Violenza sessuali di minori verso minori e presunzione di colpa dei genitori

Tribunale Parma, sentenza 14 marzo 2023 n. 315 – Giudice Est. Cicciò
Il Tribunale di Parma, nella persona del giudice monocratico dott. Giacomo Cicciò, ha pronunciato
la seguente
SENTENZA
Nelle cause civili riunite , r.g…., promosse da: ***, con gli avv.ti …
CONTRO
***, con l’avv. …
NONCHE’ CONTRO
***, con gli avv.ti …
NONCHE’ CONTRO
*** , con l’avv. Romina Cini
CONCLUSIONI: COME DA NOTE DEPOSITATE TELEMATICAMENTE
MOTIVI DELLA DECISIONE
*** in proprio e quali genitori esercenti la potestà sulla figlia minore ***, hanno convenuto in ***,
nonché i rispettivi genitori *** esercenti la responsabilità genitoriale ai tempi dei fatti di causa, al fine
di ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali e patrimoniali subiti in conseguenza delle
condotte poste in essere in data 14 febbraio 2016 allorché *** (all’epoca quindicenne), *** (all’epoca
quindicenne) e *** (all’epoca sedicenne) all’interno dell’abitazione della famiglia *** consumarono
rapporti sessuali orali con *** (all’epoca tredicenne) e con *** (all’epoca dodicenne), che vennero
ripresi con un telefonino e quindi diffusi in varie chat whattsapp.
Si costituivano in giudizio i convenuti contestando la domanda attorea di cui domandavano il
rigetto.
Il procedimento veniva quindi riunito a quello RG 2799/2020 nel quale, per gli stessi fatti, ***, in
proprio e quali esercenti la potestà genitoriale sulla figlia minore ***, avevano convenuto in giudizio
i medesimi convenuti.
La causa era istruita mediante CTU medico – legale e viene ora in decisione.
I fatti da cui discende la domanda risarcitoria proposta in questa sede emergono univocamente dal
contenuto dei verbali di sommarie informazioni rese da *** in data 28 settembre 2016 ai CC di Parma
e prodotte sub doc. 1 e nei quali i dichiaranti hanno riferito di avere avuto a turno in data 14 febbraio
2016 presso l’abitazione della famiglia *** rapporti sessuali orali con *** e ***, all’epoca dei fatti
rispettivamente di anni 13 e 12, che erano bendate e asseritamente consenzienti.
I dichiaranti hanno concordemente riferito che mentre *** e *** erano bendate ed inconsapevoli ***
scattò con il suo cellulare una foto mentre *** e *** avevano rapporti orali con le stesse e poco dopo
fu *** a scattare una foto mentre *** e *** consumavano un rapporto orale con le giovani.
*** ha quindi dichiarato di avere inviato poi le foto all’amico *** e di avere successivamente appreso
che erano state diffuse in vari gruppi whattsapp.
*** ha invece riferito che la sera stessa venne inserito in un gruppo whattsapp creato da *** e *** e da
tale *** in cui le foto erano state inserite e di avere successivamente appreso che erano state diffuse
in vari gruppi whattsapp.
Le condotte poste in essere dai convenuti ***, *** e *** sono penalisticamente rilevanti, integrando i
reati di cui agli artt. 609 octies, 609 ter comma primo n. 1 ed in relazione all’art. 609 bis comma
secondo n. 1 e n. 2 cp per avere intrattenuto rapporti sessuali orali con *** e *** approfittando del
fatto che fossero di minore età rispetto a loro, della superiorità numerica e della inesperienza delle
ragazze, che avevano rispettivamente 13 e 12 anni e quindi in assenza di valido consenso, che
neppure poteva essere validamente prestato da *** che all’epoca era dodicenne; di cui all’art. 595 cp
per avere ripreso gli atti sessuali mediante i telefonini e averle diffuse in gruppi whattsapp; di cui
all’art. 600 ter cp per avere scattato immagini di carattere pedopornografico.
La responsabilità penalistica, integrante evidentemente natura di fatto illecito rilevante anche in sede
civilistica, è ascrivibile ai convenuti ***, *** e *** poiché, a prescindere da chi ebbe a scattare le
fotografie (*** e ***) e da chi ebbe a diffonderle (*** e ***, sulla base di quanto ammesso dal primo e
dichiarato dal ***), tutti acconsentirono a che le riprese pornografiche venissero effettuate mediante
telefonini ad insaputa delle ragazze, che erano bendate, con la evidente finalità di diffonderle
successivamente in gruppi whattsapp e canali social, come poi puntualmente avvenuto, posto che
non si vede quale ulteriore finalità potesse avere realizzare le riprese, o comunque accettando il
rischio che ciò potesse avvenire essendo altamente probabile e prevedibile che le immagini venissero
condivise in gruppi whattsapp o canali social.
Si rileva peraltro che costituendosi i convenuti hanno espressamente riconosciuto di avere diffuso le
immagini.
In comparsa di costituzione la difesa dei convenuti ha infatti argomentato che: ” Quanto, invece, alla
diffusione delle fotografie, sempre dagli atti penali emerge come le stesse siano rimaste per almeno
sei mesi in una cerchia ristretta di persone, cioè gli odierni convenuti e due o tre amici, ai quali erano
state semplicemente mostrate” (v. comparsa di costituzione sub pag. 7), con ciò riconoscendo
espressamente che i convenuti ebbero a mostrare ad altri le immagini e quindi a diffonderle.
I convenuti ***, *** e *** hanno quindi concorso nella commissione dei reati di violenza sessuale di
gruppo, di creazione di materiale pedopornografico e nella sua diffusione, condotta che rientra nella
fattispecie di cui all’art. 595 cp in quanto lesiva della reputazione delle ragazze riprese mentre
compivano atti sessuali.
Tali condotte integrano anche un fatto illecito con conseguente responsabilità risarcitoria dei soggetti
che ebbero a commetterle, ossia ***, *** e ***, all’epoca minorenni.
Sussiste anche la legittimazione passiva dei genitori, all’epoca dei fatti esercenti la potestà genitoriale
sui figli minorenni e fondata sul disposto dell’art. 2048 cc
I criteri in base ai quali va imputata ai genitori la responsabilità per gli atti illeciti compiuti dai figli
minori consistono, sia nel potere-dovere di esercitare la vigilanza sul comportamento dei figli stessi,
sia anche, e soprattutto, nell’obbligo di svolgere adeguata attività formativa, impartendo ai figli
l’educazione al rispetto delle regole della civile coesistenza, nei rapporti con il prossimo e nello
svolgimento delle attività extrafamiliari (Cass. 26200/2011; Cass. 13.3.2008 n. 7050; Cass. 20.10.2005
n. 20322; cass. 11.8.1997 n. 7459).
La norma dell’art. 2048 c.c. è costruita in termini di presunzione di colpa dei genitori (o dei soggetti
ivi indicati).
In relazione all’interpretazione di tale disciplina, quindi, è necessario che i genitori, al fine di fornire
una sufficiente prova liberatoria per superare la presunzione di colpa desumibile dalla norma,
offrano, non la prova legislativamente predeterminata di non aver potuto impedire il fatto (e ciò
perché si tratta di prova negativa), ma quella positiva di aver impartito al figlio una buona
educazione e di aver esercitato su di lui una vigilanza adeguata, il tutto in conformità alle condizioni
sociali, familiari, all’età, al carattere ed all’indole del minore (c. anche Cass. 14.3.2008, n. 7050).
Inoltre, l’inadeguatezza dell’educazione impartita e della vigilanza esercitata su di un minore, può
essere ritenuta, in mancanza di prova contraria, dalle modalità dello stesso fatto illecito, che ben
possono rivelare il grado di maturità e di educazione del minore, conseguenti al mancato
adempimento dei doveri incombenti sui genitori, ai sensi dell’art. 147 c.c. (Cass. 7.8.2000 n. 10357).
Nella specie, non solo una tale prova liberatoria non è stata in alcun modo fornita, ma le modalità
stesse del fatto sono tali da apparire suscettibili di essere interpretate come indice di una educazione
inadeguata rispetto ai dettami civili della vita di relazione, la cui responsabilità – in difetto di una
puntuale prova liberatoria – non può che ricadere presuntivamente sui genitori, venuti meno ai
doveri sugli stessi incombenti ai sensi dell’art. 147 c.c..
Pertanto anche i genitori *** sono solidalmente responsabili con i rispettivi figli per il risarcimento
del danno subito dagli attori, alla cui verificazione hanno concorso mediante una condotta
indipendente.
La giurisprudenza (v. tra le altre Cass. 28656/2017) ha infatti chiarito che: ” …l’unicità del fatto
dannoso, richiesta dall’art. 2055 cod. civ. ai fini della configurabilità della responsabilità solidale
degli autori dell’illecito, va intesa in senso non assoluto, ma relativo … sicché – sia in tema di
responsabilità contrattuale che extracontrattuale – se un unico evento dannoso è ricollegabile
eziologicamente a più persone, è sufficiente, ai fini della responsabilità solidale, che tutte le singole
azioni od omissioni abbiano concorso in modo efficiente a produrlo, … essendo a tal fine irrilevante
se il fatto dannoso sia derivato da più autonome azioni od omissioni, dolose o colpose, costituenti
fatti illeciti anche temporalmente distinti, ed anche diversi”.
Venendo al danno non patrimoniale subito da *** e ***, è stata disposta CTU medico-legale al fine di
valutare il danno psichico riportato in conseguenza dei fatti e che è stata affidata ai dott. …
I CTU, con relazione che appare pienamente condivisibile ed alla quale ci si riporta integralmente
anche con riguardo alle puntuali repliche alle contestazioni sollevate dai CTP delle parti, il che esime
da una specifica trattazione sul punto (cfr. Cass. 10688/2008) hanno accertato quanto segue.
Quanto ad ***: “Dal punto di vista medico-legale in tema di Responsabilità Civile, considerata la
vicenda nella sua interezza, appare verosimile e ampiamente giustificata la prolungata sofferenza
psico-emotiva reattiva della ragazza, concretizzata in sintomatologia di valore psichiatrico, per i
tempi successivi agli eventi. Il nesso causale va individuato non solo e non tanto con il tipo di atti
rappresentati, pur di per sé riprovevoli ed effettuati ai danni di ragazzine inconsapevoli (in ogni
caso in stato di evidente stato di sudditanza psicologica), quanto con la successiva diffusione virale
sui social media delle immagini pedopornografiche scattate, a maggior ragione considerando le
caratteristiche del luogo di residenza dei protagonisti della vicenda (paese piccolo dove quasi tutti
si conoscono). Per oltre 9 mesi il comprensibile disagio ha comportato una chiusura della ragazza al
mondo esterno, eccezion fatta per la scuola, subito cambiata (in un paese vicino), per la mancanza
di supporto nell’ambiente scolastico, che, ben lungi dall’aiutarla, è stato anzi descritto come irridente
e ostile. Parimenti non le è stata di aiuto, con apparente paradosso, la assenza di rimproveri da parte
dei genitori, dei quali però coglieva la sofferenza, con il risultato di accentuare il suo sentimento di
colpa. La psicodiagnostica, pur con i limiti segnalati nella elaborazione del MMPI, conferma la
presenza di ansia, depressione, elementi di PTSD (Disturbo Post Traumatico da Stress). nell’attuale,
al netto di una enfatizzazione della sintomatologia (che peraltro potrebbe anche indicare una
richiesta di aiuto e di comprensione, nel timore che la propria sofferenza venga sottovalutata o
banalizzata dagli altri…), è indubbiamente presente una ripercussione sullo stato psichico. Volendo
affidarsi a criteri categoriali ex DSM III e successive revisioni (da ultima il DSM-5), il quadro clinico
potrebbe riferirsi ad un Disturbo dell’Adattamento misto, con ansia e umore depresso, cronico,
complicato da elementi di Stress Post-Traumatico. Il conseguente DANNO BIOLOGICO
PERMANENTE risarcibile in Responsabilità Civile, considerati i valori tabellari di riferimento, tra
l’11 ed il 15 %, riportati sulle principali Guide Valutative 1 2 per i “Disturbi dell’adattamento
complicati”, può essere quantificato nella misura di circa il 12 % (DODICI PER CENTO). Il periodo
iniziale di più intensa sofferenza psico-emozionale con aspetti ansiosodepressivi, isolamento sociale,
disturbi del sonno, ideazioni autosoppressive, è stato della durata di circa 9 (NOVE) MESI e può
essere risarcito come INABILITA’ TEMPORANEA BIOLOGICA PARZIALE al 25 %. CONGRUE e
PERTINENTI sono da considerare tutte le spese sanitarie contenute nell’allegato 9-10 del fascicolo
di parte attrice”.
Quanto a ***: “Volendo affidarsi a criteri categoriali ex DSM III e successive revisioni (da ultima il
DSM-5), il quadro clinico attuale potrebbe riferirsi ad un Disturbo dell’Adattamento, con ansia,
cronico, aggravato da qualche tratto di Stress Post-Traumatico. Come nel caso di ***, il rapporto
causale con gli eventi sembra decisamente porsi con la diffusione sui social media delle immagini,
in assenza di specifico riferimento agli atti rappresentati i quali, senza la divulgazione delle foto
pedo-pornografiche, avrebbero verosimilmente provocato nelle ragazze solo vergogna e imbarazzo
iniziali, destinati però ad attenuarsi ed a spegnersi progressivamente nel tempo. Sotto l’aspetto
valutativo medico-legale in tema di Responsabilità Civile, trattandosi di un Disturbo
dell’Adattamento sostanzialmente non complicato, in cui le percentuali invalidanti indicate dalle
principali Guide Valutative 1 2 vanno dal 6 al 10 %, il DANNO BIOLOGICO PERMANENTE
risarcibile può essere quantificato, nel caso di Camilla, nella misura di circa l’8 % % (OTTO PER
CENTO). Come per l’amica ***, vi è stato un periodo iniziale di maggiore sintomatologia
(caratterizzata da ansia, crisi di panico, paura di essere riconosciuta fuori di casa) che dovrà essere
risarcito come Inabilità Temporanea Biologica Parziale. Rispetto ad *** (la quale per oltre 9 mesi è
rimasta chiusa in casa, uscendo solo per frequentare le lezioni scolastiche in una nuova scuola di un
paese vicino) non possono essere individuati limiti temporali ben precisi né indizi di gravità dei
sintomi, per cui si può ipotizzare equitativamente un periodo di INABILITA’ TEMPORANEA
BIOLOGICA PARZIALE di circa 6 (SEI) MESI di cui 3 (TRE) MESI al 20 % ed altri 3 (TRE) MESI al
10 %.”
Applicando quindi in via equitativa le tabelle di Milano per l’anno 2021, comprensive di
rivalutazione, l’importo del risarcimento per il danno alla salute a titolo di permanente subito da ***
ammonta ad E. 35.428,00 e per temporanea ad E. 6682,50 e a *** ad E. 18.409,00 a titolo di permanente
e di E. 2673,00 per temporanea.
Non sussiste il diritto ad un’autonoma liquidazione del danno cd. morale in quanto secondo la più
recente giurisprudenza (Cass. 25164/2020) esso è ricompreso nelle tabelle milanesi, come peraltro
espressamente riportato nella relazione accompagnatoria alle stesse, in cui viene illustrata e motivata
la scelta di procedere alla liquidazione congiunta del danno non patrimoniale conseguente a “lesione
permanente dell’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale”, sia
nei suoi risvolti anatomo-funzionali e relazionali medi ovvero peculiari e del danno non
patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di “dolore”, “sofferenza soggettiva”, in
via di presunzione in riferimento ad un dato tipo di lesione.
Secondo la giurisprudenza la personalizzazione in aumento dei criteri tabellari richiede la
sussistenza di particolari circostanze di fatto, specifiche e peculiari, che “valgano a superare le
conseguenze ‘ordinarie’ già previste e compensate dalla liquidazione forfettizzata del danno non
patrimoniale assicurata dalle previsioni tabellari” (Cass. 21939/2017).
La personalizzazione in aumento del danno non patrimoniale non costituisce mai un automatismo,
ma richiede l’individuazione – da parte del giudice – di specifiche circostanze peculiari al caso
concreto, che valgano a superare le conseguenze ordinarie già compensate dalla liquidazione
forfettizzata tabellare.
Pertanto, le conseguenze dannose “comuni” – ossia quelle che qualunque danneggiato con la
medesima invalidità patirebbe – non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del
risarcimento (Cass., sent. 27/05/2019, n. 14364).
Secondo la Cassazione (v. Cass. 7513/2018), “soltanto in presenza di circostanze “specifiche ed
eccezionali”, tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno concreto più
grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi
dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione
analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di
personalizzazione della liquidazione”.
Nel caso in esame si ritiene che ricorrano circostanze specifiche ed eccezionali per incrementare la
componente tabellare di dolore e sofferenza soggettiva alla luce della particolare gravità della
vicenda che ha coinvolto *** e ***, che ad un’età assai delicata hanno dovuto subire lo stigma sociale
derivante dalla diffusione delle immagini, particolarmente significativo in un’ambiente ristretto
quale quello fidentino e che sicuramente hanno loro creato un profondo senso di vergogna, di
umiliazione e di angoscia sociale oltre che di imbarazzo nell’ambiente famigliare
La sofferenza patita dalle attrici attore deve pertanto ritenersi eccezionalmente grave e la
liquidazione della componente di danno permanente deve essere incrementata nella misura del 50%,
giungendo quindi all’importo di E. 53142,00 quanto ad *** e ad E. 27.613,00 quanto a ***.
Quanto ai danni patrimoniali subiti dai genitori di *** e ***, può essere riconosciuto in favore dei
primi la somma di E. 3960,00 e in favore dei secondi la somma di E. 8971,99 per spese terapeutiche
sostenute in favore delle figlie, ritenute congrue dai CTU e sicuramente ricollegabili al trauma
subito.
Non possono invece essere rimborsati i compensi erogati all’avv. …in quanto le fatture prodotte non
contengono alcuna specificazione di quale prestazione professionale sia stata svolta, né le spese per
l’iscrizione ad una scuola privata in quanto ciò è stato oggetto di autonoma scelta da parte degli
attori che avrebbero potuto iscrivere le figlie ad altra scuola pubblica.
La difesa di ***, nell’atto di costituzione di nuovo difensore del 2 dicembre 2022 ha chiesto la
chiamata in causa iussu iudicis ex art. 107 cpc di *** quali autori della divulgazione delle foto.
La richiesta è infondata in quanto, anche ipotizzando che i predetti abbiano concorso nella
divulgazione delle foto, essi sarebbero tenuti, in solido con gli attuali convenuti ai sensi dell’art. 2055
c.c., al risarcimento del danno complessivamente subito dai danneggiati, i quali potranno rivolgersi
indistintamente a ciascuno dei responsabili così individuati per ottenere l’integrale ristoro dei danni
subiti, senza dover previamente individuare l’incidenza causale della condotta di ciascuno sulle
lesioni finali.
Come prescritto dall’art. 2055 secondo comma c , inoltre, una volta risarcito il danneggiato, colui che
ha effettuato il pagamento complessivo del danno potrà esercitare l’azione di regresso nei confronti
dell’altro coobbligato, chiedendo al medesimo il rimborso della quota di rispettiva competenza, che
va commisurata in relazione alla “gravità della rispettiva colpa e all’entità delle conseguenze che ne
sono derivate”.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo sulla base del decisum
applicato l’aumento di cui all’art. 4 secondo comma DM 55/2014
P.Q.M.
Definitivamente decidendo
Condanna in via solidale *** al risarcimento del danno cagionato ad *** e che liquida in E. 59824,50
oltre ad interessi al tasso legale dalla domanda al saldo;
Condanna in via solidale *** al risarcimento del danno cagionato a *** e che liquida in E. 30.286,00
oltre ad interessi al tasso legale dalla domanda al saldo;
Condanna in via solidale *** al risarcimento del danno cagionato a *** e che liquida in E. 3960,00 oltre
ad interessi al tasso legale dalla domanda al saldo;
Condanna in via solidale *** al risarcimento del danno cagionato ad *** e che liquida in E. 8971,99
oltre ad interessi al tasso legale dalla domanda al saldo;
Condanna in via solidale *** al pagamento delle spese processuali che liquida in E.21.082,50 per
compensi ed E. 1297,00 per spese, oltre a spese generali al 15%, IVA e CPA ed oltre alle spese di CTU
e di CTP
Parma, 13 marzo 2023
Il giudice
Giacomo Cicciò

