RICONOSCIMENTO TARDIVO DEL FIGLIO NATO FUORI DAL MATRIMONIO

di Gianfranco Dosi

I. Il problema sociale del riconoscimento tardivo dei figli nati fuori dal matrimonio
II. L’assenso del figlio ultraquattordicenne
III. Il riconoscimento tardivo consensuale
IV. Il procedimento di riconoscimento tardivo in caso di dissenso del primo genitore
a) L’interesse del minore e la valorizzazione del suo punto di vista (i casi di autorizza¬zione e di esclusione dell’autorizzazione al riconoscimento)
b) La procedura rapida in caso di ricorso non seguito da opposizione
c) Il procedimento in seguito all’opposizione della madre e l’audizione del figlio
d) La posizione del minore: è parte o non è parte del procedimento? È obbligatoria la nomina di un curatore speciale?
e) I provvedimenti provvisori e urgenti
f) Il contenuto ampio della sentenza
g) Il cognome
h) Le criticità del procedimento
i) È ammissibile nel procedimento l’eccezione di non veridicità della paternità?
I Il problema sociale del riconoscimento tardivo dei figli nati fuori dal matrimonio
Un volume dell’Istat pubblicato nel 2014 (“Avere figli in Italia negli anni 2000”) ha analizzato le di¬namiche riproduttive delle donne in Italia, sfruttando il potenziale informativo relativo ad indagini su oltre 17.000 madri condotte dall’Istat nel 2002, nel 2005 e nel 2012.
La ricerca informava che nel 2012 a fronte di 534.186 nascite in Italia circa il 2,1% erano nascite avvenute da madre nubili (ragazze madri) di età compresa tra i 14 e i 19 anni. Un fenomeno in crescita nel nostro paese, anche in regioni del nord come la Lombardia, mentre qualche anno fa la percentuale di ragazze madri si concentrava in Campania e in Sicilia. Secondo le statistiche il 68% dei padri lascia il nucleo familiare prima della nascita del figlio, rendendo la situazione economica della giovane mamma più complicata, in quanto, oltre a dover portare avanti la gravidanza, deve cercare un modo per mantenere se stessa e poi il figlio.
È soprattutto questo il contesto generale di riferimento delle problematiche giuridiche del riconoscimento tardivo del figlio nato fuori dal matrimonio. Figli che nascono senza essere riconosciuti dal padre e che molti padri, però, chiedono in seguito, spesso molti anni dopo, di riconoscere.
Si tratta di situazioni in cui una ragazza porta avanti la gravidanza da sola, partorisce e si prende poi cura del figlio da sola, magari anche per molti anni.
In seguito la madre e il figlio potranno sempre chiedere che il tribunale dichiari la paternità.
Spesso, però, avviene che dopo la nascita del figlio sia lo stesso padre a farsi di nuovo vivo inten¬zionato a riconoscere il figlio di cui si era disinteressato.
II L’assenso del figlio ultraquattordicenne
Uno dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico vigente della filiazione è quello secondo cui l’assenso del figlio che abbia compiuto l’età di quattordici anni (e quindi ancora minore o mag¬giorenne) è elemento imprescindibile per l’efficacia del riconoscimento da parte dei genitori.
Il secondo comma dell’art. 250 del codice civile, infatti, prescrive che “Il riconoscimento del figlio che ha compiuto i quattordici anni non produce effetto senza il suo assenso”.

La disposizione è stata così riformulata dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219 di riforma della filia¬zione che ha ridotto da sedici anni a quattordici l’età del figlio oltre la quale il riconoscimento non può produrre effetti senza l’assenso dell’interessato.
Nessuno che abbia compiuto quattordici anni, quindi – minore o maggiorenne che sia – può essere riconosciuto come figlio nato fuori dal matrimonio se non è d’accordo.
III Il riconoscimento tardivo consensuale
Al riconoscimento tardivo che potremmo chiamare consensuale fanno riferimento il terzo e il quar¬to comma dell’art. 250 del codice civile.
Al primo comma l’art. 250 del codice civile prevede che “Il figlio nato fuori del matrimonio può essere riconosciuto, nei modi previsti dall’articolo 254, dalla madre e dal padre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento. Il riconoscimento può avvenire tanto congiuntamente quanto separatamente” e al terzo comma prescrive che “Il riconoscimento del figlio che non ha compiuto i quattordici anni non può avvenire senza il consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento”.
Secondo quanto affermato da Cass. civ. Sez. I, 30 luglio 2014, n. 17277 il consenso del primo genitore al riconoscimento tardivo da parte dell’altro, deve essere prestato personalmente anche se il genitore è stato sospeso dalla responsabilità genitoriale, e non, quindi, dal tutore del minore medesimo. E’ invece il tutore a dover dare il consenso ove la madre sia deceduta (Cass. civ. Sez. I, 26 novembre 1998, n. 12018).
Il testo del primo e del terzo comma dell’art. 250 corrisponde all’originaria norma del codice civile (come riformato nel 1975) con l’unica variante – introdotta dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219 di riforma della filiazione – della riduzione da sedici a quattordici degli anni dell’età del figlio sotto la quale è necessario il consenso del primo genitore al riconoscimento tardivo da parte dell’altro. Il che significa che per riconoscere tardivamente un figlio che ha più di quattordici anni (minorenne o maggiorenne che sia) non occorre mai il consenso del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Perciò, il raggiungimento, da parte del minore, dell’età di quattordici anni, ritenuta dal legislatore adeguata ad esprimere un meditato personale giudizio, rilevabile d’ufficio, determina il venir meno della necessità del consenso del primo genitore al riconoscimento da parte dell’altro e, in difetto, dell’intervento del giudice (Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 781; Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 2003, n. 14).
Occorrerà, invece, naturalmente, sempre l’assenso del figlio (ultraquattordicenne, minorenne o maggiorenne) al riconoscimento. Nessuno, come si è detto, che abbia compiuto i quattordici anni può essere riconosciuto senza il suo assenso.
Pertanto, se i genitori intendono riconoscere insieme il figlio nato fuori dal matrimonio possono farlo effettuando il riconoscimento insieme davanti all’ufficiale di stato civile e formando, così, l’at¬to di nascita. Se, però, il riconoscimento del figlio è effettuato soltanto da uno dei genitori – nella quasi totalità dei casi dalla sola madre – l’altro genitore per poter riconoscere anche lui in seguito il figlio (infra-quattordicenne) avrà necessità del consenso del genitore che per primo lo ha rico¬nosciuto. L’ufficiale di stato civile se manca il consenso del primo dei genitori che ha effettuato il riconoscimento, non potrà ricevere la dichiarazione tardiva di riconoscimento da parte del secondo genitore (che verrà annotata nell’atto di nascita già formato).
Secondo l’art. 45 dell’Ordinamento di stato civile (DPR 3 novembre 2000, n. 396) il consenso può essere manifestato all’ufficiale di stato civile contestualmente al secondo riconoscimento (i due genitori si recheranno insieme all’ufficio di stato civile) o anche anteriormente (cioè con un pre-riconoscimento anch’esso effettuato congiuntamente dai genitori). E può anche essere contenuto in un testamento o in un atto pubblico. Secondo una opinione plausibile espressa in passato da Trib. Minorenni Ancona, 29 maggio 2006 il consenso potrebbe anche essere documentato in un verbale di udienza che è atto pubblico.
In ogni caso, è questa la conclusione, quando i genitori sono d’accordo, il riconoscimento tardivo non comporta alcuna procedura giudiziaria, ma solo la formalità del consenso da esprimere (salve le ipotesi del testamento e dell’atto pubblico) direttamente all’ufficiale di stato civile.
IV Il procedimento di riconoscimento tardivo in caso di dissenso del primo genitore
A questa situazione fa riferimento il quarto comma dell’art. 250 che – nel testo ampiamente rifor¬mulato dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219 di riforma della filiazione – prevede quanto segue:
Il consenso non può essere rifiutato se risponde all’interesse del figlio. Il genitore che vuole riconoscere il figlio, qualora il consenso dell’altro genitore sia rifiutato, ricorre al giudice competente, che fissa un termine per la notifica del ricorso all’altro genitore. Se non viene proposta opposizione entro trenta giorni dalla notifica, il giu¬dice decide con sentenza che tiene luogo del consenso mancante; se viene proposta opposizione, il giudice, assunta ogni opportuna informazione, dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore, ove capace di discernimento, e assume eventuali provvedimenti provvisori e urgenti al fine di instaurare la relazione, salvo che l’opposizione non sia palesemente fondata. Con la sentenza che tiene luogo del consenso mancante, il giudice assume i provvedimenti opportuni in relazione all’affidamento e al mantenimento del minore ai sensi dell’ar¬ticolo 315-bis e al suo cognome ai sensi dell’articolo 262.
Questa disposizione – come detto completamente riformata nel 2012 rispetto al testo del codice civile previgente1 – prevede numerosi passaggi da approfondire trattandosi di significative novità sostanziali e processuali.
a) L’interesse del minore e la valorizzazione del suo punto di vista (i casi di autorizza¬zione e di esclusione dell’autorizzazione al riconoscimento)
“Il consenso non può essere rifiutato se risponde all’interesse del figlio…”
Il primo periodo del quarto comma dell’art. 250 c.c. ribadisce il principio generale secondo cui in tutti i contesti privati o pubblici e in tutte le decisioni che concernono i minori, “L’interesse supe¬riore del minore deve essere una considerazione preminente” (art. 3 Convenzione sui diritti del minore di New York del 20 novembre 1989). Principio espresso ormai in molteplici passaggi dell’or¬dinamento giuridico interno (salvo che nella Costituzione italiana dove l’art. 31 secondo comma, incredibilmente mai fatto oggetto di un più moderno progetto di modifica, si limita ad affermare che la Repubblica “protegge…l’infanzia”), come appunto, per ciò che attiene al riconoscimento, in apertura di questo quarto comma dell’art. 250.
Il monito a tener presente l’interesse del minore è rivolto innanzitutto al genitore che per primo ha effettuato da solo il riconoscimento. In effetti una donna che si trova a riconoscere un figlio dopo essere stata magari abbandonata dall’altro genitore (giacché questa è la situazione statisticamen¬te più diffusa) avrebbe più di una buona ragione per opporsi alla richiesta di riconoscimento che perviene da chi avrebbe potuto riconoscere ed occuparsi del figlio dalla nascita. Che affidamento si può fare su un padre che fugge dalle sue responsabilità non riconoscendo il figlio? Eppure anche in queste situazioni – come nelle altre in cui il mancato riconoscimento dipende da altre circostanze (per esempio dalla mancata conoscenza della nascita) – il legislatore invita soprattutto a valutare le conseguenze che per una persona può avere il fatto di non essere riconosciuto da entrambi i genitori. Le conseguenze psicologiche e sociali del crescere senza un genitore (quali che siano le motivazioni per le quali alla nascita del figlio non è stato effettuato il riconoscimento) possono essere anche devastanti per l’equilibrio di una persona.
Trib. Milano Sez. IX, 5 ottobre 2016 con riguardo al mancato tempestivo riconoscimento da parte del padre della minore e al conseguente pregiudizio consistente nella privazione del rapporto parentale tra padre e figlia, imputabile esclusivamente al comportamento dell’altro genitore, ha ri¬tenuto che sussiste la responsabilità della madre per il danno da privazione del rapporto genitoriale.
In secondo luogo il monito della legge è rivolto al giudice che, di fronte al ricorso del padre bio¬logico che chiede di riconoscere tardivamente il figlio (e che non può farlo, essendo necessario il consenso della madre che lo ha riconosciuto e che non vuole acconsentire) deve decidere se il dissenso manifestato dalla madre è o meno plausibile. La chiave di lettura della plausibilità o meno del dissenso è, appunto, costituita dall’interesse del minore.
L’interesse del minore ad essere riconosciuto va accertato in concreto o può essere presunto ren¬dendosi quindi necessario provare soltanto i gravi motivi che sconsigliano il riconoscimento?
Secondo alcune pronunce sarebbe necessaria l’individuazione di un concreto interesse del minore al riconoscimento. Così per esempio Trib. Taranto Sez. I, 7 maggio 2014 ha affermato che il sacrificio totale alla genitorialità può essere giustificato solo in presenza di gravi ed irreversibili motivi che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compressione dello sviluppo del minore e della sua salute psico-fisica.
Prevale, però, assolutamente in giurisprudenza l’altro orientamento secondo cui non servirebbe un riscontro concreto dell’interesse del minore ma al contrario è sempre necessaria l’individuazione e l’esplicitazione dei gravi motivi che depongono per la decisione di non autorizzare il riconoscimento.
È questa la posizione per esempio assunta da Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729 che, confermando la decisione di merito contraria al riconoscimento, ha ribadito che l’opposizione al riconoscimento ex art. 250 c.c. può essere accolta in caso di giudizio di inidoneità genitoriale del padre e di pericolo di compromissione dello sviluppo psico-fisico della minore in caso di riconosci¬
1 Il testo dell’art. 250 del codice civile prima della riforma del 2012 era il seguente:
Il figlio naturale può essere riconosciuto, nei modi previsti dall’articolo 254, dalla madre e dal padre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento. Il riconoscimento può avvenire tanto con¬giuntamente quanto separatamente.
Il riconoscimento del figlio che ha compiuto i sedici anni non produce effetto senza il suo assenso. [3] Il ricono¬scimento del figlio che non ha compiuto i sedici anni non può avvenire senza il consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento.
Il consenso non può essere rifiutato ove il riconoscimento risponda all’interesse del figlio. Se vi è opposizione, su ricorso del genitore che vuole effettuare il riconoscimento, sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone e con l’intervento del pubblico ministero, decide il tribunale con sentenza che, in caso di accoglimento della domanda, tiene luogo del consenso mancante.
Il riconoscimento non può essere fatto dai genitori che non abbiano compiuto il sedicesimo anno di età.

mento della stessa da parte del genitore (nella specie sono stati ritenuti ostativi al riconoscimento il vissuto del padre e la sua personalità, “tenuto conto che egli era cresciuto in un contesto difficile, caratterizzato da violenti litigi fra i genitori e dall’abuso da parte del padre di sostanze alcooliche, e che il facile ricorso alla violenza aveva sempre caratterizzato la sua vita, segnata anche dallo stato di detenzione per otto anni a seguito della commissione di un crimine consistito nell’aver provocato la morte di un coetaneo nel corso di una lite”); Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2011, n. 2645 secondo cui il riconoscimento del figlio costituisce un diritto soggettivo sacrificabile solo in presenza di un pericolo di danno gravissimo per lo sviluppo psico-fisico del minore (non è stato ritenuto di per sé ostativa la mera pendenza di un processo penale, nella specie per alterazione di stato, a carico del genitore richiedente e neppure la valutazione del rischio di un eventuale distacco del minore dal contesto di affidamento); Cass. civ. Sez. I, 27 maggio 2008, n. 13830 (che non ha ritenuto fatto grave ostativo al riconoscimento il comportamento denunciato di minacce e lesioni posto in essere dal padre richiedente nei confronti della madre che si opponeva), dove si afferma che deve presumersi l’interesse del minore al riconoscimento da parte di entrambi i genitori, e che sul genitore che abbia già effettuato il riconoscimento, e che intenda opporsi a quello dell’altro, incombe l’onere della prova di fatti eccezionali, gravi ed irreversibili, tali da far ritenere in termini di accentuata probabilità che tale secondo riconoscimento possa seriamente compromettere lo svi¬luppo psicofisico del minore. In senso analogo Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 2008, n. 4 (che non ha ritenuto ostativo al riconoscimento il disinteresse del padre durato molti anni dalla nascita del figlio); Cass. civ. Sez. I, 16 novembre 2005, n. 23074 (che ha confermato la decisione della corte d’appello, la quale, nel negare l’autorizzazione aveva ravvisato il pericolo della detta compro¬missione in ragione delle connotazioni fortemente negative della personalità del genitore che inten¬deva procedere al secondo riconoscimento, essendo questi inserito nell’ambiente della criminalità organizzata ed attualmente detenuto per gravi reati); Cass. civ. Sez. I, 11 febbraio 2005, n. 2878 (che non ha ravvisato un impedimento nello scarso interesse verso il figlio, prima e dopo la nascita); Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2004, n. 21088 (che non ha ravvisato un impedimento nelle pregresse ripetute pressioni per l’interruzione della gravidanza); Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11949 e Cass. civ. Sez. I, 22 ottobre 2002, n. 14894 (che non hanno ravvisato un impedimento nello stato di pregressa e superata tossicodipendenza del padre richiedente); Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2003, n. 5115 e Cass. civ. Sez. I, 16 marzo 1999, n. 2338 (che non hanno ritenuto ostativo al riconoscimento rispettivamente il fatto che il minore stesse per essere adottato dal coniuge della madre e che avesse semplicemente instaurato un ottimo e valido rap¬porto affettivo con il marito della madre); Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2003, n. 5115 (che ha con¬fermato la sentenza che aveva escluso che costituissero impedimento al secondo riconoscimento l’età del padre naturale, la sua residenza in una località lontana da quella di residenza della minore, nonché la mancanza, da parte sua, di un’attività lavorativa stabile e di un’autonoma abitazione); Cass. civ. Sez. I, 22 febbraio 2000, n. 1990 e Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 1993, n. 1412 (che, accogliendo il ricorso avverso una prnuncia di rigetto dell’autorizzazione, affermavano che “il diritto al riconoscimento non può essere disconosciuto sulla sola base di una condotta morale non esente da censure, di per sé rilevante, però, per il diverso fine dell’affidamento”); Cass. civ. Sez. I, 27 ottobre 1999, n. 12077 (che non ha ritenuto ostativa all’autorizzazione al riconoscimento la mera diversità culturale, di origini, di etnia e di religione del padre richiedente); Cass. civ. Sez. I, 27 ottobre 1999, n. 12077 (che ammettendo il riconoscimento in un caso di differenze cultu¬rali e religiose, affermava che soltanto il fanatismo religioso, potrebbe assumere rilievo dirimente qualora si traduca in un’indebita compressione dei diritti di libertà del minore o in un pericolo per la sua crescita secondo i canoni generalmente riconosciuti dalle società civili).
In tutte queste decisioni si afferma che l’interesse del figlio minore al riconoscimento della pater¬nità, di cui all’art. 250 c.c. è definito dal complesso dei diritti che a lui derivano dal riconoscimento stesso, e, in particolare, dal diritto alla identità personale nella sua precisa e integrale dimensione psicofisica. Pertanto, in caso di opposizione al riconoscimento da parte dell’altro genitore, che lo abbia già effettuato, il mancato riscontro di un interesse del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore richiedente, in quanto il sacrificio totale della genitorialità può essere giustificato solo in presenza di gravi e irreversibili motivi che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compromissione dello sviluppo del minore, e in particolare della sua salute psico¬fisica. La relativa verifica va compiuta in termini concreti dal giudice del merito, le cui conclusioni, ove logicamente e compiutamente motivate, si sottraggono a ogni sindacato di legittimità.
Si tratta in sostanza della posizione spesso assunta espressamente dalla giurisprudenza in tema di dichiarazione giudiziale della paternità secondo cui il riconoscimento può essere ritenuto contrario all’interesse del minore soltanto in situazioni di grave pregiudizio per il minore nelle quali, se vi fosse stato riconoscimento, si dovrebbe dichiarare la decadenza dalla “potestà” genitoriale (Cass. civ. Sez. I, 24 settembre 1996, n. 8413; Cass. civ. Sez. I, 23 febbraio 1996, n. 1444).
Nello stesso senso in giurisprudenza di merito si sono espressi Trib. Minorenni Palermo, 13 marzo 2012 (competente prima della riforma del 2013) secondo cui il mancato riscontro di un interesse effettivo e concreto del minore al riconoscimento non costituisce ostacolo all’attuazione di esso da parte del genitore, in caso di opposizione del genitore che vi ha proceduto per primo, in quanto il sacrificio della genitorialità è ammissibile solo quando sia accertata la esistenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da segnalare la compromissione del minore per effetto del riconoscimen¬to; Trib. minorenni Palermo, 26 gennaio 2009, secondo cui la richiesta di riconoscimento ai sensi dell’art. 250 c.c. è inammissibile qualora possa arrecare grave nocumento all’integrità psichica del minore (nella specie il Tribunale ha rigettato il ricorso per il riconoscimento di minore concepito a seguito di violenza sessuale).
In una posizione tesa a valorizzare l’opinione del minore ai fini della valutazione circa l’autorizza¬zione al riconoscimento, si è posta espressamente parte della giurisprudenza, per esempio Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2004, n. 21359 e Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2000, n. 6784 se¬condo cui la l’audizione del minore è rivolta a soddisfare anche l’esigenza di accertare se il rifiuto del consenso del genitore che per primo abbia proceduto al riconoscimento risponda o meno all’in¬teresse del figlio. L’orientamento che valorizza il punto di vista del minore era stato fortemente espresso anche da Trib. Minorenni Emilia-Romagna Bologna, 23 aprile 2005 dove si afferma che sebbene il riconoscimento del figlio naturale sia diritto soggettivo primario del genitore, e si presuma lo specifico interesse del minore al riconoscimento, tuttavia, nel giudizio di opposizione al ricorso promosso del secondo genitore proponente domanda giudiziale di riconoscimento, qualora il minore adolescente non ancora legittimato all’assenso ex art. 250, co. 2, c.c., manifesti consape-vole ed autonoma contrarietà al riconoscimento tardivo, del secondo genitore ricorrente, il diritto soggettivo del secondo genitore ricorrente non può prevalere al punto di recare un pregiudizio psicofisico alla prole.
Ha molto valorizzato di recente il punto di vista del minore Cass. civ. Sez. I, 27 marzo 2017, n. 7762 dove si afferma che il riconoscimento del figlio minore infra-quattordicenne nato fuori dal matrimonio, già riconosciuto da un genitore, costituisce un diritto soggettivo dell’altro, tutelato nell’art. 30 Cost. che può, tuttavia, essere sacrificato in presenza del rischio della compromissione dello sviluppo psicofisico del minore stesso. In questo quadro – si sostiene nella sentenza – il ne¬cessario bilanciamento tra l’esigenza di affermare la verità biologica con l’interesse alla stabilità dei rapporti familiari, impone di accertare quale sia, in concreto, l’interesse del minore, valorizzando primariamente i risultati della sua audizione, una volta accertatane da parte del giudice la capacità di discernimento. La sentenza ha cassato una decisione della corte d’appello di Roma che aveva accolto la domanda avanzata dal genitore di riconoscimento della figlia infra-quattordicenne, mal¬grado la contraria volontà di quest’ultima, manifestata all’esito della sua audizione.
È evidente che più l’età del minore si avvicina ai quattordici anni in cui il suo assenso è imprescindibile (art. 250, secondo comma), più la valutazione del suo punto di vista deve essere preso in adeguata considerazione.
b) La procedura rapida in caso di ricorso non seguito da opposizione
“Il genitore che vuole riconoscere il figlio, qualora il consenso dell’altro genitore sia rifiutato, ricorre al giudice competente, che fissa un termine per la notifica del ri¬corso all’altro genitore. Se non viene proposta opposizione entro trenta giorni dalla notifica, il giudice decide con sentenza che tiene luogo del consenso mancante…”
Questo secondo periodo della disposizione – del tutto innovativo rispetto al sistema precedente alla riforma del 2012 – prevede un procedimento veloce a disposizione del padre biologico, per il caso in cui la madre non intenda acconsentire al riconoscimento paterno tardivo.
Il padre biologico può ricorrere al giudice il quale fissa un termine per la notifica del ricorso alla madre.
A questo punto la madre, presa visione del ricorso, ha due strade a disposizione: a) potrebbe non presentare nessuna opposizione (ritirando di fatto il dissenso che aveva manifestato: un vero ripensamento) e accettare che il tribunale decida (in tal caso il padre potrà successivamente rico¬noscere il figlio presentandosi all’ufficio di stato civile con la sentenza del tribunale); b) potrebbe invece anche ritenere inutile attendere una sentenza e accettare di esprimere il consenso davanti all’ufficiale di stato civile, in modo che il padre possa direttamente effettuare il riconoscimento all’ufficio di stato civile).
Nel giudizio avente ad oggetto il riconoscimento della paternità, l’intervenuto riconoscimento del figlio con l’assenso dell’altro genitore dianzi all’Ufficiale dello Stato civile, determina la declaratoria di cessazione della materia del contendere, analogamente a quanto avviene nel corso dell’azione di accertamento della paternità (Trib. Parma Sez. I, 15 febbraio 2017).
Nel corso di questa procedura veloce non è prevista nessuna attività istruttoria e, circostanza che si configura certamente come illogica e forse illegittima, nemmeno l’audizione del figlio minore.
Da un punto di vista strettamente processuale sono tre gli aspetti da considerare.
Innanzitutto il problema di quale sia il giudice competente ad emettere la sentenza che “tiene luogo del consenso mancante” e quindi a quale giudice il padre deve presentare ricorso. Fino alla riforma del 2012 della filiazione il giudice competente per questo procedimento (allora a contrad¬dittorio immediato2) era il tribunale per i minorenni e questo spiega come mai la totalità della giurisprudenza sul punto abbia origine dai tribunali per i minorenni. Con la riforma operata dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219 è stata modificata la norma fondamentale in materia di com¬petenza nei procedimenti di diritto di famiglia che è l’art. 38 delle disposizioni di attuazione del
2 Come si è detto il terzo comma dell’art. 250 c.c. nel testo precedente alla riforma prevedeva un procedimento camerale apposito molto semplificato sia pure a carattere contenzioso (“Se vi è opposizione, su ricorso del geni¬tore che vuole effettuare il riconoscimento, sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone e con l’intervento del pubblico ministero, decide il tribunale con sentenza che, in caso di accoglimento della domanda, tiene luogo del consenso mancante“).

codice civile, sulla base del cui secondo comma il giudice competente oggi ad adottare la sentenza è il tribunale ordinario3.
La giurisprudenza ha avuto modo di confermare questa conclusione circa la competenza del tri¬bunale ordinario (Cass. civ. Sez. VI, 29 luglio 2015, n. 16103). Del tutto inaccettabile è la posizione di chi ha ritenuto competente il giudice tutelare (Trib. Catanzaro, 5 marzo 2013).
Il secondo problema attiene al rito processuale da seguire e quindi alla forma che deve avere il ricorso del padre. Come si è visto la norma prevede che “il giudice decide con sentenza”. Il che vuol dire che il procedimento ha natura contenziosa decidendo su diritti delle persone. Nonostante ciò, in linea con la precedente prassi giudiziaria seguita nei tribunali per i minorenni ed in perfetta sintonia con il testo dell’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile, il rito da seguire è quello camerale (“…il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente”) e pertanto il ricorso del padre biologico è un ricorso camerale diretto al tribunale (che decide in composizione collegiale). Il rito è quindi certamente camerale (Trib. Prato, 27 luglio 2017).
Il terzo problema attiene all’eventuale impugnazione da parte della madre della sentenza “che tiene luogo del consenso mancante” adottata su ricorso del padre. E’ evidente che, non avendo presentato opposizione, la madre è carente di interesse ad impugnare nel merito la decisione “che tiene luogo del consenso mancante” ma non si può escludere che possa avere interesse ad im¬pugnarla per ragioni di legittimità: si pensi al caso la sentenza dovesse essere pronunciata prima dello spirare dei trenta giorni dalla notifica a disposizione della madre per presentare opposizione. Per quanto attiene alle impugnazioni, trattandosi di un provvedimento avente senz’altro natura decisoria (espressamente una sentenza) il provvedimento del tribunale è reclamabile in Corte d’appello la cui decisione è poi ricorribile per cassazione.
c) Il procedimento in seguito all’opposizione della madre e l’audizione del figlio
“…se viene proposta opposizione, il giudice, assunta ogni opportuna informazione, dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore, ove capace di discernimento…”
Potrebbe però avvenire che la madre ritenga di dover insistere nel negare il suo consenso. In tal caso deve presentare opposizione (entro trenta giorni dalla notifica del ricorso del padre biologico).
Si apre quindi davanti al tribunale ordinario il procedimento (appunto a contraddittorio posticipato) che nel merito potrà accogliere l’opposizione o rigettarla.
Come si dirà nel procedimento qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale.
Come si è detto il procedimento è di competenza del tribunale (in composizione collegiale) e, aven¬do la decisione natura decisoria, avverso la sentenza sono proponibili tutti i mezzi di impugnazione ordinari.
Il tribunale istruisce il procedimento assumendo anche d’ufficio ogni informazione utile.
Nel procedimento il Pubblico ministero può assumere conclusioni solo nei limiti delle domande pro¬poste dalle parti, interviene obbligatoriamente ma non gli è riconosciuto il potere di impugnazione (Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 2009, n. 12984).
Anche l’impugnazione segue il rito camerale, ma l’appello va proposto con ricorso che, in caso di notifica della sentenza a cura della parte, va depositato entro trenta giorni dalla notifica e non entro dieci giorni (Cass. civ. Sez. I, 31 dicembre 2008, n. 30688; Cass. civ. Sez. I, 26 aprile 1999, n. 4148; Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 1991, n. 687).
La legge applicabile ove quella straniera (nazionale del figlio ai sensi dell’art. 35 della legge 31 maggio 1995, n. 218), contenesse norme contrarie all’ordine pubblico, è quella italiana (Cass. civ. Sez. I, 28 dicembre 2006, n. 27592 e Cass. civ. Sez. I, 8 marzo 1999, n. 1951 in casi in cui la legge straniera esclude la possibilità del riconoscimento della filiazione fuori dal matrimonio).
Nel procedimento deve essere obbligatoriamente sentito il figlio minore che ha compiuto dodici
3 Disposizioni di attuazione del codice civile Art. 38
Sono di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, del codice civile. Per i procedimenti di cui all’articolo 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’articolo 316 del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario. Sono, altresì, di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 251 e 317-bis del codice civile.
Sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria. Nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile.
Fermo restando quanto previsto per le azioni di stato, il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente. Quando il provvedimento è emesso dal tribunale per i minorenni, il reclamo si propone davanti alla sezione di corte di appello per i minorenni.

anni o anche di età inferiore se capace di discernimento, in virtù del principio generale contenuto nell’art. 315-bis del codice civile 4 (Cass. civ. Sez. I, 21 novembre 2014, n. 24863; Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21101 le quali fanno peraltro discendere l’obbligo dell’audizione dalla qualità di parte attribuita al minore nel procedimento; Cass. civ. Sez. I, 24 dicembre 2013, n. 28645; Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2012, n. 5884). L’audizione può essere omessa quando appare manifestamente superflua (come nel caso in cui il minore abbia appena due anni di età: Cass. civ. Sez. I, 31 ottobre 2013, n. 24556).
Nel procedimento previsto dall’art. 250 cod. civ., nel testo anteriore alla legge 10 dicembre 2012 n. 219, per conseguire una pronuncia in luogo del mancato consenso al riconoscimento del figlio infrasedicenne da parte del genitore, che lo abbia già riconosciuto, pur essendo obbligatoria l’au¬dizione del minore, come confermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 83 del 2011, non è configurabile alcun vizio ove l’espletamento dell’incombente sia reso oggettivamente impossibile dalla tenera età del minore (nella specie, di neppure due anni) e, quindi, sia omesso perché su¬perfluo.
Naturalmente il tribunale deve tenere in considerazione il punto di vista del minore, pur potendo decidere autonomamente rispetto alle valutazioni da lui espresse. Come si è già visto Cass. civ. Sez. I, 27 marzo 2017, n. 7762 ha cassato proprio una decisione della corte d’appello di Roma che aveva accolto la domanda avanzata dal genitore di riconoscimento della figlia infra-quattor¬dicenne, malgrado la contraria volontà di quest’ultima, manifestata all’esito della sua audizione.
d) La posizione del minore: è parte o non è parte del procedimento? È obbligatoria la nomina di un curatore speciale?
In passato è stato sempre controverso se nella procedura che si apre in seguito all’opposizione al riconoscimento tardivo il minore fosse da considerare o meno parte processuale. Poiché la legge im¬pone in questo procedimento l’ascolto del minore, si riteneva per lo più che questo fosse sufficiente a dare rilievo e dignità alla sua posizione, senza necessità di doverla qualificare processualmente come parte (tra le tante Cass. civ. Sez. I, 4 agosto 2004, n. 14934; Cass. civ. Sez. I, 10 mag¬gio 2001, n. 6470). Si riteneva in sostanza che fosse il genitore che lo aveva già riconosciuto a rappresentarlo adeguatamente nel procedimento, senza che l’eventuale conflitto di interessi tra tale genitore e il figlio dovesse necessariamente portare alla nomina di un curatore speciale al minore.
Nel 2010 la Corte d’appello di Brescia sollevava, in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 30, 31 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 250 del codice civile. Una madre si era opposta al secondo riconoscimento e il tribunale aveva rigettato l’opposizione. La donna aveva, perciò, impugnato la decisione sostenendo che il riconoscimento autorizzato dal tri¬bunale era contrario all’interesse del figlio che non aveva mai visto o sentito parlare del presunto padre e che viveva attualmente sereno con la madre e il marito di lei. Il procuratore generale chie¬deva l’accoglimento dell’impugnazione, in considerazione della particolare situazione del minore. La Corte di appello valutava la necessità dell’intervento in causa di un curatore speciale a tutela degli interessi del bambino, ma tale iniziativa incontrava l’opposizione della madre, la quale soste¬neva che il minore non aveva la qualità di parte processuale in questo procedimento, in conformità alla giurisprudenza prevalente della Corte di cassazione. La Corte d’appello riteneva che non può essere messo in dubbio che il diritto al riconoscimento del figlio naturale già riconosciuto costitu¬isca per l’altro genitore un diritto soggettivo garantito dall’art. 30 Cost., ma che anche al minore sarebbe stato necessario riconoscere piena tutela, che può essere in concreto attuata soltanto se l’interessato sia autonomamente rappresentato e difeso in giudizio.
La Corte costituzionale con una sentenza interpretativa di rigetto (Corte cost., 11 marzo 2011, n. 8, ribadita da Corte cost. 10 novembre 2011, n. 301) valutava la questione non fondata sostenendo – al contrario di quanto ritenuto dalla Corte d’appello – che l’interpretazione sistema¬tica e coordinata delle norme giuridiche sulla nomina di un curatore speciale al minore “impone di pervenire alla conclusione che, anche per la fattispecie prevista dall’art. 250 del codice civile, il giudice, nel suo prudente apprezzamento e previa adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, possa procedere alla nomina di un curatore speciale, avvalendosi della disposizione dettata dall’art. 78 cod. proc. civ., che non ha carattere eccezionale, ma costituisce piuttosto un istituto che è espressione di un principio generale, destinato ad operare ogni qualvolta sia neces¬sario nominare un rappresentante all’incapace. Invero, già l’articolo 250 c.c. stabilisce che debba essere sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone al riconoscimento (salvo che, per ragioni di età o per altre circostanze da indicare con specifica motivazione, il minore stes¬so non sia in grado di sostenere l’audizione). Tale adempimento, la cui importanza emerge dalla citata normativa convenzionale, dimostra che il minore nella vicenda sostanziale e processuale che lo riguarda, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica, essendo implicati nel procedimento suoi rilevanti diritti e interessi, in primo luogo quello all’accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse”.
4 Art. 315-bis. (Diritti e doveri del figlio).
Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni.
Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti.
Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.
Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa.
Al minore, perciò, va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 cod. civ. E, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento, qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale. Il che può avvenire su richiesta del pubblico ministero, o di qualunque parte che vi abbia interesse (art. 79 cod. proc. civ.), ma anche di ufficio.
A questa interpretazione si è allineata la giurisprudenza.
Così, per esempio, Cass. civ. Sez. I, 24 dicembre 2013, n. 28645 (Nella interpretazione che è stata offerta dalla Corte costituzionale all’art. 250 c.c., con la sentenza n. 83 del 2011, essendo implicati nel procedimento rilevanti diritti ed interessi del minore, ed in primo luogo quello all’ac¬certamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse, questi, anche se di età inferiore a sedici anni, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica: sicché, in caso di opposizione dell’altro genitore al riconoscimento, egli gode di piena tutela dei suoi diritti ed inte¬ressi. Ne deriva che al detto minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione); Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21101 (Al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio sull’opposizione al riconoscimento successivo di cui all’art. 250 c.c., parte che, di regola, è rappresentata dal genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento oppure da un curatore speciale, nominato ai sensi della norma generale di cui all’art. 78 c.p.c., tutte le volte in cui si profili in concreto un conflitto d’interessi tra il minore e il genitore rappresentante); Cass. civ. Sez. I, 21 novembre 2014, n. 24863 (Al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di op¬posizione di cui all’art. 250 c.c. e qualora si prospettino situazioni di conflitto di interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale); App. Napoli, 23 aprile 2013 (Nel procedimento di riconoscimento del figlio naturale, ai sensi dell’art. 250 c.c., il minore è parte e spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale).
e) I provvedimenti provvisori e urgenti
“…e assume eventuali provvedimenti provvisori e urgenti al fine di instaurare la re¬lazione, salvo che l’opposizione non sia palesemente fondata…”
L’ assoluta novità della procedura prevista nel nuovo art. 250 c.c. sta nel fatto che direttamente nel corso del giudizio che porterà alla sentenza “che tiene luogo del consenso mancante” il tribunale può assumere anche d’ufficio ogni provvedimento provvisorio utile ad “instaurare la relazione”, cioè a creare le condizioni perché tra il minore e il padre biologico possano instaurarsi o rafforzarsi i legami e i rapporti. Sempre, s’intende, nel caso in cui la relazione sia ostacolata dal comporta¬mento del genitore opponente.
Si tratta di provvedimenti che naturalmente, devono essere adattati alla situazione concreta te¬nendo conto soprattutto dell’età del minore, dell’esistenza o meno di pregressi rapporti tra figlio e padre biologico, delle motivazioni che spingono la madre a dissentire rispetto al riconoscimento e di ogni altra circostanza.
f) Il contenuto ampio della sentenza
“Con la sentenza che tiene luogo del consenso mancante, il giudice assume i provve¬dimenti opportuni in relazione all’affidamento e al mantenimento del minore ai sensi dell’articolo 315-bis…”
La sentenza che definisce il procedimento espressamente “autorizza” il riconoscimento. Non di¬chiara la paternità. Pertanto il procedimento non configura un’azione di stato (Trib. Forlì, 26 ottobre 2015).
Il tribunale, in conformità al principio di celerità e di concentrazione che lo caratterizza, può anche dare disposizioni concernenti la regolamentazione dell’affidamento e relativi al mantenimento del minore.
Come si è già detto esaminando il testo dell’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile, nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori – ancorché definiti son sentenza – si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile. Quindi il tribunale provvede in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provve¬dimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente.
Per quanto attiene alle impugnazioni, si ribadisce che avendo la sentenza che definisce il procedi¬mento natura decisoria la stessa è reclamabile in Corte d’appello la cui decisione è poi ricorribile per cassazione per i motivi indicati nell’art. 360 c.p.c.
Il ricorso respinto dalla sentenza potrebbe poi essere sempre riproposto se si modificano le circo¬stanze di fatto in base alle quali la decisione è stata adottata. Infatti, secondo quanto affermato in passato da Cass. civ. Sez. I, 21 agosto 1993, n. 8861 il provvedimento con il quale il Tribunale pronuncia sul ricorso proposto dal genitore che intenda effettuare il riconoscimento, ha natura di sentenza, ma l’efficacia preclusiva del provvedimento stesso (che non dichiara direttamente il rapporto di filiazione, ma solo eventualmente rimuove un ostacolo al suo accertamento) non può essere indiscriminatamente ritenuta. Ed invero mentre non può essere, per un verso, evidente¬mente rimessa in discussione la decisione definitiva di accoglimento del ricorso cui sia seguito il riconoscimento, diversamente la sentenza di rigetto deve ritenersi emessa rebus sic stantibus, non potendo impedire la riproponibilità del ricorso ove vengano dedotti motivi nuovi.
g) Il cognome
“…e al suo cognome ai sensi dell’articolo 262”
Costituisce una significativa novità anche la disposizione che consente al giudice di decidere sul cognome del figlio il quale, come è previsto nell’art. 262 c.c. “può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre”. La stessa norma all’ultimo comma prevede che nel caso di minore età del figlio, è il giudice il soggetto chiamato a decidere sul cognome.
h) Le criticità del procedimento
La possibilità per il tribunale di adottare in corso di causa provvedimenti provvisori e con la senten¬za provvedimenti sull’affidamento, sul mantenimento e sul cognome non è tutto priva di elementi di criticità. Il più rilevante dei quali è costituito certamente dal fatto che i provvedimenti provvisori vengono adottati prima ancora della decisione (che potrebbe anche essere di accogliento dell’op¬posizione) e che ugualmente i provvedimenti sull’affidamento, sul mantenimento e sul cognome connessi alla sentenza sono esecutivi prima del giudicato e comunque prima che venga effettuato il riconoscimento (che potrebbe per ipotesi anche non essere effettuato dal genitore che è stato autorizzato).
Per questo motivo è stato suggerito in giurisprudenza (Trib. Milano, 16 aprile 2014) che, nell’in¬teresse superiore del minore a vedersi immediatamente e in modo genuino riconosciuto dal geni¬tore, il tribunale dovrebbe procedere ad “autorizzare il riconoscimento con una pronuncia parziale, disponendo la prosecuzione del giudizio in modo da consentire alla parte ricorrente di versare in atti la prova dell’avvenuto riconoscimento e di adottare poi, espletati, se del caso, i necessari ac¬certamenti, tutti i provvedimenti ex art. 315-bis e 262 c.c., come previsto dall’art. 250 comma 2 ultimo capoverso c.c., introdotto dalla Legge 219/2012”.
Non è condivisibile, invece, una recente giurisprudenza di merito (Trib. Prato, 27 luglio 2017) secondo cui il ricorso del genitore che intende riconoscere il figlio sarebbe equiparabile ad una manifestazione irrevocabile della volontà di riconoscere il figlio nato fuori dal matrimonio e che il tribunale dettando contestualmente i provvedimenti ritenuti opportuni ai sensi degli artt. 315 bis e 262 c.c. darebbe atto del perfezionamento dell’efficacia della volontà di riconoscere il figlio pale¬sata con la proposizione del ricorso e non revocabile e potrebbe ordinare all’Ufficiale di Stato Civile l’annotazione nell’atto di nascita del minore ai sensi dell’art. 49, comma 1 lett k) del DPR 396/2000 (che parla di “atti di riconoscimento di filiazione naturale, in qualunque forma effettuati”). Tuttavia nessuna norma giuridica equipara il ricorso per chiedere di riconoscimento del figlio ad un atto di riconoscimento e pertanto l’ufficiale di stato civile non potrà certamente eseguire l’annotazione.
i) È ammissibile nel procedimento l’eccezione di non veridicità della paternità?
Secondo quanto affermato da Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21101; Cass. civ. Sez. I, 29 aprile 1999, n. 4325; Cass. civ. Sez. I, 23 febbraio 1991, n. 1958 l’accertamento della veridicità del riconoscimento esula dal procedimento previsto dall’art. 250, 4° comma, c.c. Tut¬tavia un’indagine in tal senso potrebbe essere svolta incidenter tantum, al solo e limitato fine di verificare la legittimazione attiva del richiedente. Trattasi di un accertamento di natura sommaria a carico del giudice del merito.
Anche App. Milano, 20 febbraio 2001 e App. Roma, 9 novembre 1993 hanno espresso lo stesso convincimento affermando che il procedimento instaurato ai sensi dell’art. 250 c.c. è diretto in via esclusiva a conseguire una pronuncia giudiziale che tenga luogo del mancato consenso del genitore al riconoscimento del figlio naturale ed ha pertanto ad oggetto l’accertamento se il ricono¬scimento risponda o meno all’interesse del minore, sicché resta estranea al giudizio ogni ulteriore e diversa valutazione, ivi compresa quella inerente la veridicità del rapporto di filiazione.

