania Nicolini.
– controricorrente –
avverso sentenza n. 848/2022 pubblicata dalla Corte D’Appello di
Bologna il 13.04.2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
3/10/2023 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore.
RILEVATO CHE
1.Su ricorso di L.D., il Tribunale di Bologna, con la sentenza n. 221/2021 del 19 novembre 2020 – 22 gennaio
2021, dopo avere pronunciato, con precedente sentenza parziale n. 242/2018, lo scioglimento del
matrimonio, contratto dal predetto L.D. e da B.S. il 24 ottobre 2009, ha disposto l’affido condiviso del figlio
minore L., nato il (Omissis), a entrambi i genitori, con la precisazione che le decisioni di maggiore interesse
per il figlio sarebbero state assunte di comune accordo e che ognuno dei genitori avrebbe assunto le
decisioni di ordinaria amministrazione quando avesse tenuto il minore presso di sé; ha disposto il
collocamento del figlio minore predetto presso la madre, alla quale è stata assegnata la casa familiare sita in
(Omissis) (Omissis), di proprietà esclusiva del L., e i mobili in essa contenuti, affinché vi abitasse insieme al
figlio minorenne; ha regolamentato la frequentazione tra il genitore non collocatario e il figlio minorenne;
ha posto a carico di L.D., dalla data della domanda, detratto quanto già corrisposto per il medesimo titolo,
l’obbligo di contribuire al mantenimento del figlio, versando alla madre, entro il giorno 5 di ogni mese, la
somma di 1.500,00 Euro, annualmente rivalutabile secondo gli indici Istat, su conto corrente che gli sarebbe
stato tempestivamente comunicato; ha ripartito le spese straordinarie relative al minore, ponendole a
carico del padre per il 70% e a carico e della madre per il 30%; ha dato atto dell’obbligo del L. di contribuire
al mantenimento del figlio L., anche attraverso il pagamento della rata del mutuo ipotecario gravante sulla
casa familiare; ha, ancora, dato atto dell’obbligo del L. di contribuire al mantenimento del minore predetto,
anche attraverso il pagamento delle spese condominiali e delle utenze domestiche, per un importo di
500,00 Euro mensili; ha fatto obbligo al L. di versare, entro il giorno 5 di ogni mese, alla B., la somma di Euro
600,00, annualmente rivalutabile secondo gli indici Istat, su conto corrente intestato alla medesima che gli
sarebbe stato tempestivamente comunicato, dalla data della domanda, a titolo di contributo per il
mantenimento, e, a decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza di scioglimento del matrimonio, a
titolo di assegno divorzile; ha condannato il L. a rimborsare alla B. le spese di lite.
2. – L.D., con ricorso depositato in data 22 febbraio 2021, ha proposto tempestivo appello avverso la
sentenza predetta, censurando, con riferimento ai principi espressi da Cassazione Sezioni Unite
18287/2018, la statuizione con la quale era stato riconosciuto alla B. l’assegno divorzile, e il capo con il
quale egli appellante era stato condannato a rimborsare all’appellata le spese di lite, sul presupposto che
l’esito della lite ne giustificasse la compensazione. L.D. ha, dunque, chiesto che, in riforma dell’impugnata
sentenza, venisse revocato l’assegno divorzile riconosciuto in favore di B.S. e fosse disposta l’integrale
compensazione delle spese processuali del primo grado del giudizio.
3. Si è costituita in giudizio B.S. e ha resistito all’appello, invocandone il rigetto.
E’ intervenuto il Procuratore Generale e ha chiesto la conferma della sentenza appellata.
La Corte territoriale, nel provvedimento qui impugnato, ha in primo luogo ricordato che il Tribunale aveva
evidenziato: -che il L., nel 2006, aveva acquistato la casa coniugale di (Omissis) in (Omissis), vale a dire un
appartamento di 250 mq cica, per l’importo di 930.000,00 Euro, sostenendo anche il costo degli interventi
di ristrutturazione e degli arredi; -che, nel 2007, aveva versato sul conto (Omissis) della moglie 49.650,00
Euro e sempre nel corso dello stesso anno, aveva regalato alla B. una (Omissis) da 111.400,00 Euro; -che il
L., nel maggio 2007, aveva acquistato una (Omissis); -che, nell’anno 2008, aveva versato sul conto (Omissis)
e (Omissis) della B. la somma di 89.570,00 Euro e le aveva regalato un anello da 45.000,00 Euro; -che il L.,
nel giugno 2011, aveva acquistato una (Omissis) da 179.000,00 Euro e, nel corso degli anni, aveva regalato
alla moglie quattro parure di (Omissis) del valore di listino di circa 143.000,00 Euro, oltre a diversi orologi di
valore di marche prestigiose; -che lo stesso, nell’anno 2013, aveva effettuato alla moglie versamenti per la
somma complessiva di 26.330,00 Euro e, nel 2014, aveva deciso di vendere la (Omissis) e di acquistare una
vettura del costo di 105.000,00 Euro; che, anche dopo la separazione, il L. aveva mantenuto un tenore di
vita molto elevato, come dimostravano un contratto di locazione per un’abitazione situata in (Omissis) al
canone annuo di 30.000,00 Euro, l’esistenza di investimenti, all’atto della separazione, presso (Omissis), per
180.000,00 Euro, il versamento di 200.000,00 Euro alla figlia J. (nata da precedente relazione), nel (Omissis),