Non è indipendente il figlio assunto con contratto di apprendistato.

Corte di Cassazione, Sezione Prima Civile,
Ordinanza del 19 dicembre 2023, n. 35494, Cons. Rel.
Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 14/12/2023) 19/12/2023, n. 35494
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –
Dott. MELONI Marina – rel. Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosaria – Consigliere –
Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 18846/2022 R.G. proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato in BRUGHERIO VIALE LOMBARDIA 233, presso
lo studio dell’avvocato BALCONI FRANCO ((Omissis)) che lo rappresenta e
difende;
– ricorrente –
contro
B.B.;
– intimato –
avverso DECRETO di CORTE D’APPELLO MILANO n. 1061/2020 depositata il
16/06/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14/12/2023 dal
Consigliere MELONI MARINA.
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Monza, con sentenza n. 1185/2010 del 19.04.2010, ha
dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto dai sig.ri
A.A. e B.B. ed ha stabilito tra l’altro che il padre contribuisse al mantenimento
della figlia C.C. versando alla madre il giorno 5 di ogni mese la somma di Euro
350,00.= da rivalutarsi annualmente, oltre al 50% delle spese mediche non
coperte dal SSN, parascolastiche, ricreative e sportive previamente concordate.
In data 10.02.2020 il sig. A.A. ha adito il Tribunale di Monza chiedendo la
modifica delle condizioni di divorzio sancite con sentenza n. 1185/2010,
escludendo ogni obbligo di mantenimento in favore della figlia, ormai
maggiorenne C.C. (nata a (Omissis)); in subordine, di ridurre l’ammontare
dell’assegno mensile a suo carico. Si è costituita la B.B. la quale ha contestato
in fatto e in diritto il merito delle pretese fatte valere da parte dell’attore e
chiesto il rigetto delle domande.
Il Tribunale di Monza, con Decreto cron. 16057/2020 del 24.11.2020, reso
all’esito del procedimento R.G. n. 816/2020, ha rigettato il ricorso non
ravvisando i presupposti per la modifica delle condizioni di divorzio
riscontrando che il paventato peggioramento delle condizioni economiche del
sig. A.A. doveva ritenersi bilanciato con i maggiori costi di mantenimento
supportati dalla B.B. per la figlia C.C., oggi studentessa di 19 anni ma che
all’epoca del divorzio aveva solo 9 anni. Il sig. A.A. ha tempestivamente
depositato reclamo avverso il decreto cron. 16057/2020 del 24.11.2020
chiedendo alla Corte d’Appello di Milano la revoca o la riduzione del contributo
al mantenimento per la figlia.
La Corte di Appello di Milano, definitivamente pronunciando, sul reclamo
proposto da A.A. averso il decreto cron. 16057/2020 pubblicato il 24.11.2021
dal Tribunale di Monza a definizione del proc. R.G. n. 816/2020 ha accolto
parzialmente il reclamo e per l’effetto ridotto a Euro 200,00 mensili l’importo
che A.A. deve corrispondere alla sig.ra B.B. per il mantenimento della figlia
C.C..
Avverso la pronuncia di secondo grado, proponeva ricorso in cassazione A.A.
con unico motivo.
Motivi della decisione
Con il motivo di ricorso, il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c.,
comma 1, nn. 3 e 5, per violazione degli artt. 147 e 337-septies c.c. e
Giurisprudenza di legittimità Ondif
omessa valutazione di un documento rilevante ai fini del decidere, cioè il
contratto di lavoro della figlia maggiorenne C.C. A.A., con riguardo al reddito
percepito.
Il ricorso è inammissibile per le ragioni che seguono (S.U. 22048 del
24/7/2023).
Si deve premettere che la modifica dei provvedimenti adottati con la sentenza
di divorzio è subordinata alla condizione del sopravvenire di fatti nuovi rispetto
alle circostanze valutate in sede di emissione degli stessi provvedimenti:
ebbene la Corte ha già valutato e vagliato le nuove condizioni patrimoniali del
ricorrente e ridotto a 200,00 Euro l’assegno originario di 350,00. Infatti, la
Corte ha, nel provvedimento impugnato, compiutamente valutato la situazione
economica del sig. A.A. e ritenuto che, pur essendo allo stato Egli disoccupato,
a far data dal 10.01.2022, “non è verosimile che per la sua età e per la sua
capacità lavorativa, non riesca a trovare lavoro avendo dimostrato anche
capacità imprenditoriali – sia pur intraprese in (Omissis) – ove ha costituito una
scuola di lingua inglese per bambini (doc 17, fasc. primo grado) ed ove ha
gestione anche una pizzeria “(Omissis)” (docc. nn. 16-22) attività per le quali,
come già anche rilevato dal Tribunale di Monza non ha documentato i suoi
redditi.
La Corte di merito ha poi accertato che attualmente egli vive con gli anziani
genitori a Monza, ai quali presta assistenza ed è mantenuto dalla madre e dal
fratello come dallo stesso dichiarato in udienza alla Corte; che la disdetta del
contratto di locazione dell’immobile di cui era proprietario sita in (Omissis) non
gli avrebbe impedito di locarlo nuovamente – come rilevato già dal Tribunale –
ma comunque la vendita del predetto immobile – avvenuta nel 2020 – per
l’importo di Euro 57.000,00 ed il successivo acquisto per l’importo di Euro
42.000,00 di altra casa – in località (Omissis) – fanno presumere che lo A.A.
non versi in serie condizioni di ristrettezze economiche proprio per la scelta di
investimento in un altro immobile che non è escluso che possa essere messo a
reddito tenuto conto del fatto che lui vive con i genitori a Monza – come dallo
stesso dichiarato all’udienza del 24 febbraio 2022.
La Corte ha poi valutato, con apprezzamento legittimo, sulla base della
certificazione resa dal centro per l’impiego di Milano (che attesta che la figlia
C.C. – ancora studentessa – svolge lavoro di apprendistato con decorrenza
01.09.2021) che “la tipologia di contratto di lavoro di apprendistato non
consente di considerare un figlio economicamente autosufficiente, non essendo
stati provati – nella presente fattispecie – una serie di parametri ed in
particolare l’importo del reddito percepito e la durata del contratto medesimo”.
Il ricorrente, di contro, non ha dimostrato che il trattamento economico
ricevuto dalla figlia C.C. – quale apprendista – è non solo proporzionato e
sufficiente, ma anche idoneo ad assicurare la sua autosufficienza economica e
pertanto, tenuto conto di quanto sopra esposto, la Corte d’Appello ha
legittimamente ritenuto di poter accogliere solo parzialmente il reclamo
paterno riducendo ad Euro 200,00 l’importo per il mantenimento mensile che
lo A.A. deve versare per la figlia C.C..
Tutte le valutazioni del giudice di merito sopra riportate non contrastano con la
giurisprudenza di questa Corte che più volte ha affermato il principio secondo
cui il mantenimento del figlio resta a carico dei genitori fintanto che non si sia
esaurito in congruo termine, la fase di formazione ed inserimento nel mondo
del lavoro. Nella specie, tale progressione, ancora in corso, non si è del tutto
completata, onde il giudice di merito ha limitato ma non escluso
completamente la contribuzione genitoriale.
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile. I profili sostanziali
sottostanti alla vicenda inducono a compensare tra le parti le spese di giudizio.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di
legittimità. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 , art. 13 , comma 1-
quater, ricorrono i presupposti processuali per il versamento da parte del
ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove
dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. Dispone che,
in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di
informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante
reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e
degli altri dati identificativi riportati nella sentenza.