Giurisprudenza
Trib. Prato, 27 luglio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La manifestazione della volontà di riconoscere il figlio nato fuori dal matrimonio, irrevocabile ai sensi dell’art. 256 c.c., avviene secondo le forme previste dall’art. 254 c.c. o, in difetto del consenso dell’altro genitore che lo abbia già effettuato, con la notifica del ricorso ai sensi dell’art. 250, comma 4, c.c. che instaura un procedimento regolato dal rito camerale che si conclude con una sentenza con cui, ove l’opposizione sia ritenuta infondata, il Tribunale ordinario detterà contestualmente i provvedimenti ritenuti opportuni ai sensi degli artt. 315 bis e 262 c.c. dando atto del perfezionamento dell’efficacia della volontà di riconoscere il figlio palesata con la proposizione del ricorso e non revocabile ed ordinando all’Ufficiale di Stato Civile l’annotazione nell’atto di nascita del minore ai sensi dell’art. 49, comma 1 lett k), del DPR 396/2000.
In tema di rifiuto del consenso al riconoscimento del figlio infra quattordicenne, il tribunale ordinario, all’esito del procedimento promosso ai sensi dell’art. 250, comma 4, c.c., può dettare i provvedimenti ritenuti opportuni ex artt. 315-bis e 262 c.c. contestualmente all’emissione della sentenza che tiene luogo del consenso mancante del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento, la quale, in virtù della volontà di riconoscimento già irrevocabilmente manifestata dal genitore mediante la proposizione del ricorso, può essere direttamente oggetto di annotazione nell’atto di nascita del minore.
Cass. civ. Sez. I, 27 marzo 2017, n. 7762 (Foro It., 2017, 5, 1, 1533)
Il risultato dell’audizione della figlia minore, capace di discernimento – la quale si sia opposta decisamente al riconoscimento da parte del padre – deve essere apprezzato dal Giudice del merito nel contesto della valutazio¬ne, in concreto, del suo interesse a realizzarsi nel contesto delle relazioni affettive che consentano uno sviluppo armonico della sua identità sotto il profilo psichico, culturale e relazionale.
Nel procedimento proposto a seguito dell’opposizione del genitore che per primo abbia riconosciuto il figlio infra-quattordicenne nato fuori dal matrimonio al successivo riconoscimento da parte dell’altro, il secondo rico¬noscimento non costituisce, di per sé, in assenza di gravi motivi ostativi, un vantaggio per la prole, in quanto il giudice, ai fini dell’accoglimento della domanda, deve sempre valutare la concreta ed attuale sussistenza dell’in¬teresse al riguardo di quel minore, con riferimento al suo armonico sviluppo psicologico, affettivo, educativo e sociale, da valutarsi sulla base, da un lato, di quanto accertato con riferimento alla personalità del genitore richiedente, dall’altro di quanto emerso in sede di ascolto del minore medesimo (la Suprema corte ha cassato la sentenza di merito, che aveva accolto la domanda di riconoscimento, non tenendo conto dell’opposizione della figlia, di cui pure era stata riconosciuta la capacità di discernimento, né degli elementi negativi relativi alla per¬sonalità e alla condotta del ricorrente medesimo).
Il riconoscimento del figlio minore infra-quattordicenne nato fuori dal matrimonio, già riconosciuto da un geni¬tore, costituisce un diritto soggettivo dell’altro, tutelato nell’art. 30 Cost., che può, tuttavia, essere sacrificato in presenza del rischio della compromissione dello sviluppo psicofisico del minore stesso. In questo quadro, il necessario bilanciamento tra l’esigenza di affermare la verità biologica con l’interesse alla stabilità dei rapporti familiari, impone di accertare quale sia, in concreto, l’interesse del minore, valorizzando primariamente i risultati della sua audizione, una volta accertatane da parte del giudice la capacità di discernimento. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte d’appello, che aveva accolto la domanda avanzata dal genitore di rico¬noscimento della figlia infra-quattordicenne, malgrado la contraria volontà di quest’ultima, manifestata all’esito della sua audizione).
Trib. Parma Sez. I, 15 febbraio 2017 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio avente ad oggetto il riconoscimento della paternità, l’intervenuto riconoscimento del figlio con l’as¬senso dell’altro genitore dianzi all’Ufficiale dello Stato civile, determina la declaratoria di cessazione della materia del contendere.
Cass. civ. Sez. I, 13 gennaio 2017, n. 781 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento di figlio naturale, l’art. 250 c.c. (come modificato dall’art. 1, comma 2, lett. b, della l. n. 219 del 2012) subordina, nell’ipotesi di minore infraquattordicenne, la possibilità del secondo riconoscimen¬to al consenso del genitore che detto riconoscimento ha già effettuato e dispone, altresì, che, al compimento del quattordicesimo anno, il minore (anche se nato o concepito prima dell’entrata in vigore della l. n. 219 del 2012cit.) divenga titolare di un autonomo potere di incidere sul diritto del genitore al riconoscimento, confi¬gurando il suo assenso quale elemento costitutivo dell’efficacia della domanda stessa di riconoscimento. Ne consegue che il raggiungimento, da parte del minore, della “maggiore età” ritenuta dal legislatore adeguata ad esprimere un meditato giudizio, rilevabile d’ufficio, determina il venir meno della necessità del consenso del pri¬mo genitore al riconoscimento da parte dell’altro e, in difetto, dell’intervento del giudice. (Nella specie, la S.C., preso atto che il minore aveva compiuto quattordici anni nel corso del processo ed aveva rifiutato il suo assenso al riconoscimento, ha dichiarato, su ricorso della madre, cessata la materia del contendere, cassando senza rinvio la sentenza di riconoscimento della paternità).
Trib. Milano Sez. IX, 5 ottobre 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rapporti familiari, con riguardo al mancato tempestivo riconoscimento da parte del padre della minore e al conseguente pregiudizio consistente nella privazione del rapporto parentale tra padre e figlia, imputabile esclusivamente al comportamento dell’altro genitore, sussiste la responsabilità della madre per il danno da pri¬vazione del rapporto genitoriale.
Trib. Forlì, 26 ottobre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In assenza di una specifica previsione normativa e non rientrando il procedimento di cui all’art. 250 c.c. tra le azioni di stato – posto che il tribunale, in assenza del consenso del genitore che per primo ha riconosciuto il minore, non dichiara giudizialmente la paternità o maternità come nel procedimento ex art. 269 e ss. c.c., ma si limita a pronunciare sentenza che tenga luogo del consenso mancante – si reputa che il tribunale debba prov¬vedere seguendo il rito camerale.
Trib. Vicenza Sez. II, 17 settembre 2015 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 c.c.. Orbene, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317 bis e 320 c.c.), qualora si prospettino situazioni di conflitto di interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale.
Cass. civ. Sez. VI, 29 luglio 2015, n. 16103 (Foro It., 2016, 3, 1, 930)
La competenza a provvedere sull’autorizzazione al riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, richiesta dal genitore non ancora sedicenne, spetta al tribunale ordinario e non a quello per i minorenni.
Cass. civ. Sez. I, 21 novembre 2014, n. 24863 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento previsto dall’art. 250 c.c. deve essere disposta obbligatoriamente l’audizione del minore, at¬teso che questi assume la qualità di parte, come riconosciuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 83 del 2011, e che, sulla base dei principi riconosciuti a livello internazionale, il minore ha diritto di essere ascoltato in tutte le procedure che lo interessano, salvo solo il caso in cui tale audizione sia manifestamente in contrasto con gli interessi superiori del fanciullo stesso.
In tema di riconoscimento dei figli naturali, nel procedimento di cui all’art. 250, comma 4, c.c., l’audizione obbli¬gatoria del minore trova il suo ineludibile fondamento non già in ragione di mere esigenze istruttorie, bensì nella stessa qualità di parte da riconoscere al minore medesimo.
Cass. civ. Sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21101 (Famiglia e Diritto, 2015, 4, 324 nota di TOMMASEO)
Al minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio sull’opposizione al riconoscimento successivo di cui all’art. 250 c.c., parte che, di regola, è rappresentata dal genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento oppure da un curatore speciale, nominato ai sensi della norma generale di cui all’art. 78 c.p.c., tutte le volte in cui si profili in concreto un conflitto d’interessi tra il minore e il genitore rappresentante.
L’accertamento della veridicità del riconoscimento esula dal procedimento previsto dall’art. 250, 4° comma, c.c. Un’indagine in tal senso può essere svolta, in tale giudizio, incidenter tantum, al limitato fine di verificare la legittimazione attiva del richiedente. Trattasi, tuttavia, di un accertamento di natura sommaria a carico del giudice del merito.
In tema di riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, nel procedimento volto a conseguire la sentenza che tiene luogo del consenso mancante del genitore, che lo ha effettuato per primo, al riconoscimento da parte dell’altro, sussiste l’obbligo di ascolto del minore infra-quattordicenne, che ne è parte.
Cass. civ. Sez. I, 30 luglio 2014, n. 17277 (Foro It., 2015, 6, 1, 2126)
Il consenso al riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio da parte del genitore che lo abbia effettuato per secondo deve essere prestato personalmente da quello che vi aveva proceduto per primo, anche se sospeso dalla responsabilità genitoriale, e non dal tutore del minore medesimo (nella specie, la pronuncia di merito, conferma¬ta dalla Suprema corte alla stregua del principio sopra richiamato, aveva dichiarato inammissibile l’azione per il conseguimento della sentenza sostitutiva del consenso mancante proposta dal genitore che aveva proceduto al secondo riconoscimento, a fronte del dissenso espresso dal tutore, soggetto non legittimato, dovendosi invece completare la procedura amministrativa per il conseguimento del consenso del genitore che aveva riconosciuto per primo la figlia, benché sospeso dalla responsabilità genitoriale).
Il potere, spettante in via esclusiva al genitore che per primo ha riconosciuto il figlio infra-quattordicenne, di esprimere il consenso al secondo riconoscimento, da parte dell’altro genitore, costituisce un corollario della paternità (o maternità) e non della legale rappresentanza del minore nell’esercizio della potestà genitoriale, la cui sospensione, quindi, non gli impedisce di acconsentire al suddetto secondo riconoscimento, legittimando, in caso contrario, l’altro genitore a promuovere, ex art. 250 cod. civ., l’azione per ottenere la sentenza sostitutiva, in un procedimento nel quale il primo è litisconsorte necessario, insieme al minore, rappresentato dal tutore.
Trib. Taranto Sez. I, 7 maggio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’interesse del figlio al riconoscimento di cui all’art. 250 c.c. è definito come il complesso dei diritti che a lui derivano dal riconoscimento stesso ed, in particolare, del diritto alla identità personale nella sua precisa ed integrale dimensione psico-fisica. Ne deriva che, in caso di opposizione da parte del genitore che lo abbia già effettuato, il mancato riscontro di un interesse del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore richiedente, in quanto il sacrificio totale alla genitorialità può essere giustificato solo in presenza di gravi ed irreversibili motivi che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compressione dello sviluppo del minore e della sua salute psico-fisica.
Trib. Milano, 16 aprile 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il provvedimento giudiziale che autorizza il padre al riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio si limi¬ta ad autorizzare il genitore istante a riconoscere il minore, ma non equivale a riconoscimento, non potendosi escludere affatto che la parte, pur ottenuta l’autorizzazione, non dia corso al riconoscimento, proprio ed anche in ragione delle determinazioni giudiziali in punto di affidamento o di mantenimento, con la conseguenza che le sta¬tuizioni adottate, anche eventualmente in via provvisoria, rimarrebbero di fatto prive di effetto, in una situazione di efficacia quiescente rimessa alla volontà discrezionale della parte, situazione non compatibile con l’efficacia propria dei provvedimenti giurisdizionali, oltre a creare una situazione di potenziale pregiudizio per il minore con l’introduzione nella sua vita di una figura che poi non lo riconosce. Ne deriva che nell’interesse superiore del minore a vedersi immediatamente e in modo genuino riconosciuto dal genitore deve procedersi ad autorizzare il riconoscimento con una pronuncia parziale, disponendo la prosecuzione del giudizio in modo da consentire alla parte ricorrente di versare in atti la prova dell’avvenuto riconoscimento e di adottare poi, espletati, se del caso, i necessari accertamenti, tutti i provvedimenti ex art. 315-bis e 262 c.c., come previsto dall’art. 250 comma 2 ultimo capoverso c.c., introdotto dalla Legge 219/2012.
Cass. civ. Sez. I, 24 dicembre 2013, n. 28645 (Foro It., 2014, 2, 1, 485)
Nel procedimento proposto a seguito dell’opposizione del genitore che per primo abbia riconosciuto il figlio nato fuori dal matrimonio al successivo riconoscimento da parte dell’altro, il giudice deve procedere, a pena di nullità, all’ascolto del figlio, parte di quel procedimento, ovvero deve indicare le ragioni dell’omissione (nella specie, la Suprema corte ha cassato la sentenza di merito che si era limitata ad accertare che il secondo riconoscimento non era contrario all’interesse della minore, di circa nove anni di età, senza motivare sulle ragioni ostative all’a¬scolto della stessa, quali, ad esempio, l’insufficiente capacità di discernimento).
Nella interpretazione che è stata offerta dalla Corte costituzionale all’art. 250 c.c., con la sentenza n. 83 del 2011 – che ne ha per tale via confermato la conformità a Costituzione – essendo implicati nel procedimento de quo rilevanti diritti ed interessi del minore, ed in primo luogo quello all’accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse, questi, anche se di età inferiore a sedici anni, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica: sicché, in caso di opposizione dell’altro genitore al riconoscimento, egli gode di piena tutela dei suoi diritti ed interessi. Ne deriva che al detto minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 cod. civ.. E, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317-bis e 320 cod. civ.), qualora si prospettino situazioni di conflitto di interessi, anche in via potenziale, la tutela della sua posizione può essere in concreto attuata soltanto se sia autonomamente rappresentato e difeso in giudizio, mediante nomina di un terzo rappresentante.
Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27729 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’opposizione al riconoscimento ex art. 250 c.c. può essere accolta in caso di giudizio di inidoneità genitoriale del padre e di pericolo di compromissione dello sviluppo psico-fisico della minore in caso di riconoscimento della stessa da parte del genitore.
Ciò in base al vissuto dell’uomo ed alla sua personalità, tenuto conto che egli era cresciuto in un contesto difficile, caratterizzato da violenti litigi fra i genitori e dall’abuso da parte del padre di sostanze alcooliche, e che il facile ricorso alla violenza aveva sempre caratterizzato la vita del M., segnata anche dallo stato di detenzione per otto anni a seguito della commissione di un crimine consistito nell’aver provocato la morte di un coetaneo nel corso di una lite.
Cass. civ. Sez. I, 31 ottobre 2013, n. 24556 (Famiglia e Diritto, 2014, 10, 909 nota di LAI)
Nel procedimento previsto dall’art. 250 cod. civ., nel testo anteriore alla legge 10 dicembre 2012 n. 219, per conseguire una pronuncia in luogo del mancato consenso al riconoscimento del figlio infra-sedicenne da parte del genitore, che lo abbia già riconosciuto, pur essendo obbligatoria l’audizione del minore, come confermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 83 del 2011, non è configurabile alcun vizio ove l’espletamento dell’in¬combente sia reso oggettivamente impossibile dalla tenera età del minore (nella specie, di neppure due anni) e, quindi, sia omesso perché superfluo.
App. Napoli, 23 aprile 2013 (Famiglia e Diritto, 2013, 7, 718)
Nel procedimento di riconoscimento del figlio naturale, ai sensi dell’art. 250 c.c., deve essere sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone al riconoscimento, salvo che, per ragioni di età o per altre circo¬stanze da indicare con specifica motivazione, il minore stesso non sia in grado di sostenere l’audizione; qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, come nel caso in cui l’altro genitore si opponga al riconoscimento, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale.
App. Napoli Decreto, 17 aprile 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di procedimento innanzi al giudice minorile per conseguire il riconoscimento di un figlio minore, in ragione dell’opposizione dell’altro genitore, che abbia già proceduto al riconoscimento, il minore – anche infra-sedicenne – è parte sostanziale, e – in caso di conflitto di interessi, anche solo potenziale, con il genitore oppo¬nente – il giudice deve nominare un curatore speciale che lo rappresenti.
Trib. Catanzaro, 5 marzo 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La legge n. 219/2012, modificando l’art. 250 c.c., ha ammesso il riconoscimento del figlio da parte del genitore infra-sedicenne, sotto condizione dell’autorizzazione del giudice. Nel silenzio della legge, l’autorizzazione deve ri¬tenersi demandata alla competenza del Giudice Tutelare. In primo luogo, la legge ha attribuito al Giudice Tutelare il potere di accertamento della capacità naturale degli individui, al fine di verificarne l’idoneità al compimento di determinati atti. Inoltre, in questo senso, depone la particolare snellezza e deformalizzazione dei procedimenti di competenza del Giudice Tutelare, che assicurano di norma una particolare celerità nella decisione e si presenta¬no, pertanto, del tutto idonei alle esigenze di speditezza che simili casi richiedono. Per la competenza del giudice tutelare depone anche la circostanza che il provvedimento nel caso di specie richiesto all’Autorità Giudiziaria non risolve una questione contenziosa ma ha la funzione, in quanto autorizzatorio, di rimuovere un limite posto dall’ordinamento nei confronti di un soggetto superando, attraverso l’accertamento in concreto, la presunzione di incapacità ritenuta dal legislatore.
Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2012, n. 5884 (Famiglia e Diritto, 2012, 7, 653 nota di CARBONE)
Nel giudizio di opposizione al secondo riconoscimento di figlio naturale, ai sensi dell’art. 250, comma 4, c.c., il minore degli anni sedici dev’essere obbligatoriamente sentito, salvo che ne sia incapace per età o per altre ragioni che il giudice di merito deve indicare in motivazione.
Trib. Minorenni Palermo, 13 marzo 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’opposizione ed il rifiuto dell’un genitore al riconoscimento del figlio naturale richiesto dall’altro ed il paventato turbamento per la serenità familiare del minore in caso di riconoscimento, va necessariamente distinto e non può interferire con il primario diritto del minore a fruire di entrambe le figure genitoriali. Né un tale atteggiamento di rifiuto si configura come un impedimento a che le parti svolgano, in caso limite, autonomamente il proprio ruolo di padre e madre, in modo da favorire, ognuna per suo conto e sotto il controllo del Giudice minorile, una corretta crescita psicofisica del minore. Il diritto al secondo riconoscimento non si pone, dunque, in termini di contrasto con l’interesse del minorenne, consistente in un complesso di opportunità derivanti dal riconoscimento, fra cui riveste particolare importanza l’acquisizione della identità personale nella sua integrale e precisa dimensione psicofisica, come figlio di una madre e di un padre determinati. Peraltro, anche l’eventuale mancato riscontro di un ulteriore interesse effettivo e concreto del minore al riconoscimento non costituisce ostacolo all’attuazione di esso da parte del genitore, in caso di opposizione del genitore che vi ha proceduto per primo, in quanto il sacri-ficio della genitorialità è ammissibile solo quando sia accertata la esistenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da segnalare la compromissione del minore per effetto del riconoscimento.
Corte cost. Ordinanza, 10 novembre 2011, n. 301 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 250 del codice civile, sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 30, 31 e 111 Cost. in quanto identica questione è stata già dichiarata non fondata dalla sentenza n. 83 del 2011 e il rimettente non adduce elementi nuovi.
Corte cost., 11 marzo 2011, n. 83 (Giur. It., 2012, 2, 270 nota di GRISI)
È infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 250 c.c., sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 30, 31 e 111 Cost., dalla Corte di appello di Brescia, Sezione per i minorenni, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
a, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell›art. 250 c.c., in quanto nel giudizio promosso dal genitore naturale, a seguito dell›opposizione dell›altro genitore che abbia già operato il ricono¬scimento, al fine di effettuare a propria volta il riconoscimento, il giudice ha il potere di nominare un curatore speciale del minore, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 30, 31 e 111 Cost..
È infondata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 30, 31 e 111 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 250 c.c., dovendo la norma essere interpretata nel senso che, ove alla domanda di riconoscimento di un figlio naturale faccia opposizione il genitore che lo ha già riconosciuto, il giudice ha il potere di nominare un curatore speciale del minore.
Non è fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell›articolo 250 del codi¬ce civile, sollevata in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 30, 31 e 111 della Costituzione, in quanto per la fattispecie prevista dall›art. 250, quarto comma, cod. civ., il giudice, nel suo prudente apprezzamento e previa adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, può procedere alla nomina di un curatore speciale, avvalendosi della disposizione dettata dall›art. 78 cod. proc. civ., che non ha carattere eccezionale, ma costituisce piuttosto un istituto che è espressione di un principio generale, destinato ad operare ogni qualvolta sia necessario nomina¬re un rappresentante all›incapace. Invero, già la norma censurata stabilisce che debba essere sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone al riconoscimento (salvo che, per ragioni di età o per altre circostan¬ze da indicare con specifica motivazione, il minore stesso non sia in grado di sostenere l›audizione). Tale adem¬pimento, la cui importanza emerge dalla citata normativa convenzionale, dimostra che il minore infra-sedicenne, nella vicenda sostanziale e processuale che lo riguarda, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica, essendo implicati nel procedimento suoi rilevanti diritti e interessi, in primo luogo quello all›accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse. Ne deriva che al detto minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all›art. 250 cod. civ.. E, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317-bis e 320 cod. civ.), qualora si prospettino situazioni di conflitto d›interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale. Il che può avvenire su richiesta del pubblico ministero, o di qualunque parte che vi abbia interesse (art. 79 cod. proc. civ.), ma anche di ufficio, avuto riguardo allo specifico potere attribuito in proposito all›autorità giudiziaria dall›art. 9, primo comma, della citata Convenzione di Strasburgo.
Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2011, n. 2645 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento del figlio naturale, ai sensi dell’art. 250, quarto comma, cod. civ., costituisce un diritto sog¬gettivo sacrificabile solo in presenza di un pericolo di danno gravissimo per lo sviluppo psico-fisico del minore, correlato alla pura e semplice attribuzione della genitorialità. Pertanto, la mera pendenza di un processo penale a carico del genitore richiedente (nella specie concorso in alterazione di stato, abbandono ed illecito affidamen¬to di neonato a terzi) non integra condizione “ex sé” ostativa all’autorizzazione al riconoscimento; neppure la valutazione del rischio di un eventuale distacco del minore dall’attuale contesto di affidamento deve costituire interferenza ostativa al riconoscimento, posto che non vi è alcun nesso con il diritto alla genitorialità, potendo invece tale valutazione costituire oggetto di giudizio in diverso procedimento “ad hoc”.
Cass. civ. Sez. I, 5 giugno 2009, n. 12984 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nelle cause in cui il P.M. può assumere conclusioni solo nei limiti delle domande proposte dalle parti – come nel caso del procedimento disciplinato dall’art. 250 cod. civ., nel quale interviene obbligatoriamente ma non gli è riconosciuto il potere di impugnazione, non potendo proporre autonomamente il giudizio -, l’omissione o l’incom¬pletezza della trascrizione delle suddette conclusioni non comporta la nullità della sentenza, qualora non abbia determinato una mancata pronuncia sulle conclusioni non trascritte. (Nella specie, la S.C., esaminato il verbale d’udienza, e verificato che il P.M. aveva rassegnato le stesse conclusioni della parte privata, ha escluso la nullità della sentenza per aver il giudice motivato unitariamente).
Trib. Palermo Sez. minori, 26 gennaio 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La richiesta di riconoscimento dei figli naturali ai sensi dell’art. 250 c.c. è inammissibile qualora possa arrecare grave nocumento all’integrità psichica del minore (Nel caso di specie il Tribunale ha rigettato il ricorso per il riconoscimento di minore concepito a seguito di violenza sessuale).
Cass. civ. Sez. I, 31 dicembre 2008, n. 30688 (Foro It., 2009, 5, 1, 1450)
L’impugnazione della sentenza che definisce il procedimento camerale di autorizzazione al riconoscimento del figlio naturale infra-sedicenne, in difetto del consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimen¬to, richiede il deposito in cancelleria del ricorso entro trenta giorni dalla notifica della sentenza, ovvero, nel caso in cui l’impugnazione sia stata proposta con citazione a udienza fissa, il deposito dell’atto introduttivo entro lo stesso termine.
Nei procedimenti regolati dall’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile, che si svolgono con il rito camerale e si concludono con sentenza, la forma dell’appello è quella del ricorso e non quella della citazione, stante la previsione generale di cui all’art. 737 cod. proc. civ., rispondendo alla “ratio” del sistema che, tutte le volte in cui il legislatore abbia previsto il rito camerale per il primo grado di un determinato procedimento, tale rito debba ritenersi implicitamente adottato anche per il gravame proponibile avverso di esso, ancorchè non consista nel reclamo previsto dall’art. 739 cod. proc. civ.; ne consegue che anche nel procedimento previsto dall’art. 250, comma quarto, cod. civ., il termine breve per appellare è rispettato con il tempestivo deposito in cancelleria del ricorso entro trenta giorni dalla notifica della sentenza, mentre nel caso in cui l’impugnazione sia stata proposta con citazione a udienza fissa il gravame deve considerarsi tempestivamente e validamente pro¬posto solo ove il deposito della citazione avvenga entro il termine di trenta giorni dalla notifica della sentenza, essendo detto deposito l’atto con il quale, nei procedimenti camerali, l’impugnazione è proposta.
Cass. civ. Sez. I, 27 maggio 2008, n. 13830 (Foro It., 2008, 9, 1, 2457)
Posto che deve presumersi l’interesse del minore infra-sedicenne al riconoscimento da parte di entrambi i ge¬nitori, sul genitore che abbia già effettuato il riconoscimento, e che intenda opporsi a quello dell’altro, incombe l’onere della prova di fatti eccezionali, gravi ed irreversibili, tali da far ritenere in termini di accentuata probabilità che tale secondo riconoscimento possa seriamente compromettere lo sviluppo psicofisico del minore.
Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 2008, n. 4 (Nuova Giur. Civ., 2008, 9, 1, 1081 nota di CHECCHINI)
I padri naturali – che hanno avuto figli nati fuori dal matrimonio – hanno sempre il diritto a riconoscere, anche con molti anni di ritardo dalla nascita, i bambini che non hanno voluto quando sono nati dalle loro compagne, compreso il caso in cui il minore, dal riconoscimento tardivo, non tragga alcun interesse effettivo e concreto; l’istanza per ottenere il consenso giudiziale al riconoscimento può essere bloccata solo se vi è una forte probabi¬lità di una compromissione dello sviluppo del minore che giustifichi il sacrificio totale del diritto alla genitorialità.
L’interesse del figlio minore infra-sedicenne al riconoscimento della paternità naturale, di cui all’art. 250 c.c. è definito dal complesso dei diritti che a lui derivano dal riconoscimento stesso, e, in particolare, dal diritto alla identità personale nella sua precisa e integrale dimensione psicofisica. Pertanto, in caso di opposizione al riconoscimento da parte dell’altro genitore, che lo abbia già effettuato, il mancato riscontro di un interesse del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore richiedente, in quanto il sacrificio totale della genitorialità può essere giustificato solo in presenza di gravi e irreversibili motivi che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compromissione dello sviluppo del minore, e in particolare della sua salute psicofisica. La relativa verifica va compiuta in termini concreti dal giudice del merito, le cui conclusioni, ove logicamente e compiutamente motivate, si sottraggono a ogni sindacato di legittimità.
Cass. civ. Sez. I, 28 dicembre 2006, n. 27592 (Famiglia e Diritto, 2007, 12, 1113 nota di DE FEIS, TOM¬MASEO)
In tema di azione diretta ad ottenere una pronuncia sostitutiva del consenso dell’altro genitore, al fine del rico¬noscimento di figlio naturale infrasedicenne, nato da relazione adulterina, proposta dal padre, cittadino egiziano, trova applicazione in via esclusiva la legge italiana, atteso che quella egiziana è contraria all’ordine pubblico, perché esclude la possibilità del riconoscimento della filiazione naturale.
In tema di capacità di fare il riconoscimento del figlio, disciplinata – in base alle norme del diritto internazionale privato (art. 35, secondo comma, della legge 31 maggio 1995, n. 218) – dalla legge nazionale del genitore, il principio di ordine pubblico internazionale che riconosce il diritto alla acquisizione dello “status” di figlio naturale a chiunque sia stato concepito, indipendentemente dalla natura della relazione tra i genitori, costituisce un limite generale all’applicazione della legge straniera (nella specie, egiziana, recepente in materia di “statuto personale” il diritto islamico) che, attribuendo all’uomo la paternità unicamente nell’ipotesi in cui il figlio sia stato generato in un “rapporto lecito”, preclude al padre di riconoscere il figlio nato da una relazione extramatrimoniale. In tal caso, stante la rilevata contrarietà all’ordine pubblico internazionale della norma straniera applicabile in base al sistema di diritto internazionale privato, trova applicazione la corrispondente norma di diritto interno (art. 250 cod. civ.), la quale, in relazione alla capacità del padre di addivenire al riconoscimento del figlio naturale, si sostituisce inte¬gralmente alla norma straniera, ai sensi dell’art. 16, secondo comma, della citata legge n. 218 del 1995.
Trib. Minorenni Ancona, 29 maggio 2006 (Famiglia e Diritto, 2007, 4, 378 nota di BOLONDI)
Ai sensi dell’art. 45, comma 1, D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, l’Ufficiale dello Stato Civile ha l’obbligo di riceve¬re l’atto di riconoscimento del figlio naturale infra-sedicenne compiuto dal secondo genitore quando il consenso a detto riconoscimento da parte del genitore che per primo ha riconosciuto il figlio sia documentato in un verbale di udienza che è atto pubblico e, come tale, fa piena prova fino a querela di falso di quanto in esso risultante.
Cass. civ. Sez. I, 16 novembre 2005, n. 23074 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne, già riconosciuto da un genitore, da parte dell’altro genitore, costituisce un diritto soggettivo di natura primaria, tuttavia condizionato all’interesse del minore. Tale secondo riconoscimento può essere sacrificato soltanto in presenza di un fatto di importanza proporzionale al valore del diritto sacrificato, ossia solo ove sussista il pericolo di un pregiudizio così grave per il minore da com¬promettere seriamente il suo sviluppo psicofisico. (Enunciando il principio di cui in massima, la S.C. ha confer¬mato la decisione della corte d’appello, la quale, nel negare la pronuncia in luogo del mancato consenso, aveva ravvisato il pericolo della detta compromissione in ragione delle connotazioni fortemente negative della persona¬lità del genitore che intendeva procedere al secondo riconoscimento, essendo questi inserito nell’ambiente della criminalità organizzata ed attualmente detenuto per gravi reati).
Trib. Minorenni Emilia-Romagna Bologna, 23 aprile 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Sebbene il riconoscimento del figlio naturale sia diritto soggettivo primario del genitore, e si presuma lo specifico interesse del minore al riconoscimento, tuttavia, nel giudizio di opposizione al ricorso promosso del secondo genitore proponente domanda giudiziale di riconoscimento, qualora il minore adolescente non ancora legittimato all’assenso ex art. 250, co. 2, c.c., manifesti consapevole ed autonoma contrarietà al riconoscimento – per altro tardivo, del secondo genitore ricorrente – il diritto soggettivo del secondo genitore ricorrente non può prevale al punto di recare un pregiudizio psicofisico alla prole.
Cass. civ. Sez. I, 11 febbraio 2005, n. 2878 (Fam. Pers. Succ., 2006, 1, 73 nota di SCARANO)
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne, già riconosciuto da un genitore, è un diritto soggetti¬vo primario dell’altro genitore, costituzionalmente garantito dall’art. 30 Cost.; in quanto tale, esso non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, atteso il diritto del bambino ad identificarsi come figlio di una madre e di un padre e ad assumere, così, una precisa e completa identità. Ne consegue che il secondo riconoscimento, ove vi sia contrapposizione dell’altro genitore che per primo ha proceduto al riconoscimento, può essere sacrificato – anche alla luce degli artt. 3 e 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 (resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176) – solo in presenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da far ravvisare la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore. (Enunciando il principio di cui in massima, in un caso nel quale la richiesta del padre al tribunale di pronunciare sentenza in luogo del consenso mancante era stata presentata tre mesi dopo la nascita del bambino, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva escluso che costituisse impedimento al secondo riconoscimento la presunta inidoneità del padre naturale a svolgere il compito genitoriale, desumibile dall’avere questi dimostrato scarso interesse verso il figlio, prima e dopo la nascita).
Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2004, n. 21359 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento del figlio naturale la prescrizione riguardante l’audizione del minore, che non abbia compiuto sedici anni e che sia già stato riconosciuto da uno dei genitori, è rivolta a soddisfare l’esigenza di ac¬certare se il rifiuto del consenso del genitore che per primo abbia proceduto al riconoscimento risponda o meno all’interesse del figlio. Non è configurabile, pertanto, un potere di delega al consulente tecnico d’ufficio di una funzione che la legge riserva espressamente al giudice, per supplire all’assenso del figlio (se maggiore di sedici anni) ovvero al mancato consenso dell’altro genitore (se minore di sedici anni), a tutela dell’interesse morale del minore, ritenuto per la sua età non ancora capace di una valutazione personale pienamente attendibile rispetto a un evento suscettibile di incidere sul suo equilibrio e sulla sua vita di relazione.
Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2004, n. 21088 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Anche alla luce degli artt. 3 e 7 della convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo, il mancato rincontro di un interesse effettivo e concreto del minore ad essere riconosciuto dal proprio genitore non costituisce ostacolo all’esercizio del corrispondente diritto da parte di quest’ultimo ex art. 250 c.c., malgrado l’opposizione del genitore che per primo ha proceduto al riconoscimento.
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne già riconosciuto da un genitore costituisce oggetto di un diritto soggettivo dell’altro genitore, costituzionalmente garantito dall’art. 30 Cost., entro i limiti stabiliti dalla legge (art. 250 cod. civ.), cui rinvia la Costituzione, che non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, che è segnato dal complesso dei diritti che al minore derivano dal riconoscimento e, in particolare, dal diritto all’identità personale, inteso come diritto ad una genitorialità piena e non dimidiata. Ne consegue che, anche alla luce degli artt. 3 e 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 (resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176), il mancato riscontro di un interesse effettivo e concreto del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore ad ottenere il riconoscimento, nel caso di opposizione del genitore che per primo ha proce¬duto al riconoscimento, in quanto detto interesse va valutato in termini di attitudine a sacrificare la genitorialità, riscontrabile soltanto qualora si accerti l’esistenza di motivi gravi ed irreversibili che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compromissione dello sviluppo del minore, che giustifichi il sacrificio totale del diritto alla genitorialità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, secondo la quale il pregresso compor¬tamento del genitore, che aveva preteso l’aborto e non si era occupato della bambina, non autorizza a desumere che dal riconoscimento possano derivare alla minore pregiudizi gravi ed irreparabili, né ad escludere gli effetti vantaggiosi che, almeno in linea astratta, alla minore stessa dal riconoscimento possano derivare).
Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2004, n. 21088 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel caso di riconoscimento del figlio minore infra-sedicenne, solo la presenza di una probabile compromissione dello sviluppo psico-fisico dello stesso, giustifica il rifiuto del consenso dell’altro genitore.
Cass. civ. Sez. I, 4 agosto 2004, n. 14934 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento previsto dall’art. 250 c.c., quarto comma, il minore infra-sedicenne non assume la qualità di parte, divenendo tale solamente all’esito della nomina del curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c., secondo comma, in presenza di un conflitto d’interessi con il genitore legale rappresentante che si oppone al riconosci¬mento da parte dell’altro genitore naturale, determinandosi in tal caso una sorta di intervento “iussu iudicis” del minore stesso, a mezzo del suddetto curatore. Ne consegue che la sentenza emessa a chiusura del proce¬dimento deve essere notificata, ai fini della decorrenza del termine breve per la relativa impugnazione, anche al suddetto curatore, non determinandosi in difetto il passaggio in giudicato e la conseguente definitività della decisione, in ragione del mancato decorso di detto termine rispetto a tutte le parti in causa. [Principio enun¬ciato nell’ambito di un giudizio concernente la domanda di equa riparazione dei danni (lamentati per effetto di una durata del giudizio ex art. 250 c.c., quarto comma, prolungatasi, anche in ragione della condotta degli addetti alla Cancelleria, per quattro anni e cinque mesi e dedotta come irragionevole in considerazione pure della particolare semplicità del rito camerale e della delicatezza della vicenda in questione), proposta seppur in difetto di notificazione della sentenza emessa a conclusione del giudizio (anche) al curatore speciale nominato alla minore, e dal giudice di merito dell’impugnazione nondimeno ritenuta conclusiva del procedimento all’esito del decorso del termine breve per l’impugnazione fatto decorrere dalla relativa notifica effettuata solamente ai genitori e al P.M.).
Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11949 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne già riconosciuto da un genitore costituisce oggetto di un diritto soggettivo dell’altro genitore, costituzionalmente garantito dall’art. 30 Cost., entro i limiti stabiliti dalla legge (art. 250, c.c.), cui rinvia la Costituzione, che non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura di elemento di definizione dello stesso, che è segnato dal complesso dei diritti che al minore derivano dal riconoscimento e, in particolare, dal diritto all’identità paternale nella sua integrale e precisa dimensione psichica; pertanto il mancato riscontro di un interesse effettivo e concreto del minore non costituisce ostacolo all’esercizio del diritto del genitore ad ottener il riconoscimento, nel caso di opposizione del genitore che primo ha proceduto al riconoscimento, in quanto come interesse va valutato in termini di attitudine a sacrificare la genitorialità, riscontrabile soltanto qualora si accerti l’esistenza di motivi gravi ed irreversibili che inducano a ravvisare la forte probabilità di una comprossione dello sviluppo del minore, che giustifichi il sacrificio totale del diritto alla genitorialità. Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, secondo la quale la pregressa tossicodipendenza del genitore, superata all’esito di un programma volontario di recupero, e l’atteggiamento di ripulsa della madre del minore nei confronti del padre naturale non costituivano ostacolo al riconoscimento e non incidevano negativamente sull’interesse del minore al riconoscimento.
Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2003, n. 5115 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non sono incompatibili con gli articoli 3 e 7 della convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo i principi informatori della disciplina relativa al riconoscimento dei minori infrasedicenni di cui all’art. 250 cod. civ.
Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2003, n. 5115 (Famiglia e Diritto, 2003, 5, 445 nota di FIGONE)
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne, già riconosciuto da un genitore, rappresenta un dirit¬to soggettivo primario dell’altro genitore, che trova protezione nell’art. 30 Cost. e in quanto tale, non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, visto il diritto del nato ad identificarsi come figlio di un padre e di una madre e ad assumere, pertanto, una com¬pleta identità. Ne deriva che il secondo riconoscimento, in presenza dell’opposizione dell’altro genitore, ex art. 250, comma 3, c.c., può essere sacrificato solo in presenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da far supporre la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore.
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne, già riconosciuto da un genitore, è diritto soggettivo primario dell’altro genitore, costituzionalmente garantito dall’art. 30 della Costituzione: in quanto tale, esso non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, atteso il diritto del bambino ad identificarsi come figlio di una madre e di un padre e ad assumere così una precisa e completa identità. Ne consegue che il secondo riconoscimento, ove vi sia opposizione dell’altro genitore che per primo ha proceduto al riconoscimento, può essere sacrificato – anche alla luce degli artt. 3 e 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 (resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176) – solo in presenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da far ravvisare la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore. (Enunciando il principio di cui in massima, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva escluso che costituissero impedimento al secondo ricono¬scimento l’età del padre naturale, la sua residenza in una località lontana da quella di residenza della minore, nonché la mancanza, da parte sua, di un’attività lavorativa stabile e di un’autonoma abitazione).
Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 2003, n. 14 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di riconoscimento di figlio naturale, l’art. 250 c.c. che, nell’ipotesi di minore infrasedicenne, subordina la possibilità del secondo riconoscimento al consenso del genitore che detto consenso ha già effettuato, dispo¬ne altresì che al compimento del sedicesimo anno il minore divenga titolare di un autonomo potere di incidere sul diritto del secondo genitore al riconoscimento, configurando il suo assenso quale elemento costitutivo della efficacia del riconoscimento stesso. Ne consegue che il raggiungimento da parte del minore della “maggiore età” ritenuta dal legislatore adeguata ad esprimere un meditato giudizio determina il venir meno della necessità del consenso del primo genitore al riconoscimento da parte dell’altro genitore e, in difetto, dell’intervento del giudice. (Nel caso di specie la S.C., preso atto del compimento del sedicesimo anno del minore, ha dichiarato la cessazione della materia del contendere ed ha cassato senza rinvio la sentenza impugnata).
Cass. civ. Sez. I, 22 ottobre 2002, n. 14894 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne già riconosciuto da un genitore rappresenta un diritto soggettivo primario dell’altro genitore, costituzionalmente garantito, e – in quanto tale – non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, atteso il diritto di quest’ultimo ad identificarsi come figlio di una madre e di un padre e ad assumere una precisa e completa identità. Conseguentemente, il secondo riconoscimento, ove vi sia opposizione da parte dell’altro geni¬tore che per primo abbia proceduto al riconoscimento, può essere sacrificato solo in presenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da far ravvisare la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore.
App. Cagliari, 17 maggio 2001 (Pluris, Wolters-Kluwer Italia)
L’interesse del minore costituisce l’unico parametro di riferimento ai fini della valutazione della legittimità del rifiuto del consenso opposto dall’altro genitore al riconoscimento del figlio naturale. Tale indagine deve essere condotta alla luce della presunzione (semplice) dell’esistenza di un interesse del minore al richiesto riconosci¬mento sotto il profilo affettivo – spirituale non meno che sotto quello dei diritti all’istruzione, educazione, man¬tenimento ad esso conseguenti.
Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2001, n. 6470 (Nuova Giur. Civ., 2002, II, 294 nota di LENA)
Nel procedimento previsto dall’art. 250, comma 4, c.c., per conseguire una pronuncia che tenga luogo del man¬cato consenso dei genitore, che abbia già riconosciuto il figlio infra-sedicenne, al riconoscimento dello stesso minore da parte dell’altro genitore, il minore non assume la qualità di parte, ma ne è prevista l’audizione, sempre che ne sia capace per ragioni di età o per altre cause, sicchè in tale procedimento non insorge l’esigenza della nomina di un curatore speciale del minore nè la mancata previsione della necessità di tale nomina si pone in contrasto con gli art. 3, 31 e 111 cost., atteso che il minore risulta adeguatamente protetto dalla verifica che il tribunale per i minorenni è chiamato a compiere circa l’effettiva rispondenza all’interesse dei minore medesimo del secondo riconoscimento.
Il riconoscimento del figlio naturale minore infra-sedicenne, già riconosciuto da un genitore, è diritto soggettivo primario dell’altro genitore, costituzionalmente garantito dall’art. 30 cost.: in quanto tale, esso non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, atteso il diritto del bambino ad identificarsi come figlio di una madre e di un padre e ad assumere così una precisa e completa identità. Ne consegue che il secondo riconoscimento, ove vi sia opposizione dell’altro genitore che per primo ha proceduto al riconoscimento, può essere sacrificato solo in presenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da far ravvisare la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore.
Nel procedimento disciplinato dall’art. 250, comma 4, c.c., il vizio procedurale dipendente dalla mancata audi¬zione del minore deve essere espressamente dedotto dalle parti, non trattandosi di nullità rilevabile d’ufficio, ma di prescrizione rivolta a soddisfare unicamente l’esigenza di accertare se il rifiuto del consenso del genitore che per primo ha proceduto al riconoscimento risponda o meno all’interesse del minore.
App. Milano, 20 febbraio 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il procedimento instaurato ai sensi dell’art. 250, comma 4, c.c. è diretto in via esclusiva a conseguire una pronuncia giudiziale che tenga luogo del mancato consenso del genitore al riconoscimento del figlio naturale infra-sedicenne, ed ha pertanto ad oggetto l’accertamento se il riconoscimento risponda o meno all’interesse del minore, sicché resta estranea al giudizio ogni ulteriore e diversa valutazione, ivi compresa quella inerente la veridicità del rapporto di filiazione.
Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2000, n. 6784 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel procedimento di cui all’art. 250 c.c., l’audizione del minore è prevista quale prima fonte di convincimento del giudice sulla rispondenza del secondo riconoscimento all’interesse del minore medesimo e deve essere disposta anche d’ufficio col solo limite dell’incapacità del minore, per età o altra causa, a rendere dichiarazioni; in tal caso il giudice deve motivare in ordine alle ragioni che hanno impedito l’incombente, al fine di consentirne il controllo. (Nella specie la S.C. ha escluso fosse incorso in violazione di legge il giudice di merito, che aveva escluso l’audi¬zione in ragione dell’età del minore, cinque anni).
Cass. civ. Sez. I, 22 febbraio 2000, n. 1990 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il riconoscimento di un figlio naturale minore, già riconosciuto da un genitore, è diritto soggettivo primario dell’altro genitore, che, ancorché condizionato all’interesse del minore, è costituzionalmente garantito dall’art. 30 cost. e, come tale, non può essere disconosciuto sulla sola base di una condotta morale non esente da cen¬sure, di per sé rilevante per il diverso fine dell’affidamento.
Cass. civ. Sez. I, 27 ottobre 1999, n. 12077 (Dir. Famiglia, 2001, 536 nota di GALOPPINI)
In tema di autorizzazione al riconoscimento di figlio naturale, la mera diversità culturale, di origini, di etnia e di re¬ligione non può di per sé costituire elemento significativo ai fini dell’esclusione dell’interesse del minore all’acqui¬sizione della doppia genitorialità. Tuttavia, il fanatismo religioso. (Nella specie, si trattava di genitori di nazionalità e religioni diverse) può assumere rilievo dirimente qualora si traduca in un’indebita compressione dei diritti di li¬bertà del minore o in un pericolo per la sua crescita secondo i canoni generalmente riconosciuti dalle società civili.
È infondata, in fatto e in diritto, nonché contraria all’interesse del minore l’opposizione ex art. 250 c.c., della madre italiana, che ha riconosciuto per prima, al riconoscimento richiesto dall’altro genitore, peraltro alieno da gesti ed atteggiamenti prevaricatori e del tutto integrato nel tessuto socioculturale italiano, qualora l’opposizione abbia a basarsi unicamente sull’etnia e la confessione religiosa di quest’ultimo (arabo e di religione musulmana) e sul conseguente timore che la figlia, acquistando la cittadinanza tunisina e frequentando il padre, possa avere grave danno sia dalla sua sottoposizione all’ordinamento giuridico tunisino, fondato su di una concezione unitaria della religione e dello Stato sulla deteriore condizione, sotto ogni riguardo, della donna rispetto all’uomo, sia dall’integralismo religioso e politico dei musulmani; la bambina, invero, che conserva, malgrado il riconoscimento, la cittadinanza italiana, può e potrà sempre contare sulla tutela dei diritti fondamentali ad ogni persona garantita dall’ordinamento italiano, fermo restando che il principio di laicità di cui all’art. 8 cost. impedisce che ogni confessione religiosa possa essere in sè anteposta o posposta alle altre.
Cass. civ. Sez. I, 29 aprile 1999, n. 4325 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il procedimento previsto dall’art. 250, comma 4, c.c. per conseguire dal tribunale una pronuncia che tenga luogo del mancato consenso al riconoscimento del figlio minore, da parte del genitore che abbia già effettuato tale riconoscimento, è volto esclusivamente ad accertare se il secondo riconoscimento risponde all’interesse del minore stesso, sicché in esso resta irrilevante ogni indagine sulla veridicità del secondo riconoscimento, indagine – questa – che presuppone il riconoscimento e che può essere svolta in separato giudizio, ove il riconoscimento autorizzato a norma dell’art. 250 venga impugnato ex art. 263 c.c. Un siffatto accertamento non può essere quindi svolto nel giudizio di cui all’art. 250, se non al limitato fine – in presenza di contestazioni della controparte, di verificare, ma solo “incidenter tantum”, la legittimazione attiva del richiedente.
Cass. civ. Sez. I, 26 aprile 1999, n. 4148 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al pari di quanto accade in tema di controversie in tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale di minori, anche nel procedimento previsto dall’art. 250, comma 4, c.c., avente ad oggetto l’indagine sulla legittimità del rifiuto al secondo riconoscimento opposto dal genitore che per primo abbia riconosciuto il figlio, il termine breve per appellare è rispettato con il tempestivo deposito in cancelleria del ricorso entro trenta giorni dalla notifica della sentenza, mentre, nel caso in cui l’impugnazione sia stata proposta con citazione a udienza fissa, il gravame deve considerarsi tempestivo e validamente proposto purché il deposito della citazione avvenga entro il termine di trenta giorni dalla notifica della sentenza, essendo detto deposito l’atto con il quale, nei procedimenti camerali, l’impugnazione è proposta.

TRASCRIZIONE di Gianfranco Dosi

I Trascrizione e pubblicità
Il sistema della “pubblicità” dei fatti giuridici è lo strumento che l’ordinamento appresta per rendere certi nei confronti dei terzi gli avvenimenti giuridici. A carico delle parti di un rapporto giuridico la legge pone l’obbligo di eseguire determinati oneri che producono l’effetto di dare pubblicità al rapporto giuridico. I mezzi di pubblicità legale sono predisposti, perciò, per rendere facilmente conoscibili determinati fatti o atti giuridici, dando agli interessati la possibilità oggettiva di venirne a conoscenza, in modo da assicurare la certezza dei rapporti giuridici.
L’ordinamento giuridico, tuttavia, non attribuisce una identica funzione a tutti i tipi esistenti di pubblicità dei fatti giuridici individuando effetti diversi in relazione ai quali si parla tradizionalmente di pubblicità notizia, di pubblicità dichiarativa e di pubblicità costitutiva volendo riferirsi con queste tre espressioni a diverse funzioni di tutela assolta dalla pubblicità.
Così, accanto alla funzione generica di informare – comune ai tre diversi tipi di pubblicità – la pubblicità ha in molti casi la funzione di dare conoscenza legale dei fatti per i quali è prevista, in modo tale che una volta effettuata la pubblicità nelle forme di legge, il fatto si considera conosciuto e nessuno può legittimamente ignorarlo, quand’anche non ne avesse avuto effettiva conoscenza (pubblicità notizia). Si tratta in questo caso della funzione più ovvia della pubblicità posta a tutela delle certezza dei rapporti giuridici. La pubblicità notizia si limita, perciò, a dare notizia di deter¬minati fatti, senza che la sua omissione impedisca ai medesimi di produrre i loro effetti giuridici o ne determini l’invalidità.
La trascrizione (degli atti di stato civile) è, appunto, uno dei mezzi più importanti di pubblicità noti¬zia previsti dalla legge. Ne sono altri esempi le pubblicazioni matrimoniali (art. 93) e l’annotazione a margine dell’atto di nascita di provvedimenti sullo status.
In tutti questi casi l’atto pubblicizzato nel modo previsto ha piena validità senza che il terzo possa dichiarare di non averne avuto conoscenza. Ove l’atto non fosse pubblicizzato ha ugualmente va¬lore ma sarà l’interessato che deve dimostrare che il terzo ne era comunque a conoscenza.
In altri casi (trascrizione immobiliare, annotazione delle convenzioni matrimoniali, registrazione dei contratti di convivenza, registro delle imprese) la funzione della pubblicità è quella, cosiddet¬ta dichiarativa, di rendere opponibili determinati fatti solo se sono fatti oggetto di pubblicità. In queste ipotesi, quindi, lo strumento giuridico pubblicitario predisposto dall’ordinamento non ha lo scopo generico di assicurare la conoscibilità legale dell’atto (che quindi è sempre opponibile a tutti), ma proprio la sua opponibilità (cioè la possibilità di farlo valere nei confronti di determinati terzi). Il mancato assolvimento della pubblicità rende perciò l’atto inopponibile (nei confronti dei terzi o di taluni terzi), pur restando valido ed efficace. L’omissione della pubblicizzazione dell’atto, pertanto, in questi casi impedisce che il fatto possa produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi.
In altre ipotesi ancora (il più noto dei quali è l’iscrizione di ipoteca) la funzione della pubblicità è quella, chiamata costitutiva, di garantire l’esistenza in sé dell’atto, nel senso che senza l’osservan¬za della forma di pubblicità voluta dalla legge l’atto non produce effetti. Qui la pubblicità è requisito necessario affinché la fattispecie si perfezioni, sicché in sua mancanza l’atto è privo di validità e non produce effetti nei confronti di chiunque (quindi né tra le parti del negozio giuridico, né verso i terzi). Essa è, dunque, un vero e proprio obbligo ai fini dell’efficacia e della validità dell’atto.
La distinzione nelle tre forme tradizionali di pubblicità notizia, pubblicità dichiarativa e pubblicità costitutiva è quindi sostanzialmente una distinzione degli effetti, che conseguono alla sua omissione. La mancanza della pubblicità notizia (per esempio determinata dall’assenza o dal ritardo dell’annotazione del divorzio nell’atto di matrimonio) non rende certo l’interessato ancora legato da vincolo matrimoniale e ove di tale omissione un terzo dovesse aver approfittato, consente all’interessato di provare che il terzo ne era comunque a conoscenza. La mancanza degli adempimenti di pubblicità dichiarativa (per esempio l’omissione della annotazione del fondo patri¬moniale) rende l’atto inopponibile ai terzi. La mancanza di pubblicità costitutiva non fa acquistare alcuna rilevanza all’atto realizzato senza l’adempimento prescritto.
II Le formalità di formazione gli atti di stato civile
a) Iscrizioni, trascrizioni e annotazioni
L’ordinamento di stato civile (DPR 3 novembre 2000, n. 396) attribuisce all’art. 5 all’ufficiale di stato civile la funzione primaria di formare tutti gli atti concernenti lo stato civile (cittadinanza, nascita, matrimonio, morte, unione civile), nonché quella di archiviarli, conservarli, aggiornarli, rilasciarne copie e verificare le dichiarazioni delle parti.2
La formazione e la redazione degli atti di stato civile avviene obbligatoriamente (art. 12 DPR 396/2000) secondo modalità e formule stabilite con decreto del Ministero (attualmente il decreto che contiene tutte le formule è il decreto del 5 aprile 2002 e successive modificazioni). Gli atti di nascita, di morte, di matrimonio e di unione civile, sono formati in genere nel Comune in cui tali fatti accadono ma se il Comune in cui l’atto è formato è diverso da quello di residenza degli interessati, gli atti devono essere comunicati dall’ufficiale di stato civile che li forma all’ufficiale di stato civile del Comune di residenza degli interessati (art. 12 DPR 396/2000).
La redazione degli atti di stato civile (nel Comune o comunque relativi ai soggetti residenti avviene principalmente attraverso tre diverse formalità.
Il primo tipo di formalità è l’iscrizione dell’atto cioè in sostanza e prevalentemente la registrazio¬ne che l’ufficiale di stato civile fa dell’atto che avviene davanti a lui (art. 63, primo comma DPR 396/2000 per l’atto di matrimonio).
Il secondo tipo di formalità – omogeneo all’iscrizione – è la trascrizione dell’atto, cioè la registra¬zione che l’ufficiale di stato civile fa di un atto di un atto redatto da altri (art. 63, secondo comma, DPR 396/2000 che indica i casi trascrizione dell’atto di matrimonio celebrato per esempio dai ministri del culto o in un Comune diverso da quello in cui sono state fatte le pubblicazioni o cele¬brato all’estero ovvero la nullità o il divorzio pronunciati all’estero e la delibazione delle sentenze di nullità ecclesiastiche.
Il terzo tipo di formalità è l’annotazione con cui si segnalano a margine dell’atto eventi particolari. L’atto di nascita è formato e conservato nel Comune in cui avviene la nascita (art. 30, comma 4 DPR 396/2000) e vi si annotano gli eventi indicati nell’art. 49 (adozione, tutela, interdizione, am¬ministrazione di sostegno, nullità del matrimonio, atti di riconoscimento, sentenze sulla filiazione, provvedimenti di modifica del nome e cognome, atti di morte e altri). L’atto di matrimonio si forma nel comune in cui avviene la celebrazione (art. 63) e a margine di esso vi si annotano gli eventi indicati nell’art. 69 (convenzioni matrimoniali, ricorsi di divorzio, sentenze di nullità, di divorzio, di separazione, omologa della separazione, dichiarazione di riconciliazione).
b) Iscrizioni e trascrizioni degli atti di matrimonio
Secondo l’art. 63 dell’Ordinamento di stato civile dedicato alle “iscrizioni” e alle “trascrizioni” rela¬tivamente agli atti di matrimonio, si prevede che
1. Negli archivi di cui all’articolo 10, l’ufficiale dello stato civile iscrive:
a) gli atti dei matrimoni celebrati davanti a lui;
b) gli atti dei matrimoni celebrati fuori dalla casa comunale a norma dell’articolo 110 del codice civile;
c) gli atti dei matrimoni celebrati in caso di imminente pericolo di vita di uno degli sposi, ai sensi dell’articolo 101 del codice civile;
d) gli atti dei matrimoni celebrati per richiesta, ai sensi dell’articolo 109 del codice civile;
e) gli atti dei matrimoni celebrati per procura;
f) gli atti del matrimonio ai quali, per la particolarità del caso, non si adattano le formule stabilite;
g) le dichiarazioni con le quali i coniugi separati manifestano la loro riconciliazione, ai sensi dell’articolo 157 del codice civile.
g-ter) gli accordi di separazione personale, di scioglimento o di cessazione degli ef¬fetti civili del matrimonio ricevuti dall’ufficiale dello stato civile, nonché di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio;
2. Nei medesimi archivi l’ufficiale dello stato civile trascrive:
a) gli atti dei matrimoni celebrati nello stesso comune davanti ai ministri di culto;
b) gli atti dei matrimoni, celebrati ai sensi dell’articolo 109 del codice civile, trasmes¬si all’ufficiale dello stato civile dei comuni di residenza degli sposi;
c) gli atti dei matrimoni celebrati all’estero;
d) gli atti dei matrimoni celebrati dinanzi all’autorità diplomatica o consolare stranie¬ra in Italia fra cittadini stranieri quando esistono convenzioni in materia;
e) gli atti e i processi verbali dei matrimoni celebrati in caso di imminente pericolo di vita di uno degli sposi, a norma degli articoli 204, 208 e 834 del codice della navigazione;
f) le sentenze dalle quali risulta la esistenza del matrimonio;
g) le sentenze e gli altri atti con cui si pronuncia all’estero la nullità, lo scioglimento, la cessazione degli effetti civili di un matrimonio ovvero si rettifica in qualsiasi modo un atto di matrimonio già iscritto o trascritto negli archivi di cui all’articolo 10;
h) le sentenze della corte di appello previste dall’articolo 17 della legge 27 maggio 1929, n.847, e dall’articolo 8, comma 2, dell’accordo del 18 febbraio 1984 tra la Repubblica italiana e la Santa Sede ratificato dalla legge 25 marzo 1985, n.121;
h-bis) gli accordi raggiunti a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato ovvero autorizzati, conclusi tra coniugi al fine di raggiungere una so¬luzione consensuale di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio, nonché di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.
3. Gli atti indicati nelle lettere a) e b) del comma 2 devono essere trascritti per intero.
c) Le annotazioni negli atti di nascita
Vanno considerate forme di pubblicità notizia le annotazioni a margine dell’atto di nascita previste dalla legge in caso di provvedimenti relativi allo status delle persone.
Si pensi per esempio ai provvedimenti di adozione di maggiorenni e di minori di età. A tale proposi¬to l’art. 314 c.c. (per l’adozione di maggiorenni e di minori in casi particolari ex art. 44 della legge 4 maggio 1983, n. 184) prescrive che “La sentenza definitiva che pronuncia l’adozione è trascritta a cura del cancelliere del tribunale competente, entro il decimo giorno successivo a quello della relativa comunicazione, da effettuarsi non oltre cinque giorni dal deposito, da parte del cancelliere del giudice dell’impugnazione, su apposito registro e comunicata all’ufficiale di stato civile per l’an¬notazione a margine dell’atto di nascita dell’adottato. Con la procedura di cui al primo comma deve essere altresì trascritta ed annotata la sentenza di revoca della adozione, passata in giudicato”.
Per l’adozione dei minori di età dichiarati in stato di adottabilità l’art. 26, quarto comma, della leg¬ge 4 maggio 1983, n. 184 prescrive che “La sentenza che pronuncia l’adozione, divenuta definitiva, è immediatamente trascritta nel registro di cui all’articolo 18 e comunicata all’ufficiale dello stato civile che la annota a margine dell’atto di nascita dell’adottato”.
Per le tutele l’ultimo comma dell’art. 383 c.c. prescrive che “Dell’apertura e della chiusura della tu¬tela il cancelliere dà comunicazione entro dieci giorni all’ufficiale dello stato civile per l’annotazione in margine all’atto di nascita del minore”.
Per quanto concerne l’interdizione l’art. 423 del codice civile prevede che “Il decreto di nomina del tutore o del curatore provvisorio e la sentenza d’interdizione o d’inabilitazione devono essere im¬mediatamente annotati a cura del cancelliere nell’apposito registro e comunicati entro dieci giorni all’ufficiale dello stato civile per le annotazioni in margine all’atto di nascita”.
Per quanto riguarda l’amministrazione di sostegno l’art. 405 prescrive all’ultimo comma che “Il decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno, il decreto di chiusura ed ogni altro provvedi¬mento assunto dal giudice tutelare nel corso dell’amministrazione di sostegno devono essere im¬mediatamente annotati a cura del cancelliere nell’apposito registro. Il decreto di apertura dell’am¬ministrazione di sostegno e il decreto di chiusura devono essere comunicati, entro dieci giorni, all’ufficiale dello stato civile per le annotazioni in margine all’atto di nascita del beneficiario. Se la durata dell’incarico è a tempo determinato, le annotazioni devono essere cancellate alla scadenza del termine indicato nel decreto di apertura o in quello eventuale di proroga”.
L’art. 49 bis disp. att. cod. civ. indica il contenuto delle annotazioni che vanno effettuate a cura del Cancelliere nel registro delle amministrazioni di sostegno.
L’art. 10 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 e successive modificazioni prescrive che “La sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, quando sia passata in giudicato, deve essere trasmessa in copia autentica, a cura del cancelliere del tribunale o della Corte che l’ha emessa, all’ufficiale dello stato civile del comune in cui il matrimonio fu trascritto, per le annotazioni…”.Cass. civ. Sez. I, 8 luglio 1977, n. 3038 ha chiarito che tutti gli effetti della sentenza di divorzio – sia quelli personali che quelli patrimoniali – si producono tra le parti, i loro eredi o aventi causa, dal momento del suo passaggio in giudicato, secondo i principi generali con¬tenuti negli artt 2908 e 2909 Cod. civ., mentre l’annotazione (o meglio, la trascrizione) nei registri dello stato civile, a norma dell’art. 10 della legge n. 898 del 1970, attiene unicamente agli effetti erga omnes della pronuncia stessa, in considerazione dell’efficacia non costitutiva, dello status delle persone fisiche, che è propria dei registri dello stato civile.
E così per molti altri provvedimenti sullo status.
Come conseguenza delle disposizioni sopra indicate e di altre che prevedono analoghi incombenti, il DPR 3 novembre 2000, n. 396 (Ordinamento di stato civile) all’art. 49 prevede l’annotazione negli atti di nascita dei provvedimenti sullo status, precisando che:
Negli atti di nascita si annotano:
a) i provvedimenti di adozione e di revoca;
b) i provvedimenti di revoca o di estinzione dell’affiliazione;
c) le comunicazioni di apertura e di chiusura della tutela, eccettuati i casi di interdi¬zione legale;
d) i decreti di nomina e di revoca del tutore o del curatore provvisorio in pendenza del giudizio di interdizione o di inabilitazione;
e) le sentenze di interdizione o di inabilitazione e quelle di revoca;
f) gli atti di matrimonio e le sentenze dalle quali risulta l’esistenza del matrimonio;
g) le sentenze che pronunciano la nullità, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio;
g-bis) gli accordi raggiunti a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato ovvero autorizzati, conclusi tra coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di cessazione degli effetti civili del matrimonio e di scioglimento del matrimonio;
g-ter) gli accordi di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ricevuti dall’ufficiale dello stato civile;
h) i provvedimenti della corte di appello previsti nell’articolo 17 della legge 27 mag¬gio 1929, n. 847, e le sentenze con le quali si pronuncia l’annullamento della trascri¬zione di un matrimonio celebrato dinanzi ad un ministro di culto;
i) gli atti e i provvedimenti riguardanti l’acquisto, la perdita, la rinuncia o il riacquisto della cittadinanza italiana;
j) le sentenze dichiarative di assenza o di morte presunta e quelle che, a termini dell’articolo 67 del codice civile, dichiarano la esistenza delle persone di cui era stata dichiarata la morte presunta o ne accertano la morte;
k) gli atti di riconoscimento di filiazione naturale, in qualunque forma effettuati;
l) le domande di impugnazione del riconoscimento, quando ne è ordinata l’annota¬zione, e le relative sentenze di rigetto;
m) le sentenze che pronunciano la nullità o l’annullamento dell’atto di riconoscimen¬to;
n) le legittimazioni per susseguente matrimonio o per provvedimento del giudice e le sentenze che accolgono le relative impugnazioni;
o) le sentenze che dichiarano o disconoscono la filiazione legittima;
p) i provvedimenti che determinano il cambiamento o la modifica del nome cognome relativi alla persona cui l’atto si riferisce; quelli che determinano il cambiamento o la modifica del cognome relativi alla persona da cui l’intestatario dell’atto ha derivato il cognome, salvi i casi in cui il predetto intestatario, se maggiorenne, si sia avvalso della facoltà di poter mantenere il cognome precedentemente posseduto;
q) le sentenze relative al diritto di uso di uno pseudonimo;
r) gli atti di morte;
s) i provvedimenti di rettificazione che riguardano l’atto già iscritto o trascritto nei registri.
L’annotazione di tutti i provvedimenti sopra richiamati nell’atto di nascita assolve a funzioni di pubblicità notizia, dal momento che la legge non subordina alla pubblicità l’opponibilità dell’atto, che quindi è pienamente valido ed efficace anche ove non fosse trascritto o fosse trascritto dopo molto tempo, come spesso avviene.
d) Le annotazioni negli atti di matrimonio
Sono considerate ugualmente forme di pubblicità notizia le annotazioni a margine dell’atto di ma¬trimonio.
Secondo quanto dispone l’art. 69 dell’Ordinamento di stato civile, nell’atto di matrimonio si fa annotazione:
a) della trasmissione al ministro di culto della comunicazione dell’avvenuta trascri¬zione dell’atto di matrimonio da lui celebrato;
b) delle convenzioni matrimoniali, delle relative modificazioni, delle sentenze di omologazione di cui all’articolo 163 del codice civile, delle sentenze di separazione giudiziale dei beni di cui all’articolo 193 del codice civile, e della scelta della legge applicabile ai loro rapporti patrimoniali ai sensi dell’articolo 30, comma 1, della legge 31 maggio 1995, n. 218;
c) dei ricorsi per lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, e delle relative pronunce;
d) delle sentenze, anche straniere, di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio; di quelle che dichiarano efficace nello Stato la pronuncia straniera di nullità o di scioglimento del matrimonio; di quelle che dichiarano efficace nello Stato la pronuncia dell’autorità ecclesiastica di nullità del matrimonio; e di quelle che pronunciano la separazione personale dei coniugi o l’omologazione di quella consensuale;
d-bis) gli accordi raggiunti a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato ovvero autorizzati, conclusi tra coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimo¬nio, di scioglimento del matrimonio.
d-ter) degli accordi di separazione personale, di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ricevuti dall’ufficiale dello stato civile;
e) delle sentenze con le quali si pronuncia l’annullamento della trascrizione dell’atto di matrimonio;
f) delle dichiarazioni con le quali i coniugi separati manifestano la loro riconciliazione;
g) delle sentenze dichiarative di assenza o di morte presunta di uno degli sposi e di quelle che dichiarano l’esistenza dello sposo di cui era stata dichiarata la morte presunta o ne accertano la morte;
h) dei provvedimenti che determinano il cambiamento o la modificazione del cogno¬me o del nome o di entrambi e dei provvedimenti di revoca relativi ad uno degli sposi;
i) dei provvedimenti di rettificazione.

