Chi impugna il testamento deve dare la prova circa l’incapacità naturale del testatore mentre chi vuole avvalersene deve provare la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo

Cass. civ. Sez. VI – 2, 19 dicembre 2017, n. 30485
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23146-2016 proposto da:
A.E., domiciliato in ROMA presso la Cancelleria della Corte di Cassazione e rappresentato e difeso dagli avvocati PAOLO CORLETTO e GIOVANNI GALOPPI giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
A.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE CORTINA D’AMPEZZO 269, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO DE SANTIS, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARIO PARIZZI giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
e contro
A.M.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1979/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 19/08/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16/11/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le memorie depositate dalle parti.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
A.E. conveniva in giudizio i germani M. e G. chiedendo l’annullamento per incapacità naturale del testamento olografo redatto dalla madre F.E. in data 17/10/2001 con il quale aveva legato al figlio G. alcuni immobili, chiedendo in via subordinata disporsi la riduzione sia della disposizione contenuta in detto testamento, sia delle disposizioni a favore del figlio M. contenute nei testamenti olografi del (OMISSIS) e del (OMISSIS), in quanto lesive della propria quota di legittima.
Si costituiva il convenuto A.G. che contestava la fondatezza della domanda e chiedeva procedersi allo scioglimento della comunione ereditaria, tenendo conto in particolare delle passività.
Alle difese del convenuto si associava anche l’altro convenuto A.M..
L’attore chiedeva quindi la resa del conto.
Il Tribunale di Treviso con la sentenza n. 1080 del 6 giugno 2013 rigettava l’impugnativa del testamento, dichiarava inammissibili le domande proposte in epoca successiva agli atti introduttivi, ed accoglieva la domanda di riduzione dell’attore, ritenendo sussistere una lesione di Euro 273.490,82. Per l’effetto disponeva lo scioglimento della comunione con assegnazione di distinti lotti ai germani, condannando G. e M. al pagamento della somma equivalente alla quota dei frutti civili prodotti dai beni legati a far data dall’apertura della successione.
A seguito di appello principale di A.G. e di appello incidentale di A.E., la Corte d’Appello di Venezia con la sentenza n. 1979 del 19 agosto 2015 in parziale accoglimento dell’appello principale riduceva l’importo da questi dovuto al fratello E. a titolo di frutti non goduti, limitandoli al solo bene sito nel Comune di Jesolo, rigettando per il resto gli altri motivi dell’appello principale e l’appello incidentale.
Esaminava prioritariamente l’appello incidentale indirizzato al rigetto della domanda di annullamento del testamento, ritenendo corretta la decisione gravata.
A tal fine osservava che in base ai principi generali elaborati dalla giurisprudenza, l’onere della prova circa l’incapacità naturale del testatore incombeva sull’attore, in quanto le condizioni di salute della de cuius in epoca prossima alla redazione del testamento non erano tali da far ritenere sussistente una condizione permanente di incapacità.
Infatti, sebbene la stessa fosse reduce da un ricovero ospedaliero, all’esito del quale era stata dimessa con una diagnosi di demenza senile multinfartuale, tuttavia si trattava di patologia, alla luce anche di quanto emergeva dalle indagini peritali, che non comportava un’incapacità assoluta e permanente, tale da determinare un’inversione dell’onere della prova.
Né le prove orali apparivano univoche in un senso o nell’altro, atteso che mentre alcuni testi avevano fatto riferimento ad una incapacità assoluta, altri avevano invece dichiarato che la testatrice anche dopo il ricovero era lucida e partecipe delle conversazioni che avvenivano alla sua presenza.
In merito al secondo motivo di appello incidentale con il quale l’attore si doleva del fatto che gli fosse stato assegnato all’esito della divisione, ed a tacitazione dei suoi diritti di riserva, la quota di 1/3 di un immobile in (OMISSIS) legato al fratello G., la Corte distrettuale riteneva corretta la soluzione del Tribunale rispondendo alla previsione di cuiall’art. 560 c.c.che consente, ed anzi suggerisce in via preferenziale, di tacitare i diritti del legittim. mediante beni in natura.
Ancora condivideva la valutazione di inammissibilità, in quanto tardiva, della domanda dell’attore di includere nella massa anche gli utili spettanti alla madre della società Eredi A. S.n.c., mancando in ogni caso la prova circa l’effettiva esistenza di tali utili, e rigettava il motivo dell’appello principale volto a contestare il valore attribuito dal CTU alla cava legata al figlio G. con il testamento oggetto di impugnazione.
Infine, accoglieva il motivo dell’appello principale con il quale A.G. lamentava l’eccessiva misura delle somme riconosciute quali frutti in favore della controparte.
In particolare, ancorché tale domanda dell’attore dovesse reputarsi tempestiva, tuttavia i frutti andavano calcolati unicamente sulla quota dell’immobile ubicato nel Comune di (OMISSIS) e che, a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione, era stato assegnato ad E., posto che gli altri beni ricevuti per testamento da G., non erano stati sottoposti a riduzione.
A.E. ha proposto ricorso avverso tale sentenza sulla base di quattro motivi.
A.G. ha resistito con controricorso.
A.M. non ha svolto attività difensiva in questa sede.
Preliminarmente deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per la sua pretesa tardività.
Infatti, in assenza di notificazione della sentenza, alla fattispecie trova applicazione il termine lungo annuale di cuiall’art. 327 c.p.c., e quindi essendo stata la sentenza impugnata pubblicata in data 19/8/2015, tenuto conto del periodo di sospensione feriale pari a trentuno giorni, il termine per la proposizione del ricorso veniva a scadere in data 1 ottobre 2016 (e non il 30 settembre, come invece erroneamente dedotto dal controricorrente, facendo riferimento ad un periodo di sospensione feriale di soli trenta giorni). Poiché il 1 ottobre era un sabato, ne scaturisce il differimento ex lege del termine al primo giorno lavorativo successivo che è appunto il 3 ottobre, allorquando risulta notificato il ricorso.
Con il primo motivo di ricorso si denunzia la nullità della sentenza exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per la violazione delle regole di riparto dell’onere della prova.
Assume il ricorrente che erroneamente i giudici di appello hanno affermato che fosse onere dell’attore dimostrare che la de cuius era assolutamente incapace di intendere e di volere alla data di redazione del testamento, posto che à contrario emergeva in maniera evidente dal complesso delle risultanze istruttorie che la testatrice versava in condizioni di salute tali da renderla permanentemente incapace.
Il secondo motivo denunzia poi la violazione e falsa applicazione degli artt. 428 e 591 c.c. quale conseguenza dell’erronea individuazione della regola di riparto dell’onere della prova.
I due motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono del tutto privi di fondamento.
Ed, invero anche a voler trascurare l’erroneo inquadramento nella previsione di cu iall’art. 360 c.p.c., n. 4 della violazione della regola di giudizio di cu all’art. 2697 c.c., vale ricordare in linea di principio che la violazione di tale norma si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni.
Con specifico riferimento all’azione di annullamento del testamento per incapacità naturale del testatore, la giurisprudenza di questa Corte ha tradizionalmente affermato il principio per cui (cfr. Cass. n. 27351/2014) l’incapacità naturale del testatore postula l’esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del “de cuius”, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi; peraltro, poiché lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l’eccezione, spetta a chi impugni il testamento dimostrare la dedotta incapacità, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene provarne la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo (conf. Cass. n. 9081/2010).
La sentenza impugnata, in ordine all’individuazione del soggetto gravato dell’onere della prova, ha fatto corretta applicazione di tali principi, pervenendo alla conclusione in punto di fatto, e come tale insuscettibile di essere sindacata in questa sede, anche perchè frutto di logica e coerente argomentazione, secondo cui la de cuius, ancorchè affetta da alcune patologie, anche suscettibili di incidere sulle sua capacità psichiche, aveva conservato una capacità di autodeterminarsi, o meglio che non vi era prova che la stessa fosse del tutto priva, ed in maniera permanente, della capacità di intendere e di volere.
Per formulare tale valutazione la sentenza gravata ha preso in esame le risultanze dei referti ospedalieri, ed in particolare di quelli prossimi alla data dell’atto impugnato, avvalendosi ai fini della loro interpretazione anche delle indagini del perito d’ufficio, che del pari aveva concluso per l’impossibilità di poter ricondurre, ed in maniera automatica, alla patologia della demenza senile multinfartuale un grave e repentino decadimento delle funzioni psichiche, tenuto conto anche del fatto che prima della caduta che ne aveva provocato il ricovero nel settembre del 2001, la F. aveva conservato un buon equilibrio psichico.
Al fine di completare la propria indagine, la sentenza impugnata ha anche dato contezza dell’esito della prova testimoniale, sottolineando come il contrasto tra le deposizioni non permetteva di ravvisare quella situazione che avrebbe giustificato l’inversione della regola dell’onere della prova che, appunto, pone a carico di colui che invoca l’invalidità del testamento, la dimostrazione dell’incapacità della de cuius al momento della redazione dell’atto di ultima volontà.
La rapida sintesi delle argomentazioni spese dal giudice di appello permette di affermare che la conclusione raggiunta sia il frutto di una attenta e ponderata valutazione delle risultanze istruttorie, occorrendo a tal fine ricordare che (cfr. Cass. n. 23900/2016) quando un giudizio – come, nella specie, quello sulla capacità di intendere e di volere della persona defunta (al fine di valutarne la capacità di testare) – deve necessariamente risultare dall’esame coordinato di numerosi elementi, l’adeguatezza della motivazione del giudice del merito deve essere vagliata con riferimento all’insieme degli stessi nonchè alle difese delle parti, senza che peraltro, l’eventuale silenzio della motivazione su taluni dei predetti elementi possa essere considerato omesso esame di punti decisivi qualora, nel suo complesso, il giudizio risulti adeguatamente e concretamente giustificato e non si possa affermare che, senza quel silenzio, la decisione avrebbe potuto essere diversa.
Il motivo di ricorso in esame appare invece volto a sollecitare, in maniera peraltro non sempre specifica, facendosi richiamo ad atti ovvero a risultanze probatorie, delle quali non risulta puntualmente riportato il contenuto, esclusivamente una diversa rivalutazione dei fatti di causa, laddove anche la denunziata violazione di legge è solo apparente.
Infatti, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione della fattispecie astratta di una norma di legge e, perciò, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, con la conseguenza che il ricorrente che presenti la doglianza è tenuto a prospettare quale sia stata l’erronea interpretazione della norma in questione da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, a prescindere dalla motivazione posta a fondamento di questa (Cass., Sez. L., sentenza n. 26307 del 15 dicembre 2014, Rv. 633859). Al contrario, se l’erronea ricognizione riguarda la fattispecie concreta, il gravame inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (Cass., Sez. 5, sentenza n. 8315 del 4 aprile 2013, Rv. 626129), ma oggi negli ancor più ristretti limiti della novella del 2012.
Il terzo motivo denunzia l’omessa disamina di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in quanto gli sarebbero stati riconosciuti i frutti solo sulla quota di 1/3 dell’immobile sito in (OMISSIS).
Si deduce che sarebbe stato però omesso il fatto decisivo rappresentato dalla circostanza che tutti i beni assegnati al convenuto G. erano stati oggetto dell’azione di riduzione, ed in particolare anche la cava legata con il testamento del 2001.
La proposizione dell’azione di riduzione, ed il riscontro della sussistenza della lesione ha fatto sì che anche gli altri beni attributi per testamento siano caduti in comunione e che quindi i frutti debbano essere calcolati su tutti i beni de quibus.
Il quarto motivo denunzia la nullità della sentenza per vizio di ultrapetizione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 in quanto, limitando il calcolo dei frutti al solo detto immobile, la Corte di merito ha accolto una domanda che non era mai stata proposta dal convenuto.
Anche gli ultimi due motivi vanno congiuntamente esaminati attesa la loro connessione, rivelandosi del pari privi di fondamento.
Premessa l’erroneità della denuncia della violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione alla limitazione del calcolo dei frutti al solo bene assegnato all’attore a tacitazione dei suoi diritti di legittimario, non potendosi ritenere che tale limitazione costituisca l’accoglimento di una domanda del convenuto, essendosi il giudice limitato unicamente a determinare le modalità attraverso le quali andava accolta la diversa domanda attorea di riconoscimento dei frutti ex art. 561 c.c., ed anche a voler sorvolare circa la corretta sussumibilità del preteso vizio denunziato nella previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la soluzione alla quale è pervenuta la sentenza gravata è immune dalle critiche mosse.
Ed, infatti, all’esito del giudizio, e senza che sul punto sia stata avanzata censura da parte del ricorrente, la Corte di Appello, recependo le indicazioni già date dal Tribunale, pur riscontrando la lesione dei diritti di riserva dell’odierno ricorrente, ha ritenuto però di dover soddisfare tali diritti con l’assegnazione in natura di un solo bene, tra quelli assegnati per testamento al fratello G., e precisamente con la quota di 1/3 di un immobile in (OMISSIS).
Sebbene la domanda di riduzione avesse inteso aggredire tutti i beni dei quali i germani erano a vario titolo beneficiari, emerge chiaramente che la soluzione alla quale si è pervenuti, è stata quella di individuare l’entità della lesione, tenendo conto del valore anche delle attribuzioni mortis causa, ritenendo che tale lesione potesse però essere tacitata con l’assegnazione in natura del solo bene in questione, avendo l’attore ricevuto all’esito della divisione altri beni in natura, non oggetto delle disposizioni testamentarie, con il riconoscimento anche di un conguaglio in denaro a carico del fratello G., al fine di assicurare la perequazione di valore delle quote.
Ebbene, in presenza di una soluzione siffatta, vale richiamare la costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui (cfr. da ultimo Cass. n. 7478/2000) al legittimario cui venga restituito un immobile per reintegrare la quota di legittima spetta, a norma dell’art. 561 cod. civ., anche il diritto ai frutti quali accessori del bene, in relazione al suo mancato godimento, mentre, nell’ipotesi in cui il bene non possa essere restituito e la reintegrazione della quota di riserva avvenga per equivalente monetario, con l’ulteriore riconoscimento degli interessi legali sulla somma a tal fine determinata, nulla è dovuto per i frutti, posto che gli interessi legali attribuiti rispondono alla medesima finalità di risarcire il danno derivante dal mancato godimento del bene (lucro cessante) e pertanto il cumulo tra frutti e interessi comporterebbe la duplicazione del riconoscimento di una medesima voce di danno (conf. Cass. n. 843/1965).
Trattasi peraltro di una coerente applicazione del diverso principio per il quale (cfr. Cass. n. 1079/1970) colui che possiede un bene in virtù di un atto a titolo gratuito o di una disposizione testamentaria, possiede in virtù di un titolo idoneo a trasferire il dominio, il quale è originariamente valido e tale rimane fino a che non sia esercitata l’azione di riduzione, il cui accoglimento ne determina appunto l’inefficacia, con effetto dalla data della domanda giudiziale. La norma dell’art. 561 cod. civ., comma 2 costituisce un’applicazione del suddetto principio e, pertanto, in ogni caso di disposizione testamentaria o di donazioni, soggette a riduzione, i frutti dei beni da restituire sono dovuti al legittimario con decorrenza dalla domanda giudiziale. Se, però, si debba corrispondere una somma di denaro, nei casi previsti dalla legge o pattuiti dalle parti, i frutti non sono dovuti affatto, in quanto l’obbligazione di restituzione dei frutti è consequenziale a quella di restituzione del bene che li produce se il diritto del legittimario si è trasformato in un diritto di credito, viene meno la detta conseguenzialità, mancando la cosa fruttifera.
Pertanto, e tornando al caso in esame, poiché il ricorrente non ha contestato la divisione dei beni operata dal giudice di merito, con la quale è stata assicurata anche la riduzione delle disposizioni lesive, ed atteso che all’esito di tale divisione, dei beni assegnati per testamento ai fratelli, gli è stato restituito il solo bene in (OMISSIS) e pro quota, correttamente i frutti sono stati calcolati esclusivamente in relazione al mancato godimento di tale cespite, non potendosi estendere la pretesa a beni diversi, il cui acquisto iure hereditario non è stato inficiato dall’accoglimento della domanda di riduzione.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Nulla per le spese per l’intimato che non ha svolto attività difensiva.
Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese in favore del controricorrente che liquida in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori come per legge;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012,art.1, comma 17dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, stesso art. 13.