La risarcibilità del danno da perdita anticipata della vita

Cass. Civ., Sez. III, Sent., 27 dicembre 2023, n. 35998; Pres. Travaglino, Rel. Cons. Porreca
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Svolgimento del processo
che:
l’Azienda USL Toscana Sud Est ricorre, sulla base di cinque motivi, corredati da memoria, per la
cassazione della sentenza n. 326 del 2020 della Corte di appello di Firenze esponendo che:
– D.D., A.A., e B.B. in proprio e per la figlia minore C.C., avevano convenuto la deducente per
ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alla morte, per insufficienza cardiaca, del congiunto
F.F., indicata come causata dalla colposa condotta di E.E., medico di turno della Guardia medica cui
la vittima si era rivolta, appena due giorni prima, accusando forti dolori allo stomaco, ricevendone
solo indicazioni diagnostiche di cattiva digestione, con prescrizione di fermenti lattici e due fiale del
farmaco “Plasil” da utilizzare al bisogno;
– il Tribunale aveva accolto la domanda con pronuncia confermata dalla Corte di appello secondo cui,
in particolare:
– dalla consulenza tecnica giudiziale espletata in prime cure emergeva che il dolore toracico
epigastrico era riconducibile a sindrome coronarica acuta di natura cardiaca;
– il medico coinvolto si era genericamente concentrato sulla patologia digestiva senza esami mirati e
senza neppure invio al Pronto Soccorso;
– la vittima, senza le colpose omissioni del sanitario, avrebbe avuto una elevata possibilità di
sopravvivenza, quantificabile nell’80%;
– la sopravvivenza in parola era quantificabile in sette anni, tenuto conto delle pregresse condizioni
patologiche della vittima, che sei mesi prima dell’evento aveva effettuato una visita cardiologica con
cui si erano evidenziate tracce di infarto miocardico e cardiopatia ischemica;
– ne era derivata una perdita anticipata della vita causalmente oltre che colposamente imputabile,
fonte di danno reclamabile “iure successionis”;
– spettava ed era stato richiesto dai congiunti, sin dalla citazione, anche il danno non patrimoniale
“iure proprio”;
– non era scorretto il criterio di liquidazione del danno seguito dal Tribunale, che aveva quantificato
il valore di un’invalidità permanente al 100% di un soggetto di 63 anni, età della vittima, secondo il
punto tabellare c.d. milanese, e aveva poi effettuato due abbattimenti, del 30% per le pregresse
condizioni della vittima, e di due terzi in relazione al fatto che la vittima avrebbe avuto l’80% di
possibilità di vivere limitatamente ad altri 7 anni: infatti, una volta accordato, il danno da perdita di
“chance” quale sopra inteso, il risarcimento di quello avrebbe dovuto essere integrale, sicchè non
avrebbero dovuto operarsi nemmeno le suddette riduzioni, con conseguente carenza d’interesse alla
doglianza di eccesso nella liquidazione formulata sul punto in appello sia per ciò che concerneva il
danno a titolo ereditario che quello a titolo proprio; infine, non poteva dirsi sussistente alcun concorso
colposo della vittima ai sensi dell’art. 1227 c.c., in relazione alle dedotte raccomandazioni di
richiamare telefonicamente ovvero chiamare il numero di emergenza 118, formulate dal dottor E.E.
e inevase dai congiunti conviventi, poichè ai familiari era stata comunicata una diagnosi
tranquillizzante e non avrebbero potuto richiedersi a quelli valutazioni mediche sui sintomi, tenuto
conto che le condizioni per il ricovero erano esistenti già al momento della visita presso a Guarda
medica;
nessuno ha svolto difese per gli intimati;
in pubblica udienza ha partecipato alla discussione il difensore degli intimati;
il Pubblico Ministero ha formulato conclusioni scritte, ribadite in udienza;
Rilevato che:
con il primo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Cost., art. 2043, c.c.,
art. 111 Cost., comma 6, art. 132 c.p.c., n. 4, poichè la Corte di appello avrebbe travisato il motivo di
appello inerente all’impossibilità di accordare il danno da perdita anticipata della vita “iure
successionis”, stante l’impossibilità di liquidare quello tanatologico, con conseguente spettanza del
solo e diverso danno “iure proprio” da lesione del rapporto parentale;
con il secondo motivo si prospetta la violazione degli artt. 1123, 1226, 2043, 2056 e 2059 c.c., art.
116 c.p.c. e art. 360 c.p.c., n. 5, poichè la Corte di appello avrebbe errato, in logica subordinazione a
quanto dedotto con la prima censura, operando, per il danno a titolo successorio, un abbattimento del
30% determinato in modo arbitrariamente immotivato, senza consulenza tecnica sul punto, e non
tenendo neppure conto del fatto che la durata della vita cui avrebbe dovuto rapportarsi la liquidazione
non era quella media ma quella determinata dalle sue pregresse condizioni patologiche;
con il terzo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 101 e 112 c.p.c., art.
132 c.p.c., n. 4, artt. 1218, 1223 e 2907 c.c., poichè la Corte di appello avrebbe errato nel ritenere
domandato il danno “iure proprio” non patrimoniale da perdita di “chance”, mentre era stato richiesto,
a tale titolo, solo quello non patrimoniale per la perdita del familiare e quello patrimoniale per la
perdita del relativo apporto economico;
con il quarto motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, art. 116
c.p.c., artt. 1223, 1226, 2043, 2056 e 2059 c.c., poichè la Corte di appello avrebbe errato nel
quantificare il danno da perdita di “chance” “iure proprio”, in termini analoghi a quanto dedotto con
il secondo motivo;
con il quinto motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., poichè la Corte
di appello avrebbe errato mancando di considerare che non era stata contestata la circostanza della
raccomandazione data dal deducente ai familiari, di cui era stata esclusa invece la rilevanza, e che, di
contro, questa non poteva che aver inciso sulla sequenza che aveva portato al decesso, posto che i
familiari colposamente ebbero a chiamare tardivamente il numero di emergenza dopo due giorni, solo
quando il congiunto aveva perso conoscenza;
Motivi della decisione
che:
deve preliminarmente evidenziarsi che il ricorso è tempestivo, posta la sospensione dei termini
stabilita, in ragione dell’occorsa pandemia internazionale, dal D.L. n. 18 del 2020, art. 83 e D.L. n. 23
del 2020, art. 36, quali convertiti (dal 9 marzo all’11 maggio 2020);
nel merito cassatorio vale ciò che segue;
il primo, motivo è fondato, con logico assorbimento del secondo e del terzo;
questa Corte, in tema di responsabilità sanitaria, ha di recente chiarito “funditus” e ribadito che:
– in ipotesi di condotta colpevole del sanitario cui sia conseguita la perdita anticipata della vita, perdita
che si sarebbe comunque verificata, sia pur in epoca successiva, per la pregressa patologia del
paziente, non è concepibile, nè logicamente nè giuridicamente, un danno da “perdita anticipata della
vita” trasmissibile “iure successionis”, non essendo predicabile, nell’attuale sistema della
responsabilità civile, la risarcibilità del danno tanatologico (Cass., 19/09/2023, n. 26851);
– è possibile, dunque, discorrere (risarcendolo) di “danno da perdita anticipata della vita”, con
riferimento al diritto “iure proprio” degli eredi, rappresentato dal pregiudizio da minor tempo vissuto
dal congiunto (Cass., n. 26851 del 2023, cit.);
– in ipotesi di morte del paziente dipendente (anche) dall’errore medico, qualora l’evento risulti
riconducibile alla concomitanza di una condotta umana e di una causa naturale, tale ultima dovendosi
ritenere lo stato patologico non riferibile alla prima, l’autore del fatto illecito risponde “in toto”
dell’evento eziologicamente riconducibile alla sua condotta, in base ai criteri di equivalenza della
causalità materiale, potendo l’eventuale efficienza concausale dei suddetti eventi naturali rilevare
esclusivamente sul piano della causalità giuridica, ex art. 1223 c.c., ai fini della liquidazione, in chiave
complessivamente equitativa, dei pregiudizi conseguenti, ascrivendo all’autore della condotta un
obbligo risarcitorio che non comprenda anche le conseguenze dannose da rapportare, invece,
all’autonoma e pregressa situazione patologica del danneggiato (Cass., n. 26851 del 2023, cit., in cui
si richiama l’ormai costante giurisprudenza sul punto);
è stato sottolineato (Cass., n. 26851 del 2023, pag. 17) che, quando la vittima è già deceduta al
momento dell’introduzione del giudizio da parte degli eredi “non è concepibile, nè logicamente nè
giuridicamente, un “danno da perdita anticipata della vita” trasmissibile iure successionis (Cass.,
04/03/2004, n. 4400, Cass. n. 5641 del 2018, … e Cass., Sez. U., n. 15350 del 2015), non essendo
predicabile, nell’attuale sistema della responsabilità civile, la risarcibilità del danno tanatologico.
Esemplificando, causare la morte d’un ottantenne sano, che ha dinanzi a sè cinque anni di vita sperata,
non diverge, ontologicamente, dal causare la morte d’un ventenne malato che, se correttamente curato,
avrebbe avuto dinanzi a sè ancora cinque anni di vita.
L’unica differenza tra le due ipotesi sta nel fatto che, nel primo caso, la vittima muore prima del tempo
che gli assegnava la statistica demografica, mentre, nel secondo caso, muore prima del tempo che gli
assegnava la statistica e la scienza clinica: ma tale differenza non consente di pervenire ad una
distinzione “morfologica” tra le due vicende, così da affermare la risarcibilità soltanto della seconda
ipotesi di danno.
E’ possibile, dunque, discorrere (risarcendolo) di “danno da perdita anticipata della vita”, con
riferimento al diritto iure proprio degli eredi, solo definendolo il pregiudizio da minor tempo vissuto
ovvero da valore biologico relazionale residuo di cui non si è fruito, correlato al periodo di tempo
effettivamente vissuto….
In conclusione, nell’ipotesi di un paziente che, al momento dell’introduzione della lite, sia già
deceduto, sono, di regola, alternativamente concepibili e risarcibili iure hereditario, se allegati e
provati, i danni conseguenti:
a) alla condotta del medico che abbia causato la perdita anticipata della vita del paziente (determinata
nell’an e nel quantum), come danno biologico differenziale (peggiore qualità della vita effettivamente
vissuta), considerato nella sua oggettività, e come danno morale da lucida consapevolezza della
anticipazione della propria morte, eventualmente predicabile soltanto a far data dall’altrettanto
eventuale acquisizione di tale consapevolezza in vita;
b) alla condotta del medico che abbia causato la perdita della possibilità di vivere più a lungo (non
determinata nè nell’an nè nel quantum), come danno da perdita di chances di sopravvivenza.
In nessun caso sarà risarcibile iure hereditario, e tanto meno cumulabile con i pregiudizi di cui sopra,
un danno da “perdita anticipata della vita” con riferimento al periodo di vita non vissuta dal paziente”;
pertanto, “quando sia certo che la condotta del medico abbia provocato (o provocherà) la morte
anticipata del paziente, la morte stessa diviene, di regola, evento assorbente di qualsiasi
considerazione sulla risarcibilità di chance future, salvo quanto si dirà.
Nell’esigenza di pervenire ad una terminologia chiara e condivisa, va pertanto chiarito che:
a) vivere in modo peggiore, sul piano dinamico-relazionale, la propria malattia negli ultimi tempi
della propria vita a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore medico, rappresenta un danno
biologico (differenziale);
b) nel contempo, trascorrere quegli ultimi tempi della propria vita con l’acquisita consapevolezza
delle conseguenze sulla (ridotta) durata della vita stessa a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore
medico, costituisce un danno morale, inteso come sofferenza interiore e come privazione della
capacità di battersi ancora contro il male;
c) perdere la possibilità, seria apprezzabile e concreta, ma incerta nell’an e nel quantum, di vivere più
a lungo a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore medico, è un danno da perdita di chance;
d) la perdita anticipata della vita per un tempo determinato a causa di un errore medico in relazione
al segmento di vita non vissuta, è un danno risarcibile non per la vittima, ma per i suoi congiunti, nei
termini prima chiariti, quale che sia la durata del “segmento” di esistenza cui la vittima ha dovuto
rinunciare.
Deve concludersi che non vi è spazio, in linea generale, per sovrapposizioni concettuali tra istituti
speculari (chance e perdita anticipata della vita), salvo che si chiariscano e si accertino, motivando
rispetto alla concreta fattispecie, le differenze come sinora ricostruite. Ne consegue, pertanto, che:
a) nel caso di perdita anticipata della vita (una vita che sarebbe comunque stata perduta per effetto
della malattia) sarà risarcibile il danno biologico differenziale (nelle sue due componenti, morale e
relazionale: art. 138 nuovo testo c.a.p.), sulla base del criterio causale del “più probabile che non”:
l’evento morte della paziente, verificatasi in data X, si sarebbe verificata, in assenza dell’errore
medico, dopo il tempo (certo) X+Y, dove Y rappresenta lo spazio temporale di vita non vissuta: il
risarcimento sarà riconosciuto, con riferimento al tempo di vita effettivamente vissuto – e non a quello
non vissuto, che rappresenterebbe un risarcimento del danno da morte (riconoscibile, viceversa, iure
proprio, ai congiunti) stante l’irrisarcibilità del danno tanatologico – in tutti i suoi aspetti, morali e
dinamico-relazionali, intesi tanto sotto il profilo della (eventuale) consapevolezza che una tempestiva
diagnosi e una corretta terapia avrebbero consentito un prolungamento (temporalmente
determinabile) della vita che va a spegnersi, quanto sotto quello della invalidità permanente
“differenziale” (la differenza, cioè, tra le condizioni di malattia effettivamente sopportate e quelle,
migliori, che sarebbero state consentite da una tempestiva diagnosi e da una corretta terapia);
b) il danno da perdita di chance di sopravvivenza sarà invece risarcito, equitativamente, volta che, da
un lato, vi sia incertezza sull’efficienza causale della condotta illecita quoad mortem, ma, al contempo,
vi sia certezza eziologica che la condotta colpevole abbia cagionato la perdita della (come detto
apprezzabile) possibilità di vivere più a lungo (possibilità non concretamente accertabile nel quantum
nè predicabile quale certezza nell’an, a differenza che nell’ipotesi sub a). La valutazione equitativa di
tale risarcimento non sarà, dunque, parametrabile, sia pur con le eventuali decurtazioni, nè ai valori
tabellari previsti per la perdita della vita, nè a quelli del danno biologico temporaneo;
c) il danno da perdita anticipata della vita e il danno da perdita di chance di sopravvivenza, di regola,
non saranno nè sovrapponibili nè congiuntamente risarcibili, pur potendo eccezionalmente costituire
oggetto di separata ed autonoma valutazione qualora l’accertamento si sia concluso nel senso
dell’esistenza di un danno tanto da perdita anticipata della vita, quanto dalla possibilità di vivere
ancora più a lungo, qualora questa possibilità non sia quantificabile temporalmente, ma risulti seria,
concreta e apprezzabile, e sempre che entrambi i danni siano riconducibili eziologicamente (secondo
i criteri rispettivamente precisati) alla condotta colpevole dell’agente.
Fermo il generale principio, come sopra espresso, della generale irrisarcibilità dell’ulteriore danno da
perdita di chance in presenza di un danno da perdita anticipata della vita, in via eccezionale possono
darsi ipotesi in cui il Giudice di merito ritenga, anche sulla base della prova scientifica acquisita, che,
oltre al tempo determinato di vita anticipatamente perduta, esista, in relazione alle specifiche
circostanze del caso concreto, la seria, concreta e apprezzabile possibilità (sulla base dell’eziologica
certezza della sua riconducibilità all’errore medico) che, oltre quel tempo, il paziente avrebbe potuto
sopravvivere ancora più a lungo. In tal caso, sempre che e soltanto se tale possibilità non si risolva in
una mera speranza, ovvero si collochi in una dimensione di assoluta incertezza eventistica, che non
attinga la soglia di quella seria, concreta, apprezzabile possibilità (come lascerebbe intendere, in via
di presunzione semplice, l’avvenuta morte, benchè anticipata, del paziente), tale ulteriore e diversa
voce di danno risulterà concretamente e limitatamente risarcibile, in via equitativa, al di là e a
prescindere dai parametri (sia pur diminuiti percentualmente) relativi al danno biologico e al quello
da premorienza”;
nel caso di specie, è stato accertato in fatto che, senza l’omissione del sanitario, colposamente causale,
la vittima, deceduta per infarto due giorni dopo, avrebbe “più probabilmente che non” vissuto un
periodo di vita determinato, di sette anni, come tale risarcibile “iure proprio” non “iure successionis”,
in linea con quanto osservato anche dal Pubblico Ministero;
si osserva che quanto alla sussistenza della domanda di risarcimento del danno “non patrimoniale,
“iure proprio”, in conseguenza della perdita di una persona cara”, essa, da correlare ai principî appena
riaffermati, risulta da ciò che lo stesso ricorso, nella corretta cornice di specificità regolata dall’art.
366 c.p.c., n. 6, riporta alle pagine 15 e 16;
per quanto appena detto, non viene invece in discussione la domanda di danno “iure proprio” da
perdita di “chance”;
il quarto motivo è inammissibile;
va premesso che la censura fa nominativamente riferimento al danno da perdita di “chance”, ma esso
va riqualificato, fermi i fatti accertati, quale danno da perdita del rapporto parentale, nei termini
ricostruiti, ovvero danno relazionale per l’individuato tempo non vissuto dai congiunti; e, infatti, i
giudici di merito hanno preso le mosse (analogamente a quanto fatto per il danno riconosciuto a titolo
ereditario, di cui qui si è esclusa la spettanza), dalla relativa quantificazione in base alla c.d. tabelle
milanesi, che si riferiscono “fisiologicamente” alla perdita parentale relazionata a un soggetto che
sarebbe vissuto secondo l’età media della statistica demografica, e non al tempo residuo in base alla
statistica clinica rapportata a un soggetto affetto da una specifica pregressa patologia;
sul punto, il giudice di prime ha per un verso, dunque, operato equitativamente una riduzione in
relazione a tale ultimo aspetto, e ha, per altro verso, illegittimamente operato una decurtazione
confondendo la percentuale afferente alla ricostruzione del nesso eziologico con una percentuale di
conseguente pregiudizio risarcibile, con carenza d’interesse alla censura sul punto, come
condivisibilmente osservato dal Collegio di merito;
la parte in questa sede ricorrente avrebbe allora dovuto specificatamente argomentare e dimostrare
che, proporzionando ai 7 anni di vita attesa in concreto la misura del danno da perdita del “fisiologico”
rapporto parentale, non decurtato, la somma da accordare, senza l’ulteriore decurtazione di due terzi
illegittimamente computata, sarebbe stata minore;
anzi, posto che non si censura l’unità di misura presa a riferimento (ma solo la prima decurtazione
indicata come arbitraria e la mancanza di una terza decurtazione in relazione al tempo di vita clinico
e non demografico residuo della vittima: pag. 13 del ricorso), suddividendo correttamente il valore
non decurtato (200 mila Euro per moglie e figli conviventi, 100 mila Euro per la nipote pure
convivente: pag. 4 della sentenza gravata), per il tempo di vita indicato nella stessa censura come
proprio della statistica demografica (80,8 anni in quel momento: stessa pagina del ricorso), e
moltiplicando il valore unitario ottenuto per il numero degli anni residui (7 anni) secondo gli
indiscussi accertamenti medico legali officiosi, senza altre decurtazioni, il risultato è di somme
maggiori rispetto a quelle liquidate;
il quinto motivo è inammissibile;
la Corte territoriale ha accertato in fatto che le condizioni per il ricovero esistevano al momento della
visita della Guardia medica, e la diagnosi e le prescrizioni furono “tranquillizzanti”, sicchè non era
esigibile dai familiari una diversa e più reattiva lettura dei sintomi, al fine di una chiamata al numero
di emergenza più immediata di quella che pure fu effettuata;
come pure argomentato dal Pubblico Ministero, a fronte di ciò, censura mira, prima che a dedurre un
errore di sussunzione della fattispecie concreta in quella legale, a una rilettura delle risultanze
istruttorie come tale estranea alla presente sede di legittimità;
il giudizio può essere deciso nel merito non essendo necessari ulteriori accertamenti, con
compensazione delle spese dell’intero giudizio in relazione alla reciproca soccombenza e alle
progressive precisazioni giurisprudenziali.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo, assorbiti il secondo e terzo, dichiara inammissibile il quarto e il
quinto, cassa in relazione la decisione impugnata e, decidendo nel merito, esclude la condanna
risarcitoria statuita per il danno a titolo ereditario. Spese compensate.

La prodigalità può essere un presupposto per l’apertura dell’amministrazione di sostegno?