III La trascrizione degli atti di stato civile formati all’estero
Il titolo IV dell’Ordinamento di stato civile (dall’articolo 15 all’articolo 20) si occupa degli atti dello stato civile formati all’estero.
Si prevede che le dichiarazioni di nascita e di morte relative a cittadini italiani nati o deceduti all’estero sono rese all’autorità consolare e che devono farsi secondo le norme stabilite dalla legge del luogo alle autorità locali competenti. In questi casi copia dell’atto è inviata immediatamente, a cura del dichiarante, all’autorità diplomatica o consolare.
Per quanto attiene al matrimonio si chiarisce all’artt. 16 che il matrimonio all’estero, quando i coniugi sono entrambi cittadini italiani o uno di essi è cittadino italiano e l’altro è cittadino stranie¬ro, può essere celebrato innanzi all’autorità diplomatica o consolare competente, oppure innanzi all’autorità locale secondo le leggi del luogo. In quest’ultimo caso una copia dell’atto è rimessa a cura degli interessati all’autorità diplomatica o consolare.
Secondo poi quanto prevede l’art. 17 l’autorità diplomatica o consolare trasmette ai fini della tra¬scrizione copia degli atti e dei provvedimenti relativi al cittadino italiano formati all’estero all’uffi¬ciale dello stato civile del comune in cui l’interessato ha o dichiara che intende stabilire la propria residenza, o a quello del comune di iscrizione all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero o, in mancanza, a quello del comune di iscrizione o trascrizione dell’atto di nascita, ovvero, se egli è nato e residente all’estero, a quello del comune di nascita o di residenza della madre o del padre di lui, ovvero dell’avo materno o paterno. Se i coniugi risiedono in comuni diversi l’atto di matri¬monio è inviato ad entrambi i comuni. Nel caso in cui non è possibile provvedere con i criteri sopra indicati, l’interessato, su espresso invito dell’autorità diplomatica o consolare, dovrà indicare un comune a sua scelta.
Fondamentale è l’art. 18 (Casi di intrascrivibilità) in cui si prevede che “Gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se sono contrari all’ordine pubblico”.
Su richiesta dei cittadini stranieri residenti in Italia – chiarisce poi l’art. 19 – possono essere trascritti, nel comune dove essi risiedono, gli atti dello stato civile che li riguardano formati all’estero. Tali atti devono essere presentati unitamente alla traduzione in lingua italiana e alla legalizzazione, ove prescritta, da parte della competente autorità straniera. Possono altresì esse¬re trascritti gli atti dei matrimoni celebrati fra cittadini stranieri dinanzi all’autorità diplomatica o consolare straniera in Italia, se ciò è consentito dalle convenzioni vigenti in materia con il Paese cui detta autorità appartiene.
IV La contrarietà all’ordine pubblico come limite di trascrivibilità degli atti di stato civile formati all’estero
Come si è visto, l’art. 18 dell’Ordinamento di stato civile prevede che “Gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se sono contrari all’ordine pubblico”.
Lo stesso limite è previsto per il riconoscimento delle sentenze straniere3 sebbene nell’ambito delle norme di diritto internazionale privato (articoli 16 e 64 lett. g della legge 31 maggio 1995, n. 218; art. 24 lett. a del Regolamento n. 4/2009 e art. 22 lett. a e 23 lett. a del Regolamento n. 2201/2003) vale il principio dell’automatico riconoscimento della decisione straniera salvo il caso in cui la decisione da riconoscere sia contestata o debba essere oggetto di esecuzione.
Il tema del contrasto dell’atto di stato civile straniero o della sentenza straniera con i principi dell’ordine pubblico è molto vasto e si può rinviare alla voce apposita4.
In questa sede è però opportuno ricordare che la nozione civilistica di ordine pubblico ha due signi¬ficati diversi. Si parla di ordine pubblico interno allorché lo si considera come un limite di validità dell’autonomia privata, mentre si parla di ordine pubblico internazionale – che è pur sempre, però, una nozione di carattere interno e non certo internazionale – allorché lo si considera come limite all’applicazione di norme o sentenze straniere.
La nozione di ordine pubblico internazionale è relativamente nuova nel nostro sistema giuridico e si deve soprattutto alla disciplina di diritto internazionale privato introdotta nel 1995 con la legge 31 maggio 1995, n. 218. Prima di tale normativa – che ha mutato radicalmente l’ottica dei rapporti tra il nostro ordinamento e quelli stranieri mettendo tutti gli ordinamenti nazionali su uno stesso piano – era concepibile solo una nozione interna di ordine pubblico alla quale appunto faceva rife¬rimento il previgente art. 797 c.p.c. (dove si prevedeva che la delibazione della sentenza straniera era ammessa solo non contiene “disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano”). Ora che le sentenze e i provvedimenti stranieri hanno efficacia in Italia “senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento” (articoli 64 e 66 legge 218/95), lo sbarramento all’ingresso di provvedimenti e norme straniere è regolato da principi di più ampia portata. Si tratta dei principi fondamentali della nostra Costituzione e in quelle altre regole che, pur non trovando in essa collocazione, ri¬spondono all’esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo, o che in¬formano l’intero ordinamento in modo tale che la loro lesione si traduce in uno stravolgimento dei valori fondanti dell’intero assetto ordinamentale (Cass. civ. Sez. lavoro, 26 novembre 2004, n. 22332; Cass. civ. Sez. lavoro, 4 maggio 2007, n. 10215). Sul concetto di ordine pubblico internazionale rimane fondamentale Cass. civ. Sez. I, 6 dicembre 2002 n. 17349 secondo cui il concetto di ordine pubblico di cui all’art. 64 lett. g della legge n. 218 del 1995 non si identifica più con il cosiddetto ordine pubblico interno – e, cioè, con qualsiasi norma imperativa dell’ordinamen¬to civile – bensì con quello di ordine pubblico internazionale, costituito dai principi fondamentali unanimemente riconosciuti a livello europeo e internazionale anche pattizio caratterizzanti l’atteg¬giamento etico – giuridico dell’ordinamento in un determinato periodo storico.
Nel ricercare i principi fondamentali dell’ordinamento italiano, il giudice quindi deve tener conto delle regole e dei principi entrati a far parte del nostro sistema giuridico in virtù del suo conformar¬si ai precetti del diritto internazionale, sia generale che pattizio, e del diritto dell’Unione europea.
Secondo Cass. civ. Sez. I, 30 settembre 2016, n. 19599 il giudice italiano, chiamato a valu¬tare la compatibilità con l’ordine pubblico dell’atto di stato civile straniero, i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, a norma degli artt. 16, 64 e 65 della legge 31 maggio 1995, n. 218 e dell’art. 18 del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, deve verificare non già se l’atto straniero applichi una di¬sciplina della materia conforme o difforme rispetto ad una o più norme interne, seppure imperative o inderogabili, ma se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta Costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
V Il ricorso avverso il diniego di trascrizione (il procedimento di “rettificazione” degli atti di stato civile)
a) il procedimento
L’ordinamento di stato civile agli articoli 95 e 96 prevede un procedimento chiamato impropria¬mente “di rettificazione” davanti al tribunale in camera di consiglio a tutela di chi intende opporsi al rifiuto dell’ufficiale di stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o un altro adempimento.
Il tribunale senza particolari formalità può assumere informazioni, acquisire documenti e può an¬che procedere all’audizione delle parti e dello stesso ufficiale di stato civile, provvedendo, come detto, in camera di consiglio.5
Analogamente si provvede alla correzione degli errori materiali.6
5 Art. 95 (Ricorso)
1. Chi intende promuovere la rettificazione di un atto dello stato civile o la ricostituzione di un atto distrutto o smarrito o la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato, o intende opporsi a un rifiuto dell’ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l’atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento.
2. Il procuratore della Repubblica può in ogni tempo promuovere il procedimento di cui al comma 1.
3. L’interessato può comunque richiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originaria¬mente attribuitogli se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale.
Art. 96 (Procedimento)
1. Il tribunale può, senza particolari formalità, assumere informazioni, acquisire documenti e disporre l’audizione dell’ufficiale dello stato civile.
2. Il tribunale, prima di provvedere, deve sentire il procuratore della Repubblica e gli interessati e richiedere, se del caso, il parere del giudice tutelare.
3. Sulla domanda il tribunale provvede in camera di consiglio con decreto motivato. Si applicano, in quanto com¬patibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile nonché, per quanto riguarda i soggetti cui non può essere opposto il decreto di rettificazione, l’articolo 455 del codice civile.
6 Art. 98 (Correzioni)
1. L’ufficiale dello stato civile, d’ufficio o su istanza di chiunque ne abbia interesse, corregge gli errori materiali di scrittura in cui egli sia incorso nella redazione degli atti mediante annotazione dandone contestualmente avviso al prefetto, al procuratore della Repubblica del luogo dove è stato registrato l’atto nonché agli interessati.
2. L’ufficiale dello stato civile provvede con le stesse modalità di cui al comma 1 nel caso in cui riceva, per la registrazione, un atto di nascita relativo a cittadino italiano nato all’estero da genitori legittimamente uniti in matrimonio ovvero relativo a cittadino italiano riconosciuto come figlio naturale ai sensi dell’articolo 262, primo comma, del codice civile, al quale sia stato imposto un cognome diverso da quello ad esso spettante per la legge italiana. Quest’ultimo cognome deve essere indicato nell’annotazione.
3. Avverso la correzione, il procuratore della Repubblica o chiunque ne abbia interesse può proporre, entro trenta giorni dal ricevimento dell’avviso, opposizione mediante ricorso al tribunale che decide in camera di consiglio con decreto motivato che ha efficacia immediata.

b) L’art. 95 dell’Ordinamento di stato civile come norma a valenza generale
Di particolare interesse – per i riflessi generali che ha nelle cause di disconoscimento – è il con¬tenuto del terzo comma dell’art. 95 ove si prescrive che “L’interessato può comunque richiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuitogli se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale”. Questa disposizione se¬condo la giurisprudenza ha una valenza generale nel senso che può essere utilizzata in sede giudi¬ziaria tutte le volte in cui dalla decisione del tribunale, per esempio nell’azione di disconoscimento della paternità, potrebbe derivare all’interessato la perdita del cognome. Si legge in Cass. civ. Sez. I, 16 aprile 2014, n. 8876 che la Corte costituzionale, sin dal 1994 (Corte cost., 3 febbraio 1994, n. 13) ha osservato che, posto che nella disciplina giuridica del nome confluiscono esigenze di natura sia pubblica che privata, ove si accerti che il cognome già attribuito ad un soggetto non è quello spettantegli per legge in base allo “status familiae”, l’interesse pubblico a garantire la fede del registro degli atti dello stato civile è soddisfatto mediante la rettifica dell’atto riconosciuto non veritiero, ma non può condurre a sacrificare l’interesse individuale a conservare il cognome man¬tenuto fino a quel momento nella vita di relazione e divenuto ormai segno distintivo dell’identità personale, tutelata dall’art. 2 Cost.; tanto più che, nel caso in cui la rettifica riguardi persona in età avanzata con discendenti, la negazione dell’interesse individuale finirebbe col pregiudicare lo stes¬so interesse generale alla certa e costante identificazione delle persone. Pertanto, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo – per contrasto con l’art. 2 Cost. – il R.D. 9 luglio 1939, n. 1238, art. 165, nella parte in cui non prevedeva che, quando la rettifica degli atti dello stato civile, intervenu¬ta per ragioni indipendenti dal soggetto cui si riferisce, comportava il cambiamento del cognome, il soggetto stesso potesse ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli ove questo fosse ormai da ritenersi autonomo segno distintivo della sua identità personale. Il D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, al terzo comma dell’art. 95 – secondo questa sentenza – ha codificato il principio enunciato con la pronuncia della Corte costituzionale, prevedendo che nell’ipotesi di rettificazione di atti dello stato civile “l’interessato può comunque richiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuitogli se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale”.
In effetti, a seguito della sentenza di disconoscimento l’ufficiale di stato civile deve eseguire la relativa annotazione (art. 49, comma 1, lett. o del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396) cui seguirebbe la perdita del cognome originario. Questo automatismo è stato giudicato illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza 3 febbraio 1994, n. 13 con cui si è in sostanza affermato che l’in¬teresse pubblico a garantire la fede del registro degli atti dello stato civile è soddisfatto mediante la rettifica dell’atto riconosciuto non veritiero, ma non può condurre a sacrificare l’interesse indivi¬duale a conservare il cognome mantenuto fino a quel momento nella vita di relazione e divenuto ormai segno distintivo dell’identità personale, tutelata dall’art. 2 Costituzione. L’art. 95 dell’Ordi¬namento di stato civile – si legge nella decisione – è norma di carattere generale applicabile in tutti i casi in cui un atto dello stato civile deve subìre una rettifica (ivi compreso il cambio del cognome a seguito di disconoscimento) e pertanto l’interessato può chiedere al tribunale, proprio ai sensi del richiamato ultimo comma dell’art. 95 di mantenere il cognome originario.
VI La trascrizione degli atti di nascita formati all’estero
Come si è detto, il concetto di ordine pubblico che fa da limite alla trascrivibilità di atti di stato civile formati all’estero (così come delle sentenze straniere il cui riconoscimento è contestato in Italia) è quello di “ordine pubblico internazionale”. Il principio è quello secondo cui – come si è visto – il giudice italiano, chiamato a valutare la compatibilità con l’ordine pubblico dell’atto di stato civile straniero, i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, deve verificare – a norma dell’art. 18 dell’Or¬dinamento di stato civile che prevede il divieto di trascrizione degli atti contrari all’ordine pubblico – non già se l’atto straniero applichi una disciplina della materia conforme o difforme rispetto ad una o più norme interne, seppure imperative o inderogabili, ma se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta Costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
a) L’atto di nascita da fecondazione eterologa
La legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) all’art. 5 e all’art. 12 prevedono il divieto di utilizzazione a fini procreativi di gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente (sia pure nei limiti definiti da Corte cost. 10 giugno 2014, n. 162).
A questa ipotesi si è riferita Cass. civ. Sez. I, 30 settembre 2016, n. 19599 affermando che l’atto di nascita straniero (valido, nella specie, sulla base di una legge in vigore in un altro Paese della U.E.) da cui risulti la nascita di un figlio da due madri (per avere l’una donato l’ovulo e l’altra partorito), non contrasta di per sé con l’ordine pubblico per il fatto che la tecnica procreativa utiliz¬zata non sia riconosciuta nell’ordinamento italiano dalla legge n. 40 del 2004, la quale rappresenta una delle possibili modalità di attuazione del potere regolatorio attribuito al legislatore ordinario su una materia, pur eticamente sensibile e di rilevanza costituzionale, sulla quale le scelte legislative non sono costituzionalmente obbligate.
Due donne, una cittadina italiana e l’altra cittadina spagnola, avevano contratto matrimonio in Spagna nel 2009. Si rivolgono nel 2013 all’ufficiale di stato civile del Comune di Torino per chie¬dere la trascrizione dell’atto di nascita del loro figlio partorito da una di esse con ovuli fecondati in vitro donati dall’altra. L’ufficiale dello stato civile di Torino ha opposto un rifiuto per ragioni di ordine pubblico; successivamente, hanno divorziato consensualmente in Spagna, sulla base di un accordo, sottoscritto dalle parti in data 21 ottobre 2013, che prevede l’affidamento congiunto del minore ad entrambe con condivisione della responsabilità genitoriale. Il ricorso avverso il diniego dell’ufficiale di stato civile veniva rigettato dal Tribunale di Torino il quale riteneva infondata la domanda di trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero, perché contrastante con il princi¬pio, di ordine pubblico, in base al quale nell’ordinamento italiano madre è soltanto colei che ha partorito il bambino.
Il decreto del Tribunale veniva reclamato e la Corte d’appello di Torino, con decreto del 4 dicembre 2014, in accoglimento del reclamo, ordinava all’Ufficiale dello stato civile di Torino di trascrivere l’atto di nascita. La Corte riteneva che l’atto di nascita fosse trascrivibile nei registri dello stato civile italiano, a norma dell’art. 17 dell’Ordinamento di stato civile, restando precluso al giudice italiano di sovrapporre autonomi accertamenti sulla validità di un titolo formato all’estero secon¬do la legge straniera. Secondo la Corte d’appello, la nozione di ordine pubblico, ai fini del diritto internazionale privato, deve essere valutata sotto il profilo dell’ordine pubblico internazionale e, quindi, in termini di conformità al complesso dei principi caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico e fondati sulle esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, comuni ai diversi ordinamenti e, quindi, sulla base di valori condivisi nella comunità giuridica so¬vranazionale, di cui parte importante è la giurisprudenza della Corte Edu ex art. 117 Cost., comma 1, e della Corte di giustizia UE, valori tutti da interpretare in correlazione all’interesse superiore del minore. Tanto premesso, la sentenza escludeva la violazione del principio di ordine pubblico
Avverso il suddetto decreto proponeva ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repub¬blica presso la Corte d’appello di Torino e il Ministero dell’interno. La Corte di cassazione li riteneva infondati.
Si premette nella sentenza che “è indispensabile soffermarsi sul contenuto e sull’evoluzione della nozione di ordine pubblico nella giurisprudenza di legittimità”. Ed a tale proposito si osserva che si è avuta una progressiva evoluzione nell’interpretazione della nozione di ordine pubblico, inteso originariamente come espressione di un limite riferibile all’ordinamento giuridico nazionale, ai fini della salvaguardia di determinate concezioni di ordine morale e politico, particolarmente afferma¬te nella società statuale e assunte dal legislatore (ordinario) a criteri direttivi e informatori della sua opera. La nozione di ordine pubblico era funzionale ad escludere l’applicabilità delle norme straniere costituenti espressione di principi etici contrastanti con quelli dell’ordinamento inter¬no in un determinato momento storico, o più precisamente con quei principi a cui lo Stato “non può o non crede di dover rinunziare” ovvero con i “sommi inderogabili canoni del nostro sistema positivo” (Cass., sez. un., n. 1220 del 1964; n. 3881 del 1969). La nozione di ordine pubblico in senso internazionale veniva ritenuta non pertinente, in quanto troppo astratta (cfr. Cass. n. 818 del 1962), oppure legata ai principi dell’ordinamento interno, cioè alle regole di contenuto rigido, aderenti alle esigenze peculiari del singolo Stato e perciò destinate ad operare solo nel suo ambito. La conseguenza era di impedire l’applicazione, nel territorio dello Stato, di qualsiasi disposizione del diritto straniero non conforme a quelle norme di diritto interno che dal giudice fossero ritenute rappresentative di uno stabile assetto normativo nazionale.
A questa concezione di ispirazione statualista se ne è opposta un’altra, di maggiore apertura verso gli ordinamenti esterni e più aderente agli artt. 10 e 11 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, e alla corrispondente attuale posizione dell’ordinamento italiano in ambito internazionale. Tale più aperta concezione si fonda su una maggiore partecipazione dei singoli Stati alla vita della comunità in¬ternazionale, la quale sempre meglio è capace di esprimere principi generalmente condivisi e non necessariamente tradotti in norme interne, così da sottrarre la nozione di ordine pubblico interna¬zionale sia ad un’eccessiva indeterminatezza sia ad un legame troppo rigido con i mutevoli conte¬nuti delle legislazioni vigenti nei singoli ordinamenti nazionali. Se l’ordine pubblico si identificasse con quello esclusivamente interno, le norme di conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all’applicazione di norme materiali aventi contenuto analogo a quelle italiane, cancellando la diver¬sità tra i sistemi giuridici e rendendo inutili le regole del diritto internazionale privato (cfr. Cass. n. 10215 del 2007, n. 14462 del 2000).
Questa evoluzione della nozione di ordine pubblico segna un progressivo e condivisibile allen¬tamento del livello di guardia tradizionalmente opposto dall’ordinamento nazionale all’ingresso di norme, istituti giuridici e valori estranei. Se ne ha conferma nella normativa comunitaria, che esclude il riconoscimento delle decisioni emesse in uno Stato membro (ora previsto come automa¬tico) nei soli casi di “manifesta” contrarietà all’ordine pubblico (cfr., ad es., l’art. 34 del regol. CE 22 dicembre 2001 n. 44, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecu¬zione delle decisioni in materia civile e commerciale; l’art. 26 del regol. CE 11 luglio 2007 n. 864, sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali; l’art. 22 e 23 del regol. CE 27 novembre 2003, n. 2201, in tema di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e della responsabilità genitoriale; l’art. 24 del regol. CE 18 dicembre 2008, n. 4/2009, in materia di obbligazioni alimentari). Nella giurisprudenza comunitaria il ricorso al limite dell’ordine pubblico presuppone l’esistenza di una minaccia reale, attuale e grave nei confronti di un interesse fonda¬mentale della società (cfr. Corte giust. UE, 4 ottobre 2012, C-249/11, per giustificare le deroghe alla libera circolazione delle persone invocabili dagli Stati membri).
Nella giurisprudenza di legittimità più recente prevale il riferimento all’ordine pubblico internazio¬nale, da intendersi come complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma ispirati ad esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uo¬mo comuni ai diversi ordinamenti e collocati a un livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria (cfr., tra le tante, Cass. n. 1302 e 19405 del 2013, n. 27592 del 2006, n. 22332 del 2004, n. 17349 del 2002). Il legame, pur sempre necessario con l’ordinamento nazionale, è da intendersi limitato ai principi fondamentali desumibili, in primo luogo, dalla Costituzione (già secondo Corte cost. n. 214 del 1983, la verifica del rispetto dei principi supremi dell’ordinamento costituziona¬le costituisce un “passaggio obbligato della tematica dell’ordine pubblico”), ma anche – laddove compatibili con essa (come nella materia in esame) – dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonchè dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
In altri termini, i principi di ordine pubblico devono essere ricercati esclusivamente nei principi supremi e/o fondamentali della nostra Carta costituzionale, vale a dire in quelli che non potreb¬bero essere sovvertiti dal legislatore ordinario (non sarebbe conforme a questa impostazione, ad esempio, l’orientamento espresso da Cass. n. 3444 del 1968 che, in passato, negava ingresso alle sentenze straniere di divorzio, solo perchè la legislazione ordinaria dell’epoca stabiliva l’in¬dissolubilità del matrimonio, sebbene detta indissolubilità non esprimesse alcun principio o valore costituzionale essenziale; v. Corte cost. n. 169 del 1971 sulla dissolubilità degli effetti civili del matrimonio concordatario).
Ciò significa che un contrasto con l’ordine pubblico non è ravvisabile per il solo fatto che la norma straniera sia difforme contenutisticamente da una o più disposizioni del diritto nazionale, perché il parametro di riferimento non è costituto (o non è costituito più) dalle norme con le quali il legi¬slatore ordinario eserciti (o abbia esercitato) la propria discrezionalità in una determinata mate¬ria, ma esclusivamente dai principi fondamentali vincolanti per lo stesso legislatore ordinario. La ricerca di tali principi – è opportuno precisare – richiede una delicata operazione ermeneutica che non si fermi alla lettera della disposizione normativa, seppure di rango costituzionale, com’è dimo¬strato dal fatto che esistono in Costituzione norme dalle quali non si evincono principi inviolabili e che, quindi, non concorrono ad integrare la nozione di ordine pubblico (è il caso, ad esempio, dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali che, sebbene sancito dall’art. 111 Cost., comma 6, non rientra tra i principi inviolabili fissati a garanzia del diritto di difesa, cfr. Cass. n. 3365 del 2000).
Il giudice, al quale è affidato il compito di verificare preventivamente la compatibilità della norma straniera con tali principi, dovrà negare il contrasto con l’ordine pubblico in presenza di una mera incompatibilità (temporanea) della norma straniera con la legislazione nazionale vigente, quando questa rappresenti una delle possibili modalità di espressione della discrezionalità del legislatore ordinario in un determinato momento storico. Da tempo, infatti, questa Corte ha precisato che le norme espressive dell’ordine pubblico non coincidono con quelle imperative o inderogabili (cfr. Cass. n. 4040 del 2006, n. 13928 del 1999, n. 2215 del 1984), sicché il contrasto con queste ultime non costituisce, di per sé solo, impedimento all’ingresso dell’atto straniero; il giudice deve avere riguardo non già all’astratta formulazione della disposizione straniera o alla correttezza della soluzione adottata alla luce dell’ordinamento straniero o di quello italiano, bensì “ai suoi effetti” (come ribadito da Cass. n. 9483 del 2013), in termini di compatibilità con il nucleo essenziale dei valori del nostro ordinamento.
Si tratta di un giudizio (o di un test) simile a quello di costituzionalità, ma preventivo e virtuale, dovendosi ammettere il contrasto con l’ordine pubblico soltanto nel caso in cui il giudice possa motivatamente ritenere che al legislatore ordinario sarebbe ipoteticamente precluso di introdurre, nell’ordinamento interno, una norma analoga a quella straniera, in quanto incompatibile con valori costituzionali primari.
La progressiva riduzione della portata del principio di ordine pubblico – tradizionalmente inteso come clausola di sbarramento alla circolazione dei valori giuridici cui tende, invece, il sistema del diritto internazionale privato – è coerente con la storicità della nozione e trova un limite soltanto nella potenziale aggressione dell’atto giuridico straniero ai valori essenziali dell’ordinamento inter¬no, da valutarsi in armonia con quelli della comunità internazionale.
Si deve, pertanto, affermare il seguente principio di diritto: il giudice italiano, chiamato a valutare la compatibilità con l’ordine pubblico dell’atto di stato civile straniero (nella specie, dell’atto di na¬scita), i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, a norma della L. n. 218 del 1995, artt. 16, 64 e 65, e D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18, deve verificare non già se l’atto straniero applichi una disci¬plina della materia conforme o difforme rispetto ad una o più norme interne (seppure imperative o inderogabili), ma se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonchè dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
Si tratta, in particolare, della tutela dell’interesse superiore del minore, anche sotto il profilo della sua identità personale e sociale, e in generale del diritto delle persone di autodeterminarsi e di formare una famiglia, valori questi già presenti nella Carta costituzionale (artt. 2, 3, 31 e 32 Cost.) e la cui tutela è rafforzata dalle fonti sovranazionali che concorrono alla formazione dei principi di ordine pubblico internazionale.
Si deve enunciare il seguente principio di diritto: il riconoscimento e la trascrizione nei registri dello stato civile in Italia di un atto straniero, validamente formato in Spagna, nel quale risulti la nascita di un figlio da due donne – in particolare, da una donna italiana (indicata come madre B) che ha donato l’ovulo ad una donna spagnola (indicata come madre A) che l’ha partorito, nell’ambito di un progetto genitoriale realizzato dalla coppia, coniugata in quel paese – non contrastano con l’ordine pubblico per il solo fatto che il legislatore nazionale non preveda o vieti il verificarsi di una simile fattispecie sul territorio italiano, dovendosi avere riguardo al principio, di rilevanza costituzionale primaria, dell’interesse superiore del minore, che si sostanzia nel suo diritto alla continuità dello statua filiationis, validamente acquisito all’estero (nella specie, in un altro paese della UE).
b) L’atto di nascita da maternità surrogata
La legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) all’art. 12 prevede il divieto di realizzare, organizzare o pubblicizzare la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità.
Sul rifiuto di trascrizione di atti di stato civile formati all’estero in ordinamenti in cui la surrogazione di maternità non è vietata si sono pronunciate due decisioni della Corte Europea dei diritti dell’Uo¬mo e una sentenza della Corte di cassazione.
– Corte europea dei diritti dell’uomo, 26 giugno 2014 (Mennesson e Labassee c. Francia)
Nelle due sentenze gemelle del 26 giugno 2014 nei casi Mennesson e Labassee le questioni sotto¬poste al giudizio della Corte riguardavano il rifiuto di attribuire riconoscimento legale in Francia ai rapporti genitoriali che erano stati legalmente stabiliti negli Stati Uniti tra minori nati da maternità surrogata e le coppie che si erano sottoposte a tale trattamento. In entrambi i casi la Corte ha deciso, unanimemente, che non vi è violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (diritto al rispetto della vita privata e familiare) riguardante il diritto dei ricorrenti al rispetto della propria vita familiare mentre vi è violazione dell’art. 8 riguardante il diritto dei minori al rispetto della propria vita privata.
I minori erano nati da maternità surrogata ma con donazione dei gameti da parte rispettivamente del signor Mennesson e del sig. Labassee.
A seguito del rifiuto delle autorità francesi di registrare nel registro francese delle nascite i certi¬ficati di nascita dei minori nati, le coppie decidevano di adire le vie legali. La Corte di Cassazione ha rigettato le pretese dei ricorrenti riconoscendo che la registrazione avrebbe attribuito effetti ad un accordo di maternità surrogata che era nullo e violava l’ordine pubblico secondo il Codice Civile francese. La Corte ha stabilito che non vi era stata violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare dal momento che l’annullamento delle registrazioni non aveva privato i minori del rapporto legale materno e paterno riconosciuto dalle leggi americane e non aveva impedito loro di vivere in Francia con le coppie Mennesson e Labassee.
La Corte europea ha osservato che le autorità francesi, sebbene fossero consapevoli che i minori erano stati identificati negli Stati Uniti come figli dei coniugi Mennesson e dei coniugi Labassee, avevano tuttavia negato loro quello status secondo la legge francese. Questa contraddizione mi¬nava l’identità dei minori all’interno della società francese. La Corte ha inoltre notato che la giuri¬sprudenza ha completamente precluso l’istituzione di un rapporto legale tra minori nati in seguito a trattamenti di maternità surrogata ed il loro padre biologico. Questo oltrepassava l’ampio margine di discrezionalità lasciato agli Stati nella sfera delle decisioni legate alla surrogazione.
– Corte europea dei diritti dell’uomo, 27 gennaio 2015 (Paradisi-Campanelli v. Italia)
In una vicenda in cui due coniugi italiani avevano invano chiesto in Italia la trascrizione di un atto di nascita da maternità surrogata redatto in Russia ed in cui avevano subìto l’allontanamento del neonato portato in Italia e poi dichiarato adottabile, la Corte europea dei diritti dell’uomo, 27 gennaio 2015 aveva inizialmente affermato che “il concetto di ordine pubblico non può essere una carte bianca che giustifica qualunque decisione dello Stato membro, poiché l’obbligo di tenere conto dell’interesse superiore del minore incombe sullo Stato indipendentemente dal tipo di legame tra genitori e figlio, che sia genetico o di altra natura”. La Corte di Strasburgo ha rilevato, in particolare, che le ragioni di ordine pubblico sottostanti alle decisioni delle autorità italiane – secondo cui i ricor¬renti avevano tentato di eludere il divieto in Italia di utilizzare gli accordi di maternità surrogata e le norme che disciplinano l’adozione internazionale – non potevano prevalere sull’interesse superiore del minore, nonostante l’assenza di qualsiasi relazione biologica ed il breve periodo durante il quale i ricorrenti se ne erano occupati. I giudici europei, dunque, hanno ribadito che togliere un bambino ai genitori, ancorché frutto di maternità surrogata, costituisce una misura estrema che può essere giustificata solo in caso di pericolo immediato per il bambino, osservando dunque che, nel caso di specie, le condizioni per giustificare una simile misura non erano state soddisfatte. In ogni caso, ha chiarito la Corte di Strasburgo, le conclusioni cui è pervenuta la Corte non sono da intendersi come obbligo per lo Stato italiano di “restituire” il bambino ai ricorrenti, avendo questi sviluppato senza alcun dubbio legami affettivi con la famiglia affidataria con la quale aveva vissuto dal 2013.
I ricorrenti, Paradiso e Campanelli, sono due coniugi che, in seguito al fallimento delle tecniche di PMA cui si erano sottoposti, avevano deciso di recarsi all’estero e di stipulare un contratto di gestazione per altri in Russia. Secondo la legge russa, alla nascita del bambino, nel 2011, i coniugi erano stati registrati come genitori del bambino, senza indicazione della maternità surrogata. Al rientro in Italia, il ricorrente aveva chiesto la trascrizione del certificato di nascita del figlio, ma il consolato italiano a Mosca aveva informato il tribunale dei minori di Campobasso che il documento conteneva false attestazioni. I coniugi subivano quindi un procedimento penale nel quale venivano chiamati a rispondere del reato di falsa attestazione e della violazione della legge sulle adozioni. Contestualmente il Tribunale dei minori di Campobasso apriva un procedimento per la dichiarazio¬ne di adottabilità del bambino. Il signor Campanelli, inoltre, risultava non essere il padre biologico del bambino. Di conseguenza, il tribunale dei minori stabiliva che il minore doveva essere sottratto dai ricorrenti e dato in affidamento. Dopo essere stato in una struttura dei servizi sociali, nel 2013 il minore veniva affidato ad una famiglia e riceveva una nuova identità.
I ricorrenti lamentavano la violazione dell’art. 8 CEDU da parte dell’Italia, in particolare, per quan¬to riguarda la sottrazione del minore alle loro cure e il rifiuto di riconoscere la relazione genitoriale, attraverso la mancata trascrizione del certificato di nascita redatto all’estero.
Con riguardo alla sottrazione del minore dalla tutela dei ricorrenti, la Corte riconosce l’esistenza di una «de facto family life between the couple and the child», la conseguente applicabilità dell’art. 8 CEDU al caso di specie e l’ammissibilità del ricorso. Nonostante i ricorrenti avessero passato solo sei mesi con il bambino, infatti, questo pur breve periodo aveva consentito l’instaurarsi di una rela¬zione tra i coniugi e il minore. Le misure adottate dalle autorità italiane nei confronti del bambino, la sua sottrazione ai ricorrenti e l’affido costituiscono, secondo la Corte, un’illegittima interferenza nella vita privata e familiare. Pur considerando che l’attività delle autorità italiane è stata motivata dall’esigenza di porre termine ad una situazione illegittima, la Corte rileva che l’esigenza di tutelare l’ordine pubblico non può essere utilizzata in modo automatico, senza prendere in considerazione il miglior interesse del minore e la relazione genitoriale (sia essa biologica o non).
La Camera alta della Corte europea, successivamente, in sede di appello ha, però, escluso che l’allontanamento del bambino fosse una violazione del diritto a non subire limitazioni della propria vita privata.
– Cass. civ. Sez. I, 11 novembre 2014, n. 24
La sentenza Cass. civ. Sez. I, 11 novembre 2014, n. 24001 (confermando la decisione di me¬rito, con la quale era stato dichiarato lo stato di adottabilità di un minore, generato da una donna ucraina su commissione di una coppia italiana) aveva ritenuto contrastante con l’ordine pubblico internazionale l’atto di nascita da maternità surrogata, ritenendo che il divieto di surrogazione della maternità comminato dall’art. 12, comma 6, legge 19 febbraio 2004, n. 40 esprime un principio di ordine pubblico internazionale, in quanto fondamentale ed irrinunciabile per la ragione che esso è non soltanto è assistito da sanzione penale, protegge la dignità costituzionalmente tutelata della ge¬stante e dei minori. Pertanto, l’atto di nascita formato all’estero, che indichi come genitori del bam¬bino procreato attraverso tale tecnica la donna e l’uomo che vi abbiano fatto ricorso (peraltro, senza alcun legame genetico con il nato) è privo di effetti in Italia perché contrario all’ordine pubblico, con la conseguenza che il minore presente sul territorio italiano deve ritenersi in stato di abbandono e deve esserne dichiarato lo stato di adottabilità. L’ordine pubblico cosiddetto internazionale non può, secondo questa decisione, ridursi ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale, ma compren¬de anche principi e valori esclusivamente propri, purché fondamentali e (perciò) irrinunciabili.
La Cassazione ha rigettato il ricorso presentato da una coppia che aveva fatto ricorso in Ucraina a pratiche di maternità surrogata.
Nel 2012 il Tribunale per i minorenni di Brescia, dopo aver accertato la mancanza di legami biolo¬gici fra una coppia e un bambino nato in Ucraina in seguito a maternità surrogata, aveva dichiarato lo stato di adottabilità del minore, sospendendo i coniugi dall’esercizio della potestà di genitori e nominando un tutore. Il certificato ucraino non avrebbe potuto essere riconosciuto in Italia perché lesivo dell’ordine pubblico e, in particolare, del divieto di maternità surrogata sancito dalla legge 40/2004. Venendo a mancare lo status di figlio legittimo del minore ed essendo dunque accertato lo stato di abbandono, il Tribunale aveva ritenuto di procedere alla dichiarazione di adottabilità.
A seguito del rigetto dell’appello in secondo grado (gennaio 2013), i genitori avevano proposto ricorso per Cassazione.
Ad avviso dei ricorrenti la statuizione di contrarietà all’ordine pubblico dell’atto di nascita potrebbe essere fondata solo ove si riscontrasse nella normativa ucraina che disciplina l’accertamento del rapporto di filiazione in quel paese una incompatibilità con le norme di ordine pubblico italiane, non essendo sufficiente il richiamo al divieto di surrogazione. Il riferimento non potrebbe infatti essere limitato all’ordine pubblico interno, identificabile con il rispetto di norme inderogabili, ma andreb¬be esteso all’ordine pubblico internazionale, da intendersi come insieme di principi che ispirano la comunità internazionale (es. interesse superiore del minore).
La Cassazione ammette che il richiamo non possa esaurirsi con il rispetto di norme imperative, ma che esso debba ricomprendere anche principi fondamentali dell’ordinamento che non coincidono però unicamente con i valori condivisi dalla comunità internazionale, dovendosi fare riferimento anche a principi e valori esclusivamente propri. “Il divieto di pratiche di surrogazione di maternità è certamente di ordine pubblico, come già suggerisce la previsione della sanzione penale, di regola posta appunto a presidio di beni giuridici fondamentali. Vengono qui in rilievo la dignità umana – costituzionalmente tutelata – della gestante e l’istituto dell’adozione governato da regola particolari poste a tutela di tutti gli interessati, in primo luogo dei minori”. Il divieto non è contrario alla tutela del superiore interesse del minore che risulta ragionevolmente tutelato dalla scelta legislativa di sottrarre la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal legame biologico al semplice accordo delle parti e inquadrandolo, invece, nel quadro normativo che disciplina l’istituto dell’adozione.
Inconferente è anche il riferimento alle sentenze Mennesson e Labasee mediante le quali la Corte EDU ha ravvisato il superamento del margine di discrezionalità statale nel difetto di riconoscimento giuridico del rapporto di filiazione tra il nato e il padre committente allorché questi sia anche padre biologico del nato.
VII Il matrimonio contratto all’estero
a) La trascrizione del matrimonio contratto all’estero e le conseguenze dell’omessa tra¬scrizione
Mentre l’iscrizione dell’atto di matrimonio negli archivi dello stato civile non pone particolari pro¬blemi, trattandosi di un adempimento che l’ufficiale di stato civile compie di un atto da lui stesso compiuto, più problematico è il caso della trascrizione da parte dell’ufficiale di stato civile di atti di matrimoni contratti all’estero.
Il codice civile prevede, come si è visto, all’art 115che il cittadino italiano possa contrarre ma¬trimonio all’estero disponendo in tal caso che trovano comunque sempre applicazione le norme fondamentali che concernono le condizioni necessarie per contrarre matrimonio (articoli 84-90), dichiarando, poi, che in tal caso il matrimonio è valido quando rispetta le forme stabilite nello Stato in cui viene celebrato. Il principio è ribadito nell’art. 28 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Ri¬forma del sistema italiano di diritto internazionale privato) il quale considera valido il matrimonio quanto alla forma se considerato valido quanto meno dalla legge del luogo di celebrazione.
Il DPR 3 novembre 2000, n. 396 (Ordinamento di stato civile) prevede agli articoli 16 e 17 che il matrimonio all’estero tra due italiani o tra un italiano e uno straniero possa essere celebrato da¬vanti alla nostra autorità diplomatica/consolare o davanti all’autorità competente di quello Stato. Nel primo caso è la nostra autorità diplomatica-consolare a trasmettere in Italia l’atto di matrimo¬nio all’ufficiale di stato civile del Comune di residenza indicata dal cittadino italiano (o del Comune in cui quel cittadino ha la residenza anagrafica dei cittadini italiani all’estero: AIRE); nel secondo caso sarà il cittadino italiano a rimettere direttamente alla nostra autorità diplomatica/consolare l’atto di matrimonio ai fini dell’inoltro all’ufficiale di stato civile in Italia,
Sempre il DPR 3 novembre 2000, n. 396 all’art. 63 secondo comma, lettera c, prevede che l’ufficia¬le di stato civile, ricevuto l’atto di matrimonio dall’autorità diplomatico-consolare italiana, lo deve trascrivere dell’archivio di stato civile.
Potrebbe accadere che l’atto di matrimonio contratto all’estero dal cittadino italiano non venga inoltrato all’ufficiale di stato civile, perché per esempio l’interessato abbia omesso di inoltrarlo alla nostra autorità diplomatica/consolare.
In tal caso la mancata trascrizione in Italia del matrimonio contratto all’estero non avrà però con¬seguenze sul piano della validità dell’atto.
È, infatti, pacificamente ripetuto in giurisprudenza il principio che ai sensi dell’art. 28 della legge n. 218 del 1995, il matrimonio celebrato all’estero è valido nel nostro ordinamento, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione, o dalla legge nazionale di almeno uno dei nubendi al momento della celebrazione, o dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento. Questo principio non è condizionato dall’osservanza delle norme italiane relative alla trascrizione, atteso che questa non ha natura costitutiva, ma meramente certificativa e scopo di pubblicità di un atto già di per sé valido. (Cass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17620; Cass. civ. Sez. I, 28 aprile 1990, n. 3599; Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 1998, n. 10351). Anche la giurisprudenza di merito ha affermato gli stessi principi (Trib. Treviso Sez. I, 5 giugno 2015).
b) Omessa trascrizione in Italia del matrimonio contratto all’estero e reato di bigamia
Secondo l’art. 86 del codice civile non può contrarre matrimonio chi è vincolato da un matrimonio precedente. Se questo avviene si verifica quella situazione giuridica che va sotto il nome di biga¬mia. Il delitto di bigamia è previsto nell’articolo 556 del codice penale situato nel titolo XI del codi¬ce penale concernente i “delitti contro la famiglia”, al capo I “delitti contro il matrimonio” (bigamia è il contrario di monogamia) e punisce con la pena della reclusione da uno a cinque anni “chiunque essendo legato da matrimonio avente effetti civili, ne contrae un altro, pure aventi effetti civili”. Alla stessa pena soggiace chi, non essendo coniugato, “contrae matrimonio con persona legata da matrimonio avente effetti civili”. Il riferimento è, quindi, sia al matrimonio celebrato civilmente sia a quello concordatario.
Tutto quanto ciò premesso vi è da dire che il delitto di bigamia può essere commesso da due cittadini italiani (ipotesi in realtà piuttosto difficile a realizzarsi a causa del sistema di pubblicità rigoroso del nostro ordinamento di stato civile) ovvero da un italiano e uno straniero, nel territorio dello Stato o all’estero.
Interessa in questa sede approfondire la questione se il reato di bigamia è configurabile anche se il matrimonio celebrato all’estero non sia trascritto in Italia.
Ribadito che il reato di bigamia consiste, come si è detto, nel contrarre, in costanza di matrimonio avente effetti giuridici, un altro matrimonio produttivo anche esso di effetti civili, va innanzitutto detto che secondo la giurisprudenza si considera legato da precedente matrimonio avente effet¬ti civili anche colui che abbia ottenuto all’estero pronuncia di divorzio non riconosciuta in Italia (Cass. pen. Sez. VI, 2 febbraio 1982). Il matrimonio deve avere effetti civili. È evidente, per¬tanto, che non sussiste il reato se il secondo matrimonio è inesistente, quindi privo in radice di effetti giuridici (Cass. pen. Sez. VI, 16 luglio 1969).
La questione, però, più significativa – in ordine ai presupposti di punibilità del delitto di bigamia – è costituita dal dubbio se di bigamia si possa parlare anche in assenza della trascrizione in Italia del matrimonio contratto dalla persona coniugata o del primo matrimonio.
A tale proposito come si è visto la giurisprudenza (Cass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17620; Cass. civ. Sez. I, 28 aprile 1990, n. 3599; Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 1998, n. 10351) ha precisato –in modo convincente – chele norme di diritto internazionale privato attribuiscono ai matrimoni celebrati all’estero tra cittadini italiani o tra italiani e stranieri immediata validità e rile¬vanza nel nostro ordinamento e che tale principio non è condizionato dall’osservanza delle norme italiane relative alla trascrizione, atteso che questa non ha natura costitutiva, ma meramente cer¬tificativa, e scopo di pubblicità di un atto già di per sé valido sulla base del principio locus regitac¬tum. Effettivamente l’articolo 28 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato) considera valido il matrimonio, quanto alla forma, se è considerato tale quanto meno dalla legge del luogo di celebrazione.
Il principio che gli effetti civili in Italia del matrimonio contratto all’estero sono indipendenti da tale trascrizione è stato continuativamente affermato in passato dalla giurisprudenza con riferimento al delitto di bigamia (Cass. pen. Sez. VI, 4 luglio 1985; Cass. pen. Sez. VI, 2 febbraio 1982).
Commette perciò il delitto di bigamia il cittadino che contrae altro matrimonio essendo vincolato da precedente matrimonio contratto in uno Stato straniero secondo la legge vigente in quest’ultimo, ancorché non ne sia stata effettuata la trascrizione nei registri dello stato civile italiano.
c) L’orientamento della giurisprudenza contrario alla trascrizione in Italia del matrimo¬nio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso
L’ipotesi di trascrizione che ha creato più problemi – quanto meno fino all’approvazione della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disci¬plina delle convivenze) – è quello del matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso.
La giurisprudenza ha negato in modo compatto la possibilità di trascrizione in Italia negli atti di matrimonio contratti all’estero tra persone dello stesso sesso.
La posizione della Corte costituzionale sui problemi giuridici posti dall’aspirazione delle coppie omosessuali al matrimonio è contenuta soprattutto in due sentenze che vanno brevemente ricor¬date perché contengono le coordinate fondamentali per comprendere le motivazioni della scelta del legislatore di affidare alle unioni civili la funzione di tutela dei legami familiari tra persone dello stesso sesso anziché ammettere al matrimonio tali coppie.
Decisiva è l’impostazione della prima sentenza e cioè Corte cost. 15 aprile 2010, n. 138 chia¬mata a pronunciarsi sulla questione di legittimità del rifiuto dell’ufficiale di stato civile di effettuare le pubblicazioni di matrimonio richieste da persone dello stesso sesso. La Corte esamina la que¬stione di costituzionalità a) sotto il profilo della eventuale violazione dell’art. 2 della Costituzione; b) sotto il profilo della eventuale violazione degli articoli 3 e 29 della Costituzione; c) sotto il profilo della eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione nella parte in cui prevede il rispetto da parte del legislatore dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
In riferimento all’art. 2 della Costituzione la Corte dichiara inammissibile la questione “perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata” e condivide il punto di vista da cui muovono le due ordinanze e cioè che “l’istituto del matrimonio civile, come previsto nel vigente ordinamento italiano, si riferisce soltanto all’unione stabile tra un uomo e una donna. Questo dato emerge non soltanto dalle norme censurate, ma anche dalla disciplina della filiazione legittima (artt. 231 e ss. cod. civ. e, con particolare riguardo all’azione di disconoscimento, artt. 235, 244 e ss. dello stesso codice), e da altre norme, tra le quali, a titolo di esempio, si può men¬zionare l’art. 5, primo e secondo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nonché dalla normativa in materia di ordinamento dello stato civile. In sostanza, l’intera disciplina dell’istituto, contenuta nel codice civile e nella legislazione speciale, postula la diversità di sesso dei coniugi, nel quadro di una consolidata ed ultra millenaria nozione di matrimonio. Nello stesso senso è la dottrina, in maggioranza orientata a ritenere che l’identità di sesso sia causa d’inesistenza del matrimonio, anche se una parte parla di invalidità. La rara giurisprudenza di legittimità, che si è occupata della questione, ha considerato la diversità di sesso dei coniugi tra i requisiti minimi indispensabili per ravvisare l’esistenza del matrimonio (Corte di cassazione, sentenze n. 7877 del 2000, n. 1304 del 1990 e n. 1808 del 1976). Spetta pertanto al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette.
Con riferimento agli articoli 3 e 29 della Costituzione la Corte dichiara la questione non fondata. Oc¬corre – afferma in proposito la Corte – prendere le mosse, per ragioni di ordine logico, da quest’ul¬tima disposizione. Essa stabilisce, nel primo comma, che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», e nel secondo comma aggiunge che «Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla leg¬ge a garanzia dell’unità familiare». La norma, che ha dato luogo ad un vivace confronto dottrinale tuttora aperto, pone il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, definita “società naturale” (con tale espressione, come si desume dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente, si volle sottolineare che la famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere). Ciò posto, è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigo¬re, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi. Detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata.
Infatti, come risulta dai citati lavori preparatori, la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta. I costituenti, elaborando l’art. 29 della Costituzione, discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la no¬zione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. In tal senso orienta anche il secondo comma della disposizione che, affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attri¬buire pari dignità e diritti nel rapporto coniugale. Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa. Si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessua¬li, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto.
La seconda sentenza che è significativo richiamare è Corte cost. 11 giugno 2014, n. 170 nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Nor¬me in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), promosso dalla Corte di cassazione. Si trattava di un procedimento promosso da una coppia sposata per ottenere la cancellazione della annotazione di «cessazione degli effetti del vincolo civile del matrimonio», che l’ufficiale di stato civile aveva apposto in calce all’atto di matrimonio, contestualmente all’annotazione, su ordine del Tribunale, della rettifica (da “maschile” a “femminile”) del sesso del marito. La Corte di cas¬sazione – adita in sede di impugnazione avverso il decreto della Corte di Appello di Bologna che, in riforma della statuizione di primo grado, aveva respinto la domanda dei ricorrenti – sollevava sostanzialmente la questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli articoli 2 e 29 della Costituzione, «dell’art. 4 della legge n. 164 del 1982 nella parte in cui dispone che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso provoca l’automatica cessazione degli effetti civili conseguen¬ti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso senza la necessità di una domanda e di una pronuncia giudiziale2) «degli artt. 2 e 4 della l. n. 164 del 1982 con riferimento al para¬metro costituzionale dell’art. 24 della Costituzione nella parte in cui prevedono la notificazione del ricorso per rettificazione di attribuzione di sesso all’altro coniuge, senza riconoscere a quest’ultimo il diritto di opporsi allo scioglimento del vincolo coniugale nel giudizio in questione, né di esercitare il medesimo potere in altro giudizio, essendo esclusa la necessità di una pronuncia giudiziale dalla produzione ex lege dell’effetto solutorio in virtù del passaggio in giudicato della sentenza di retti¬ficazione di attribuzione di sesso»;
La questione viene ritenuta fondata. Pertinente – afferma a tale proposito la Corte – è soprattutto il riferimento al precetto dell’art. 2 della Costituzione. Nella nozione di “formazione sociale” – nel quadro della quale l’art. 2 della Costituzione dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo – «è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere libera¬mente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». Principi che erano stati affermati nella sentenza 170/2014 nella quale è stato, però, anche precisato doversi «escludere […] che l’aspi¬razione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio», come confermato, del re¬sto, dalla diversità delle scelte operate dai Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette.
Sulla linea dei principi enunciati nella riferita sentenza 170/2014, è innegabile che la condizione dei coniugi che intendano proseguire nella loro vita di coppia, pur dopo la modifica dei caratteri sessuali di uno di essi, con conseguente rettificazione anagrafica, sia riconducibile a quella cate¬goria di situazioni “specifiche” e “particolari” di coppie dello stesso sesso, con riguardo alle quali ricorrono i presupposti per un intervento di questa Corte per il profilo, appunto, di un controllo di adeguatezza e proporzionalità della disciplina adottata dal legislatore.
Va, pertanto, dichiarata – in accoglimento, per quanto di ragione, delle sollevate questioni – l’ille¬gittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982 n. 164, con riferimento all’art. 2 della Costituzione nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzio¬ne di sesso di uno dei coniugi, che comporta lo scioglimento del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, la cui disciplina rimane demandata alla discrezionalità di scelta del legislatore.
La Corte di Cassazione ha successivamente ripreso il tema affermando che a seguito della di¬chiarazione di incostituzionalità contenuta nella sentenza 170/14 della Corte costituzionale, deve essere conservato alla coppia unita in matrimonio, per il caso in cui ad uno dei coniugi sia stata riconosciuta la rettificazione dell’attribuzione di sesso, il riconoscimento dei diritti e dei doveri conseguenti al vincolo matrimoniale legittimamente contratto fino a quando il legislatore non consenta ad essi di mantenere in vita il rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti ed obblighi (Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2015, n. 8097).
La legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) all’art. 1, comma 27, ha previsto – sulla scia della riferita sen¬tenza della Corte costituzionale – che “alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”.
La giurisprudenza finora non ha ammesso la trascrizione in Italia di tali matrimoni contratti all’estero.
La vicenda che ha dato spazio in Italia al dibattito su questo tema è durata esattamente dieci anni lungo i quali si sono modificati anche i presupposti giuridici che via via hanno fatto da sfondo ai provvedimenti adottati nella vicenda dai giudici.
Due giovani, entrambi cittadini italiani, avevano contratto matrimonio in Olanda nel marzo del 2002 due anni dopo chiedevano a Latina – ove avevano stabilito la loro residenza – la trascrizione dell’atto del loro matrimonio ai sensi dell’art. 18 del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Ordinamen¬to di stato civile). L’ufficiale di stato civile rifiutò la trascrizione assumendo che il matrimonio tra persone dello stesso sesso, formato all’estero, non era suscettibile di trascrizione perché contrario all’ordine pubblico. Avverso il provvedimento di rifiuto della trascrizione i due giovani proposero ricorso al Tribunale di Latina che nel giugno 2005, respinse il ricorso (Trib. Latina, 10 giugno 2005). Ugualmente fece la Corte d’appello nel luglio 2006 (App. Roma, 13 luglio 2006)rite¬nendo che sulla base di quanto stabilito dal D.P.R. n. 396 del 2000, art. 63, comma 2, lett. c), sia l’ufficiale dello stato civile sia il giudice, adito ai sensi dello stesso D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95, debbono verificare che l’atto di cui si chiede la trascrizione, sia esso formato in Italia ovvero all’e¬stero, abbia le “connotazioni proprie, nel nostro ordinamento, degli atti di matrimonio assoggettati a trascrizione negli archivi di stato civile.
Avverso questa sentenza due giovani proponevano ricorso per cassazione. La Corte di cassazione lo rigettava (Cass. civ. Sez. I, 15 marzo 2012, n. 4184) affermando che il requisito della diver¬sità di sesso, pur non previsto in modo espresso né dalla Costituzione, né dal codice civile vigente, né dalle numerose leggi che, direttamente o indirettamente, si riferiscono all’istituto matrimoniale – sta tuttavia, quale “postulato” implicito, a fondamento di tale istituto. Il diritto positivo vigente e la giurisprudenza che su di esso si è formata, del resto – affermano i giudici della Corte di Cassa¬zione – non fanno che riflettere anche “una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio”. L’ordinamento giuridico italiano, perciò, ha conosciuto finora, e conosce attualmente un’unica fatti¬specie integrante il matrimonio come atto: il consenso che, nelle forme stabilite per la celebrazione del matrimonio, due persone di sesso diverso si scambiano, dichiarando che “si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie” (art. 107, primo comma, cod. civ., cit.). L’intrascrivibilità, si fonda però su ragioni diverse da quella, finora ripetutamente affermata, della “inesistenza” di un matrimonio siffatto per l’ordinamento italiano. Infatti, se nel nostro ordinamento è compresa una norma – l’art. 12 della CEDU appunto, come interpretato dalla Corte Europea – che ha privato di rilevanza giuridica la diversità di sesso dei nubendi, ne segue che la giurisprudenza di questa Corte – secondo la quale la diversità di sesso dei nubendi è, unitamente alla manifestazione di volontà matrimoniale dagli stessi espressa in presenza dell’ufficiale dello stato civile celebrante, requisito minimo indispensabile per la stessa “esistenza” del matrimonio civile, come atto giuridicamente rilevante – non si dimostra più adeguata all’attuale realtà giuridica, essendo stata radicalmente superata la concezione secondo cui la diversità di sesso dei nubendi è presupposto indispensabile, per cosi dire “naturalistico”, della stessa “esistenza” del matrimonio. Per tutte le ragioni ora dette, l’intrascrivibilità delle unioni omosessuali dipende non più dalla loro “invalidità” o dalla loro “ine-sistenza” ma dalla loro inidoneità a produrre, quali atti di matrimonio, qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano.
È quello descritto, quindi, ora l’attuale orientamento della giurisprudenza di legittimità.
La Circolare del Ministro dell’Interno del 7 ottobre 2014, ha ribadito che, nonostante la natura certificativa e non costituiva della trascrizione “ la sola sussistenza dei requisiti di validità previsti dalla lex loci, quanto alla forma di celebrazione, non esime l›ufficiale di stato civile dalla previa verifica della sussistenza dei requisiti di natura sostanziale in materia di stato e capacità delle persone. Al riguardo, occorre fare riferimento, in primo luogo, all›art. 27, comma 1, della legge 31 maggio 1995, n. 218 (“Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato”), secondo cui “la capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio”, quindi all’art. 115 del codice civile, secondo cui “il cittadino è soggetto alle disposizioni contenute nella sezione prima di questo capo, anche quando contrae matrimonio in paese straniero secondo le forme ivi stabilite”. Pertanto, al di là della validità formale della celebrazione secondo la legge straniera, l’ufficiale di stato civile ha il dovere di verificare la sussistenza dei requisiti sostanziali necessari affinché la celebrazione possa produrre effetti giuridicamente rilevanti. Non vi è dubbio che, ai sensi del codice civile vigente, la diversità di sesso dei nubendi rappresenti un requisito necessario affinché il matrimonio produca effetti giuridici nell’ordinamento interno, come è chiaramente affermato dall’art. 107 c.c., in base al quale l’ufficiale dello stato civile “riceve da ciascuna delle parti personalmente, l’una dopo l’altra, la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie, e di seguito dichiara che esse sono unite in matrimonio”.
Anche in sede amministrativa si è precisato che “non è trascrivibile in Italia il matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero e il prefetto può annullare l’eventuale trascrizione disposta dal Sindaco quale ufficiale di stato civile” (Cons. Stato Sez. III, 26 ottobre 2015, n. 4899) in quanto gli artt.27 e 28 della L. 31 maggio 1995, n.218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato) stabiliscono i presupposti di legalità del matrimonio (nei casi in cui alcuni elementi della fattispecie si riferiscano ad ordinamenti giuridici di diversi Stati), prevedendo, in particolare (e per quanto qui rileva) che le condizioni (soggettive) di validità “sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo…” (art.27) e che “il matrimonio è valido, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione o dalla legge nazionale di almeno uno dei coniugi…” (art.28). Ed inoltre l’art.115 del codice civile assoggetta, inoltre, espressamente i citta¬dini italiani all’applicazione delle disposizioni del codice che stabiliscono le condizioni necessarie per contrarre matrimonio (tale dovendosi intendere il rinvio alla sezione prima del terzo capo, del titolo sesto, del libro primo del codice civile), anche quando l’atto viene celebrato in un paese straniero.
d) La possibilità della trascrizione in Italia nei registri delle unioni civili del matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero
Il Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 23 luglio 2016, n. 144 emanato sulla base dei poteri regolamentari di natura transitoria attribuiti al Governo dall’art. 1, comma 34, della legge 20 maggio 2016, n. 76, ha invece ammesso la trascrizione di matrimoni tra persone dello stesso sesso contratti all’estero, in appositi registri provvisori delle unioni civili (istituti presso ogni Comune dall’art. 9 del decreto in questione) prevedendo all’art. 8 comma 3 che “gli atti di matri¬monio o di unione civile tra persone dello stesso sesso formati all’estero sono trasmessi dall’auto¬rità comsolatre….ai fini della trascrizione nel registro provvisorio di cui all’articolo. 9”.
Questo comporta che il matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero, anche da cittadini italiani, potrà essere d’ora in poi trascritto nei registri provvisori delle unioni civili, supe¬rando così le ragioni del diniego che fino ad oggi hanno impedito la trascrizione nei nostri registri di stato civile e quindi il riconoscimento in Italia di tali matrimoni.
Il fatto è tanto più sorprendete perché avviene non per legge, ma attraverso un decreto di natura regolamentare che è facile immaginare che sul punto potrebbe non avere vita facile dal momento che, come si è sopra detto, l’intrascrivibilità del matrimonio tra persone dello stesso sesso è finora dipeso dalla inidoneità di tali atti a produrre qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano.
VIII Unioni civili e ordinamento di stato civile
a) La legge 20 maggio 2016, n. 76
Il secondo e il terzo comma dell’art. 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76, che ha disciplinato l’unione civile tra persone dello stesso sesso, definiscono le coordinate normative specifiche della riforma che consente alle coppie maggiorenni dello stesso sesso di dichiarare all’ufficiale di stato civile alla presenza di due testimoni la loro volontà di costituire tra loro una unione civile. L’ufficiale di stato civile riceverà la dichiarazione e provvederà alla registrazione.
Per la valida costituzione dell’unione civile occorre necessariamente la dichiarazione davanti all’uf¬ficiale di stato civile – analogamente al matrimonio (civile) – che ha quindi funzione costitutiva dell’unione civile. A differenza della convivenza di fatto che non ha alcuna necessità di costituzione formale.
La dichiarazione dei due partners di voler costituire l’unione civile deve essere fatta personalmente di fronte all’ufficiale di stato civile alla presenza di due testimoni. La simmetria con il matrimonio è piena: l’art. 107 del codice civile prevede, appunto, che alla presenza di due testimoni l’ufficiale di stato civile riceve da ciascuna parte personalmente la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e moglie.
La legge non prevede l’obbligo delle previe pubblicazioni.
b) Il Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 23 luglio 2016, n. 144 istitutivo dei registri di stato civile
Con la legge 76/2016 il legislatore non aveva indicato quale dovesse essere l’ufficiale di stato civile competente a ricevere la dichiarazione di voler costituire una unione civile, delegando a tale com¬pito (con il comma 28) il Governo ad emanare appositi decreti legislativi per stabilire le modalità della dichiarazione e per adeguare a questa previsione l’ordinamento di stato civile.
Il comma 34 della legge ha anche, però, autorizzato opportunamente il Presidente del Consiglio dei ministri ad emanare entro trenta giorni disposizioni immediate di natura transitoria in attesa dei decreti legislativi di cui si è detto.
Queste disposizioni transitorie sono state adottate il 23 luglio 2016, appunto, con un regolamento del Presidente del Consiglio dei Ministri. Esse prevedono che la richiesta di costituzione dell’unio¬ne civile può essere presentata all’ufficiale dello stato civile del Comune liberamente scelto dagli interessati (non necessariamente quindi quello della residenza comune o della residenza di uno dei due). L’ufficiale dello stato civile, verificati i presupposti, redige immediatamente processo verbale della richiesta e lo sottoscrive unitamente alle parti, che invita, dandone conto nel verbale, a comparire di fronte a sé in una data, indicata dalle parti, immediatamente successiva al termi¬ne di quindici giorni, per rendere congiuntamente la dichiarazione costitutiva dell’unione. Se una delle parti, per infermità o altro comprovato impedimento, è nell’impossibilità di recarsi alla casa comunale, l’ufficiale si trasferisce nel luogo in cui si trova la parte impedita e riceve la richiesta presentata congiuntamente da entrambe le parti. Entro quindici giorni dalla presentazione della richiesta, l’ufficiale dello stato civile verifica l’esat¬tezza delle dichiarazioni, potendo anche acquisire d’ufficio eventuali documenti necessari per pro¬vare l’inesistenza delle cause impeditive indicate nella legge. Nel giorno indicato le parti rendono personalmente e congiuntamente, alla presenza di due testimoni, avanti all’ufficiale dello stato civile del Comune ove è stata presentata la richiesta, la dichiarazione di voler costituire un’unione civile. L’ufficiale, fatta menzione del contenuto dei commi 11 e 12 dell’articolo 1 della legge, redige apposito processo verbale, sottoscritto unitamente alle parti e ai testimoni, cui allega il verbale della richiesta. Nella loro dichiarazione le parti possono rendere la dichiarazione di scelta del re¬gime patrimoniale della separazione dei beni e possono indicare il cognome comune che hanno stabilito di assumere per l’intera durata dell’unione
La successiva registrazione degli atti dell’unione civile (cioè gli adempimenti connessi alla pubbli¬cità dell’atto) è eseguita dall’ufficiale di stato civile che ha ricevuto la dichiarazione dei partner, mediante iscrizione nel registro provvisorio delle unioni civili istituito dal medesimo regolamento del luglio 2016. Gli atti iscritti sono inoltre oggetto di annotazione nell’atto di nascita di ciascuna delle parti. A tal fine, l’ufficiale che ha redatto il processo verbale di costituzione dell’unione lo trasmette immediatamente al Comune di nascita di ciascuna delle parti, conservandone l’originale nei propri archivi.
Gli adempimenti dell’ufficiale di stato civile connessi alla registrazione dell’unione civile, come avviene per il matrimonio, hanno una natura di pubblicità notizia. Servono quindi a rendere cono¬scibile l’atto al quale il legislatore reputa che sia opportuno dare notorietà, senza che la pubblicità produca un particolare effetto circa l’atto ad essa soggetto. L’omissione della registrazione non condiziona, perciò, la validità e l’efficacia dell’atto, che rimane operante tra le parti e sarà opponi¬bile ai terzi indipendentemente dalla mancata attuazione dello strumento pubblicitario.
Solo per quanto concerne la dichiarazione del regime di separazione scelto eventualmente dalle parti dell’unioni civile (che in mancanza di tale scelta entrano nel regime legale di comunione) l’adempimento costituisce un’ipotesi di pubblicità dichiarativa, in quanto come tutte le convenzioni matrimoniali (che per le unioni civili la legge chiama convenzioni patrimoniali) sono assoggettate alla disciplina dell’ultimo comma dell’art. 162 c.c. dove si prevede che la convenzione di separazio¬ne dei beni eventualmente scelta al momento della costituzione del matrimonio o dell’unione civile (ovvero scelta successivamente con atto pubblico notarile) “non può essere opposta ai terzi” se non è annotata a margine dell’atto di matrimonio o di costituzione dell’unione.
c) I decreti legislativi n. 5, 6 e 7 del 19 gennaio 2017 attuativi della legge 76/2016
Sono in vigore dal 30 gennaio 2017 i decreti attuativi della disciplina delle unioni civili di cui alla legge 20 maggio 2016, n. 76. Sono stati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale n. 22 del 27 gennaio 2017. Si tratta dei decreti legislativi n. 5, 6 e 7 del 19 gennaio 2017.
Il decreto legislativo n. 5/2017 apporta modifiche alle norme del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, disciplinando le annotazioni da effettuare sugli atti di costituzione dell’unione civile; regolando le modalità di presentazione ed il contenuto della richiesta di costituzione dell’unione civile, le verifi¬che da parte dell’ufficiale dello stato civile circa l’insussistenza dei presupposti o la sussistenza di un impedimento per la costituzione; disciplinando il procedimento di costituzione di unione civile e le conseguenti annotazioni e trascrizioni da parte dell’ufficiale di stato civile; stabililendo che, come per il matrimonio, il partner dell’unione civile che aggiunge al suo il cognome del partner non perde il suo cognome d’origine.
Il decreto legislativo n. 6/2017 introduce nel codice penale e di procedura penale le disposizioni necessarie a consentire l’equiparazione del partner dell’unione civile al coniuge, prevedendo so¬stanzialmente che agli effetti della legge penale il termine “matrimonio” si intende riferito anche alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso e che la qualità di coniuge previ¬sta come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato si intende riferita anche alla parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso.
il decreto legislativo n. 7/2017 modifica e riordina le norme di diritto internazionale privato in ma¬teria di unioni civili tra persone dello stesso sesso stabilendo –in continuazione con il contenuto del sopra richiamato decreto provvisorio del presidente del consiglio dei ministri del luglio 2016- che il matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani con persona dello stesso sesso produce gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana; analogamente, l’unione civile, o altro istituto analogo, costituiti all’estero tra cittadini italiani dello stesso sesso abitualmente residenti in Italia produce gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana; prevede poi che lo scioglimento dell’unione civile è regolato dalla legge applicabile al divorzio; che i rapporti personali e patri¬moniali tra le parti sono regolati dalla legge dello Stato davanti alle cui autorità l’unione è stata costituita e che su richiesta di una delle parti il giudice può disporre l’applicazione della legge dello Stato nel quale la vita comune è prevalentemente localizzata. Le parti possono sempre convenire per iscritto che i loro rapporti patrimoniali sono regolati dalla legge dello Stato di cui almeno una di esse è cittadina o nel quale almeno una di esse risiede.
TRASCRIZIONE
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 30 settembre 2016, n. 19599 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il giudice italiano, chiamato a valutare la compatibilità con l’ ordine pubblico dell’atto di stato civile straniero, i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, a norma degli artt. 16, 64 e 65 della L. 31 maggio 1995, n. 218 e dell’art. 18 del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, deve verificare non già se l’atto straniero applichi una disciplina della materia conforme o difforme rispetto ad una o più norme interne, seppure imperative o inderogabili, ma se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta Costituzio¬nale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 novembre 2004, n. 22332 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La nozione di ordine pubblico internazionale (anche nel regime di cui all’art. 31 delle preleggi anteriore all’en¬trata in vigore della legge 31 maggio 1995 n. 218) non è enucleabile esclusivamente sulla base dell’assetto ordinamentale interno, in modo da ridurre l’efficacia della legge straniera ai soli casi in cui detta legge sia più favorevole al lavoratore di quella italiana, così da escludere la possibilità di una comparazione dei trattamenti complessivi, destinati al lavoratore nei singoli ordinamenti; in tale direzione, non può ritenersi una coincidenza tra le norme inderogabili dell’ordinamento italiano poste a tutela del lavoratore e i principi di ordine pubblico, dovendo, di contro, questi ultimi ravvisarsi nei principi fondamentali della nostra Costituzione, o in quelle altre regole che, pur non trovando in essa collocazione, rispondono all’esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo, o che informano l’intero ordinamento in modo tale che la loro lesione si traduce in uno stravolgimento dei valori fondanti dell’intero assetto ordinamentale. In particolare, non si pone in con¬trasto con l’ ordine pubblico un contratto individuale di lavoro che, soggetto alla legislazione straniera secondo le prescrizioni di diritto internazionale privato, non riconosca allo stesso lavoratore la tredicesima mensilità e il trattamento di fine rapporto, sempre che lo stesso lavoratore goda di fatto di un trattamento retributivo che glo¬balmente risulti superiore a quello cui avrebbe diritto secondo la legislazione nazionale sulla cui base rivendichi i suddetti emolumenti.
Cass. civ. Sez. I, 11 novembre 2014, n. 24001 (Corriere Giur., 2015, 4, 471 nota di RENDA)
Il divieto di surrogazione della maternità comminato dall’art. 12, comma 6, L. 19 febbraio 2004, n. 40 esprime un principio di ordine pubblico internazionale, in quanto fondamentale ed irrinunciabile per l’ordinamento ita¬liano, per la ragione che esso è assistito da sanzione penale, protegge la dignità costituzionalmente tutelata della gestante e salvaguarda l’istituto dell’adozione, al quale soltanto l’ordinamento affida – attraverso una disciplina governata da regole poste a tutela di tutti gli interessati, in primo luogo dei minori – la realizzazione di progetti di genitorialità privi di legami biologici con il nato. Pertanto, l’atto di nascita formato all’estero, che indichi come genitori del bambino procreato attraverso tale tecnica la donna e l’uomo che vi abbiano fatto ricorso (peraltro, senza alcun legame genetico con il nato) è privo di effetti in Italia perché contrario all’ordine pubblico, con la conseguenza che il minore presente sul territorio italiano deve ritenersi in stato di abbandono e deve esserne dichiarato lo stato di adottabilità.
Corte cost., 10 giugno 2014, n. 162 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 3, 29, 31 e 32 Cost., l’art. 4, comma 3, della legge 19 febbraio 2004 n. 40, nella parte in cui stabilisce per la coppia destinataria delle norme in materia di procreazione medicalmente assistita il divieto di fecondazione di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili.
Cass. civ. Sez. I, 16 aprile 2014, n. 8876 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Va rilevato che la Corte costituzionale, sin dal 1994 (Corte cost., 3 febbraio 1994, n. 13) ha osservato che, posto che nella disciplina giuridica del nome confluiscono esigenze di natura sia pubblica che privata, ove si accerti che il cognome già attribuito ad un soggetto non è quello spettantegli per legge in base allo “status familiae”, l’interesse pubblico a garantire la fede del registro degli atti dello stato civile è soddisfatto mediante la rettifica dell’atto riconosciuto non veritiero, ma non può condurre a sacrificare l’interesse individuale a conservare il cognome mantenuto fino a quel momento nella vita di relazione e divenuto ormai segno distintivo dell’identità personale, tutelata dall’art. 2 Cost.; tanto più che, nel caso in cui la rettifica riguardi persona in età avanzata con discendenti, la negazione dell’interesse individuale finirebbe col pregiudicare lo stesso interesse generale alla certa e costante identificazione delle persone. Pertanto, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo – per contra¬sto con l’art. 2 Cost. – il R.D. 9 luglio 1939, n. 1238, art. 165, nella parte in cui non prevedeva che, quando la rettifica degli atti dello stato civile, intervenuta per ragioni indipendenti dal soggetto cui si riferisce, comportava il cambiamento del cognome, il soggetto stesso potesse ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a man¬tenere il cognome originariamente attribuitogli ove questo fosse ormai da ritenersi autonomo segno distintivo della sua identità personale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 maggio 2007, n. 10215 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ ordine pubblico, che, ai sensi dell’art 16 comma 1, n. 218 del 1995, costituisce il limite all’applicabilità della legge straniera in Italia e che si identifica in norme di tutela dei diritti fondamentali, deve essere garantito, in sede di controllo della legittimità dei provvedimenti giudiziari, con riguardo non già all’astratta formulazione della disposizione straniera, bensì “ai suoi effetti”, cioè alla concreta applicazione che ne abbia fatto il giudice di merito ed all’effettivo esercizio della sua discrezionalità, vale a dire all’eventuale adeguamento di essa all’ordi¬ne pubblico . Detto ordine pubblico non si identifica con quello interno, perché altrimenti le norme di conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all’applicazione di norme materiali aventi contenuto simile a quelle italiane, cancellando la diversità tra sistemi giuridici e rendendo inutili le regole del diritto internazionale privato. (Nella specie, relativa al licenziamento da parte di un istituto di credito italiano di una dipendente il cui rapporto di lavoro, svoltosi negli Stati Uniti, era retto dalla legge locale accettata dalle parti, pur prevedendo la norma statunitense il licenziamento “ad nutum”, astrattamente in contrasto con l’ ordine pubblico , la S.C. ha confer¬mato la sentenza di merito che aveva escluso tale contrarietà perché il provvedimento era fondato sul difetto di esecuzione della prestazione durato per più mesi, fondamento sufficiente al rispetto dell’ ordine pubblico internazionale nella materia lavoristica).
App. Roma, 13 luglio 2006 (Famiglia e Diritto, 2007, 2, 166 nota di SESTA)
È legittimo il rifiuto dell’ufficiale di stato civile alla trascrizione del matrimonio contratto all’estero tra due cittadini italiani dello stesso sesso, in quanto tale unione non presenta uno dei requisiti essenziali per la sua configurabilità come matrimonio nell’ordinamento interno, cioè la diversità di sesso tra gli sposi.
Corte europea diritti dell’uomo, 27 gennaio 2015 (Quotidiano Giuridico, 2015 nota di SCARCELLA)
Le misure, adottate dai giudici italiani, di allontanamento di un minore dalla coppia coniugale con la quale vive, con esclusione di ogni contatto, e di affidamento dello stesso ai servizi sociali in previsione della successiva adozione di terzi, violano il diritto di tale coppia al rispetto della vita familiare, di fatto costituitasi tra i due e il minore medesimo, in contrasto con l’art. 8 Cedu, pur se si tratta di misure adottate in quanto il bambino era nato da pratiche di maternità surrogata in Russia, senza alcun legame genetico con l’uno e l’altro componente della coppia, sicché l’atto di nascita straniero, che indicava gli stessi quali genitori, non era stato trascritto in Italia (la corte ha ritenuto che le misure in oggetto erano sproporzionate, non avendo tenuto conto del superiore interesse del minore, in quanto i giudici italiani hanno fondato l’inidoneità della coppia essenzialmente sulla violazione delle disposizioni sull’adozione internazionale e la procreazione medicalmente assistita).
Cass. civ. Sez. I, 6 dicembre 2002 n. 17349 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di delibazione di sentenze straniere, il concetto di ordine pubblico di cui all’art. 64 lett. g della legge n. 218 del 1995 non si identifica con il cd. ordine pubblico interno – e, cioè, con qualsiasi norma imperativa dell’or¬dinamento civile – bensì con quello di ordine pubblico internazionale, costituito dai (soli) principi fondamentali e caratterizzanti l’atteggiamento etico – giuridico dell’ordinamento in un determinato periodo storico. (Nell’af¬fermare il principio di diritto che precede la S.C. ha, in fatto, escluso che la corresponsione di interessi a tasso particolarmente elevato da parte di debitore italiano nei confronti di una società estera integrasse la violazione della norma sopraricordata, aggiungendo, in punto di fatto, che, comunque, detta corresponsione non costituiva il corrispettivo di un’operazione di natura creditizia – ossia di prestito in denaro, come richiesto dalla normativa na¬zionale antiusura – risultando per converso dovuta in conseguenze di un accertato inadempimento contrattuale).
Corte cost. 14 luglio 1982, n. 138 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente infondata, in riferimento all’art. 101 cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 l. 27 maggio 1929, n. 810, nella parte in cui dà piena ed intera esecuzione al 4°, 5° e 6° comma dell’art. 34 del concordato, e dell’art. 17 l. 27 maggio 1929, n. 847, già dichiarata non fondata con sentenza n. 18 del 1982 per quanto attiene alla riserva alla giurisdizione di tribunali ecclesiastici delle controversie in materia di nullità dei matrimoni canonici, trascritti agli effetti civili.
Cons. Stato Sez. III, 26 ottobre 2015, n. 4899 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Non è trascrivibile in Italia il matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero e il prefetto può an¬nullare l’eventuale trascrizione disposta dal Sindaco quale ufficiale di stato civile
Trib. Treviso Sez. I, 5 giugno 2015 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 28 della legge n. 218 del 1995, il matrimonio celebrato all’estero è valido nel nostro ordina-mento, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione, o dalla legge nazionale di almeno uno dei nubendi al momento della celebrazione, o dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento. Siffatto principio non è condizionato dall’osservanza delle norme italiane relative alla trascrizione, atteso che questa non ha natura costitutiva, ma meramente certificativa e scopo di pubblicità di un atto già di per sé valido.
Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 2015, n. 8097 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
A seguito della dichiarazione di incostituzionalità contenuta nella sentenza 170/14 della Corte costituzionale, deve essere conservato alla coppia unita in matrimonio, per il caso in cui ad uno dei coniugi sia stata ricono¬sciuta la rettificazione dell’attribuzione di sesso, il riconoscimento dei diritti e dei doveri conseguenti al vincolo matrimoniale legittimamente contratto fino a quando il legislatore non consenta ad essi di mantenere in vita il rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti ed obblighi
Corte cost. 11 giugno 2014, n. 170 (Foro It., 2014, 10, 1, 2674).
Sono incostituzionali gli art. 2 e 4 L. 14 aprile 1982, n. 164, nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore.
Cass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17620 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 28 della legge 31 maggio 1995, n. 218, il matrimonio celebrato all’estero è valido nel nostro ordinamento, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione, o dalla legge nazio¬nale di almeno uno dei nubendi al momento della celebrazione, o dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento; tale principio non è condizionato dall’osservanza delle norme italiane relative alla trascrizione, atteso che questa non ha natura costitutiva , ma meramente certificativa e scopo di pubblicità di un atto già di per sé valido. Ne deriva che in tal caso il figlio va considerato, a tutti gli effetti, nato in costanza di matrimonio, onde competente a decidere della regolamentazione dei rapporti personali ed economici fra questi e i genitori è il tribunale ordinario.
Cass. civ. Sez. I, 15 marzo 2012, n. 4184 (Famiglia e Diritto, 2012, 7, 665 nota di GATTUSO).
Il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso, celebrato all’estero, non è inesistente per l’ordinamento italiano, ma soltanto inidoneo a produrre effetti giuridici; anche ai sensi dell’art. 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come evolutivamente interpretato dalla Corte di Strasburgo (sentenza del 24 giugno 2010, “Schalk e Kopf c. Austria”), la diversità di sesso dei nubendi non costituisce presupposto “naturalistico” di “esi¬stenza” del matrimonio. (Fattispecie relativa a cittadini italiani dello stesso sesso, i quali, unitisi in matrimonio nei Paesi Bassi, avevano impugnato il rifiuto di trascrizione dell’atto, opposto dall’ufficiale di stato civile italiano; la S.C., in applicazione del principio, pur respingendo il ricorso degli sposi, ha corretto la motivazione del decreto della Corte territoriale, che aveva legittimato il rifiuto di trascrizione dell’atto in difetto della sua “configurabilità come matrimonio”.
Trib. Latina, 10 giugno 2005 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
La trascrizione dell’atto di matrimonio non ha natura costitutiva in quanto il matrimonio si perfeziona con il consenso dei nubendi (“di sesso diverso”) reso davanti alla competente autorità, e non è quindi elemento essen¬ziale della fattispecie in quanto non incide sul momento genetico del rapporto, tuttavia incide sul suo momento funzionale (e, pertanto, non può ad essa attribuirsi una mera natura dichiarativa o di pubblicità notizia) e ciò in quanto, solo a seguito della trascrizione, si producono nell’ordinamento gli effetti civili del matrimonio, sia di natura patrimoniale che personale, con attribuzione di un vero e proprio “status” di coniuge (nella fattispecie in esame veniva richiesta la trascrizione di un matrimonio contratto all’estero fra persone dello stesso sesso).
Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 1998, n. 10351 (Famiglia e Diritto, 1999, 1, 79)
Le norme di diritto internazionale privato attribuiscono ai matrimoni celebrati all’estero tra cittadini italiani o tra italiani e stranieri immediata validità e rilevanza nel nostro ordinamento, sempre che essi risultino celebrati secondo le forme previste dalla legge straniera (e, quindi, spieghino effetti civili nell’ordinamento dello Stato straniero) e sempre che sussistano i requisiti sostanziali relativi allo stato ed alla capacità delle persone previsti dalla legge italiana. Tale principio non è condizionato dall’osservanza delle norme italiane relative alla trascrizio¬ne, atteso che questa non ha natura costitutiva, ma meramente certificativa, e scopo di pubblicità di un atto già di per sè valido sulla base del principio “locus regit actum”.
Cass. civ. Sez. I, 28 aprile 1990, n. 3599 (Giur. It., 1991, 1, 1072 nota di ARESU)
Il matrimonio celebrato da cittadini italiani (o anche tra cittadini stranieri, in virtù dell’art. 50 ord. stat. civ.) all’estero secondo le forme ivi stabilite, ed anche il matrimonio celebrato all’estero in forma religiosa, ove per tale forma la lex loci riconosca gli effetti civili (sempre che sussistano i requisiti sostanziali relativi allo stato e alla capacità delle persone previsti nel nostro ordinamento) è immediatamente valido e rilevante nell’ordinamento italiano con la produzione del relativo atto, anche al fine di far valere il diritto di succedere al coniuge defunto nel contratto di locazione a lui intestato, indipendentemente dall’osservanza delle norme italiane relative alla pub¬blicazione, che possono dar luogo solo ad irregolarità suscettibili di sanzioni amministrative, ed alla trascrizione nei registri dello stato civile, la quale (a differenza del caso del matrimonio concordatario) ha natura certificativa e di pubblicità , e non costitutiva.
Cass. pen. Sez. VI, 4 luglio 1985 (Riv. Pen., 1986, 835)
I matrimoni contratti all’estero, anche se non trascritti, spiegano in Italia efficacia giuridica, in quanto la trascri¬zione in Italia dei matrimoni civili contratti all’estero da cittadini italiani non ha natura costitutiva, ma dichiarativa e certificativa (applicazione del principio in tema di bigamia).
Cass. pen. Sez. VI, 2 febbraio 1982 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Ai fini della configurabilità del reato di bigamia deve essere considerato legato da precedente matrimonio avente effetti civili anche colui che abbia ottenuto all’estero pronuncia di divorzio non riconosciuta in Italia.
Cass. civ. Sez. I, 8 luglio 1977, n. 3038 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Tutti gli effetti della sentenza di divorzio – sia quelli personali che quelli patrimoniali – si producono tra le parti, i loro eredi o aventi causa, dal momento del suo passaggio in giudicato, secondo i principi generali contenuti negli artt 2908 e 2909 Cod. civ., mentre l’annotazione (o meglio, la trascrizione) nei registri dello stato civile, a norma dell’art. 10della legge n. 898 del 1970, attiene unicamente agli effetti erga omnes della pronuncia stessa, in considerazione dell’efficacia meramente dichiarativa, e non costitutiva ,dello status delle persone fisiche, che è propria dei registri dello stato civile, verificandosi in tal caso una scansione temporale tra la decorrenza della efficacia inter partes, che promana dall’accertamento costitutivo contenuto nel giudicato, e quella erga omnes, comportante la opponibilità ai terzi, che deriva dall’effettuazione dei prescritti adempimenti integrativi della pubblicità (dichiarativa).
Cass. pen. Sez. VI, 16 luglio 1969 (Pluris, WoltersKluwer Italia)
Il delitto di bigamia consiste nel contrarre, in costanza di matrimonio produttivo di effetti giuridici, un altro matrimonio avente anche esso effetti civili. Il reato può essere escluso soltanto dalla giuridica inesistenza o del matrimonio precedente o di quello successivo. Non è giuridicamente inesistente il matrimonio contratto sotto false generalità, onde risponde del reato di bigamia chi, legato da precedente matrimonio, ne contragga un se¬condo attribuendosi false generalità.