nonché gli estratti conto della carta di credito (Omissis) dal 2015 al 2018 e della carta Si dal 2015 al 2018,
che evidenziavano movimenti di denaro per oltre 500.000,00 Euro; -che il ricorrente continuava a pagare
17.000,00 Euro annui per il mutuo della casa coniugale e 18.000,00 Euro per il mantenimento del figlio L.,
nonché a sostenere le spese condominiali e i costi delle utenze della abitazione ex coniugale e di quella di
attuale residenza; -che il L. deteneva il 25% delle quote della (Omissis) SPA, che disponeva di un capitale
sociale di 2.400.000,00 Euro, ed aveva una posizione amministrativa nello studio (Omissis), che sebbene
posto in liquidazione, aveva effettuato al L., come dedotto dalla B., sulla scorta della documentazione
bancaria, versamenti per complessivi 743.221,58 Euro; -che la B., che prima del matrimonio era una donna
di 35 anni indipendente e dalle plurime occupazioni (commerciante, indossatrice e pubbliche relazioni), e
che, all’atto della dissoluzione dell’unione coniugale, si era trovata ad avere dieci anni di più, senza
esperienze spendibili nel suo particolare profilo professionale, con una casa importante da gestire e con un
figlio da accudire; -che la B. aveva tentato di avviare un’attività imprenditoriale in proprio, la B., che però
aveva dovuto chiudere dopo pochi anni perché in costante perdita; -che, infatti, la stessa aveva conseguito
redditi annui di 5.096,00 Euro, nel 2014, e di 4.870,00 Euro nel 2016; -che emergeva anche un reddito
negativo per l’anno 2015; -che particolarmente significativa era la sperequazione tra i redditi del L., anche a
volere tenere conto solo di quelli emergenti dalle dichiarazioni fiscali relative al periodo 2011-2016;-che i
dati relativi alla situazione economica delle parti, sopra riportati, che emergevano da sentenza della Corte di
Appello di (Omissis), emessa nel giudizio di separazione, risultavano confermati dai documenti prodotti
anche nel giudizio di divorzio; -che dalla dichiarazione dei redditi relativa all’esercizio 2018, prodotta dal L.,
emergeva un imponibile di 84.065,00 Euro, corrispondente a 4.800,00 Euro mensili netti; -che il ricorrente,
con il reddito predetto, non avrebbe potuto certo sostenere gli attuali obblighi economici che il suo tenore
di vita comportava; -che la B., per contro, aveva attestato, sotto la propria responsabilità, di non avere
raggiunto, negli anni 2017,2018 e 2019, la soglia di reddito minima che rendeva obbligatoria la
presentazione di dichiarazione dei redditi; -che secondo la pronuncia n. 18287/2018 delle Sezioni Unite
della Suprema Corte, l’assegno divorzile aveva natura composita e, pertanto, ai fini di una applicazione
equilibrata dei vari elementi di cui al Legge 898 del 1970, art. 5 comma 6, dovevano venire in
considerazione le condizioni economiche dei coniugi (profilo assistenziale) e il contributo personale ed
economico fornito da ciascun coniuge alla vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e di
quello personale di ciascuno dei coniugi(profilo compensativo), in relazione alla durata del matrimonio e
all’età dell’avente diritto;-che l’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi ed all’incapacità di
procurarseli per ragioni oggettive doveva, dunque, essere saldamente ancorato alle caratteristiche ed alla
ripartizione dei ruoli endofamiliari; -che, nel caso di specie, la sproporzione, tra le disponibilità economiche
del L. e quelle della B. era pacifica e rilevante, posto che quest’ultima era proprietaria esclusivamente della
quota di 1/9 della casa, con annesso garage, ereditata dal padre e sita a (Omissis), avente, quindi, valore
commerciale esiguo; -che la B., quando aveva iniziato a convivere e si era poi sposata con il L., gestiva un
negozio di sua proprietà in (Omissis) ((Omissis)), si occupava di pubbliche relazione e lavorava come
indossatrice e per alcune emittenti televisive locali; -che la stessa aveva, poi, smesso di lavorare, in quanto il
progetto condiviso con il marito prevedeva che si occupasse in via prevalente della famiglia; -che la B.,
allorché aveva preso coscienza della crisi coniugale, aveva intrapreso un’attività imprenditoriale, con il
marchio di abbigliamento e accessori ” B.”, ma tale attività non era decollata ed era stata chiusa nel 2016; –
che la resistente era, quindi, disoccupata e senza esperienze da spendere, posto che i lavori di indossatrice e
di PR non erano adeguati ad una donna di (Omissis); -che la stessa non aveva, quindi, una capacità
lavorativa effettiva e non era, perciò, ragionevole ritenere che potesse trovare una occupazione, dovendo,
peraltro, occuparsi anche del figlio; -che ricorrevano, pertanto, i presupposti, sia sotto il profilo assistenziale
che sotto quello perequativo e compensativo, per riconoscere alla B. un assegno divorzile, quantificabile in
600,00 Euro, beneficiando la stessa della casa familiare, di proprietà esclusiva del L.. Tanto premesso in
relazione al primo grado di giudizio, la Corte territoriale ha rilevato che: a) in relazione al primo motivo di
appello – con il quale l’appellante aveva dedotto che il Giudice di prime cure, riconoscendo il diritto di B.S.