Cass. Civ., Sez. I, Ord., 28 dicembre 2023, n. 36176; Pres. Genovese, Rel. Cons. Tricomi
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Svolgimento del processo
che:
1.- A.A., moglie separata consensualmente da B.B. e titolare di assegno di mantenimento, chiese al
Giudice Tutelare del Tribunale di Ferrara e ottenne la nomina di amministratore di sostegno per il
marito B.B., avendo dedotto che questi aveva iniziato a manifestare un comportamento improntato
alla prodigalità, con abituale larghezza nello spendere, rischiando eccessivamente rispetto alle proprie
condizioni socioeconomiche e non riconoscendo più alcun valore oggettivamente attribuibile al
denaro, tanto che detto comportamento aveva comportato, nel periodo (Omissis), una dispersione
patrimoniale di circa 512.000,00 Euro.
Il provvedimento in data (Omissis), con cui il Giudice Tutelare aveva proceduto alla nomina
dell’amministratore di sostegno, è stato integralmente riformato dalla Corte di appello di Bologna che
ha respinto la domanda di apertura dell’amministrazione di sostegno ed ha compensato le spese di
lite.
A.A. ha proposto ricorso per la cassazione del decreto della Corte di merito con cinque mezzi.
B.B. è rimasto intimato.
E’ stata disposta la trattazione camerale.
Motivi della decisione
che:
2.- Il ricorso è svolto in cinque motivi:
I) Con il primo si denuncia l’omesso esame circa fatti decisivi del giudizio riguardanti la prodigalità
di B.B., emergenti in particolare dalle dichiarazioni del fratello C.C. all’udienza del (Omissis) nonchè
dalla relazione in data (Omissis) e dall’istanza in data (Omissis) dell’amministratore di sostegno.
II) Con il secondo motivo si denuncia l’omesso esame circa fatti decisivi del giudizio riguardanti la
relazione extraconiugale di B.B. e quindi la sua prodigalità, emergenti in particolare dai messaggi
whatsapp del marito alla moglie nel periodo (Omissis) e dalla relazione in data (Omissis)
dell’amministratore di sostegno.
III) Con il terzo motivo si denuncia l’omesso esame circa fatti decisivi del giudizio riguardanti la
soggezione di B.B. all’influenza di terzi e quindi la sua prodigalità, emergenti in particolare dalla
relazione del (Omissis) e dall’istanza del (Omissis) dell’amministratore di sostegno.
IV) Con il quarto motivo si denuncia l’omesso esame circa fatti decisivi del giudizio riguardanti la
consistenza del patrimonio residuo di B.B. e quindi la sua prodigalità, emergenti in particolare dalla
relazione del (Omissis) e dall’istanza del (Omissis) dell’amministratore di sostegno, dalle
dichiarazioni di B.B. all’udienza del (Omissis), dalle dichiarazioni di B.B. al CTU Dott. D.D. e dalla
perizia contabile della Dott.ssa E.E..
La ricorrente, nello svolgere la censura, ha prospettato che “l’affermazione del B.B. al Dott. D.D. di
non aver nulla da nascondere confligge anche con quanto risulta dalla perizia contabile della Dott.ssa
E.E., la quale ha riferito che il B.B. non ha prodotto la documentazione bancaria che gli aveva chiesto,
per cui non ha potuto svolgere una compiuta disamina del quadro economico/patrimoniale dello
stesso. Alla luce di tutto ciò, non si comprende perchè la Corte d’Appello giustifichi sostanzialmente,
in tal modo legittimandola, la condotta omissiva del B.B., il quale non ha consentito la ricostruzione
del suo patrimonio. Non si comprende altresì come da tale censurabile condotta possa desumersi
l’assenza della prodigalità del medesimo. Invero, la descritta condotta ostruzionistica è un grave
indizio di tale prodigalità.”.
V) Con il quinto motivo si denuncia la violazione dell’art. 407 c.c., comma 3, per non avere la Corte
d’Appello di Bologna disposto d’ufficio l’integrazione della perizia contabile o una nuova perizia con
riguardo al valore dell’attuale patrimonio di B.B., circostanza rilevante ai fini della valutazione della
prodigalità dello stesso.
3.- Con la decisione impugnata, la Corte di appello ha integralmente riformato la decisione del
Giudice tutelare e respinto la domanda di apertura dell’amministrazione di sostegno.
Segnatamente, ha affermato che, come già accertato in primo grado sulla scorta dei risultati della
CTU effettuata, B.B. non era affetto da patologie psichiche ed era pienamente in grado di intendere e
di volere; non era inoltre una persona definibile come “fragile” tenuto conto della sua storia personale
e dei risultati conseguiti nella vita e non era caratterizzato da debolezza tale da aprire l’ipotesi di una
suggestionabilità, risultando ben fermo nella convinzione di non necessitare di una misura di
protezione ed avvalendosi di specialisti legali e medici a sostegno della sua tesi.
Ha, quindi, affermato che difettava la prova che B.B. fosse affetto da prodigalità; con riferimento alla
accertata alienazione di fondi agricoli per Euro 1.242.000,00 ed alla circostanza che il beneficiando
non avesse voluto dare conto dell’utilizzo della metà della somma, ha ritenuto che tale complessiva
condotta non integrasse gli estremi della prodigalità solo perchè non si conosceva l’utilizzo di tale
parte, posto che la CTU contabile E.E. “ha rappresentato di avere effettuato una ricostruzione solo
parziale” ed ha osservato poi che erano emerse uscite compatibili con le ordinarie esigenze di una
azienda agricola.
La Corte di merito ha concluso che il depauperamento del patrimonio, che vi era stato in parte (vendita
di fondi agricoli per oltre Euro 1.200.000,00 di cui B.B. non aveva voluto spiegare l’impiego di circa
la metà del ricavato), il disordine o l’inadeguatezza nella gestione dell’azienda, costituissero in sè
prodigalità, osservando che l’amministrazione di sostegno non è finalizzata alla conservazione del
patrimonio.
Di poi ha escluso che vi fosse la prova di una relazione con una donna rumena e della sua influenza
ed ha osservato che la coniuge separata, che lamentava il mancato pagamento dell’assegno di
mantenimento, aveva altri strumenti per soddisfare e/o garantire il suo credito.
4.1. – I motivi, da trattare congiuntamente per connessione, sono fondati e vanno accolti nei sensi di
cui in motivazione.
4.2.1.- L’amministrazione di sostegno, introdotta dalla L. n. 6 del 2004, art. 3, innovando il sistema
delle tutele previste in favore dei soggetti deboli, persegue la finalità di offrire, a chi si trovi –
all’attualità – nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi per
una qualsiasi “infermità” o “menomazione fisica” non necessariamente di ordine mentale (Cass. n.
12998/2019), uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la “capacità
di agire” e che – a differenze dell’interdizione e dell’inabilitazione – sostenga la libertà decisionale
delle persone fragili, aiutandole a svolgere i compiti quotidiani senza sostituire la loro volontà, sulla
base di un decreto adottato da un giudice, e sia idoneo ad adeguarsi alle esigenze del beneficiario, in
ragione della sua flessibilità e della maggiore agilità della relativa procedura applicativa.
L’amministrazione di sostegno, ancorchè non esiga che la persona versi in uno stato di vera e propria
incapacità di intendere o di volere, nondimeno presuppone una condizione attuale di menomata
capacità che la ponga nell’impossibilità di provvedere autonomamente in tutto o in parte ai propri
interessi, mentre è escluso il ricorso all’istituto nei confronti di chi si trovi nella piena capacità di
autodeterminarsi, pur in condizioni di menomazione fisica, in funzione di asserite esigenze di gestione
patrimoniale, in quanto detto utilizzo implicherebbe un’ingiustificata limitazione della capacità di
agire della persona, tanto più a fronte della volontà contraria all’attivazione della misura manifestata
da un soggetto pienamente lucido (Cass. n. 29981/2020).
Invero, come è stato già affermato da questa Corte, la valutazione della congruità e conformità del
contenuto dell’amministrazione di sostegno alle specifiche esigenze del beneficiario, riservata
all’apprezzamento del giudice di merito, richiede che questi tenga essenzialmente conto, secondo
criteri di proporzionalità e di funzionalità, del tipo di attività che deve essere compiuta per conto
dell’interessato, della gravità e durata della malattia o della situazione di bisogno in cui versa
l’interessato, nonchè di tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie, in modo da assicurare
che il concreto supporto sia adeguato alle esigenze del beneficiario senza essere eccessivamente
penalizzante (v. Cass. n. 13584/2006, n. 22332/2011; Cass. n. 18171/2013; Cass. n. 6079/2020; nel
senso che l’ambito dei poteri dell’amministratore debba puntualmente correlarsi alle caratteristiche
del caso concreto, v. Corte Cost. n. 4 del 2007).
4.2.2.- La lettura dell’istituto, come si è andata delineando nelle recenti pronunce di legittimità di cui
si è dato conto, appare in linea, ed anzi è confortata, dal rilievo che, con L. 3 marzo 2009, n. 18,
entrata in vigore il successivo 15 marzo 2009, l’Italia ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite
sui Diritti delle Persone con disabilità (adottata il 13 dicembre 2006). Confermata la valutazione di
compatibilità tra la disciplina normativa dell’amministrazione di sostegno e la Convenzione anzidetta
(Cass. n. 18320/2012), è opportuno ricordare, come precisato all’art. 1, che la Convenzione ha
l’obiettivo di promuovere, proteggere ed assicurare alle persone con disabilità il pieno godimento dei
diritti umani e delle libertà fondamentali nel rispetto della dignità umana e riguarda non soltanto le
persone cd. inferme di mente, ma tutte quelle che presentano minorazioni fisiche, mentali, intellettuali
o sensoriali a lungo termine “che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed
effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri”. Si tratta di una
disciplina che supera la logica della protezione tipicamente patrimoniale della persona, a favore di un
modello sociale fondato sui diritti umani, che si pone in linea di evidente novità rispetto agli odierni
ordinamenti giuridici. Una disciplina nella quale scompare ogni riferimento alla incapacità, per dare
spazio alla disabilità, come condizione complessiva della persona, che non può limitare nè deve
incidere sulla sua capacità di agire e che, all’art. 12, prescrive a tutti gli Stati l’obbligo di riconoscere
che le persone con disabilità godono della piena capacità in tutti gli aspetti della vita e di assumere
tutte le misure per assicurare e garantire che le persone con disabilità godano della piena capacità
legale (Cass. n. 3462/2022, in motivazione).
Segnatamente, l’art. 12 della Convenzione, sotto la rubrica “Uguale riconoscimento di fronte alla
legge”, stabilisce che “1. Gli Stati Parti riaffermano che le persone con disabilità hanno il diritto di
essere riconosciute ovunque quali persone di fronte alla legge. 2. Gli Stati Parti dovranno riconoscere
che le persone con disabilità godono della capacità legale su base di eguaglianza rispetto agli altri in
tutti gli aspetti della vita. 3. Gli Stati Parti prenderanno appropriate misure per permettere l’accesso
da parte delle persone con disabilità al sostegno che esse dovessero richiedere nell’esercizio della
propria capacità legale. 4. Gli Stati Parti assicureranno che tutte le misure relative all’esercizio della
capacità legale forniscano appropriate ed efficaci salvaguardie per prevenire abusi in conformità della
legislazione internazionale sui diritti umani. Tali garanzie assicureranno che le misure relative
all’esercizio della capacità legale rispettino i diritti, la volontà e le preferenze della persona, che siano
scevre da ogni conflitto di interesse e da ogni influenza indebita, che siano proporzionate e adatte alle
condizioni della persona, che siano applicate per il più breve tempo possibile e siano soggette a
periodica revisione da parte di una autorità competente, indipendente ed imparziale o di un organo
giudiziario. 5. Queste garanzie dovranno essere proporzionate al grado in cui le suddette misure
toccano i diritti e gli interessi delle persone. 6. Sulla base di quanto previsto nel presente articolo, gli
Stati Parti prenderanno tutte le misure appropriate ed efficaci per assicurare l’eguale diritto delle
persone con disabilità alla propria o ereditata proprietà, al controllo dei propri affari finanziari e ad
avere pari accesso a prestiti bancari, mutui e altre forme di credito finanziario, e assicureranno che le
persone con disabilità non vengano arbitrariamente private della loro proprietà”. Trattasi di norma
che i primi commentatori hanno definito “il massimo standard di protezione dei diritti umani della
persona con disabilità, con lo scopo di assicurare il diritto alla eguaglianza e alla non discriminazione
in relazione al godimento e all’esercizio della sua capacità”.
4.2.3.- Ad oltre un decennio, ormai, dal momento in cui la menzionata Convenzione delle Nazioni
Unite è stata ratificata dalla nostra Repubblica – ritenuta la compatibilità della disciplina nazionale
dell’amministrazione di sostegno rispetto alla Convenzione – occorre interrogarsi, allora, sulla
necessità di valorizzare, nell’ambito della disciplina nazionale, le disposizioni e le soluzioni
interpretative potenzialmente coerenti con i principi espressi in questo strumento internazionale.
4.2.4.- In questa prospettiva, riveste una posizione di centralità, compatibilmente con il tipo ed il
grado di disabilità dell’amministrando, l’audizione della persona cui il procedimento di apertura
dell’amministrazione di sostegno si riferisce. Invero, – a differenza di quanto previsto per il
procedimento di interdizione o inabilitazione (art. 419 c.c.) – il giudice tutelare non solo deve sentire
la persona ma, con previsione peculiare propria dell’istituto di protezione in esame, “deve tener conto,
compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione della persona, dei bisogni e delle
richieste di questa” (art. 407 c.c., comma 3). L’audizione del beneficiario risulta, invero, centrale
nell’ambito del procedimento in esame (Cass. n. 6861/2013) per l’adozione di un provvedimento
congruo e commisurato alle concrete esigenze dell’amministrando, anche se la volontà espressa dal
beneficiario non appare decisiva in relazione all’esito del procedimento di apertura della
amministrazione di sostegno. Se, infatti, la circostanza che il beneficiario abbia chiesto o accettato il
sostegno ovvero abbia indicato la persona da nominare o i bisogni concreti da soddisfare non
costituisce condizione necessaria per l’applicazione di tale misura (v. Cass. n. 4866/2010; anche
secondo Corte Cost. n. 4 del 2007), così come, in senso opposto, al dissenso del beneficiario, ai sensi
degli artt. 407 e 410 c.c., non è attribuita una efficacia paralizzante ai fini dell’attivazione della misura
dell’amministrazione di sostegno, a meno che – come è stato già affermato – il giudice non accerti che
i suoi interessi sono comunque tutelati, sia in via di fatto dai familiari che per il sistema di deleghe
attivato autonomamente dall’interessato (Cass. n. 22602/2017), va tuttavia rimarcato che la volontà
contraria all’attivazione della misura dell’amministrazione di sostegno, ove provenga da persona
pienamente lucida (come si verifica allorquando la limitazione di autonomia si colleghi ad un
impedimento soltanto di natura fisica), non può non essere tenuta in debito conto da parte del giudice,
che deve garantire l’equilibrio della decisione, tenendo conto della necessità di privilegiare il rispetto
dell’autodeterminazione della persona interessata, così da discernere le fattispecie, a seconda dei casi
(Cass. n. 29981/2020).
4.2.5.- Ugualmente, costituiscono punti di forza dell’istituto, l’intrinseco dinamismo e la strumentale
flessibilità che lo connotano, desumibili dalla previsione normativa, non formale, del dovere
dell’amministratore di sostegno di riferire periodicamente al giudice tutelare non solo in ordine alle
attività svolte con riguardo alla gestione del patrimonio, ma anche in ordine ad ogni mutamento delle
condizioni di salute e delle condizioni di vita personale e sociale dell’amministrato (art. 405 c.c.,
comma 5, n. 6) e, soprattutto, dalla possibilità che il provvedimento che ha dichiarato aperta la
procedura sia sempre suscettibile di adeguamento e modifiche anche d’ufficio (art. 407 c.c., comma
4; art. 411 c.c., comma 4). Questo strumentario, sintonico all’obiettivo di una individualizzata
rispondenza tra il provvedimento e la sua effettiva e perdurante adeguatezza alle esigenze di
assistenza del beneficiario, merita di essere valorizzato, anche nei sensi indicati dall’art. 12 della
Convenzione.
4.2.6.- Le caratteristiche proprie dell’amministrazione di sostegno impongono, quindi, in linea con le
indicazioni rivenienti dall’art. 12 della Convenzione delle Nazioni Unite, che l’accertamento della
ricorrenza dei presupposti di legge sia compiuto in maniera specifica, circostanziata e focalizzata sia
rispetto alle condizioni di menomazione del beneficiario – da accertare anche mediante CTU, ove
necessario, sia rispetto alla incidenza della stesse sulla capacità del beneficiario di provvedere ai
propri interessi personali e patrimoniali, anche eventualmente avvalendosi, in tutto o in parte, di un
sistema di deleghe dallo stesso approntato; inoltre, il perimetro dei poteri gestori ordinari attribuibili
all’amministratore di sostegno va delineato in termini direttamente proporzionati ad entrambi gli
anzidetti elementi, di guisa che la misura risulti specifica e funzionale agli obiettivi individuali di
tutela, altrimenti implicando un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona (Cass.
n. 10483/2022).
In questo quadro, le dichiarazioni del beneficiario e la sua eventuale opposizione, soprattutto laddove
la disabilità si palesi solo di tipo fisico, pur non vincolanti, devono essere opportunamente
considerate, così come il ricorso a possibili strumenti alternativi dallo stesso proposti, ove prospettati
con sufficiente specificità e concretezza.
4.2.7.- Va, quindi, precisato, per focalizzare l’attenzione sul caso di specie concernente una prospettata
condizione di prodigalità, che, per giurisprudenza ormai consolidata (Cass. n. 5492/2018 Cass. n.
20664/2017, Cass. n. 18171/2013), l’amministrazione di sostegno può pronunciarsi, nell’interesse del
beneficiario (interesse reale e concreto, inerente alla persona e/o al suo patrimonio), anche in presenza
dei presupposti di interdizione e inabilitazione, e dunque anche con riguardo alla prodigalità.
La prodigalità è stata definita come un comportamento abituale caratterizzato da larghezza nello
spendere, nel regalare o nel rischiare in maniera eccessiva ed esorbitante rispetto alle proprie
condizioni socio-economiche ed al valore oggettivamente attribuibile al denaro che configura
autonoma causa di inabilitazione, ai sensi dell’art. 415 c.c., comma 2, indipendentemente da una sua
derivazione da specifica malattia o comunque infermità, e, quindi, anche quando si traduca in
atteggiamenti lucidi, espressione di libera scelta di vita, purchè sia ricollegabile a motivi futili (ad
esempio, frivolezza, vanità, ostentazione del lusso, disprezzo per coloro che lavorano, o a dispetto
dei vincoli di solidarietà familiare) (Cass. n. 786/2017).
In questi sensi è stato ravvisato il presupposto per l’apertura dell’amministrazione di sostegno nel caso
di una persona dedita in maniera continua al gioco, che destini ad esso tutti i suoi averi, contraendo
anche plurimi prestiti per alimentare questa pregiudizievole inclinazione (Cass. 5492/2018);
diversamente, sono stati ritenuti insussistenti gli estremi della prodigalità nella condotta di un
soggetto che, con la redistribuzione della propria ricchezza a persone a lui vicine, anche se non
parenti, intendeva dare una risposta positiva e costruttiva al naufragio della propria famiglia (Cass. n.
786/2017).
4.2.8.- Anche la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, di recente, ha avuto modo di esaminare la
disciplina italiana dell’amministrazione di sostegno proprio per un caso di prodigalità (Sentenza Corte
Europea diritti dell’uomo Sez. I, Sent. (ud. 27/06/2023) 06/07/2023 – ricorso n. 46412/21).
La Corte EDU (in particolare, v. par. 84-92) ha ricordato che la decisione di sottoporre una persona
ad una misura di protezione giuridica può costituire un’ingerenza nella vita privata di tale persona ai
sensi dell’art. 8, par. 1, della CEDU, anche quando quest’ultima è stata privata solo in parte della sua
capacità giuridica, ed ha rammentato che una lesione del diritto di una persona al rispetto della sua
vita privata viola l’art. 8, se non è “prevista dalla legge”, se non persegue uno o più scopi legittimi ai
sensi del paragrafo 2, o se non è “necessaria in una società democratica”, nel senso che non è
proporzionata agli scopi perseguiti.
4.2.9.- Quindi, passando ad esaminare il caso concreto, riguardante una persona sottoposta al regime
di amministrazione di sostegno previsto dagli artt. 404 e 411 c.c., per prodigalità e, da una certa epoca
in poi, anche per un indebolimento delle condizioni psicofisiche e mentali, la Corte EDU ha dichiarato
di considerare che “l’ingerenza perseguisse lo “scopo legittimo”, ai sensi del secondo paragrafo
dell’art. 8, della protezione del secondo ricorrente contro, in un primo tempo, il rischio di indigenza
e, a partire dal 2020, un indebolimento di ordine fisico e mentale”, e ciò anche se la decisione di
sottoporre la persona all’amministrazione di sostegno, privandola in parte, se del caso, della sua
capacità giuridica, non era basata su una constatazione di un’alterazione delle sue facoltà mentali
attestata da medici, ma su una eccessiva prodigalità che poteva porlo a rischio di indigenza, e
sull’indebolimento fisico e psichico da lui dimostrato a partire dal (Omissis).
Di seguito, la Corte EDU ha precisato che vi è necessità di perimetrare la concreta misura da applicare
in termini di proporzionalità perchè “privare una persona della sua capacità giuridica, anche in parte,
è una misura molto grave che dovrebbe essere riservata a circostanze eccezionali. Tuttavia, deve
essere lasciato inevitabilmente un margine di apprezzamento alle autorità nazionali che, a causa del
loro contatto diretto e continuo con le forze vive del loro paese, si trovano in linea di principio in una
posizione migliore rispetto a una giurisdizione internazionale per valutare i bisogni e le condizioni
locali. Questo margine varierà in funzione della natura del diritto della Convenzione che è in causa,
della sua importanza per la persona e della natura delle attività limitate, così come della natura dello
scopo perseguito dalle restrizioni. Il margine tenderà a essere più ristretto quando il diritto in gioco è
fondamentale per il godimento effettivo da parte della persona di diritti intimi o essenziali” e, nel caso
specifico, ha concluso che, anche se l’ingerenza perseguiva lo scopo legittimo di proteggere il
benessere, in senso ampio, dell’amministrato, essa (consistita nel ricovero in RSA con restrizioni per
quanto concerneva i suoi contatti con i parenti e nella circostanza che tutte le decisioni che lo
riguardano erano state prese dall’amministratore di sostegno) non era tuttavia, in riferimento alla
gamma delle misure che le autorità potevano adottare, nè proporzionata nè adeguata alla sua
situazione individuale e l’ingerenza non era rimasta entro i limiti del margine di apprezzamento di cui
le autorità giudiziarie beneficiavano nel caso di specie (par. 108).
4.3.- Così ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale, va osservato che la decisione impugnata
non risulta essere stata pronunciata nel solco dei principi anzidetti, pure in parte formalmente
riprodotti, si chè si palesa ampiamente lacunosa e va, pertanto, cassata.
Come già evidenziato, la prodigalità di per sè non costituisce necessariamente espressione di una
patologia psichica o psichiatrica e può non essere basata su una constatazione di alterazione delle
facoltà mentali del beneficiando attestata da medici (come avvenuto anche nel caso esaminato dalla
Corte EDU), ma su concrete condotte tali da porlo a rischio di indigenza.
La prova della prodigalità può desumersi da presunzioni gravi, precise e concordanti, ricavate dal
complesso degli indizi, da valutarsi, non atomisticamente, ma nel loro insieme e l’uno per mezzo degli
altri, nel senso che ognuno di essi, quand’anche singolarmente sfornito di valenza indiziaria, può
rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento (Cass. n.
34950/2022; Cass. n. 9054 del 21/03/2022).
Orbene, la decisione impugnata non ha fatto retta applicazione dei principi richiamati, laddove viene
affermato, sulla base della disamina della consulenza medico legale che B.B. non è affetto da
patologie psichiche e da ciò si deduce che difetta la prova che sia affetto da prodigalità, assumendo
che il fatto che B.B. non abbia voluto dare conto dell’utilizzo della metà delle somme incassate “non
configura di per sè prodigalità, e tanto meno prova dell’utilizzo di somme per futili motivi”, pur
trattandosi di somme “di cui nulla è dato sapere” e che è vero che vi è un “depauperamento del
patrimonio” e un “disordine o inadeguatezza nella gestione dell’azienda, ma ciò non costituisce di per
sè prodigalità”, risultando in ciò evidente una valutazione atomistica, e non complessiva, degli
elementi, anche indiziari, acquisiti.
Invero, la condotta serbata nel corso dello svolgimento della CTU contabile da B.B., pur non potendo
costituire univoco indizio di prodigalità, come suggerisce la ricorrente, non è nemmeno un elemento
neutro. Infatti, ciò avrebbe dovuto indurre ulteriori approfondimenti istruttori, possibili anche ex
officio ai sensi dell’art. 407 c.c., poichè proprio la condotta osservata aveva inficiato i risultati
dell’accertamento tecnico contabile e impedito la piena comprensione della rilevantissima vicenda
dissolutoria del patrimonio del beneficiando che aveva indotto la richiesta di apertura
dell’amministrazione di sostegno, tanto più che l’amministrando non ha illustrato le ragioni delle sue
scelte, non ha chiarito la destinazione di gran parte delle somme conseguite e non ha nemmeno
mostrato di essere pienamente consapevole delle situazioni di grave pregiudizio nelle quali poteva
trovarsi, avendo finanche richiesto, senza esito favorevole, dei finanziamenti bancari.
Anche le dichiarazioni rese dal fratello di B.B., concernenti i rischi di compromissione dell’intero
patrimonio del germano con grave ed irreversibile pregiudizio di quest’ultimo e la interruzione dei
rapporti con i familiari, così come le relazioni dell’amministratore di sostegno da cui si evinceva la
mancanza di collaborazione di B.B., non sono state adeguatamente considerate laddove, ove vagliate
e valutate, avrebbero potuto fornire elementi rilevanti sia per la ricostruzione del quadro di
prodigalità, sia all’opposto per una motivata ed argomentata esclusione dello stesso, ciò che il decreto
impugnato, invero, non fornisce.
Se una persona è libera di disporre del proprio patrimonio, anche in misura larga e ampia,
assottigliando ciò di cui legittimamente dispone, non può però ridursi nella condizione in cui, non
solo non sia più in grado di assicurare i doveri di solidarietà già posti a suo carico (l’aiuto all’ex
coniuge), ma finanche quelli che egli in favore della propria persona, altrimenti costretta a far ricorso
agli strumenti di aiuto pubblico da richiedersi a dispetto delle proprie sostanze capacità di vita
dignitosa. In sostanza, la collettività non può farsi carico dell’eccesso di prodigalità di una persona
che con le sue sostanze ha di che vivere e dignitosamente.
La decisione impugnata va, dunque cassata, e la Corte di appello – che tali accertamenti non ha svolto
con attenzione – in sede di rinvio dovrà procedere al riesame della causa alla luce dei principi espressi,
esercitando, se del caso, i poteri istruttori ex officio, ai sensi dell’art. 407 c.c., al fine di acquisire gli
elementi di fatto necessari all’accertamento richiesto e valutando in maniera complessiva le
emergenze istruttorie già in atti e così acquisite.
Resta fermo che, ove dovessero ravvisarsi i presupposti per l’apertura dell’amministrazione di
sostegno, che è misura di protezione, la stessa dovrà essere adottata nel rispetto dei criteri di
adeguatezza e proporzionalità alla situazione individuale ed entro i limiti del margine di
apprezzamento di cui l’autorità giudiziaria beneficia nel caso di specie.
5. In conclusione, il ricorso va accolto; il decreto impugnato va cassato con rinvio della causa, anche
per la statuizione sulle spese del presente giudizio, alla Corte di appello di Bologna in diversa
composizione, che si atterrà ai principi prima ricordati.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e
dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
P.Q.M.
– Accoglie il ricorso; cassa il decreto impugnato e rinvia la causa alla Corte di appello di Bologna, in
diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e
dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Volontà del testatore ed interpretazione del testamento