RESPONSABILITÀ GENITORIALE

di Gianfranco Dosi

I Il concetto di “responsabilità genitoriale”
Il codice civile all’art. 2 prevede che fino alla maggiore età – fissata al compimento del diciottesimo anno (legge 8 marzo 1975, n. 39) – non si acquista la capacità di agire. Fino a tale età il figlio è soggetto a quella che in base a quanto prevedeva il codice civile all’art. 316 eravamo abituati a chiamare “potestà dei genitori” di cui il legislatore non ha mai fornito una specifica definizione ma nella cui nozione tuttavia, a partire quanto meno dalla riforma del 1975 del diritto di famiglia, si( sono sovrapposti sia il potere di rappresentanza (il cui limite temporale è quello del compimento della maggiore età da parte del figlio) sia un altro fascio di funzioni che supera quel limite cronologico. Con la riforma sulla filiazione (attuata con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 e con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154) anche l’art. 316 del codice civile è stato modificato e l’espressione “potestà dei genitori” è scomparsa venendo sostituita con quella di “responsabilità genitoriale” che peraltro non contiene più il riferimento della durata fino alla maggiore età.
La riforma sulla filiazione ha avuto come obiettivo principale l’unificazione dello stato giuridico di tutti i figli (nuovo art. 315 c.c.) ma il legislatore ha colto anche l’occasione per numerosi altri interventi legislativi su istituti collegati alla filiazione e tra questi, appunto, l’introduzione di una rinnovata disciplina della potestà dei genitori ribattezzata con l’espressione “responsabilità genitoriale”.
Come si dirà più oltre il concetto di responsabilità genitoriale, nel contesto della riforma sulla fi¬liazione, costituisce la presa d’atto di una sempre maggiore ampiezza che ha assunto nel tempo la nozione tradizionale di potestà, ma si accompagna anche a novità giuridiche molto significative che hanno completato in materia di esercizio delle funzioni genitoriali la riforma introdotta dalla legge 14 febbraio 2006, n. 154 sull’affidamento condiviso dei figli in sede di separazione dei geni¬tori, costituendone l’inevitabile completamento nel campo dei principi generali.
L’art. 2 della legge, alla lettera h), aveva delegato il Governo ad unificare le disposizioni che disci¬plinano i diritti e i doveri dei genitori nei confronti dei figli nati nel matrimonio e dei figli nati fuori del matrimonio, “delineando la nozione di responsabilità genitoriale quale aspetto dell’esercizio della potestà genitoriale”. Al legislatore delegato si chiedeva quindi di sintetizzare e disciplinare in modo più adeguato e moderno le regole che presiedono a quell’insieme di poteri e doveri che sono tradizionalmente collegati alle funzioni genitoriali.
Con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 il Governo ha dato attuazione alla delega sul punto attraverso due operazioni.
La prima operazione – di carattere nominalistico è stata quella di eliminare del tutto il termine “potestà” (che nel 1975 aveva soppiantato l’espressione “patria potestà”) sostituendolo con quello di “responsabilità genitoriale”. L’art. 104 del decreto legislativo di attuazione al primo comma prescrive che “la parola potestà riferita alla potestà genitoriale e le parole potestà genitoriale, ovunque presenti, in tutta la legislazione vigente, sono sostituite dall’espressione: responsabilità genitoriale”. La differenza non è solo terminologica dal momento che la nozione di responsabilità appare più idonea a riferirsi giuridicamente ad un soggetto che non ha la posizione di sottoposto ad un potere (come il termine potestà lascerebbe intendere) ma di persona con pari dignità non solo oggetto di tutela ma soprattutto soggetto di diritti.
Questa operazione nominalistica non è, tuttavia, andata esente da qualche critica dal momento che la legge delega non intendeva verosimilmente imporre la sostituzione dei due termini ma aveva soltanto prescritto che venisse delineata una “nozione di responsabilità genitoriale quale aspetto dell’esercizio della potestà genitoriale”. Il legislatore del 2012 pensava ad un affiancamen¬to quindi dei due concetti e non alla loro unificazione. Il decreto di attuazione non sembra però che abbia voluto stravolgere la tradizionale funzione genitoriale determinata dalla sovrapposizione nelle funzioni genitoriali di poteri e di doveri e la nuova terminologia, perciò, non dovrebbe in¬durre a sospettare la scomparsa nella concezione delle funzioni genitoriali di quel fascio di poteri che il concetto di potestà richiamava. Resta l’impressione di una affrettata operazione chirurgica che potrebbe portare a qualche forzatura lessicale (decadenza della responsabilità genitoriale, procedimenti de responsabilitate e così via). Questa operazione di semplificazione operata dalla commissione che ha redatto il testo delle norme di attuazione imporrà in ogni caso alla cultura giuridica il compito di differenziare i due profili (poteri e doveri) all’interno della nuova espressione sintetica proposta dalle norme di attuazione.
Questa prima operazione ha portato, in ogni caso, alla sostituzione della parola “potestà” con l’e-spressione “responsabilità genitoriale” in tutta la normativa civile e penale vigente. Nella relazione illustrativa del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 si afferma a proposito di questa sostituzione ter¬minologica che essa si è resa necessaria in considerazione dell’evoluzione socio-culturale, prima che giuridica, dei rapporti tra genitori e figli e si osserva espressamente che la nozione di responsabilità genitoriale presente da tempo in numerosi strumenti internazionali (come per esempio il regola¬mento europeo n. 2201/2003) è “quella che meglio definisce i contenuti dell’impegno genitoriale non più da considerare come una potestà sul figlio minore, ma come una assunzione di responsabilità da parte dei genitori nei confronti del figlio. La modifica terminologica dà risalto alla diversa visione prospettica che nel corso degli anni si è sviluppata ed è ormai da considerare patrimonio condiviso: i rapporti tra genitori e figli non devono essere più considerati avendo riguardo al punto di vista dei genitori, ma occorre porre in risalto il superiore interesse dei figli minori”.
La seconda operazione è consistita nel dislocare le disposizioni concernenti le funzioni genitoriali in modo più razionale all’interno del titolo IX del primo libro (rinominato “Della responsabilità ge¬nitoriale e dei diritti e doveri del figlio” in sostituzione del precedente “Della potestà dei genitori”) nel quale ora sono state significativamente ridistribuite in due differenti capi da un lato la disciplina “dei diritti e dei doveri del figlio” (I capo: articoli 315 – 337 c.c.) e dall’altro le norme sull’”eserci¬zio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio”(capo II: articoli 337-bis – 337-octies). Questa operazione è senz’altro da consi¬derare del tutto ragionevole e coerente avendo inserito il tema della responsabilità dei genitori nel contesto sistematico nel quale si tratta anche dei diritti e dei doveri figli in generale. La responsa¬bilità dei genitori è, infatti, un concetto unitario che deve valere non solo quando i figli convivono con entrambi i genitori ma anche quando la separazione dei genitori impone una riorganizzazione delle relazioni familiari.
La giustificazione di questa ridistribuzione delle norme giuridiche è stata ben spiegata nella re¬lazione illustrativa del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 dove è stato chiarito che si è voluta superare una discriminazione sistematica a carico dei figli nati fuori dal matrimonio in quanto nell’impianto originario del codice la disciplina relativa ai rapporti tra genitori e figli era dislocata in diverse parti del codice, in parte nel titolo IX, ma soprattutto nel titolo VI dedicato al matrimonio, quasi a voler evidenziare una differenza tra i figli a seconda dell’essere nati o meno nel matrimo¬nio. La discriminazione poi è molto evidente per quanto concerne la disciplina della dissoluzione del vincolo tra i genitori essendo le norme quasi tutte collocate nell’ambito della disciplina della separazione e del divorzio a differenza di quanto ha fatto la legge del 2006 sull’affidamento con¬diviso che ha unificato la disciplina. In questo senso la riforma sulla filiazione si pone nell’alveo di questo movimento di unificazione.

II La normativa sovranazionale che ha suggerito l’introduzione della nuova espressione “responsabilità genitoriale”
Quasi tutti i testi normativi sovranazionali più importanti fanno riferimento alla vita familiare non¬ché ai diritti e ai doveri dei genitori. Tuttavia, nel senso corrispondente al significato giuridico della “potestà”, il testo normativo nel quale è stata esplicitamente utilizzata l’espressione “responsabili¬tà genitoriale” è il Regolamento europeo n. 2201/2003 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale. Il precedente (abrogato) Regolamento europeo n. 1347/2000 ancora utilizzava l’espressione “po¬testà dei genitori”.
In questo testo la responsabilità genitoriale viene così definita dal Regolamento (art. 2): “i diritti e doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore. Il termine comprende, in particolare, il diritto di affidamento e il diritto di visita”. Il diritto di affidamento è definito come l’insieme dei diritti e doveri concernenti la cura della persona di un minore, in particolare il diritto di intervenire sulla decisione riguardo al suo luogo di residenza” mentre il diritto di visita è il diritto di condurre il minore in un luogo diverso dalla sua residenza abituale per un periodo limitato di tempo.
Il Regolamento del 2003 amplia il campo di applicazione della parte relativa alla responsabilità ge¬nitoriale in quanto il precedente Regolamento del 2000 concerneva soltanto le questioni attinenti alla potestà dei genitori coniugati sui figli comuni. Il nuovo Regolamento elimina questa limitazione per evitare discriminazioni tra i minori e trova quindi applicazione per qualsiasi controversia con¬cernente la responsabilità genitoriale sui figli, anche non si entrambi
Poiché il Regolamento n. 2201/2003 si occupa sostanzialmente di risolvere i conflitti di competen¬za tra gli Stati europei individuando i presupposti (art. 3) in base ai quali una causa matrimoniale possa essere considerata di competenza di uno o di un altro Stato, la caratteristica più significativa che deve essere ricordata in tema di responsabilità genitoriale e quella disciplinata dall’art. 12 (ru¬bricato “proroga della competenza”) in relazione al quale le autorità giurisdizionali che sono consi¬derate competenti sulla domanda di separazione, di divorzio o di nullità sono anche competenti a trattare le domande relative alla responsabilità genitoriale. Al di fuori di questi procedimenti e nei casi di genitorialità fuori dal matrimonio vale il principio generale che la competenza appartiene al giudice dello Stato in cui il minore ha la sua residenza abituale (art. 8).
L’altro principio al quale il Regolamento 2201/2003 dà attuazione è quello in base al quale le decisioni pronunciate in uno Stato europeo sono riconosciute negli altri Stati senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento (art. 21). Chi ha interesse può promuovere un giudizio per il riconoscimento al fine di dare esecuzione alla decisione o per il non riconoscimento di una di queste decisioni. L’art. 23 del Regolamento indica i motivi per i quali non è ammesso il riconoscimento e tra questi il caso in cui la decisione è stata resa senza che il minore abbia avuto la possibilità di essere ascoltato. L’istan¬za per l’esecutività non è necessaria quando si tratta di dare attuazione al diritto di visita o al prov¬vedimento che dispone il ritorno del minore nello Stato dal quale è stato illecitamente allontanato.
Come si è sopra detto, nella relazione illustrativa del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 si afferma testualmente, a proposito dell’introduzione dell’espressione “responsabilità genitoriale” in sostitu¬zione di quella di “potestà dei genitori”, che la nuova terminologia si è resa necessaria in conside¬razione della evoluzione socio-culturale, prima che giuridica, dei rapporti tra genitori e figli come da tempo suggerito in numerosi strumenti internazionali quali, appunto, il Regolamento europeo n. 2201/2003.

III Quale importante novità è contenuta nel nuovo articolo 316 del codice civile sull’esercizio della “responsabilità genitoriale”?
a) L’esercizio della responsabilità genitoriale nella filiazione fuori dal matrimonio
La riforma non si è limitata alla sostituzione dell’espressione “potestà dei genitori” con quella di “responsabilità genitoriale” ma ha anche introdotto una importante novità nella disciplina giuridica delle funzioni genitoriali uniformando le regole relative all’esercizio della responsabilità genitoriale dentro e fuori dal matrimonio.
Per comprendere bene il significato di questa novità si deve ricordare che l’articolo 30 della Co¬stituzione prevede che è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio. Proprio per questo motivo la Costituzione ha sempre impresso una carica specifica al tema della uniformità dei doveri e dei diritti dei genitori verso i figli prescindendo dalla nascita nel matrimonio o fuori dal matrimonio. La riforma sulla filiazione e sull’unificazione dello stato giuridico dei figli ha tratto motivazione soprattutto da questa indicazione costituzionale.
Tra le norme che il decreto legislativo ha ridistribuito nel titolo IX del primo libro del codice civile (suddiviso come detto in due nuovi capi) solo alcune sono completamente nuove, come per esem¬pio, all’interno del primo capo, il fondamentale e centrale art. 315 (“tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”), l’art. 315-bis che – assemblando principi già vigenti – elenca in quattro commi i “diritti e doveri del figlio”, l’art. 316 (che come già detto conia la nuova espressione “responsa¬bilità genitoriale” e dal quale scompare quella parte molto criticata che attribuiva al solo padre, nelle situazioni di incombente pericolo per il figlio, il potere di adottare provvedimenti urgenti), l’art. 317-bis sul diritto degli ascendenti a mantenere rapporti significativi con i nipoti, l’art. 336- bis sull’ascolto del minore. Le altre norme, ancorché alcune novellate in modo significativo (come l’art. 337-quater in tema di affidamento esclusivo), riproducono sostanzialmente, sia pure con una nuova numerazione, il precedente assetto normativo anche nella parte in cui era stato modellato dalla riforma dell’affidamento condiviso (legge 8 febbraio 2006, n. 54).
In tema di esercizio della responsabilità genitoriale di fondamentale importanza, per i risvolti che vi sono collegati, è proprio il nuovo art. 316 codice civile dove è contenuto il nuovo principio giuri¬dico sul quale è fondata la “responsabilità genitoriale” che è costituito dall’esercizio della respon¬sabilità attribuito sempre ad entrambi i genitori anche in caso di filiazione fuori dal matrimonio, a modifica del previgente art. 317-bis c.c. che prevedeva, nel secondo comma, quale presupposto dell’esercizio comune della potestà la convivenza dei genitori naturali.
Vi è oggi, pertanto, esercizio della responsabilità genitoriale in capo ad entrambi i genitori naturali anche se essi non convivono o non hanno mai convissuto.
Il nuovo art. 316 c.c. (che, come il precedente, si riferisce alle relazioni familiari nella famiglia uni¬ta), ribadisce innanzitutto al primo comma che “entrambi i genitori hanno la responsabilità genito¬riale che è esercitata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio. I genitori di comune accordo stabiliscono la residenza abituale del mino¬re”. In questa prima parte si ribadisce perciò il principio già espresso dal previgente art. 316 del co¬dice civile dove si prevedeva che “la potestà è esercitata di comune accordo da entrambi i genitori”.
La vera novità sta nella seconda parte del nuovo art. 316 – che si occupa della genitorialità al di fuori del matrimonio – dove si prevede che “il genitore che ha riconosciuto il figlio esercita la responsabilità genitoriale” e poi si precisa che “se il riconoscimento del figlio nato fuori dal matri¬monio è fatto dai genitori l’esercizio della responsabilità genitoriale spetta ad entrambi”.
La rivoluzione normativa è molto evidente se si raffronta questo testo con il previgente art. 317-bis del codice civile dove l’esercizio della potestà da parte di entrambi i genitori che avevano riconosciuto il figlio naturale era, come detto, collegato alla convivenza tra i genitori. Così si esprimeva il secondo comma dell’art. 317-bis prima della sua sostituzione con le nuove norme: “Al genitore che ha rico¬nosciuto il figlio naturale spetta la potestà su di lui. Se il riconoscimento è fatto da entrambi i genitori l’esercizio della potestà spetta congiuntamente ad entrambi qualora siano conviventi”.
Perciò nel sistema normativo precedente, la convivenza dei genitori (l’essere cioè famiglia) era la condizione perché i due genitori fossero ritenuti entrambi esercenti la potestà. Questo presupposto non è più previsto nella legge ora vigente. Ora secondo la nuova legge per esercitare la potestà basta aver riconosciuto il figlio. La famiglia esiste, perciò, si potrebbe dire, anche se i genitori na¬turali non convivono (o non hanno mai convissuto).
Nel caso di separazione della coppia genitoriale – ed è questo un aspetto indubbiamente parados¬sale – la giurisprudenza successiva alla legge sull’affidamento condiviso era già pervenuta a questa conclusione. Uguale operazione interpretativa aveva anche fatto buona parte della dottrina.
La legge 14 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli) aveva espresso – sul versante della separazione dei genitori – il fondamentale principio che dopo la separazione “la potestà sui figli è esercitata da entrambi i genitori” (sia in caso affidamento condiviso che in caso di affidamento esclusivo) (art. 155 – attuale art. 337-ter – c.c.), mentre il secondo comma dell’art 4 della medesima legge prescriveva che “le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”. La so¬stanza della riforma stava soprattutto in tali indicazioni.
b) I problemi posti dal nuovo art. 316 del codice civile e le possibili soluzioni nell’art. 317
Non sono stati ancora sufficientemente dibattuti alcuni problemi che porrà nella pratica la regola nuova dell’esercizio sempre ad entrambi i genitori della responsabilità genitoriale nell’ipotesi di filiazione fuori dal matrimonio, anche se i genitori non convivono o non abbiano mai convissuto.
Intanto – per avere un’idea dell’entità e della problematicità del fenomeno – vi è da dire che se¬condo i dati Istat i figli che nascono oggi fuori dal matrimonio costituiscono circa il 23% del totale (si tratta di nascite da madri singole, vedove o divorziate o da coppie non coniugate).
Questo dato relativo all’incremento del numero di figli nati fuori dal matrimonio si problematicizza in connessione con l’attribuzione della responsabilità genitoriale sempre ad entrambi i genitori ancorché non conviventi o che non abbiano mai convissuto e deve ora anche essere strettamente correlato non solo a quello costituito dalla nuova disciplina giuridica della parentela contenuta nel novellato art. 74 del codice civile che estende il vincolo di parentela anche nel caso in cui la filia¬zione è avvenuta fuori dal matrimonio (rimodellando anche il primo comma dell’art. 258 c.c. che ora prescrive che “il riconoscimento produce effetti riguardo al genitore da cui fu fatto e riguardo ai parenti di esso”) ma anche al dato generale – rilevato però dall’Istat soltanto per le coppie co¬niugate – relativo all’aumento del numero delle separazioni che verosimilmente coinvolge anche le coppie non coniugate. Il tema, infine, deve anche essere collegato all’altro sulle problematiche delle famiglie ricomposte che la riforma del 2013 sulla filiazione non ha minimamente disciplinato.
Consegue a questi dati un quadro di grande complessità e di evidente problematicità che tocca da vicino il tema dei differenti modelli familiari nell’attuale società.
Si può fare l’esempio di due genitori naturali che non convivono (perché hanno smesso di convive¬re o perché non hanno mai convissuto) e che formano ognuno una nuova famiglia (matrimoniale o non matrimoniale) con un nuovo partner mettendo al mondo un altro figlio. Si determina la situazione nuova seguente: il figlio di entrambi è parente in linea collaterale (fratello) di ciascuno dei figli (e zio dei figli dei fratelli) nati dalla relazione del genitore con il nuovo e la nuova partner. La stessa situazione si verifica per il figlio nato da due genitori uniti in matrimonio ove il padre dovesse riconoscere nel corso del matrimonio un figlio nato da una relazione extraconiugale. E così via in un reticolo una volta inimmaginabile di parentela.
La problematicità che qui si vuole mettere in evidenza deriva, però, non tanto dall’estendersi della rete della parentela in sé (che potrebbe creare indubbiamente sul piano successorio un ampliamento significativo del numero dei chiamati all’eredità) quanto piuttosto dalla necessaria compresenza e cogestione quindi della responsabilità genitoriale. Come può essere esercitata la responsabilità genitoriale, per di più di comune accordo, tra genitori naturali che potrebbero tro¬varsi in condizione di pressoché totale estraneità reciproca e, soprattutto, nei confronti di un figlio con cui magari non si è mai convissuto?
Inoltre, anche alcune norme specifiche determinano una condizione di applicazione problematica. Si consideri per esempio l’ultimo comma dell’art. 320 c.c. che attribuisce all’altro genitore che magari non ha mai convissuto neanche con il figlio, il potere di rappresentarlo, in caso di conflitto di interessi tra il figlio e il genitore con lui convivente esercente la potestà/responsabilità. Si consideri, ancora, per esempio la norma che disciplina l’usufrutto legale. L’art. 324 c.c. (usufrutto legale) prevede che “i genitori esercenti la responsabilità genitoriale hanno in comune l’usufrutto dei beni del figlio” e si immagini un minore che vive con la madre. Non solo la madre ma anche il padre, ancorché per esempio non abbia mai convissuto con l’altro genitore (e con il minore), sarà titolare dell’usufrutto. E così per altre norme, come per esempio, per l’art. 328 c.c. (nuove nozze) il quale prevede che “il genitore che passa a nuove nozze conserva l’usufrutto legale, con l’obbligo di accantonare in favore del figlio quanto risulti eccedente rispetto alle spese per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione di quest’ultimo”.
Il rimedio può essere trovato nell’art. 317 del codice civile.
Questa norma è rimasta invariata anche dopo la riforma sulla filiazione del 2013 e continua a di¬sciplinare i casi di “impedimento di uno dei genitori” prevedendo al primo comma che “nel caso di lontananza, di incapacità o di altro impedimento che renda impossibile ad uno dei genitori l’esercizio della responsabilità genitoriale, questa è esercitata in modo esclusivo dall’altro” (primo comma).
Si tratta però di verificare se i casi di lontananza, incapacità o altro impedimento (si pensi ad una grave malattia, allo stato di detenzione, alla prolungata assenza per motivi di lavoro dal territorio nazionale, al ricovero presso una struttura ospedaliera o presso una comunità terapeutica, ad una condizione di incapacità naturale prolungata) producano automaticamente l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale in capo all’altro genitore oppure se serva sempre un provvedimento del giudice (come per il secondo comma che disciplina i casi di separazione della coppia genitoriale).
Si tratta di un interrogativo importante perché ove si ritenesse che l’esercizio esclusivo della respon-sabilità genitoriale in capo a un genitore derivi automaticamente dalla lontananza, dalla incapacità o dall’impedimento dell’altro, saremmo in presenza di una situazione capace di neutralizzare sul nascere i rischi che, come si è detto, potrebbero derivare dall’attribuzione sempre dell’esercizio della responsabilità ad entrambi i genitori anche se non convivono o non hanno mai convissuto.
Se si dovesse interpretare la disposizione nel suo senso letterale dovremmo optare per la soluzio¬ne dell’automaticità in quanto solo con riferimento alla separazione, al divorzio e all’annullamento del matrimonio il secondo comma dell’art. 317 rimette al giudice la decisione. E d’altro lato il primo e il secondo comma si riferiscono a due situazioni del tutto incompatibili l’una dall’altra (nonostan¬te la rubrica della disposizione (impedimento di uno dei genitori) che si riferisce alla ipotesi del solo primo comma.
Va anche chiarito che l’ipotesi di cui al primo comma naturalmente lascia sempre il genitore im¬pedito, incapace o inidoneo titolare della potestà/responsabilità. È il classico caso di dissociazione tra titolarità e potestà/responsabilità. Situazione peraltro che si verifica anche nel caso di cui al secondo comma. E quindi il problema si pone solo nel caso in cui non sia stata dichiarata eviden¬temente la decadenza della potestà/responsabilità.
Pertanto il problema è solo stabilire se nell’ipotesi di incapacità, lontananza o altro impedimento l’esercizio esclusivo della responsabilità si realizza automaticamente o serve un provvedimento del giudice.
La risposta che nel lontano passato ha dato la giurisprudenza è che l’esercizio della potestà si concentra sull’altro genitore automaticamente ed altrettanto automaticamente riprende al venir meno dell’impedimento, senza la necessità di un provvedimento del giudice (Cass. civ. 27 mag¬gio 1975, n. 2122). Si tratta però di una sentenza troppo risalente per attribuirle con certezza una valenza attuale. La dottrina, anche essa non più vicina nel tempo – è nel dubbio se spetti al genitore che ha esercitato la potestà provare che vi era un impedimento in capo all’altro genitore o se si deve presumere che il genitore che agisce da solo lo fa validamente spettando all’altro che impugna l’atto provare che l’impedimento non sussisteva o non era tale da rendere impossibile l’esercizio congiunto della potestà.
Parte della dottrina giustamente ha sottolineato in proposito che poiché la regola dell’accordo costituisce un principio generale nel diritto di famiglia, la violazione di questa regola dovrebbe comportare una inversione dell’onere probatorio. Il genitore escluso quindi potrebbe limitarsi ad impugnare l’atto mentre spetterebbe all’altro genitore convenuto in giudizio provare l’esistenza dei presupposti di operatività dell’esercizio esclusivo e cioè l’esistenza di un fatto impeditivo che precludeva la possibilità di compiere insieme l’atto impugnato.
Per impedire effetti dirompenti derivanti dal principio di esercizio congiunto della responsabili¬tà anche nei casi di lontananza, incapacità o altro impedimento di un genitore (art. 317, primo comma, c.c.) è possibile enucleare una regola generale nuova che consente di ritenere legittimo l’esercizio automatico esclusivo della responsabilità genitoriale da parte di un genitore (mediante un certo comportamento o mediante l’adozione di un determinato atto) tutte le volte in cui si realizza una condizione di lontananza, incapacità o di impedimento dell’altro genitore tale da non potersi pretendere la decisione congiuntamente o concordata; fatto sempre salvo il potere del giu¬dice di intervenire su istanza di uno dei genitori per regolamentare l’esercizio della responsabilità genitoriale attraverso il procedimento di cui agli articoli 337-bis e seguenti del codice civile. Sarà in questo caso il giudice a verificare se l’inidoneità, l’incapacità o l’impedimento costituiscano fatti impeditivi all’esercizio congiunto della responsabilità genitoriale.
Nell’esercizio dei poteri di rappresentanza e amministrazione del figlio da parte dei genitori e cioè nei casi di cui all’art. 320 c.c. – e sempre che non sia stato richiesto l’intervento del giudice per la regolamentazione dell’affidamento – il procedimento sarà diverso. Il genitore che convive con il figlio e che quindi esercita la responsabilità genitoriale, in caso di lontananza, incapacità o im¬pedimento dell’altro genitore, può legittimamente rappresentare e amministrare i beni del figlio mentre l’altro genitore eventualmente in disaccordo potrà richiedere l’intervento del giudice ex art. 316 c.c. secondo le regole del procedimento ivi descritto.
c) Gli orientamenti della giurisprudenza
Prima della riforma del 2012 sull’uniformità della disciplina giuridica tra filiazione fondata sul matrimonio e filiazione fuori del matrimonio, la giurisprudenza si era chiesta se la regola giuridi¬ca indicata allora nel secondo comma dell’art. 317-bis c.c. dell’esercizio della potestà in capo ad entrambi i genitori solo se conviventi, dovesse considerarsi sostituita (dopo la riforma dell’affida¬mento condiviso del 2006) con una nuova regola di esercizio sempre comune della potestà (anche se i genitori naturali non convivessero o non avessero mai convissuto).
La risposta fu positiva e si ritenne che la cessazione della convivenza tra i genitori naturali non conduce alla cessazione dell’esercizio della potestà, perché la potestà genitoriale in regime di af¬fido condiviso è esercitata da entrambi i genitori, salva la possibilità per il giudice di attribuire a ciascun genitore il potere di assumere singolarmente decisioni sulle questioni di ordinaria ammini¬strazione (Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2007, n. 8362 e poi da Cass. civ. Sez. I, 20 settembre 2007, n. 19406 in cui si esprimeva il convincimento che la legge 8 febbraio 2006, n. 54, applica¬bile in forza dell’art. 4, 2° co., anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, non ha abrogato l’art. 317-bis c.c. (che negava l’attribuzione dell’esercizio della potestà al genitore non convivente con i figli) ma ne ha profondamente innovato il contenuto precettivo alla luce dei nuovi principi espressi dalla riforma dell’affidamento condiviso.
Il problema dell’equiparazione tra i genitori esercenti o non esercenti la potestà genitoriale si era posto in modo molto significativo soprattutto in materia di adozione dove l’art. 46, 2° comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184 stabilisce che solo il mancato assenso del genitore esercente la potestà (e non del genitore che non la esercita) preclude al tribunale la pronunzia dell’adozione in casi particolari1.
Prima della riforma sulla filiazione del 2012 Cass. civ. Sez. I, 26 ottobre 1992, n. 11604 aveva ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale di questa norma atteso che la di¬sposizione che conferisce effetti ostativi alla sola volontà del genitore esercente la potestà, trova ragion d’essere nella considerazione che solo la comunanza di vita e la conseguente conoscenza degli interessi e delle esigenze del minore rendono rilevante il dissenso, così evidenziando una mancanza di omogeneità rispetto alla condizione del genitore che tale potestà non esercita.
Ha fatto applicazione dei nuovi principi Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2011, n. 10265 che in un caso di adozione del figlio del proprio coniuge ex art. 44 della legge 184/83 in cui è previsto il necessario consenso all’adozione dell’altro genitore esercente la potestà, ha ritenuto di dare rile¬vanza al dissenso manifestato dal genitore naturale non convivente considerandolo esercente della potestà. La sentenza ha affermato che in tema di adozione in casi particolari, ha efficacia preclu¬siva il dissenso manifestato dal genitore naturale non convivente dovendo egli ritenersi comunque “esercente la potestà”, pur quando lo stesso non sia mai stato convivente con il minore; invero, la legge 8 febbraio 2006, n. 54 sull’esercizio della potestà in caso di crisi della coppia genitoriale e sull’affidamento condiviso, applicabile anche ai figli di genitori non coniugati, ha corrispondente¬mente riplasmato l’art. 317 bis cod. civ.. Il principio della bigenitorialità ha, infatti, informato di sé il contenuto precettivo della norma citata, eliminando ogni difformità di disciplina tra figli legittimi e naturali, cosicché la cessazione della convivenza tra genitori naturali non conduce più alla ces¬sazione dell’esercizio della potestà.
Le conclusioni cui è giunta questa sentenza non sono diverse da quelle che in passato erano già state anticipate da Cass. civ. Sez. I, 5 agosto 1996, n. 7137 in una vicenda analoga.
In conclusione il principio vigente (ora introdotto espressamente dalla nuova legge di riforma sulla filiazione del 2013) dovrebbe essere che l’esercizio della responsabilità genitoriale al di fuori del matrimonio è attribuito ad entrambi i genitori anche nel caso in cui i genitori non convivano o non abbiamo mai convissuto.
Sennonché recentemente a rimettere in discussione il principio con riferimento proprio all’adozio¬ne in casi particolari è stata Cass. civ. Sez. I, 21 settembre 2015, n. 18576 affermando che “per genitori esercenti la responsabilità genitoriale, il cui dissenso, ai sensi della legge n. 184 del 1983, art. 46, 2° comma, impedisce l’adozione particolare, debbono intendersi i genitori che non siano meri titolari della responsabilità stessa, ma ne abbiano altresì il concreto esercizio grazie ad un rapporto effettivo con il minor, caratterizzato di regola dalla convivenza, in ragione della cen¬tralità attribuita dagli artt. 29 e 30 Cost. all’effettività del rapporto genitore-figlio”.
Nella vicenda la Corte ha ritenuto superabile, in ragione del preminente interesse della minore (per la quale i due coniugi che l’avevano in affidamento provvisorio avevano richiesto l’adozione)
1 ART. 46.
Per l’adozione è necessario l’assenso dei genitori e del coniuge dell’adottando.
Quando è negato l’assenso previsto dal primo comma, il tribunale, sentiti gli interessati, su istanza dell’adot¬tante, può, ove ritenga il rifiuto ingiustificato o contrario all’interesse dell’adottando, pronunziare ugualmente l’adozione, salvo che l’assenso sia stato rifiutato dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale o dal coniuge, se convivente, dell’adottando. Parimenti il tribunale può pronunciare l’adozione quando è impossibile ottenere l’assenso per incapacità o irreperibilità delle persone chiamate ad esprimerlo.
il dissenso all’adozione manifestato dalla madre dell’adottanda, che non esercitava in concreto, da molti anni, la responsabilità genitoriale sulla figlia, con la quale non intratteneva alcun effettivo rapporto se non quello esplicantesi, in epoca più recente, negli incontri protetti. La Corte ha esclu¬so l’illegittimità dell’adozione per difetto di consenso della madre dell’adottanda, non avendo ella mai instaurato un rapporto con la figlia, che sin da tenera età era stata inserita in un istituto per minori e poi data in affidamento a due coniugi. La Corte di cassazione ricorda che il limite alla va¬lutazione dell’interesse dell’adottando, da parte del giudice, costituito dalla insuperabilità del dis¬senso dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale ha una giustificazione in valori costituzio¬nalmente garantiti, quali quello della conservazione del vincolo familiare e della società coniugale effettivamente vissute. In questo è evidente il ruolo centrale attribuito alla effettività del rapporto genitore-figlio. Non già l’astratta spettanza della responsabilità genitoriale, bensì la effettività del vincolo familiare (di regola nella convivenza) giustificano la speciale protezione attribuita a tale vincolo (che si esplica nella rilevanza del dissenso) in applicazione dei principi di cui agli articoli 29 e 30 della Costituzione. Ritiene dunque il Collegio che per genitori esercenti la responsabilità genitoriale, il cui dissenso, ai sensi della l’art. 46 della legge 184 del 1983 impedisce l’adozione particolare, debbano intendersi i genitori che non siano meri titolari della responsabilità stessa, ma ne abbiano altresì il concreto esercizio grazie a un rapporto effettivo con il minore.