ad ottenere l’assegno divorzile, si sarebbe discostato dai principi espressi dalla sentenza delle Sezioni Unite
della Suprema Corte n. 18287/2018 – ha sconfessato le doglianze così proposte, ritenendo che: (i) non era
stata contestata, nell’atto di impugnazione di L.D., la situazione reddituale e patrimoniale delle parti, quale
delineata dal Giudice di prime cure, che si è sopra riportata; (ii) risultava, dunque, evidente, innanzitutto, la
manifesta sproporzione tra le situazioni economiche delle parti, essendo la B. attualmente priva di qualsiasi
reddito e proprietaria della quota di 1/9 di un immobile; (iii) pur dovendosi senz’altro escludere, come
anche sostenuto dal L. nell’atto di impugnazione, che l’appellata avesse potuto contribuire alla formazione
dell’ingente patrimonio e al consolidamento delle elevatissime potenzialità reddituali dell’appellante,
attestate dal tenore di vita di quest’ultimo, avuto riguardo alla breve durata del matrimonio (appena cinque
anni), tuttavia poteva al contrario considerarsi provato che B.S. avesse cessato, in ragione del matrimonio,
ogni attività lavorativa, in forza di un accordo con il marito, per dedicarsi alla famiglia e al figlio; (iv)
deponevano per tale convincimento, una serie di elementi indiziari, quali la circostanza che la cessazione di
ogni attività lavorativa, da parte della appellata, fosse coincisa con il matrimonio, gli ingenti versamenti di
denaro effettuati dal L. su conti correnti intestati a B.S., dei quali aveva dato ampiamente conto il Giudice di
prime cure (e tale accertamento non era stato contestato nell’atto di appello) e l’avvio, da parte di
quest’ultima, di una nuova attività commerciale in epoca prossima alla separazione; v) gli elementi fattuali
ora evidenziati rendevano evidente che i coniugi avessero previsto che l’appellata si dedicasse, a tempo
pieno, alla famiglia e all’accudimento del figlio e che ad ogni esigenza economica del nucleo familiare (prima
di fatto, essendo il figlio nato in epoca antecedente al matrimonio) provvedesse, invece, il L.; (vi) la B. aveva,
dunque, abbandonato l’attività commerciale in precedenza svolta, rinunciando anche alle attività lavorative
di indossatrice e di pubbliche relazioni; (vii) che l’impossibilità di riprendere le attività lavorative da ultimo
indicate dipendesse anche dall’età dell’appellata ((Omissis)), ma non poteva non considerarsi, tuttavia, che
la scelta operata dai coniugi avesse impedito alla B. di acquisire competenze in settori lavorativi diversi e di
coltivare le relazioni che avrebbero potute consentirle, una volta cessata la convivenza matrimoniale, di
dedicarsi nuovamente, in maniera proficua, ad attività di impresa nel settore ove aveva in precedenza
operato; viii) la totale assenza di redditi, in capo alla B., appariva, dunque, riconducibile alla ripartizione dei
ruoli, tra l’appellata e il L., nell’ambito del nucleo familiare dagli stessi formato; (ix) tenuto, dunque, conto
delle elevatissime potenzialità reddituali del L., della breve durata del matrimonio, nonché delle circostanze
che l’appellata fosse del tutto priva di redditi e che la stessa beneficiasse dell’assegnazione della casa
familiare, di esclusiva proprietà dell’appellante, risultava condivisibile la determinazione dell’assegno
divorzile nell’importo mensile di 600,00 Euro, di cui alla sentenza impugnata; la Corte di appello ha inoltre
ritenuto infondato anche il secondo motivo della impugnazione di L.D., con il quale l’appellante aveva
censurato la regolamentazione delle spese di lite operata dal Giudice di primo grado, posto che la decisione
del Tribunale appariva, invero, consequenziale alla pressoché integrale soccombenza del L..
2. La sentenza, pubblicata il 13.04.2022, è stata impugnata da L.D. con ricorso per cassazione, affidato a due
motivi, cui B.S. ha resistito con controricorso.
Il ricorrente ha depositato memoria.
CONSIDERATO CHE
1.Con il primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il mancato esame di
fatto decisivo relativo alla “… considerevole patrimonialità della sig.ra B.”.
1.2 Il motivo così articolato è inammissibile.
1.2.1 Il ricorrente censura infatti la sentenza in esame, pronunciata dalla Corte D’Appello di (Omissis),
perché i Giudici di secondo grado avrebbero “omesso l’esame circa un fatto decisivo per la definizione del
giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti: la considerevole patrimonialità della signora B., che
si compone di cospicue somme liquide (circa Euro 300.000,00) e di gioielli e orologi del consistente valore
per svariate centinaia di migliaia di Euro, in gran parte frutto di liberalità dell’ex marito, che escludono il
riconoscimento, di un assegno divorzile” (pag. 2 del ricorso L.).
1.3 Risulta evidente che il ricorrente tenta di sollecitare questa Corte di legittimità ad una nuova valutazione
dei fatti e delle prove, proponendo dunque censure inammissibili.
E’ utile ricordare che le Sezioni Unite di questa Corte, con la nota sentenza 8053/2014, hanno precisato che
la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5), disposta con il Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, art. 54,
convertito con modificazioni, dalla Legge 7 agosto 2012, n. 134, secondo cui è deducibile esclusivamente
l'”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, deve
essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al minimo
costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia
motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge
costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della
sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna
rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”,
nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione
perplessa ed obiettivamente incomprensibile”. In realtà, secondo i dettami della giurisprudenza di
legittimità da ultimo citata, il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5), ha introdotto nell’ordinamento un vizio
specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal
testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia
carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il
fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza
non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Con la conseguenza che la parte ricorrente dovrà
indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), art. 369 c.p.c.,
comma 2, n. 4), – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione
tra le parti, e la “decisività'” del fatto stesso”.
1.4 Così perimetrato l’ambito di applicazione del vizio di cui al sopra ricordato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5,
qui formalmente dedotto dalla parte ricorrente (cfr. anche Cass. l’Ordinanza 4 marzo 2021 n. 5987), occorre
evidenziare che la formulazione del primo motivo di impugnazione non lascia dubbi sul fatto che il
ricorrente abbia richiesto un nuovo apprezzamento dei fatti e delle prove, e ciò con particolare riferimento
al profilo della valutazione della consistenza patrimoniale e reddituale della odierna resistente, scrutinio
che, per le ragioni già sopra evidenziate, è inibito al giudice di legittimità ed invece rimesso alla cognizione
esclusiva dei giudici del merito.
1.5 In realtà, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di
merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel
paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – che attribuisce rilievo, per quanto già sopra ricordato,
all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza
o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il
giudizio) – né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4 – dà
rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente
rilevante, sia perché la contestazione della persuasività del ragionamento del giudice di merito nella
valutazione delle risultanze istruttorie attiene alla sufficienza della motivazione, non più censurabile
secondo il nuovo parametro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), sia perché con il ricorso per cassazione
la parte non può rimettere in discussione, contrapponendovi le proprie, la valutazione delle risultanze
processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito, trattandosi di accertamento di
fatto, risulta precluso in sede di legittimità (ex plurimis Cass. 11863/2018, 29404/2017, 16056/2016).