Cass. Civ., Sez. II, ord. 22 dicembre 2023 n. 35807 – Pres. Manna, Cons. Rel. Criscuolo
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente
Dott. PICARO Vincenzo – Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 36599-2018 proposto da:
A.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA…, presso lo studio dell’avvocato…, che la
rappresenta e difende unitamente all’avvocato…;
– ricorrente –
contro
B.B., rappresentata e difesa dagli avvocati…;
– ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 1575/2018 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 10/10/2018;
lette le memorie delle parti;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/12/2023 dal Consigliere Dott.
MAURO CRISCUOLO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. A.A. ha evocato in giudizio dinanzi al Tribunale di Bergamo B.B. e la madre C.C. (deceduta nelle
more del giudizio ed alla quale è subentrata la B.B.), deducendo che era deceduto D.D.,
rispettivamente padre e marito dele convenute, che con testamento olografo del 12/9/1999 aveva
previsto che il 25% dei propri soldi fosse attribuito a titolo di legato, e per la quota del 20%, in favore
dell’attrice, spettando il residuo 5% ai fratelli.
Poichè la successione si era devoluta per il resto secondo le regole della successione legittima,
sosteneva che l’espressione contenuta nel testamento “tutti i soldi in mio possesso” doveva essere
interpretata nel senso che il legato comprendeva non solo il denaro liquido, ma tutti gli investimenti
mobiliari, le quote dell’Immobiliare K Srl , e quindi tutte le disponibilità mobili appartenute in vita
al de cuius, tra cui si inseriva anche un conto deposito con investimenti per oltre due milioni di Euro.
Chiedeva quindi la condanna delle convenute all’adempimento del legato.
Nella resistenza delle convenute che, oltre a dedurre l’invalidità della scheda, assumevano che
l’espressione oggetto del legato era da intendersi limitata al solo saldo del conto corrente del defunto,
il Tribunale adito con la sentenza non definitiva n. 757/2010 rigettava la domanda di invalidità
dell’olografo ed accertava che oggetto del legato era non solo il denaro liquido ma anche gli
investimenti mobiliari esistenti alla data del decesso del de cuius.
Formulata riserva di gravame, il Tribunale con sentenza definitiva, rigettata la domanda di riduzione
delle convenute, condannava queste ultime al pagamento in favore dell’attrice della somma di Euro
424.278,67, oltre interessi legali dalla domanda al saldo, ritenendo che occorreva escludere solo il
valore delle quote delle società delle quali il defunto era socio.
Avverso tale sentenza ha proposto appello la B.B. e la Corte d’Appello di Brescia, con la sentenza n.
1575 del 10 ottobre 2018, in parziale riforma della sentenza appellata ha ridotto la condanna della
convenuta al versamento della somma di Euro 209.191,83.
Nell’esaminare la censura dell’appellante in merito alla corretta interpretazione delle volontà
testamentarie concernenti il legato, la Corte d’Appello richiamava i principi che presiedono
all’interpretazione delle volontà testamentarie, rilevando che il de cuius, quando aveva fatto
riferimento ai “soldi” aveva ragionevolmente inteso distribuire tra gli eredi ed i legatari il suo
patrimonio mobiliare, così che l’espressione intendeva designare, accanto al denaro contante, anche
il denaro in quel momento investito in prodotti finanziari.
Andavano però escluse le partecipazioni azionarie, e quindi anche le obbligazioni e le azioni, per le
quali era intervenuta rinuncia da parte dell’appellata.
Ai fini della corretta esegesi del testamento bisognava prendere in esame anche la cultura, la
mentalità e l’ambiente di vita del testatore, e la sentenza, partendo dalle sue umili origini e dai suoi
inizi lavorativi, che lo avevano poi portato a divenire un imprenditore di successo nel settore tessile,
riteneva che la stessa descrizione offerta dall’appellante induceva a reputare che, stante la volontà
di distribuire il proprio patrimonio mobiliare, l’espressione utilizzata in concreto mirava ad
assegnare anche il denaro rappresentato da titoli convertibili immediatamente liquidabili con
semplici operazioni contabili.
Ai fini del calcolo del legato andavano quindi considerati i conti correnti intestati al de cuius, le
gestioni patrimoniali ed i fondi comuni di investimento, con esclusione del valore di obbligazioni ed
azioni, in quanto assimilabili alle quote societarie, dal che ne derivava una somma di importo
inferiore rispetto a quella riconosciuta in primo grado.
Quanto alla frazionabilità delle obbligazioni tra coeredi, la stessa era superata per effetto della
successione della figlia alla madre “salvi gli eventuali effetti dell’accettazione con il beneficio
dell’inventario”.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso A.A. sulla base di due motivi.
B.B. ha resistito con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale affidato a tre motivi.
La ricorrente principale ha resistito con controricorso al ricorso incidentale.
Entrambe la parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.
2. L’ordine logico delle questioni impone la preventiva disamina del secondo motivo del ricorso
principale congiuntamente al secondo motivo del ricorso incidentale.
Lamenta la A.A. la violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto la controparte aveva proposto appello
lamentando unicamente che nella nozione di soldi dovevano farsi rientrare solo le somme giacenti
sui conti correnti, senza mai sollecitare una distinzione fra le varie forme di investimento del denaro
da parte del testatore.
La Corte d’Appello avrebbe perciò dovuto offrire una risposta secca al quesito posto con il motivo
di appello, senza operare alcuna distinzione tra le varie forme di immobilizzazione del denaro.
Il secondo motivo del ricorso incidentale mostra di aderire a tale censura e ritiene che occorresse
solo dare risposta al quesito se il termine utilizzato dal testatore consentisse di estendere il legato
anche a cose diverse dal denaro.
I motivi sono infondati.
Avendo Il Tribunale reputato che l’espressione “soldi”, con la quale si designava l’oggetto del legato,
non potesse essere intesa in senso restrittivo e che occorreva invece tenere conto del reale intento del
de cuius di distribuire tra eredi e legatari il proprio patrimonio mobiliare, comprensivo quindi anche
di forme di investimento diverse dal denaro, il motivo di appello che invece propendeva per una
lettura rigorosa delle volontà testamentarie sollecitava in ogni caso una verifica circa la correttezza
dell’interpretazione dell’atto di ultime volontà.
L’oggetto del giudizio era quindi quello di stabilire l’oggetto del legato sulla base di quanto disposto
nel testamento, ed a tale compito ha quindi assolto la Corte d’Appello, ritenendo che fosse corretta
la scelta ampliativa del Tribunale, ma correggendone in parte la portata, con l’esclusione di alcune
componenti che invece erano state considerate in primo grado.
La domanda attorea era volta a stabilire quale fosse l’oggetto del legato e tale è rimasta anche in
appello, dovendosi quindi escludere la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., stante la sollecitazione
con l’appello a correttamente definire le componenti patrimoniali sulla base delle quali determinare
l’importo del legato spettante all’attrice.
3. Sempre seguendo l’ordine logico delle questioni si impone la disamina del primo motivo del
ricorso principale e del primo motivo del ricorso incidentale.
La ricorrente principale denuncia la violazione dell’art. 111 Cost. in relazione all’art. 132 c.p.c.,
comma 2, n. 4, per avere la Corte d’Appello, pur ritenendo di accedere ad una nozione estensiva
dell’espressioni “soldi” utilizzata dal de cuius, nella sua concreta attuazione compiuto delle
affermazioni, in punto di esclusione di alcune componenti, che si presentano del tutto illogiche ed
inconciliabili con le premesse argomentative, avendo poi valorizzato una pretesa rinuncia
dell’appellata in realtà di contenuto ben diverso.
Si sottolinea che correttamente il de cuius aveva inteso far riferimento non solo al denaro giacente
sui conti correnti, ma anche a quello rappresentato da titoli convertibili, suscettibili di generare
liquidità mediante semplici operazioni contabili. Era stata correttamente supportata tale conclusione
con il richiamo alla volontà evincibile dal testamento tenendo conto del grado di cultura del testatore
e della sua mentalità, quale desumibile dalla stessa descrizione che ne faceva la figlia.
In pratica il de cuius, quasi facendo ricorso ad una sineddoche, aveva fatto riferimento ai soldi, ma
con l’intento evidente di voler includere nell’espressione anche il denaro investito in titoli
convertibili in liquidità con semplici operazioni contabili.
Tuttavia, nel tradurre in pratica tale condivisibile affermazione, la sentenza impugnata ha però
escluso dal novero delle componenti patrimoniali sulla cui base calcolare il legato, non solo le quote
societarie intestate al de cuius, ma anche le azioni ed obbligazioni.
Trattasi di conclusione che sarebbe in palese contraddizione con la premessa logica che sorregge
l’interpretazione del testamento e che si fonda altresì sulla valorizzazione di una rinuncia operata
dalla ricorrente ma solo all’equivalente in denaro delle quote di alcune società di cui il de cuius era
titolare, ma non anche di tutte le partecipazioni azionarie, specialmente se riferite a società quotate
in borsa, per le quali è la stessa regolamentazione del mercato a consentire un’immediata
conversione in denaro.
Analoga doglianza di violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 viene mossa
dalla ricorrente incidentale che invece assume che, avendo la Corte escluso dalla nozione di soldi le
azioni e le obbligazioni, avrebbe poi conseguenzialmente dovuto escludere anche le quote dei fondi
di investimento e le gestioni patrimoniali.
Ritiene la Corte che si palesi fondato il motivo del ricorso principale e che viceversa sia infondato
quello del ricorso incidentale.
La sentenza impugnata, compiendo una corretta applicazione dei principi che questa Corte ha
dettato in materia di interpretazione delle volontà testamentarie (secondo cui l’interpretazione del
testamento, cui in linea di principio sono applicabili le regole di ermeneutica dettate dal codice in
tema di contratti, con la sola eccezione di quelle incompatibili con la natura di atto unilaterale non
recettizio del negozio “mortis causa”, è caratterizzata, rispetto a quella contrattuale, da una più
penetrante ricerca, aldilà della dichiarazione, della volontà del testatore, la quale, alla stregua
dell’art. 1362 c.c., va individuata con riferimento ad elementi intrinseci alla scheda testamentaria,
sulla base dell’esame globale della scheda stessa e non di ciascuna singola disposizione, potendosi,
ove dal testo dell’atto non emergano con certezza l’effettiva intenzione del “de cuius” e la portata
della disposizione, fare ricorso ad elementi estrinseci al testamento, ma pur sempre riferibili al
testatore, quali, ad esempio, la personalità dello stesso, la sua mentalità, cultura o condizione sociale
o il suo ambiente di vita, così ex multis Cass. n. 10882/2018), ha ritenuto che il termine “soldi” fosse
stato utilizzato in quanto volto a designare non solo il denaro contante o comunque giacente sui
conti correnti, ma tutto ciò che pur essendo investito in altre forme, potesse essere facilmente
convertito in denaro mediante semplici operazioni contabili.
Anche il motivo del ricorso incidentale non sottopone a puntuale critica l’esito ermeneutico cui è
pervenuto il giudice di appello, ma sottolinea nella sostanza la medesima illogicità delle conclusioni
tratte dal giudice di appello, che non sono coerenti con le premesse dalle quali ha pur dichiarato di
prendere le mosse.
Assume la A.A. che la portata estensiva della disposizione a titolo di legato, in quanto idonea a
ricomprendere ogni forma di investimento mobiliare caratterizzata dalla immediata convertibilità
in denaro avrebbe dovuto attrarre nella previsione testamentaria non solo le componenti
patrimoniali indicate a pag. 13, ma anche le azioni ed obbligazioni emesse da società quotate in borsa
trattandosi di titoli che condividono con quelli espressamente riconosciuti in sentenza, il carattere
della immediata convertibilità.
In senso opposto la ricorrente incidentale trae dall’esclusione delle azioni ed obbligazioni ora
richiamate l’incoerenza della inclusione nel legato proprio di forme di investimento che in quanto
accomunate alle prime, dovrebbero essere coerentemente escluse dal computo di quanto spettante
all’attrice.
Trattasi sostanzialmente della denuncia della medesima incoerenza tra premesse del ragionamento
ed applicazione concreta che si risolve ad avviso della Corte in un pregiudizio per la posizione della
ricorrente principale.
Correttamente è stato richiamato il principio secondo cui la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma
1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere
interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo
costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione
solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in
quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza
impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella
“mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel
“contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed
obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza”
della motivazione (Cass. S.U. n. 8053/2014, nonchè da ultimo Cass. n. 7090/2022).
Nella fattispecie si palesa proprio il contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili.
Infatti, una volta rilevata la incensurabilità della lettura estensiva della nozione di “soldi” relativa al
legato di cui è beneficiaria la A.A., e ritenuto altresì che ciò che connota le componenti incluse nel
calcolo del legato è appunto la immediata convertibilità dei titoli in legato con semplici operazioni
contabili, è del tutto inconciliabile la successiva affermazione della Corte d’Appello che ha escluso il
valore di tutte le azioni ed obbligazioni, trattandosi, soprattutto per quelle relative a società quotate
in borsa ovvero oggetto di contrattazione su apposti mercati, di titoli aventi una funzione
chiaramente di investimento e connotati dalla possibilità di una sollecita ed agevole conversione del
loro valore di mercato in denaro.
Nè può sorreggere la coerenza della conclusione della Corte il richiamo alla rinuncia dell’appellata,
essendo l’estensione della rinuncia anche alle azioni ed obbligazioni de quibus viziata da una
erronea lettura della rinuncia, che la stessa sentenza riporta a pag. 8 essere riferita solo alle quote
sociali, e cioè alle partecipazioni a quelle Srl nelle quali il de cuius aveva un ruolo attivo, essendo la
partecipazione non funzionale ad una finalità di investimento, ma allo svolgimento dell’attività
imprenditoriale.
L’affermazione di cui alla pag. 11 secondo cui la rinuncia nei termini ora esposti si estendesse a tutte
le partecipazioni azionarie risulta affetta quindi da una altrettanto insanabile contraddizione con le
premesse che sorreggono l’interpretazione delle volontà testamentarie, tradendo quella che era stata
la valutazione in punto di estensione del legato.
In accoglimento del primo motivo del ricorso principale la sentenza deve quindi essere cassata per
la nullità della motivazione, dovendo il giudice di rinvio procedere a nuovo esame, previa
individuazione tra le varie forme di investimento poste in essere dal de cuius di quelle che si
presentano come titoli convertibili in denaro mediante semplici operazioni contabili.
4. Il terzo motivo del ricorso incidentale denuncia la nullità della sentenza per la violazione dell’art.
112 c.p.c..
Si sostiene che la A.A. in comparsa di risposta in appello aveva dedotto che la B.B. aveva accettato
puramente e semplicemente l’eredità della madre, non potendo quindi fruire dell’accettazione
beneficiata. A tale richiesta non è però seguita alcuna statuizione da parte della Corte d’Appello con
la conseguente violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
Il motivo è inammissibile.
In primo luogo, in quanto la ricorrente incidentale denuncia un’omissione di pronuncia su di una
domanda che in realtà è stata avanzata dalla controparte, così che la stessa è evidentemente priva di
interesse a dolersene.
In secondo luogo, in quanto la sentenza d’appello a pag. 4 ha riferito della qualità della B.B. di erede
beneficiata della madre, aggiungendo poi a pag. 13 che la questione della frazionabilità delle
obbligazioni tra coeredi era superata per effetto del subentro della ricorrente incidentale alla madre,
“salvi gi effetti dell’accettazione con beneficio di inventario”, mostrando in tal modo di avere inteso
mantenere ferma la qualità formale di erede beneficiata ricoperta dalla convenuta.
In terzo luogo, in quanto si riferisce di una domanda avanzata dalla A.A. solo con la comparsa di
risposta in appello, domanda evidentemente nuova e con la conseguenza che la sua inammissibilità
risulta assorbente anche del vizio di omessa pronuncia.
5. La sentenza impugnata deve quindi essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla
Corte d’Appello di Brescia in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente
giudizio.
6. Poichè il ricorso incidentale è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24
dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui al D.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da
parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale nei limiti di cui in motivazione e, rigettati il
secondo motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in
relazione al motivo accolto, con rinvio per nuovo esame alla Corte d’Appello di Brescia, in diversa
composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1,
comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente
incidentale dell’ulteriore somma pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 1
bis dello stesso art. 13