IV La responsabilità genitoriale inizia con l’attribuzione dello status o con la nascita?
Quando comincia la responsabilità genitoriale?
Secondo l’insegnamento tradizionale il confine di inizio dovrebbe coincidere con l’acquisizione dello status (con la denuncia di nascita se il figlio è nato da genitori coniugati o con il riconoscimento se è nato fuori del matrimonio). Pertanto non si è mai dubitato del fatto che i genitori sono investiti della potestà/responsabilità con la formazione del titolo di stato della filiazione.
Tuttavia da alcuni anni la giurisprudenza che si è occupata della filiazione fuori dal matrimonio ha voluto richiamare l’art. 30 della Costituzione (“E’ dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”) per farne conseguire l’affermazione del principio che la responsabilità genitoriale è collegata non all’acquisizione dello status ma alla pro¬creazione. I doveri cui fa riferimento l’art. 30 della Costituzione non sarebbero cioè condizionati al riconoscimento del figlio ma deriverebbero dalla nascita in sé.
Ci sono conferme nel sistema giuridico positivo che possano far pensare ad una anticipazione della responsabilità genitoriale a prima dell’acquisto dello status?
Se l’art. 320 c.c. attribuisce ai genitori il potere di rappresentare anche i figli nascituri in tutti gli atti civili, così come anche il potere di accettare le eredità (art. 462 c.c.) o le donazioni (art. 784) loro devolute e di amministrarle (art. 643 c.c.), vuol dire che poteri e doveri di protezione sono riconosciuti anche prima della nascita.
Il diritto di nascere sano (Cass. civ. Sez. III, 11 maggio 2009, n. 10741) è sul versante giuri¬sprudenziale la conferma di questa tutela anticipata.
È pur vero che la rappresentanza e l’amministrazione di cui sono investiti i genitori nei casi indicati appaiono forse soprattutto rispondenti ad esigenze di tutela di patrimoni senza titolare o a esigenze minime di protezione dei nascituri, ma anche vero che in queste situazioni non si può non parlare oggettivamente di ampliamento della responsabilità oltre i confini tradizionali della nascita.
È stato, però, soprattutto il diritto del figlio al mantenimento fin dalla nascita ad essere al centro negli ultimi anni di un dibattito in giurisprudenza che ha portato gradualmente all’anticipazione al momento della nascita dell’attribuzione dei doveri genitoriali connessi alla potestà/responsabilità.
In passato Corte cost. 13 maggio 1998, n. 166 aveva avuto modo di richiamare la solennità di questo dovere affermando che “Il primo obbligo enunciato dall’art. 147 c.c. consiste in quello di mantenimento della prole: è questo un dovere inderogabile, che nella sua concreta attuazio¬ne è commisurato in proporzione alle rispettive sostanze dei genitori e alle capacità di lavoro di ciascuno”. Ne è conseguita nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione che “la sentenza di accertamento della filiazione naturale, in quanto ha natura dichiarativa dello stato biologico di procreazione, fa sorgere a carico del genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, compreso quello di mantenimento” (Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2003, n. 2196; Cass. civ. Sez. I, 4 maggio 2000, n. 5586; Cass. civ. Sez. I, 14 agosto 1998, n. 8042). Il figlio ricono¬sciuto tardivamente (spontaneamente o in sede giudiziale) ha perciò diritto al mantenimento con decorrenza dalla nascita. Naturalmente il mantenimento si suddividerà tra entrambi i genitori, essendo entrambi tenuti al dovere di mantenere il figlio. A tale proposito Cass. civ. Sez. I, 3 no¬vembre 2006, n. 23596 aveva osservato: “Questa Corte ha più volte affermato che la sentenza di accertamento della paternità o maternità naturale ha natura dichiarativa Tale principio va peraltro inteso nel senso che la sentenza accerta uno status che attribuisce al figlio naturale tutti i diritti che competono al figlio legittimo con efficacia retroattiva, sin dal momento della nascita, secondo la previsione degli articoli 147 e 148 in forza del combinato disposto degli articoli 261 e 277. L’esercizio dei diritti connessi a tale status non può peraltro prescindere dall’accertamento giudiziale o dal riconoscimento effettuato dal genitore. In quanto attributiva di uno status e dei diritti ad esso connessi, la sentenza va pertanto qualificata, ai fini che qui interessano, come costitutiva, nel senso che senza di essa lo status di figlio naturale non sorge e non vi può esse¬re rivendicazione utile dei diritti che a tale status si accompagnano, ancorché per effetto della pronuncia il godimento di tali diritti retroagisca alla data della nascita”. La decisione in questione parla di “natura costitutiva della sentenza dichiarativa della filiazione”.
La sentenza che accerta e dichiara la filiazione ha quindi natura costituiva anche se i suoi effetti retroagiscono al momento della nascita, garantendo così al figlio minore una copertura completa del suo diritto al mantenimento dalla nascita in poi.
Sulla decorrenza dalla nascita dell’obbligazione di mantenimento in seguito alla sentenza che ac¬certa la filiazione, la giurisprudenza è copiosa e assolutamente consolidata (oltre alle sentenze so¬pra citate Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652; Cass. civ. Sez. I, 20 dicembre 2011, n. 27653; Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2010, n. 22506; Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2007, n. 26575; Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 2007, n. 24409; Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328; Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124; Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2003, n. 7386). In molte decisioni espressamente il dovere di mantenimento viene collegato all’avvenuto accertamento della paternità, e si precisa che i doveri genitoriali sorgono con decorrenza dalla nascita ma in seguito al riconoscimento ancorché tardivo oppure in seguito alla sentenza (Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2005, n. 15100; Cass. civ. Sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124; Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2003, n. 7386; Cass. civ. Sez. I, 14 febbraio 2003, n. 2196; Cass. civ. Sez. I, 4 maggio 2000, n. 5586; Cass. civ. Sez. I, 14 agosto 1998, n. 8042).
Quindi nelle sentenze sopra riportate l’affermazione della decorrenza dalla nascita dell’obbligazio¬ne di mantenimento non comporta ancora in giurisprudenza l’enucleazione chiara di un principio di decorrenza dalla nascita incondizionato. Il dovere di mantenimento è pur sempre condizionato al riconoscimento o alla sentenza di attribuzione dello status. Se non vi è riconoscimento o se non vi è la sentenza sulla filiazione non è possibile parlare di dovere genitoriale di mantenimento dalla nascita.
Solo negli ultimi anni, invece, parte della giurisprudenza si è interrogata sempre più spesso, sul problema se l’obbligazione di mantenimento prescinda o meno dall’avvenuto, sia pure tardiva¬mente, riconoscimento e sorga, invece, per il fatto in sé della procreazione. A questo interrogati¬vo, dopo qualche presa di posizione iniziale più sfocata o contraria, viene data oggi una risposta sostanzialmente positiva e la più recente giurisprudenza ha così affermato il principio della anti¬cipazione della responsabilità genitoriale al momento della procreazione indipendentemente dal riconoscimento.
Ed anzi, la violazione dell’obbligo di mantenimento è stata ritenuta addirittura fonte di risarci¬mento del danno alla cui base vi sarebbe il fatto illecito costituito dalla violazione del dovere di mantenimento.
Si tratta id una ricostruzione che potrebbe apparire per certi forzata e tautologica – e si tratterà di vedere se sarà o meno confermata nel tempo – ma è quella che certamente emerge nelle sentenze più recenti.
La giurisprudenza ha, quindi, costruito un illecito da mancato riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio. Illecito che – occorre però aggiungere – non sussiste certamente per la madre allorché, come prescrive, l’articolo 30, primo comma, dell’ordinamento di stato civile (DPR 3 no¬vembre 2000, n. 396) la dichiarazione di nascita è chiamata a rispettare “l’eventuale volontà della madre di non essere nominata”. Pertanto la donna nel nostro ordinamento non ha certamente l’obbligo di riconoscere il figlio; al contrario ha il diritto di conservare l’anonimato. Diritto che cede di fronte all’azione di reclamo da parte del figlio del suo status e all’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità.
Alcune decisioni della giurisprudenza di merito avevano in passato attribuito al figlio, dopo il rico-noscimento giudiziale della paternità, il diritto al risarcimento dei danni. Si tratta di vicende pro¬cessuali nelle quali si è discusso, però, solo dei danni subìti dal figlio a causa del fatto di non essere stato tempestivamente riconosciuto dal padre e non delle norme giuridiche che fonderebbero la connotazione illecita dell’omesso riconoscimento.
In una causa nella quale il figlio, dopo aver ottenuto una sentenza di riconoscimento giudiziale della paternità, agiva per il risarcimento dei danni, è stato dichiarato che “è fonte di responsabilità extracontrattuale il comportamento di un genitore che, venendo meno ai propri obblighi nascenti dal rapporto di filiazione, abbia scelto di non riconoscere il bambino e non abbia provveduto in alcun modo al suo mantenimento” (Trib. Venezia, 18 aprile 2006).
In una causa risarcitoria intentata dalla madre e dal figlio dopo il riconoscimento giudiziale della pa¬ternità il Tribunale di Modena ha sostenuto che “la condotta del padre che non abbia riconosciuto il figlio naturale e si sia rifiutato di adempiere gli obblighi derivanti dal rapporto di filiazione, è contraria agli articoli 147, 148 e 261 c.c. e causa un danno esistenziale al figlio naturale e alla madre che, nel caso di specie, si manifesta, per la donna, sul piano delle relazioni sociali, per il figlio, nelle riper¬cussioni sociali derivanti dalla consapevolezza di non essere mai stato desiderato e trattato come figlio. Il diritto al risarcimento del danno da essi subito, nonché il diritto della madre al rimborso pro quota delle spese effettuate per il mantenimento del figlio naturale, può essere tutelato attraverso il sequestro conservativo autorizzato sui beni del padre e sulle somme e cose al medesimo dovute” (Trib. Modena, 12 settembre 2006).
Dello stesso avviso anche Trib. Trani, 27 settembre 2007 che, pur scettico sulla possibilità di un risarcimento per omesso riconoscimento del figlio ha però, contraddittoriamente negato il ri¬sarcimento per mancanza di prova. Nella sentenza si sostiene che “la domanda di risarcimento del danno esistenziale per omesso riconoscimento del figlio naturale va rigettata ove sfornita di prova in quanto, premesso che la legge non prevede l’obbligatorietà del riconoscimento del figlio natura¬le, il figlio ha l’onere di provare che, benché alla soddisfazione dei suoi bisogni avesse provveduto la sola madre, quest’ultima non è riuscita a garantirgli un diverso tenore di vita, che altrimenti sarebbe stato raggiunto attraverso la regolare corresponsione dell’assegno di mantenimento da parte del padre. D’altra parte – anche in considerazione dell’elevato lasso di tempo fatto decorrere dal diretto interessato per la richiesta di risarcimento del danno derivante dal mancato riconosci¬mento e mantenimento (ventiquattro anni) – non può affatto presumersi che la prova del danno esistenziale sia in re ipsa, ovvero che derivi, automaticamente, dal solo mancato riconoscimento. Infatti, non può essere risarcito un danno che prescinda completamente dalla prospettazione e dimostrazione di una qualche conseguenza negativa in capo alla vittima, in quanto disancorare il risarcimento del danno dall’accertamento dell’esistenza di un qualche riflesso negativo, di caratte¬re personale e patrimoniale nella sfera del soggetto leso, significa costruire una categoria di danno “automatico”, direttamente innescato da un fatto illecito senza che vi sia dimostrazione alcuna della modificazione, in peius, della vita della vittima.”
Un’altra analoga decisione (Trib. Roma, 27 ottobre 2011) ha dichiarato “ammissibile il risar¬cimento del danno non patrimoniale a favore delle figlie, a causa del comportamento del padre naturale che si è sottratto volontariamente all’assolvimento degli obblighi derivanti dal rapporto di filiazione. Due sorelle quarantenni avevano citato in giudizio il loro presunto padre naturale, chiedendo l’accertamento giudiziale della paternità e formulando specifiche domande di natura patrimoniale tra cui una domanda di risarcimento del danno morale patito in relazione al mancato riconoscimento da parte del genitore. Il tribunale, accertata la paternità biologica, dichiarava il convenuto padre naturale delle due sorelle, respinge le domande di mantenimento pregresso ma accoglieva la domanda di risarcimento del danno morale “originato dalla sofferenza patita per la privazione della figura genitoriale”.
In una causa risarcitoria anche in questo caso seguita all’accertamento della paternità App. Bo¬logna, 10 febbraio 2004 ha ritenuto che “l’inadempimento da parte del padre agli obblighi di cui agli artt. 147 e 148 c.c., provoca, nei confronti del figlio, un danno ai valori fondamentali della persona, così come garantiti dagli artt. 2 e ss. Cost. È configurabile quale nuovo danno non patrimoniale (esistenziale) la violazione da parte del genitore dell’obbligo di mantenimento ed assistenza del figlio naturale”.
Anche Cass. civ. Sez. I, 7 giugno 2000, n. 7713 si è occupata di una vicenda analoga dove però l’obbligo risarcitorio trovava la sua fonte non nel tardivo riconoscimento – cui si era giunti in sede giudiziaria – bensì nella circostanza che dopo la condanna alla corresponsione del mantenimen¬to il padre non aveva versato per anni il mantenimento. Questo comportamento (che costituiva in modo molto evidente l’illecito) è stato sanzionato con la condanna al risarcimento dei danni. Quindi, in questa sentenza, la misura risarcitoria consegue non all’omissione del riconoscimento spontaneo ma all’illecito consistente nell’aver omesso per anni il pagamento del mantenimento a cui il padre era stato condannato. La decisione in questione, pertanto, non può essere accomunata alle precedenti.
Premesso che la decisione del 2000 della Cassazione sopra riportata non ha affrontato il tema del risarcimento per omesso riconoscimento, ma solo per mancato adempimento di un obbligo scatu¬rito da una sentenza di condanna al mantenimento – giungendo a conclusioni assolutamente ac¬cettabili – si deve ribadire che nessuna delle decisioni di merito sopra esaminate individua – come si è detto – la fonte dell’asserito obbligo di riconoscimento del figlio alla cui violazione potrebbe collegarsi una pretesa risarcitoria.
Come si è detto è stata la giurisprudenza di legittimità a porsi alla ricerca di qualche spunto ri¬costruttivo che possa giustificare l’affermazione che l’omesso riconoscimento del figlio costituisce per chi ha consapevolezza di esserne il padre, fonte di obbligazione non solo di mantenimento ma anche risarcitoria.
In Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328 si legge per esempio che “l’obbligo di mante¬nere i figli sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità natu¬rale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori.
Più articolata si presenta Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2006, n. 23596 dove si legge: “Nell’i¬potesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto per¬ciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato da parte di entrambi i genitori… La legge pone a carico dei genitori l’obbligo di mantenere i figli per il solo fatto di averli generati …Da ciò consegue che il genitore naturale, dichiarato tale con prov¬vedimento del giudice, non può sottrarsi alla sua obbligazione nei confronti del figlio per la quota posta a suo carico, ma è tenuto a provvedere, sin dal momento della nascita”.
In senso analogo molte sentenze successive (tra le più recenti Cass. civ. Sez. VI – 1, 14 luglio 2016, n. 14417; Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960, Trib. Cassino, 13 luglio 2017).
Da queste affermazioni tuttavia non sembra ancora potersi indurre che l’obbligo di mantenimento esiste a prescindere dall’accertamento della paternità. Infatti la sentenza 23596 del 2006, trattando il tema della prescrizione della domanda di rimborso del mantenimento pregresso fatta dal genitore che da solo aveva sostenuto il mantenimento del figlio, afferma che prima della sentenza dichia¬rativa della paternità (passata in giudicato) nessuna prescrizione può correre (contrariamente a quanto aveva ritenuto la Corte d’appello). Espressamente si afferma “Ora pare evidente che sino al momento in cui si forma il giudicato in ordine alla domanda di accertamento della paternità o ma¬ternità naturale, non sorge lo status di figlio naturale e quindi difetta il presupposto per l’esercizio delle azioni che a tale status si riconnettono”.
Il che significa, però, che anche il dovere di mantenimento dovrebbe essere condizionato all’ac-certamento della paternità. Non sussisterebbe, perciò – contrariamente a quanto alcuni passaggi della decisione potrebbero lasciar intendere – alcun dovere di mantenimento dalla nascita se non quando sopraggiunga e passi in giudicato la sentenza dichiarativa della paternità naturale.
Piuttosto decisa, invece, nella direzione dell’automaticità del dovere di mantenimento dalla na¬scita è stata App. Roma, 7 settembre 2011 secondo cui testualmente “l’obbligo per il genitore di contribuire al mantenimento del figlio maggiore di età non economicamente indipendente si configura quale effetto immediato ed ineludibile del rapporto di filiazione, che prescinde dalla tito¬larità della potestà genitoriale e si radica nell’affermazione di responsabilità per il solo fatto della procreazione.
E’ stata una successiva sentenza ad affrontare per la prima volta ex professo il tema del risarci¬mento del danno (Cass. civ. Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652). Un uomo si era rifiutato di rico¬noscere il figlio nonostante numerose richieste dell’altro genitore. All’esito della causa di accerta¬mento giudiziale della paternità azionata dal figlio quarantenne, il Tribunale di Catania dichiarava la paternità e condannava l’uomo al risarcimento dei danni cagionati al figlio dal mancato tempe¬stivo riconoscimento. La Corte d’Appello confermava la decisione. Il figlio e il padre ricorrevano entrambi per Cassazione sostenendo il figlio che il risarcimento era stato del tutto inadeguato e chiedendo il padre l’annullamento della sentenza perché erroneamente aveva accolto la domanda di risarcimento.
La sentenza merita di essere valutata con molta attenzione. Vi si legge quanto segue con riferi¬mento al ricorso del padre: “Viene in primo luogo in considerazione la tesi secondo cui il ricono¬scimento della paternità, o, come sembra di capire, quanto meno la proposizione della relativa domanda, costituiscano il presupposto della responsabilità aquiliana scaturente dalla violazione dei doveri inerenti al rapporto di filiazione”. A questo primo motivo la Corte risponde forzando l’interpretazione dei precedenti giurisprudenziali (che, come si è visto, avevano condizionato l’at¬tribuzione delle responsabilità genitoriali di mantenimento all’accertamento sia pur tardivo della filiazione) e così motivando “tale assunto è all’evidenza infondato, in quanto contrastante con il principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo cui l’obbligo del genitore naturale di concorrere nel mantenimento del figlio insorge con la nascita dello stesso, ancorché la procre¬azione sia stata successivamente accertata con sentenza (Cass., 20 dicembre 2011, n. 27653; Cass., 3 novembre 2006. n. 23596), atteso che la sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento e quindi, ai sensi dell’art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ricollegando¬si tale obbligazione allo status genitoriale e assumendo, di conseguenza, efficacia retroattiva”. Conclude la decisione nel senso che “la sussistenza di tale obbligo, raccordata alla consapevo¬lezza del concepimento, come sopra evidenziata, esclude la fondatezza della tesi secondo cui la responsabilità del D. dovrebbe escludersi in assenza di specifiche richieste provenienti dalla S. o dal figlio… L’obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché nell’ipotesi in cui al momen¬to della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori (Cass., 2 febbraio 2006, n. 2328). Deve ribadirsi come la violazione di obbli¬ghi cui corrispondono, nel destinatario, diritti primari della persona, costituzionalmente garantiti, comporta la sussistenza di un illecito civile certamente riconducibile nelle previsioni dell’art. 2043 c.c. e seguenti”.
Quindi la sentenza della Corte di Cassazione n. 5652/2012 sostiene che l’illecito fonte di obbli¬gazione risarcitoria è la violazione del dovere di mantenimento.
Una successiva decisione ha riaffermato lo stesso principio all’interno di una ricostruzione molto assertiva. Si tratta di Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205 secondo la quale “l’obbli¬go dei genitori di educare e mantenere i figli è eziologicamente connesso esclusivamente alla pro¬creazione, prescindendo dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così determinando¬si un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore. Il presuppo¬sto di tale responsabilità e del conseguente diritto del figlio al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali è costituito dalla consapevolezza del concepimento, che non si identifica con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, ma si compone di una serie di indizi univoci, quali, nella specie, la indiscussa consumazione di rapporti sessuali non protetti all’epoca del concepimento”.
Quindi, come ha poi ben sintetizzato il tribunale di Roma (Trib. Roma Sez. I, 7 marzo 2014) l’obbligo dei genitori di educare e mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) è connesso esclusivamente alla procreazione, prescindendo dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così deter¬minandosi un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fonda¬mento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore. Nello stesso senso Trib. Prato, 27 luglio 2017 secondo cui il riconoscimento non è elemento co¬stitutivo o condizione di efficacia dello status di figlio che sorge con la nascita ma condiziona esclu¬sivamente il concreto esercizio, e riconoscimento esterno, della responsabilità genitoriale di cui sono titolari i genitori. Addirittura secondo Trib. Milano Sez. IX, 5 ottobre 2016, con riguardo al mancato tempestivo riconoscimento da parte del padre di una minore e al conseguente pregiudizio consistente nella privazione del rapporto parentale tra padre e figlia, imputabile esclusivamente al comportamento dell’altro genitore, sussiste la responsabilità della madre per il danno da privazione del rapporto genitoriale.
In conclusione, secondo quanto emerge dalla giurisprudenza più recente, non riconoscere un figlio fuori dal matrimonio consapevolmente procreato costituirebbe illecito fonte di risarcimento, con la conseguenza che l’inizio della responsabilità genitoriale dovrebbe considerarsi anticipata alla procreazione consapevole.
L’art. 30 della Costituzione viene quindi interpretato nel senso che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio” ancorché non li abbiamo riconosciuti ed a condizione che abbiano consapevolezza di averli procreati.

V Quando termina la “responsabilità genitoriale”?
Il codice civile, come si è detto, non ha mai fornito una nozione di “potestà” ed ora – dopo la ri¬forma sulla filiazione del 2013 – non fornisce neanche la nozione di “responsabilità genitoriale” che nella relazione illustrativa delle norme di attuazione viene indicata come “situazione giuridica com¬plessa idonea a riassumere i doveri, gli obblighi e i diritti derivanti per il genitore dalla filiazione”.
Nell’elaborazione tradizionale della manualistica si sono sempre differenziati un aspetto interno della potestà (costituito dalle modalità con cui essa è esercitata dai genitori nell’interesse dei fi¬gli) e un aspetto esterno (costituito dal tradizionale potere di rappresentanza del quale si occupa specificamente l’art. 320 c.c.) ed è da ritenere che questa differenziazione non sia venuta meno, pur ribadendosi che l’aspetto interno ha trovato nella riforma del 2013 per il caso di filiazione fuori del matrimonio la significativa novità della cogestione del suo esercizio anche in caso di non con¬vivenza dei genitori.
Possiamo dare quindi per acquisito che l’espressione responsabilità genitoriale può considerarsi in sé espressiva di una concezione socio-culturale che si vorrebbe più nuova e moderna delle funzioni genitoriali ma che – pur avendo acquistato quella connotazione giuridica nuova che è l’esercizio sempre congiunto della potestà anche in caso di filiazione fuori dal matrimonio – non esprime una dilatazione giuridicamente diversa da quella che aveva già assunto la nozione tradi¬zionale di “potestà”.
Nell’approfondire meglio questa conclusione si tratta di verificare in che modo la nuova concezione culturale richiamata dall’espressione “responsabilità genitoriale” coincide anche con la presa d’atto da parte del legislatore di una più articolata dilatazione temporale delle funzioni genitoriali che già la “potestà” era andata assumendo nell’applicazione quotidiana nel corso del tempo.
Potrebbe essere, innanzitutto, un indizio significativo di una più articolata concezione giuridica del¬le funzioni genitoriali il fatto che, mentre il previgente art. 316 del codice civile prevedeva testual¬mente che “il figlio è soggetto alla potestà dei genitori fino all’età maggiore”, questa specificazione non è più riprodotta nel nuovo testo dell’art. 316 c.c. (come modificato dall’art. 39 del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154). Si tratta di una svista oppure il legislatore ha sentito il bisogno di dare più visibilità alla circostanza che da tempo le funzioni genitoriali hanno una portata più ampia di quelle che si consumano nell’arco della minore età?
Il concetto di potestà, ancora fortemente legato all’esercizio di funzioni tese alla soddisfazione delle necessità e dei diritti dei soggetti minori di età, meritava effettivamente di essere specifica¬to nella sua attuale maggiore elasticità. Se è vero, infatti, che il compimento della maggiore età segna il momento oltre il quale le funzioni tradizionali di rappresentanza esercitate dai genitori non hanno più possibilità giuridica di sopravvivere, è anche vero che oggi più che mai le esigenze di cura, di educazione, assistenza e mantenimento si prolungano di gran lunga oltre il compi¬mento della maggiore età, segnalando quindi l’affermarsi di una nuova concezione della potestà/ responsabilità genitoriale che non termina al compimento del diciottesimo anno età del figlio ma si estende fino all’autosufficienza del figlio.
Anche nella più recente giurisprudenza è pacifica l’affermazione che “l’obbligo dei genitori di con¬correre tra loro al mantenimento dei figli non cessa, con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il figlio non abbia raggiunto l’indipendenza economica” (Cass. civ. Sez. I, 3 settembre 2013, n. 20137; Cass. civ. Sez. I, 10 luglio 2013, n. 17089; Cass. civ. Sez. VI, 15 febbraio 2012, n. 2171; Cass. civ. Sez. I, 27 giugno 2011, n. 14123; nella giurisprudenza di merito recentemente Trib. Genova Sez. IV, 26 giugno 2013¸ App. Roma, 3 febbraio 2012; App. Roma, 7 settembre 2011).
Ed anzi, mentre il prolungamento di funzioni connesse alla potestà oltre il compimento del diciot¬tesimo anno di età del figlio era considerato in passato certamente eccezionale, oggi la riforma del 2013 intende segnalare se non il contrario certamente il fatto che la responsabilità genitoriale si prolunga nella maggiore età del figlio molto più di quanto non avvenisse in passato.
La presa d’atto anche del legislatore circa il prolungamento delle funzioni connesse alla potestà/ responsabilità – paradossalmente nell’area della crisi della vita familiare – è avvenuta con la legge sull’affidamento condiviso dei figli (legge 8 febbraio 2006, n. 54) che riservava ai figli maggioren¬ni nell’ambito delle procedure di separazione (e divorzio ex art. 4, secondo comma, della legge 54/2006) un intero nuovo articolo (art. 155-quinquies, appunto rubricato “Disposizioni in favore dei figli maggiorenni”) nel quale si attribuiva per la prima volta ex lege ai “figli maggiorenni non indipendenti economicamente” un diritto alla titolarità di un assegno periodico di mantenimento. La disposizione in questione non è stata toccata dalla riforma sulla filiazione di cui alla legge 10 dicembre 2012, n. 219 se non per la collocazione sistematica, avendo il decreto di attuazione (decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154) accorpato le disposizioni sull’esercizio della re¬sponsabilità genitoriale in caso di scissione della coppia genitoriale in un capo a sé inserendo le disposizioni in favore dei figli maggiorenni nel nuovo articolo 337-septies del codice civile.
La riforma di cui alla legge 219/2012 è stata però di maggiore ampiezza rispetto ad un semplice riordino sistematico. Essa ha inteso dare alla problematica dei diritti dei figli (minorenni e maggio¬renni) una dimensione più ampia e più generale, non limitandosi alla fase della crisi genitoriale. Ha rimodellato la lacunosa disciplina precedente accorpando in una norma a contenuto generale (art. 315-bis c.c.) l’indicazione dei “diritti e doveri del figlio” con una formulazione simmetrica a quella utilizzata dall’art. 30 Cost. per indicare i doveri e diritti dei genitori, precisando che “il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori…”. Il figlio, a sua volta, “deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito al mantenimento della famiglia finché convive con essa” art. 315-bis ultimo comma c.c.). Disposizione quest’ultima, che già preesisteva alla riforma ma che nel contesto della riforma della filiazione acquista ora una dimensione più peculiare.
Lo statuto dei diritti e dei doveri dei figli si completa nel codice civile con la descrizione delle carat¬teristiche dell’obbligazione di mantenimento a carico dei genitori. Il nuovo art. 316-bis (richiamato oggi all’art. 148 c.c.) ribadisce che l’obbligazione deve essere assolta dai genitori “in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo” e che gli ascendenti sono tenuti, in caso di impossibilità dei genitori, ad assicurare a questi ultimi i mezzi per far fronte all’obbligazione di mantenimento. Disposizioni queste già collaudate perché da sem¬pre applicate quotidianamente nei tribunali.
Tutte le norme sopra richiamate costituiscono oggi la fonte legislativa delle obbligazioni di mante¬nimento nei confronti dei figli maggiorenni, rendendo quasi superfluo il riferimento a quella giuri¬sprudenza che da molto prima della riforma sull’affidamento condiviso e sulla filiazione (allorché dei figli maggiorenni non vi era traccia nella legislazione) avevano affermato, anticipandoli, gli stessi principi (tra le tante Cass. civ. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 15756; Cass. civ. Sez. I, 7 aprile 2006, n. 8221; Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975; Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 2004, n. 5719; Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2002, n. 4765; Cass. civ. Sez. I, 16 febbraio 2001, n. 2289). ; La legislazione è quindi oggi in piena sintonia con il principio di fondo che la giurisprudenza ha sempre sostenuto e cioè che il dovere dei genitori di provvedere al mantenimento dei figli non cessa automaticamente con il conseguimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma per¬dura sino a quando i medesimi non abbiano raggiunto un’indipendenza economica, ovvero abbiano concorso colpevolmente alla determinazione della propria non autosufficienza economica.
Al figlio maggiorenne portatore di handicap grave si applicano integralmente le disposizioni pre¬viste in favore dei figli minori (art. 337-septies c.c. già art. 155-quinquies, secondo comma, c.c. che subordinava il diritto ai soli casi di inclusione dell’handicap grave nelle qualificazioni della legge 104/1992) come ha avuto modo anche di chiarire la giurisprudenza che ha precisato che trovano applicazione, in tal caso, le disposizioni previste in favore dei figli minori, quali quelle in tema di cura e di mantenimento da parte dei genitori non conviventi, di assegnazione della casa coniugale, ma non anche quelle sull’affidamento, condiviso od esclusivo (Cass. civ. Sez. I, 24 luglio 2012, n. 12977).
Il prolungamento della responsabilità genitoriale oltre la maggiore età – anche per le funzioni non legate strettamente al mantenimento – è anche il segnale che proviene, come si è detto, dal nuovo testo dell’art. 315-bis del codice civile che abbandona il concetto desueto e un po’ ottocentesco di “prole” cui faceva riferimento l’abrogato art. 147 c.c. per abbracciare una concezione della filiazio¬ne più attuale riferendosi al diritto del figlio (minorenne o maggiorenne che sia) “di essere mante¬nuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori”. Che si tratti di diritti che il figlio ha in quanto tale e non in quanto minore di età è assolutamente reso evidente da quella giurisprudenza che sempre più spesso ha sottolineato il diritto del figlio anche maggiorenne e fino all’autosuffi¬cienza economica di essere adeguatamente mantenuto secondo i criteri indicati nell’art. 337-ter (già 155) del codice civile. Per convincersi che questo prolungamento dei doveri genitoriali è molto ampio basti fare riferimento all’obbligo di pagamento posto pacificamente a carico dei genitori se¬parati delle spese straordinarie per i figli, non solo minorenni ma anche maggiorenni, che in modo immediato danno l’idea di spese non riferibili alla sola componente alimentare in senso tradizionale ma che sono poste a garanzia della soddisfazione di esigenze (di cura, di salute, di educazione, di studio) destinate a permanere anche per molti anni dopo il compimento della maggiore età. Chi potrebbe dubitare di questo nel secolo attuale della adolescenza prolungata?
In questo contesto assume anche una rilevanza nuova la riaffermazione che “il figlio deve rispetta¬re i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa” (ultimo comma dell’art. 315-bis che riproduce testualmente il previgente art. 315 c.c.).
La stessa relazione illustrativa alle norme di attuazione non dubita che – salvo nei casi in cui il legislatore ha ritenuto di dover inserire la precisazione sulla durata fino alla maggiore età (per esempio negli articoli 318, 320, 324 c.c.) la responsabilità genitoriale “vincola i genitori ben oltre il raggiungimento della maggiore età, fino al raggiungimento dell’indipendenza economica”.
L’espressione “responsabilità genitoriale” richiama quindi un arco temporale di vita del figlio che supera quello tradizionale della minore età. Già la potestà, come si è detto, aveva certamente assunto negli ultimi decenni una portata e una dimensione temporale più ampia di quella passata ma ora la nuova espressione “responsabilità genitoriale” – con le norme che la definiscono e la disciplinano – rende più chiaramente visibile ed evidente questo aspetto.
Naturalmente così come la potestà / responsabilità supera i confini della minore età, potrebbe an¬che verificarsi che la stessa responsabilità venga a cessare prima del compimento della maggiore età, per il verificarsi di circostanze che la legge prevede come cause di cessazione o di riduzione del¬le stesse funzioni genitoriali, quali la morte del genitore o del figlio, la decadenza (che lascia intatto il dovere di mantenimento), la dichiarazione di adottabilità, il veni meno dello status di filiazione.

VI Il contrasto tra genitori in ordine all’esercizio della “responsabilità genitoriale”
Il sistema normativo vigente conosce tre tipologie di contrasti sull’esercizio della potestà/respon¬sabilità tutti risolvibili dal tribunale ordinario (nuovo art. 38 disp. att. c.c. come modificato dall’art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 e dall’art. 96 lett. c del decreto legislativo di attuazione 28 dicembre 2013, n. 154).
1) La prima tipologia è il contrasto che può verificarsi tra genitori (coniugati o non coniugati) che convivono tra di loro e con il figlio. La regola dell’accordo è contenuta nell’art. 316 c.c. che prescrive l’esercizio della responsabilità genitoriale “di comune accordo” in applicazione, in fondo, di quella regola primaria che, quanto meno per le coppie coniugate, è indicata nel fondamentale articolo 144 c.c. (“i coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare”). Ai contrasti nel corso della vita familiare fa riferimento il secondo comma dell’art. 316 c.c. che prevede un sistema di soluzione già conosciuto nell’assetto previgente. “In caso di contrasto su questioni di particolare importanza cia¬scuno dei genitori può ricorrere senza formalità al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più idonei. Il giudice, sentiti i genitori e disposto l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore se capace di discernimento, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare. Se il contrasto permane il giudice attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene il più idoneo a curare l’interesse del figlio”. In verità difficilmente i genitori ricorrono al giudice nel contesto della vita di coppia; i con¬trasti vengono risolti nella negoziazione quotidiana e quando assumono forme molto gravi portano in genere alla separazione. Proprio per questo il meccanismo giudiziario indicato – che prima della riforma sulla filiazione del 2012/2013 era di competenza del tribunale per i minorenni – non ha quasi mai trovato applicazione nella prassi. Il giudice in ogni caso non ha potere di decisione nel contrasto ma solo il potere di attribuire la decisione al genitore che ritiene più idoneo a risolvere il contrasto.
In ordine a questo tipo di contrasti non è inopportuno ricordare ciò che ha affermato Cass. civ. Sez. I, 3 novembre 2000, n. 14360 che ha ribadito quanto la legge (anche il nuovo testo oggi dell’art. 316 c,c.) precisa in modo molto chiaro e cioè che “in tema di soluzione dei contrasti tra i genitori per questioni di particolare importanza, l’articolo 316 del codice civile prevede che ciascu¬no di essi può ricorrere al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più idonei” e che questa disposizione “trova applicazione per le ipotesi di famiglia unita mentre i provvedimenti di cui all’ar¬ticolo 155, comma 3 [oggi 337-bis ss c.c.] si collocano invece durante lo stato di separazione tra i coniugi e rientrano nella disciplina di questa”.
2) La seconda tipologia di contrasto sulla responsabilità genitoriale è prevista nell’art. 709-ter c.p.c. che si occupa della “soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni” – accomunando quindi contrasti e inadempimenti – ed è ipotizzabile nel contesto della vita separata della coppia genitoriale (coniugata o non coniugata). La norma venne inserita nell’ordinamento nel 2006 con la riforma sull’affidamento condiviso (specificamente dall’art. 2, secondo comma, della legge 14 febbraio 2006, n. 54) il cui articolo 3, secondo comma, espres¬samente ne indicava l’applicazione “anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati” tutti procedimenti oggi di competenza del tribunale ordinario. Come afferma l’art. 709-ter c.p.c. “per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della responsabilità ge¬nitoriale o delle modalità dell’affidamento è competente il giudice del procedimento in corso” al¬trimenti – e cioè quando il procedimento non è più in corso – “è competente il tribunale del luogo di residenza del minore”. A seguito del ricorso il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni potendo anche modificare i provvedimenti vigenti ove lo ritenga necessario in relazione al contrasto emerso o per la sua soluzione.
L’art. 709-ter c.p.c. rende non soltanto desueto ma anche inutilizzabile l’art. 337 c.c. sopravvis¬suto alla riforma sulla filiazione del 2012/2013. La disposizione è molto nota perché fino al 2006 (cioè fino all’introduzione dell’art. 709-ter c.p.c.) era l’unica utilizzata per risolvere i contrasti sull’affidamento: “Il giudice tutelare – prevede la norma – deve vigilare sull’osservanza delle con¬dizioni che il tribunale abbia stabilito per l’esercizio della potestà e per l’amministrazione dei beni”.
Dopo il passaggio delle funzioni compositive dei contrasti al giudice del merito della causa o al tribunale in camera di consiglio, non vi è più spazio per l’utilizzazione di questa norma.
3) La terza tipologia di contrasti sulla responsabilità genitoriale è quella cui fa riferimento l’ultimo comma dell’art. 316 del codice civile il quale prevede espressamente che “il genitore che non esercita la responsabilità genitoriale vigila sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio”. Il contrasto può verificarsi nel caso in cui uno dei genitori sia stato escluso dall’affidamento e dall’eser¬cizio della potestà/responsabilità (ultima parte dell’art. 337-quater c.c. dove si prevede che il genitore escluso dall’affidamento dei figli “può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte de¬cisioni pregiudizievoli ai loro interessi”). Ancorché il genitore in questione non sia affidatario dei figli il testo della legge gli riconosce (sebbene si discuta della plausibilità di questo riconoscimento) il potere di adottare insieme all’altro genitore le decisioni di maggiore interesse e quindi di rivolgersi anche al giudice. Si tratta quindi di un contrasto tra due genitori dei quali uno soltanto esercita la responsabilità genitoriale. La soluzione di questo tipo di contrasti è affidata ex art. 709-ter o 710 c.p.c. al giudice della causa o al tribunale.
Una modalità per intervenire nel contrasto è quella della nomina del coordinatore genitoriale, cui fan¬no riferimento alcuni tribunali (Trib. Milano Sez. IX, 29 luglio 2016 che, al fine di assistere i geni¬tori nelle situazioni familiari altamente conflittuali che si possono ripercuotere negativamente sui figli, ritiene opportuna la nomjna di un “coordinatore genitoriale”, figura di matrice americana che si sta diffondendo anche in altri paesi, al quale affidare il compito di aiutare la risoluzione delle controversie familiari, in via stragiudiziale, vale a dire senza adire l’autorità giudiziaria. Al coordinatore genitoriale viene demandato il compito di facilitare la risoluzione delle dispute tra genitori altamente conflittuali e prevenire il ricorso a ulteriori iniziative giudiziali in punto di responsabilità genitoriale. Il coordinatore genitoriale – a differenza del curatore speciale – non ha poteri processuali, poiché il suo obiettivo è risolvere i conflitti al di fuori del processo (e prima ancora ridurre al massimo i conflitti stessi).
Sempre al tribunale di Milano si deve l’invito agli avvocati ad assumere una funzione (sociale) di protezione verso il minore nelle controversie in cui assistono i genitori (Trib. Milano Sez. IX, 23 marzo 2016).

RESPONSABILITÀ GENITORIALE
Giurisprudenza
Trib. Lecce, Sez. II, 29 luglio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, la norma dell’art. 192, comma 3 c.c. attribuisce a ciascuno di essi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, e non già alla ripetizione, totale o parziale, del denaro personale e dei proventi dell’attività separata (che cadono nella comunione “de residuo”, solamente per la parte non consumata al momento dello scioglimento) impiegati per l’acquisto di beni costituenti oggetto della comunione legale ex art. 177, comma 1, lett. a) c.c., rispetto ai quali trova applicazione il principio inderogabile, posto dall’art. 194, comma 1 c.c., secondo cui, in sede di divisione, l’attivo e il passivo sono ripartiti in parti eguali, indipenden¬temente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione.
Trib. Torre Annunziata Sez. I, 8 maggio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito di un giudizio di separazione tra coniugi sono inammissibili le domande di divisione di beni mobili ed immobili, nonché di divisione del risparmio, rimborso e restituzione delle somme spettanti in dipendenza dell’amministrazione dei beni comuni prima della cessazione del regime della comunione legale tra i coniugi, in quanto esse si possono proporre solo al momento della divisione dei beni comuni che coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia.
App. Taranto 16 gennaio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra i coniugi, la norma di cui all’art. 192, comma 3° c.c., attribu¬isce a ciascuno di essi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegare in spese ed investimenti del patrimonio comune e non già alla ripetizione, totale o parziale, del denaro personale e dei proventi dell’attività separata impiegati per l’acquisto di beni costituenti oggetto della comunione legale, rispetto ai quali si applica il principio inderogabile secondo cui, in sede di divisione, l’attivo ed il passivo sono ripartiti in parti uguali indipendentemente dalla misura di partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi ne¬cessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione.
App. Palermo Sez. II, 18 settembre 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra i coniugi, in seguito alla pronuncia della separazione persona¬le, la domanda giudiziaria di divisione dei beni non può essere introdotta prima del passaggio in giudicato della pronuncia di separazione. I rimborsi e le restituzioni delle somme spettanti in dipendenza dell’amministrazione dei beni comuni si effettuano solo al momento dello scioglimento della comunione in funzione della divisione dei beni comuni, momento che, in caso di separazione tra coniugi, coincide con il passaggio in giudicato della rela¬tiva pronuncia. I presupposti della comunione non cessano di configurarsi solo perché uno dei due coniugi abbia eventualmente distolto a fini del tutto personali i beni oggetto della stessa, convertendosi, in tal caso, il conte¬nuto delle pretese dell’altro coniuge, in quello relativo ai rimborsi ed alle restituzioni, a norma dell’art. 192 c.c.
Cass. civ. Sez. VI, 4 dicembre 2012, n. 21751(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’accertamento dell’eventuale destinazione dei beni già in comunione legale al soddisfacimento delle obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia non condiziona in alcun modo la legittimazione dei coniugi a promuovere la divisione dei beni comuni, a seguito del verificarsi di una delle cause di scioglimento della comunione. Esso, infat¬ti, non incide né sulla titolarità né sulla disponibilità dei beni da dividere, in quanto, ferma restando la distinzione operata dagli artt. 186 e ss. cod. civ. tra le obbligazioni contratte per un interesse comune e quelle facenti capo ad interessi particolari dei coniugi, con la connessa sussidiarietà della responsabilità rispettivamente dei beni personali e comuni per ciascuna categoria di obbligazioni, la disciplina dei debiti gravanti sui beni in comunione non comporta l’assoggettamento degli stessi ad alcun vincolo di destinazione, ma si risolve in un regolamento dei rapporti reciproci tra i coniugi, inteso alla tutela di ciascuno di essi, che dà luogo, nel caso di prelievo di beni comuni per il soddisfacimento di obbligazioni contratte nell’interesse esclusivo, ad un credito per rimborsi e restituzioni, da far valere in sede di divisione, ai sensi dell’art. 192 cod. civ.
Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2012, n. 19454 (Nuova Giur. Civ., 2013, 4, 340 nota di PALADINI)
Allo scioglimento della comunione legale tra i coniugi, ai sensi dell’art. 192, terzo comma, cod. civ., devono es¬sere restituiti solo gli importi impiegati in spese ed investimenti per il patrimonio comune già costituito, ma non il denaro personale impiegato per l’acquisto di immobile che concorre a formare la comunione, trovando, in tale ipotesi, applicazione l’art. 194, comma primo, cod. civ., secondo il quale all’atto dello scioglimento l’attivo ed il passivo devono essere ripartiti in quote uguali indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi. (Rigetta, App. Roma, 18/09/2007)
Il denaro personale o i proventi dell’attività separata non possono essere restituiti se impiegati nell’acquisto di un bene caduto in comunione legale ai sensi dell’art. 177, comma 1, lett. a), cod. civ.. Il diritto alla restituzione sorge invece, se i beni già facenti parte della comunione legale e, conseguentemente, del “patrimonio comune” (come indicato nell’art. 192, comma 3, cod. civ.) siano oggetto di spese o investimenti anche finalizzati all’in¬cremento del loro valore in epoca successiva all’acquisto, mediante lavori di ristrutturazione o miglioramenti.
Trib. Salerno, 14 maggio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per il combinato disposto degli artt. 186, 191 e 192 c.c. i coniugi, che abbiano optato per il regime patrimoniale della comunione dei beni, non possono richiedere alcuna forma di restituzione o di rimborso, fino a quando è vigente il regime della comunione, salvo espressa autorizzazione del giudice in deroga, ma solo ove lo esiga l’interesse superiore della famiglia e dei figli in particolare.
Trib. Rovigo, 14 febbraio 2011(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il disposto normativo di cui all’art. 192, comma terzo, c.c., nella parte in cui attribuisce a ciascuno dei coniu-gi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal proprio patrimonio personale e impiegate per spese e investimenti a favore del patrimonio comune, escluse quelle adoperate per l’acquisto di singoli beni caduti in comunione, opera nei soli limiti dei beni personali ex art. 179 c.c., con esclusione dei beni destinati a cadere nella comunione de residuo. La disposizione di cui al citato comma terzo, inoltre, ha carattere residuale e si riferisce sostanzialmente al denaro personale pervenuto al coniuge per cause diverse anche dalla vendita di un bene personale. In tal senso non possono rilevare versamenti e/o pagamenti di provvista di cui non si offre prova della provenienza.
Trib. Salerno, Sez. I, 21 novembre 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 192 c.c. prevede che, una volta intervenuto lo scioglimento della comunione, i coniugi hanno diritto alla restituzione di quanto da essi versato per spese non riguardanti gli obblighi reciproci di contribuzione previsti dall’art. 143 c.c., ovvero gli obblighi gravanti sui beni della comunione, come quelli relativi il mantenimento della famiglia, l’istruzione e la educazione dei figli.
Trib. Monza, 11 marzo 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di comunione legale fra coniugi, i rimborsi e le restituzioni delle somme spettanti in dipendenza dell’am¬ministrazione dei beni comuni, nei limiti delle somme prelevate da ciascuno dei coniugi dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni cui sono destinati per legge i beni in regime di comunione legale, si effettuano solo al momento della divisione dei beni comuni che, in caso di separazione tra i coniugi, coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia. Sino a tale momento il coniuge amministratore dei beni comuni amministra i beni destinati al mantenimento della famiglia, la quale permane come vincolo anche tra coniugi separati, senza che alcuno di questi possa rivendicare la disponibilità personale delle loro rendite, nei limiti della propria quota di comproprietà, prima del definitivo scioglimento del rapporto di convivenza. Ciò che trova conferma nell’art. 192, comma quarto, c.c., il quale prevede che i rimborsi e le restituzioni, possano avvenire, dietro autorizzazione del giudice, anche in un momento anteriore a quello suindicato, ma solo a favore della comunione.
Cass. civ. Sez. I, 11 settembre 2008, n. 23391 (Famiglia e Diritto, 2009, 2, 133 nota di OBERTO)
Il credito a titolo di rimborso ex art. 192 c.c., comma 1, rappresenta un credito di valuta e non di valore (Nella specie, la Cassazione ha confermato la decisione d’appello che aveva escluso la rivalutazione del credito vantato da un coniuge alla metà del corrispettivo incassato per intero dall’altro, a seguito dell’alienazione, da parte di quest’ultimo, di un autoveicolo già formante parte della comunione legale, scioltasi a seguito di separazione personale).
App. Catania, 7 gennaio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, la norma dell’art. 192, comma 3, c.c., attribuisce a ciascuno dei coniugi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, non già quello alla ripetizione del valore degli immobili provenienti dal patrimonio personale di uno dei coniugi e conferiti alla comunione, atteso che, per effetto della trasformazio¬ne dei beni personali in beni comuni, detti beni restano immediatamente soggetti alla disciplina della comunione legale, e quindi al principio inderogabile di cui all’art. 194, comma 1, c.c., il quale impone che, in sede di divi¬sione, l’attivo e il passivo siano ripartiti in parti eguali, indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione.
Cass. civ. Sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1197 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il denaro ottenuto a titolo di prezzo per l’alienazione di un bene personale rimane nella esclusiva disponibilità del coniuge alienante anche quando esso venga dal medesimo coniuge depositato sul proprio conto corrente. Questa titolarità non muta in conseguenza della mera circostanza che il denaro sia stato accantonato sotto forma di deposito bancario, giacché il diritto di credito relativo al capitale non può considerarsi modificazione del capitale stesso, né è d’altro canto configurabile come un acquisto nel senso indicato dall’art. 177, comma 1, lett. a) c.c., cioè come un’operazione finalizzata a determinare un mutamento effettivo nell’assetto patrimoniale del depositante.
Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2005, n. 10896 (Giur. It., 2006, 5, 936 nota di GALATI)
In tema di scioglimento della comunione legale, l’art. 192 c.c., nel prevedere il diritto del coniuge alla restitu¬zione delle somme prelevate dal patrimonio personale impiegate per spese ed investimenti a favore dei beni del patrimonio comune, non attribuisce anche un diritto alla ripetizione del valore degli immobili provenienti dal patrimonio personale del coniuge e conferiti alla comunione, né prevede il diritto al rimborso del denaro proprio, speso per l’acquisto di beni poi caduti in comunione. Conseguentemente, ai fini della norma, occorre distinguere tra spese effettuate con denaro proprio per migliorie ed addizioni delle cose comuni, da quelle effettuate con denaro della comunione.
Le spese e gli investimenti del patrimonio comune, rimborsabili a ciascun coniuge se effettuate con somme prelevate dal patrimonio personale, riguardano solamente gli esborsi effettuati per la gestione, la manutenzione e il miglioramento dei beni comuni, e non quelli per l’acquisto dei medesimi beni (categoria nella quale vanno ricomprese anche le spese notarili e fiscali resesi necessarie per l’acquisto)
Le somme percepite a titolo di proventi dell’attività separata (destinate alla comunione “de residuo” se non consumate al momento dello scioglimento della comunione) non costituiscono somme prelevate dal patrimonio personale.
Il credito alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, spettante al coniuge ai sensi dell’art. 192, comma 3, c.c. all’esito dello scioglimento della comunione legale, è di natura nominalistica (art. 1277 c.c.) e, determinato nel suo ammontare all’atto della divisione, previa ripartizione in parti uguali tra i condividenti delle passività di cui all’art. 186 c.c., da tale momento liquido ed esigibile. Come tale, esso produce interessi ex art. 1282 c.c., salvo il diritto alla rivalutazione monetaria in caso di prova di sofferto danno maggiore di quello dai medesimi coperto (art. 1224 c.c.).
Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2005, n. 2354 (Famiglia e Diritto, 2005, 3, 237 nota di CARBONE)
Il principio generale dell’accessione posto dall’art. 934 c.c., in base al quale il proprietario del suolo acquista “ipso iure” al momento dell’incorporazione la proprietà della costruzione su di esso edificata e la cui operatività può essere derogata soltanto da una specifica pattuizione tra le parti o da una altrettanto specifica disposizione di legge, non trova deroga nella disciplina della comunione legale tra coniugi, in quanto l’acquisto della proprietà per accessione avviene a titolo originario senza la necessità di un’apposita manifestazione di volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l’art. 177 c.c., primo comma, hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una genesi di natura negoziale, con la conseguenza che la costruzione realizzata in costanza di matri¬monio ed in regime di comunione legale da entrambi i coniugi sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno di essi è a sua volta proprietà personale ed esclusiva di quest’ultimo in virtù dei principi generali in materia di accessione, mentre al coniuge non proprietario che abbia contribuito all’onere della costruzione spetta, ai sensi dell’art. 2033 c.c., il diritto di ripetere nei confronti dell’altro coniuge le somme spese.
Cass. civ. Sez. I, 15 settembre 2004, n. 18564 (Giur. It., 2006, 2, 275 nota di SORRENTINO)
In tema di comunione legale fra coniugi, i rimborsi e le restituzioni delle somme spettanti in dipendenza dell’am¬ministrazione dei beni comuni, nei limiti delle somme prelevate da ciascuno dei coniugi dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni cui sono destinati per legge i beni in regime di comunione legale, si effettuano solo al momento della divisione dei beni comuni che, in caso di separazione tra i coniugi, coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia. Sino a tale momento il coniuge amministratore dei beni comuni amministra i beni destinati al mantenimento della famiglia, la quale permane come vincolo anche tra i coniugi separati, senza che alcuno di questi possa rivendicare la disponibilità personale delle loro rendite, nei limiti della propria quota di comproprietà, prima del definitivo scioglimento del rapporto di convivenza. Ciò che trova conferma nell’art. 192, comma quarto, c.c., il quale prevede che i rimborsi e le restituzioni, possano avvenire, dietro autorizzazione del giudice, anche in un momento anteriore a quello suindicato, ma solo a favore della comunione e, quindi, con il vincolo di destinazione delle somme relative al mantenimento della famiglia e all’istruzione e all’educazione dei figli.
Trib. Taranto 9 maggio 2000 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le somme di cui si può chiedere la restituzione ai sensi dell’art. 192 c.c. devono essere riconducibili alla fattispe¬cie dell’art. 179 e non a quella dell’art. 177, lett. c.
Trib. Milano 25 maggio 1998 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo di rimborso delle anticipazioni effettuate in favore della comunione presuppone la prova della consa¬pevolezza dell’altro coniuge del fatto che si trattasse di mere anticipazioni e non di donazioni indirette in favore dell’altro coniuge.
Cass. civ. Sez. I, 14 marzo 1992, n. 3141 (Giust. Civ., 1992, I, 1731 nota di FINOCCHIARO)
Nel regime di comunione legale, la costruzione realizzata in costanza di matrimonio su suolo di proprietà perso¬nale di uno dei coniugi, appartiene esclusivamente a questo, a titolo originario, in virtù delle disposizioni generali in materia di accessione e, pertanto, non costituisce oggetto della comunione medesima, ai sensi dell’art. 177, 1° comma, lett. a) c. c., che prevede il diverso caso di un acquisto a titolo derivativo da parte di un coniuge; peraltro, quando per la detta costruzione sia stato impiegato danaro comune, il coniuge che si è giovato dell’ac¬cessione è tenuto a rimborsare alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune ed utilizzate per l’edificazione a norma dell’art. 192, 1° comma, c. c., mentre, nel caso in cui nella costruzione sia stato impiegato danaro appartenente in via esclusiva all’altro coniuge, quest’ultimo ha diritto di ripetere le relative somme ai sensi dell’art. 2033 c. c.
Trib. Catania, 21 aprile 1987 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le somme di cui si può chiedere la restituzione ai sensi dell’art. 192 c.c. devono essere riconducibili alla fattispe¬cie dell’art. 179 e non a quella dell’art. 177, lett. c.
Trib. Bergamo, 18 marzo 1983 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché, in sede di divisione dei beni-oggetto di comunione legale tra i coniugi, i beni devono, inderogabilmente, dividersi in parti uguali, un coniuge può pretendere, dall’altro, la restituzione delle somme che assume prelevate dal patrimonio personale e impiegate in spese ed investimenti per la comunione solo ove dimostri che esisteva un accordo, quantomeno tacito, tra le parti, e che trattavasi di un investimento a favore della comunione e non di donazioni, indirette, all’altro.