1.6 In realtà, il ricorrente insiste nel riportare circostanze già valutate ed apprezzate dalla Corte D’Appello di
(Omissis), la quale, esercitando il suo “prudente apprezzamento”, aveva ritenuto, in realtà, che le stesse non
potessero far venire meno il diritto della B. all’assegno divorzile nella misura quantificata.
1.7 Peraltro, dallo stesso quantum dell’assegno divorzile (600,00 Euro mensili), come espresso in sentenza,
si comprende che la Corte abbia tenuto conto di tutti i fatti nuovamente citati da controparte, poiché, in
caso contrario, l’importo dell’assegno sarebbe stato maggiore, soprattutto alla luce del divario economico
esistente tra le parti, delle ingenti risorse del L. e dello stato di disoccupazione della B..
Si tratta, come già sopra più volte rilevato, di apprezzamenti in fatto che non possono essere più rimessi in
discussione nel giudizio di legittimità, per le ragioni sopra spiegate.
2. Con il secondo mezzo si deduce violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3,
dell’art. 2729 c.c. e della L. 898 del 1970, art. 5.
2.1 Anche il secondo mezzo non supera il vaglio di ammissibilità.
2.2 Sul punto, giova ricordare che, secondo il costante orientamento espresso da questa Corte di legittimità
(cfr. da ultimo anche: Sez. 2, Ordinanza n. 9054 del 21/03/2022), in tema di prova presuntiva, il giudice è
tenuto, ai sensi dell’art. 2729 c.c., ad ammettere solo presunzioni “gravi, precise e concordanti”, laddove il
requisito della “precisione” è riferito al fatto noto, che deve essere determinato nella realtà storica, quello
della “gravità” al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto desumibile da quello noto, mentre
quello della “concordanza”, richiamato solo in caso di pluralità di elementi presuntivi, richiede che il fatto
ignoto sia – di regola – desunto da una pluralità di indizi gravi, precisi e univocamente convergenti nella
dimostrazione della sua sussistenza, e ad articolare il procedimento logico nei due momenti della previa
analisi di tutti gli elementi indiziari, onde scartare quelli irrilevanti, e nella successiva valutazione
complessiva di quelli così isolati, onde verificare se siano concordanti e se la loro combinazione consenta
una valida prova presuntiva (c.d. convergenza del molteplice), non raggiungibile, invece, attraverso
un’analisi atomistica degli stessi. Ne consegue che la denuncia, in cassazione, di violazione o falsa
applicazione del citato art. 2729 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, può prospettarsi quando il
giudice di merito affermi che il ragionamento presuntivo può basarsi su presunzioni non gravi, precise e
concordanti ovvero fondi la presunzione su un fatto storico privo di gravità o precisione o concordanza ai
fini dell’inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota e non anche quando la critica si concreti nella
diversa ricostruzione delle circostanze fattuali o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica
diversa da quella ritenuta applicata dal giudice di merito o senza spiegare i motivi della violazione dei
paradigmi della norma (cfr. anche: Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 5279 del 26/02/2020; Cass. n. 15737 del 2003).
2.3 Occorre evidenziare che, anche sull’asserita violazione di legge, l’articolazione del motivo risulta nella
sostanza formulata in modo da non censurare l’interpretazione o falsa applicazione della disposizione di
legge invocata, ma da richiedere a questa Corte un vero e proprio riesame delle circostanze di fatto: ciò, si
ripete, non è ammissibile in questo giudizio di legittimità.
2.4 Secondo il ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe “fatto buon governo delle norme in materia di
presunzioni” ed avrebbe, pertanto, ritenuto provata una circostanza – ossia che la B. avesse abbandonato il
lavoro, per accordo con il marito, con l’instaurazione dell’unione matrimoniale – in forza “di fatti storici privi
di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza da essi della conseguenza ignota”.
2.5 Orbene, osserva il Collegio che la circostanza che il ricorrente richieda non una corretta applicazione
della norma, ma una nuova ricostruzione dei fatti risulta evidente dalla piana lettura del motivo di ricorso
qui in esame.
Anche l’allegata circostanza che la B. avesse tentato di riprendere in mano la sua vita professionale proprio
nell’anno 2013 con la ” B.” (attività chiusa nel 2016), ossia quando aveva preso coscienza della crisi
coniugale, pretenderebbe un nuovo apprezzamento di un elemento fattuale. 2.6 In termini conclusivi, può
invece ritenersi che la Corte D’Appello abbia, in realtà, correttamente applicato, motivandolo, la l. 898 del
1970, art. 5 e il carattere composito dell’assegno divorzile, il quale, invero, è stato fissato nell’ammontare
“contenuto” di 600,00 Euro (se raffrontato alle condizioni economiche delle parti), e ciò in ragione della
corretta interpretazione della funzione assistenziale, ma anche equilibratrice e perequativo-compensativa
che deve svolgere l’assegno stesso.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso
art. 13 (Cass. Sez. Un. 23535 del 2019).
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente,
delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.2000 per compensi, oltre alle spese forfettarie
nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dallal. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17,
dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis,
dello stesso art. 13.
Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati
identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.
Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2023.
Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2023

La formazione di una nuova famiglia può incidere sulla quantificazione dell’assegno di mantenimento in favore dei figli.

Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 13/12/2023) 12/03/2024, n. 6455
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 21222/2022 R.G. proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato in presso lo studio dell’avvocato MIRI PAOLA
(omissis) che lo rappresenta e difende
-ricorrente principale e controricorrente al ricorso incidentale –
contro
B.B., domiciliata ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA
della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati PUCCI
FRANCESCA (omissis) PONTA SIMONETTA EMMA (omissis), GIGLIOTTI TIZIANA
(omissis) – controricorrente al ricorso principale e ricorrente incidentale-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di FIRENZE n. 313/2022
depositata il 18/02/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13/12/2023 dal
Consigliere LAURA TRICOMI.
Giurisprudenza di legittimità Ondif
3
Svolgimento del processo
1.- A.A. ha chiesto la cassazione della sentenza della Corte di appello di Firenze
pubblicata il 18/2/2022 con quattro mezzi. B.B. ha replicato con controricorso
e ricorso incidentale con due mezzi. A.A. ha risposto con controricorso.