La S.C. ribadisce i presupposti per ottenere l’assegno di mantenimento

Cass. Civ., Sez. I, Ord., 28 dicembre 2023, n. 36178; Pres. Genovese, Rel. Cons. Parise
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Venezia, con sentenza n. 1502/2020 pubblicata il 17 ottobre 2020, per quanto ora di
interesse, dichiarava la separazione personale dei coniugi A.A. e B.B.; affidava ad entrambi i genitori
in modo condiviso la figlia minore, fatta eccezione per la ordinaria amministrazione; confermava il
programma di frequentazione con tempo paritario già in atto, disciplinando in pari misura anche il
periodo estivo e le vacanze; poneva a carico di A.A. l’obbligo di versare in favore di B.B. l’importo
mensile di Euro 700,00 a titolo di concorso al mantenimento della figlia; poneva le spese straordinarie
sostenute nell’interesse della figlia a carico del padre nella misura del 70% e a carico della madre per
il residuo 30%; poneva a carico di A.A. l’obbligo di versare l’importo di Euro 1.000,00 in favore della
moglie a titolo di concorso per il suo mantenimento, con rivalutazione Istat, e disciplinava le spese di
lite.
2. Con sentenza n. 1683/2021, pubblicata il 9-6-2021 la Corte d’appello di Venezia, in parziale riforma
della sentenza impugnata e in parziale accoglimento dell’appello proposto da A.A. avverso la citata
sentenza, ha disposto la riduzione a Euro 500.00 mensili dell’assegno dovuto dal padre per il
mantenimento della figlia, con decorrenza dalla pubblicazione della sentenza, confermando per il
resto la sentenza impugnata. Per quel che ora interessa, la Corte di merito ha affermato che: a)
l’appellante sosteneva che la moglie non era priva di adeguati redditi propri e che non aveva provato

l’esistenza di un elevato tenore di vita che non potesse essere conservato con il patrimonio di cui
disponeva; b) l’appellante era un magistrato presso il Tar della Lombardia, con una capacità reddituale
di gran lunga superiore rispetto a quella della moglie, la quale era dipendente del Comune di
(Omissis), e sussistevano i presupposti per l’assegno a favore della moglie, stante la notevole disparità
di reddito; c) poneva a carico di A.A. l’obbligo di versare in favore di B.B. il minor importo mensile
di Euro 500,00 a titolo di concorso al mantenimento della figlia, “considerando le attuali esigenze
della figlia, il tenore di vita goduto durante la convivenza con entrambi i genitori, i tempi di
permanenza presso ciascun genitore, le risorse economiche di entrambi i genitori, valenza economica
dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore (art. 155, in relazione all’art. 337-ter c.c.)”.
3. Avverso questa sentenza A.A. propone ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, nei
confronti di B.B., che resiste con controricorso.
4. Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e
art. 380 bis.1 c.p.c.. Le parti hanno depositato memorie illustrative.
Motivi della decisione
5. Il ricorrente denuncia: i) con il primo motivo la nullità della sentenza in quanto delibata senza la
partecipazione del P.G. al processo d’appello, investendo detta nullità l’intero grado di giudizio stante
l’irregolare costituzione del rapporto processuale; ii) con il secondo motivo la violazione e falsa
applicazione dell’art. 156 c.c., per avere la Corte territoriale stabilito in Euro 1.000,00 l’importo
mensile dovuto dall’odierno ricorrente in favore della moglie, a titolo di mantenimento, fondando la
decisione sulla circostanza, non vera come documentalmente provato in causa, che la B.B. sostenesse
il pagamento di un canone di locazione; inoltre la moglie non aveva provato che non era dalla stessa
conservabile il tenore di vita goduto durante il matrimonio, che si assume incontestato come modesto,
ed aveva scelto, con decisione unilaterale, di “demansionarsi con riduzione stipendiale”, peraltro dopo
circa 5 anni di separazione di fatto dal coniuge; iii) con il terzo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n.
4, la nullità della sentenza per avere la Corte di merito omesso l’esame del secondo motivo d’appello
relativo alla violazione dell’art. 156 c.c., e conseguente mancata pronuncia sui presupposti fondanti
l’attribuzione del mantenimento; rimarca il fatto che nei cinque anni anteriori alla formalizzazione
della separazione i coniugi erano stati separati di fatto, sicchè non doveva tenersi conto, per valutare
le capacità reddituali di ciascuno dei coniugi, dell’ultimo quinquennio, in cui le differenze reddituali
si erano accentuate perchè la moglie aveva volontariamente cambiato lavoro, senza che ve ne fosse
necessità per l’accudimento della figlia, e il ricorrente aveva un reddito considerevolmente più alto;
ribadisce la mancata prova del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio; iv) con il quarto
motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la “nullità della sentenza per avere la Corte di merito omesso
l’esame del primo motivo d’appello relativo alla violazione dell’obbligo motivazionale in relazione al
merito delle condizioni economiche della separazione”, rilevando di aver impugnato la sentenza del
Tribunale per omessa motivazione circa la non condivisione dell’esito del giudizio di reclamo avverso
il provvedimento presidenziale (decreto della Corte d’appello di Venezia n. 842/2019 dell’1-2-2019
con cui l’assegno di mantenimento per la moglie era stato ridotto a Euro 500,00) e deducendo che
neppure la Corte veneta si era espressa e aveva motivato al riguardo, nonostante che non fossero stati
acquisiti in causa nuove prove e nuovi dati istruttori; iv) con il quinto motivo, ai sensi dell’art. 360
c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 337 ter c.c., n. 4, in relazione all’art. 155 c.c., per avere la Corte di
merito erroneamente posto a carico del padre il contributo di mantenimento per la figlia, pur in
presenza di affidamento condiviso e paritario, omettendo di considerare che la moglie aveva
volontariamente optato per una sua decurtazione reddituale e rifiutava il pagamento della propria
quota di spese straordinarie.
6. Il primo motivo è infondato.