Le attività di ristrutturazione e mantenimento della casa comune non vanno rimborsate se non risulta la loro assoluta necessità per la conservazione del bene.

Cassazione 23 agosto 2017 n. 20283
ORDINANZA
sul ricorso 5782-2014 proposto da:
(OMISSIS) ((OMISSIS)), domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE,rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS);
– intimata –
avverso la sentenza n. 1719/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 03/10/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/06/2017 dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA.
RITENUTO IN FATTO
La Corte d’Appello di Catania, con sentenza 3.10.2013 ha respinto il gravame proposto da (OMISSIS) contro la sentenza 389/2010 del locale Tribunale (sez. dist. Mascalucia) che aveva a sua volta disatteso la domanda da lui proposta nei confronti del coniuge separato (OMISSIS), tendente ad ottenere il pagamento di somme di danaro a titolo di rimborso spese effettuate negli anni 2006-2007-2008 quale amministratore della comunione dei beni anche per il periodo successivo alla separazione.
Per giungere a tale conclusione la Corte territoriale, richiamato il principio della inderogabilita’ delle norme relative alla amministrazione dei beni della comunione tra i coniugi (articolo 210 c.c., comma 3), ha osservato che il (OMISSIS) in costanza di convivenza coniugale aveva esercitato il normale potere di amministrazione disgiunta ex articolo 180 c.c. e che, una volta intervenuto lo scioglimento della comunione col passaggio in giudicato della sentenza di separazione, non poteva compiere atti di amministrazione senza il consenso dell’altro comunista (la (OMISSIS)) titolare, ai sensi dell’articolo 1105 c.c., del pari diritto di concorrere nella amministrazione della cosa comune, consenso nel caso di specie non preventivamente richiesto. Ha quindi osservato che gli unici atti consentiti erano quelli conservativi (in caso di inattivita’ o trascuranza dell’altro compartecipe), mentre per quanto riguarda l’amministrazione e l’esecuzione delle attivita’ gia’ deliberate era ammesso, in caso di dissenso o inerzia della (OMISSIS), il ricorso all’autorita’ giudiziaria ai sensi dell’articolo 1105 c.c., comma 4.
Contro tale decisione il (OMISSIS) ricorre per cassazione sulla base di due motivi, mentre la (OMISSIS) non ha svolto difese in questa sede.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.1 Col primo motivo, sviluppato in una triplice articolazione, il ricorrente denunzia innanzitutto “la violazione e falsa applicazione degli articoli 180 e 182 c.c. nonche’ dell’articolo 1106 c.c. in relazione all’articolo 1708 c.c.. Violazione dell’articolo 360 c.p.c., n. 3”. Dopo aver sottolineato l’erroneo richiamo agli articoli 180 e 182 c.c., trattandosi di domanda di rimborso di somme anticipate dopo lo scioglimento della comunione, il ricorrente richiama il principio della delegabilita’ della amministrazione ad uno o piu’ partecipanti (sancito dall’articolo 1106 c.c.) e invoca le regole sul mandato e sulla liberta’ di forma del suo conferimento. Ritiene pertanto errata la sentenza laddove ha escluso la qualifica di amministratore dei beni in comunione nonostante che le somme richieste negli estratti conto riguardino spese di manutenzione degli immobili, come incontrovertibilmente emerso nel corso del giudizio.
1.2 Denunzia inoltre “violazione e falsa applicazione dell’articolo 324 c.p.c.. Omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio. Violazione e falsa applicazione dell’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5”: richiamando alcuni passaggi di una sentenza di Tribunale emessa in altro giudizio promosso contro di lui dalla (OMISSIS), il ricorrente ritiene che a fronte di una statuizione (non impugnata) sulla sua qualita’ di amministratore, la sentenza di appello non ha correttamente fatto applicazione del giudicato su tale punto formatosi.
1.3 Ancora, il (OMISSIS) deduce “violazione e falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c.; omesso esame di fatti decisivi per il giudizio. Violazione e falsa applicazione dell’articolo 360, n. 3 nonche’ dell’articolo 360 cod. proc. civ., n. 5” osservando che la qualifica di amministratore poteva chiaramente desumersi dalla ciclopica documentazione versata in atti (e richiama a tal fine gli atti processuali che a suo dire, dimostrerebbero l’assunto).
Il motivo e’ infondato sotto tutti i profili in cui si articola.
a) Partendo, per ragioni di priorita’ logica, dalla dedotta violazione del giudicato (rappresentato, a dire del ricorrente, dalla sentenza 3041/2006 emessa all’esito di una domanda di rendiconto avanzata dalla moglie e citata nei motivi di appello), il Collegio rileva l’infondatezza della doglianza perche’, come emerge dallo stesso ricorso a pag. 13, il Tribunale con la sentenza 3041/2006 aveva fatto “riferimento agli anni 1997/2003” cioe’ ai rendiconti di un periodo antecedente al passaggio in giudicato della sentenza di separazione e quindi antecedente allo scioglimento della comunione legale tra i coniugi, ed in tale periodo vigeva la regola dell’amministrazione disgiunta di cui all’articolo 180 c.c..
Il giudicato quindi non e’ invocabile nel caso in esame ove invece si discute di atti compiuti dopo lo scioglimento della comunione, come accertato dalla Corte di merito: quindi, non sussiste ne’ la violazione di legge ne’ l’omesso esame circa un fatto decisivo.
b) Quanto alle altre doglianze, sotto il primo profilo la doglianza e’ infondata, anche se occorre correggere la motivazione ai sensi dell’articolo 384 c.p.c., u.c. essendo il dispositivo conforme a diritto.
Va premesso che la Corte d’Appello ha richiamato le disposizioni degli articoli 180 e 182 c.c. non gia’ per applicarle nel caso concreto ma per ricostruire il meccanismo dell’amministrazione dei beni tra i coniugi sotto il regime della comunione legale; inoltre, correttamente e’ stata esclusa dalla Corte di merito la possibilita’ di una nomina ad amministratore del (OMISSIS) durante la convivenza matrimoniale, stante il principio della amministrazione disgiunta (articolo 180 c.c.) e della inderogabilita’ delle norme sull’amministrazione (articolo 210 c.c., comma 3).
Il richiamo alla forma libera della nomina ad amministratore e alla applicabilita’ delle norme sul mandato investe una questione di diritto implicante accertamenti in fatto ed introdotta solo in questa sede, non risultando ne’ dal ricorso ne’ dalla sentenza impugnata che di essa si sia gia’ discusso nel giudizio di appello: la Corte di Cassazione pertanto non e’ tenuta ad esaminarla.
Va piuttosto osservato che, come precisa lo stesso ricorrente (v. pag. 12), “le somme richieste negli estratti contro riguardano spese sostenute dall’amministratore per la manutenzione degli immobili….”.
Ebbene, secondo la giurisprudenza di questa Corte – a cui oggi va data continuita’ – in tema di spese di conservazione della cosa comune, l’articolo 1110 cod. civ., escludendo ogni rilievo dell’urgenza o meno dei lavori, stabilisce che il partecipante alla comunione, il quale, in caso di trascuranza degli altri compartecipi o dell’amministratore, abbia sostenuto spese necessarie per la conservazione della cosa comune, ha diritto al rimborso, a condizione di aver precedentemente interpellato o, quantomeno, preventivamente avvertito gli altri partecipanti o l’amministratore, sicche’ solo in caso di inattivita’ di questi ultimi egli puo’ procedere agli esborsi e pretenderne il rimborso, pur in mancanza della prestazione del consenso da parte degli interpellati, incombendo comunque su di lui l’onere della prova sia della suddetta inerzia che della necessita’ dei lavori (tra le varie, Sez. 2, Sentenza n. 20652 del 09/09/2013 Rv. 627614; Sez. 2, Sentenza n. 10738 del 03/08/2001 (Rv. 548784).
Nel caso in esame il relativo onere probatorio non risulta assolto e quindi si giustifica il rigetto della domanda di rimborso.
c) Sotto il terzo profilo, premesso che l’unico fatto decisivo era il ruolo del (OMISSIS) (che la Corte ha ben analizzato) e non gia’ le prove addotte a sostegno della tesi dell’attore, va osservato che la critica, sotto lo schermo della dedotta violazione di legge, e’ in realta’ unicamente fattuale e tende ad una alternativa ricostruzione di circostanze per sollecitare una soluzione diversa alla questione relativa al ruolo del (OMISSIS): il giudizio di legittimita’ non consente siffatti accertamenti.
2 Col secondo motivo si denunzia infine violazione e falsa applicazione dell’articolo 244 c.p.c. nonche’ degli articoli 115 e 116 c.p.c., omesso esame di fatti decisivi per il giudizio; omessa ammissione di mezzi istruttori richiesti (prova per testi e consulenza tecnica di ufficio) Violazione dell’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5″: ritiene il ricorrente che la prova per testi sull’invio annuale degli estratti conto e la consulenza contabile sulla regolarita’ degli stessi (domandate con l’atto di appello) avrebbero condotto al buon esito del giudizio.
Anche tale motivo e’ infondato perche’ i mezzi istruttori richiesti (prova per testi sull’invio periodico dei rendiconti al domicilio della (OMISSIS) e consulenza tecnica contabile sui rendiconti) non inciderebbero affatto sulla ratio decidendi della Corte d’Appello, fondata non gia’ sul mancato invio dei rendiconti o sulla erroneita’ degli stessi sotto il profilo contabile, ma sulla inesistenza del diritto al rimborso delle somme anticipate.
In conclusione, il ricorso del (OMISSIS) va respinto, con addebito di ulteriori spese al ricorrente.
Trattandosi di ricorso successivo al 30 gennaio 2013 e deciso sfavorevolmente, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-Legge di stabilita’ 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, il comma 1 quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente grado di giudizio che liquida in complessivi Euro 5.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 – quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis.