La Corte di appello di Firenze, in giudizio divorzile, in parziale modifica della
decisione di primo grado, ha incrementato l’assegno di mantenimento per la
figlia C.C. (nata il omissis) posto a carico di A.A. da euro 1.000,00 ad euro
2.000,00= mensili, oltre ISTAT, sul rilievo che la figlia permaneva quasi l’intera
settimana presso la madre collocataria privilegiata ed erano aumentate le sue
esigenze; ha, quindi, revocato l’assegno divorzile, già previsto in favore della
B.B. nella misura di euro 500,00=, considerata la capacità lavorativa della B.B.,
non messa a frutto per inerzia e la assenza di sacrificio nelle aspettative
lavorative della moglie, addirittura incoraggiate e finanziate dal marito, in quel
di Stoccolma, nel corso del coniugio.
È stata disposta la trattazione camerale.
Motivi della decisione
2.1.- Il ricorso principale è svolto da A.A. con quattro mezzi:
I) Violazione e falsa applicazione degli art. 147 c.c., 315bis c.c., 316bis c.c. e
337ter c.c. Secondo il ricorrente la Corte di Appello di Firenze ha, in punto di
determinazione del quantum del contributo dovuto dal padre per il
mantenimento della figlia minore C.C., compiuto una erronea e falsa
applicazione delle norme di diritto disciplinanti specificatamente la predetta
quantificazione.
II) Violazione e falsa applicazione degli artt. 337ter c.c., 132 c.p.c. La
medesima doglianza è svolta sotto il diverso profilo, della mera apparenza della
motivazione, laddove la Corte di merito ha succintamente stabilito che “pare
equo che A.A. corrisponda alla madre a titolo di contributo al mantenimento
ordinario della figlia la somma di Euro 2.000,00 mensili…attesa la parziale
modifica qui assunta dei tempi di permanenza del padre con la figlia e
comunque le crescenti esigenze presuntivamente correlate al progredire
dell’età della ragazza”.
III) Violazione e falsa applicazione degli artt. 337ter c.c., 115 e 116 c.p.c. Il
ricorrente lamenta, altresì, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il
giudizio deducendo che il giudice di merito, nella determinazione – seppur
evidentemente viziata – del quantum a titolo di assegno di mantenimento
dovuto dal padre per la figlia minore, ha omesso di considerare una
circostanza, oggetto di discussione tra le parti, individuata nella costituzione
della nuova famiglia da parte sua, costituita dalla moglie che non lavora e da
due figli, con i connessi oneri di mantenimento.
IV) Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 e 92 co. 2 c.p.c., 132 c.p.c. In
questo caso la critica si appunta sulla prevista compensazione delle spese di
Giurisprudenza di legittimità Ondif
4
lite del doppio grado che il giudice di gravame ha statuito richiamando a
sostegno la “reciproca soccombenza delle parti in ambedue i gradi di giudizio”.
2.2.- I primi tre motivi del ricorso principale, da trattare congiuntamente, sono
fondati.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la quantificazione
dell’assegno di mantenimento previsto in favore del figlio, deve tenere conto
non solo delle “rispettive sostanze”, ma anche della capacità di lavoro,
professionale o casalingo, di ciascun coniuge, con espressa valorizzazione, oltre
che delle risorse economiche individuali, anche delle accertate potenzialità
reddituali (Cass. n. 6197/2005 e Cass. n. 3974/2002 ), in uno con la
considerazione delle esigenze attuali del figlio (Cass. n. 4811/2018 ; Cass., n.
16739/2020 e Cass. n. 19299/2020 ), nonché dei tempi di permanenza dello
stesso presso ciascuno dei genitori e della valenza economica dei compiti
domestici e di cura da loro assunti (Cass. n. 17089/2013 ).
Inoltre, la formazione di una nuova famiglia e la nascita di figli con il nuovo
partner, pur non determinando automaticamente una riduzione degli oneri di
mantenimento dei figli nati dalla precedente unione, deve essere valutata dal
giudice come circostanza che può incidere nella determinazione dell’importo
dovuto in quanto comporta il sorgere di nuovi obblighi di carattere economico
(Cass. n. 14175/2016 ; Cass. n. 21818/2021 ).
Nel caso in esame, la Corte di merito non si è attenuta ai principi ricordati,
essendo la motivazione sul raddoppio del mantenimento della figlia minore del
tutto generica ed apodittica, oltre che costituente violazione delle norme
succitate, essendo fondata sul solo presuntivo incremento delle esigenze della
minore e sulla valorizzazione della più ampia permanenza temporale presso la
madre, atteso che non vengono in alcun modo illustrate le ragioni del così
cospicuo aumento, né vengono presi in esame ad alcun titolo i sopravvenuti
oneri di mantenimento rispetto alla nuova prole dello A.A.
2.3.- Il quarto motivo, concernente la compensazione delle spese, è assorbito.
3.1.- Il ricorso incidentale è svolto da B.B. con due mezzi:
I) Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 337-ter c.1 -3, 315-bis e 316
c.c., con riferimento al capo 1) della sentenza impugnata, in ordine alla
regolamentazione del diritto di visita della minore con il padre e con i fratelli
nati nella nuova famiglia in forma stringente ed impositiva, nonostante le
difficoltà manifestate dalla figlia a coltivare il rapporto con il padre e con la
nuova famiglia presso la abitazione di questi.
II) Violazione e falsa applicazione dell’art. 5 c. 6 L. n. 898/1970 , in merito al
diniego dell’assegno divorzile in favore di B.B.
3.2.- Il primo motivo è fondato.
Giurisprudenza di legittimità Ondif
5
La ragazza (ormai sedicenne) ha espresso una condizione di ansia, di timore,
di disagio, profonda e radicata, anche per il rifiuto frapposto dalla seconda
moglie del padre a vederla ed a farla incontrare con i fratelli. Orbene,
l’audizione del minore è volta a garantire il diritto al contraddittorio del
medesimo nel processo, in quanto parte sostanziale (poiché portatore di
interessi propri, che possono anche collidere con quelli dei genitori, in questo
caso recessivi), e non solo formale. L’audizione dei minori, già prevista nell’art.