Secondo l’orientamento di questa Corte che il Collegio condivide, l’art. 70 c.p.c., comma 1, n. 2,
sull’obbligatorietà dell’intervento del pubblico ministero nella causa di separazione personale dei
coniugi, trova applicazione fino a quando sia in discussione il vincolo matrimoniale, e non anche,
pertanto, nel giudizio d’appello, ove inerente ai soli rapporti patrimoniali (Cass. 6262/2017).
Nella specie, il mancato intervento del P.M. nel giudizio di appello non ha comportato la denunciata
nullità poichè detto giudizio ha avuto ad oggetto esclusivamente profili patrimoniali tra le parti.
7. I motivi secondo, terzo e quarto, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione in quanto
tutti concernenti l’attribuzione del contributo di mantenimento alla moglie, sono in parte infondati e
in parte inammissibili.
7.1. Questa Corte ha ripetutamente affermato che compete in favore del coniuge a carico dell’altro un
assegno di mantenimento, una volta accertato che lo stesso: a) non sia in grado, con i propri redditi,
di mantenere un tenore di vita analogo a quello offerto dalle potenzialità economiche di entrambi, da
individuarsi con riferimento allo standard di vita familiare reso oggettivamente possibile dal
complesso delle loro risorse economiche, in termini di redditività, capacità di spesa, garanzie di
elevato benessere e di fondate aspettative per il futuro; b) versi, alla stregua di una valutazione
comparativa, in una condizione economica deteriore rispetto all’altro, tenuto conto di circostanze
ulteriori quali la durata della convivenza, fermo restando che non è necessaria una individuazione
precisa di tutti gli elementi relativi alla situazione patrimoniale e reddituale dei coniugi, essendo
sufficiente una loro ricostruzione generale attendibile (tra le tante Cass. 12196/2017; Cass.
28938/2017). Inoltre la separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli
effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicchè i “redditi
adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.c., l’assegno di mantenimento a favore del coniuge,
in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita
goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non
presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione
degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione, e che ha una consistenza
ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell’assegno di divorzio (Cass. 4327/2022).
7.2. Nel caso di specie, la Corte di merito si è attenuta ai suesposti principi, contrariamente a quanto
si assume in ricorso (secondo motivo), ha proceduto a valutare comparativamente le condizioni
economiche dei coniugi, desumendone lo standard di vita familiare correlato alle potenzialità
economiche di essi, ha rimarcato la notevole disparità tra il reddito del marito e quello della moglie
e, in ragione della condizione economica assai deteriore di quest’ultima rispetto al primo, le ha
riconosciuto l’assegno di mantenimento.
Va, altresì, rilevata l’inammissibilità delle censure nella parte in cui si denuncia, sub specie del vizio
di violazione dell’art. 156 c.c. (secondo motivo), l’erroneo riferimento al pagamento di un canone di
locazione e alla mancata valutazione della scelta della moglie di demansionarsi e ridurre il suo reddito
di lavoro. Infatti, per costante giurisprudenza di questa Corte, il vizio di violazione di legge consiste
nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie
astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo
della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo
delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica
valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del
vizio di motivazione: il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a
causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della
legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal
fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle
risultanze di causa (Cass. n. 24054/2017). Nel caso di specie, il ricorrente, nel dolersi della violazione
dell’art. 156 c.c., censura, in realtà, la ricostruzione fattuale. Infatti la violazione di legge denunciata

viene prospettata dal ricorrente sulla base degli assunti, imprescindibili, che determinate circostanze,
pur asseritamente provate, non siano state considerate dai giudici di merito ed è, dunque, mediata
dalla valutazione delle risultanze processuali, presupponendo una diversa ricostruzione, in fatto, della
fattispecie concreta.
7.3. Gli altri profili di doglianza, espressi con i motivi terzo e quarto, sono inammissibili.
Il ricorrente, pur rubricando le censure sub specie di vizi di omessa pronuncia su alcuni dei motivi di
appello ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, vale a dire consistenti nella violazione della corrispondenza
tra il chiesto e il pronunciato, non solo non deduce specificamente la violazione dell’art. 112 c.p.c.,
ma svolge una critica contenutisticamente riferita esclusivamente a dati fattuali, che assume non
valutati e, in tesi, rilevanti ai fini della debenza e della quantificazione dell’assegno separativo
(separazione di fatto nei cinque anni anteriori alla separazione; riduzione reddituale della moglie
dovuta a sua scelta lavorativa non legata all’accudimento della figlia; esito del precedente giudizio di
reclamo del 2019, da cui era dato desumere, a dire del ricorrente, una differente condizione economica
dei coniugi).
Orbene, posto che la decisione sulle condizioni economiche della separazione è stata motivata dalla
Corte d’appello in modo idoneo e rispondente al “minimo costituzionale” (Cass. Sez. U., 8053/2014
e successive conformi), i vizi come illustrati in ricorso non integrano un difetto di attività del giudice
di secondo grado di rilevanza ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 citato, ossia un error in procedendo,
quanto, piuttosto, denunciano l’omesso esame degli elementi istruttori suindicati. Peraltro, detto
omesso esame, secondo la giurisprudenza di questa Corte, neppure integra, di per sè, il vizio di
omesso esame di un fatto decisivo, qualora il fatto storico, rilevante in causa (nella specie le
condizioni economiche e la differenza di reddito tra le parti), sia stato comunque preso in
considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie
(Cass. 27415/2018).
8. Il quinto motivo è in parte inammissibile, in quanto, tramite l’apparente denuncia del vizio di
violazione di legge, sollecita il riesame del merito, in ordine alla debenza del contributo di
mantenimento della figlia, contestata dal ricorrente in ragione dell’asserita volontaria decurtazione
reddituale da parte della madre, ed è altresì infondato, nella parte in cui denuncia la violazione del
principio di proporzionalità in quanto l’affidamento condiviso della minore ai genitori era paritario.
A tale ultimo riguardo, occorre ribadire che l’affidamento condiviso dei figli minori, in quanto fondato
sull’interesse esclusivo di questi ultimi, non elimina l’obbligo patrimoniale di uno dei genitori di
contribuire alle esigenze di vita dei primi mediante la corresponsione di un assegno di mantenimento,
ma non implica, come sua conseguenza “automatica”, che ciascuno dei due genitori debba provvedere
paritariamente, in modo diretto ed autonomo, alle predette esigenze (Cass. 26060/2014).
9. In conclusione, il ricorso va complessivamente rigettato e le spese del presente giudizio, liquidate
come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei
presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13,
comma 1-bis, ove dovuto (Cass. S.U. n. 5314/2020).
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e
dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di lite del presente giudizio,
liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali (15%) ed
accessori, come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-
bis, ove dovuto.
Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei
soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.
Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2023.
Depositato in Cancelleria il 28 dicembre 2023

Provvedimenti de potestate e perpetuatio iurisdictionis

Cass. Civ., Sez. I, Sent., 24 novembre 2023, n. 32678; Pres. Genovese, Rel. Cons. Iofrida
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Svolgimento del processo
Il Tribunale per i minorenni di Venezia, con ordinanza del 12/6/2023, ha sollevato d’ufficio
regolamento di competenza, in procedimento promosso, da A.A. e B.B., in qualità di nonni materni
del minore D.D., nei confronti del padre del minore, C.C., al fine di sentirlo dichiarare decaduto, ai
sensi dell’art. 330 c.c., dalla responsabilità genitoriale (essendo stata la madre già dichiarata decaduta)
e disporre in loro favore l’affidamento del nipote, giudizio riassunto dinanzi al giudice veneziano, ex
art. 50 c.p.c., a seguito di declaratoria, con provvedimento del marzo 2023, di incompetenza
territoriale del Tribunale per i minorenni di Roma, avuto riguardo al fatto che il minore, con ordinanza
del 19/9/22 dello stesso ufficio giudiziario, era stato affidato al padre e collocato presso la casa paterna
in provincia di (Omissis), ove quindi era stata fissata la residenza del minore.
Il Tribunale di Venezia, dichiarandosi a sua volta incompetente, ha rilevato che lo spostamento di
residenza anagrafica del minore, collocato presso il padre, era stato comunque successivo alla
presentazione del ricorso (avvenuta il 19/9/2022, data nella quale era stato disposto dal Tribunale
l’affidamento e il collocamento del minore presso la casa paterna), essendo invece, all’epoca, il minore
residente in Roma, ove era inserito anche scolasticamente e aveva relazioni stabili ed una rete
familiare con operatività del principio della c.d. perpetuatio jurisdictionis.
Il P.G. ha depositato memoria scritta, chiedendo affermarsi che la competenza è del Tribunale per i
minorenni di Roma, poichè al momento della proposizione della domanda, in data 19/9/1992, il
minore era ancora collocato presso la sua dimora abituale, in (Omissis), e quindi territorialmente
competente a conoscere del procedimento era il Tribunale di Roma.
I sig.ri A.A. e B.B. hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Deve essere affermata la competenza del Tribunale per i minorenni di Roma.
2. Invero, anche se, nello stesso giorno in cui è stato proposto dai nonni materni del minore il ricorso
per i provvedimenti di cui all’art. 330 c.p.c., fosse stato disposto, nell’ambito di altro procedimento
promosso dal PM, il trasferimento del minore presso l’abitazione del padre nel Comune di (Omissis),
ciò non consentiva di affermare che, in quella data, la dimora abituale del minore non fosse più quella
di (Omissis), in quanto, all’epoca di deposito del ricorso, l’unico indirizzo noto del D.D. era quello (di
(Omissis)), non essendo ancora nota la nuova ubicazione ed essendo stato il trasferimento del minore
concretamente eseguito solo nel corso del procedimento, allorché il minore ha cominciato ad abitare
presso il padre, ove è stata trasferita anche la residenza anagrafica.
Orbene, nei procedimenti finalizzati all’adozione dei provvedimenti incidenti sulla responsabilità
genitoriale e sulle modalità del suo esercizio, il tribunale per i minorenni (avuto riguardo alla
disciplina dell’art. 38 disp. att. c.c. vigente ratione temporis) è territorialmente competente sulla base
della residenza di fatto del minore, e quindi del luogo di abituale dimora dello stesso, da determinarsi
in riferimento alla data di proposizione della domanda o, in caso di procedimento iniziato d’ufficio,
alla data d’inizio del procedimento stesso, senza che possano assumere alcun rilievo gli eventuali
trasferimenti aventi carattere contingente e transitorio (cfr. Cass., Sez. 6, 19 luglio 2013, n. 17746;
Cass., Sez. 1, 31 gennaio 2006, n. 2171; 7 luglio 2001, n. 9266).
In quanto prevista a tutela d’interessi aventi rilevanza pubblicistica, tale competenza ha carattere
inderogabile.
Deve essere infatti data continuità all’orientamento già affermato da questa Corte, secondo cui, “nei
procedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.c., il principio della “perpetuatio iurisdictionis”, in forza del
quale la competenza territoriale del giudice adito rimane ferma, nonostante lo spostamento in corso
di causa della residenza anagrafica o del domicilio del minore, a seguito del trasferimento del genitore
con cui egli convive, prevale, per esigenze di certezza e di garanzia di effettività della tutela
giurisdizionale, su quello di “prossimità”, ove il provvedimento in relazione al quale deve individuarsi
il giudice competente sia quello stesso richiesto con l’istanza introduttiva o con altra che si inserisca
incidentalmente nella medesima procedura” (Cass. 3587/2003; Cass. 7161/2016).
Nè si può condividere la tesi del Tribunale per i minorenni di Roma, – secondo cui, data la natura dei
procedimenti de postestate, nell’ambito del quale le vicende non si esauriscono in un solo momento,
ma attengono a situazioni sostanziali che si modificano e si protraggono nel tempo, con l’esigenza di
tutelare nel modo più effettivo possibile l’interesse del minore anche in deroga del principio della
perpetuatio competentiae, in ragione del trasferimento del minore in un altro territorio e della
conseguente necessità che il procedimento si svolga dinanzi agli uffici giudiziari del luogo dove egli
vive legittimamente -, in quanto tale osservazione trova giustificazione in relazione alla disciplina
dettata dalla L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 4, (come sostituito dalla L. 28 marzo 2001, n. 149, art. 4),
che, analogamente a quanto previsto dall’art. 8 per la dichiarazione di adottabilità, assegna
espressamente il procedimento relativo all’affidamento alla competenza territoriale del tribunale per
i minorenni del distretto nel quale si trova il minore.
Questa Corte (Cass. 15 marzo 1996, n. 2184) ha da tempo affermato che “per l’individuazione del
giudice competente per territorio a dichiarare la decadenza dalla potestà parentale deve farsi
riferimento al luogo di abituale dimora del minore nel momento della presentazione della relativa
domanda, senza che assumano alcun rilievo nè l’eventuale, diversa residenza anagrafica del minore,
nè la circostanza del formale affidamento del minore stesso ad uno dei genitori” (nella specie, il
minore, anagraficamente residente in Catania, dimorava con la madre in Palermo al momento della
proposizione del ricorso per la decadenza della potestà parentale del padre, benchè già alcuni giorni
prima della domanda fosse stato affidato a quest’ultimo e questa Corte, in applicazione dell’enunciato
principio, ha dichiarato la competenza del tribunale per i minori di Palermo a conoscere della
domanda in oggetto).
A tale principio va data piena continuità, anche in questa sede, perchè, in tema di provvedimenti de
potestate, occorre avere riguardo, in ordine al criterio della residenza abituale del minore, al momento
della domanda, non rilevando una sua successiva variazione.
3. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarata la competenza del Tribunale per i minorenni di Roma,
dinanzi al quale vanno rimesse le parti, anche per la regolazione delle spese della presente fase, con
termine di legge per la riassunzione del giudizio.
P.Q.M.
La Corte dichiara la competenza del Tribunale per i minorenni di Roma, dinanzi al quale rimette le
parti, anche per la regolazione delle spese della presente fase, con termine di legge per la riassunzione
del giudizio.
Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 siano omessi le generalità e gli altri dati
identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.

Procedimenti di tutela dell’incapace: come si individua la competenza?

Cass. Civ., Sez. I, Ord., 28 novembre 2023, n. 33031; Pres. Valitutti, Rel. Cons. Iofrida
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Svolgimento del processo
Il giudice tutelare presso il Tribunale di Reggio Calabria, con ordinanza del 20/4/23, in relazione alla
procedura di interdizione n. (Omissis) instaurata nell’interesse di B.B., nata ad (Omissis), dinanzi al
Tribunale di Locri, dichiaratosi, con decreto del 14/12/22 incompetente per territorio, in forza dell’art.
343 c.c., comma 2, che consente il trasferimento della tutela “se il tutore è domiciliato o trasferisce il
domicilio in altro circondario”, ha sollevato regolamento di competenza d’ufficio, ritenendo essere
competente il Tribunale di Locri.
In particolare, il giudice tutelare del Tribunale reggino ha rilevato che: a) dall’apertura della tutela nel
(Omissis) sino al (Omissis), data di approvazione del rendiconto del tutore, nè quest’ultimo nè
l’interdetto avevano mutato il proprio domicilio o il proprio centro di interessi; b) la competenza, ai
sensi dell’art. 5 c.p.c. vigente al momento della proposizione della domanda di interdizione, stabilisce
che la competenza si determina in relazione allo stato di fatto esistente al momento della proposizione
della domanda; c) l’art. 343 c.p.c., comma 2 consente solo in via eccezionale di derogare al declinato
principio di perpetuatio iurisdictionis solo per giustificate esigenze riguardanti il collegamento tra il
tutore e l’ufficio giudiziario cui è demandato il controllo delle sue attività e, nella specie, la peculiare
conformazione del circondario di Reggio Calabria e l’esigenza di garantire all’interdetto la maggiore
prossimità possibile al proprio giudice tutelare imponevano di mantenere la tutela nel luogo in cui
essa era stata originariamente radicata (senza alcuna eccezione o rilievo di incompetenza sino al
dicembre 2022).
Il PG ha chiesto affermarsi la competenza del Tribunale di Locri, in considerazione sia della tardività
dell’eccezione al di fuori delle previsioni di cui all’art. 38 c.p.c. sia dell’assenza di circostanze tali da
giustificare, ai sensi dell’art. 343 c.c. lo spostamento della competenza, anche a garanzia
dell’interdetto..
Motivi della decisione
1.Il regolamento di competenza d’ufficio va accolto.
Ai sensi dell’art. 343 c.c., la tutela si apre presso il tribunale del circondario dove è la “sede principale
degli affari e interessi” del soggetto tutelato – e cioè nel circondario in cui è compreso il suo domicilio
(art. 43 c.c.) – fermo restando che, se il tutore è domiciliato o se trasferisce il domicilio in altro
circondario, la tutela può essere ivi trasferita, con decreto del tribunale.
Questa Corte (Cass. 18272/2016) ha chiarito che “La competenza per territorio in ordine alla
procedura di tutela dell’incapace di cui all’art. 343 c.c. si radica nel luogo in cui si trova la sede
principale degli affari e degli interessi dell’interdetto alla data della sua apertura, restando irrilevanti
gli eventuali successivi spostamenti di dimora in ragione dell’applicazione del principio generale della
“perpetuatio iurisdictionis”, eccezionalmente derogabile, ai sensi dell’art. 343 c.c., comma 2, solo per
giustificate esigenze riguardanti il collegamento tra il tutore e l’ufficio giudiziario cui è demandato il
controllo sulla sua attività”.
In sostanza, trattandosi di questione afferente il procedimento civile, trova applicazione l’art. 5 c.p.c.,
secondo il quale il momento determinante della competenza ha riguardo alla legge vigente e allo stato
di fatto esistente al momento della proposizione della domanda – e, dunque, dell’apertura della tutela
– restando irrilevanti i successivi mutamenti. In tal modo, la competenza viene individuata in modo
sicuro e non soggetto a modifiche, neppure in presenza di successivi provvedimenti organizzativi
delle modalità di espiazione della pena detentiva da parte del reo (così Cass., n. 18272/2016; conf.
Cass., n. 18943/2020; cfr. da ultimo Cass. 24415/2023: ” In tema di interdizione legale, la competenza
del tribunale destinato ad aprire la tutela nei confronti del condannato si determina sulla base
dell’ultima residenza anagrafica anteriore all’instaurazione dello stato detentivo, salvo che risulti
provato, in contrario alla presunzione di coincidenza con detta residenza, un diverso domicilio, quale
centro degli affari ed interessi, non identificabile però, in sè, nel luogo in cui è eseguita la pena
detentiva, non trattandosi di un luogo volontariamente scelto dal soggetto “).
Nella specie, non si evincono circostanze tali da giustificare lo spostamento della tutela dal luogo in
cui essa si era originariamente radicata (Tribunale di Locri), considerato che il provvedimento di
remissione al Tribunale di Reggio Calabria, emesso dal Tribunale di Locri, non fa riferimento alcuno
a giustificate esigenze riguardanti il collegamento tra il tutore e l’ufficio giudiziario cui è demandato
il controllo sulla sua attività.
Il mantenimento della situazione originaria si giustifica anche al fine di garantire all’interdetto
(residente in (Omissis)) la maggiore prossimità con il giudice tutelare, in considerazione della
peculiare ed ampia conformazione del circondario del Tribunale di Reggio Calabria, ben distante dal
Comune di (Omissis) e di consentire la prosecuzione della procedura incardinata, dal (Omissis),
dinanzi al Tribunale di Locri.
3. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarata la competenza del Tribunale di Locri dinanzi al quale
vanno rimesse le parti, anche per le spese della presente fase, con termine di legge per la riassunzione
del giudizio.
P.Q.M.
La Corte dichiara la competenza del Tribunale di Locri, dinanzi al quale rimette le parti, anche per le
spese della presente fase, con termine di legge per la riassunzione del giudizio.