Il testamento posteriore invalido non revoca il precedente

Cass. civ. Sez. VI – 2, 16 novembre 2017, n. 27161
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
ORDINANZA
sul ricorso 15526-2016 proposto da:
G.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PACUVIO, 34, presso lo studio dell’avvocato LORENZO ROMANELLI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIUSEPPE MARVULLI in virtù di procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
B.E., domiciliata in ROMA presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato ENRICO DONATI in virtù di procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 54/2016 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 19/01/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/09/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Letta la memoria depositata dalla ricorrente.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
B.E. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Genova G.A., deducendo di essere erede ovvero legataria della defunta zia, M.G., giusta testamenti olografi del 9/3/1990 e del 6/2/1992, chiedendo pertanto accertarsi la comproprietà per la quota del 50% pro capite dell’appartamento appartenente alla defunta sito in (OMISSIS), sul presupposto che la restante quota apparteneva alla convenuta, in quanto figlia e erede legittimaria della testatrice.
La convenuta contestava la fondatezza della domanda chiedendone il rigetto.
Il Tribunale adito con la sentenza n. 3283/2009, non definitivamente pronunziando, annullava il testamento del 6/2/1992 per incapacità naturale della testatrice, ma dichiarava l’attrice erede in forza dei precedenti testamenti del 9/3/1990, riconoscendole la comproprietà dell’immobile per la quota del 50%, rimettendo la causa in istruttoria per lo svolgimento delle operazioni divisionali.
La Corte d’Appello di Genova, con la sentenza n. 54 del 19 gennaio 2016 rigettava il gravame della G., condannando l’appellante al rimborso delle spese del giudizio di secondo grado.
Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso G.A. sulla base di cinque motivi (erroneamente indicati come sette a pag. 9 del ricorso ed in contrasto con quanto emerge dalla stessa formulazione del ricorso e dalla indicazione preliminare di cui alla pag. 2).
B.E. ha resistito con controricorso.
Il primo motivo lamenta la violazione o falsa applicazionedell’art. 2909 c.c..
Si osserva che a fronte della domanda dell’attrice che aveva fatto valere la sua qualità di erede ovvero di legataria, sulla base dei testamenti olografi della de cuius del 6 marzo 1990, avendo la stessa B. riconosciuto che quello successivo del febbraio del 1992 andava annullato in quanto redatto allorché la testatrice era già incapace di intendere e di volere, la ricorrente già nel corso del giudizio di primo grado aveva invocato l’efficacia di giudicato della sentenza con la quale era stato pronunciato l’annullamento del contratto di compravendita dell’ottobre del 1994, con il quale la de cuius aveva alienato alla stessa controricorrente l’immobile oggetto di causa.
Si assume che, poiché quel giudizio si era svolto in epoca successiva all’apertura della successione, la convenuta avrebbe dovuto in quella sede addurre l’esistenza del testamento a suo favore, sicché l’omessa invocazione di tale diversa modalità di acquisto del bene in quel giudizio, non consentiva di poter poi agire per il riconoscimento dell’efficacia del testamento nel presente procedimento.
Il motivo è infondato.
Correttamente la sentenza impugnata ha evidenziato le palesi differenze esistenti tra il giudizio di annullamento della vendita effettuata dalla defunta in favore della attrice, in epoca successiva alla stesura dei testamenti oggetto di causa e quello invece volto a rivendicare i diritti successori, escludendo quindi la possibilità di poter invocare la previsione di cuiall’art. 2909 c.c., in ragione della chiare differenze di petitum e causa petendi tra i due giudizi, che non consente quindi di estendere il giudicato oltre i limiti oggettivi della lite nella quale si è venuto a formare.
Alle condivisibili considerazioni sviluppate dalla Corte distrettuale, deve altresì aggiungersi, e sempre a favore della tesi dell’insussistenza di alcun nesso di pregiudizialità tra le due causa tale da consentire l’estensione degli effetti del giudicato, e soprattutto, come vorrebbe la ricorrente, la preclusione alla successiva proposizione del giudizio in esame, che solo l’esito positivo della domanda di annullamento del contratto di compravendita del bene per cui è causa poteva legittimare la successiva proposizione della domanda di petizione ereditaria e di divisione promossa dalla B., in quanto laddove fosse stata accertata la validità della compravendita, il bene de quo non sarebbe mai caduto in successione, e sarebbe quindi risultato del tutto superfluo pretendere il riconoscimento della sua titolarità sulla base dell’efficacia del negozio mortis causa.
Le evidenti differenze della causa petendi e del petitum (da intendersi non già come accertamento della proprietà del bene, assimilabile quindi all’effetto della rivendica, ma come indiretto recupero del bene al patrimonio della venditrice, in conseguenza dell’accertamento della invalidità dell’atto di alienazione), non consentono quindi di affermare che la successiva devoluzione, sebbene pro quota, dello stesso bene in favore dell’acquirente, fosse circostanza che andava necessariamente dedotta nell’ambito del giudizio di impugnativa negoziale.
In definitiva, poiché la successiva chiamata testamentaria non costituisce un fatto impeditivo, modificativo o estintivo sul piano giuridico rispetto alla diversa domanda di annullamento del contratto di compravendita, deve escludersi che il giudicato formatosi sull’accoglimento di tale ultima domanda, sia incompatibile, e come tale preclusivo, con la successiva attribuzione di una quota del medesimo bene, ma a titolo successorio.
Il secondo motivo denunzia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, e precisamente del carattere ingravescente della patologia psichica della testatrice, che è stato oggetto di discussione tra le parti, con la conseguente violazione anche della regola di riparto dell’onere della prova exart. 2697 c.c..
Si evidenzia che la stessa attrice aveva ammesso che alla data del 6/2/1992, cui risale l’ultima scheda testamentaria, la de cuius era affetta da incapacità di intendere e di volere, e che già in data 19/12/1988 alla defunta era stata diagnosticata una encefalopatia aterosclerotica, per la quale le era stata riconosciuta una invalidità pari al 67%.
Poiché trattasi di una patologia a carattere permanente, necessariamente destinata ad aggravarsi con l’avanzare dell’età dell’ammalata, deve ritenersi che la testatrice fosse già incapace alla data del marzo del 1990, come testimoniato anche dall’episodio dell’acquisto di un gelato di cui ignorava il prezzo attuale, così come riferito dai testi, sicché era specifico onere dell’attrice dimostrare che in realtà il testamento che la beneficiava era stato redatto in un momento di lucido intervallo.
Il motivo, ad onta delle preliminari considerazioni della stessa ricorrente, mira nella sostanza ad ottenere un diverso apprezzamento delle risultanze di fatto, risolvendosi nella proposizione esclusivamente di censure di merito.
A tal fine va evidenziato che a seguito della novella di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ed al fine di chiarire la corretta esegesi della novella, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte che con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, hanno ribadito che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83,art.54conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, ed è solo in tali ristretti limiti che può essere denunziata la violazione di legge, sotto il profilo della violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4.
Nella fattispecie, atteso il tenore della sentenza impugnata, deve escludersi che ricorra un’ipotesi di anomalia motivazionale riconducibile ad una delle fattispecie che, come sopra esposto, in base alla novella consentono alla Corte di sindacare la motivazione, riconoscendo lo stesso ricorrente che la sentenza che recepisca per relationem le conclusioni ed i passi salienti di una relazione di consulenza tecnica d’ufficio di cui dichiari di condividere il merito, non incorre nel vizio di carenza di motivazione (in tal senso si veda Cass. 13845/07; 7392/94; 16368/14; 19475/05). La deduzione circa la mancata disamina delle critiche mosse alla consulenza tecnica si risolve pertanto in una censura sotto il profilo dell’insufficienza argomentativa, occorrendo a tal fine che il ricorrente evidenzi la loro rilevanza ai fini della decisione e l’omesso esame in sede di decisione, ma pur sempre nell’ambito della previsione di cuiall’art. 360 c.p.c., n. 5.
Le suesposte argomentazioni, escludono che quindi le censure nella loro concreta formulazione possano essere esaminate dalla Corte, atteso che tramite le medesime si mira surrettiziamente a veicolare sotto il vizio della violazione di legge quella che è in realtà una denunzia di insufficienza motivazionale, non senza doversi altresì evidenziare che la già citata Cass. n. 8054/2014 ha altresì sottolineato che “L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie”, essendo quindi evidente che il motivo, ove anche ritenuta ammissibile la proposizione del ricorso ai sensidell’art. 360 c.p.c., n. 5 non appare idoneo a denunziare l’omesso esame di un fatto decisivo.
Nel caso in esame, la Corte distrettuale ha analiticamente esaminato le varie risultanze istruttorie, a partire dalle perizie mediche, pervenendo al convincimento, non sindacabile in questa sede, per il quale alla data del 1990 le condizioni di salute psichica della defunta non erano tali da determinare la sua totale incapacità di testare.
La decisione ha altresì dato contezza delle ragioni per le quali l’episodio del gelato, del quale nemmeno era certa la collocazione cronologica, potesse deporre in senso contrario, dovendosi escludere che la non perfetta consapevolezza del prezzo di tale genere alimentare potesse denotare la presenza di una patologia invalidante e rilevante ai finidell’art. 591 c.c..Stante quindi l’accertamento dell’inesistenza di una patologia a carattere permanente già alla data cui risalgono le schede invocate dall’ attrice, deve altresì escludersi che sia stata posta in essere un’indebita inversione dell’onere della prova, avendo la Corte di merito compiuto corretta applicazione delle regole di riparto dell’onere, come costantemente applicate dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di incapacità del testatore (cfr. ex multis Cass. n. 27351/2014).
Il terzo motivo denunzia la violazione e falsa applicazionedell’art. 163 c.p.c., n. 3 eart. 164 c.p.c., comma 4, sostenendosi che la citazione introduttiva del giudizio era affetta da nullità, apparendo incerto se la B. intendesse ottenere il riconoscimento dell’intera proprietà del bene ovvero della quota del 50%.
Infatti, sebbene nella parte espositiva dell’atto si indicava che per effetto del testamento del 6/3/1990 alla stessa era stata attribuita una quota del 50% dell’immobile, tuttavia nelle conclusioni si era riservata la possibilità di agire in separato giudizio per ottenere il rimborso del 100 % delle spese anticipate per l’amministrazione straordinaria dell’immobile e per i tributi versati, affermando quindi che la convenuta era proprietaria esclusiva del bene.
Tale motivo che appare sostanzialmente riproduttivo dell’analogo motivo di appello, è del pari infondato.
La sentenza impugnata ha condivisibilmente evidenziato che la stessa B. riconoscendo l’invalidità della scheda testamentaria del 1992, aveva inteso far valere la sola efficacia dei testamenti anteriori nel tempo, evidenziando che, attesa la qualità di legittimaria della G., alla medesima andava in ogni caso riconosciuta una quota del 50% sul bene caduto in successione, sicché tute le domande risultano essere state articolate in coerenza con tale premessa, ivi inclusa la domanda di divisione, sul presupposto della natura comune del bene relitto.
Tale coerenza argomentativa non può ritenersi che sia stata inficiata dal fatto che la stessa attrice avesse formulato la riserva di agire in separata sede per il recupero delle spese integralmente pagate per l’immobile, trattandosi appunto di una richiesta avanzata in via del tutto gradata e condizionata al fatto che nel giudizio promosso fosse stata esclusa, per effetto delle difese della convenuta, la contitolarità dell’immobile, con la conseguenza che le spese medio tempore sostenute, sarebbero risultate del tutto prive di giustificazione e come tali suscettibili di essere ripetute nei confronti della G., quale evidentemente, unica proprietaria del bene.
Trattasi però di una domanda condizionata al non auspicato rigetto della domanda di divisione, e che, proprio in ragione di tale condizionamento, esclude che possa ravvisarsi alcuna confusione o contraddittorietà con la domanda proposta in via principale.
Il quarto motivo denunzia la violazione e falsa applicazionedell’art. 683 c.c..
Si rileva che la scheda testamentaria del 6 febbraio 1992 è stata annullata dai giudici di merito attesa l’incapacità naturale della testatrice.
Tale ultimo testamento, per il suo contenuto incompatibile con quello delle precedenti schede testamentarie, era idoneo a determinare la revoca per incompatibilità dei precedenti testamenti ai sensi della norma richiamata in rubrica.
Si sostiene che tale effetto si produca anche nel caso di specie, e nonostante l’intervenuto annullamento del testamento del 1992, attesa la non tassatività delle ipotesi previste dalla norma de qua, e la possibilità di escludere la sua efficacia nel solo caso di nullità del testamento successivo incompatibile.
Anche tale motivo è infondato.
La previsione normativa ancorché, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non abbia carattere tassativo quanto all’individuazione delle ipotesi di inefficacia (cfr. Cass. S.U. n. 7186/1993), nel prevedere la permanenza dell’effetto di revoca del successivo testamento sebbene inefficace, fa riferimento ad una serie di ipotesi (premorienza del legatario o dell’erede, incapacità ovvero indegnità dell’istituito, ed ancora rinunzia all’eredità ed al legato) che consentono di affermare, come osservato dalla più attenta dottrina, che sia affermato il principio dell’indipendenza della revocazione testamentaria dalla sorte della delazione.
La nozione di inefficacia ivi contemplata, sebbene estesa anche ad ipotesi non previste dalla norma, non può però estendersi alla diversa situazione in cui la perdita di efficacia del testamento sia riconducibile alla patologia della quale risulti affetto lo stesso testamento, come appunto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte per l’ipotesi di nullità dell’atto mortis causa (cfr. Cass. n. 1112/1980, che prevede la salvezza dell’effetto di revoca solo nel caso in cui la nullità del testamento sia dichiarata per vizi di forma e la revoca costituisca un negozio autonomo e distinto rispetto al nuovo testamento).
Nell’ambito delle patologie che escludono la sopravvivenza dell’effetto di revoca scaturente dall’incompatibilità della nuova scheda testamentaria con il contenuto di quelle precedenti, deve farsi rientrare anche l’ipotesi di annullamento per incapacità naturale del testatore.
Ed, infatti, in tal caso, sebbene con una pronuncia di carattere costitutivo, il testamento perde la sua efficacia ex tunc, venendo meno, non già la delazione, ma la stessa vocazione, mancando una valida espressione della volontà testamentaria che possa consentire il riscontro dell’incompatibilità tra vecchie e nuove volontà del de cuius.
A ciò deve poi aggiungersi che la stessa causa che determina l’annullamento del testamento, e rappresentata dalla incapacità di autodeterminarsi del testatore, impedisce che alla volontà invalidamente manifestata, in quanto espressione di un soggetto privo delle piene facoltà psichiche, possa ricondursi l’effetto della revoca, in quanto l’incompatibilità si porrebbe tra disposizioni anteriori validamente espresse e disposizioni successive frutto di un procedimento cognitivo e volitivo inficiato a monte dalla patologia psichica, che esclude che la diversa sorte dei beni sia frutto di un valido intento di revocare quanto in precedenza disposto.
Infine il quinto motivo lamenta la violazione e falsa applicazione degliartt. 475, 476 e 713 c.c., con il conseguente difetto di legittimazione della controricorrente a promuovere il giudizio di divisione ereditaria.
Si evidenzia che per l’acquisto della qualità di erede occorre un atto di accettazione dell’eredità da parte del vocato, accettazione che non può ritenersi compiuto da parte della B., atteso che la stessa, lungi dall’accettare l’eredità della M., si è limitata solo a promuovere il giudizio di divisione per cui è causa.
Il richiamo alla quota del 50%, quale quota della quale è titolare, implica che sia stata posta in essere un’accettazione parziale, e come tale nulla, sicché deve escludersi che la parte sia divenuta erede e che possa quindi promuovere la domanda di scioglimento della comunione.
Anche tale motivo è destituito di fondamento.
La previsione della nullità dell’accettazione parziale, come confermato dalla sua collocazione topografica, è limitata alla sola ipotesi di accettazione espressa, laddove nel caso in esame si verte in materia di accettazione tacita, quale conseguenza della proposizione dell’azione di divisione (in termini Cass. n. 1628/1985), cosicché è la stessa concludenza dell’atto, dalla quale è dato inferire la volontà di acquisto della qualità di erede, ad estendere gli effetti dell’adizione dell’eredità all’intero coacervo ereditario, sebbene l’atto abbia riguardato solo uno o alcuni dei beni ereditari, essendo quindi escluso che possa ritenersi essere di fronte ad un’accettazione parziale, per il solo fatto di instare per la tutela solo di un singolo bene (e ciò anche a prescindere dall’osservazione pur pertinente, di parte resistente, secondo cui, per effetto del testamento, alla B. competevano solo i diritti sull’immobile per il quale era stata promossa la domanda di divisione – cfr. anche pag. 5 della sentenza gravata – di guisa che la domanda aveva interessato tutto quanto era stato dalla medesima acquisito iure hereditario).
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art.1, comma 17, dellalegge 24 dicembre 2012, n. 228(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui alD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,art.13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 6.000,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori come per legge;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, inserito dallaL. n. 228 del 2012,art.1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, stesso art. 13.