RIMBORSI E RESTITUZIONI IN COMUNIONE DEI BENI

di Gianfranco Dosi
I
L’identificazione della massa da dividere dopo la cessazione del regime di comunione

I. L’identificazione della massa da dividere dopo la cessazione del regime di comunione
II. I rimborsi
a) il rimborso delle “somme prelevate dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni previste dall’articolo 186”
b) Il rimborso del “valore dei beni di cui all’art. 189”
III. Le restituzioni
IV. Il momento in cui avvengono i rimborsi e le restituzioni
V. I rimborsi nel corso della comunione per atti compiuti da un coniuge senza il consenso dell’altro
VI. La natura del credito di restituzione
La cessazione del regime legale della comunione dei beni per una delle cause previste nell’art. 191 c.c. 1 – la più diffusa delle quali è certamente la separazione – o in seguito alla morte di un coniuge, determina il passaggio dei coniugi (o del coniuge superstite con gli altri eredi se ve ne sono) in una condizione di comunione ordinaria nella quale ciascuno ha il diritto potestativo di chiedere la divisione (concordata o giudiziale) dei beni comuni (in comunione immediata e in comunione de residuo)2.
Le norme del regime legale prevedono che la divisione dei beni debba essere fatta per quote uguali – ripartendo, cioè, rigorosamente “in parti uguali l’attivo e il passivo” (art. 194 c.c.3) – senza possibilità, quindi, di pretendere conguagli in relazione all’eventuale diverso impegno di spesa tra i coniugi negli acquisti, ma, naturalmente, nel rispetto anche della diversa volontà dei condividenti i quali potrebbero anche accordarsi per soluzioni diverse.
Prima di effettuare però la divisione è necessario identificare correttamente la consistenza della massa da dividere attraverso quelle operazioni preliminari (eventuali) a cui fa riferimento nel codice l’art. 192 (Rimborsi e restituzioni); norma che attiene ai rapporti interni della vita di coppia.
Si potrà procedere alla divisione solo una volta individuata esattamente la massa comune da dividere. E per determinare esattamente la massa in comunione da dividere potrebbe essere necessario reintegrare la comunione (rimborsi) ove vi fossero stati nel corso del matrimonio prelievi per finalità personali da parte di uno o entrambi i coniugi o eliminare dalla massa (restituzioni) somme personali impiegate da uno o entrambi i coniugi per spese e investimenti del patrimonio comune.
Naturalmente la divisione concerne i beni comuni e non quelli esclusi dalla comunione, come i beni che appartenevano a ciascun coniuge da prima del matrimonio o che gli sono pervenuti per

1 Art. 191 (Scioglimento della comunione).
La comunione si scioglie per la dichiarazione di assenza o di morte presunta di uno dei coniugi, per l’annullamento, per lo scioglimento o per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, per la separazione personale, per la separazione giudiziale dei beni, per mutamento convenzionale del regime patrimoniale, per il fallimento di uno dei coniugi.
Nel caso di separazione personale, la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato. L’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione dello scioglimento della comunione. (1)
Nel caso di azienda di cui alla lettera d) dell’articolo 177, lo scioglimento della comunione può essere deciso, per accordo dei coniugi, osservata la forma prevista dall’articolo 162.
2 cfr la voce DIVISIONE DEI BENI DELLA COMUNIONE
3 Art. 194 (Divisione dei beni della comunione)
La divisione dei beni della comunione legale si effettua ripartendo in parti uguali l’attivo e il passivo.
Il giudice, in relazione alle necessità della prole e all’affidamento di essa, può costituire a favore di uno dei coniugi l’usufrutto su una parte dei beni spettanti all’altro coniuge.

donazione o successione. Correttamente quindi questi beni possono essere prelevati da chi ne ha la proprietà e il prelevamento avviene al momento in cui si effettua la divisione. A queste operazioni fanno riferimento gli articoli 195 (Prelevamento dei beni mobili), 196 (Ripetizione del valore in caso di mancanza delle cose da prelevare) e 197 (Limiti al prelevamento nei riguardi dei terzi) che riguardano, appunto, il prelevamento, da parte dei coniugi o degli eredi, dei beni mobili che appartenevano ai coniugi stessi prima della comunione o che sono ad essi pervenuti durante la medesima per successione o donazione, ovvero del loro valore.
In questa sede ci si sofferma sull’art. 192 (Rimborsi e restituzioni):
Ciascuno dei coniugi è tenuto a rimborsare alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni previste dall’articolo 186.
È tenuto altresì a rimborsare il valore dei beni di cui all’articolo 189, a meno che, trattandosi di atto di straordinaria amministrazione da lui compiuto, dimostri che l’atto stesso sia stato vantaggioso per la comunione o abbia soddisfatto una necessità della famiglia.
Ciascuno dei coniugi può richiedere la restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune.
I rimborsi e le restituzioni si effettuano al momento dello scioglimento della comunione; tuttavia il giudice può autorizzarli in un momento anteriore se l’interesse della famiglia lo esige o lo consente.
Il coniuge che risulta creditore può chiedere di prelevare beni comuni sino a concorrenza del proprio credito. In caso di dissenso si applica il quarto comma. I prelievi si effettuano sul denaro, quindi sui mobili e infine sugli immobili.
Può essere utile ricordare che la disposizione sui rimborsi e sulle restituzioni, in quanto norma sulla comunione dei beni, trova anche applicazione, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, per le unioni civili (art. 1, comma 13, legge 20 maggio 2016, n. 76) e per i conviventi di fatto che, nell’eventuale contratto di convivenza, abbiamo scelto il regime della comunione dei beni (art. 1, comma 53 della legge indicata).
II I rimborsi
a) il rimborso delle “somme prelevate dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni previste dall’articolo 186”
L’art. 192 prevede che al momento della cessazione del regime “Ciascuno dei coniugi è tenuto a rimborsare alla comunione” le somme o il valore dei beni prelevati dalla comunione sostanzialmente per finalità personali.
La prima precisazione da fare è che in caso di prelevamenti di denaro ci si riferisce a prelievi effettuati naturalmente con il consenso dell’altro coniuge, altrimenti troverà applicazione l’art. 184 che, in materia di prelievi di denaro, consente l’immediata rimborso di prelievi effettuati senza il consenso dell’altro.
Poiché le somme a cui fa riferimento questa norma che ne autorizza il rimborso, sono quelle prelevate dal patrimonio comune “per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni previste dall’articolo 186” è intanto necessario chiarire a cosa si faccia riferimento.
L’articolo 186 del codice 4 definisce gli obblighi gravanti sui beni della comunione, indicando quali sono le obbligazioni che, essendo state contratte nell’interesse della comunione (pesi, oneri, spese di amministrazione) e della famiglia (mantenimento, istruzione ed educazione dei figli, obbligazioni contratte dai coniugi, anche separatamente, nell’interesse della famiglia; obbligazioni contratte congiuntamente dai coniugi) sono garantite nei confronti dei creditori dai beni della comunione stessa. E’ evidente quindi che si tratta di obbligazioni le cui conseguenze, essendo state tali obbligazioni contratte nell’interesse della comunione e della famiglia, devono essere sopportate da entrambi i coniugi, anche attraverso l’aggressione da parte dei creditori del patrimonio personale (tanto è vero che, come si dirà tra breve, possono essere richieste in restituzione da chi le ha anticipate). Quindi i prelevamenti effettuati per finalità nell’interesse della famiglia non dovranno essere rimborsati.
Potrebbe, però, essere avvenuto nella vita di coppia che uno dei coniugi abbia attinto unilateralmente (sia pure con il consenso dell’altro) al patrimonio comune per finalità del tutto lecite e ammissibili ma che oggettivamente non erano nell’interesse della famiglia ma nell’interesse per¬

4 Art. 186 (Obblighi gravanti sui beni della comunione).
I beni della comunione rispondono:
a) di tutti i pesi ed oneri gravanti su di essi al momento dell’acquisto;
b) di tutti i carichi dell’amministrazione;
c) delle spese per il mantenimento della famiglia e per l’istruzione e l’educazione dei figli e di ogni obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell’interesse della famiglia;
d) di ogni obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi.

sonale. E’ giusto quindi che rimborsi alla comunione, al momento della divisione, quanto ha avuto bisogno o desiderio di prelevare per finalità estranee ai bisogni della comunione e della famiglia.
Se, insomma, un coniuge per un proprio viaggio di piacere ha utilizzato una determinata somma del patrimonio comune, la deve rimborsare alla comunione al momento della cessazione del regime legale. Non altrettanto dovrà fare, e non potrà l’altro chiedere il rimborso, se quelle somme sono servite per esempio per l’educazione dei figli o per curare una malattia, cioè per una finalità concernente la vita familiare (Trib. Salerno, Sez. I, 21 novembre 2009 dove si fa notare che in caso di obbligazioni contributive – come quelle per il mantenimento – sarebbe comunque inammissibile la pretesa dell’altro coniuge al rimborso).
Un esempio illuminante è contenuto in Cass. civ. Sez. I, 14 marzo 1992, n. 3141 in cui un coniuge in comunione aveva realizzato in costanza di matrimonio su suolo di proprietà personale una costruzione (che appartiene esclusivamente al proprietario del suolo a titolo originario, in virtù delle disposizioni generali in materia di accessione e, pertanto, non costituisce oggetto della comunione medesima). Avendo il coniuge per la costruzione in questione impiegato danaro comune, la Corte di cassazione precisava che il coniuge che si è giovato dell’accessione è tenuto a rimborsare alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune ed utilizzate per l’edificazione a norma dell’art. 192, 1° comma, c. c., mentre, nel caso in cui nella costruzione sia stato impiegato danaro appartenente in via esclusiva all’altro coniuge, quest’ultimo ha diritto di ripetere le relative somme ai sensi dell’art. 2033 c. c. trattandosi in caso contrario di arricchimento ingiustificato del coniuge proprietario.
b) Il rimborso del “valore dei beni di cui all’art. 189”
Come si è detto l’art. 192 al secondo comma prevede che ciascun coniuge rimborsi “il valore dei beni di cui all’articolo 189, a meno che, trattandosi di atto di straordinaria amministrazione da lui compiuto, dimostri che l’atto stesso sia stato vantaggioso per la comunione o abbia soddisfatto una necessità della famiglia”.
Come si capisce bene, qui il riferimento all’art. 189 lascia intendere che – a differenza dei prelevamenti di denaro a cui accenna il primo comma – si tratta di atti compiuti sostanzialmente senza il consenso dell’altro coniuge che hanno determinato un’obbligazione inadempiuta e la conseguente aggressione dei beni della comunione da parte dei creditori.
Infatti l’art. 189 del codice 5 definisce la sorte delle obbligazioni contratte da un coniuge “dopo il matrimonio… per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza il necessario consenso dell’altro” e di quelle contratte da un coniuge “anteriormente al matrimonio” prescrivendo che i beni della comunione rispondono per tali obbligazioni. Si pensi all’acquisto di un’auto di lusso acquistata a rate prima del matrimonio o dopo il matrimonio. Ebbene se quel coniuge non riesce a saldare il prezzo dell’auto acquistata, ne rispondono secondo l’art. 189 i beni della comunione (sia pure fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato). Il che significa che la comunione si è comunque depauperata (a causa dell’espropriazione da parte del creditore) per colpa del coniuge che, avendo contratto quell’obbligazione, non è stato in grado di adempierla. Pertanto il coniuge responsabile di tale depauperamento deve rimborsare alla comunione il valore del depauperamento stesso.
Se, tuttavia, quel coniuge – ecco il senso del secondo comma dell’art. 192 – dimostra, ma limitatamente alle sole obbligazioni contratte dopo il matrimonio, che l’atto da lui compiuto “sia stato vantaggioso per la comunione o abbia soddisfatto una necessità della famiglia” (quindi non un semplice atto di interesse della famiglia) allora il rimborso non è dovuto. Così se, per esempio, invece di un’auto di lusso, quel coniuge abbia acquistato un’utilitaria semplicemente per muoversi meglio in città e poter raggiungere più facilmente il posto di lavoro, avendo soddisfatto una necessità della famiglia non dovrà rimborsare quella spesa.
III Le restituzioni
Il terzo comma dell’art. 192 prevede che “Ciascuno dei coniugi può richiedere la restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune”.
Si tratta di una diposizione che ha dato del filo da torcere agli interpreti.
A cosa si riferisce la norma quando parla di “somme prelevate dal patrimonio personale”? Si tratta di dare a questa espressione una interpretazione che non rischi di vanificare il senso generale della comunione.
Si potrebbero, infatti, sostenere due interpretazioni. La prima è che le “somme” in questione sarebbero tutti i proventi di un coniuge impiegati in “spese ed investimenti del patrimonio comune”.

5 Art. 189 (Obbligazioni contratte separatamente dai coniugi).
I beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato, rispondono, quando i creditori non possono soddisfarsi sui beni personali, delle obbligazioni contratte, dopo il matrimonio, da uno dei coniugi per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza il necessario consenso dell’altro.
I creditori particolari di uno dei coniugi, anche se il credito è sorto anteriormente al matrimonio, possono soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato. Ad essi, se chirografari, sono preferiti i creditori della comunione.

Se così fosse, però, la previsione della possibile restituzione di quanto un coniuge abbia speso (da solo o in più rispetto all’altro) per l’acquisto di un bene comune, vanificherebbe il principio della parità tra coniugi nel momento della divisione, in quanto, come si sa, l’art 194 (Divisione dei beni della comunione) prevede al primo comma che “la divisione dei beni della comunione legale si effettua ripartendo in parti uguali l’attivo e il passivo”.
Deve essere, perciò, adottata un’altra interpretazione secondo la quale il “patrimonio personale” coincide con “i beni personali” di cui all’art. 179. Le “somme prelevate dal patrimonio personale” sono di conseguenza solo quelle derivanti per esempio da una donazione o da successione o derivanti da un risarcimento dei danni, ma non in ogni caso i proventi personali.
Qualcuno parla a tale proposito di denaro personale (i proventi di attività separata) e di denaro personalissimo (il denaro, cioè, rientrante nell’ambito dei beni personali di cui all’art. 179 c.c.).
Si propone quindi una equiparazione tra “patrimonio personale” e “beni personali” – come indicati nell’art. 179 6 – per affermare che qualunque costo un coniuge abbia sostenuto per far fronte a “spese ed investimenti del patrimonio comune” utilizzando denaro proveniente dai propri “beni personali” costituisce un importo a suo credito e di cui il coniuge può richiedere la restituzione al momento della cessazione del regime legale. Le somme di cui si può chiedere la restituzione devono essere, quindi, riconducibili alla fattispecie dell’art. 179 e non a quella dell’art. 177, lett. c.
Non è condivisibile l’opinione che ritiene che le somme derivanti dalla vendita di un bene personale diventerebbero proventi personali che, se impiegati per spese e investimenti del patrimonio comune non darebbero luogo ad un diritto alla restituzione. L’art. 179 lett. f prevede infatti che gli “acquisti” effettuati con denaro proveniente dalla vendita di un bene personale non entrano in comunione. L’acquisto per surrogazione (dichiarato nell’atto di acquisto) lascia, quindi, il bene acquistato personale del coniuge acquirente (Cass. civ. Sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1197). Pertanto il denaro ricavato dalla vendita di beni personali è da considerare patrimonio personale ai fini della richiesta di restituzione.
La norma dell’art. 192, comma 3 c.c. attribuisce a ciascuno dei coniugi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, e non già alla ripetizione, totale o parziale, del denaro personale e dei proventi dell’attività separata (che cadono nella comunione “de residuo”, solamente per la parte non cosumata al momento dello scioglimento) impiegati per l’acquisto di beni costituenti oggetto della comunione (Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2012, n. 19454; Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2005, n. 10896; Trib. Lecce, Sez. II, 29 luglio 2016; App. Taranto 16 gennaio 2014; Trib. Rovigo, 14 febbraio 2011; Trib. Taranto 9 maggio 2000; Trib. Milano 25 maggio 1998; Trib. Catania 21 aprile 1987).
E’ evidente anche che il diritto del coniuge in sede di divisione alla restituzione delle somme prele¬vate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, non riguarda il conferimento alla comunione di beni personali (Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2005, n. 2354; Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2005, n. 10896; App. Catania, 7 gennaio 2008) che con il conferimento si trasformano in beni comuni soggetti alla disciplina della comunione legale e quindi al principio della divisione in parti uguali in sede di divisione.
Quindi Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2005, n. 2354 e Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2005, n. 10896 delimitano il diritto ai rimborsi e alle restituzioni solo alle spese compiute in miglioramenti su beni già facenti parte della comunione, escludendo che il coniuge, che abbia usato proventi per¬sonali per acquisti caduti in comunione, possa pretenderne la restituzione. In queste sentenze si afferma infatti che per effetto della trasformazione dei proventi personali in beni che diventano della comunione, detti beni restano immediatamente soggetti alla disciplina della comunione legale, e quindi al principio inderogabile di cui all’art. 194 c.c., comma 1, il quale impone che, in sede di divi¬sione, l’attivo e il passivo siano ripartiti in parti eguali, indipendentemente dalla misura della parte¬cipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione”.
Ovviamente è sempre fatta salva la prova che i miglioramenti o gli investimenti integrino donazioni indirette (App. Milano, 19 novembre 1993; Trib. Bergamo, 18 marzo 1983) di cui sarebbe certamente escluso il diritto alla restituzione.
L’espressione “spese ed investimenti del patrimonio comune” si riferisce a qualunque acquisto effettuato dai coniugi (e non è chiaro, a tale proposito, perché il codice non abbia utilizzato questa

6 Art. 179 (Beni personali)
Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge:
a) i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento;
b) i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione;
c) i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori;
d) i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di una azienda facente parte della comunione;
e) i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa;
f) i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto.
L’acquisto di beni immobili, o di beni mobili elencati nell’articolo 2683, effettuato dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente comma, quando tale esclusione risulti dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge.

espressione che sarebbe stata più chiara) o a qualunque miglioria apportata ad un bene della co¬munione, per esempio le spese di ristrutturazione.
Su chi chiede la restituzione incombe naturalmente l’onere probatorio circa il fatto che le spese e gli investimenti nel patrimonio comune sono state effettuate con denaro proveniente dal patrimo¬nio personale come sopra individuato.
IV Il momento e il modo con cui avvengono i rimborsi e le restituzioni
Si è fin qui detto che i rimborsi e le restituzioni avvengono al momento in cui si effettua la divisione essendo tali operazioni preordinate alla identificazione della massa da dividere.
Effettivamente la prima parte del quarto comma dell’art. 192 precisa che “I rimborsi e le restitu¬zioni si effettuano al momento dello scioglimento della comunione”.
Per questo motivo si ritiene pacificamente che nell’ambito di un giudizio di separazione tra coniu¬gi sono inammissibili le domande di divisione di beni mobili ed immobili, nonché di divisione del risparmio, rimborso e restituzione delle somme spettanti in dipendenza dell’amministrazione dei beni comuni prima della cessazione del regime della comunione legale tra i coniugi, in quanto esse si possono proporre solo al momento della divisione dei beni comuni (Trib. Torre Annunziata Sez. I, 8 maggio 2014).
Tuttavia la seconda parte del medesimo quarto comma avverte che – in difetto naturalmente di un accordo tra i coniugi – “il giudice può autorizzarli in un momento anteriore se l’interesse della fami¬glia lo esige o lo consente”. Il che significa che i rimborsi e le restituzioni possono anche avvenire in epoca precedente alla divisione se necessario per ripristinare anticipatamente una condizione di equità.
Secondo l’opinione comune espressa sul quarto comma dell’art. 192 in base al contenuto testua¬le del primo comma (“Ciascuno dei coniugi è tenuto a rimborsare alla comunione…”) i rimborsi concordati o autorizzati dal giudice prima della cessazione del regime devono avvenire non a favore dell’altro coniuge ma a favore della comunione (Cass. civ. Sez. I, 15 settembre 2004, n. 18564; Trib. Monza, 11 marzo 2009). Viceversa in caso di richieste di restituzione sarà il coniuge creditore che potrà pretendere personalmente il recupero di ciò che anticipato a vantaggio della comunione (Trib. Salerno, 14 maggio 2011 che fa, appunto, notare che se è vero che i coniugi non possono richiedere alcuna forma di restituzione fino a quando è vigente il regime della comunione, ciò può essere fatto con l’autorizzazione del giudice ove lo esiga l’interesse superiore della famiglia e dei figli in particolare).
Naturalmente l’autorizzazione del giudice ad effettuare rimborsi e restituzioni prima della cessa¬zione del regime legale della comunione riguarda, appunto, solo i rimborsi e le restituzioni. Per il resto vale sempre il principio generale che sino alla cessazione del regime legale (che in caso di separazione oggi coincide con l’autorizzazione a vivere separati contenuta nell’ordinanza resa in sede presidenziale) nessuno dei coniugi può rivendicare la disponibilità personale di rendite nei limiti della propria quota di comproprietà indivisa (cfr per esempio sul punto Cass. civ. Sez. I, 15 settembre 2004, n. 18564)
Le restituzioni e i rimborsi avvengono attraverso trasferimenti di denaro eventualmente con un conguaglio tra le rispettive pretese. Possono però anche avvenire (obbligazione facoltativa) at¬traverso prelevamenti dai beni della comunione. Lo si deduce dall’ultimo comma secondo cui “Il coniuge che risulta creditore può chiedere di prelevare beni comuni sino a concorrenza del proprio credito” mentre solo “in caso di dissenso si applica il quarto comma”. Il che significa che se non c’è accordo sul metodo del prelevamento dai beni della comunione il credito deve essere direttamente saldato dal coniuge debitore. L’ultima parte del comma precisa poi che “I prelievi si effettuano sul denaro [comune], quindi sui mobili [comuni] e infine sugli immobili [comuni]”.
Nessuna norma attribuisce alla parte titolare del diritto di prelievo un diritto di prelazione nei con¬fronti dei terzi creditori.
V I rimborsi nel corso della comunione per atti compiuti da un coniuge senza il consenso dell’altro
Non bisogna confondere i rimborsi dovuti da un coniuge alla comunione ai quali fa riferimento l’art. 192 – dovuti al momento della cessazione del regime in relazione all’uso personale di risorse della comunione (e quindi non finalizzato agli interessi della famiglia) che è stato fatto in corso di matrimonio da un coniuge – dai rimborsi ai quali allude l’art. 184 (Atti compiuti senza il necessario consenso) in cui si prevede che se un coniuge, senza il consenso dell’altro, compie atti (di aliena¬zione per esempio) di beni della comunione, l’altro può immediatamente chiederne l’annullamento (se si tratta di beni immobili o mobili registrati) oppure chiedere immediatamente la ricostituzione della comunione o il rimborso del loro valore (se si tratta di beni mobili).
L’art. 184 (Atti compiuti senza il necessario consenso) prevede che:
“(1) Gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro coniuge e da questo non convalidati sono annullabili se riguardano beni immobili o beni mobili elencati nell’articolo 2683.
(2) L’azione può essere proposta dal coniuge il cui consenso era necessario entro un anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell’atto e in ogni caso entro un anno dalla data di trascrizione. Se l’atto non sia stato trascritto e quando il coniuge non ne abbia avuto conoscenza prima dello scio¬glimento della comunione l’azione non può essere proposta oltre l’anno dallo scioglimento stesso.
(3) Se gli atti riguardano beni mobili diversi da quelli indicati nel primo comma, il coniuge che li ha compiuti senza il consenso dell’altro è obbligato su istanza di quest’ultimo a ricostituire la comu¬nione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non sia possibile, al pa¬gamento dell’equivalente secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione”.
Nel caso di cui all’art. 192 l’atto che determina la richiesta di rimborso è un prelevamento utilizzato da un coniuge per fini personali e non della famiglia o della comunione (prelevamento effettuato s’intende con il consenso dell’altro coniuge); nel caso, invece, di cui all’art. 184 l’atto incriminato è un atto di straordinaria amministrazione (In genere di alienazione per i beni mobili) compiuto sen¬za il necessario consenso dell’altro. In questo secondo caso il coniuge che non è stato interpellato potrebbe naturalmente accettare le conseguenze dell’atto ma ha il diritto di chiederne l’annulla¬mento o, se si tratta di beni mobili, di ricostituire la comunione nelle sua integrità.
Mentre i rimborsi di somme prelevate dal patrimonio comune per fini personali (art. 192) possono essere richiesti solo al momento della cessazione del regime (salvo, come si è visto che il giudice ne autorizzi il rimborso prima) la pretesa del coniuge non interpellato e dissenziente (art. 184) può essere realizzata subito come precisa la stessa norma e non è quindi fondata la tesi di App. Palermo Sez. II, 18 settembre 2013 che ritiene che anche in questo caso occorrerebbe atten¬dere la cessazione del regime.
Le due norme hanno due diversi campi d’azione in relazione agli atti dispositivi di somme di de¬naro: l’elemento differenziante è dato dal fatto che l’art. 184, ultimo comma, prende pur sempre le mosse dal presupposto che il coniuge agente abbia posto in essere un atto senza il consenso dell’altro (imposto dall’art. 180). Con la conseguenza che la sfera d’azione dell’art. 192, comma 1, si riduce ai prelievi consentiti dall’altro coniuge. Come esattamente rimarcato dagli autori che si sono occupati di questo argomento, l’obbligo del rimborso non può giustificare l’idea che ognuno dei coniugi abbia un’indiscriminata disponibilità del denaro comune, salva reintegrazione al mo¬mento dello scioglimento della comunione. Questa considerazione conduce a restringere l’ambito applicativo dell’art. 192 ai prelievi che siano stati effettuati con il consenso, anche tacito, dell’altro coniuge; mentre a fronte di un prelevamento del tutto abusivo, potrà pretendersene l’immediata restituzione senza che sorga la necessità di attendere la cessazione della comunione, ovvero l’au¬torizzazione giudiziale alla anticipazione del rimborso.
Nel caso in cui vi sia un contenzioso tra coniugi relativo alla restituzione di un bene che si assu¬me essere stato, per esempio, alienato indebitamente e uno dei due coniugi dovesse chiedere lo scioglimento della comunione, essendo nel frattempo intervenuta la cessazione del regime legale, tra i due procedimenti non vi è pregiudizialità – e quindi non può esservi sospensione ex art. 295 c.p.c. – in quanto l’accertamento sull’atto in contestazione “non condiziona in alcun modo la legit¬timazione dei coniugi a promuovere la divisione dei beni comuni, a seguito del verificarsi di una delle cause di scioglimento della comunione. Esso, infatti, non incide né sulla titolarità né sulla disponibilità dei beni da dividere, in quanto la disciplina dei debiti gravanti sui beni in comunione non comporta l’assoggettamento degli stessi ad alcun vincolo di destinazione, ma si risolve in un regolamento dei rapporti reciproci tra i coniugi, inteso alla tutela di ciascuno di essi, che dà luogo, nel caso di prelievo di beni comuni per il soddisfacimento di obbligazioni contratte nell’interesse esclusivo, ad un credito per rimborsi e restituzioni, da far valere in sede di divisione, ai sensi dell’art. 192 cod. civ.” (in motivazione Cass. civ. Sez. VI, 4 dicembre 2012, n. 21751).

VI La natura del credito di restituzione
Il credito relativo alla restituzione delle somme di denaro prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune (art. 192, terzo comma) è di natura nominalistica (art. 1277, primo comma, c.c.7) e produce interessi ex art. 1282, primo comma c.c. 8 oltre la rivalutazione monetaria in caso di prova di maggior danno sofferto (art. 1224 c.c. 9) (Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2005, n. 10896).
Ugualmente secondo Cass. civ. Sez. I, 11 settembre 2008, n. 23391 anche il credito pecunia¬rio a titolo di rimborso ex art. 192 c.c., comma 1, rappresenta un credito di valuta (la sentenza conferma il riconoscimento alla moglie del diritto alla metà del prezzo di un autoveicolo già in comunione legale, successivamente venduto a terzi dal marito che si era intascato il prezzo). In realtà l’inquadramento più corretto di questa fattispecie sarebbe stato l’art. 184, posto che il ma¬rito aveva intascato il prezzo della vendita dell’autoveicolo comune senza il consenso della moglie

7 Art. 1277 (Debito di somma di denaro)
I debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale.
8 Art. 1282 (Interessi nelle obbligazioni pecuniarie)
I crediti liquidi es esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto, salvo che la legge o il titolo stabiliscano diversamente.
9 Art. 1224 (Danni nelle obbligazioni pecuniarie)
Nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di denaro, sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali, anche se non erano dovuti precedentemente ed anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno. Se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella tessa misura.
Al creditore che dimostra di aver subito un danno maggiore spetta l’ulteriore risarcimento. Questo non è dovuto se è stata convenuta la misura degli interessi moratori.

Se è vero che i rimborsi per somme prelevate dal patrimonio comune e le richieste di restituzioni (per somme prelevate dal patrimonio personale determinano crediti di valuta, altrettanto non si può dire nel caso invece di obbligazioni contratte relativamente a beni comuni senza il consenso dell’altro coniuge. In questi casi l’art. 192, secondo comma, afferma che il coniuge “È tenuto…a rimborsare il valore dei beni di cui all’art. 189…” in questione. Perciò in questi casi (in cui di fatto un bene della comunione viene espropriato dai creditori a causa di una obbligazione non adempiu¬ta contratta separatamente da un coniuge) si tratta di debiti di valore e quindi il coniuge tenuto al rimborso subirà anche l’onere della rivalutazione.
Secondo quanto è abbastanza pacifico sia in dottrina che in giurisprudenza oggetto dei debiti di valuta è ab origine una somma di denaro determinata o anche solo determinabile, la quale è soggetta ex art. 1227 c.c. e in cui quindi le eventuali variazioni del valore reale della moneta non hanno alcuna incidenza sull’importo oggetto della prestazione. Viceversa le obbligazioni di valore si qualificano tali allorché l’oggetto diretto e originario della prestazione consista in una cosa diversa dal denaro, rappresentando la moneta solo un bene sostitutivo di una prestazione con diverso oggetto; qui l’obbligazione pecuniaria non è originaria, ma rappresenta solo l’equivalente di una diversa obbligazione primaria, per cui l’oggetto della prestazione è ab origine diverso dalla dazione di una somma di denaro, che ne costituisce soltanto la traduzione in termini monetari; le obbliga¬zioni aventi ad oggetto debiti di valore, di conseguenza, sono sottratte al principio nominalistico, in quanto l’importo dovuto deve necessariamente esprimere il valore effettivo dell’obbligazione primaria sostituita e, pertanto, deve essere soggetta a rivalutazione.

Giurisprudenza
Trib. Lecce, Sez. II, 29 luglio 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, la norma dell’art. 192, comma 3 c.c. attribuisce a ciascuno di essi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, e non già alla ripetizione, totale o parziale, del denaro personale e dei proventi dell’attività separata (che cadono nella comunione “de residuo”, solamente per la parte non consumata al momento dello scioglimento) impiegati per l’acquisto di beni costituenti oggetto della comunione legale ex art. 177, comma 1, lett. a) c.c., rispetto ai quali trova applicazione il principio inderogabile, posto dall’art. 194, comma 1 c.c., secondo cui, in sede di divisione, l’attivo e il passivo sono ripartiti in parti eguali, indipenden¬temente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione.
Trib. Torre Annunziata Sez. I, 8 maggio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ambito di un giudizio di separazione tra coniugi sono inammissibili le domande di divisione di beni mobili ed immobili, nonché di divisione del risparmio, rimborso e restituzione delle somme spettanti in dipendenza dell’amministrazione dei beni comuni prima della cessazione del regime della comunione legale tra i coniugi, in quanto esse si possono proporre solo al momento della divisione dei beni comuni che coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia.
App. Taranto 16 gennaio 2014 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra i coniugi, la norma di cui all’art. 192, comma 3° c.c., attribu¬isce a ciascuno di essi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegare in spese ed investimenti del patrimonio comune e non già alla ripetizione, totale o parziale, del denaro personale e dei proventi dell’attività separata impiegati per l’acquisto di beni costituenti oggetto della comunione legale, rispetto ai quali si applica il principio inderogabile secondo cui, in sede di divisione, l’attivo ed il passivo sono ripartiti in parti uguali indipendentemente dalla misura di partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi ne¬cessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione.
App. Palermo Sez. II, 18 settembre 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra i coniugi, in seguito alla pronuncia della separazione persona¬le, la domanda giudiziaria di divisione dei beni non può essere introdotta prima del passaggio in giudicato della pronuncia di separazione. I rimborsi e le restituzioni delle somme spettanti in dipendenza dell’amministrazione dei beni comuni si effettuano solo al momento dello scioglimento della comunione in funzione della divisione dei beni comuni, momento che, in caso di separazione tra coniugi, coincide con il passaggio in giudicato della rela¬tiva pronuncia. I presupposti della comunione non cessano di configurarsi solo perché uno dei due coniugi abbia eventualmente distolto a fini del tutto personali i beni oggetto della stessa, convertendosi, in tal caso, il conte¬nuto delle pretese dell’altro coniuge, in quello relativo ai rimborsi ed alle restituzioni, a norma dell’art. 192 c.c.
Cass. civ. Sez. VI, 4 dicembre 2012, n. 21751(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’accertamento dell’eventuale destinazione dei beni già in comunione legale al soddisfacimento delle obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia non condiziona in alcun modo la legittimazione dei coniugi a promuovere la divisione dei beni comuni, a seguito del verificarsi di una delle cause di scioglimento della comunione. Esso, infat¬ti, non incide né sulla titolarità né sulla disponibilità dei beni da dividere, in quanto, ferma restando la distinzione operata dagli artt. 186 e ss. cod. civ. tra le obbligazioni contratte per un interesse comune e quelle facenti capo ad interessi particolari dei coniugi, con la connessa sussidiarietà della responsabilità rispettivamente dei beni personali e comuni per ciascuna categoria di obbligazioni, la disciplina dei debiti gravanti sui beni in comunione non comporta l’assoggettamento degli stessi ad alcun vincolo di destinazione, ma si risolve in un regolamento dei rapporti reciproci tra i coniugi, inteso alla tutela di ciascuno di essi, che dà luogo, nel caso di prelievo di beni comuni per il soddisfacimento di obbligazioni contratte nell’interesse esclusivo, ad un credito per rimborsi e restituzioni, da far valere in sede di divisione, ai sensi dell’art. 192 cod. civ.
Cass. civ. Sez. I, 9 novembre 2012, n. 19454 (Nuova Giur. Civ., 2013, 4, 340 nota di PALADINI)
Allo scioglimento della comunione legale tra i coniugi, ai sensi dell’art. 192, terzo comma, cod. civ., devono es¬sere restituiti solo gli importi impiegati in spese ed investimenti per il patrimonio comune già costituito, ma non il denaro personale impiegato per l’acquisto di immobile che concorre a formare la comunione, trovando, in tale ipotesi, applicazione l’art. 194, comma primo, cod. civ., secondo il quale all’atto dello scioglimento l’attivo ed il passivo devono essere ripartiti in quote uguali indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi. (Rigetta, App. Roma, 18/09/2007)
Il denaro personale o i proventi dell’attività separata non possono essere restituiti se impiegati nell’acquisto di un bene caduto in comunione legale ai sensi dell’art. 177, comma 1, lett. a), cod. civ.. Il diritto alla restituzione sorge invece, se i beni già facenti parte della comunione legale e, conseguentemente, del “patrimonio comune” (come indicato nell’art. 192, comma 3, cod. civ.) siano oggetto di spese o investimenti anche finalizzati all’in¬cremento del loro valore in epoca successiva all’acquisto, mediante lavori di ristrutturazione o miglioramenti.
Trib. Salerno, 14 maggio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per il combinato disposto degli artt. 186, 191 e 192 c.c. i coniugi, che abbiano optato per il regime patrimoniale della comunione dei beni, non possono richiedere alcuna forma di restituzione o di rimborso, fino a quando è vigente il regime della comunione, salvo espressa autorizzazione del giudice in deroga, ma solo ove lo esiga l’interesse superiore della famiglia e dei figli in particolare.
Trib. Rovigo, 14 febbraio 2011(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il disposto normativo di cui all’art. 192, comma terzo, c.c., nella parte in cui attribuisce a ciascuno dei coniu¬gi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal proprio patrimonio personale e impiegate per spese e investimenti a favore del patrimonio comune, escluse quelle adoperate per l’acquisto di singoli beni caduti in comunione, opera nei soli limiti dei beni personali ex art. 179 c.c., con esclusione dei beni destinati a cadere nella comunione de residuo. La disposizione di cui al citato comma terzo, inoltre, ha carattere residuale e si riferisce sostanzialmente al denaro personale pervenuto al coniuge per cause diverse anche dalla vendita di un bene personale. In tal senso non possono rilevare versamenti e/o pagamenti di provvista di cui non si offre prova della provenienza.
Trib. Salerno, Sez. I, 21 novembre 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 192 c.c. prevede che, una volta intervenuto lo scioglimento della comunione, i coniugi hanno diritto alla restituzione di quanto da essi versato per spese non riguardanti gli obblighi reciproci di contribuzione previsti dall’art. 143 c.c., ovvero gli obblighi gravanti sui beni della comunione, come quelli relativi il mantenimento della famiglia, l’istruzione e la educazione dei figli.
Trib. Monza, 11 marzo 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di comunione legale fra coniugi, i rimborsi e le restituzioni delle somme spettanti in dipendenza dell’am¬ministrazione dei beni comuni, nei limiti delle somme prelevate da ciascuno dei coniugi dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni cui sono destinati per legge i beni in regime di comunione legale, si effettuano solo al momento della divisione dei beni comuni che, in caso di separazione tra i coniugi, coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia. Sino a tale momento il coniuge amministratore dei beni comuni amministra i beni destinati al mantenimento della famiglia, la quale permane come vincolo anche tra coniugi separati, senza che alcuno di questi possa rivendicare la disponibilità personale delle loro rendite, nei limiti della propria quota di comproprietà, prima del definitivo scioglimento del rapporto di convivenza. Ciò che trova conferma nell’art. 192, comma quarto, c.c., il quale prevede che i rimborsi e le restituzioni, possano avvenire, dietro autorizzazione del giudice, anche in un momento anteriore a quello suindicato, ma solo a favore della comunione.
Cass. civ. Sez. I, 11 settembre 2008, n. 23391 (Famiglia e Diritto, 2009, 2, 133 nota di OBERTO)
Il credito a titolo di rimborso ex art. 192 c.c., comma 1, rappresenta un credito di valuta e non di valore (Nella specie, la Cassazione ha confermato la decisione d’appello che aveva escluso la rivalutazione del credito vantato da un coniuge alla metà del corrispettivo incassato per intero dall’altro, a seguito dell’alienazione, da parte di quest’ultimo, di un autoveicolo già formante parte della comunione legale, scioltasi a seguito di separazione personale).
App. Catania, 7 gennaio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, la norma dell’art. 192, comma 3, c.c., attribuisce a ciascuno dei coniugi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, non già quello alla ripetizione del valore degli immobili provenienti dal patrimonio personale di uno dei coniugi e conferiti alla comunione, atteso che, per effetto della trasformazio¬ne dei beni personali in beni comuni, detti beni restano immediatamente soggetti alla disciplina della comunione legale, e quindi al principio inderogabile di cui all’art. 194, comma 1, c.c., il quale impone che, in sede di divi¬sione, l’attivo e il passivo siano ripartiti in parti eguali, indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione.
Cass. civ. Sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1197 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il denaro ottenuto a titolo di prezzo per l’alienazione di un bene personale rimane nella esclusiva disponibilità del coniuge alienante anche quando esso venga dal medesimo coniuge depositato sul proprio conto corrente. Questa titolarità non muta in conseguenza della mera circostanza che il denaro sia stato accantonato sotto forma di deposito bancario, giacché il diritto di credito relativo al capitale non può considerarsi modificazione del capitale stesso, né è d’altro canto configurabile come un acquisto nel senso indicato dall’art. 177, comma 1, lett. a) c.c., cioè come un’operazione finalizzata a determinare un mutamento effettivo nell’assetto patrimoniale del depositante.
Cass. civ. Sez. I, 24 maggio 2005, n. 10896 (Giur. It., 2006, 5, 936 nota di GALATI)
In tema di scioglimento della comunione legale, l’art. 192 c.c., nel prevedere il diritto del coniuge alla restitu¬zione delle somme prelevate dal patrimonio personale impiegate per spese ed investimenti a favore dei beni del patrimonio comune, non attribuisce anche un diritto alla ripetizione del valore degli immobili provenienti dal patrimonio personale del coniuge e conferiti alla comunione, né prevede il diritto al rimborso del denaro proprio, speso per l’acquisto di beni poi caduti in comunione. Conseguentemente, ai fini della norma, occorre distinguere tra spese effettuate con denaro proprio per migliorie ed addizioni delle cose comuni, da quelle effettuate con denaro della comunione.
Le spese e gli investimenti del patrimonio comune, rimborsabili a ciascun coniuge se effettuate con somme prelevate dal patrimonio personale, riguardano solamente gli esborsi effettuati per la gestione, la manutenzione e il miglioramento dei beni comuni, e non quelli per l’acquisto dei medesimi beni (categoria nella quale vanno ricomprese anche le spese notarili e fiscali resesi necessarie per l’acquisto)
Le somme percepite a titolo di proventi dell’attività separata (destinate alla comunione “de residuo” se non consumate al momento dello scioglimento della comunione) non costituiscono somme prelevate dal patrimonio personale.
Il credito alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, spettante al coniuge ai sensi dell’art. 192, comma 3, c.c. all’esito dello scioglimento della comunione legale, è di natura nominalistica (art. 1277 c.c.) e, determinato nel suo ammontare all’atto della divisione, previa ripartizione in parti uguali tra i condividenti delle passività di cui all’art. 186 c.c., da tale momento liquido ed esigibile. Come tale, esso produce interessi ex art. 1282 c.c., salvo il diritto alla rivalutazione monetaria in caso di prova di sofferto danno maggiore di quello dai medesimi coperto (art. 1224 c.c.).
Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2005, n. 2354 (Famiglia e Diritto, 2005, 3, 237 nota di CARBONE)
Il principio generale dell’accessione posto dall’art. 934 c.c., in base al quale il proprietario del suolo acquista “ipso iure” al momento dell’incorporazione la proprietà della costruzione su di esso edificata e la cui operatività può essere derogata soltanto da una specifica pattuizione tra le parti o da una altrettanto specifica disposizione di legge, non trova deroga nella disciplina della comunione legale tra coniugi, in quanto l’acquisto della proprietà per accessione avviene a titolo originario senza la necessità di un’apposita manifestazione di volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l’art. 177 c.c., primo comma, hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una genesi di natura negoziale, con la conseguenza che la costruzione realizzata in costanza di matri¬monio ed in regime di comunione legale da entrambi i coniugi sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno di essi è a sua volta proprietà personale ed esclusiva di quest’ultimo in virtù dei principi generali in materia di accessione, mentre al coniuge non proprietario che abbia contribuito all’onere della costruzione spetta, ai sensi dell’art. 2033 c.c., il diritto di ripetere nei confronti dell’altro coniuge le somme spese.
Cass. civ. Sez. I, 15 settembre 2004, n. 18564 (Giur. It., 2006, 2, 275 nota di SORRENTINO)
In tema di comunione legale fra coniugi, i rimborsi e le restituzioni delle somme spettanti in dipendenza dell’am¬ministrazione dei beni comuni, nei limiti delle somme prelevate da ciascuno dei coniugi dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni cui sono destinati per legge i beni in regime di comunione legale, si effettuano solo al momento della divisione dei beni comuni che, in caso di separazione tra i coniugi, coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia. Sino a tale momento il coniuge amministratore dei beni comuni amministra i beni destinati al mantenimento della famiglia, la quale permane come vincolo anche tra i coniugi separati, senza che alcuno di questi possa rivendicare la disponibilità personale delle loro rendite, nei limiti della propria quota di comproprietà, prima del definitivo scioglimento del rapporto di convivenza. Ciò che trova conferma nell’art. 192, comma quarto, c.c., il quale prevede che i rimborsi e le restituzioni, possano avvenire, dietro autorizzazione del giudice, anche in un momento anteriore a quello suindicato, ma solo a favore della comunione e, quindi, con il vincolo di destinazione delle somme relative al mantenimento della famiglia e all’istruzione e all’educazione dei figli.
Trib. Taranto 9 maggio 2000 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le somme di cui si può chiedere la restituzione ai sensi dell’art. 192 c.c. devono essere riconducibili alla fattispe¬cie dell’art. 179 e non a quella dell’art. 177, lett. c.
Trib. Milano 25 maggio 1998 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo di rimborso delle anticipazioni effettuate in favore della comunione presuppone la prova della consa¬pevolezza dell’altro coniuge del fatto che si trattasse di mere anticipazioni e non di donazioni indirette in favore dell’altro coniuge.
Cass. civ. Sez. I, 14 marzo 1992, n. 3141 (Giust. Civ., 1992, I, 1731 nota di FINOCCHIARO)
Nel regime di comunione legale, la costruzione realizzata in costanza di matrimonio su suolo di proprietà perso¬nale di uno dei coniugi, appartiene esclusivamente a questo, a titolo originario, in virtù delle disposizioni generali in materia di accessione e, pertanto, non costituisce oggetto della comunione medesima, ai sensi dell’art. 177, 1° comma, lett. a) c. c., che prevede il diverso caso di un acquisto a titolo derivativo da parte di un coniuge; peraltro, quando per la detta costruzione sia stato impiegato danaro comune, il coniuge che si è giovato dell’ac¬cessione è tenuto a rimborsare alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune ed utilizzate per l’edificazione a norma dell’art. 192, 1° comma, c. c., mentre, nel caso in cui nella costruzione sia stato impiegato danaro appartenente in via esclusiva all’altro coniuge, quest’ultimo ha diritto di ripetere le relative somme ai sensi dell’art. 2033 c. c.

Il punto di vista di Gianfranco Dosi

Come reagire al fatto che…
… la prima sezione della Corte di Cassazione fa quadrato intorno all’interpretazione dei presupposti per l’assegno di divorzio: una questione di particolare importanza su cui non intende richiedere l’intervento delle Sezioni Unite
Contro l’ostinazione della prima sezione può essere utile ricordare il secondo e il terzo comma dell’art. 376 c.p.c. secondo cui
“La parte, che ritiene di competenza delle sezioni unite un ricorso assegnato a una sezione semplice, può proporre al primo presidente istanza di rimessione alle sezioni unite, fino a dieci giorni prima dell’udienza di discussione del ricorso.
All’udienza della sezione semplice, la rimessione può essere disposta soltanto su richiesta del pubblico ministero o d’ufficio, con ordinanza inserita nel processo verbale”.
* * *
La prima sezione della Cassazione ha deciso improvvisamente negli ultimi mesi di abbandonare per il divorzio il riferimento al pregresso tenore di vita quale parametro finalizzato all’attribuzione dell’assegno, agganciando il diritto del coniuge richiedente al parametro dell’indipendenza economica, suggestivamente definito “criterio dell’autoresponsabilità” (Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504). Le posizioni espresse da questa sentenza erano ben note per essere comparse, a firma dello stesso relatore della sentenza, nella rivista Questione giustizia dell’11 marzo 2016, con il titolo “L’assegno divorzile e il dogma della conservazione del tenore di vita matrimoniale”.
Nonostante la discutibilità della decisione e della motivazione – che ha suscitato solo perplessità e dissensi nel foro e in dottrina – la prima sezione della Cassazione ha insistito su questa linea interpretativa (Cass. civ. Sez. VI – 1, 29 agosto 2017, n. 20525 che ha ribadito gli stessi principi e Cass. civ. Sez. VI – 1, 9 agosto 2017, n. 19920 che ha rimesso alla prima sezione in seduta pubblica un ricorso che ripropone lo stesso tema).
L’interpretazione finora vivente dell’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio secondo cui l’attribuzione del diritto all’assegno divorzile è subordinata al fatto di non avere redditi “adeguati a mantenere tendenzialmente il tenore di vita goduto nel corso della convivenza matrimoniale”, si deve a Cass. civ. Sez. Unite, 29 novembre 1990, n. 11490. Si tratta dell’unica interpretazione ragionevole perché – a differenza di quella oggi proposta dalla prima Sezione (che propone uno sbarramento radicale nella fase preliminare dell’accertamento del diritto) – contiene in sé la possibilità di garantire che in fase di quantificazione dell’assegno siano eliminate le possibili storture e le possibili rendite parassitarie.
Nonostante, però, la richiesta da più parti avanzata (anche dal Procuratore generale all’udienza pubblica) di rimettere la questione alle Sezioni Unite per una doverosa verifica (confermativa o modificativa) dei principi affermati su una così indubbia “questione di particolare importanza” (art. 374, secondo comma) – anche per i suoi incommensurabili riflessi sociali – la prima sezione dichiara (espressamente nella sentenza 11504/2017) che non intende confrontarsi con le Sezioni Unite, ostinandosi a condurre da sola una rivoluzione che i giudici di merito non possono esimersi dall’attuare in quanto alla Cassazione l’art. 65 dell’Ordinamento giudiziario attribuisce la funzione di assicurare l’uniforme interpretazione della legge.
L’ostinazione della prima Sezione è contra legem in quanto il secondo comma dell’art. 374 c.p.c. dopo aver affermato che “il primo presidente può disporre che la Corte pronunci a sezioni unite sui ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, e su quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza” prescrive testualmente che “Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”.
Poiché la Prima Sezione della Cassazione non ha alcuna intenzione di adeguarsi al dettato normativo e non intende rimettere la questione alle Sezioni Unite, non resta che auspicare che siano gli avvocati a richiederlo.
La norma di riferimento è il secondo comma dell’art. 376 c.p.c. secondo cui “La parte, che ritiene di competenza delle sezioni unite un ricorso assegnato a una sezione semplice, può proporre al primo presidente istanza di rimessione alle sezioni unite, fino a dieci giorni prima dell’udienza di discussione del ricorso”
Utilizziamo questa norma per vincere le resistenze della prima sezione della Cassazione.