12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un
adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che li riguardino ed, in
particolare, in quelle relative al loro affidamento ai genitori, ai sensi dell’art. 6
della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la l. n. 77
del 2003 , nonché dell’art. 315-bis c.c. (introdotto dalla l. n. 219 del 2012 ) e
degli artt. 336-bis e 337-octies c.c. (inseriti dal D.Lgs. n. 154 del 2013 , che
ha altresì abrogato l’art. 155-sexies c.c.). Ne consegue che l’ascolto del
minore di almeno dodici anni, e anche di età minore ove capace di
discernimento, costituisce una modalità, tra le più rilevanti, di riconoscimento
del suo diritto fondamentale ad essere informato e ad esprimere le proprie
opinioni nei procedimenti che lo riguardano, nonché elemento di primaria
importanza nella valutazione del suo interesse (Cass. n. 12018/2019 ; Cass.
n.6129/2015 ).
La Corte, a fronte di tali motivate e radicate obiezioni, avrebbe dovuto
approfondire il problema, se del caso nominando un consulente per la
valutazione dei rapporti all’interno dell’intero nucleo familiare, ma non certo
imporre soluzioni che potrebbero rivelarsi traumatiche o, quanto meno,
peggiorative dei rapporti della minore con il padre ed i fratellini.
3.3.- Anche il secondo motivo del ricorso incidentale è fondato.
Il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve
attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e
perequativa, ai sensi dell’art. 5 , comma 6, della l. n. 898 del 1970 , richiede
l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e
dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri
equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il
parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla
quantificazione dell’assegno. Il giudizio deve essere espresso, in particolare,
alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-
patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente
alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune,
nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata
del matrimonio ed all’età dell’avente diritto. All’assegno divorzile in favore
dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura
perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del
principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un
contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento
dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il
Giurisprudenza di legittimità Ondif
6
raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo
fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle
aspettative professionali sacrificate. La funzione equilibratrice del reddito degli
ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è
finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al
riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge
economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di
quello personale degli ex coniugi (Cass. Sez.U. n.18287/2018 ).
Nella specie, la Corte d’appello – pur avendo accertato che, al momento della
decisione, la moglie aveva quasi cinquanta anni, che la medesima, pur essendo
laureata, si era sempre dedicata alla cura della figlia, pur avendo ricevuto
diverse proposte di lavoro, e che aveva comunque cercato di lavorare,
trasferendosi all’estero – ha negato l’assegno, sulla base del riscontro di un
diritto di abitazione acquisito su di una casa in Firenze e della nuda proprietà di
altra abitazione, senza effettuare ulteriori accertamenti sui redditi effettivi della
medesima, e sulla sua ipotetica autosufficienza economica. La Corte ha, poi,
del tutto omesso di effettuare una valutazione comparativa con i redditi del
marito, neppure indicati, e sul contributo dato dalla donna alla formazione del
patrimonio familiare, rinunciando ad accettare le proposte di lavoro dalla
stessa Corte elencate.
4.- In conclusione, va accolto il ricorso principale, fondati i motivi primo,
secondo e terzo e assorbito il quarto, e va accolto anche il ricorso incidentale;
a ciò consegue la cassazione della sentenza con rinvio della causa alla Corte di
appello di Firenze in diversa composizione per il riesame, alla luce dei principi
esposti, e la statuizione sulle spese.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le
generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n.
196 del 2003 , art. 52 .
P.Q.M.
– Accoglie il ricorso principale, in relazione al primo, secondo e terzo motivo,
assorbito il quarto; accoglie il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata
e rinvia alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione, anche per le
spese.
Conclusione
Così deciso in Roma, il giorno 13 dicembre 2023.
Depositata in Cancelleria il 12 marzo 2024.

La finalità compensativa dell’assegno divorzile deve essere provata.

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza del
12 marzo 2024, n. 6433, Cons. Rel. Dott. Rosario Caiazzo
Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 12/12/2023) 12/03/2024, n. 6433
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ORDINANZA
sul ricorso 23412-2022 proposto da:
A.A., elettivamente domiciliata in Roma, via delle Belle Arti 7, presso l’avv.
Domitilla Ambrosio, rappresentata e difesa dall’avv. Tiziana Gigliotti, per
procura speciale in atti;
– ricorrente –
– contro –
Giurisprudenza di legittimità Ondif
B.B., elett.te domic. in Roma, viale delle Milizie 106, presso l’avv. Stefania
Falvo D’Urso, rappres. e difeso dall’avv. Maria Silvia Marchesi, per procura
speciale in atti;
– controricorrente-
PROCURA GENERALE PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI FIRENZE;
– intimata –
– nonché –
B.B., elett.te domic. in Roma, viale delle Milizie 106, presso l’avv. Stefania
Falvo D’Urso, rappres. e difeso dall’avv. Maria Silvia Marchesi, per procura
speciale in atti;
– ricorrente incidentale –
– contro –
A.A., elettivamente domiciliata in Roma, via delle Belle Arti 7, presso l’avv.
Domitilla Ambrosio, rappresentata e difesa dall’avv. Tiziana Gigliotti, per
procura speciale in atti;
– controricorrente all’incidentale –
PROCURA GENERALE PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI FIRENZE;
– intimata –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Firenze, n. 492-22, pubblicata in
data 10.03.2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12.12.2023
dal Cons. rel., dott. Rosario Caiazzo.
Svolgimento del processo
Con sentenza definitiva del 18.3.21 il Tribunale di Firenze (dopo aver emesso
sentenza non definitiva sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio tra
A.A. e B.B.), preso atto del raggiungimento della maggiore età del figlio C.C. e
dell’età di 17 anni dell’altro figlio, disponeva l’affidamento congiunto del
minore, con collocamento prevalente presso la madre (affidando agli accordi
tra le parti la determinazione dei periodi in cui il padre poteva tenere il minore
con sé), e ponendo a carico del padre un assegno di mantenimento di Euro
500,00 mensile, oltre al 50% delle spese straordinarie.