Successione ereditaria: differenza tra istituzione di erede e di legatario

Cass. civ. Sez. VI – 2, 16 novembre 2017, n. 27160
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
ORDINANZA
sul ricorso 15067/2016 proposto da:
G.D.B.G., G.D.B.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA AREZZO 38, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO MESSINA, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato TULLIO CASTELLI giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
SOLEDAD SRL UNIPERSONALE, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA, 362, presso lo studio dell’avvocato PASQUALE TRANE, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2931/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 21/12/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/09/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le memorie depositate dalle parti.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Il Tribunale di Verona con la sentenza n. 796/2013 rigettava la domanda proposta dagli odierni ricorrenti exart. 732 c.c., nei confronti della Soledad S.r.l., in relazione all’acquisto effettuato dalla società, dell’eredità del defunto Gu.di.Br.Gu., giusta atto di vendita in data 12/2/2009 intercorso con G.d.B.E., quale venditrice.
Ad avviso del giudice di prime cure la domanda andava disattesa in quanto gli attori non rivestivano la qualità di coeredi, posto che la venditrice era stata nominata dal de cuius quale erede universale, il che precludeva la stessa esistenza di una comunione ereditaria, in relazione alla quale esercitare il diritto di riscatto.
La Corte d’Appello di Venezia con la sentenza n. 2931 del 21/12/2015 ha rigettato il gravame proposto dagli attori, ritenendo che non poteva essere ritenuta inammissibile, in quanto tardiva, la deduzione sollevata dalla convenuta società all’atto della sua costituzione in giudizio, circa la mancata titolarità in capo agli attori della qualità di coeredi, atteso che la contestazione in oggetto costituiva una mera difesa, non sottoposta a preclusioni, essendo appunto onere degli attori fornire la prova di tale qualità, dovendo altresì escludere che le difese sollevate dalla convenuta fossero incompatibili con la contestazione della titolarità del rapporto dedotto in giudizio. Inoltre rilevava che dalla complessiva valutazione delle schede testamentarie del de cuius era confermata la conclusione circa la volontà di istituire quale erede universale la sola figlia E., essendosi fatta menzione delle donazioni effettuate in favore dei figli maschi, al solo fine di giustificare perchè tutto il patrimonio relitto era attribuito, con finalità perequativa appunto delle donazioni effettuate in vita, alla sola dante causa della società convenuta.
Nè poteva indurre a diverse conclusioni il fatto che il testamento avesse disposto che tasse, imposte ed altri oneri, oltre che la pensione mensile in favore di tal C.M.M., dovessero essere ripartiti in pari misura tra i tre figli, atteso che ben possono essere imputate le poste passive a carico dei legatari.
Infine, anche i beni immobili non espressamente menzionati in testamento dovevano reputarsi attribuiti in proprietà esclusiva, ed a titolo di erede, alla figlia E., atteso che nella scheda testamentaria del 16 gennaio, oltre a prevedersi delle attribuzioni mobiliari a favore dei figli maschi, ma da intendersi quali legati, il de cuius ribadiva che tutto il resto del patrimonio doveva andare alla predetta E..
Quanto alla deduzione degli appellanti, per la quale, avendo gli stessi proposto azione di riduzione nei confronti della sorella, andava disposta la sospensione del giudizio exart. 295 c.p.c., in attesa della definizione del giudizio di riduzione, rilevava la Corte distrettuale che l’acquisto della qualità di erede da parte del legittimario pretermesso presuppone l’accoglimento della domanda di riduzione con efficacia di giudicato, sicchè medio tempore le disposizioni lesive continuavano a produrre effetto. Andava poi esclusa l’esistenza di una pregiudizialità tecnica tra i due giudizi, e pertanto, non si poneva il paventato pericolo di contrasto tra giudicati.
Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso G.d.B.A. e G.d.B.G. articolato in tre motivi.
La Soledad S.r.l. ha resistito con controricorso.
Il primo motivo di ricorso con il quale si denunzia la violazione e falsa applicazionedell’art. 167 c.p.c., comma 2,art. 183 c.p.c., comma 6, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che la mancata tempestiva contestazione da parte della convenuta della qualità di coeredi degli attori non comportasse la decadenza dalla relativa eccezione, è privo di fondamento.
Ed, invero, oltre a doversi ribadire che la titolarità della qualità di coeredi costituisce elemento costitutivo della domanda proposta exart. 732 c.c., sicché è onere di parte attrice dimostrarne la sussistenza, la decisione gravata ha comunque fatto corretta applicazione dei principi di recente affermati da questa Corte a Sezioni Unite nella sentenza n. 2951/2016, nella quale si è precisato che la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicchè spetta all’attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto.
Nel caso di specie, deve escludersi la contestazione della qualità di coeredi degli attori costituisca quindi un’eccezione e per di più un’eccezione in senso stretto, sicché ben poteva il giudice anche d’ufficio rilevarne la carenza. Peraltro alcuna rilevanza può essere attribuita alla tardiva costituzione della società convenuta, avendo altresì la Corte veneta chiarito come non fosse possibile ravvisare una difesa da parte della società incompatibile con la contestazione dello status di coeredi in capo agli attori.
Anche il secondo motivo, con il quale si denunzia la violazione e falsa applicazione degliartt. 732, 554, 588, 56 e 457 c.c., è infondato.
Sostengono i ricorrenti che in realtà il testamento conteneva la loro istituzione quali eredi ex certa re, e che in ogni caso, in ordine ai beni non espressamente menzionati dal de cuius (tra cui un immobile in (OMISSIS) e terreni in (OMISSIS)) si era aperta la successione legittima alla quale concorrevano anche i ricorrenti.
Ed, invero, quanto alla violazionedell’art. 588 c.c., occorre ricordare che costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui (cfr. da ultimo Cass. 25 ottobre 2013 n. 24613) in tema di distinzione tra erede e legatario, ai sensidell’art. 588 cod. civ., l’assegnazione di beni determinati configura una successione a titolo universale (“institutio ex re certa”) qualora il testatore abbia inteso chiamare l’istituito nell’universalità dei beni o in una quota del patrimonio relitto, mentre deve interpretarsi come legato se egli abbia voluto attribuire singoli, individuati, beni. In ogni caso l’indagine diretta ad accertare se ricorra l’una o l’altra ipotesi si risolve in un apprezzamento di fatto, riservato ai giudici del merito e, quindi, incensurabile in cassazione, se congruamente motivato (conf. Cass. 13 giugno 2007 n. 13835; Cass. 1 marzo 2002 n. 3016).
In particolare (cfr. Cass. 12 luglio 2001 n. 9467) tale indagine deve essere sia di carattere oggettivo, riferita cioè al contenuto dell’atto sia di carattere soggettivo, riferita all’intenzione del testatore. Ne consegue che soltanto in seguito a tale duplice indagine – che è di competenza del giudice del merito ed i cui risultati non sono censurabili in sede di legittimità se congruamente motivati – può stabilirsi se attraverso l’assegnazione di beni determinati il testatore abbia inteso attribuire una quota del proprio patrimonio unitariamente considerato (sicché la successione in esso è a titolo universale) ovvero abbia inteso escludere l’istituzione nell'”universum ius” (sicché la successione è a titolo di legato).
La sentenza impugnata con adeguata motivazione ha quindi accertato che le disposizioni testamentarie non consentivano di attribuire agli attori la qualità di eredi, emergendo piuttosto la precisa volontà di istituire la sola figlia E. come unica erede, essendosi data giustificazione di tale scelta in ragione delle numerose e cospicue donazioni, anche indirette, effettuate in vita dal de cuius in favore dei figli maschi, liberalità che si intendeva perequare proprio mediante l’assegnazione della qualità di erede unicamente alla dante causa della società convenuta.
La sentenza ha puntualmente chiarito come i vari argomenti spesi dalla difesa degli attori per vedersi riconosciuta la qualità di coeredi non potessero avere seguito (menzione delle donazioni, suddivisione in parti eguali tra i tre figli delle passività ereditarie, qualificazione non come legati delle assegnazioni di beni mobili ben individuati).
Trattasi di valutazioni connotate da logicità e coerenza ed insuscettibili di rivisitazione da parte di questa Corte, sicché la formale denunzia di violazione di legge altro non costituisce che una indebita sollecitazione a procedere ad un non consentito nuovo apprezzamento del fatto.
La sentenza peraltro si è specificamente occupata anche dell’ulteriore questione, pur dedotta in ricorso, relativa alla possibile apertura della successione legittima sui beni immobili dei quali il de cuius non aveva fatto menzione nella scheda testamentaria, avendo condivisibilmente sottolineato come il tenore della scheda testamentaria più risalente (che prevedeva che tutte le unità immobiliari in (OMISSIS) fossero trasferite in piena ed esclusiva proprietà ad E.) sia stato integrato dalla terza scheda testamentaria nella quale si ribadisce la volontà di attribuire alla figlia “quanto della mia proprietà resta a me intestato e che considero la sua parte, rinnovo qui la volontà che tutto quello che è ancora a me intestato divenga proprietà di mia figlia E.”, espressione questa che la sentenza impugnata ha, con adeguata motivazione, ritenuto idonea ad attribuire alla beneficiaria la qualità di erede universale, precludendo quindi l’apertura di una successione legittima, seppure parziale, in favore dei germani.
Infine, il terzo motivo denunzia la violazione e falsa applicazionedell’art. 295 c.p.c., e degliartt. 457 e 554 c.c., art. 3652 c.c., n. 8,artt. 2643 e 2644 c.c., nella parte in cui la Corte di merito ha negato l’esistenza di una pregiudizialità tra la presente causa e quella di riduzione intentata dagli attori nei confronti della sorella, disattendendo la richiesta di disporre la sospensione necessaria del processo.
Il motivo deve essere disatteso sebbene sulla base di una indicazione diversa da quella di cui alla proposta, fondata sulla ravvisata diversità delle parti del giudizio in esame, rispetto a quello avente a detta dei ricorrente carattere pregiudiziale (avendo in tal senso i ricorrenti fatto rilevare nella memoria exart. 378 c.p.c., che anche al giudizio avente ad oggetto l’azione di riduzione ha partecipato la società intimata).
In tal senso va ricordato che la più volte ribadita validità della disposizione testamentaria eventualmente lesiva dei diritti dei legittimari, suscettibile di essere dichiarata solo inefficace in caso di vittorioso esperimento dell’azione di riduzione (cfr. Cass. n. 25834/2008; Cass. n. 27556/2008), tanto da precludere la possibilità di poter richiedere la divisione al legittimario prima dell’accoglimento della sua domanda (cfr. Cass. n. 368/2010), e proprio per l’assenza di una comunione attuale, impedisce altresì di poter ritenere passibile di retratto l’alienazione dei beni ereditari compiuta dal soggetto che allo stato riveste la qualità di unico erede.
Corretto appare il richiamo operato dalla sentenza impugnata ai precedenti di questa Corte che, nel sottolineare l’inefficacia ex nunc degli atti lesivi, a far data dall’accoglimento dell’azione di riduzione, hanno escluso la sussistenza di un nesso di pregiudizialità tecnica tra la causa di riduzione e la diversa controversia avente ad oggetto i beni oggetto delle disposizioni testamentarie (Cass. n. 5323/2002; Cass. n. 9424/2003) avendo affermato principi che appaiono indubbiamente suscettibili di estensione anche al caso di specie.
La trascrizione della domanda di riduzione assicura poi che, laddove la stessa dovesse essere accolta, i legittimari vittoriosi potranno opporre la sentenza a loro favorevole anche alla società acquirente, venendosi in tal caso ad instaurare una comunione tra gli stessi legittimari e la società, senza che questa possa opporre di avere acquistato la piena proprietà dei beni ereditari (peraltro nella fattispecie, trattandosi di una vendita di eredità avvenuta allorquando era stata già proposta l’azione di riduzione, la trascrizione mira ad assicurare la piena esplicazione degli effetti di cuiall’art. 111 c.p.c., nei confronti della società terza acquirente in corso di causa).
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dellaL. 24 dicembre 2012, n. 228,art.1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 quater, del testo unico di cui alD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115- della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 12.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori come per legge;
Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002,art.13, comma 1quater, inserito dallaL. n. 228 del 2012,art.1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13.

Notifica PEC: la Cassazione ritiene valido solo il formato.p7m

Cass. civ. sez. VI – 3, 31 agosto 2017, n. 20672
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso iscritto al n. 16969/2016 R.G. proposto da:
UNICREDIT S.P.A. – C.F. e P.I. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COLA DI RIENZO, 111, presso lo studio dell’avvocato GIULIO GONNELLA, rappresentata e difesa dall’avvocato ALESSANDRO GALLO;
– ricorrente –
contro
Z.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MECENATE 27, presso lo studio dell’avvocato ANDREINA DI TORRICE, rappresentato e difeso dall’avvocato PIETRO BISCONTI;
– controricorrente –
e contro
Z.M., Z.G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DELLE MILIZIE 138, presso lo studio dell’avvocato MARINA MAGGIULLI, rappresentati e difesi dall’avvocato GAETANO NARO;
– controricorrenti –
e contro
CONSORZIO PER L’AREA DI SVILUPPO INDUSTRIALE DELLA PROVINCIA DI PALERMO IN LIQUIDAZIONE;
– intimato –
avverso la sentenza n. 2216/2016 del TRIBUNALE di PALERMO, depositata il 26/04/2016;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del dì 11/05/2017 dal Consigliere Dott. Franco DE STEFANO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
rilevato che:
UniCredit spa ricorre, affidandosi a due motivi, per la cassazione della sentenza (n. 2216 del 26/04/2016) con cui il tribunale di Palermo ha rigettato l’opposizione avverso l’ordinanza del 12/05/2014 del g.e. di quel tribunale, di rigetto dell’opposizione dalla medesima proposta contro il provvedimento di accoglimento della contestazione del credito proposta dai creditori procedenti Z.P., M. e G. nel procedimento di espropriazione presso terzi promosso contro il debitore esecutato Consorzio per l’Area di sviluppo industriale di Palermo in liq.ne;
in particolare, la ricorrente notifica un primo ricorso, in cui il suo difensore dichiara di agire in forza di procura generale alle liti del 29/10/2010, a mezzo p.e.c. in data 27/06/2016, ma pure ulteriore ricorso (ovvero, come specifica nella memoria il medesimo ricorso, ma semplicemente reiterandolo), sempre a mezzo p.e.c., stavolta in data 19/09/2016, nella cui intestazione continua a farsi riferimento univoco alla procura generale del 29/10/2010, ma che reca stavolta acclusa una procura speciale da parte di tale avv. V.F. – quale procuratore speciale e così legale rappresentante di UniCredit – in favore del medesimo difensore che aveva formato il primo ricorso;
degli intimati notificano separati controricorsi contro ciascuno dei due ricorsi sia Z.P. (in data 22/07 e 19/10/2016) sia, con unitario atto, Z.G. e M. (in data 25/07 e 26/10/2016), in particolare eccependo, nei primi controricorsi, l’inammissibilità per carenza di procura speciale e, nei secondi, il vizio derivante dalla reiterazione del ricorso;
non espleta attività difensiva in questa sede il Consorzio;
è formulata proposta di definizione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 1, come modificato dalD.L. 31 agosto 2016, n. 168,art.1 bis, comma 1, lett. e), conv. con modif. dallaL. 25 ottobre 2016, n. 197;
la ricorrente deposita memoria ai sensi del secondo comma, ultima parte, del medesimo art. 380 bis, con la quale, tra l’altro, solleva questione di ritualità della notifica del controricorso di Z.P., siccome avvenuta con allegazione al messaggio di PEC di tre file in formato “.pdf” e non “.p7m” e quindi da ritenersi privi di firma digitale, poi ribadendo pure la ritualità della procura allegata al ricorso notificato per secondo, siccome appunto sottoscritta digitalmente con file con estensione “.p7m”;
considerato che:
ben potrebbe immediatamente provvedersi – con altrettanto immediata individuazione della soccombenza della ricorrente – in conformità alla proposta di inammissibilità, già formulata dal relatore, per entrambi i ricorsi:
– del primo, perché formato da difensore privo di procura speciale, non potendo valere la procura generale rilasciata il 29/10/2010 per impugnare una sentenza del 2016 (e tanto per giurisprudenza a dir poco consolidata; tra le innumerevoli: Cass. 20/11/2009, n. 24548; Cass. 31/05/2005, n. 11583; Cass. 16/05/2003, n. 7710) e neppure valendo (stando alla tesi sviluppata con la memoria) la e-mail della cliente, sul punto informata, tanto integrando una fattispecie singolarmente estranea a quella disegnata per il conferimento di una procura speciale dalle previsioni del codice di procedura civile;
– del secondo, perché proposto – il 19/09/2016 – una volta decorso il termine breve (non soggetto, atteso l’oggetto della controversia, alla sospensione feriale: e cioè scaduto il 60 giorno dal 27/06/2016, venerdì 26/08/2016) dalla prima notificazione, sebbene relativa ad un’impugnazione inammissibile (in tali sensi, da ultimo ed ove riferimenti, Cass. Sez. U. 13/06/2016, n. 12084, già ricordata da Cass. 08/03/2017, n. 5793); né valendo a sanare l’inammissibilità del primo per difetto di valida procura la rinnovazione della sua notifica, una volta scaduti i termini per l’impugnazione;
tuttavia, ad avviso del Collegio, il ricorso non potrebbe essere definito, sia pure anche solo ai fini di regolare le spese nei rapporti tra la ricorrente ed uno solo dei controricorrenti ( Z.P.) senza prendere posizione, anche a seguito della formale eccezione della ricorrente nella memoria depositata in vista dell’adunanza non partecipata e per gli effetti sensibili sul carico delle spese di giudizio che la sua soluzione potrebbe avere (per il valore della controversia e l’entità dell’attività svolta da prendere in considerazione ai fini della liquidazione), su di una problematica che stima il Collegio investire una questione di massima di particolare importanza, sulla quale non risulta essersi ancora consolidato un orientamento della giurisprudenza di legittimità, nonostante investa un punto focale del processo civile telematico e l’applicazione ad esso di fondamentali principi della processualistica;
tale questione ha ad oggetto gli effetti della violazione delle disposizioni tecniche specifiche sulla forma degli “atti del processo in forma di documento informatico” (o, descrittivamente, nativi informatici) da notificare – riferendosi i precedenti di legittimità noti a fattispecie di atti in formato analogico e poi trasformati e notificati in via telematica, ovvero ad altre più articolate, ma non esattamente negli specifici termini di cui appresso – e, in particolare, sull’estensione (che indica o descrive il tipo) dei file in cui essi si articolano, ove siano indispensabili per valutare la loro autenticità: sicché va stabilito se esse prevedano o meno una nullità di forma e, quindi, se questa sia poi da qualificarsi indispensabile ai sensidell’art. 156 c.p.c., comma 2, rendendosi – in caso di risposta affermativa al quesito necessario poi definire l’ambito ed i limiti dell’applicabilità alla fattispecie del principio generale di sanatoria degli atti nulli in caso di raggiungimento dello scopo previstodall’art. 156 c.p.c., comma 3;
ritiene al riguardo il Collegio che la sesta sezione – cioè, la “sezione di cui all’art. 376, comma 1, primo periodo” del codice di procedura civile – ben possa rimettere direttamente la questione alle Sezioni Unite, anziché alla pubblica udienza della sezione ordinaria (ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., u.c., come modificato dalD.L. 31 agosto 2016, n. 168,art.1 bis, comma 1, lett. e), conv. con modif. dallaL. 25 ottobre 2016, n. 197), visto che la problematica della ritualità della notifica di uno o più degli atti di costituzione della parte dinanzi a questa Corte, eseguita con documento nativo informatico a mezzo p.e.c. ma con file – ricorso o controricorso e soprattutto relativa indispensabile procura speciale – con estensione (e quindi forma o struttura informatica) diversa da quella espressamente prescritta, attiene all’ammissibilità o meno dei medesimi e quindi rileva agli effetti dell’applicazionedell’art. 375 c.p.c., n. 1), materia che è riservata appunto di norma proprio alla cognizione della sesta sezione ai sensi dell’art. 376, comma 1, primo periodo, nonchè art. 380 bis c.p.c., come novellato;
ciò premesso ed al riguardo, ad avviso di questo Collegio neppure può trovare diretta ed immediata applicazione il principio generale di sanatoria della nullità, perché l’osservanza delle specifiche tecniche sullo stesso confezionamento dei file informatici nativi dovrebbe poter attenere all’esistenza stessa dell’atto e, quanto alla procura speciale, all’ufficiosa indispensabile verifica dell’instaurazione di un valido e rituale rapporto processuale dinanzi a questa Corte, alla stregua della disciplina ormai applicabile;
pertanto, non dovrebbero poter giovare i precedenti di Cass. Sez. U. 18/04/2016, n. 7665 (siccome riferito ad un documento nativo analogico, notificato in via telematica con estensione “.doc” anziché “.pdf”), né di Cass. ord. 26/01/2016, n. 1403 (relativa ad un atto trasmesso mediante file con estensione “p7m” dedotto come illeggibile ma comunque decifrato o reperito al punto da consentire la piena difesa), ma, a ben guardare, neppure l’altro principio, di eguale portata generale, dell’insussistenza di un diritto all’astratta regolarità del processo (a chiarissime lettere ribadito, in materia, dalla stessa Cass. Sez. U. 7665/16, ovvero, più in generale, dalla più recente ancora Cass. Sez. U. 11141/17), visto che l’intrinseca esistenza dell’atto e della procura attiene ad elementi talmente coessenziali dell’uno e dell’altro ai fini di una valida instaurazione del rapporto processuale dinanzi al giudice di legittimità da suggerirne come indispensabile la verifica ufficiosa (sicché neppure può trovare applicazione il principio elaborato da Cass. 19/12/2016, n. 26102, quanto alla – mera – carenza della firma digitale ad un documento formato ab origine su supporto analogico);
va allora rilevato che il formato dell’atto del processo in forma di documento informatico è regolato, in via di sostanziale delegificazione, dall’art. 12 delProvvedimento 28/12/2015(successivo a numerosi altri analoghi) del Direttore Generale per i sistemi informativi automatizzati (DGSIA) del Ministero della Giustizia in forza dell’art. 11 del decreto del Ministro della giustizia del 21/02/2011, n. 44, recante il “Regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti daldecreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, ai sensi dell’articolo4, commi 1 e 2, deldecreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito nellalegge 22 febbraio 2010 n. 24″ e successive modificazioni”;
ai sensi del capoverso di tale disposizione, per quel che qui può rilevare, è stabilito poi che “La struttura del documento firmato è PAdES-BES (o PAdES Part 3) o CAdES-BES; il certificato di firma è inserito nella busta crittografica;… nel caso del formato CAdES il file generato si presenta con un’unica estensione p7m”, mentre le definizioni degli acronimi PAdES e CAdES si rinvengono alle lett. z) ed y) del precedente art. 2 del detto provvedimento DGSIA: risultando quindi indispensabile l’estensione “p7m”, a garanzia dell’autenticità del file e cioè dell’apposizione della firma digitale al file in cui il documento informatico originale è stato formato, solo per il secondo caso, in cui cioè il documento informatico originale è creato in formato diverso da quello “pdf”;
completano il quadro normativo di riferimento, applicabile ratione temporis alla fattispecie (caratterizzata dalla notifica diretta, da parte del difensore di Z.P., del controricorso al difensore del ricorrente in data 19/10/2016 a mezzo p.e.c.), l’art. 13, lett. a), e art. 19 bis, del già richiamato provvedimento del DGSIA: ai sensi dell’uno, la notifica insieme all’atto del processo in forma di documento informatico di un allegato è consentita se questo è in formato “.pdf” – ai sensi dell’art. 13, lett. a), del richiamato provvedimento DGSIA – ma, se il secondo è firmato digitalmente, dovrebbe quest’ultimo appunto recare l’estensione in virtù del già detto cpv. dell’art. 12 – “p7m”, a garanzia della sua autenticità; ai sensi dell’altro, in caso di notificazioni eseguite in via diretta dall’avvocato, “qualora il documento informatico, di cui ai commi precedenti, sia sottoscritto con firma digitale o firma elettronica qualificata, si applica quanto previsto all’art. 12, comma 2”;
in via descrittiva, invero, parrebbe dirsi che con l’imposizione dell’elaborazione del file in documento informatico con estensione “p7m” il normatore tecnico abbia inteso offrire la massima garanzia possibile, allo stato, di conformità del documento, non creato ab origine in formato informatico ma articolato anche su di una parte o componente istituzionalmente non informatica, quale la procura a firma analogica su supporto tradizionale, al suo originale composito, incorporando appunto i due documenti in modo inscindibile e, per quel che rileva ai fini processuali e soprattutto se non altro con riferimento alla presente fattispecie – della regolare costituzione nel giudizio di legittimità (per la quale è da sempre stata considerata quale presupposto indispensabile la ritualità della procura speciale), con assicurazione di genuinità ed autenticità di entrambi in quanto costituenti un unicum;
diversa – ed in questa sede irrilevante – valenza dovrebbe avere poi il potere di autenticazione riconosciuto in via generale dalla normativa primaria all’avvocato notificante, che dovrebbe riguardare appunto la conformità degli atti già ritualmente formati ai loro rispettivi originali, ma non parrebbe riferito anche all’intrinseca o strutturale regolarità almeno della procura speciale indispensabile per il ricorso o per il controricorso in Cassazione e, verosimilmente, per la firma in calce a questi ultimi due atti in quanto tali: riguardo ai quali le formalità previste dalle norme tecniche specifiche potrebbero porsi come indispensabili presupposti od elementi di esistenza stessa di un atto riferibile a colui che vi figura essere il suo autore;
pertanto, opina il Collegio che la questione di massima di particolare importanza riguarda, nell’ambito di una pure istituzionale discrezionalità in capo alla parte notificante – donde l’onere, per la controparte, di calibrare attentamente ogni eccezione o doglianza di nullità al riguardo – nella scelta tra l’alternativa (PAdES o CAdES) della modalità strutturale dell’atto del processo in forma di documento informatico e firmato da notificare direttamente dall’avvocato, la configurabilità o meno, al riguardo e se non altro quando l’atto da notificare comprende anche la procura speciale indispensabile per la ritualità del ricorso o del controricorso in sede di legittimità, di una prescrizione sulla forma dell’atto indispensabile al raggiungimento dello scopo (art. 156 c.p.c., comma 2) e posta pertanto a pena di nullità, nonché, in caso di risposta affermativa, sull’applicabilità – e relativi presupposti ed eventuali limiti – del principio di sanatoria dell’atto nullo in caso di raggiungimento dello scopo;
ricorrono pertanto, al riguardo e ad avviso del Collegio, le condizioni per rimettere gli atti al Primo Presidente, affinché valuti l’opportunità di assegnare la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374 c.p.c, comma 2, seconda ipotesi, sulle questioni suddette, riassunte al punto 1 delle ragioni della decisione.
P.Q.M.
La Corte rimette gli atti al Primo Presidente, affinchè valuti l’opportunità di assegnare la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite sulla questione di massima di particolare importanza indicata in motivazione.