L’affidamento del minore ai servizi sociali deve essere preceduto dalla nomina del curatore speciale

Cass. Civ., Sez. I, Ord., 29 novembre 2023, n. 33185; Pres. Genovese, Rel. Cons. Caiazzo
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Svolgimento del processo
CHE:
Con decreto provvisorio del (Omissis) il Tribunale per i minorenni di Milano disponeva l’affidamento
della minore B.B., di (Omissis), ai Servizi sociali di (Omissis), limitando la responsabilità genitoriale
di entrambi i genitori e disponendo un’indagine psico-socio-familiare estesa alla rete familiare
allargata.
Il decreto era emesso su ricorso del Pubblico Ministero in ragione di un ricovero in ospedale della
minore a seguito di un tentativo di suicidio per ingestione incongrua di farmaci, durante il quale sulla
base di colloqui con la stessa minore era emersa una situazione familiare gravemente pregiudizievole
per quest’ultima, in quanto vittima di continui maltrattamenti fisici e verbali da parte della madre e
della zia. Al riguardo, la minore aveva espresso la volontà di essere allontanata dalla madre, anche
per timore delle possibili reazioni della donna alle sue dichiarazioni.
Con decreto definitivo dell’8.4.22, il Tribunale ha disposto: la limitazione della responsabilità di
entrambi i genitori della minore, confermando l’affido della ragazza al Comune di (Omissis) ed
incaricando i Servizi sociali di un’indagine relativa al più idoneo collocamento per la minore, alla
creazione di nuove premesse per migliorare il legame tra madre e figlia, e ad avviare la madre ad un
percorso di consolidamento delle proprie competenze genitoriali. In particolare, il Tribunale
osservava che: dalle relazioni dei Servizi sociali del (Omissis) era emerso che la minore era portatrice
di disagio, ma che esso non appariva imputabile alla madre, trattandosi di bambina molto lucida,
sebbene emotivamente non congrua, che non evidenziava comunque segni di maltrattamenti (tanto
che il procedimento penale nei confronti della madre era stato archiviato per mancanza di prove dei
maltrattamenti), ma si mostrava contrariata verso la madre la quale era, peraltro, soggetto invalido
perchè cieca.
La Corte d’appello ha rigettato il reclamo della madre, A.A., osservando che: dalla relazione dei
Servizi sociali del (Omissis) si evinceva, sebbene non avessero trovato riscontro i maltrattamenti
lamentati, che la minore in casa con la madre si trovava in una situazione di non ascolto; la madre
parlava della figlia come di una persona immaginaria non corrispondente ai bisogni e alle richieste
della ragazza, trattandosi dunque di una relazione disfunzionale che era sintomo, di per sè, di un
maltrattamento psicologico della minore; dalla relazione della comunità in cui era collocata la minore
si desumeva altresì l’importanza di proseguire gli incontri tra madre e figlia con le modalità attuali;
nel contempo, gli operatori ritenevano necessario proseguire gli interventi programmati a tutela della
ragazza, coadiuvando la madre ipovedente nell’acquisizione delle competenze genitoriali necessarie
per relazionarsi in maniera positiva e funzionale con la figlia.
A.A. ricorre in cassazione avverso il decreto della Corte d’appello affidato ad unico motivo. Non si
sono costituite le parti intimate.
Motivi della decisione
CHE:
L’unico motivo denunzia violazione degli art. 337 ter c.c., comma 1, art. 8 CEDU, L. n. 184 del 1983,
artt. 1, 4, comma 3, per aver la Corte d’appello confermato il provvedimento che disponeva l’affido
della minore a una comunità, senza tener conto del carattere di extrema ratio della misura, pur dopo
l’accertamento dell’insussistenza dei maltrattamenti alla minore, e recependo acriticamente le
relazioni dei Servizi sociali acquisite.
Preliminarmente, va richiamato quanto affermato da questa Corte con la recentissima ordinanza n.
32290/2023 (pronunciata all’esito della adunanza camerale del 15 novembre 2023) in ordine alle
diverse ipotesi che possono rientrare sotto la comune “voce” dell’affidamento del minore ai Servizi
sociali, che il giudice, in corso di causa o a conclusione della stessa, può disporre nell’ambito dei
provvedimenti tipici e atipici a tutela del minore.
Nell’ordinanza suddetta, si è rilevato che, qualora i genitori si rivelino in tutto o in parte inadeguati,
gli interventi in favore del minore possono essere distinti in due gruppi: a) interventi di sostegno e
supporto alla famiglia, ampliativi di quelle che sono le risorse destinate al benessere del minore, in
quanto il giudice “affianca ai genitori un soggetto terzo, con la finalità di supportarli ed assisterli nello
svolgimento dei loro compiti (sia pure nel rispetto del diritto di autodeterminazione, sul punto v. Cass.
n. 17903 del 22/06/2023), nonchè con la finalità di supportare ed assistere il minore, e per esercitare
una funzione di vigilanza”, ipotesi nella quale “nulla viene tolto a quell’insieme di poteri e doveri che
costituiscono la responsabilità genitoriale, e si procede per accrescimento o addizione delle risorse
dirette ad assicurare il best interest of the child”; b) interventi in tutto o in parte ablativi, allorchè,
rilevata l’incapacità totale o parziale del genitore ad assolvere i suoi compiti, si dichiara la decadenza
dalla responsabilità genitoriale o le si impongono limiti e, in quest’ultimo caso, alla sfera delle
funzioni genitoriali (poteri e doveri) vengono sottratte alcune competenze e il compito di esercitare
le funzioni tolte ai genitori (e le correlate responsabilità) viene demandato a terzi, procedendosi quindi
per sottrazione e non per addizione.
Qualora sia disposto l’affidamento del minore ai Servizi sociali, occorre pertanto distinguere, anche
nel regime previgente alla entrata in vigore della L. n. 184 del 1983, art. 5-bis “l’affidamento con
compiti di vigilanza, supporto ed assistenza senza limitazione di responsabilità genitoriale (c.d.
mandato di vigilanza e di supporto), dall’affidamento conseguente ad un provvedimento limitativo
della responsabilità genitoriale”, in quanto: a) “nel primo caso, si tratta del conferimento da parte del
giudice di un mandato con la individuazione di compiti specifici per assicurare la menzionata
funzione di supporto ed assistenza ai genitori ed ai figli e per vigliare sulla corretta attuazione
dell’interesse del minore”, tipologia di “affidamento” ai servizi, che “è più corretto definire mandato
di vigilanza e supporto, non incidendo per sottrazione sulla responsabilità genitoriale”, nè essendo
richiesta, nella fase processuale che precede la sua adozione, la nomina di un curatore speciale, salvo
che il giudice non ravvisi comunque, in concreto, un conflitto di interessi, e non essendo escluso che
i Servizi possano attuare anche altri interventi di sostegno rientranti nei loro compiti istituzionali,
occorrendo tuttavia che “il provvedimento del giudice sia sufficientemente dettagliato sui compiti
demandati – con esclusione di poteri decisori – e che siano definiti i tempi della loro attuazione, che
devono essere il più rapidi possibili”; b) nel secondo caso, invece, “il provvedimento di affidamento
consegue ad un provvedimento limitativo (anche provvisorio) della responsabilità genitoriale” e
“costituisce una ingerenza nella vita privata e familiare (similmente all’affidamento familiare, sul
punto v. Cass. n. 16569 del 11/06/2021)”, cosicchè “deve essere giustificato dalla necessità di non
potersi provvedere diversamente alla attuazione degli interessi morali e materiali del minore, non
avendo sortito effetto i programmi di supporto e sostegno già svolti in favore della genitorialità”,
presupponendo l’adozione di questo provvedimento “la sua discussione nel contraddittorio, esteso
anche al minore, i cui interessi devono essere imparzialmente rappresentati da un curatore speciale”
e dovendo i contenuti del provvedimento “essere conformati al principio di proporzionalità tra la
misura adottata e l’obiettivo perseguito”, con adeguata vigilanza sull’operato dei Servizi da parte del
giudice e conseguente necessità, anche nel regime previgente alla entrata in vigore della L. n. 184 del
1983, art. 5-bis che “i compiti dei Servizi siano specificamente descritti nel provvedimento, in
relazione a quelli che sono i doveri e i poteri sottratti dall’ambito della responsabilità genitoriale e
distinti dai compiti che sono eventualmente demandati al soggetto collocatario se questi è persona
diversa da i genitori”, oltre che di nomina, nella fase processuale che precede la sua adozione, di un
curatore speciale del minore, i cui compiti vanno pure precisati.
Si è poi evidenziato che “ciò tuttavia non esclude che si possano varare, stante il potere-dovere del
giudice di adottare provvedimenti atipici a tutela del minore, altre misure che, sia pure denominate di
“affidamento ai servizi sociali”, non presuppongono la limitazione della responsabilità genitoriale;
questo genere di provvedimenti tuttavia andrebbero distinti, non solo contenutisticamente ma anche
quanto al nome, dai provvedimenti di affidamento ai servizi fondati su pronunce limitative della
responsabilità genitoriale”, apparendo più corretto “utilizzare il termine affidamento solo quando i
compiti del servizio sociale sono sostitutivi delle attribuzioni genitoriali e non anche integrative o
additive delle stesse potendosi in questo ultimo caso più appropriatamente parlare di mandato di
vigilanza e di supporto”.
Pertanto, tenuto conto dei principi sopra illustrati, nella specie, considerando che il provvedimento di
affidamento del minore ai Servizi sociali presenta carattere limitativo della responsabilità genitoriale,
il giudice avrebbe dovuto procedere alla decisione del conflitto previa nomina del curatore speciale a
tutela minore.
Infatti, in tema di procedimenti per la regolamentazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale,
l’emersione nel giudizio di comportamenti dei genitori pregiudizievoli al figlio, rilevanti ex art. 333
c.c., pone in capo al giudice il dovere di nominare un curatore speciale al minore, in ragione del
sopravvenuto conflitto di interessi con i genitori, la cui inottemperanza determina la nullità del
giudizio di impugnazione e, in sede di legittimità, la cassazione con rinvio alla Corte d’appello,
dovendo escludersi il rinvio al primo giudice, perchè contrario al principio fondamentale della
ragionevole durata del processo (espresso dall’art. 111 Cost., comma 2, e dall’art. 6 CEDU), di
particolare rilievo per i procedimenti riguardanti i minori, e comunque precluso dalla natura tassativa
delle ipotesi di cui agli artt. 353, 354 e 383 c.p.c., comma 3, (CASS Sez. 1 -, Sentenza n. 2829 del
31/01/2023 che, nell’affermare il principio, ha ritenuto la nullità del solo giudizio di reclamo, ove la
gravità delle condotte genitoriali, emerse all’esito di più approfondite indagini peritali, avevano
indotto il giudice ad attribuire ai servizi sociali già nominati la responsabilità esclusiva di tutte le
decisioni riguardanti il figlio e delle modalità di frequentazione con il genitore non convivente, senza
prima procedere alla nomina di un curatore speciale).
Pertanto, decidendo sul ricorso proposto dalla genitrice, in quanto svoltosi senza la nomina del
curatore speciale della minore va dichiarata la nullità dell’intero processo.
La causa va però rinviata al giudice di appello, in ossequio al principio di diritto sopra richiamato e a
cui va data in questa sede ulteriore continuità, in considerazione della ragionevole durata che occorre
assicurare al procedimento (onde – se non altro – impedire che i diritti della minore si estinguano con
il raggiungimento della sua maggiore età) previa acquisizione della nomina del curatore speciale della
stessa. Ne consegue che, in accoglimento del ricorso, va cassato il provvedimento impugnato, con
rinvio della causa alla Corte d’appello di Milano, che si atterrà a quanto prescritto, decidendo della
controversia e regolando anche le spese del grado di legittimità.
P.Q.M.
La Corte decidendo sul ricorso, cassa il provvedimento impugnato, e rinvia la causa alla Corte
d’appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del grado di legittimità.
Dispone che ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in caso di diffusione della presente ordinanza
si omettano le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 26 settembre 2023, e in sede di riconvocazione, il
24 novembre 2023.
Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2023

Quando può essere revocata l’assegnazione della casa familiare?

Cass. Civ., Sez. I, Ord., 20 novembre 2023, n. 32151; Pres. Antonio, Rel. Tricomi
Svolgimento del processo
1.- D.L. ha presentato ricorso per cassazione con un mezzo avverso la sentenza della Corte di appello
di Reggio Calabria pubblicata il 7 settembre 2021 resa in giudizio divorzile che, in parziale riforma
della decisione di primo grado, ha accolto il gravame proposto dall’ex coniuge M.S. e respinto le
originarie domande formulate dalla D. per conseguire l’assegnazione della casa familiare sita in
(omissis) e la contribuzione da parte di M.S. al mantenimento del figlio maggiorenne G.
M. ha replicato con controricorso, seguito da memoria depositata tardivamente.
È stata disposta la trattazione camerale ex art. 380 bis.1. c.p.c.
Motivi della decisione
2.1.- Con l’unico motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 155 e
337 sexies c.c.
La censura concerne la statuizione con cui la Corte di merito, esaminate le condizioni economiche
del figlio maggiorenne e ritenuto il raggiungimento da parte dello stesso dell’autosufficienza
economica, stante il rapporto di lavoro intrattenuto con una società di ristorazione operante all’interno
dei treni ad alta velocità, ha respinto la domande ai assegnazione della casa familiare formulata dalla
madre, ciò nonostante fosse stato rappresentato che l’abitazione in questione era luogo di convivenza
stabile di madre e figlio e ad essa il figlio faceva rientro con frequenza giornaliera dopo il lavoro.
Sostiene la ricorrente che la circostanza che il figlio avesse raggiunto, come incontestato,
l’autosufficienza economica, rilevava solo al fine della revoca dell’assegno di mantenimento, mentre
la revoca dell’assegnazione della casa familiare avrebbe presupposto la prova del venir meno
dell’esigenza abitativa con carattere di stabilità e richiesto la verifica del preminente interesse della
prole, anche nel caso del figlio maggiorenne ed economicamente autosufficiente.
2.2.- Il motivo è infondato e va respinto.
2.3.- Questa Corte ha già affermato che “la casa familiare deve essere assegnata tenendo
prioritariamente conto dell’interesse dei figli minorenni e dei figli maggiorenni non autosufficienti a
permanere nell’ambiente domestico in cui sono cresciuti, per garantire il mantenimento delle loro

consuetudini di vita e delle relazioni sociali che in tale ambiente si sono radicate” (Cass. n.
25604/2018), sul rilievo che la revoca dell’assegnazione della casa familiare è provvedimento che ha
come esclusivo presupposto l’accertamento del venir meno dell’interesse dei figli alla conservazione
dell’habitat domestico in conseguenza del raggiungimento della maggiore età e del conseguimento
dell’autosufficienza economica o della cessazione del rapporto di convivenza con il genitore
assegnatario (Cass. n. 20452/2022), principi dai quali non vi è ragione di discostarsi.
Incontestato, nel caso in esame, il raggiungimento dell’autosufficienza economica da parte del figlio,
la decisione risulta immune da vizi e tale conclusione non è revocata in dubbio dal precedente di
legittimità invocato dalla ricorrente che risulta erroneamente interpretato e, anzi, smentisce l’assunto
giacché il principio affermato, secondo il quale “Sussiste l’ipotesi di convivenza rilevante agli effetti
dell’assegnazione della casa familiare allorché il figlio maggiorenne non autosufficiente torni con
frequenza settimanale presso la casa familiare.” (Cass. n. 23473/2020), concerne, per l’appunto, il
figlio maggiorenne, ma non economicamente autosufficiente.
3.- In conclusione, il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e
dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Raddoppio del contributo unificato, ove dovuto.
P.Q.M.
– Rigetta il ricorso;
– Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese processuali che liquida in Euro 3.000,00=, oltre
Euro 200,00= per esborsi, spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed accessori
di legge;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e
dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52;
– Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti
per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari
a quello relativo al ricorso, se dovuto.