Inoltre, il Tribunale poneva a carico della moglie un assegno divorzile a favore
dell’ex marito di Euro 4.500,00 mensili, considerando che quest’ultimo aveva
abbandonato la propria attività lavorativa per dedicarsi alla gestione del
patrimonio immobiliare dell’ex moglie.
Quest’ultima proponeva appello che, con sentenza del 10.3.22, la Corte
territoriale accoglieva parzialmente, riducendo l’assegno a favore dell’ex marito
Giurisprudenza di legittimità Ondif
a Euro 3.000,00 al mese, confermando per il resto la sentenza impugnata,
osservando che: l’autonomia economica dell’ex marito era stata compromessa
dalla cessazione del vincolo matrimoniale, in ragione delle scelte endofamiliari
condivise dai coniugi, che hanno visto l’attività professionale dell’appellato
spostarsi dalla D.D.Spa (ove era impiegato, percependo uno stipendio mensile
di Euro 3.000,00), allo svolgimento, per oltre un decennio, di un’attività
professionale consistente in via esclusiva nella cura del patrimonio immobiliare
di proprietà dei suoceri e della ex moglie; che tali scelte endofamiliari avevano
contribuito anche alla sua qualificazione e realizzazione professionale in un
ruolo manageriale apicale, quale amministratore unico della TM Srl,
percependo compensi complessivamente migliorativi dello stipendio percepito
in precedenza; l’ex marito, quale geologo, svolgeva anche la carica di
assessore all’ambiente del Comune di V , manifestando un’autonoma capacità
di lavoro e di guadagno, anche se grandemente limitata rispetto a quella svolta
in costanza di matrimonio; l’ex moglie, pur titolare di ingente patrimonio
immobiliare con elevate rendite, era però gravata da un cospicuo
indebitamento di oltre 2.500.000 Euro, a fronte di attività produttive
prevalentemente immobiliari e tali da richiedere costi che ne erodevano le
disponibilità liquide; tenuto conto dei vari elementi di valutazione, l’assegno
divorzile a favore dell’ex marito era da determinare in Euro 3.000,00 mensile
quale importo idoneo a soddisfare la funzione compensativa-perequativa
dell’assegno stesso; era infondato il motivo d’appello relativo al rigetto della
domanda di condanna dell’ex marito al mantenimento del figlio maggiorenne
ma non ancora autosufficiente, in quanto tale figlio aveva interrotto gli studi da
oltre quattro anni, e la madre gli aveva prima allestito un negozio di
abbigliamento in Firenze, e poi investendo in un’impresa nautica in cui
occupare il figlio, che successivamente si era dedicato alla gestione del
patrimonio familiare; era da confermare al riguardo quanto deciso dal giudice
di merito in ordine ad una raggiunta autonomia economica da parte del figlio
maggiore tale da giustificare la revoca dell’assegno a carico del padre; era
inammissibile la domanda di restituzione di quanto corrisposto dall’ex moglie
all’ex marito per far fronte al pagamento del canone di locazione, in quanto
questione estranea al giudizio.
A.A. ricorre in cassazione con due motivi. B.B. resiste con controricorso e
propone ricorso incidentale affidato ad un unico motivo, illustrato da memoria.
Motivi della decisione
Il primo motivo del ricorso principale denunzia violazione dell’art. 5, c.6, L. n.
898-70, per aver la Corte d’appello ritenuto il diritto dell’ex marito all’assegno
divorzile, pur non essendone stata provata la funzione compensativa, cioè che
lo stesso ex marito abbia contribuito alla formazione o all’incremento del
patrimonio personale dell’ex moglie, pur percependo corrispettivi dall’attività di
gestione del patrimonio di quest’ultima e dei suoi familiari, e senza sacrificare
le sue aspettative lavorative e reddituali.
La ricorrente lamenta in particolare che: la Corte d’appello abbia violato il
predetto art. 5, riconoscendo un assegno corrispondente al compenso dell’ex
marito (quale amministratore delegato della TM Srl) ed equivalente al
Giurisprudenza di legittimità Ondif
contributo stabilito a carico della ex moglie per il suo mantenimento in sede di
separazione, atteso che l’ex marito avrebbe di fatto solo conservato il
patrimonio pervenuto in eredità alla A.A., percependo regolare remunerazione
per essa, dimostrando peraltro di essere in grado di trovare altra occupazione
adeguata; la funzione compensativa dell’assegno era stata ravvisata
nell’impossibilità per l’ex marito di continuare a percepire gli emolumenti di cui
prima poteva disporre, ed ancorandone l’importo al compenso che costituiva il
corrispettivo dell’attività prestata in costanza di matrimonio; la Corte
territoriale aveva di fatto parametrato l’assegno all’ormai superato criterio del
tenore di vita della famiglia.
Il secondo motivo denunzia violazione degli artt. 111 cost., c.6, 5, c.6, L. n.
898 del 1970 , 132, c.4, c.p.c., per aver la Corte d’appello adottato una
motivazione contraddittoria nella quale, dopo aver dato atto della mancanza
delle condizioni per il riconoscimento dell’assegno divorzile, l’abbia poi
riconosciuto, seppure con la riduzione a Euro 3.000,00 al mese.
L’unico motivo del ricorso incidentale denunzia violazione degli artt. 115 e 116
, c.p.c., per aver la Corte territoriale posto alla base della decisione prove non
acquisite al giudizio (la retribuzione quale amministratore della TM Srl
d’importo doppio a quella che percepiva come dipendente della D.D.Spa,
mentre la somma mensile di Euro 2.400,00 versata al controricorrente dalla
suocera era destinata alle spese di famiglia; l’aver estinto il mutuo da lui
contratto per l’acquisto della sua quota della casa di E.E. con le retribuzioni per
la carica di amministratore), e contrastate da prove testimoniali e documentali.
A.A. deposita controricorso al ricorso incidentale.