La morte del coniuge in pendenza di giudizio comporta la cessazione della materia del contendere

Cass. civ. Sez. VI – 1, 8 novembre 2017, n. 26489
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ORDINANZA
sul ricorso 19341/2016 proposto da:
O.S., O.A., O.C., S.M.T., in proprio e nella qualità di eredi del sig. O.A., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA DELLA GIULIANA, 37, presso lo studio dell’avvocato AGNESE DI CAPRIO, rappresentate e difese dall’avvocato ROSA MARRONCELLI;
– ricorrenti –
contro
C.C.G., O.N.A., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato CIRO CENTORE;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 466/2016 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 04/02/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 28/09/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO PIETRO LAMORGESE.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 4 febbraio 2016, ha accolto parzialmente il gravame di C.C.G. avverso la sentenza di primo grado che aveva rigettato le sue domande di attribuzione di un assegno divorzile, nonché di una quota del TFR e del risarcimento dei danni nei confronti dell’ex coniuge O.A., con il quale la C. aveva contratto matrimonio il (OMISSIS), sciolto con sentenza parziale del 3 marzo 2011; la Corte ha quindi attribuito alla C. un assegno divorzile di Euro 1.000,00 ed ha rigettato le altre domande.
L’ O. era deceduto nel corso del giudizio di appello, nel quale, aderendo alle sue difese, si erano costituiti S.M.T., quale coniuge superstite, e i suoi figli ed eredi O.A., O.C. e O.S.; si era costituito anche O.N.A., nato dall’unione della C. con l’ O., aderendo alle domande della C..
S.M.T., O.A., O.C. e O.S. hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi; C.C.G. e O.N.A. hanno resistito con controricorso. Le parti hanno presentato memorie.
Motivi della decisione
I ricorrenti hanno denunciato, con i primi tre motivi, violazione di norme di diritto e vizi motivazionali in ordine all’an e, nei restanti motivi, in ordine al quantum debeatur dell’assegno divorzile.
L’esame dei suddetti motivi è tuttavia precluso dal rilievo pregiudiziale del decesso di O. nel corso del giudizio di appello.
Trova infatti applicazione la condivisibile giurisprudenza secondo la quale la morte di uno dei coniugi, sopravvenuta in pendenza del giudizio di separazione personale o di divorzio, anche nella fase di legittimità, comporta la declaratoria di cessazione della materia del contendere, con riferimento al rapporto di coniugio ed a tutti i profili economici connessi; l’evento della morte ha l’effetto di travolgere ogni pronuncia in precedenza emessa e non ancora passata in giudicato (Cass. n. 18130 del 26 luglio 2013, n. 9689 del 27 aprile 2006; n. 27556 del 20 novembre 2008; cfr. anche Cass. n. 661 del 29 gennaio 1980; n. 1757 del 18 marzo 1982, n. 740 del 3 febbraio 1990, n. 2944 del 4 aprile 1997).
Pertanto, giudicando sul ricorso, la sentenza impugnata è cassata.
Le spese dell’intero giudizio devono essere compensate, in considerazione dell’esito dello stesso.
P.Q.M.
La Corte cassa la sentenza impugnata e compensa le spese dell’intero giudizio.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.

Il mancato pagamento dei compensi esonera l’avvocato dal trascrivere il verbale di separazione