ASSEGNAZIONE DELLA CASA FAMILIARE

Di Gianfranco Dosi

I La disciplina normativa uniforme sull’assegnazione della casa familiare dopo la riforma del 2013 e i suoi aspetti problematici
a) L’art. 337-sexies del codice civile
L’art. 55, comma 1, del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154, emanato sulla base della delega contenuta nella legge 10 dicembre 2012, n. 219 di riforma della filiazione, nel suddividere il nuovo titolo IX dedicato alla responsabilità genitoriale in due capi, ha unificato nel Capo II tutte le disposizioni sull’”esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio”, e riserva l’intero art. 337-sexies al tema specifico dell’as¬segnazione della casa familiare.
Articolo 337-sexies (assegnazione della casa familiare e prescrizioni in tema di residenza)
Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’in¬teresse dei figli. Dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rap¬porti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà. Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio. Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascri¬vibili e opponibili ai terzi ai sensi dell’articolo 2643.
In presenza di figli minori, ciascuno dei genitori è obbligato a comunicare all’altro, entro il termine perentorio di trenta giorni, l’avvenuto cambiamento di residenza o di domicilio. La mancata comunicazione obbliga al risarcimento del danno even¬tualmente verificatosi a carico del coniuge o dei figli per la difficoltà di reperire il soggetto.
Dal 2013, quindi, esiste una norma giuridica in materia di assegnazione della casa familiare che di¬sciplina in modo identico ed esclusivo (salvo quanto si dirà in ordine alla inspiegabile sopravviven¬za del testo dell’art. 6, comma 6, della legge sul divorzio) tutti i casi in cui, essendosi disgregata la coppia genitoriale (a seguito di separazione, divorzio, annullamento del matrimonio, cessazione della convivenza fuori dal matrimonio), il figlio rimane domiciliato presso uno dei genitori al quale il giudice attribuisce, conseguentemente, il diritto di rimanere ad abitare nell’immobile costituente la casa familiare, ancorché essa sia in comproprietà tra i genitori, ovvero di proprietà dell’altro genitore o di terzi.
A voler essere precisi, l’uniformità delle regole in materia di affidamento e di assegnazione della casa familiare risale già di fatto al 2006. Infatti l’art. 337-sexies sostituisce sostanzialmente con il medesimo contenuto il previgente art. 155-quater del codice civile1 (sostitutivo dell’originario art. 155 c.c.) nel testo che era stato introdotto dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in ma¬
1 Art. 155-quater (Assegnazione della casa familiare e prescrizioni in tema di residenza)
Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli. Dell’assegna¬zione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà. Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio. Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’articolo 2643.
Nel caso in cui uno dei coniugi cambi la residenza o il domicilio, l’altro coniuge può chiedere, se il mutamento interferisce con le modalità dell’affidamento, la ridefinizione degli accordi o dei provvedimenti adottati, ivi com¬presi quelli economici.
teria di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli). Proprio l’art. 4 di questa riforma2 aveva unificato la nuova disciplina per tutte le situazioni di disgregazione del nucleo genitoriale sia nella famiglia matrimoniale (separazione, nullità, divorzio) sia nella famiglia non matrimoniale (anche in seguito a Corte Cost. 13 maggio 1998, n. 166 che aveva esteso ai figli “naturali” le regole sull’assegnazione della casa familiare previste per i figli “legittimi”).
L’uniformità sostanziale i traduce, naturalmente, anche in una uniformità processuale nel senso che anche i provvedimenti emanati nell’ambito delle procedure camerali concernenti la regolamen¬tazione dell’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio sono assistiti dalle medesime garanzie del rito ordinario seguìto per la regolamentazione dell’affidamento nell’ambito delle procedure di separazione e di divorzio, come già da prima della riforma del 2006, comunque, la giurisprudenza aveva imposto, ammettendo (superando il divieto generale di cui all’art. 739, ult. comma, c.p.c.) la ricorribilità per cassazione dei provvedimenti della Corte d’appello in materia di affidamento e di mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio, ivi compresi quelli concernenti l’assegnazione della casa familiare (Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2012, n. 9770; Cass. civ. Sez. I, 19 aprile 2010, n. 9277; Cass. civ. Sez. I, 30 ottobre 2009, n. 23032; Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2009, n. 23411; Cass. civ. Sez. I, 30 ottobre 2009, n. 23032).
b) L’incomprensibile non abrogazione dell’art. 6, comma 6, della legge sul divorzio
La legge sul divorzio all’art. 6, comma 6, conteneva una espressa disposizione in materia di as¬segnazione della casa familiare che, già dopo la riforma del 2006 (che aveva reso uniforme la disciplina dell’assegnazione della casa familiare in tutti i casi) e a maggior ragione dopo quella del 2013 (che unifica nell’unico articolo 337-sexies tutte le ipotesi di assegnazione) era ragionevole che venisse del tutto abrogata perché completamente sostituita dalla norma generale del codice.
Sennonché l’art. 6 della legge sul divorzio veniva fatto oggetto di riforma ad opera dell’art. 98 del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 che ne abrogava “i commi 3, 4, 5, 8, 9, 10, 11 e 12” (proprio in ragione della disciplina uniforme di cui all’art. 337-sexies c.c.) lasciando, però, incom¬prensibilmente in vigore il comma 6 sull’assegnazione della casa familiare il quale continua quindi a prevedere che “L’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza al genitore cui vengono affi¬dati i figli o con il quale i figli convivono oltre la maggiore età. In ogni caso ai fini dell’assegnazione il giudice dovrà valutare le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole. L’assegnazione, in quanto trascritta, è opponibile al terzo acquirente ai sensi dell’art. 1599 del codice civile”.
Che senso ha una norma a sé, in ambito divorzile, se le norme generali prevedono una disciplina ormai completamente uniforme per tutte le situazioni di disgregazione del nucleo genitoriale?
Permane quindi formalmente da un lato una disciplina incontestabilmente uniforme all’interno del codice civile in materia di affidamento, di mantenimento dei figli e di assegnazione della casa familiare (disposizioni dall’art. 337-bis all’art. 337-octies c.c.) e dall’altro una norma incompren¬sibilmente ad hoc (incomprensibilmente non abrogata) sull’assegnazione della casa familiare in sede divorzile.
Si può fondatamente ritenere che il legislatore del 2013 abbia commesso un clamoroso errore di coordinamento. In dottrina si parla di “svista”. Non è pensabile dare altre spiegazioni.
La disciplina applicabile all’assegnazione della casa familiare non potrà che essere quindi, in ogni situazione di disgregazione della coppia genitoriale, unicamente quella che emerge dalla lettura delle norme uniformi del codice civile. Ove così non fosse si sovrappirrebbero in sede divorzile le due discipline che solo in parte sono coincidenti, come meglio si dirà trattando il tema dell’op¬ponibilità dell’assegnazione ai terzi acquirenti. Infatti il codice civile condiziona l’opponibilità alla trascrizione, senza alcuna ulteriore precisazione, mentre la norma sopravvissuta del divorzio pre¬cisa che l’opponibilità va considerata “ai sensi dell’art. 1599 del codice civile” ammettendo, cioè, che l’assegnazione non trascritta è comunque opponibile entro il novennio. Un pasticcio del tutto irragionevole.
II La funzione e le conseguenze dell’assegnazione della casa familiare
La funzione storicamente attribuita all’assegnazione della casa familiare (indicata originariamente e fino al 2006 nel previgente quarto comma dell’art. 155 c.c. rubricato “provvedimenti riguardo ai figli”) è quella di garantire che i figli, nella situazione di crisi del rapporto tra i genitori determinata dalla separazione, possano essere esposti a cambiamenti del loro habitat domestico potenzial¬mente pregiudizievoli alla loro serenità. Effettivamente il quarto comma dell’originario art. 155 c.c. prevedeva che “L’abitazione nella casa familiare, spetta di preferenza, e ove sia possibile, al coniuge cui vengono affidati i figli”). I successivi mutamenti della normativa, a seguito, come sopra
2 Legge 8 febbraio 2006, n. 154. Art. 4.
1. Nei casi in cui il decreto di omologa dei patti di separazione consensuale, la sentenza di separazione giudi¬ziale, di scioglimento, di annullamento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio sia già stata emessa alla data di entrata in vigore della presente legge, ciascuno dei genitori può richiedere, nei modi previsti dall’articolo 710 del codice di procedura civile o dall’articolo 9 della legge 1º dicembre 1970, n. 898, e successive modifica¬zioni, l’applicazione delle disposizioni della presente legge.
2. Le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati.

detto, della riforma del 2006 sull’affidamento condiviso e poi della riforma sulla filiazione del 2013, hanno confermato e rafforzato questa funzione di garanzia: “Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli” (attuale prima parte dell’art. 337-sexies). Norma che non lascia proprio dubbi su quale debba essere l’interesse tutelato.
La giurisprudenza ha sempre rimarcato nel tempo questa funzione di essenziale garanzia verso i figli dell’assegnazione della casa familiare con esclusione di qualsiasi altra prospettiva di tutela (li¬mitatamente agli ultimi anni Cass. civ. Sez. VI, 29 settembre 2016, n. 19347; Cass. civ. Sez. VI, 8 giugno 2016, n. 11783; Cass. civ. Sez. VI, 28 settembre 2015, n. 19193; Cass. civ. Sez. I, 8 febbraio 2012, n. 1783; Cass. civ. Sez. I, 15 settembre 2011, n. 18863; Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2011, n. 16126; Cass. civ. Sez. I, 4 luglio 2011, n. 14553; Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2010, n. 23591) con la precisazione che deve trattarsi dei figli comuni della coppia (Cass. civ. Sez. I, 2 ottobre 2007, n. 20688).
Se non vi fosse una interpretazione in chiave di garanzia dei figli preverrebbero ai fini dell’asse¬gnazione le regole e le ragioni della proprietà e il partner proprietario o comproprietario della casa potrebbe pretendere di estromettere l’altro, non proprietario, affidatario dei figli, oppure potrebbe pretendere di fargli pagare una indennità di occupazione.
L’assegnazione, quindi, è un istituto che fa eccezione alle regole della proprietà. Trova, perciò, parziale applicazione l’art. 832 c.c. (“Il proprietario ha il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo…”) nel senso che il proprietario perde, con l’assegnazione della casa familiare al partner con cui i figli rimangono, il diritto di godimento del bene; diritto che è inciso dall’assegnazione che non modifica l’assetto proprietario ma solo, come bene precisa l’art. 337-se¬xies, appunto “il godimento” dell’immobile. Non è interdetto, invece, il diritto di “disporre” e quindi il proprietario può senz’altro vendere dopo l’assegnazione l’immobile costituente la casa familiare o attribuire a terzi diritti (di natura reale, personale o di garanzia). A tutti costoro, come si dirà, sarà, però, opponibile l’assegnazione trascritta.
Una delle estrinsecazioni classiche del diritto di godimento interdetto è quello di trarre utilità eco¬nomica dal bene e pertanto il proprietario della casa familiare assegnata (e cioè l’altro partner o il comodante) non può vantare alcun diritto economico o di indennizzo in relazione alla perdita del godimento dell’immobile o dalla sua mancata occupazione. In altre parole il diritto di godimento dell’assegnatario è esercitato a titolo gratuito (fatto salvo, naturalmente, il caso della locazione, in cui il partner assegnatario subentra nella stessa posizione del partner conduttore e sarà gravato degli obblighi contrattuali concernenti la locazione stessa).
E’ proprio questa sostanziale gratuità dell’assegnazione che ha indotto il legislatore a stabilire nell’art. 337-sexies che “Dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti eco¬nomici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà”. La parte proprietaria ha pertanto un vero e proprio diritto a che nella regolamentazione dei rapporti economici tra le parti (mante¬nimento coniugale o eventuale diritto alimentare del convivente ex art. 65 della legge 20 maggio 2016, n. 76) si tenga conto del sacrificio imposto al proprietario dall’assegnazione della casa fami¬liare al genitore non proprietario. Ove non vi siano tra le parti i presupposti per l’attribuzione del mantenimento o dell’assegno alimentare non può considerarsi escluso che una compensazione del sacrificio possa essere operata in sede di regolamentazione del mantenimento dei figli.
La giurisprudenza ha sempre applicato pacificamente questo principio di compensazione in senso lato tra i vantaggi che trae l’assegnatario e gli svantaggi che subisce il proprietario dell’immobile assegnato (Cass. civ. Sez. VI, 17 dicembre 2015, n. 25420; Cass. civ. Sez. I, 20 aprile 2011, n. 9079).
III Che si intende per casa familiare?
Nella interpretazione consolidata offerta dalla giurisprudenza, la casa familiare è solo quella che ha costituito l’habitat domestico fino al momento della disgregazione della coppia genitoriale.
Nessun’altra casa in uso alla famiglia o di proprietà della coppia genitoriale, costituisce casa fa¬miliare ancorché utilizzata come dimora stabile per lunghi periodi dell’anno, per esempio, nelle vacanze estive.
In Cass. civ. Sez. I, 27 febbraio 2009, n. 4816 si legge che l’assegnazione della casa familiare è consentita unicamente con riguardo a quell’immobile che abbia costituito il centro di aggrega¬zione della famiglia durante la convivenza, con esclusione di ogni altro immobile di cui i coniugi abbiano la disponibilità.
Secondo Cass. civ. Sez. I, 22 marzo 2012, n. 4555 – che affronta il tema della differenza atra ritorno saltuario e ritorno regolare del minore fuori sede – la nozione di convivenza rilevante agli effetti dell’ assegnazione della casa familiare comporta la stabile dimora del figlio presso l’abitazione di uno dei genitori, con eventuali, sporadici allontanamenti per brevi periodi, e con esclusione, quindi, della ipotesi di saltuario ritorno presso detta abitazione per i fine settimana, ipotesi nella quale si configura invece un rapporto di mera ospitalità; deve, pertanto, sussistere un collegamento stabile con l’abitazione del genitore, benché la coabitazione possa non essere quo¬tidiana, essendo tale concetto compatibile con l’assenza del figlio anche per periodi non brevi per motivi di studio o di lavoro, purché egli vi faccia ritorno regolarmente appena possibile; quest’ulti¬mo criterio, tuttavia, deve coniugarsi con quello della prevalenza temporale dell’effettiva presenza, in relazione ad una determinata unità di tempo (anno, semestre, mese). Nella vicenda specifica, la Corte ha cassato la sentenza dei giudici di merito che avevano confermato l’ assegnazione della casa familiare , nonostante il figlio lavorasse stabilmente in città distante da quella in cui quest’ul¬tima era situata, senza accertare se e con quale frequenza il figlio stesso tornava effettivamente presso l’abitazione assegnata, alla luce delle sue condizioni di vita, della distanza tra le due città, dei periodi reali di permanenza nell’ambiente familiare originario.
Per Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2013, n. 11981 l’assegnazione della casa familiare al genito¬re affidatario presuppone una continuità ambientale, decisiva ai fini del preminente interesse del minore alla permanenza nella casa familiare, suo domicilio abituale, continuità che non sussiste laddove il minore si sia già stabilito in altra abitazione.
Secondo Cass. civ. Sez. I, 24 luglio 2012, n. 12977 va considerata casa familiare quella abi¬tata dalla famiglia fino all’instaurazione del giudizio di separazione o almeno fino ad epoca di poco anteriore, mentre non si fa luogo all’ assegnazione allorché la destinazione ad abitazione familiare sia ormai cessata, essendo i coniugi separati di fatto da un significativo numero di anni.
Infine per Cass. civ. Sez. I, 19 febbraio 2016, n. 3331 il giudice può assegnare la casa fami¬liare al genitore collocatario del figlio anche se il minore non ha mai abitato nell’immobile, purché i genitori prima del conflitto abbiano destinato la casa ad abitazione familiare e vi abbiano stabil¬mente convissuto.
IV L’estensione dell’assegnazione alle pertinenze e all’arredamento della casa
L’assegnazione della casa familiare comporta l’assegnazione delle pertinenze e dei mobili che ar¬redano la casa.
La pertinenza, in base a quanto previsto dall’articolo 818 del codice civile, è compresa nei rapporti giuridici che hanno ad oggetto la cosa principale, se non è diversamente disposto.
Le pertinenze della casa familiare sono in genere la cantina, la soffitta, il box auto, le superfici scoperte in godimento esclusivo, le aree a verde condominiale. Secondo Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 1986 1986, n. 518 per la configurabilità della pertinenza devono concorrere l’elemento oggettivo, consistente nel rapporto funzionale corrente tra la cosa principale e quelle accessorie, l’elemento soggettivo della destinazione pertinenziale, consistente nella volontà di destinare dure¬volmente la cosa accessoria al servizio od all’ornamento di quella principale.
In App. Roma, 30 novembre 2005 si legge che l’assegnazione della casa coniugale si estende alle rispettive pertinenze dovendo, la stessa, corrispondere alle concrete esigenze del coniuge as¬segnatario e dei figli minori; è pertanto legittima l’ assegnazione di un locale ad uso autorimessa al coniuge assegnatario della casa coniugale e affidatario dei figli minori che utilizzi la pertinenza per parcheggiarvi la propria autovettura, in quanto da tale assegnazione trae una utilità diretta il coniuge e traggono altresì una utilità riflessa i figli minori con lui conviventi.
Nel confermare questa decisione Cass. civ. Sez. I, 13 novembre 2009, n. 24104 ha riba¬dito che ai fini della sussistenza del vincolo pertinenziale tra bene principale e bene accessorio è necessaria la presenza del requisito soggettivo dell’appartenenza di entrambi al medesimo soggetto, nonché del requisito oggettivo della contiguità, anche solo di servizio, tra i due beni, ai fini del quale il bene accessorio deve arrecare una utilità al bene principale e non al proprie¬tario di esso; ne discende che l’assegnazione della casa coniugale deve intendersi estensibile al box, quale pertinenza della cosa principale, qualora questo sia oggettivamente al servizio dell’appartamento, essendo situato sullo stesso palazzo, ed entrambi gli immobili appartengano ad un solo coniuge.
Naturalmente ove la pertinenza fosse stata già oggetto di autonoma destinazione (per locazione o comodato a terzi) l’assegnazione del bene principale non può estendersi al godimento da parte dell’assegnatario della pertinenza, essendo tenuto anche l’assegnatario al rispetto del diritto di godimento attribuito a terzi, ferma la riespansione del vincolo al cessare del godimento da parte dei terzi.
Rientra nell’assegnazione della casa familiare anche il mobilio, che potrà tornare ad essere rego¬lato dalle norme sulla proprietà al termine dell’assegnazione. Sono esclusi dall’assegnazione solo i beni e gli effetti di uso strettamente personale della parte che si dovrà allontanare da casa. Tali beni non coincidono evidentemente con il concetto di beni personali a cui fa riferimento l’art. 179 c.c. nel suo complesso nell’ambito della comunione legale.
Già passato Cass. civ., Sez. I, 9 dicembre 1983, n. 7303 aveva avuto modo di precisare che l’assegnazione della casa coniugale ricomprende, per la necessaria tutela della prole minore, non il solo immobile, ma anche i mobili , gli arredi, gli elettrodomestici ed i servizi, con l’eccezione dei beni strettamente personali che soddisfano esigenze peculiari del coniuge privato del godimento della casa familiare; tale diritto di uso dei mobili , essendo strumentale al godimento dell’immo¬bile, è destinato a cessare quando l’assegnatario perda la disponibilità dello stabile. Naturalmente – come ha chiarito Cass. civ. Sez. I, 25 maggio 1998, n. 5189 – se è vero che l’assegnazione della casa familiare si estende anche a mobili ed arredi, nulla vieta ai coniugi di pattuire, anche al di fuori dei poi omologati accordi di separazione consensuale, che alcuni mobili, tanto più se di proprietà esclusiva di uno di loro, siano prelevati dalla casa familiare.
Anche nella giurisprudenza di merito la questione non è controversa (Trib. Cassino, 19 ottobre 2007).
Recentemente Cass. civ. Sez. II, 23 febbraio 2017, n. 4685 ha confermato una decisione che nel caso di cessazione della convivenza more uxorio, aveva ritenuto che il convivente non asse¬gnatario della casa familiare avesse diritto alla restituzione degli arredi e dei beni di sua proprietà, con esclusione di quelli strettamente connessi alle necessità dei figli della coppia. Va osservato, tuttavia, in punto di fatto che nella vicenda specifica il giudice di merito si era limitato a disporre l’assegnazione dei beni strettamente connessi alle necessità dei figli, in ragione della pendenza del giudizio tra le parti avente ad oggetto la domanda restitutoria.
V L’assegnazione parziale
La giurisprudenza ammette nel suo complesso l’assegnazione parziale della casa familiare.
Recentemente Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2017, n. 2771 ha ribadito che il giudice della se¬parazione può disporre l’assegnazione parziale dell’immobile se essa non contrasta con l’interesse preminente dei figli.
Già prima, secondo Cass. civ. Sez. VI, 8 giugno 2016, n. 11783, Cass. civ. Sez. I, 12 no¬vembre 2014, n. 24156 e Cass. civ. Sez. VI, 11 aprile 2014, n. 8580 era stato affermato che nell’ottica della tutela prioritaria dei figli, il giudice può senz’altro limitare l’assegnazione della casa familiare ad una porzione dell’immobile, di proprietà esclusiva del genitore non affidatario, laddove tale soluzione, esperibile in relazione al lieve grado di conflittualità coniugale, agevoli in concreto la condivisione della genitorialità e la conservazione dell’habitat domestico dei figli minori.
Si tratta di decisioni – in situazioni di comproprietà dell’abitazione familiare evidentemente facil¬mente divisibile – agevolate dalle dimensioni della casa e dalla non eccessiva conflittualità tra i genitori che tendono espressamente a favorire la maggiore vicinanza ai figli da parte del genitore non assegnatario. Certamente non si tratta di casi frequenti.
L’obiettivo esplicito della bigenitorialità non era mai stato prima al centro dei provvedimenti di as-segnazione parziale che in genere tendevano solo a non penalizzare il genitore non assegnatario. Per esempio Cass. civ. Sez. I, 11 novembre 2011, n. 23631 aveva ammesso l’assegnazione parziale della casa familiare solo nel caso in cui l’unità immobiliare fosse del tutto autonoma e distinta da quella destinata ad abitazione della famiglia, ovvero questa ecceda per estensione le esigenze della famiglia e sia agevolmente divisibile. Ugualmente Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2009, n. 26586 aveva ammesso che il giudice può limitare l’assegnazione a quella parte della casa familiare realmente occorrente ai bisogni delle persone conviventi nella famiglia, tenendo conto, nello stabilire le concrete modalità dell’assegnazione, delle esigenze di vita dell’altro coniu¬ge e delle possibilità di godimento separato e autonomo dell’immobile, anche attraverso modesti accorgimenti o piccoli lavori.
Anche in passato si è ritenuta possibile l’assegnazione parziale come dimostra Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 1990, n. 11787 secondo cui il potere del giudice della separazione di assegnare l’abitazione della casa familiare, in deroga al normale regime privatistico, al coniuge affidatario dei figli minori include la facoltà di attribuire alcuni soltanto dei locali di detta casa, quando essi abbiano ampiezza sufficiente per soddisfare le esigenze dei figli e del genitore cui sono affidati, ed altresì abbiano caratteristiche strutturali e funzionali tali da consentirne il distacco con autonoma unità abitativa, con modesti accorgimenti o piccoli lavori, senza opere edili di trasformazione (nella specie, trattandosi del piano di un villino, che poteva con facilità essere reso indipendente dal resto della costruzione).
Sempre nella stessa prospettiva Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 2008, n. 16593 aveva ammesso l’assegnazione parziale della casa familiare a condizione che la prospettata divisione dell’immobile non arrecasse disagio psicologico al figlio della coppia “costretto a vivere in un immobile grande la metà e, quindi, profondamente diverso da quello in cui aveva fino a quel momento vissuto”.
La giurisprudenza che ammette l’assegnazione parziale deve però oggettivamente fare i conti con il problema dell’eventuale indivisibilità prospettata in sede di giudizio di scioglimento della comunione sull’immobile. Ove, infatti, la divisione materiale dell’immobile venga esclusa nell’eventuale giudizio di divisione, sarà ben difficile che il giudice della separazione o del divorzio possa accogliere una istan¬za di assegnazione parziale. Pertanto l’assegnazione parziale può essere effettuata nel corso della causa di separazione (337-bis e seguenti c.c.) solo a condizione che non sussista una causa di divisio¬ne dell’immobile in corso tra le parti nella quale la divisibilità materiale dell’immobile venga esclusa.
Nel caso, tuttavia, in cui la divisibilità materiale (in sede di scioglimento della comunione o per accordo tra le parti) sia possibile, questo non comporta la inevitabile assegnazione parziale in quanto ben porrebbe il giudice nondimeno escluderla per i motivi che sono stati sopra indicati in giurisprudenza come ostativi.
VI L’assegnazione ha natura di diritto reale o di diritto personale di godimento?
E’ ormai del tutto consolidato l’orientamento che ritiene che l’assegnazione della casa familiare attribuisca un diritto personale di godimento e non un diritto reale (Cass. civ. Sez. I, 11 settem¬bre 2015, n. 17971; Cass. civ. Sez. Unite, 29 settembre 2014, n. 20448; Cass. civ. Sez. II, 12 aprile 2011, n. 8361; Cass. civ. Sez. V, 16 marzo 2007, n. 6192; Cass. civ. Sez. III, 26 gennaio 1995, n. 929).
Quale conseguenza di questa impostazione Cass. civ. Sez. V, 3 febbraio 2014, n. 2273 ha mes¬so in luce, in materia di agevolazioni tributarie, che i benefici fiscali “prima casa “ sono preclusi (a norma dell’art 1 della Tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, nota II bis, lett. b e c), se l’acquirente ha la disponibilità di altro immobile a titolo di proprietà o altro diritto reale, sicché la disponibilità della casa familiare derivante dal provvedimento giudiziale di assegnazione da parte del giudice della separazione o del divorzio, non integrando un diritto reale, bensì un diritto personale di godimento di natura atipica, consente l’accesso ai suddetti benefici.
Ugualmente secondo Cass. civ. Sez. V, 16 marzo 2007, n. 6192 non è soggetto passivo dell’Ici il coniuge cui in sede di separazione personale (o divorzio) viene giudizialmente assegnata la casa familiare di proprietà dell’altro coniuge, stante la natura non reale di tale diritto.
Non del tutto convincente, nell’ambito del tema generale delle conseguenze dell’assegnazione e del suo inquadramento tra i diritti personali di godimento, è Cass. civ. Sez. II, 20 aprile 2017, n. 9998 secondo cui i lavori condominiali deliberati dall’assemblea ed eseguiti in data anteriore rispetto al provvedimento di assegnazione della casa familiare, di proprietà esclusiva di un co¬niuge, all’altro coniuge in sede di separazione giudiziale, sono a carico del proprietario, in quanto precedenti alla costituzione del diritto di abitazione. La sentenza lascerebbe intendere che tali lavori sarebbero a carico dell’assegnatario se deliberati dopo l’assegnazione.
VII La trascrizione e l’opponibilità dell’assegnazione secondo l’art. 337-sexies del codice civile
L’art. 337-sexies del codice civile (come già prima l’art. 155-quater) prevede, a tutela dell’asse¬gnatario e dei terzi, la possibilità della trascrizione sia del “provvedimento di assegnazione” che del “provvedimento di revoca” dell’assegnazione.
Si tratta di una forma di pubblicità che ha natura dichiarativa (sostanzialmente quella ex art. 2644 c.c.) predisposta non per consentire in sé la conoscenza legale dell’atto – come la pubblicità notizia che ha una funzione informativa – ma allo specifico effetto di determinare l’opponibilità dell’atto di acquisto a tutti i terzi titolari di diritti sul bene assegnato acquisiti successivamente alla trascrizione dell’assegnazione. L’art. 337-sexies è da considerare nirma integrativa, quindi, delle disposizioni previste nello stesso codice in materia di trascrizione.
Avendo le disposizioni sulla trascrizione delle domande giudiziali natura tassativa (art. 2652 e 2653) non è ritenuta possibile la trascrizione della domanda di separazione in cui è contenuta la richiesta di assegnazione a cui le norme richiamate non fanno alcun riferimento. La questione è stata più volte portata all’attenzione della Corte costituzionale (atteso che la possibilità di tra¬scrivere la domanda potrebbe costituire una garanzia più ampia) che l’ha però dichiarata sempre inammissibile, una volta per difetto di rilevanza nel giudizio in corso (Corte cost. 27 aprile 2007, n. 142) e un’altra volta per carenza di legittimazione del giudice rimettente, nella specie il tribu¬nale in sede di reclamo avverso il diniego di trascrizione (Corte cost. 11 febbraio 2011, n. 47)
Si dirà tra breve delle interferenze tra il sistema previsto nell’art. 337-sexies (opponibilità ex art. 2643 c.c.) e quello previsto nell’art. 6, comma 6, della legge sul divorzio (opponibilità ex art. 1599 c.c.), disposizione della legge divorzile lasciata inspiegabilmente in vigore dalla stessa normativa di riforma che nel 2013 ha riscritto l’art. 337-sexies.
E’ opportuno evidenziare che l’art. 337-sexies parla per la prima volta di trascrizione, non solo del provvedimento di assegnazione, ma anche del provvedimento di revoca dell’assegnazione, col¬mando un vuoto di tutela a garanzia dei terzi. Inoltre è interessante notare che parlando di “prov¬vedimenti di revoca” la norma lascia intendere che l’assegnazione non cessa automaticamente al verificarsi delle circostanze previste ma necessita sempre di un provvedimento giudiziario che solo può essere oggetto di trascrizione.
L’uniformità di disciplina espressa nell’art. 337-sexies impone, naturalmente, di considerare tra¬scrivibili non solo i provvedimenti adottati nel contenzioso ordinario tradizionale (ordinanza pre¬sidenziale di separazione o di divorzio, ordinanze modificative del giudice istruttore, sentenze) ma anche i decreti emessi in sede camerale (modifica delle condizioni di separazione o divorzio, affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio).
Inoltre il testo dell’art. 337-sexies (“Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono tra¬scrivibili e opponibili ai terzi ai sensi dell’articolo 2643”) mette bene in evidenza – rispetto alla nor¬ma della legge sul divorzio (“L’assegnazione, in quanto trascritta, è opponibile al terzo acquirente ai sensi dell’art. 1599 del codice civile”) – che l’opponibilità non è riferibile solo ai terzi acquirenti del bene ma a tutti i terzi.
Esaminiamo le due diverse situazioni di opponibilità al terzo acquirente e ai terzi in generale.
a) L’opponibilità ai terzi acquirenti
L’originario art. 155 c.c. (nel testo riformato nel 1975) nulla prevedeva in ordine alla possibile trascrizione dell’assegnazione della casa familiare.
La disciplina della trascrivibilità dell’assegnazione fu introdotta in sede divorzile con la riforma del 1987 con la quale si riformulava l’art. 6, comma 6, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 precisandosi che “L’assegnazione in quanto trascritta è opponibile al terzo acquirente ai sensi dell’articolo 1599 codice civile”-
L’opponibilità del provvedimento di assegnazione della casa familiare veniva introdotta in sede di¬vorzile come garanzia rispetto al rischio della vendita a terzi dell’immobile da parte del proprietario ed intendeva contemperare i diritti della proprietà con quelli derivanti dall’assegnazione.
La Corte costituzionale ritenne naturalmente che il meccanismo dell’opponibilità del provvedimen¬to di assegnazione in seguito alla sua trascrizione previsto in sede divorzile andava riferito anche al provvedimento di assegnazione adottato in sede di separazione (Corte cost. 27 luglio 1989, n. 454)
Nel 2002 le Sezioni Unite vennero investite della questione, controversa, relativa ai limiti di opponi¬bilità al terzo acquirente del provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare. La norma di riferimento era l’art. 6, comma 6, della legge sul divorzio (“L’assegnazione, in quanto trascritta, è opponibile al terzo acquirente ai sensi dell’art. 1599 del codice civile”) e le Sezioni Unite sostenne¬ro – in linea con il testo della norma – che “il provvedimento di assegnazione, avendo per definizione data certa, è opponibile, ancorché non trascritto, al terzo acquirente in data successiva per nove anni dalla data dell’assegnazione, ovvero – ma solo ove il titolo sia stato in precedenza trascritto – anche oltre i nove anni” (Cass. civ. Sez. Unite, 26 luglio 2002, n. 11096). Si trattava di una interpre¬tazione in linea con il testo dell’art. 15993 del codice civile che limita l’opponibilità delle locazioni non trascritte ad un novennio dall’inizio della locazione.
Il testo dell’art. 155-quater del codice civile introdotto nel 2006 (che dal 2013 è diventato art. 337-sexies codice civile) ha rimesso, però, in discussione questa conclusione, essendo scomparso il riferimento all’art. 1599 codice civile. L’art. 337-sexies così si esprime: “Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili ai terzi ai sensi dell’articolo 2643”. La scomparsa di ogni riferimento all’articolo 1599 codice civile – ed il riferimento diretto all’art. 2643 sulla trascrizione (ancorché non all’art. 2644 che sarebbe stato più corretto) – comporta che la trascrizione è diventata condizione ineliminabile di opponibilità dell’assegnazione ai terzi, non potendo più essere utilizzata l’interpretazione delle Sezioni Unite del 2002 che si basava sul precedente assetto normativo (art. 6, comma 6, della legge sul divorzio ritenuto applicabile anche alla separazione).
Pertanto il provvedimento di assegnazione della casa familiare in sede di separazione o divorzio, quale che sia il titolo in base al quale la casa familiare è detenuta, è opponibile al terzo acquirente alla condizione che il provvedimento di assegnazione sia trascritto prima della vendita a terzi della casa familiare.
Per questo motivo appare non condivisibile l’interpretazione data da Cass. civ. Sez. I, 11 set¬tembre 2015, n. 17971 secondo cui il provvedimento di assegnazione dell’immobile adibito a casa familiare è opponibile al terzo avente causa dell’ex convivente cui è stata trasferita la pro¬prietà prima dell’ assegnazione stessa, dal momento che la qualità di detentore qualificato in capo al convivente assegnatario è preesistente al trasferimento immobiliare così come la destinazione dell’immobile a casa familiare impressa anche dal proprietario genitore fino al suo allontana¬mento volontario. Nel caso di specie – svoltosi nel vigore del regime giuridico dell’art.155-quater – l’assegnazione non era stata trascritta e comunque l’alienazione dell’immobile era avvenuta prima dell’assegnazione. Per questo motivo i giudici di merito non avevano potuto accogliere le richieste dell’assegnataria. Non appare quindi fondata l’affermazione fatta in questa sentenza dalla Corte di cassazione secondo cui “non rileva, nella specie, l’anteriorità del trasferimento immobiliare rispetto al provvedimento di assegnazione dell’immobile a casa familiare … dal mo¬mento che la qualità di detentore qualificato in capo alla ricorrente è pacificamente preesistente al trasferimento immobiliare così come la indiscussa destinazione dell’immobile a casa familiare impressa anche dal proprietario genitore e convivente con la ricorrente e le minori medesime fino al suo allontanamento volontario…” in quanto potrebbe applicarsi alla detenzione qualificata dell’immobile a qualsiasi titolo finendo per privare di significato tutta la normativa sull’opponibi¬lità condizionata alla trascrizione del provvedimento di assegnazione. Insomma l’interpretazione proposta in questa decisione porta a considerare sempre opponibile non tanto il provvedimento di assegnazione trascritto (come imponeva l’art. 155-quater oggi 337-sexies) quanto la condizione di casa familiare in sé.
b) L’opponibilità agli altri terzi (per esempio al creditore ipotecario)
Mentre l’art. 6, comma 6, della legge sul divorzio espressamente riferisce l’opponibilità dell’asse¬gnazione al terzo acquirente ((“L’assegnazione, in quanto trascritta, è opponibile al terzo acqui¬rente ai sensi dell’art. 1599 del codice civile”) l’art. 155-quater oggi diventato art. 337-sexies si esprime in modo diverso (“Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’articolo 2643”) in cui l’opponibilità è estesa a qualsiasi terzo e non soltanto ai terzi acquirenti del bene successivamente all’assegnazione.
Tra tali terzi, rientra anche il creditore ipotecario che abbia acquistato il suo diritto sull’immobile in base ad un atto iscritto anteriormente alla trascrizione del provvedimento di assegnazione, il
3 Art. 1599 c.c. (trasferimento a titolo particolare della cosa locata)
Il contrato di locazione è opponibile al terzo acquirente se ha data certa anteriore all’alienazione della cosa.
La disposizione del comma precedente non si applica alla locazione di beni mobili non iscritti in pubblici registri, se l’acquirente ne ha conseguito il possesso in buona fede.
Le locazioni di beni immobili non trascritte non sono opponibili al terzo acquirente, se non nei limiti di un noven¬nio dall’inizio della locazione.
L’acquirente è in ogni caso tenuto a rispettare la locazione, se ne ha assunto l’obbligo verso l’alienante.