B.B. ha depositato il 22.12.2022 un’istanza di rimessione in termini
deducendo: che per lo sciopero dei mezzi di trasporto il plico contenente il
controricorso e i documenti allegati, spedito l’1.12.2022, era pervenuto a Roma
il 5.12.2022 alle 13; che nel pomeriggio del 5.12.2022 il difensore aveva
provveduto telematicamente al deposito ed all’iscrizione a ruolo del
controricorso e del ricorso incidentale; che all’atto di tale deposito telematico,
dopo aver ricevuto dal sistema le ricevute di avvenuta accettazione e
consegna, era stata generata, in luogo della terza ricevuta di verifica, un
messaggio di “notifica eccezione” e che, pertanto, stante l’incertezza
sull’acquisizione o meno del deposito, il giorno successivo era avvenuta
l’iscrizione a ruolo anche in via cartacea; successivamente era emerso che il
deposito telematico era stato rifiutato dal sistema per problemi relativi alla
nomenclatura del sistema informatico e che, pertanto, tale iscrizione a ruolo
non poteva ritenersi non tempestiva.
Il ricorso principale è fondato.
All’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura
assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende
direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e
conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge
richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di
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un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello
reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare,
in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate. La
funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal
legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore
di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito
dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio
della famiglia e di quello personale degli ex coniugi. Il giudizio dovrà essere
espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle
condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo
fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione
del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex
coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto
(Cass., S.U. 18287-2018).
Sciolto il vincolo coniugale, in linea di principio ciascun ex coniuge deve
provvedere al proprio mantenimento, tuttavia tale principio è derogato, in base
alla disciplina sull’assegno divorzile, oltre che nell’ipotesi di non autosufficienza
di uno degli ex coniugi, anche nel caso in cui il matrimonio sia stato causa di
uno spostamento patrimoniale dall’uno all’altro coniuge, ex post divenuto
ingiustificato, spostamento patrimoniale che in tal caso deve essere corretto
attraverso l’attribuzione di un assegno, in funzione compensativo-perequativa.
Pertanto, ove ne ricorrano i presupposti e vi sia una specifica prospettazione in
tal senso, l’assegno deve essere adeguato a compensare il coniuge
economicamente più debole, in funzione perequativo-compensativa, del
sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-
reddituali – che il coniuge richiedente l’assegno ha l’onere di dimostrare nel
giudizio – al fine di contribuire ai bisogni della famiglia, rimanendo, in tal caso,
assorbito l’eventuale profilo assistenziale (Cass. 24250-2021; Cass. 23583-
2022; Cass. 9144-2923).
Nel caso concreto, la Corte d’appello ha valutato comparativamente i redditi
delle due parti, pervenendo alla conclusione che la A.A., sebbene titolare di un
ingente patrimonio immobiliare (oltre 80 immobili), che le assicuravano un
reddito netto elevato, ha comunque debiti fiscali per Euro 755.969,73, ed è
gravata da un mutuo – per fare fronte ai debiti maturati – di Euro
2.500.000,00, con conseguente rata mensile di ben 22,724,00 Euro.
La Corte ha altresì accertato che la A.A. non aveva mai lavorato, essendosi
dedicata sempre ai figli, e che non risultava comprovato che l’avere l’B.B.
lasciato il precedente lavoro presso laD.D.Spa si fosse tradotto per il medesimo
in una perdita, atteso che l’incarico di amministratore unico della TM Srl
(società che gestiva il patrimonio della moglie) ha comportato per il medesimo
l’acquisizione, per tutti gli anni del matrimonio, di un stipendio doppio di quello
precedentemente percepito, contribuendo a qualificarlo professionalmente; né
risulta che il medesimo abbia rinunciato a diverse occasioni di lavoro.
La Corte d’appello ha accertato, poi, che l’attività del marito non aveva
determinato un incremento del patrimonio familiare e di quello della moglie,
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essendosi trattato di un’attività meramente conservativa, e che l’B.B., geologo,
era stato sempre collocato sul mercato, svolgendo attività di rilievo, sicché non
risultava dimostrato che il medesimo “non possa trovare un’occupazione
confacente alle proprie attitudini”.
Il giudice di secondo cure ha, altresì, accertato che il controricorrente è
proprietario della maggiore porzione di una villa (adibita ad abitazione
familiare), per il cui acquisto aveva stipulato un mutuo estinto nel 2013, anche
se di difficile vendita, per la presenza di una vicina discarica, ma comunque di
valore, e che il medesimo è assessore comunale e svolge attività di consulente
per il Tribunale.
Pertanto, può dirsi che la decisione della Corte territoriale di confermare, ad
onta di tutti i rilievi che precedono, solo riducendolo da Euro 4.500,00 ad Euro
3.000,00, l’assegno divorzile a favore dell’B.B., sia fondata su di una
motivazione del tutto contraddittoria e contraria ai principi suesposti, fondati
sul disposto dell’art. 5 L. n. 898 del 1970 , non avendo il giudice d’appello
evidenziato rinunce pregiudizievoli ad attività più lucrative da parte dell’ex
marito, né una sua situazione economica totalmente deficitaria, né una sua
comprovata inidoneità al lavoro, e neppure un contributo significativo
all’accrescimento del patrimonio familiare e dell’altro coniuge.
L’accoglimento del ricorso principale, comporta l’assorbimento del ricorso
incidentale, volto a far valere questioni relative alla determinazione
dell’assegno, sulla cui spettanza il giudice di rinvio dovrà pronunciarsi, facendo
applicazione dei principi suesposti.
In accoglimento del ricorso principale, la sentenza impugnata va, pertanto,
cassata, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Firenze, anche in ordine
alle spese del presente grado di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale, cassa la
sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Firenze – in diversa
composizione – anche in ordine alle spese del grado di legittimità.
Dispone che ai sensi dell’art. 52 del D.Lgs. n. 196 del 2003 , in caso di
diffusione della presente ordinanza si omettano le generalità e gli altri dati
identificativi delle parti.
Conclusione
Così deciso nella camera di consiglio del 12 dicembre 2023.
Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2024.