Cass. civ. Sez. III, 15 novembre 2017, n. 26973
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ORDINANZA
sul ricorso 26025-2015 proposto da:
M.G.P., elettivamente domiciliato VIA T. D’AQUINO 83, presso lo studio dell’avvocato TOMMASO LONGO, rappresentato e difeso dall’avvocato GIAN PAOLO MANNO difensore di sè medesimo;
– ricorrente –
contro
C.P.;
– intimata –
Nonché da:
C.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ROMEO ROMEI 27, presso lo studio dell’avvocato BEATRICE AURELI, rappresentata e difesa dall’avvocato LUCA MORELLI giusta procura speciale in calce al controricorso e ricorso incidentale;
– ricorrente incidentale –
contro
M.G.P.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 710/2015 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 27/05/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/10/2017 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI.
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Genova con sentenza 5.11.2012 riconosceva la concorrente responsabilità dell’avv. M.G.P. e della cliente C.P., rispettivamente nella misura del 40% e del 60%, nella produzione del danno patrimoniale da quest’ultima subito per la mancata trascrizione da parte del legale, cui era seguita l’ingiustificata inerzia della C., del verbale omologato in data 13.2.2004 di separazione consensuale dei coniugi – con il quale era stata disposta la cessione a titolo gratuito, a favore della moglie, della quota del 50% della proprietà dell’immobile adibito a casa familiare -, essendo stata iscritta sull’immobile, nel dicembre 2004, ipoteca da parte di GEST LINE per l’importo di Euro 172.767,80 oltre accessori. Il Tribunale condannava pertanto il M. al risarcimento del danno che quantificava, in misura proporzionale alla responsabilità accertata, in Euro 22.211,80 oltre accessori, con riferimento al valore commerciale della quota di proprietà trasferita.
La Corte d’appello di Genova, con sentenza 27.5.2015 n. 710, rigettava l’appello principale del M. e l’appello incidentale della C., rilevando che dalla istruttoria risultava comprovato il conferimento al legale dell’incarico di trascrizione del verbale di separazione (avendo suggerito lo stesso legale di simulare la separazione personale dei coniugi, con vendita della quota proprietaria, onde sottrarre l’immobile all’azione esecutiva dei creditori del marito), la omessa anticipazione da parte della C. delle spese per eseguire la trascrizione e la conoscenza di quest’ultima – avuto riguardo alla lettera trasmessale in data 13.9.2004 – della intenzione manifestata dal legale di non procedere ad ulteriore esecuzione dell’incarico in difetto del saldo dei compensi maturati. Riteneva il Giudice di appello che il legittimo esercizio della eccezione ex art. 1460 c.c. da parte del legale non consentiva comunque a questi di pregiudicare gli interessi dei clienti e che il danno patrimoniale non poteva identificarsi nell’importo del credito ipotecario, dovendo invece essere liquidato tenendo in conto sia il rischio attuale e serio di un’azione revocatoria dell’atto di trasferimento della quota proprietaria – non risultando comprovato il titolo oneroso della cessione -, sia del concorso causale attribuito alla C. che non si era attivata tempestivamente per provvedere autonomamente alla trascrizione del verbale di separazione.
La sentenza di appello, notificata in data 21.7.2015, è stata impugnata con ricorso principale dal M. con cinque motivi, illustrati da memoria.
Resiste la C. con controricorso e ricorso incidentale, affidato a due motivi.
Motivi della decisione
1-p. Esame dei motivi del ricorso principale, proposto dall’avv. M.G.P..
Con il primo ed il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 per avere omesso i Giudici di appello di rilevare: a) che la condizione n. 3 inserita nel ricorso per separazione – nella quale si faceva carico alla C. dell’onere di trascrizione del verbale – doveva ritenersi operante anche se non riportata nel verbale di separazione omologato, né poteva essere ritenuta – come affermato dal primo Giudice – mera clausola di stile, sicché doveva ritenersi comprovato il mancato conferimento al legale anche dell’incarico della trascrizione del verbale di separazione; b) che il difensore non è onerato dal compiere oltre agli atti del mandato difensivo anche ulteriori attività materiali, e nella specie il legale era stato incaricato di assistere i coniugi soltanto ai fini della separazione personale.
Entrambi i motivi sono inammissibili in quanto non rispondono ai requisiti prescritti per la deduzione del vizio di legittimità contemplato dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
La nuova formulazione del testo normativo, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134 (recante “Misure urgenti per la crescita del Paese”), che ha sostituito il n. 5 del comma 1, dell’art. 360 c.p.c. (con riferimento alle impugnazioni proposte avverso le sentenze pubblicate successivamente alla data dell’11 settembre 2012), ha, infatti, limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado, per vizio di motivazione, alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, e dunque l’ammissibilità del motivo risulta condizionata: 1- alla individuazione di un “fatto storico” – ossia un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, ritualmente accertato mediante verifica probatoria – che abbia costituito oggetto di discussione in contraddittorio tra le parti; 2- alla incidenza di tale fatto su uno o più degli elementi costitutivi della fattispecie normativa disciplinatrice del diritto controverso, rivestendo quindi carattere di “decisività” ai fini della decisione di merito; 3- all’omesso esame” di tale fatto da parte del Giudice di merito, inteso come mancata rilevazione ed apprezzamento del dato probatorio tale da tradursi in una carenza argomentativa inficiante la relazione di dipendenza logica tra le premesse in fatto e la soluzione in diritto adottata dal Giudice, che deve essere evidenziata dallo stesso testo motivazionale, rendendo per conseguenza l’argomentazione priva del pur minimo significato giustificativo della decisione e dunque affetta da invalidità (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014; id. Sez. U, Sentenza n. 19881 del 22/09/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016).
Orbene i fatti indicati dal ricorrente altro non sono che quelle stesse prove documentali sulle quali – e non soltanto su esse, essendo state valutate dalla Corte territoriale anche le prove orali – il Giudice di appello ha fondato il proprio convincimento sulla esistenza dell’incarico professionale esteso anche alla trascrizione dell’atto dispositivo della proprietà immobiliare e rispetto alle quali, pertanto, non sussiste evidentemente alcuna omissione da parte del giudicante (del tutto irrilevante è il richiamo, contenuto nel ricorso, al precedente Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 1605 del 03/02/2012, secondo cui “tra gli obblighi di fornire i mezzi per ottenere il risultato voluto dai clienti di un avvocato non rientra come inderogabile quello di depositare materialmente la nota di trascrizione di una domanda giudiziale, specie se, come nel caso in esame, sia lo stesso cliente ad esonerare il professionista dal farlo”, atteso che diversamente dalla fattispecie oggetto del precedente richiamato, nel presente giudizio la Corte territoriale non ha affatto ritenuta “inderogabile” l’attività di trascrizione, ma ha ritenuto invece provato il conferimento di tale specifico incarico da parte dei clienti).
In sostanza il ricorrente viene a richiedere a questa Corte una inammissibile rivalutazione delle risultanze istruttorie, che esula del tutto dai limiti del sindacato di legittimità.
Con il terzo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 1460 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Sostiene il ricorrente la illegittimità della statuizione della Corte territoriale secondo cui il mancato pagamento dell’onorario consentiva la legale di recedere dal mandato ma non anche di arrecare pregiudizio agli interessi del cliente, in quanto ciò avrebbe implicato per il legale l’assunzione dell’ulteriore e gravoso onere, estraneo al contratto d’opera, di anticipare le spese della trascrizione dell’atto dispositivo della proprietà.
Il motivo è fondato.
La Corte territoriale ha ritenuto che il mancato pagamento dei “compensi” non esonerava il legale, che non avesse inteso recedere dall’incarico, ad operarsi affinché il cliente non incorresse in decadenze, preclusioni o altre situazioni pregiudizievoli, configurandosi quindi una responsabilità grave per avere l’avv. M. omesso ingiustificatamente di trascrivere il titolo.
Orbene, se correlata alla eccezione ex art. 1460 c.c. formulata dal M., la statuizione impugnata non distingue se, in presenza della facoltà del professionista di recedere unilateralmente dal rapporto (art. 2237 c.c., comma 2), debba intendersi esclusa la applicabilità del rimedio ex art. 1460 c.c., accordato alla parte non inadempiente, di sospendere la esecuzione della prestazione corrispettiva in difetto dell’adempimento dell’altra parte, ovvero se, invece, detta eccezione possa essere opposta dal professionista, ma nell’osservanza dei limiti indicati.
Osserva il Collegio che l’art. 2237 c.c., commi 2 e 3, disciplina le condizioni e le modalità dell’esercizio del diritto di recesso del prestatore dal contratto d’opera intellettuale, subordinando il legittimo esercizio del diritto ad una “giusta causa” ed imponendo, comunque, al prestatore d’opera di “evitare pregiudizio al cliente”.
La disposizione del terzo comma rinviene la sua “ratio” nel generale obbligo di buona fede, espressione del dovere di solidarietà ex art. 2 Cost., che informa i rapporti tra i contraenti dal momento in cui vengono socialmente in contatto nella fase delle trattative fino alla fase patologica del rapporto, e nel quale trovano fondamento i “doveri di protezione” che accedono alla modalità di attuazione del rapporto, sicché il legittimo esercizio dei diritti che nascono dal contratto o dalle norme integrative del contenuto contrattuale, non esonera la parte dal salvaguardare gli interessi e le utilità dell’altro contraente, nella misura in cui tale l’attività richiesta non si risolva nell’aggravio di un consistente onere o sacrificio (analoga previsione è prevista anche nel rapporto di mandato: art. 1727 c.c., comma 2, in caso di rinunzia del mandatario).
La disposizione non può ritenersi ostativa alla applicazione del rimedio sospensivo di cui all’art. 1460 c.c., che bene può trovare ingresso tutte le volte in cui la esecuzione della prestazione inadempiuta sia ancora possibile ed il professionista non intenda far valere una giusta causa di recesso (la esperibilità nell’ambito del rapporto d’opera intellettuale della “exceptio inadimpleti seu non rite adimpleti contractus”, ha trovato accoglimento nella giurisprudenza di legittimità: Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 3958 del 13/12/1969 – con specifico riferimento al contratto d’opera intellettuale avente ad oggetto l’espletamento di attività giudiziale o stragiudiziale dell’avvocato -; id. Sez. L, Sentenza n. 5775 del 11/06/1999; id. Sez. L, Sentenza n. 14702 del 25/06/2007; id. Sez. 2, Sentenza n. 11304 del 05/07/2012 e Sez. 2 -, Sentenza n. 25894 del 15/12/2016 – che esaminano l’ipotesi della eccezione ex art. 1460 c.c. formulata dal cliente nei confronti del procuratore ad litem -), tanto più considerando che, nel caso di specie, la esecuzione della prestazione “sospesa” avrebbe implicato l’onere per l’avvocato della anticipazione delle spese di trascrizione dell’atto presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari (art. 2760 c.c.) e dunque l’assunzione di un aggravio economico, eccedente il normale sacrificio richiesto ai sensi dell’art. 1375 c.c., peraltro escluso dalla disciplina del tipo legale del contratto d’opera intellettuale. L’art. 2234 c.c. dispone, infatti, che “Il cliente, salva diversa pattuizione, deve anticipare al prestatore d’opera le spese occorrenti al compimento dell’opera e corrispondere, secondo gli usi, gli acconti sul compenso”, e non risulta dagli atti, né emerge dalla sentenza impugnata, che le pareti abbiano disposto alcuna pattuizione in deroga. La norma da ultimo richiamata individua un “obbligo di collaborazione” che grava sul cliente al fine di mettere la controparte in grado di dare inizio all’opera e proseguirla, rispondendo alla finalità di mitigare la regola della post-numerazione, in virtù della quale il diritto al compenso ed al rimborso delle spese matura solo a seguito dell’effettuazione di una prestazione tecnicamente idonea a conseguire il risultato cui è destinata (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 24046 del 10/11/2006).
Orbene se il richiamato principio della buona fede nella esecuzione del contratto non può non riferirsi anche alle modalità di esercizio dei diritti e delle eccezioni di diritto sostanziale che nascono dal contratto, e dunque anche alla eccezione di cui all’art. 1460 c.c., tuttavia il limite nel quale l’eccipiente deve preservare l’utilità della controparte, non può, evidentemente, coincidere salvo i casi che verranno di seguito indicati – con l’obbligo di eseguire la medesima prestazione sospesa, diversamente venendo ad essere annichilito lo stesso rimedio contrattuale previsto dall’art. 1460 c.c.. Analogamente alla modalità di esercizio del recesso, prescritta dall’art. 2237 c.c., comma 3, l’onere di cautela e salvaguardia dell’interesse altrui richiesto a colui che esercita il diritto deve, infatti, individuarsi nel compimento di quelle attività che appaiono idonee a conservare alla controparte la possibilità di conseguire in altro modo la soddisfazione dell’interesse o del risultato perseguito, e che normalmente si risolvono nella tempestiva informativa della volontà di recedere dal rapporto ovvero nella tempestiva contestazione dell’altrui inadempimento e della volontà di avvalersi del rimedio sospensivo (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 22353 del 03/11/2010 secondo cui, ai fini della esclusione della buona fede nella eccezione di inadempimento, assume rilevante importanza la circostanza che la giustificazione del rifiuto sia stata resa nota alla controparte solo in occasione del giudizio e non in occasione dell’attività posta in essere allo scopo di conseguire l’esecuzione spontanea del contratto), così da consentire all’altra parte di adottare le opzioni e le iniziative ritenute più opportune per non pregiudicare il proprio interesse.
Alla stregua di tale principio deve, quindi, essere verificata la statuizione della Corte territoriale secondo cui il professionista “utendo juribus” non può, comunque, agire in pregiudizio della controparte, così da farla incorrere in decadenze o in preclusioni o ancora precludendole il conseguimento del risultato utile, dovendo osservarsi al proposito che tale affermazione, tuttavia, non ha astratta valenza assoluta, nel senso di dover ritenere che, verificatisi gli eventi predetti, sussiste sempre e comunque la violazione del dovere di buona fede, ed il professionista receduto o che ha opposto la eccezione ex art. 1460 c.c. deve intendersi sempre e comunque responsabile delle conseguenze dannose.
Al fine di verificare quale sia il limite posto all’obbligo della buona fede, occorre, invece, rapportare la esigenza di provvedere per evitare il pregiudizio alla controparte, alla situazione concreta determinata dalla condotta delle parti contraenti.
Sarà pertanto contrario a buona fede un comportamento del professionista che, nella imminente scadenza di un termine di decadenza, ometta di compiere l’atto richiesto dall’incarico professionale, allegando il recesso o l’inadempimento della controparte e sospendendo la esecuzione della prestazione, così arrecando un pregiudizio irreparabile al proprio cliente: copiosa la giurisprudenza di legittimità in materia di espletamento del mandato ad litem, che afferma al riguardo come l’art. 85 cod. proc. civ., in guisa diversa dalla disciplina della procura al compimento di atti di diritto sostanziale (che consente a chi ha conferito i poteri di revocarli od a chi li ha ricevuti dismetterli, con efficacia immediata), prevede che, né la revoca né la rinuncia privano – di per sé – il difensore della capacità di compiere o di ricevere atti, occorrendo a tal fine che si aggiunga il fatto della intervenuta sostituzione del legale revocato o dimissionario (Corte cass. sez. 1, sentenza n. 10643 del 29/10/1997), il quale ha il dovere di svolgere con diligenza il mandato professionale sino al momento della sua sostituzione con altro procuratore, con la conseguenza che sue eventuali negligenze o dimenticanze si verificano e consumano nell’ambito del rapporto professionale con il cliente (Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 3326 del 29/05/1982).
Risponderà invece al principio di buone fede l’esercizio dei diritti e dei rimedi contrattuali esperiti dal professionista – al di fuori dei casi in cui sia richiesto il compimento di atti “urgenti” – qualora l’altra parte risulti tempestivamente avvertita dell’esercizio del diritto di recesso o della eccezione “inadimpleti contractus”, e ciò nonostante mantenga una condotta ingiustificatamente inerte (nel caso della eccezione ex art. 1460 c.c.: non offrendo di adempiere la controprestazione, nè assumendo iniziative dirette a contestare il proprio inadempimento ovvero a risolvere il contratto; nel caso di recesso ex art. 2237 c.c., comma 2: omettendo di attivarsi nella ricerca di un nuovo professionista cui affidare la prosecuzione dell’incarico, ovvero, ove possibile, assumendo personalmente la iniziativa del compimento degli ulteriori atti oggetto dell’incarico dismesso dal professionista): in tal caso il pregiudizio eventualmente subito dal cliente non può evidentemente ascriversi a violazione del dovere di buona fede cui è tenuto il prestatore d’opera intellettuale per non aver eseguito la necessaria prestazione contrattuale, in quanto l’insorgere della situazione di “urgenza” è imputabile in via esclusiva alla negligente condotta tenuta dalla controparte, e non vale a ripristinare un obbligo di salvaguardia che deve ritenersi compiutamente assolto dal professionista che ha messo in mora, in tempo utile, il cliente.
Può dunque enunciarsi il seguente principio di diritto:
“in materia di contratto d’opera intellettuale, avente ad oggetto l’assistenza legale nel procedimento di separazione consensuale dei coniugi comprensiva anche della trascrizione nei RR.II. del verbale omologato contenente la disposizione del trasferimento ad uno dei coniugi di una quota proprietaria dell’immobile adibito a casa familiare, è legittimamente esperibile da entrambe le parti il rimedio contrattuale della eccezione ex art. 1460 c.c., ed il professionista può avvalersi della eccezione anche nel caso in cui – non derogando il contratto all’obbligo del cliente di fornire anticipatamente la provvista necessaria alle spese ex art. 2234 c.c. – il cliente non abbia anticipato le spese necessarie ad eseguire la trascrizione, purché la sospensione della prestazione non venga attuata in modo tale da determinare al cliente un pregiudizio irreparabile, essendo comunque tenuto il professionista – in virtù del principio di buona fede – a salvaguardare l’interesse o l’utilità dell’altra parte nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio, dovendo averso riguardo a tal fine anche alla tempestività con la quale il professionista ha contestato l’inadempimento alla controparte, in modo da metterla in grado di assumere le iniziative opportune a risolvere la situazione di stallo in cui versa il rapporto ed a conservare la utilità perseguita con l’attuazione del contratto”.
Tanto premesso, emerge dalla stessa sentenza di appello – e non costituisce fatto contestato – che nei sei mesi trascorsi dalla omologa del verbale di separazione personale, più volte sollecitato dai coniugi a provvedere alla trascrizione del verbale di separazione omologato, l’avv. M. comunicò, con lettera in data 15.9.2004, che non avrebbe svolto alcuna attività suppletiva fino a quando i clienti non avessero saldati gli onorari, “precisando che non intendeva neppure anticipare le spese vive di trascrizione” (sentenza impugnata, in motiv. pag. 11), in tal modo contestando il mancato adempimento delle prestazioni dovute dai clienti – anche con riferimento alla anticipazione delle spese ex art. 2234 c.c. – e manifestando la propria intenzione di sospendere l’ulteriore attività professionale. Risulta ancora che la iscrizione ipotecaria sull’immobile è stata richiesta da GEST LINE il successivo dicembre 2004.
Tali i fatti accertati in giudizio, il Giudice di appello avrebbe dovuto verificare se la “exceptio inadimpleti contractus” fosse stata esercitata legittimamente dall’avvocato, in relazione agli obblighi di salvaguardia che allo stesso incombevano per il dovere di esecuzione del contratto d’opera intellettuale secondo buona fede, risultando pertanto errata in diritto la statuizione impugnata che, da un lato, esclude che il mancato pagamento dell’onorario potesse legittimare l’avvocato a non adempiere alla trascrizione – omettendo peraltro di verificare la compatibilità dell’obbligo di salvaguardia con l’assunzione dell’aggravio economico della anticipazione delle spese di trascrizione, non dovuta dal legale atteso il disposto dell’art. 2234 c.c. -, ritenendo “se mai” consentito soltanto il recesso dall’incarico, non tenendo conto che il rimedio ex art. 1460 c.c. trova applicazione anche nel rapporto d’opera intellettuale; dall’altro omette del tutto la verifica in concreto della legittimità della eccezione ex art. 1460 c.c. opposta dal legale, in relazione alle modalità con le quali tale eccezione risulta esercitata, in relazione alla rappresentazione delle conseguenze della sospensione della ulteriore attività di trascrizione ed alla effettiva possibilità della C. di assumere le iniziative necessarie a provvedere altrimenti alla trascrizione dell’atto dispositivo della proprietà.
La critica mossa dal ricorrente alla sentenza impugnata coglie, pertanto, nel segno censurando la statuizione che perviene alla errata affermazione in diritto secondo cui la eccezione ex art. 1460 c.c. obbligava, comunque, il professionista a dare corso alla trascrizione del verbale di separazione omologato ed a sostenere, anticipandole, le spese necessarie.
La sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio, occorrendo tuttavia egualmente procedere anche all’esame dei motivi quarto e quinto del ricorso principale che investono statuizioni della sentenza di appello “dipendenti” dall’esito del nuovo giudizio che la Corte territoriale, quale giudice del rinvio, è chiamata a compiere in ordine alla eccezione di inadempimento, sicchè per economia processuale è necessario verificare la legittimità delle altre statuizioni impugnate risultando ciò utile nel caso in cui il Giudice del rinvio si risolva ad accertare la illegittimità della condotta del legale.
Con il quarto motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 1227 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Sostiene il ricorrente che la Corte d’appello avrebbe fatto errata applicazione dell’art. 1227 c.c., comma 1 accertando il concorso causale nella produzione del danno da parte della C., mentre avrebbe dovuto escludere del tutto il risarcimento del danno, trovando nella specie applicazione l’art. 1227 c.c., comma 2 in quanto era nella piena disponibilità della C. provvedere alla trascrizione del verbale.
Il motivo è inammissibile ed infondato.
E’ inammissibile, in quanto l’accertamento dei presupposti per l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 1227 c.c., comma 2, – che esclude il risarcimento in relazione ai danni che il creditore (o il danneggiato) avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza – integra indagine di fatto, come tale riservata al giudice di merito e sottratta al sindacato di legittimità, se sorretta da congrua motivazione (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 20283 del 14/10/2004; id. Sez. 2, Sentenza n. 18352 del 13/09/2004; id. Sez. 3, Sentenza n. 15231 del 05/07/2007) e dunque non poteva essere censurata attraverso il vizio di errore nell’attività di giudizio, ma deducendo il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nei limiti consentiti dalla norma riformata.
E’ infondato venendo a confondere i diversi piani del nesso di causalità disciplinati dalla norma. Ed infatti, in tema di risarcimento del danno, l’ipotesi del fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso (art. 1227 c.c., comma 1) va distinta, anche sul piano processuale, da quella (disciplinata dal comma 2, medesimo art.) che prevede il verificarsi del (solo) aggravamento del danno prodotto dal comportamento dello stesso danneggiato che non abbia, peraltro, contribuito in alcun modo alla sua causazione, poichè, nel primo caso, il giudice deve proporsi d’ufficio l’indagine in ordine al concorso di colpa del danneggiato (sempre che risultino prospettati gli elementi di fatto dai quali sia ricavabile la colpa concorrente, sul piano causale, di quegli), mentre la seconda situazione costituisce oggetto di eccezione in senso stretto (in quanto il dedotto comportamento del creditore costituisce un autonomo dovere giuridico, posto a suo carico dalla legge quale espressione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede).
Orbene il “danno” si è determinato a seguito della iscrizione ipotecaria eseguita a favore di GEST LINE, dunque fino a tale momento il pregiudizio era solo potenziale, perdurando – secondo la ricostruzione del Giudice di merito – la condotta omissiva colpevole del professionista, con essa concorrendo la ingiustificata inerzia della C., protrattasi dopo la conoscenza della intenzione del legale di non provvedere alla trascrizione dell’atto, in mancanza di saldo onorari e di provvista delle spese.
Ne segue che in relazione al presupposto di fatto, come accertato dalla Corte d’appello, è corretto l’inquadramento giuridico della condotta della C. nello schema dell’art. 1227 c.c., comma 1 quale fatto causalmente concorrente nella produzione del danno conseguenza.
Con il quinto motivo il ricorrente impugna la sentenza di appello per “omesso esame di fatto decisivo” ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Sostiene il ricorrente che la Corte territoriale non avrebbe considerato che il danno patito dalla C. era da ritenere inesistente in quanto meramente ipotetico e futuro, non avendo la stessa neppure allegato che GEST LINE avesse intrapreso l’azione esecutiva, e neppure che, a causa della ipoteca, non era stata in grado di alienare l’immobile a terzi o ancora che non aveva potuto ottenere credito in conseguenza della prelazione ipotecaria sull’immobile.
La censura, volta – come emerge dalla esposizione del motivo – a criticare la carenza del minimo costituzionale richiesto per la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, deve ritenersi fondata.
Il Giudice di appello ha ritenuto attuale il danno subito dalla C., in quanto nel febbraio 2006 era deceduto il coniuge alienante, ed avendo la C. “rinunciato alla eredità”, la stessa era stata “impossibilitata a recuperare la quota di proprietà del marito” (sentenza appello, pag. 14).
L’argomento svolto della Corte d’appello non appare coerente alla situazione descritta, non essendo dato spiegare come la ipoteca sull’immobile possa incidere causalmente sulla rinuncia della C. alla eredità del coniuge (e quindi all’acquisto della intera proprietà dell’immobile), riconducibile piuttosto alla volontaria scelta della chiamata alla eredità di non subentrare in una esposizione debitoria maggiore – rispetto all’importo del credito ipotecario – in considerazione della generale situazione di insolvenza del marito.
Come afferma la giurisprudenza di questa Corte l’omessa trascrizione dell’atto di acquisto della proprietà incide sulla inopponibilità della anteriorità dell’atto nei confronti dei terzi successivi trascriventi diritti sull’immobili. Tuttavia tale inopponibilità – determinata nella specie nei confronti del creditore ipotecario GEST LINE – è potenzialmente suscettiva di arrecare un pregiudizio che deve essere pur sempre valutato in relazione alla situazione eventualmente più vantaggiosa – in cui si sarebbe trovato il cliente qualora il professionista avesse diligentemente adempiuto la propria prestazione (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 3657 del 14/02/2013; id. Sez. 3, Sentenza n. 18244 del 26/08/2014).
Orbene la motivazione del Giudice di appello non fornisce alcuna indicazione delle ragioni per cui la iscrizione ipotecaria abbia prodotto un danno patrimoniale risarcibile, e dunque la statuizione impugnata deve essere cassata.
2.p. Esame dei motivi del ricorso incidentale proposto da C.P..
Primo motivo: omesso esame fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
La ricorrente sostiene che la Corte d’appello, dopo aver descritto in rassegna i motivi di gravame proposti dalla C. ha poi omesso di pronunciare sul motivo con il quale si deduceva che il danno dovesse quantificarsi in relazione all’importo del credito ipotecario e dunque alla somma necessaria per disporre la cancellazione della ipoteca.
Il motivo se inteso a contestare una nullità processuale per omessa pronuncia su un motivo di gravame, è inammissibile in quanto neppure viene trascritto l’atto di appello con il relativo motivo, e comunque viene indicato un parametro del sindacato di legittimità (inerente l’errore di fatto) estraneo al vizio di attività processuale.
In ogni caso il motivo è inammissibile anche in relazione al vizio denunciato, in quanto difetta del tutto il “fatto storico” la cui considerazione sarebbe stata omessa dal Giudice di appello, tenuto conto che la sentenza impugnata ha esaminato i fatti allegati dalla C., escludendo la rilevanza del pagamento di oltre Euro 100.000,00 allegato dalla C. e che la stessa avrebbe sostenuto per evitare una pregressa azione esecutiva dei creditori del marito, in quanto non sussisteva alcuna prova che la cessione della quota proprietaria dell’immobile operata nel verbale di separazione costituisse una attribuzione a titolo oneroso in quanto compensativa del predetto esborso. Del tutto nuova e priva di riscontro (in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) è poi l’affermazione secondo cui il valore del danno sarebbe stato calcolato non in base ai prezzi correnti di mercato ma sulla scorta di una stima determinata in altra procedura esecutiva.
Secondo motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
La ricorrente incidentale, allegando che la cessione della proprietà immobiliare era da ritenersi a titolo oneroso in quanto compensativa di precedenti esborsi dalla stessa sostenuti a favore del marito, contesta la misura percentuale di riduzione del “quantum” risarcibile determinata dal Giudice di merito in quanto sussisteva una elevata probabilità che l’atto di acquisto della quota di proprietà dell’immobile potesse essere revocato ex art. 2901 c.c. dal creditore ipotecario.
Trattasi di “questio facti” preclusa al sindacato di legittimità surrettiziamente prospettata dalla ricorrente incidentale come “error juris”, peraltro già oggetto di esame nel merito da parte della Corte territoriale che ha escluso la prova documentale del nesso sinallagmatico tra le prestazioni.
Per il resto la censura richiede un riesame di tutte le risultanze probatorie (concernenti il concorso causale nella produzione del danno; la conoscenza del rifiuto opposto dal legale a proseguire l’incarico; la mancanza di prova della somministrazione al legale delle spese di trascrizione) precluso in sede di legittimità.
In conclusione il ricorso principale deve essere accolto, quanto al terzo e quinto motivo, dichiarati inammissibili gli altri; il ricorso incidentale deve essere dichiarato inammissibile; la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Genova, in diversa composizione, che attenendosi al principio di diritto enunciato, procederà a nuovo esame ed a liquidare anche le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il terzo e quinto motivo di ricorso principale, dichiara inammissibili il primo, secondo e quarto motivo di ricorso principale; dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Corte di appello di Genova in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

L’erede non convivente non succede nella posizione contrattuale del conduttore ed in caso di detenzione dell’immobile risponde per occupazione senza titolo e responsabilità extracontrattuale

Cass. civ. Sez. IV – 3, 10 novembre 2017, n. 26670
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
ORDINANZA
sul ricorso 23838/2016 proposto da:
P.D., F.A.G., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA DELLA LIBERTA’ 10, presso lo studio dell’avvocato GIAMPAOLO BALAS, rappresentati e difesi dall’avvocato GAETANO MICHELE MARIA DE BONIS;
– ricorrenti –
contro
CONDOMINIO (OMISSIS), in persona dell’Amministratore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VIRGINIO ORSINI 21, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI DEL RE, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1082/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 15/03/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 04/10/2017 dal Consigliere Dott. MARCO DELL’UTRI.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
rilevato che, con sentenza resa in data 15/3/2016, la Corte d’appello di Roma, tra le restanti statuizioni, ha confermato la decisione con la quale il giudice di primo grado, accertata la cessazione (per decesso del conduttore R.A.) del contratto di locazione relativo a un immobile inserito nell’edificio condominiale di (OMISSIS) intercorso tra il ridetto condominio e R.A., ha accertato l’occupazione senza titolo di tale immobile da parte di F.A.G. e di P.D., condannando questi ultimi al risarcimento del danno in favore del condominio originario attore;
che, a sostegno della decisione assunta, la corte territoriale ha rilevato come il giudice di primo grado avesse correttamente raggiunto la dimostrazione, tanto dell’esistenza del locale di proprietà condominiale oggetto di lite, quanto della relativa concessione in locazione al R. in base ad un accordo contrattuale venuto meno con il decesso di quest’ultimo, con la conseguente correttezza della condanna della F. e del P. al risarcimento dei danni subiti dal condominio per effetto dell’occupazione sine titulo del ridetto immobile dagli stessi acquistato come parte integrante di una più vasta unità immobiliare;
che, avverso la sentenza d’appello, F.A.G. e P.D. propongono ricorso per cassazione sulla base di due motivi d’impugnazione;
che il condominio di (OMISSIS) resiste con controricorso;
che, a seguito della fissazione della camera di consiglio, sulla proposta di definizione del relatore emessa ai sensi dell’art. 380 bis, il condominio di (OMISSIS) ha presentato memoria;
considerato che, con il primo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione degli artt. 115 e 100 c.p.c., (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente omesso di accertare se l’immobile de quo fosse stato inglobato nell’appartamento acquistato dagli odierni ricorrenti (illo tempore di proprietà di R.A.) per volere congiunto del condominio e dello stesso R., con la conseguente mancata verifica dell’effettiva cessazione del contratto di locazione oggetto di lite al momento del decesso del R., ovvero della trasmissione del rapporto locatizio in capo ai relativi eredi;
che, con il medesimo motivo, i ricorrenti si dolgono del mancato rilievo, da parte del giudice d’appello, dell’assoluta estraneità degli odierni ricorrenti al rapporto intercorso tra il condominio e il R., con la conseguente insussistenza di alcuna responsabilità risarcitoria per la ritardata restituzione dell’immobile dagli stessi successivamente acquistato come parte integrante di una più ampia unità immobiliare;
che il motivo è manifestamente infondato;
che, al riguardo, ferma l’inammissibilità della censura in esame nella parte in cui omette di specificare la rilevanza, sul piano dell’argomentazione critica, del mancato accertamento del carattere congiunto della volontà del condominio e del R. ai fini dell’inglobamento dell’immobile concesso in locazione a quello più ampio di proprietà del R., osserva il collegio come la corte territoriale abbia correttamente proceduto all’accertamento, sul piano documentale, tanto dell’esistenza dell’immobile condominiale oggetto di lite, quanto della relativa concessione in godimento in favore del R.;
che, con riguardo all’accertamento della cessazione degli effetti del ridetto contratto di locazione, la corte territoriale, sulla scia di quanto accertato dal primo giudice, risulta aver correttamente fatto applicazione del principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale l’erede non convivente del conduttore di immobile adibito ad abitazione non gli succede nella detenzione qualificata, e poiché il titolo si estingue con la morte del titolare del rapporto (analogamente al caso di morte del titolare dei diritti di usufrutto, uso o abitazione) quegli è un detentore precario della res locata al de cuius, sì che nei suoi confronti sono esperibili le azioni di rilascio per occupazione senza titolo e di responsabilità extracontrattuale (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 6965 del 22/05/2001, Rv. 546880 – 01);
che al riguardo, nessuna prova del ricorso di eventuali presupposti legittimanti la successione di eventuali eredi (o di altri soggetti) nella posizione contrattuale del conduttore (negli specifici casi in cui tale successione è prevista dalla legge) risulta essere stata fornita dagli odierni ricorrenti, in capo ai quali il ridetto onere probatorio necessariamente incombeva;
che, sotto altro profilo, in difetto di alcuna prova in ordine al ricorso di eventuali cause di giustificazione del comportamento dannoso degli odierni ricorrenti, del tutto correttamente la corte territoriale ha ritenuto gli stessi responsabili, sul piano extracontrattuale, per i danni sofferti dal condominio proprietario in ragione dell’occupazione senza titolo della relativa unità immobiliare;
che, con il secondo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione dell’art. 2697 c.c., e art. 434 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale trascurato di rilevare la violazione, da parte del consulente tecnico d’ufficio di primo grado, dei limiti dell’indagine allo stesso rimessa, e per avere quest’ultimo omesso la verificazione dell’avvenuta autorizzazione del R., da parte del condominio, a inglobare l’immobile locato a quello dallo stesso già posseduto, nonché di accertare l’epoca della mancata utilizzazione dell’immobile all’uso condominiale cui precedentemente era adibito;
che il motivo è inammissibile;
che, al riguardo, ferma l’inammissibilità della censura rivolta nei confronti della violazione, da parte del consulente tecnico d’ufficio, dei limiti dell’indagine allo stesso rimessa, laddove la stessa non si risolva in una specifica doglianza rivolta nei confronti della motivazione fatta propria dal giudice (nella parte in cui ha espressamente attestato come l’intera relazione del c.t.u. fosse rimasta entro i limiti dei quesiti originariamente formulati dal primo giudice: cfr. pagg. 4-5 della sentenza impugnata), osserva il collegio come gli odierni ricorrenti abbiano del tutto trascurato di specificare la rilevanza, sul piano dell’argomentazione critica, dell’avvenuta autorizzazione condominiale, in capo al R., ad inglobare l’immobile locato a quello dallo stesso già posseduto, nonché dell’accertamento dell’epoca della mancata utilizzazione dell’immobile all’uso condominiale cui lo stesso era precedentemente adibito;
che, infatti, ciascuna di tali circostanze dedotte dai ricorrenti appare di per sè del tutto irrilevante ai fini dell’accertamento della causa di estinzione del rapporto di locazione e della conseguente insussistenza di alcun titolo a fondamento della successiva occupazione da parte degli odierni ricorrenti;
che, sulla base delle argomentazioni sin qui indicate, rilevata la complessiva infondatezza del ricorso, dev’esserne pronunciato il rigetto, cui segue la condanna dei ricorrenti al rimborso, in favore del condominio controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, secondo la liquidazione di cui al dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al rimborso, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 1.500,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13.

La comunione è esclusa ex art. 179 c.p.c. in presenza di dichiarazione del coniuge non acquirente della natura personale di un immobile acquistato dall’altro coniuge

Cass. civ. Sez. II, 19 ottobre 2017, n. 24719
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ORDINANZA
sul ricorso 13901-2014 proposto da:
P.P.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TUSCOLANA 339, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO GIOVANFORTE, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
A.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OSLAVIA 6, presso lo studio dell’avvocato MASSIMILIANO POLLICE, rappresentata e difesa dall’avvocato CARLO PACELLI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 213/2013 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 17/06/2013.
Svolgimento del processo
che con atto di citazione del 2007 il signor P.P. convenne davanti al tribunale di Terni la moglie, signora A.R., con la quale era incorso un giudizio di separazione personale, per sentir accertare la sua esclusiva proprietà sull’immobile, già destinato a casa coniugale, sito in (OMISSIS);
che a fondamento della propria domanda il P. argomentava che l’immobile, acquistato in costanza di matrimonio, non era caduto in regime di comunione legale perché la moglie era intervenuta nella stipula del contratto dando atto che il medesimo, e le sue pertinenze, costituivano “beni personali del marito, esclusi dalla comunione tra coniugi”;
che il tribunale di Terni rigettava la domanda dell’attore e tale decisione veniva confermata dalla corte d’appello di Perugia, adita dal P., sul rilievo che nell’atto di acquisto mancava l’espressa dichiarazione che gli immobili erano stati acquistati con i mezzi indicati dall’art. 179 c.c., comma 1, lett. f;
che secondo la corte distrettuale la suddetta dichiarazione non poteva ritenersi implicitamente contenuta nella dichiarazione negoziale che i suddetti beni erano esclusi dalla comunione coniugale, perché quest’ultima dichiarazione era del tutto generica, non facendo esplicito riferimento ad alcuna “delle ipotesi di cui alle lettere c), d), ed f) previsto dall’art. 179 c.c., comma 2”;
che, d’altro lato, sempre secondo la corte distrettuale, la mancanza di una dichiarazione avente ad oggetto la ricorrenza della causa di esclusione di cui all’art. 179 c.c., comma 1, lett. f non era superabile con il riconoscimento della personalità dell’acquisto fatto dalla convenuta, giacché tale riconoscimento presupporrebbe “la corretta esclusione dell’acquisto dalla comunione, ciò che nel caso di specie, come si è detto, non c’è stato”;
che avverso la sentenza della corte perugina il sig. P. ha proposto ricorso per cassazione articolato su due motivi;
che con il primo mezzo di gravame, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 5, il ricorrente denuncia il vizio di omesso esame del fatto decisivo, emergente dalle risultanze documentali acquisite agli atti, che l’immobile in questione era stato acquistato per il prezzo di Euro 25.000 solo quattro mesi dopo che il P. aveva venduto un immobile in (OMISSIS), di proprietà sua e dei suoi genitori, per il prezzo di Euro 26.000;
che con il secondo mezzo di gravame, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia la violazione delle regole di interpretazione contrattuale di cui all’art. 1362 c.c. in cui la corte distrettuale sarebbe incorsa, nell’esame dell’atto di acquisto dell’immobile, trascurando l’analisi della volontà negoziale emergente dalla dichiarazione ivi rilasciata dalla signora A..
che la signora A. ha depositato controricorso;
che prima dell’adunanza di camera di consiglio ex art. 180 bis c.p.c., comma 1 del 9.5.17, in cui la causa è stata decisa, non sono state depositate memorie.
Motivi della decisione
che con i due motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente, il ricorrente sostanzialmente censura la sentenza gravata per non aver effettuato alcuna verifica in ordine alla provenienza della provvista con cui era stato pagato il prezzo dell’immobile per cui è causa, in tal modo violando la previsione dell’art. 179 c.p.c. che esclude dalla comunione gli immobili acquistati con il prezzo del trasferimento di beni personali, quando l’esclusione risulti dall’atto di acquisto cui abbia partecipato il coniuge;
che la doglianza va accolta, in quanto la corte territoriale ha omesso di compiere qualsivoglia accertamento sull’allegazione del P. secondo cui l’immobile de quo era stato pagato con denaro proveniente dalla vendita di un bene in proprietà sua personale e dei suoi genitori, laddove – a fronte della dichiarazione rilasciata dalla signora A. nell’atto di acquisto di tale immobile sulla natura personale del medesimo – tale accertamento sarebbe stato necessario, alla luce del principio, reiteratamente affermato da questa Corte (sentt. 22755/09, 19513/12, 23565/16) che, in tema di rapporti patrimoniali tra coniugi in regime di comunione legale, la dichiarazione resa dal coniuge non acquirente in ordine alla natura personale di un immobile acquistato non ha portata dispositiva, ma può rilevare come prova dell’esistenza dei presupposti di fatto a cui la legge collega l’esclusione dalla comunione;
che quindi in definitiva il ricorso va accolto e la sentenza gravata va cassata con rinvio alla corte di merito, che procederà all’accertamento dei presupposti di fatto di cui all’art. 179 c.c., comma 1, lett. f).
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza gravata e rinvia alla corte d’appello di Perugia, in altra composizione, che regolerà anche le spese del giudizio di cassazione.

Il provvedimento di assegnazione della casa non trascritto è opponibile all’acquirente che ha trascritto anteriormente l’acquisto nei limiti del novennio

Cass. civ. Sez. III, 31 ottobre 2017, n. 25835
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ORDINANZA
Sul ricorso 13206/2015 proposto da:
R.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 99, presso lo studio dell’avvocato BERARDINO IACOBUCCI, rappresentata e difesa dagli avvocati PAOLA ANTONIA DONVITO, VITO TOMMASO DONVITO giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
C.E., domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato GAETANO CINGARI giusta procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 50/2015 della CORTE D’APPELLO SEZ.DIST. DI di TARANTO, depositata il 19/03/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/06/2017 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;
Svolgimento del processo
1. R.M. ricorre per cassazione avverso la sentenza n. 50/15 della Corte di Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, che ha respinto il gravame da essa proposto avverso la sentenza n. 1591/12 resa dal Tribunale di Taranto, di rigetto della domanda, avanzata dall’odierna ricorrente, di rilascio dell’appartamento di sua proprietà, sito in (OMISSIS).
2. Riferisce, in particolare, di aver adito il Tribunale tarantino con ricorso ex art. 447 bis c.p.c. del 25 ottobre 2013, al fine di conseguire il rilascio dell’immobile suddetto, acquisito in proprietà in forza di contratto di compravendita concluso, il 27 luglio 2006, con il proprio figlio, D.F.G., bene detenuto in comodato precario per ragioni solidarietà da C.E., coniuge separata del predetto D.F., e del quale essa R. aveva già richiesto – inutilmente – il rilascio in via stragiudiziale, nell’aprile 2011, a normadell’art. 1810 c.c..
Proposta dalla R. azione di rilascio, ai sensi della disposizione appena richiamata (e comunque, in via di subordine, exart. 1809 c.c., per destinare l’immobile a propria abitazione), si radicava il contraddittorio innanzi al primo giudice con la costituzione della C.. In particolare, costei eccepiva – sempre secondo quanto si legge nell’odierno ricorso – che l’immobile “de quo”, già adibito a casa familiare essendo ella coniuge del D.F., “le era stato assegnato dal Tribunale di Taranto nel giugno 2006 in sede di comparizione per la sua separazione giudiziale” (e, dunque, anteriormente alla stipulazione del contratto di compravendita intercorso tra la R. ed il D.F.), “in quanto affidataria della figlia minore”. Su tali basi, pertanto, la C. chiedeva dichiararsi l’inesistenza del contratto di comodato con la R. e in ogni caso, in via di subordine, l’insussistenza dei presupposti exart. 1809 c.c., per il rilascio del bene.
Richiesto dalla R. termine per controdedurre rispetto alle avversarie difese, la stessa – non senza previamente eccepire la decadenza, exart. 416 c.p.c., comma 2, “delle domande riconvenzionali, eccezioni e produzioni proposte dalla C.” – ribadiva la propria domanda di rilascio, chiedendo altresì, “in via subordinata” (per l’ipotesi in cui “l’eccezione di detenzione dell’immobile ex art. 155 quater c.c., formulata dalla controparte” fosse dichiarata “ammissibile ed opponibile” ad essa ricorrente) che il rilascio del bene fosse “disposto per la data del 21 giugno 2015 alla scadenza del novennio dalla prima assegnazione”, avvenuta con provvedimento giudiziale del 21 giugno 2006.
L’adito Tribunale, tuttavia, rigettava ogni domanda attorea, sul presupposto – sempre secondo quanto emerge dalla narrativa del presente ricorso – che la R., in ragione della propria inerzia nel richiedere il rilascio dell’immobile, protrattasi nei cinque anni successivi alla stipulazione del contratto di compravendita, avesse espresso “un consenso negoziale implicito” alla perdurante utilizzazione del bene, e ciò “in sintonia con lo schemadell’art. 1803 c.c.”, permettendo così “alla resistente di continuare ad usare l’immobile senza alcun corrispettivo per i bisogni abitativi suoi e della figlia minorenne sino alla revisione del provvedimento di assegnazione” (e, dunque, per un uso determinato che escludeva la possibilità del rilascio “ad nutum” exart. 1810 c.c.), negando, altresì, che potesse applicarsil’art. 1809 c.c., comma 2, in difetto di prova circa l’urgente ed impreveduto bisogno della R..
3. Avverso la decisione del giudice di prime cure proponeva appello l’odierna ricorrente, sulla base di due motivi.
Si doleva, innanzitutto, del fatto che il giudice di primo grado non avesse neppure esaminato il capo di domanda – proposto in via di eccezione dalla controparte e fatto proprio in via subordinata, rispetto alle proprie originarie domande, da essa R. – di rilascio dell’immobile il 21 giugno 2015, ovvero “alla scadenza del novennio” decorrente dal “provvedimento di assegnazione”, provvedimento peraltro trascritto dalla C. solo in pendenza del giudizio di primo grado, e dunque a distanza di sei anni dalla sua emissione.
In secondo luogo, contestava l’affermazione relativa all’esistenza di un suo “consenso negoziale implicito” all’utilizzazione dell’immobile quale casa familiare della C. e della di lei figlia minore, non solo perchè adottata dal primo giudice “ultra petita”, ma anche perché infondata in diritto.
Il giudice di appello rigettava, tuttavia, il gravame, ritenendo l’inammissibilità del primo motivo (sul rilievo che l’appellante – ed odierna ricorrente – non risultava aver mai formalizzato, nel primo grado di giudizio, “nel rispetto delle norme di rito, richiesta di rilascio dell’appartamento de quo per il giugno 2015”, reputando, pertanto, siffatta richiesta inammissibile ai sensidell’art. 437 c.p.c., in quanto fondata su una nuova “causa petendi”) e l’infondatezza del secondo, osservando che la R. “ebbe espressamente a fondare la domanda di rilascio del bene sull’esistenza di contratto di comodato inter partes”.
4. Avverso la decisione della Corte di Appello la R. propone due motivi di ricorso.
4.1. Il primo – formulato ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – deduce “violazione e falsa applicazionedell’art. 437 c.p.c., e dell’art. 155 quater (nuova formulazione) eart. 1599 c.c., comma 3”.
La ricorrente ribadisce di aver concluso – in primo grado – per il rilascio del bene in via immediata, nonché, subordinatamente, alla data del 21 giugno 2015, e ciò sul presupposto della non opponibilità, oltre il novennio, del provvedimento giudiziale di assegnazione, in difetto di trascrizione dello stesso anteriormente al contratto di compravendita, in forza del quale ella aveva acquisito l’immobile. Contesta, in particolare, l’affermazione della sentenza di appello che ha ritenuto tale domanda subordinata insussistente in primo grado, e dunque nuova in appello, richiamando la R., al riguardo, il “principio di reciprocità e circolarità degli oneri processuali”, e dunque ribadendo di aver aderito – sebbene in via di subordine – alla domanda di rilascio del bene dopo nove anni dal provvedimento di assegnazione giudiziale, proposta (anch’essa in via subordinata) dalla C..
4.2. Il secondo motivo è proposto come violazionedell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), in relazione all’art. 112 del medesimo codice di rito civile.
La ricorrente sostiene che il vizio di ultrapetizione – in cui sarebbe incorso il Tribunale -sarebbe stato perpetuato anche dalla Corte di Appello, nel condividere le valutazioni, già espresse dal giudice di prime cure, circa l’esistenza di un consenso implicito di essa R. all’utilizzazione del bene come casa familiare.
5. Ha resistito con controricorso la C., chiedendo rigettarsi l’avversaria impugnazione in quanto non fondata.
6. Ha presentato memoria la ricorrente, insistendo nelle proprie conclusioni.
Motivi della decisione
7. Il ricorso è fondato, nei limiti di seguito meglio precisati.
7.1. A prescindere, infatti, dalla circostanza se la R. abbia tempestivamente proposto in primo grado anche la domanda di rilascio dell’immobile alla data del 21 giugno 2015 (e ciò sul presupposto della non opponibilità, oltre il novennio, del provvedimento giudiziale di assegnazione trascritto successivamente al contratto di compravendita in forza del quale l’odierna ricorrente acquisì la proprietà del bene), l’affermazione del giudice di appello, che ha ritenuto la questione inammissibile ai sensidell’art. 437 c.p.c., si palesa come giuridicamente erronea.
Una volta, infatti, che il tema dell’efficacia del provvedimento giudiziale di assegnazione dell’immobile risultava introdotto in giudizio dalla C., e fatto proprio dalla R., né il giudice di primo grado, né quello di appello potevano esimersi dal decidere su di esso.
Difatti, è stato affermato, di recente, da questa Corte che la “eccezione di assegnazione giudiziale della casa in sede di separazione coniugale non rientra né tra i casi per i quali la legge prevede espressamente l’onere di eccezione in capo alla parte né tra i casi in cui l’elemento costitutivo dell’eccezione è rappresentato dalla manifestazione di volontà di esercitare un diritto potestativo; l’efficacia impeditiva del diritto dell’attore al rilascio, infatti, deriva direttamente dal provvedimento giudiziale di assegnazione dell’abitazione coniugale e non dalla manifestazione di volontà dell’assegnatario dell’immobile di volersi avvalere degli effetti di tale provvedimento giudiziale”. Si tratta, dunque, di una “eccezione in senso lato”, il cui rilievo “non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati ex actis” (Cass. Sez. 2, sent. 5 agosto 2016, n. 16574, Rv. 640834-01).
7.2. Alla stregua, dunque, di tale principio la Corte di Appello tarantina – risultando, appunto, “ex actis” la circostanza dell’adozione, il 21 giugno 2006, del provvedimento giudiziale di assegnazione dell’immobile quale casa familiare della C. e della di lei figlia minore – avrebbe dovuto certamente esaminare la questione relativa alla necessità, o meno, del rilascio dell’immobile alla data del 21 giugno 2015, traendo, inoltre, le dovute conseguenze dalla constatazione che il provvedimento suddetto risultava trascritto successivamente al titolo di acquisto della R., riconoscendo, così, che l’opponibiltà del primo, all’odierna ricorrente, non poteva protrarsi oltre il novennio, exart. 1599 c.c., comma 3.
Valga, infatti, in proposito, quanto recentissimamente statuito da questa Corte, la quale, in relazione ad una fattispecie speculare alla presente (in cui un coniuge separato – pur vedendo riconosciuto in appello il diritto di abitare, con la figlia minore, la casa coniugale nei limiti del novennio dalla data del provvedimento giudiziale di assegnazione dell’immobile – si doleva dell’avvenuto rigetto, sempre in sede di gravame, della propria domanda principale volta ad ottenere il riconoscimento di tale diritto fino al raggiungimento dell’indipendenza economica della figlia), ha ritenuto che il conflitto con l’acquirente il medesimo bene, che abbia trascritto il suo titolo di acquisto anteriormente alla trascrizione del suddetto provvedimento giudiziale, vada risolto in favore del primo, ma, appunto, solo nei limiti del novennio, secondo il dispostodell’art. 1599 c.c., comma 3, (cfr. Cass. Sez. 6-3, ord. 17 marzo 2017, n. 7007, Rv. 643680-01).
7.3. Ciò premesso, dunque, va accolto il primo motivo di ricorso (con assorbimento del secondo), e disposta la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Lecce, in diversa composizione, per la decisione del merito sulla scorta dei suindicati principi, oltre che per la liquidazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e cassa la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Lecce, in diversa composizione, per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese del presente giudizio.