quale perciò può far vendere coattivamente l’immobile come libero (Cass. civ. Sez. III, 20 aprile 2016, n. 7776).
Si discuteva dell’opposizione proposta da una donna avverso l’espropriazione della casa familiare a lei assegnata in sede di separazione consensuale. La donna sosteneva l’illegittimità della procedura avendo lei regolarmente trascritto il provvedimento di assegnazione. La banca creditrice sosteneva invece che il suo titolo era costituito da due ipoteche iscritte anteriormente al provvedimento di assegnazione. Il Tribunale di Saluzzo accoglieva l’opposizione ritenendo opponibile il provvedi¬mento di assegnazione della casa coniugale trascritto prima della trascrizione del pignoramento, a prescindere dalle iscrizioni ipotecarie anteriori.
Il tribunale aveva fatto proprio quell’orientamento, dottrinale e giurisprudenziale, che dal rinvio all’art. 1599 c.c., contenuto nella L. n. 898 del 1970, art. 6, comma 6, (come sostituito dalla L. 6 marzo 1987, n. 151, art. 11) trae la conclusione che il diritto di abitare assegnato al coniuge convivente con i figli abbia natura di diritto personale di godimento assimilato quoad effectum alla locazione. E poiché l’ipoteca non prevale sulla locazione anche successiva (in quanto emptio non tollit locatum) il tribunale ne traeva l’ulteriore conseguenza che il diritto di abitazione della casa familiare rimane insensibile all’azione esecutiva del creditore ipotecario, dovendo il conflitto risolversi soltanto con riguardo alla data (anteriore o successiva rispetto alla trascrizione dell’as¬segnazione) in cui il creditore ipotecario compie il pignoramento. Quello che conterebbe, cioè, nel conflitto tra l’assegnatario e il creditore sarebbe solo l’anteriorità o meno del pignoramento rispetto all’assegnazione.
La Banca impugnava in Cassazione il provvedimento sostenendo l’inopponibilità al creditore ipote¬cario del provvedimento di assegnazione della casa coniugale trascritto dopo l’iscrizione dell’ipoteca.
La questione posta dal ricorso è, quindi, relativa all’opponibilità dell’assegnazione della casa fa¬miliare trascritta in data anteriore al pignoramento, ma successivamente all’iscrizione ipotecaria presa a favore del creditore procedente.
La Corte accoglieva il ricorso sostenendo che l’art. 155 quater c.c., comma 1, ultimo inciso, di¬spone che il provvedimento di assegnazione della casa familiare nell’interesse dei figli e quello di revoca “sono trascrivibili e opponibili ai terzi ai sensi dell’art. 2643”. La lettera è caratterizzata, non solo dal richiamo dell’art. 2643 c.c. (che ben si sarebbe potuto reputare implicito nel già vigente art. 6 della legge sul divorzio, come esteso anche alle separazioni), ma anche dal fatto che, ai fini dell’opponibilità del provvedimento trascritto, l’art. 155 quater cod. civ. non opera alcuna distinzio¬ne tra i “terzi”, laddove la norma precedente individuava il “terzo acquirente”. Quindi, soltanto l’art. 6 della legge n. 898 del 1970 riguarda testualmente il conflitto con l’avente causa successivo. L’art. 155 quater c.c., rinvia all’art. 2643 cod. civ., e non all’art. 1599 c.c., per le condizioni di opponibi¬lità del provvedimento (trascritto) e riferisce queste ultime non solo all’acquirente dell’immobile, ma ad ogni possibile terzo; categoria, nella quale rientra anche il creditore che ha iscritto la propria ipoteca prima dell’assegnazione.
In sintesi, l’art. 155 quater c.c., va letto nel senso che il provvedimento di assegnazione, “trascri¬vibile” ai sensi dell’art. 2643 c.c., è “opponibile” ai terzi ai sensi dell’art. 2644 c.c.: ne consegue che, anche quando trascritto, la trascrizione non ha effetto “riguardo ai terzi che a qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in base ad un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione degli atti medesimi”. Siffatta inopponibilità sta a significare che il creditore ipotecario può far subastare l’immobile come libero, in quanto, come dedotto col terzo motivo, il diritto del coniuge assegnatario trascritto dopo l’iscrizione dell’ipoteca non può pregiudicare i diritti del tito¬lare della garanzia reale.
Già in precedenza Cass. civ. Sez. III, 19 luglio 2012, n. 12466 aveva affermato che l’assegna¬zione al coniuge affidatario dei figli, in sede di separazione, del godimento dell’immobile di proprie¬tà esclusiva dell’altro non impedisce al creditore di quest’ultimo di pignorarlo e di determinarne la vendita coattiva.
VIII La questione della applicabilità o meno all’assegnazione in sede divorzile dell’art. 6, comma 6, della legge sul divorzio
Si è detto all’inizio che la riforma del 1987 della legge 1° dicembre 1970, n. 898 sul divorzio ave¬va inserito all’art. 6, comma 6 una espressa disposizione in materia di assegnazione della casa familiare (estesa dalla giurisprudenza anche alla separazione) che, dopo l’introduzione nel 2006 e soprattutto nel 2013 della disciplina uniforme di cui all’art. 337-sexies avrebbe dovuto certamen¬te essere abrogata. Sennonché l’art. 6 della legge sul divorzio veniva fatto oggetto di riforma ad opera dell’art. 98 del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 che ne abrogava “i commi 3, 4, 5, 8, 9, 10, 11 e 12” (proprio in ragione della disciplina uniforme di cui all’art. 337-sexies c.c.) lasciando, però, incomprensibilmente in vigore il comma 6 sull’assegnazione della casa familiare il quale continua quindi a prevedere che “L’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza al genitore cui vengono affidati i figli o con il quale i figli convivono oltre la maggiore età. In ogni caso ai fini dell’assegnazione il giudice dovrà valutare le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole. L’assegnazione, in quanto trascritta, è opponibile al terzo acquirente ai sensi dell’art. 1599 del codice civile”.
Si è sopra anticipato che la mancata abrogazione della norma non può che essere il frutto di una cattiva operazione di difetto di coordinamento del legislatore. Se si dovesse, invece ritenere che l’art. 6, comma 6 della legge sul divorzio debba essere considerata una norma pienamente operante ne deriverebbe che per l’assegnazione della casa familiare in ambito divorzile sussisterebbero due norme tra loro contrastanti: l’art. 337-sexies secondo cui la mancata trascrizione determina sempre l’inopponibilità dell’assegnazione e l’art. 6, comma 6, secondo cui in base al richiamo all’art. 1599 c.c. la mancata trascrizione non determina l’inopponibilità in assoluto ma solo quella ultranovennale (in quanto l’art. 1599 c.c. al terzo comma prevede che “le locazioni di beni immobili non trascritte non sono opponibili al terzo acquirente, se non nei limiti di un novennio dall’inizio della locazione”).
E siccome quella del divorzio è norma speciale rispetto alla norma del codice civile ne deriverebbe per il solo divorzio un regime di opponibilità della trascrizione diversificato rispetto a quello unifor¬me di cui all’art. 337-sexies c.c. Conseguenza di cui non è, però, assolutamente percepibile alcuna ragionevole giustificazione.
A dire il vero il problema si sarebbe dovuto porre già dopo il 2006 con l’unificazione delle regole dell’affidamento e dell’assegnazione operata con l’art. 4 della legge 54 del 2006 sull’affidamento condiviso, ma la giurisprudenza non l’ha mai affrontata neanche in base a quella normativa.
Una recente decisione in cui la Cassazione accenna a questa possibile interferenza è Cass. civ. Sez. III, 20 aprile 2016, n. 7776 in cui la questione, però, non viene affrontata nel merito sia perché la Cassazione sostiene che la vicenda era regolata ratione temporis dal previgente art. 155-quater c.c. [che, come detto, tuttavia, avrebbe dovuto far sollevare ugualmente il problema] sia, soprattutto, perché il provvedimento di assegnazione di cui si discuteva era stato regolarmen¬te trascritto (scrive la Corte che, anche volendo entrare nell’argomento, potrebbe avere senso in¬terrogarsi sulla attuale operatività dell’art. 6, comma 6, della legge 898 del 1970, solo nell’ipotesi in cui si debba dirimere una situazione di conflitto nella quale il provvedimento di assegnazione della casa coniugale non sia stato trascritto; ma, come detto, non è questo il caso di specie).
Nessun’altra sentenza dopo la riforma del 2013 ha preso posizione sul punto, mentre altre deci¬sioni che si sono occupate dopo il 2006 dell’opponibilità dell’assegnazione si sono limitate a ripro¬porre pedissequemente la tesi secondo cui “l’assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi instaura un vincolo opponibile anche ai terzi per nove anni, e, in caso di trascrizione, senza limite di tempo”, ma lo hanno fatto in vicende in cui ratione temporis erano applicabili le disposizioni dell’originario art. 155-quater del codice civile (così per esempio Cass. civ. Sez. II, 22 aprile 2016, n. 8202 in una vicenda imperniata sul valore da attribuire in sede di divisione all’assegna¬zione e che su limita a richiamare genericamente una analoga massima di Cass. civ. Sez. II, 15 ottobre 2004, n. 20319).
Richiama ugualmente lo stesso principio Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2015, n. 15367 (centra¬ta sul tema del giudizio promosso da un terzo per l’accertamento dei presupposti per la revoca dell’assegnazione) ma anche in questo caso del tutto genericamente in una vicenda in cui peraltro l’assegnazione era stata regolarmente trascritta.
Di opponibilità limitata al novennio in caso di omessa trascrizione dell’assegnazione si parla, inve¬ce, in una vicenda in cui i giudici avevano applicato ratione temporis l’art. 155-quater (Cass. civ. Sez. VI, 17 marzo 2017, n. 7007) ma la questione delle interferenze tra la norma del codice e l’art. 6, comma 6, della legge sul divorzio (che astrattamente si poneva già nella vigenza dell’art. 155-quater) non è stata minimamente discussa.
La conclusione è che non esiste alcuna pronuncia giurisprudenziale che abbia finora trattato il tema delle interferenze tra l’art. 337-sexies c.c. (disciplina uniforme dell’opponibilità dell’assegnazione solo in caso di trascrizione del relativo provvedimento) e il non abrogato art. 6, comma 6, della legge sul divorzio (opponibilità dell’assegnazione in sede divorzile se trascritta ma anche per nove anni se non trascritta) con la conseguenza che non risulta smentita finora la tesi di un errore di coordinamento da parte del legislatore (che con la riforma sulla filiazione del 2013 ha da un lato dettato l’art. 337-sexies e dall’altro non ha abrogato l’art. 6 comma 6 della legge sul divorzio).
IX La casa familiare in proprietà
a) La casa familiare di proprietà del genitore estromesso
Si tratta della situazione statisticamente più diffusa e, vista dall’angolo visuale del proprietario, an¬che la più penalizzante, considerato che il coniuge o il convivente proprietario perde la disponibilità dell’immobile e deve reperire un’altra sistemazione abitativa.
Proprio a questa situazione ha inteso riferirsi principalmente il legislatore prevedendo, all’interno del primo comma dell’art. 337-sexies che “Dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regola¬zione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà” e – come si vedrà meglio più oltre – che “Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio”.
Eventuali lavori condominiali deliberati dall’assemblea ed eseguiti in data anteriore rispetto al provvedimento di assegnazione sono a carico del proprietario, in quanto precedenti alla costitu¬zione del diritto di abitazione (Cass. civ. Sez. II, 20 aprile 2017, n. 9998 che ha ritenuto che le spese necessarie per la conservazione ed il godimento delle parti comuni costituiscono l’oggetto di un’obbligazione “propter rem”, e che quindi la qualità di debitore dipende dalla titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale sulla cosa nel momento in cui è necessario eseguire le relative opere).
Contro i rischi di un uso strumentale del diritto di proprietà del coniuge o del convivente estro¬messo il legislatore ha previsto l’opponibilità ai terzi dell’assegnazione trascritta (art. 337-sexies, primo comma, ultima parte) di cui tratterà più oltre.
b) La casa familiare di proprietà del genitore assegnatario
Se la casa familiare è di proprietà del coniuge o convivente assegnatario non si pongono problemi particolari. A stretto rigore l’assegnazione della casa familiare al proprietario non sarebbe neces¬saria atteso che sono le regole della proprietà a tutelare l’assegnatario. Tuttavia l’assegnazione consente di considerare “assegnati” anche gli arredi che eventualmente fossero di proprietà del coniuge o del convivente non proprietario e se non altro da questo punto di vista può essere con¬siderata produttiva di effetti.
X La casa familiare in comproprietà e la sua divisione
Quando la casa familiare è in comproprietà tra i due genitori il provvedimento di assegnazio¬ne incide soprattutto sul diritto di chi dei due comproprietari deve lasciare l’immobile. La parte comproprietaria che si deve allontanare dall’abitazione ne subirà un sacrificio che potrà essere compensato, come sopra detto, dal provvedimento con cui l’art. 337-sexies impone di tener conto “nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà”.
Le norme regolatrici della comproprietà sono quelle della comunione (articoli 1100 -1116 c.c.) per cui ciascuna parte potrà disporre del suo diritto (art. 1103 c.c. con la conseguenza, però, dell’op¬ponibilità dell’assegnazione trascritta) ed anche ricorrere all’autorità giudiziaria in caso di difficoltà di amministrazione (secondo quanto prevede l’ultima parte dell’art. 1105 c.c.).
Ciascuna delle parti potrà anche chiedere lo scioglimento della comunione (art. 1111 c.c.) e, quindi, la divisione dell’immobile, fermo quanto previsto nel primo comma dell’art. 1111 secondo cui “l’autorità giudiziaria [competente per la divisione] può stabilire una congrua dilazione, in ogni caso non superiore a cinque anni, se l’immediato scioglimento può pregiudicare gli interessi degli altri (partecipanti)”. La disposizione in questione sembra ragionevolmente applicabile anche alla divisione della casa familiare assegnata, sebbene il meccanismo della trascrizione dell’assegnazio¬ne di per sé potrebbe essere sufficiente ad impedire il rischio del pregiudizio per i figli e per l’as¬segnatario, in quanto l’opponibilità è pacificamente applicabile anche nei confronti dell’eventuale acquirente all’asta dell’immobile.
D’altro lato il comproprietario estromesso dal godimento dell’immobile potrebbe non avere più interesse a rimanere comproprietario di un immobile che non gli apporta alcuna utilità economica immediata e potrebbe trovare conveniente promuovere il giudizio di scioglimento della comunione al fine di raggiungere uno dei tre possibili risultati di tale causa (divisione materiale, acquisto della quota dell’altro comproprietario, vendita all’asta). Se non altro per questa possibile ampia possibi¬lità di esiti e di risultati non sembra proprio applicabile l’art. 1112 c.c. che prevede l’impossibilità di chiedere la divisione “quando si tratti di cose che, se divise cesserebbero di servire all’uso a cui sono destinate”: ammesso, infatti, che questa norma possa applicarsi a questa fattispecie, l’uso della casa familiare può tranquillamente proseguire senza alcun intoppo se le parti dovessero scegliere di trasferire l’una all’altra la propria quota o anche vendere all’asta l’immobile (comunque assistito dalla garanzia, come detto, dell’opponibilità dell’assegnazione anche all’acquirente all’asta).
Esaminiamo i tre possibili esiti del giudizio di divisione.
a) La divisione materiale dell’immobile
La possibile (anche urbanisticamente) e comoda divisibilità dell’immobile (art. 1114 c.c.) è un fatto da considerare del tutto autonomo rispetto alla possibile assegnazione parziale della casa familia¬re. Ne sono diversi anche i giudici competenti.
Si è già detto che ove la divisione materiale dell’immobile venga esclusa nel giudizio di divisione sarà ben difficile che il giudice della separazione o del divorzio (337-bis e seguenti c.c.) possa accogliere una istanza di assegnazione parziale. Ed ugualmente nel caso in cui la divisibilità mate¬riale (in sede di scioglimento della comunione o per accordo tra le parti) sia possibile, questo non comporta la inevitabile assegnazione parziale in quanto ben porrebbe il giudice nondimeno esclu¬derla per i motivi che sono stati sopra in giurisprudenza come ostativi all’assegnazione parziale. La vicinanza tra i due comproprietari potrebbe essere oggettivamente d’ostacolo alla serena vita post-matrimoniale o alla serena gestione dell’affidamento dei figli, sempre che il genitore estro¬messo intenda abitare (e, per esempio, non locare a terzi) l’altra unità immobiliare.
b) L’acquisto della quota dell’altro comproprietario (il problema della determinazione del valore dell’immobile assegnato)
Molto più plausibile è, quindi, la scelta dei comproprietari (stragiudiziale o in seguito alla domanda di divisione) di giungere all’acquisto da parte dell’assegnatario della quota dell’altro comproprietario.
Il problema che si pone in questi casi attiene alla valutazione della quota dell’immobile adibito a casa familiare gravato da provvedimento di assegnazione.
Secondo la giurisprudenza (Cass. civ. Sez. II, 15 ottobre 2004, n. 20319 cui ha aderito Cass. civ. Sez. II, 17 aprile 2009, n. 9310 e Cass. civ. Sez. II, 22 aprile 2016, n. 8202) l’asse¬gnazione della casa familiare ad uno dei coniugi, cui l’immobile non appartenga in via esclusiva, instaura un vincolo che oggettivamente comporta una decurtazione del valore della proprietà, totalitaria o parziaria, di cui è titolare l’altro coniuge, il quale da quel vincolo rimane astretto, come i suoi aventi causa, fino a quando il provvedimento non venga eventualmente modificato. Ne consegue che di tale decurtazione deve tenersi conto indipendentemente dal fatto che il bene venga attribuito in piena proprietà all’uno o all’altro coniuge, ovvero venduto a terzi in caso di sua infrazionabilità in natura.
Limitatamente alle ipotesi in cui il bene viene attribuito al coniuge già titolare del diritto di godimento prevale però, un orientamento oggettivamente più ragionevole (Cass. civ. Sez. I, 17 settembre 2001, n. 11630 in una vicenda in cui il coniuge assegnatario aveva chiesto in sede di divisione di acquistare la quota dell’altro coniuge; cui hanno aderito Cass. civ. Sez. II, 22 ottobre 2014, n. 27128) secondo cui il conguaglio a favore del genitore non affidatario non deve essere decurtato. Si legge nell’ultima sentenza citata che l’assegnazione della casa familiare a uno dei coniugi, disposta in sede di separazione o divorzio, non può essere presa in considerazione all’atto della divisione dell’immobile in comproprietà tra i coniugi, al fine di determinarne il valore di mercato, allorquando il bene venga attribuito al coniuge già titolare del diritto di godimento, atteso che tale diritto è attribuito nell’esclusivo interesse dei figli e non del coniuge affidatario e, diversamente, si realizzerebbe una indebita locupletazione a suo fa¬vore, potendo egli, dopo la divisione, alienare il bene a terzi senza alcun vincolo e per il prezzo integrale.
c) La vendita all’asta
Il terzo possibile esito della causa di divisione dell’immobile è costituito dalla vendita all’asta. In tal caso è evidente che gli stessi comproprietari potrebbero avere interesse, per evitare i ribassi dell’asta, decidere di “deporre le armi” e vendere a mercato libero l’immobile. Sempre che il com¬proprietario assegnatario rinunci, s’intende, all’assegnazione; altrimenti il meccanismo dell’oppo¬nibilità dell’assegnazione – valido naturalmente anche nel caso il cui terzo acquirente sia tale per aver acquistato all’asta – lo garantirebbe comunque dal punto di vista dell’assegnazione, anche se lo penalizzerebbe dal punto di vista del ricavato della vendita.
XI La casa familiare in locazione
L’assegnazione ha trovato regolamentazione in tutte le situazioni che legittimano l’occupazione della casa familiare, a partire dalla locazione.
La disciplina giuridica è contenuta nella legge 27 luglio 1978, n. 392 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani) all’art. 6, secondo e al terzo comma 4, come integrato e interpretato da decisioni della Corte costituzionale. La norma al primo comma, in caso di morte del conduttore, prevede la successione del coniuge, degli eredi e parenti con lui abitualmente conviventi e – in seguito a Corte cost. 7 aprile 1988, n. 404 – anche del convivente more uxorio (oggi comunque garantito dall’art. 44 della legge 20 maggio 2016, n. 76).
Si tratta di ipotesi quindi di successione ex lege (Cass. civ. Sez. III, 30 aprile 2009, n. 10104).
Le situazioni in cui è prevista la successione al conduttore nel contratto di locazione sono le se¬guenti:
a) Successione ex lege a favore del coniuge non conduttore in caso di assegnazione disposta in sede di separazione giudiziale (art. 6, secondo comma) o concordata in sede di separazione con¬sensuale (art. 6, terzo comma).
b) Successione ex lege a favore del coniuge non conduttore in caso assegnazione disposta o con¬cordata in sede divorzile (art. 6, secondo comma).
c) Successione ex lege a favore del coniuge non conduttore in caso di nullità del matrimonio se le parti l’hanno concordata ex art. 126 c.c. (art. 6, terzo comma).
d) Successione ex lege dopo il recesso del convivente more uxorio conduttore dell’immobile ex art. 44 della legge 20 maggio 2016, n. 76 5. La norma parla di recesso del convivente conduttore ma trova evidentemente applicazione anche nei casi in cui alla cessazione della convivenza segue l’assegnazione in sede giudiziale, ancorché non accompagnata da recesso formale da parte del conduttore, restando così superata la distinzione in passato operata tra conviventi con figli comuni (in cui la successione era stata ammessa da Corte cost. 7 aprile 1988, n. 404) e senza figli (in cui la successione era stata finora negata da Corte cost. 11 giugno 2003, n. 204 e da Corte cost. 14 gennaio 2010, n. 7).
XII La casa familiare in comodato
a) L’applicabilità anche al comodato della disciplina prevista in materia di successione nel contratto di locazione e di opponibilità dell’assegnazione
Le disposizioni sull’assegnazione della casa familiare nella separazione e nel divorzio non conten¬gono previsioni dirette a disciplinare tutte le situazioni giuridiche e tutti i titoli di detenzione con i quali il provvedimento di assegnazione può interferire.
In particolare non esistono previsioni normative che disciplinano l’ipotesi in cui la casa familiare è stata concessa in comodato 6. Si tratta di una lacuna che ha creato sempre molti problemi, dal momento che il comodato, in genere senza determinazione di durata, costituisce uno strumento frequentemente adottato da genitori o dai parenti quale soluzione del problema abitativo in favore delle giovani coppie che contraggono matrimonio.
Se sul comodato (in particolare sul diritto del comodatario di rientrare in possesso dell’immobile concesso in comodato) in passato non era stato detto quasi nulla, viceversa erano stati affrontati sia il problema della successione nel contratto di locazione della casa familiare sia quello dell’op¬ponibilità ai terzi acquirenti dell’assegnazione della casa familiare.
La disciplina della successione nel contratto di locazione è stata sempre ritenuta pacificamente ap¬plicabile anche al comodato “ricorrendo la medesima ratio dell’interesse della prole a non abban¬donare la casa familiare” (Cass. civ. Sez. III, 4 marzo 1998, n. 2407; Cass. civ. Sez. III, 17 luglio 1996, n. 6458) e giustificandosi l’estensione della norma sulla locazione ad ogni ipotesi in cui i coniugi si siano procurati l’uso dell’abitazione familiare sulla base di un contratto di godimento (Cass. civ. Sez. Unite, 21 luglio 2004, n. 13603).
L’altro problema, quello dell’opponibilità al terzo acquirente della vendita della casa familiare con¬cessa in comodato, è stato affrontato applicandosi alla casa familiare un’unica disciplina – quella della trascrivibilità e della conseguente opponibilità dell’assegnazione (già art. 155-quater, ora 337-sexies codice civile) – prescindendo dal titolo specifico di godimento. In proposito è stato espressamente ribadito con una sentenza del 1997 (Cass. civ. Sez. III, 20 ottobre 1997, n. 10258) e con la citata pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione del 2004 (Cass. civ. Sez. Unite, 21 luglio 2004, n. 13603) che costituisce situazione da considerare del tutto ragionevole quella dell’opponibilità dell’assegnazione nei confronti del terzo acquirente, con i limiti posti dal codice civile, anche nell’ipotesi in cui la casa familiare sia stata concessa in comodato.
Situazione questa confermata anche più recentemente da Cass. Sez. I, 22 luglio 2015, n. 15367 che affronta anche il tema – che sarà più oltre affrontato – dei mezzi a disposizione del terzo acquirente per sopperire alla inerzia della parte che sarebbe interessata a far valere il venir meno dei presupposti dell’assegnazione.
Non vi sono, perciò, differenze di disciplina relativamente al tema dell’opponibilità dell’assegnazio¬ne al terzo acquirente determinate dal diverso titolo di godimento della casa familiare.
b) I limiti – secondo la sentenza delle Sezioni Unite 13603/2004 – che incontra il pro¬prietario comodante nel chiedere la restituzione della casa familiare dopo l’assegnazio¬ne. La soluzione del termine implicito e dell’applicabilità dell’art. 1809 c.c.
In tutte le vicende giudiziarie più significative nelle quali questo problema è stato affrontato, si è trattato di genitori che, dopo aver concesso in comodato un immobile di loro proprietà al figlio, per destinarlo ad abitazione familiare, hanno dovuto poi fare i conti con la separazione del figlio e con l’assegnazione alla nuora della casa familiare.
Si tratta qui di verificare non l’opponibilità dell’assegnazione al successivo terzo acquirente, ma l’opponibilità dell’assegnazione all’originario proprietario che ha concesso in comodato l’immobile. Cioè se, e in che termini, il proprietario che concede il bene immobile in comodato sia o meno vincolato all’assegnazione dell’immobile effettuata dal giudice in sede di separazione.
Ebbene rispetto a questo problema le decisioni della Cassazione avevano dato, negli anni ’90, al problema soluzioni differenziate.
Da un lato si disse che essendo “il diritto che deriva dall’assegnazione un atipico diritto personale di godimento e non un diritto reale di abitazione, esso non è opponibile ai terzi e che pertanto il coniuge assegnatario è tenuto a subire, ai sensi dell’art. 1810 codice civile gli effetti del recesso del comodante” (Cass. civ. Sez. III, 26 gennaio 1995, n. 929) con la conseguenza che l’asse¬gnazione della casa familiare concessa in comodato non avrebbe potuto impedire al comodante di recedere ad nutum dal contratto.
Dall’altro lato si precisò che “quando l’immobile costituente la casa coniugale è utilizzato dai coniugi in virtù di un comodato senza predeterminazione di un termine finale, la durata dell’uti¬lizzazione dell’immobile è governata dalla disciplina fissata nel provvedimento giurisdizionale di assegnazione e non da quella propria del rapporto originario di comodato” (Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 1996, n. 10977) con la conseguenza opposta che le pretese restitutorie del proprie¬tario comodante avrebbero potuto sempre essere paralizzate dall’assegnazione perché “è nella disciplina di questo tipo di provvedimento che deve collocarsi ogni problema di determinazione del termine finale e non invece nell’originario provvedimento di comodato”. In quest’ultima decisione si era fatto riferimento anche alla citata sentenza della Corte costituzionale n. 454/89 che aveva affermato che il provvedimento di assegnazione non aveva la funzione di creare un titolo di legit¬timazione nuovo, ma di conservare la destinazione che la casa familiare aveva avuto a tutela degli interessi dei figli minori.
Quindi, secondo un primo orientamento, il proprietario potrebbe rientrare facilmente in possesso dell’immobile assegnato in sede di separazione, non essendogli opponibile l’assegnazione stessa; mentre, secondo un altro orientamento, l’assegnazione dovrebbe prevalere sul precedente prov¬vedimento di comodato paralizzando le pretese del proprietario comodante.
A risolvere questo contrasto di orientamenti sono intervenute le Sezioni Unite dapprima nel 2004 (Cass. civ. Sez. Unite, 21 luglio 2004, n. 13603) imprimendo alla soluzione del problema una direzione che è stata poi pienamente recepita dalla prima sezione della Cassazione ma contrastata dalla terza Sezione la quale ha provocato un secondo intervento delle Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. Unite, 29 settembre 2014, n. 20448).
Il punto di partenza della linea interpretativa delle Sezioni Unite del 2004 stava nella considera¬zione che il diritto del coniuge assegnatario – che pure trova nuovo ed autonomo titolo nel prov¬vedimento giudiziale che non attribuisce un diritto reale di abitazione, ma un diritto personale di godimento atipico – resta modellato nel suo contenuto dalla disciplina del titolo negoziale preesi¬stente, con la conseguenza che al fine di delineare il complesso dei diritti e dei doveri del coniuge in questione nei confronti del proprietario contraente occorre fare riferimento alla normativa rego¬latrice dell’originaria convenzione.
La soluzione quindi va cercata nelle norme sul contratto di comodato che, sul problema della sua stabilità, incontra due norme del codice civile: l’articolo 1809 rubricato “restituzione” (“Il comoda¬tario è tenuto a restituire la cosa alla scadenza del termine convenuto o, in mancanza di termine, quando se ne è servito in conformità del contratto. Se però, durante il termine convenuto o prima che il comodatario abbia cessato di servirsi della cosa, sopravviene un urgente e imprevisto biso¬gno al comodante, questi può esigerne la restituzione immediata” e l’articolo 1810 rubricato “co¬modato senza determinazione di durata” (“Se non è stato convenuto un termine né questo risulta dall’uso a cui la cosa doveva essere destinata, il comodatario è tenuto a restituirla non appena il comodante la richiede”).
Come emerge da queste disposizioni le forme del comodato possono prevedere che il contratto abbia un termine (articolo 1809 c.c.) o sia senza determinazione di durata (cosiddetto precario) (articolo 1810 c.c.).
Nel primo caso (art. 1809 c.c.) l’obbligo di restituzione sorge soltanto alla scadenza del termine salva la facoltà attribuita al comodante dall’art. 1809, comma 2, codice civile – ispirato ad un prin¬cipio di favore per il comodante, in ragione della essenziale gratuità del contratto – di richiedere la restituzione immediata nel caso in cui sopravvenga un suo urgente ed imprevisto bisogno.
Nel secondo caso (art. 1810 c.c.) – allorché la durata del contratto non è stata convenzionalmente stabilita e non possa determinarsi sulla base dell’uso previsto – la disposizione di cui all’articolo 1810 codice civile fa dipendere la cessazione del vincolo esclusivamente dalla volontà del como¬dante, che può essere manifestata ad nutum; con la conseguenza che, una volto sciolto il contrat¬to per iniziativa di quest’ ultimo, il comodatario è tenuto alla restituzione immediata della cosa (sui criteri di individuazione del contratto di comodato a tempo indeterminato Cass. civ. Sez. VI, 11 marzo 2011, n. 5907 e Cass. civ. Sez. Unite, 9 febbraio 2011, n. 3168).
La verifica sulla durata del contratto è quindi fondamentale per risolvere il problema, dal momento che dalla collocazione del tipo di contratto nell’ambito dell’una (comodato a termine) o dell’altra categoria (comodato senza termine) dipende la sorte del contratto nel caso in cui l’immobile venga assegnato in sede di separazione e il proprietario comodante intenda riaverne indietro la disponibilità.
Per approfondire quale sia la durata del contratto in caso di comodato concesso al fine di adibire l’immobile a casa familiare la citata decisione delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. civ. Sez. Unite, 21 luglio 2004, n. 13603) si sofferma proprio sul senso della destinazione dell’immobile a casa familiare come diretta ad assicurare al nucleo familiare già formato o in via di formazione un proprio habitat, uno stabile punto di riferimento, il centro di comuni interessi materiali e spiri¬tuali dei suoi componenti. “Per effetto della concorde volontà delle parti – si afferma nella sentenza – viene così a configurarsi un vincolo di destinazione dell’immobile alle esigenze abitative familiari idoneo a conferire all’uso cui la cosa doveva essere destinata il carattere di “termine implicito” della durata del rapporto, la cui scadenza non è determinata, ma è strettamente correlata alla destinazione impressa ed alle finalità cui essa tende”.
Non si tratta quindi, secondo le Sezioni Unite, di un termine indeterminato di durata – che rende¬rebbe applicabile l’articolo 1810 del codice civile, con la conseguenza che il comodatario dovrebbe restituire l’immobile “appena il comodante lo richiede” – bensì di un termine implicito che rende applicabile l’articolo 1809 con l’obbligo di restituzione alla scadenza del termine, che per l’ipotesi di assegnazione della casa familiare coincide con il venir meno delle esigenze connesse all’as¬segnazione stessa (e quindi al momento dell’autosufficienza dei figli), salvo sempre il diritto del comodante di pretendere la restituzione ove “sopravviene un urgente e impreveduto bisogno” del comodante stesso. Ipotesi ben difficile a realizzarsi e coincidente in genere con una situazione di stato di necessità.
Naturalmente, ove al comodato si accompagni la previsione di un termine espresso, il proprietario comodante potrà azionare il suo diritto alla scadenza del termine, sempre ex articolo 1809 codice civile, anche se nel frattempo l’immobile è stato oggetto di assegnazione in sede di separazione.
L’effettività della destinazione a casa familiare da parte del comodante – hanno anche ricordato le Sezioni Unite (sulla necessità di una verifica attenta circa la effettività della destinazione a casa familiare cfr anche Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2010, n. 18619) – non può essere desunta dalla mera natura immobiliare del bene concesso, ma implica un accertamento in fatto, che postula una specifica verifica della comune intenzione delle parti attraverso una valutazione globale dell’intero contesto nel quale il contratto si è perfezionato, della natura dei rapporti tra le medesime, degli interessi perseguiti e di ogni altro elemento che possa far luce sulla effettiva intenzione di dare e ricevere il bene allo specifico fine della sua destinazione a casa familiare. Cass. civ. Sez. VI, 3 settembre 2013, n. 20183 ha messo l’accento sul rigore con cui deve essere interpretata la nozione di “urgente e impreveduto bisogno”, di cui al secondo comma dell’art. 1809 cod. civ., che fa riferimento alla necessità del comodante – su cui gravano i relativi oneri probatori – di appagare impellenti esigenze personali, e non a quella di procurarsi un utile, tramite una diversa opportunità di impiego del bene. Tale valutazione va condotta con rigore, quando il comodatario di un bene immobile abbia assunto a suo carico considerevoli oneri, per spese di manutenzione ordinaria e straordinaria, in vista della lunga durata del godimento concessogli. Dal canto suo Cass. civ. Sez. III, 25 giugno 2013, n. 1587 ha chiarito che nel contratto di comodato il termine finale può, a norma dell’art. 1810 cod. civ., risultare dall’uso cui la cosa deve essere destinata, se tale uso abbia in sé connaturata una durata predeterminata nel tempo, mentre in mancanza di particolari prescrizioni di durata, ovvero di elementi certi ed oggettivi che consentano “ab origine” di pre¬stabilirla, l’uso corrispondente alla generica destinazione dell’immobile configura un comodato a tempo indeterminato e, perciò, a titolo precario, e, dunque, revocabile “ad nutum” da parte del comodante, a norma del medesimo art. 1810.
c) La giurisprudenza successiva alle Sezioni Unite del 2004
All’impostazione delle Sezioni Unite del 2004 si è uniformata la giurisprudenza successiva nel suo complesso (Cass. civ. Sez. VI, 3 settembre 2013, n. 20183; Cass. civ. Sez. III, 25 giugno 2013, n. 1587; Cass. civ. Sez. II, 18 dicembre 2012, n. 23361; Cass. civ. Sez. I, 2 otto¬bre 2012, n. 16769; Cass. civ. Sez. III, 14 febbraio 2012, n. 2103; Cass. civ. Sez. III, 21 giugno 2011, n. 13592; Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2010, n. 18619; Cass. civ. Sez. III, 28 febbraio 2011, n. 4917; Cass. civ. Sez. III, 6 giugno 2006, n. 13260; Cass. civ. Sez. II, 13 febbraio 2006, n. 3072; Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 2005, n. 6278) Gli stessi principi sono stati applicati anche alla famiglia di fatto (Cass. civ. Sez. III, 21 giugno 2011, n. 13592).
d) In quali casi al proprietario comodante non è opponibile l’assegnazione dell’immobile concesso in comodato?
L’opponibilità del provvedimento di assegnazione della casa familiare all’originario proprietario comodante fino al venir meno delle esigenze connesse all’assegnazione stessa (e quindi al mo¬mento dell’autosufficienza dei figli) e fatto salvo il diritto di restituzione immediata in caso in cui sopravvenga un suo urgente ed imprevisto bisogno (art. 1809, secondo comma, c.c.), non è stata però sempre la soluzione adottata dai giudici.
Per esempio Cass. civ. Sez. III, 14 febbraio 2012, n. 2103, pur condividendo i principi generali fatti propri dalla giurisprudenza, ha negato tutela al coniuge separato rimasto nella casa coniugale in difetto di provvedimento di assegnazione. In alcune sentenze – coerentemente con le finalità della tutela – è stata esclusa l’opponibilità al comodante dell’assegnazione della casa familiare in assenza di figli o comunque di un provvedimento di affidamento della prole (Cass. civ. Sez. I, 4 maggio 2005, n. 9253; Trib. Padova Sez. I, 1 settembre 2011; Tribunale Monza, 22 marzo 2007).
In una vicenda in cui il padre aveva concesso l’immobile in comodato al figlio prima delle nozze, affinché vi svolgesse la sua attività professionale, e in cui quindi è stata esclusa la comune inten¬zione del comodante e del comodatario di adibire l’immobile oggetto di comodato ad abitazione familiare Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2010, n. 18619, ha precisato che l’assegnazione dell’im¬mobile al coniuge nel giudizio di separazione non è opponibile al comodante.
Quello del comodato concesso da un ente – o comunque da un soggetto non legato da rapporti di parentela con i comodatari – è proprio uno dei casi in cui viene negata l’opponibilità dell’assegna¬zione al proprietario comodante: essendo ragionevolmente estranea o indifferente alle intenzioni dell’ente, o del soggetto estraneo alla famiglia, l’evenienza che l’immobile venga destinato a casa familiare. A questo caso fanno riferimento Cass. civ. Sez. III, 20 ottobre 1997, n. 10258, so¬pra richiamata, Cass. civ. Sez. I, 13 febbraio 2007, n. 3179 in cui il soggetto comodante era, come detto, una società di capitali e Cass. civ. Sez. III, 20 ottobre 1997, n. 10258 in cui il comodante era una società che aveva instaurato con i convenuti un rapporto di comodato.
In conclusione alcune decisioni hanno ammesso, in condivisione con i principi generali, che l’oppo¬nibilità dell’assegnazione al comodante originario può essere esclusa a) allorché non vi sono figli (nei casi cioè in cui dovrebbe anche essere esclusa la stessa assegnazione della casa familiare), b) nei casi in cui la destinazione dell’immobile concerneva una destinazione diversa dall’uso come casa familiare; c) nei casi in cui il comodante è un ente o una persona non parente dei comodatari allorché la destinazione dell’immobile a casa familiare non può ragionevolmente farsi risalire alle intenzioni del comodante.
e) L’intervento confermativo delle Sezioni Unite nel 2014
La terza sezione della Corte di cassazione (Cass. civ. Sez. III, 17 giugno 2013, n. 15113) nel giugno del 2013 rimetteva in discussione l’orientamento delle Sezioni Unite del 2004.
Il tribunale e la Corte d’appello di Lecce – facendo applicazione dell’orientamento prevalente – avevano rigettato la domanda di rilascio della casa familiare concessa dal suocero in comodato e assegnata in sede di separazione alla nuora affidataria del figlio. Il suocero ricorreva per cassa¬zione invocando l’applicazione dell’art. 1810 del codice civile a mente del quale il comodante può chiedere il rilascio ad nutum di un bene concesso in comodato senza termine.
La terza sezione della Corte di cassazione – alla quale sono assegnate le cause in materia di con¬tratti e obbligazioni e a cui il ricorso veniva assegnato – ripercorreva nella lunga motivazione le argomentazioni delle Sezioni Unite del 2004 alle quali la Corte d’appello di Lecce si era conformata e passava in rassegna le decisioni che si sono discostate da tale orientamento condividendo le perplessità suscitate dall’orientamento “familiarista” delle Sezioni unite del 2004 soprattutto sotto due profili.
Soprattutto non condivideva l’affermazione delle Sezioni Unite secondo cui l’assegnazione in sede di separazione non modifica né la natura né il contenuto del titolo del precedente godimento (nella spe¬cie il comodato) alla cui disciplina occorrerebbe quindi riferirsi. Infatti, secondo i giudici della terza sezione, il provvedimento di assegnazione non si atteggia allo stesso modo sempre ma si diversifica a seconda del momento in cui il contratto è stato stipulato. Potrebbe avvenire per esempio che il genitore conceda in comodato al figlio l’immobile al momento delle nozze ma al solo fine di goderne per il tempo necessario all’acquisto di altro immobile (magari in attesa di ultimazione di lavori) o che la concessione in comodato avvenga prima delle nozze del figlio o dell’inizio di una sua convivenza more uxorio nell’immobile. Insomma il momento di perfezionamento del contratto ha una rilevanza che non può essere ignorata omologando tutte le ipotesi di comodato. E ancora è necessario diffe¬renziare a seconda che il comodante sia un genitore o un estraneo alla famiglia giacché in quest’ulti¬ma ipotesi non è certo invocabile il principio di funzionalizzazione della proprietà a salvaguardia della solidarietà familiare. “Deve allora porsi la questione – sostenevano i giudici della terza Sezione – se il contemperamento tra le contrapposte esigenze del comodatario o dell’assegnatario da un canto, e del concedente da altro canto, possa essere altrimenti e diversamente realizzato”. La risposta a questa domanda è nel senso di interpretare la concessione in comodato dell’immobile senza termine sempre come comodato precario ex art. 1810 c.c. (e non con “termine implicito” ex art. 1809 c.c. consistente nella cessazione delle esigenze cui la assegnazione è preordinata) affidando la tutela delle esigenze dell’assegnatario ai principi generali in materia di anteriorità della trascrizione o ad altri già elaborati dalla giurisprudenza sul comodato,“ ad esempio mediante la concessione al preca¬rista o all’assegnatario della possibilità di rilasciare l’immobile, all’esito della domanda di restituzio¬ne, entro un termine congruo, giudizialmente determinato in assenza di accordo tra le parti, idoneo a consentirgli di trovare altro alloggio, valutate le circostanze concrete del caso.
Tanto premesso la terza sezione rimetteva alle Sezioni Unite nuovamente la questione interpre¬tativa dei limiti di opponibilità al proprietario comodante dell’assegnazione della casa familiare in sede di separazione.
Nella tempestiva risposta delle Sezioni Unite (Cass. civ. Sez. Unite, 29 settembre 2014, n. 20448) si osserva come il punto di vista della terza sezione – secondo cui in caso di comodato di abitazione destinata a casa familiare senza predeterminazione del termine, si sarebbe in pre¬senza di un comodato cosiddetto precario (art. 1810 c.c.) in cui il comodatario sarebbe tenuto al rilascio a semplice richiesta del comodante – non possa essere condiviso. Nella sentenza ven¬gono affrontati tutti i problemi che la questione presenta. In particolare quando e come insorge il vincolo di destinazione a casa familiare; quale sia il momento di cessazione di esso; quale sia il regime di opponibilità e come è connotata la posizione giuridica del coniuge e dei figli del co¬modatario iniziale.
La Corte osserva che ai principi enunciati da Cass. civ., Sez. Unite, 21 luglio 2004, n. 13603 si è attenuta successivamente la giurisprudenza della Corte Suprema, la quale, muovendo dalle premesse fissate dalle Sezioni Unite, ha ribadito che la specificità della destinazione, impressa per effetto della concorde volontà delle parti, è incompatibile con un godimento contrassegnato dalla provvisorietà e dall’incertezza, che caratterizzano il comodato cosiddetto precario, e che le¬gittimano la cessazione “ad nutum” del rapporto su iniziativa del comodante, con la conseguenza che questi, in caso di godimento concesso a tempo indeterminato, è tenuto a consentirne la con¬tinuazione anche oltre l’eventuale crisi coniugale, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed imprevisto bisogno. È stato altresì riaffermato che il vincolo di destinazione appare idoneo a conferire all’uso, cui la cosa deve essere destinata, il carattere di elemento idoneo ad individuare il termine implicito della durata del rapporto, rientrando tale ipotesi nella previsione dell’art. 1809 comma 1, codice civile. Se ne è tratta la conseguenza che, una volta cessata la convivenza ed in mancanza di un provvedimento giudiziale di assegnazione del bene, questo deve essere restituito al comodante, essendo venuto meno lo scopo cui il contratto era finalizzato.
Mettono in evidenza le Sezioni Unite che, perché l’assegnatario possa opporre al comodante, che chieda il rilascio dell’immobile, l’esistenza di un provvedimento di assegnazione della casa familiare, è necessario che tra le parti (cioè almeno con uno dei coniugi, salva la concentrazione del rapporto in capo all’assegnatario, ancorché diverso) sia stato in precedenza costituito un contratto di comodato che abbia contemplato la destinazione del bene quale casa familiare senza altri limiti o pattuizioni.
In relazione a questa destinazione, se non sia stata fissata espressamente una data di scadenza, il termine è desumibile dall’uso per il quale la cosa è stata consegnata e quindi dalla destinazione a casa familiare, applicandosi in questo caso le regole che disciplinano questo istituto. E’ per questo motivo che trova applicazione l’art. 1809 del codice civile nel quale il termine è implicito essendo desumibile dall’uso cui la casa è destinata.
f) I tre criteri per l’applicazione plausibile dell’art. 1809 c.c. (l’indagine corretta del regime contrattuale adottato dalle parti, la valutazione di eventuali pattuizioni sul ter¬mine, la durata del comodato non oltre ragionevoli limiti di tempo)
Nel ribadire l’orientamento del 2004 le Sezioni Unite del 2014 fanno due precisazioni specifiche ai fini dell’applicabilità dell’art. 1809 c.c.
La prima puntualizzazione attiene alla individuazione del regime contrattuale. A questo proposito – affermano nel 2014 le Sezioni Unite – si impone un primo chiarimento. S può dire che il codice civile disciplina due “forme” del comodato, quello propriamente detto, regolato dagli artt. 1803 e 1809 e il c.d. precario, al quale si riferisce l’art. 1810 c.c., sotto la rubrica “comodato senza deter¬minazione di durata”. E’ solo nel caso di cui all’art. 1810 c.c., connotato dalla mancata pattuizione di un termine e dalla impossibilità di desumerlo dall’uso cui doveva essere destinata la cosa, che è consentito di richiedere ad nutum il rilascio al comodatario. L’art. 1809 c.c., concerne invece il comodato sorto con la consegna della cosa per un tempo determinato o per un uso che consente di stabilire la scadenza contrattuale. Esso è caratterizzato dalla facoltà del comodante di esigere la restituzione immediata solo in caso di sopravvenienza di un urgente e imprevisto bisogno (art. 1809 c.c., comma 2). È a questo tipo contrattuale che va ricondotto il comodato di immobile che sia stato pattuito per la destinazione di esso a soddisfare le esigenze abitative della famiglia del comodatario, da intendersi in tal caso “anche nelle sue potenzialità di espansione”. Trattasi infatti di contratto sorto per un uso determinato e dunque, come è stato osservato, per un tempo de¬terminabile per relationem, che può essere cioè individuato in considerazione della destinazione a casa familiare contrattualmente prevista, indipendentemente dall’insorgere di una crisi coniugale.
In questa prospettiva Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2017, n. 2771 ha affermato che il coniuge assegnatario della casa familiare, può opporre al comodante l’esistenza di un provvedimento di assegnazione, pronunciato in un giudizio di separazione o divorzio, solo se tra il comodante e almeno uno dei coniugi il contratto in precedenza insorto abbia contemplato la destinazione del bene a casa familiare, in sede di valutazione della domanda di rilascio dell’immobile proposta dal comodante, e che il giudice è tenuto ad accertare se l’uso cui il bene attribuito incomodato è stato adibito a casa familiare e se perdurino le esigenze legate all’assegnazione. Nella medesima linea si pone Cass. civ. Sez. III, 31 maggio 2017, n. 13716 secondo cui il comodato di un bene immobile, stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare, ha un carattere vincolato alle esigenze abitative familiari, sicché il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento, anche oltre l’eventuale crisi coniugale, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed imprevisto bisogno ai sensi dell’art. 1809 c.c., comma 2, ferma, in tal caso, la necessità che il giudice eserciti con massima attenzione il controllo di proporzionalità e adeguatezza nel comparare le particolari esigenze di tutela della prole e il contrapposto bisogno del comodante.
Proprio la stessa puntualizzazione è stata anche al centro della decisione di Cass. civ. Sez. III, 9 febbraio 2016, n. 2506 secondo cui il coniuge affidatario della prole minorenne, o maggiorenne non autosufficiente, assegnatario della casa familiare , può opporre al comodante, che chieda il rilascio dell’immobile, l’esistenza di un provvedimento di assegnazione , pronunciato in un giudizio di separazione o divorzio, solo se tra il comodante ed almeno uno dei coniugi il contratto in prece¬denza insorto abbia contemplato la destinazione del bene a casa familiare.
Già in passato Cass. civ. Sez. III, 7 agosto 2012, n. 14177 aveva affermato, comunque, che il giudice della separazione, ai fini dell’assegnazione della casa coniugale, è tenuto a verificare che la concessione in comodato del bene sia stata effettuata nella prospettiva della sua utilizzazione quale casa familiare e Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2010, n. 18619 aveva ribadito che l’effet¬tività della destinazione a casa familiare da parte del comodante non può essere desunta dalla mera natura immobiliare del bene concesso, ma implica un accertamento in fatto, che postula una specifica verifica della comune intenzione delle parti attraverso una valutazione globale del conte¬sto nel quale il contratto si è perfezionato, della natura dei rapporti tra le medesime, degli interessi perseguiti e di ogni altro elemento che possa fare luce sulla effettiva intenzione di dare e ricevere il bene allo specifico fine della sua destinazione a casa familiare.
La seconda importante puntualizzazione fatta dalle Sezioni Unite del 2014 concerne l’interpretazio¬ne corretta della sentenza del 2004. Quest’ultima – ricordano i giudici – non intendeva affermare che, ogniqualvolta un immobile venga concesso in comodato con destinazione abitativa, si debba immancabilmente riconoscergli durata pari alle esigenze della famiglia del comodatario, ancorché disgregata. La sentenza del 2004 aveva infatti in primo luogo invitato i giudici di merito a valutare la sussistenza della pattuizione di un termine finale di godimento del bene, che potrebbe emer¬gere dalle motivazioni espresse nel momento in cui è stato concesso il bene e che impedirebbe di protrarre oltre l’occupazione. In secondo luogo ha precisato che la concessione per destinazione a casa familiare implica una scrupolosa verifica della intenzione delle parti, che tenga conto delle loro condizioni personali e sociali, della natura dei loro rapporti, degli interessi perseguiti. Ciò si¬gnifica che il comodatario, o il coniuge separato con cui sia convivente la prole minorenne o non autosufficiente, che opponga alla richiesta di rilascio la esistenza di un comodato di casa familiare con scadenza non prefissata, ha l’onere di provare, anche mediante le inferenze probatorie desu¬mibili da ogni utile fatto secondario allegato e dimostrato, che tale era la pattuizione attributiva del diritto personale di godimento. La prova potrebbe risultare più difficile qualora la concessione sia avvenuta in favore di comodatario non coniugato né prossimo alle nozze, dovendosi in tal caso dimostrare che dopo l’insorgere della nuova situazione familiare il comodato sia stato confermato e mantenuto per soddisfare gli accresciuti bisogni connessi all’uso familiare e non solo personale. Trattasi sempre di un mero problema di prova, risolvibile grazie al prudente apprezzamento del giudice di merito in relazione agli elementi (epoca dell’insorgenza della nuova situazione, compor¬tamenti e dichiarazioni delle parti, rapporti intrattenuti, tempo trascorso etc.) che sono sottoponili al suo giudizio.
Spetta invece a chi invoca la cessazione del comodato per il raggiungimento del termine prefissato, dimostrare il relativo presupposto.
Nella terza puntualizzazione si richiama la giurisprudenza che conduce ad escludere che trovino immeritata tutela i comportamenti ostruzionistici dei beneficiari dell’alloggio, finalizzati a protrar¬re indebitamente il godimento della casa familiare. Viene richiamata per esempio la posizione espressa dalla prima sezione della Corte che ha avuto modo di riepilogare efficacemente (Cass. 18076/14) i principi che si sono andati affermando circa i limiti dell’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne. Questi, è stato osservato, in forza dei doveri di autoresponsabilità che su di lui incombono, non può pretendere la protrazione dell’obbligo oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, perché “l’obbligo dei genitori si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione”.
g) Lo stato di bisogno del comodante che legittima la richiesta di rilascio
Su altro versante – osservano sempre i giudici delle Sezioni Unite del 2014 – la soluzione prescelta dalla Sezioni Unite nel 2004 è da confermare, richiamando all’attenzione la portata della facoltà di recedere ex art. 1809 cpv. c.c. Questa disposizione rivela che il comodato a tempo determinato, soprattutto se con le connotazioni della lunga durata di cui ci si è detto, nasce nella convinzione della piena stabilità del rapporto, anche tenendo conto della possibilità di risolverlo motivatamente in caso di bisogno. Questa eventualità è una componente intrinseca del tipo contrattuale e co¬stituisce insieme espressione di un potere e di un limite del comodante, da questi accettato nel momento in cui concede il bene per un uso potenzialmente di lunghissima durata e di fondamen¬tale importanza per il beneficiario. Con l’implicazione che il comodante, contrariamente a quanto ipotizzato da una risalente dottrina, ritiene di poter rispettare il contratto per tutto il tempo di durata prevedibile. A fronte di questa scelta, che fa ritenere che il comodante non prevedesse di volere o dovere alienare il bene, non può trovare tutela la sua intenzione, verosimilmente ritorsiva, di rimuovere l’occupante rimastone beneficiario.
Trova invece tutela il sopravvenire di un urgente bisogno, sopravvenuto rispetto al momento della stipula. L’urgenza è qui da intendersi come imminenza, restando quindi esclusa la rilevanza di un bisogno non attuale, non concreto, ma soltanto astrattamente ipotizzabile. Ovviamente il bisogno deve essere serio, non voluttuario, né capriccioso o artificiosamente indotto. Pertanto non solo la necessità di uso diretto, ma anche il sopravvenire imprevisto del deterioramento della condizione economica, che obbiettivamente giustifichi la restituzione del bene anche ai fini della vendita o di una redditizia locazione del bene immobile, consente di porre fine al comodato anche se la desti¬nazione sia quella di casa familiare.
È da notare soltanto che, essendo in gioco valori della persona, ed in particolare le esigenze di tutela della prole, questa destinazione, con più intensità di ogni altra, giustifica massima attenzione in quel controllo di proporzionalità e adeguatezza, sempre dovuto in materia contrattuale, che il giudice deve compiere quando valuta il bisogno fatto valere con la domanda di restituzione e lo compara al contrapposto interesse del comodatario.
h) L’onere della prova
Secondo la decisione delle Sezioni Unite del 2014 il coniuge separato, convivente con la prole minorenne o maggiorenne non autosufficiente ed assegnatario dell’abitazione già attribuita in comodato, che opponga alla richiesta di rilascio del comodante l’esistenza di una destinazione dell’immobile a casa familiare , ha l’onere di provare che tale era la pattuizione attributiva del diritto personale di godimento, mentre spetta a chi invoca la cessazione del comodato dimostrare il sopraggiungere del termine fissato “per relationem” e, dunque, l’avvenuto dissolversi delle esi¬genze connesse all’uso familiare.
i) La tutela del terzo acquirente nel caso in cui gli interessati non si adoperino per far valere il venir meno dei presupposti dell’assegnazione
Come si è visto il provvedimento di cessazione o di revoca dell’assegnazione può essere richiesto dal genitore, estromesso dal godimento della casa familiare, che sia proprietario esclusivo dell’im¬mobile o comproprietario con l’assegnatario e che abbia interesse a far cessare il vincolo.
Tuttavia può avvenire che il coniuge o convivente proprietario della casa familiare abbia venduto a terzi l’immobile assegnato o abbia ceduto a terzi la quota di comproprietà e che pertanto non abbia alcun interesse attuale a promuovere il giudizio per ottenere il provvedimento di cessazione o di revoca.
In che modo è tutelato di fronte a questa inerzia il terzo acquirente interessato al godimento dell’immobile di cui è diventato proprietario o comproprietario?
A questa domanda ha risposto in modo esauriente Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2015, n. 15367 affermando che in caso di inerzia del suo dante causa il terzo acquirente dell’immobile, divenutone proprietario, è legittimato a proporre un’ordinaria azione di accertamento al fine di conseguire la declaratoria di inefficacia del titolo e la condanna degli occupanti al pagamento della relativa indennità di occupazione illegittima, con decorrenza dalla data di deposito della sentenza di ac¬certamento.
La sentenza è stata resa in una vicenda in cui, essendo diventato economicamente autosufficiente il figlio dell’assegnataria, il terzo acquirente aveva richiesto informalmente il rilascio dell’immobile assegnato in sede divorzile. Non avendo sortito alcun effetto tale richiesta il terzo acquirente instaurava un giudizio di accertamento dell’insussistenza del diritto di occupazione e di rilascio. Il Tribunale di Roma respingeva la domanda ma la Corte d’appello la accoglieva. La comodataria ricorreva quindi per cassazione assumendo che la decisione impugnata aveva disposto il rilascio dell’immobile, senza che una specifica richiesta di revoca del provvedimento di assegnazione della casa coniugale fosse stata proposta
La Cassazione respingeva il ricorso osservando che, come per tutti i provvedimenti conseguenti alla pronuncia di separazione o di divorzio, dunque, anche per l’assegnazione della casa familiare vale il principio generale della modificabilità in ogni tempo per fatti sopravvenuti. L’efficacia, quin¬di, della pronuncia giudiziale del provvedimento di assegnazione può essere messa in discussione tra i coniugi, circa il perdurare dell’interesse dei figli, nelle forme del procedimento di revisione attraverso la richiesta di revoca del provvedimento di assegnazione, per il sopravvenuto venir meno dei presupposti che ne avevano giustificato l’emissione. Per converso, deve ritenersi che il terzo acquirente – non legittimato ad attivare il procedimento suindicato – non possa che proporre, instaurando un ordinario giudizio di cognizione, una domanda di accertamento dell’insussistenza delle condizioni per il mantenimento del diritto personale di godimento a favore del coniuge as¬segnatario della casa coniugale, per essere venuta meno la presenza di figli minorenni o di figli maggiorenni non economicamente autosufficienti, con il medesimo conviventi. E ciò al fine di conseguire una declaratoria di inefficacia del titolo che legittima l’occupazione della casa coniugale da parte del coniuge assegnatario, a tutela della pienezza delle facoltà connesse al diritto domi¬nicale acquisito, non più recessive rispetto alle esigenze di tutela dei figli della coppia separata o divorziata. In mancanza, il terzo – non potendo attivare il procedimento, riservato ai coniugi, di cui all’art. 9 della legge sul divorzio – resterebbe, per il vero, del tutto privo di tutela, in violazione del disposto dell’art. 24 della Costituzione.
XIII Il cambio di genitore assegnatario
Come per tutti i provvedimenti conseguenti alla pronuncia di separazione o di divorzio, anche per l’assegnazione della casa familiare vale il principio generale della modificabilità in ogni tempo per fatti sopravvenuti, non essendo a ciò ostativa la mancanza di una espressa previsione; la predetta modificabilità, al pari di quella prevista specificamente per l’affidamento dei figli, nonché per la mi¬sura e le modalità dell’assegno divorzile, costituisce infatti un principio generale (Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2015, n. 15367; Cass. civ. Sez. I, 28 aprile 2010, n. 10222).
Non è affatto escluso quindi, anche se non è statisticamente frequente, che nel regime di affida¬mento possa verificarsi il cambio del genitore assegnatario della casa familiare anche se spesso il cambio si verifica con il passaggio dei figli dal domicilio del genitore cui era stata assegnata la casa familiare al domicilio del genitore prescelto come nuovo collocatario.
XIV La cessazione e la revoca dell’assegnazione
a) Le cause di cessazione e di revoca dell’assegnazione
Dalla stessa formulazione dell’art. 337-sexies si comprende come l’assegnazione della casa fami¬liare non ha una durata illimitata ma è commisurata alle esigenze alle quali è collegata e quindi è per lo più destinata a cessare allorché vengono meno le ragioni di tutela cui è preordinata. Nel prevedere le ipotesi di cessazione e di revoca dell’assegnazione il legislatore ha, tuttavia, anche inserito tra di esse alcune situazioni (si pensi alla convivenza more uxorio e al nuovo matrimonio dell’assegnatario) che non necessariamente sono incompatibili con la tutela di quelle esigenze; in questi casi la giurisprudenza costituzionale – come si dirà – ha ammesso il provvedimento di revo¬ca, ma lo ha condizionato ad una valutazione di non contrarietà della revoca all’interesse dei figli.
Con la revoca la casa familiare torna nel diritto esclusivo del proprietario ovvero seguirà le regole civilistiche della comproprietà (Cass. civ. Sez. III, 26 luglio 2016, n. 15373).
Ed inoltre, come ha ben chiarito Cass. civ. Sez. II, 30 marzo 2012, n. 5156 in un caso in cui il giudice di merito aveva escluso la liceità dell’uso esclusivo della casa familiare da parte di un coniuge, protrattosi in seguito alla revoca dell’ordinanza di assegnazione della casa familiare, sussiste la violazione dei criteri stabiliti dall’art. 1102 cod. civ. in ipotesi di occupazione dell’intero immobile ad opera del comproprietario e la sua destinazione ad utilizzazione personale esclusiva, tale da impedire all’altro comproprietario il godimento dei frutti civili ritraibili dal bene, con conseguente diritto ad una corrispondente indennità.
Le cause di cessazione e di revoca sono sostanzialmente quattro.
1) L’autosufficienza economica dei figli maggiorenni o la cessazione della loro coabita¬zione con l’assegnatario
La prima – e statisticamente più diffusa – causa di cessazione è il venir meno delle esigenze dei figli o perché essi raggiungono l’autosufficienza economica o perché cessano la loro convivenza con il genitore assegnatario. Poiché, “Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritaria¬mente conto dell’interesse dei figli” è evidente che venuto meno o realizzatosi questo interesse, viene anche meno il vincolo che alla comproprietà o alla proprietà di terzi è stato apposto dal provvedimento di assegnazione. La legge (art. 316-bis c.c.) e, come si è sopra detto, la giurispru¬denza considerano legittima l’assegnazione della casa familiare al genitore non proprietario solo ove correlata all’affidamento dei figli minori ovvero alla convivenza con i figli maggiori di età non ancora autosufficienti. L’autosufficienza dei figli maggiorenni o la cessazione della loro convivenza con il genitore assegnatario legittimano quindi il genitore comproprietario o proprietario estromes¬so dal godimento della casa familiare a richiedere la revoca dell’assegnazione.
Il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne7 termina all’atto del conseguimento, da parte del figlio di uno “status” di autosufficienza economica consistente nel percepire un reddito corri¬spondente alla professionalità acquisita in relazione alle normali e concrete condizioni di mercato, essendo rimessa all’apprezzamento del giudice di merito la valutazione sulla eventuale esiguità del reddito percepito e quindi sulla non raggiunta indipendenza economica (Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18076; Cass. civ. Sez. I, 3 settembre 2013, n. 20137; Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2013, n. 18974; Cass. civ. Sez. I, 17 novembre 2006, n. 24498).
L’assegnazione viene meno anche se il figlio cessa di abitare stabilmente con il genitore assegna¬tario (Cass. civ. Sez. I, 6 dicembre 2013, n. 27377). Per esempio Cass. civ. Sez. I, 9 agosto 2012, n. 14348 ha ritenuto che l’allontanamento infrasettimanale della casa familiare per cinque giorni lavorativi, ove determinato da ragioni di lavoro e di accudimento di un figlio minore, non è connotato dal carattere di stabilità che integra la condizione essenziale per la revoca dell’ assegna¬zione della casa familiare.
Per evitare le conseguenze paradossali di un’obbligazione che potrebbe protrarsi sine die, la giuri-sprudenza (Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18076) ritiene che comunque che “tale obbli¬go non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, poiché il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione, nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni e (purché compatibili con le condizioni economiche dei genitori) aspirazioni.
La prova dell’avvenuto raggiungimento dell’indipendenza economica del figlio – come tutte le de¬cisioni sopra richiamate ribadiscono – è a carico del genitore che chiede la cessazione dell’obbligo (in particolare, Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2013, n. 11218; Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 2004, n. 5719 e Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2002, n. 4765; Cass. civ. Sez. I, 11 marzo 1998, n. 2670).
Va precisato che il raggiungimento della maggiore età del figlio e la raggiunta autosufficienza eco¬nomica o il suo allontanamento stabile secondo la giurisprudenza non sono, di per sé, condizioni sufficienti a legittimare “ipso facto” gli effetti collegati a tale situazione, ma determinano unica¬mente la possibilità per il genitore obbligato di richiedere in sede giudiziaria l’accertamento di tali circostanze (Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 2006, n. 22491; Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975; Cass. civ. Sez. I, 16 giugno 2000, n. 8235).
2) L’allontanamento stabile dell’assegnatario dall’immobile
Si tratta di una situazione che, benché intuitiva e implicita, è stata indicata espressamente nella formulazione dell’art. 337-sexie c.c. (“Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare…”). Deve trat¬tarsi di un allontanamento stabile, naturalmente, non transitorio come potrebbe avvenire per una vacanza o per altre esigenze personali, come un ricovero ospedaliero ancorché prolungato.
Secondo Cass. civ. Sez. VI, 14 luglio 2015, n. 14727 il trasferimento del genitore assegnatario comporta senz’altro la revoca dell’assegnazione della casa familiare mentre il figlio maggiorenne non autosufficiente, già convivente con lui, potrà chiedere ai genitori il mantenimento, che do¬vrebbe permettergli anche di procurarsi un nuovo alloggio, senza poter pretendere di continuare ad abitare nella casa medesima.
Il verificarsi di queste situazioni non determina, però, il “venir meno” automatico dell’assegnazione e dei vincoli al regime proprietario che l’assegnazione determina. La legge non prevede che deb¬ba essere instaurato un procedimento di verifica da parte dell’autorità giudiziaria e d’altra parte occorre modificare il titolo che presiede all’assegnazione senza contare il fatto che solo il relativo provvedimento può, peraltro, essere oggetto della trascrizione prevista nell’art. 337-sexies. La giurisprudenza unifica tutte le situazioni indicando la necessità che sia sempre il giudice a prendere atto della causa di cessazione e a disporre il venir meno dell’assegnazione.
3) La convivenza more uxorio dell’assegnatario
L’art. 337-sexies precisa anche che il diritto di godimento della casa familiare attribuito con l’as¬segnazione viene meno nel caso in cui l’assegnatario “conviva more uxorio” o contragga nuovo matrimonio.
Tuttavia già nel vigore della normativa anteriore all’entrata in vigore della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (che, come più volte detto, introdusse l’art. 155-quater il cui testo era sostanzialmente identico all’attuale 337-sexies) Cass. civ. Sez. I, 16 aprile 2008, n. 9995 aveva ritenuto che l’instaurazione di una relazione more uxorio da parte del coniuge affidatario dei figli minorenni non giustifica la revoca dell’ assegnazione della casa familiare , trattandosi di una circostanza ininfluente sull’interesse della prole, a meno che la presenza del convivente non risulti nociva o diseducativa per i minori, ed essendo l’ assegnazione volta a soddisfare l’interesse di questi ultimi alla conservazione dell’habitat domestico, inteso come centro degli affetti, interessi e consuetudini nei quali si esprime e si articola la vita familiare.
Qualche mese dopo questa decisione intervenne sul punto la Corte costituzionale con una sentenza interpretativa di rigetto (Corte cost. 30 luglio 2008, n. 308) con la quale i giudici ritennero non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 155-quater, primo comma, c.c., introdotto dall’art. 1, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54, anche in combinato disposto con l’art. 4 della stessa legge, censurato, in riferimento agli artt. 2, 3, 29 e 30 Cost., nella parte in cui prevede la revoca automatica dell’assegnazione della casa familiare nel caso in cui l’assegnatario conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio. Premesso che la dichiarazione di illegittimità di una disposizione è giustificata dalla constatazione che non ne è possibile un’interpretazione conforme a Costituzione e premesso, altresì, che l’evoluzione normativa e giurisprudenziale evidenzia come non solo la decisione sulla assegnazione della casa familiare , ma anche quella sulla cessazione della stessa, sono sempre state subordinate, pur nel silenzio della legge, ad una valutazione, da parte del giudice, di rispondenza all’interesse della prole, la norma censurata non viola gli indicati parametri ove sia interpretata nel senso che l’ assegnazione della casa coniugale non venga meno di diritto al verificarsi degli eventi di cui si tratta (instaurazione di una convivenza di fatto, nuovo matrimonio), ma che la decadenza dalla stessa sia subordinata ad un giudizio di conformità all’interesse del minore.
4) Il matrimonio dell’assegnatario
il diritto di godimento della casa familiare attribuito con l’assegnazione viene meno nel caso in cui l’assegnatario conviva more uxorio o “contragga nuovo matrimonio”.
Nuovo matrimonio, nello spirito della disposizione, è da considerare anche il matrimonio dell’ex convivente more uxorio assegnatario.
Anche nel caso di nozze dell’assegnatario valgono gli stessi principi sopra richiamati in ordine all’instaurazione di una convivenza more uxorio per cui l’assegnatario perde il diritto al godimento della casa familiare solo in correlazione ad una valutazione di non interferenza della nuova situa¬zione con il preminente interesse dei figli a permanere nell’habitat domestico nel quale hanno sempre vissuto.
Tuttavia, oggettivamente, si verifica in caso di ingresso di una nuova persona (nuovo coniuge o convivente more uxorio) una condizione di ingiusta penalizzazione economica del coniuge o con¬vivente proprietario o comproprietario i cui diritti dovrebbero essere quanto meno compensati dall’applicazione della regola più volte richiamata, contenuta nell’art. 337-sexies, secondo cui “dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà”.
Per accordo tra le parti, inoltre – sempre possibile anche in queste situazioni – l’eventuale provve¬dimento concordato di revoca dell’assegnazione potrebbe comportare non il diritto al rilascio ma semmai solo quello alla corresponsione di una indennità di occupazione.
b) La trascrizione del provvedimento di revoca
Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili ai terzi ai sensi dell’articolo 2643.
La trascrizione ha la funzione anche in questo caso non solo di rendere evidente la cessazione del vincolo ma di dirimere diritti sull’immobile con i terzi, soprattutto, però, nell’interesse non dell’as¬segnatario ma dei terzi stessi che abbiano acquistato diritti successivamente alla trascrizione del provvedimento di revoca.
XV L’attuazione del provvedimento di assegnazione e di revoca
Che succede se il coniuge o il convivente che deve allontanarsi dall’immobile in seguito all’as¬segnazione all’altro della casa familiare non intende allontanarsi? Quale strumento di tutela ha l’assegnatario?
Una risposta a questo quesito viene da una decisione con cui la Cassazione ha ritenuto che, ancor¬ché nel provvedimento di assegnazione o di revoca non sia contenuto l’ordine di allontanamento, il provvedimento stesso costituisce titolo esecutivo per il rilascio dell’immobile (Cass. civ. Sez. III, 31 gennaio 2012, n. 1367). In ragione della speciale natura del diritto di abitazione della casa familiare – si legge nella sentenza – il provvedimento che dispone l’assegnazione o la revoca può essere eseguito per adeguare la realtà al decisum, anche se il profilo della condanna non sia esplicitato. La condanna, infatti, è implicita e connaturale al diritto, sia quando viene attribuito, sia quando viene revocato.
XVI Il cambio di residenza
L’art. 337-sexies c.c. (assegnazione della casa familiare e prescrizioni in tema di residenza) contie¬ne al secondo comma una precisazione che non ha un collegamento immediato con il tema dell’as¬segnazione della casa familiare e che il legislatore ha, tuttavia, accorpato nella stessa disposizione determinando qualche rischio di distorsione interpretativa.
Prevede il secondo comma che “In presenza di figli minori, ciascuno dei genitori è obbligato a comunicare all’altro, entro il termine perentorio di trenta giorni, l’avvenuto cambiamento di resi¬denza o di domicilio. La mancata comunicazione obbliga al risarcimento del danno eventualmente verificatosi a carico del coniuge o dei figli per la difficoltà di reperire il soggetto”8.
La collocazione nell’ambito della norma del codice sull’assegnazione della casa familiare potrebbe creare qualche confusione interpretativa. Potrebbe sembrare, infatti, che ciascuno dei genitori (ivi compreso l’assegnatario) abbia la facoltà di cambiare la residenza o il domicilio con il solo limite di comunicare il cambiamento all’altro entro trenta giorni. Si tratta di una lettura assolutamente fuor¬viante. Intanto vi è da dire che la posizione del genitore assegnatario e del genitore estromesso non si presentano simmetriche, essendo evidente che diverso è il comportamento dell’assegnata¬rio della casa familiare che cambia insieme al proprio domicilio anche quello del figlio e altra cosa è il comportamento del genitore estromesso dalla casa familiare che si limita a cambiare soltanto il proprio domicilio. In secondo luogo la disposizione in questione non vuole assolutamente intro¬durre un divieto di cambiare la propria residenza; né può essere letta, viceversa, come attributiva di un diritto di modificare il domicilio del figlio senza il consenso dell’altro genitore.
Il problema della residenza va quindi impostato tenendo presente anche la disposizione centrale di cui all’art. 337-ter (Provvedimenti riguardo ai figli) che da un lato prevede il diritto del figlio minore a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori (primo comma) e dall’altro prescrive che “La responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le deci¬sioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la responsabilità genitoriale separatamente. Qualora il genitore non si attenga alle condizioni dettate, il giudice valuterà detto comportamento anche al fine della modifica delle modalità di affidamento” (quarto comma).
Pertanto, nel regime normale dell’affidamento condiviso dei figli, le scelte sulla residenza del figlio minore non possono che essere adottate da entrambi i genitori con il meccanismo previsto nel quarto comma dell’art. 337-ter ed ove avvenisse che tale decisione fosse arbitrariamente adottata dal solo genitore collocatario, ciò potrà legittimare il giudice, su ricorso dell’altro genitore, a di¬sporre anche un cambio del regime di affidamento e di collocamento del figlio.
Su questi aspetti è interessante richiamare una decisione riferita ad un caso in cui la madre di due bambine aveva programmato, anche se non ancora attuato, il cambio di residenza e per questo motivo il tribunale di Castrovillari aveva affidato le bambine al padre. La Corte d’appello di Ca¬tanzaro, premesso che ciascun genitore ha il diritto, costituzionalmente garantito, di stabilire la propria residenza nel luogo che desideri, ribaltava la decisione e il padre ricorreva per cassazione denunciando la violazione dell’art. 337-bis c.c. in quanto il giudice ha il dovere di conformare la decisione all’interesse superiore della prole, che si traduce nell’esigenza del rispetto della bigeni¬torialità anche nelle situazioni di crisi del matrimonio, e che, qualora il genitore collocatario della prole intenda trasferire la propria residenza, fissandola in un luogo distante da quello stabilito in precedenza, il suo diritto di autodeterminazione “si infrange” contro il diritto del figlio minore a mantenere le proprie abitudini e a conservare il rapporto con l’altro genitore. La Corte di cassa¬zione (Cass. civ. Sez. I, 12 maggio 2015, n. 9633 rigettando il ricorso sottolineava che “og¬getto del presente giudizio è l’affido e il collocamento dei figli di una coppia di coniugi separati, nell’ambito del quale il giudice non ha il potere d’imporre all’uno o all’altro dei coniugi stessi di rinunziare ad un progettato trasferimento, che del resto corrisponde a un diritto fondamentale costituzionalmente garantito. Il giudice non può che prendere atto delle determinazioni al riguardo assunte dell’interessato e regolarsi di conseguenza nella decisione, che gli compete, sull’affido e il collocamento dei figli minori. Nessuna norma – affermano i giudici – impone di privare il coniuge
8 Questa previsione, riproduce, il testo del 12° co. dell’art. 6, della legge n. 898/1970, abrogato dal D.Lgs. n. 154/2013. Il legislatore delegato del 2013 ha rimosso la previsione in questione dalla legge sul divorzio (dove era collocata correttamente non nel comma 6 relativo all’assegnazione ma in un comma autonomo), e l’ha inse¬rita nell’art. 337-sexies.
che intenda trasferirsi, per questo solo fatto, dell’affido o del collocamento dei figli presso di sé; la decisione del giudice deve ispirarsi al superiore interesse dei figli minori.
L’affermazione di questi principi è stata anche fatta in un’altra vicenda (Cass. civ. Sez. I, 26 marzo 2015, n. 6132) in cui i giudici hanno precisato che di fronte alle scelte insindacabili sulla propria residenza compiute dei coniugi separati, i quali non perdono, per il solo fatto che inten¬dono trasferire la propria residenza lontano da quella dell’altro coniuge, l’idoneità ad essere col¬locatari dei figli minori, il giudice ha esclusivamente il dovere di valutare se sia più funzionale al preminente interesse della prole il collocamento presso l’uno o l’altro dei genitori, per quanto ciò incida negativamente sulla quotidianità dei rapporti con il genitore non collocatario: conseguenza, questa, comunque ineluttabile, sia nel caso di collocamento presso il genitore che si trasferisce, sia nel caso di collocamento presso il genitore che resta.
Con queste premesse il secondo comma dell’art. 337-quater va letto come integrativo della di¬sciplina di cui all’art. 337-ter nel senso che fa riferimento al comportamento del genitore non collocatario (non certo a quello presso cui il figlio è domiciliato) che dovesse cambiare domicilio o residenza rendendo problematica la continuità dei rapporti con il figlio e difficoltoso l’esercizio della responsbailità genitoriale dell’altro genitore. Questo comportamento può provocare anche danni di natura economica che la norma indica come risarcibili.

Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 2017, n. 2771 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Premesso che il coniuge assegnatario della casa familiare, può opporre al comodante l’esistenza di un provvedi¬mento di assegnazione, pronunciato in un giudizio di separazione o divorzio, solo se tra il comodante e almeno uno dei coniugi il contratto in precedenza insorto abbia contemplato la destinazione del bene a casa familiare, in sede di valutazione della domanda di rilascio dell’immobile proposta dal comodante, il giudice è tenuto ad accertare se l’uso cui il bene attribuito incomodato è stato adibito a casa familiare e se perdurino le esigenze legate all’assegnazione.
Il giudice della separazione può disporre l’assegnazione parziale dell’immobile se essa non contrasta con l’inte¬resse preminente dei figli.
Cass. civ. Sez. III, 31 maggio 2017, n. 13716 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il comodato di un bene immobile, stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare, ha un carat¬tere vincolato alle esigenze abitative familiari, sicché il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento, anche oltre l’eventuale crisi coniugale, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed imprevisto bisogno ai sensi dell’art. 1809 c.c., comma 2, ferma, in tal caso, la necessità che il giudice eserciti con massima attenzione il controllo di proporzionalità e adeguatezza nel comparare le particolari esigenze di tutela della prole e il contrapposto bisogno del comodante (Cass., sez. un., 29/09/2014, n. 20448).
Cass. civ. Sez. II, 20 aprile 2017, n. 9998 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché le spese necessarie per la conservazione ed il godimento delle parti comuni costituiscono l’oggetto di un’obbligazione “propter rem”, la qualità di debitore dipende dalla titolarità del diritto di proprietà (o di altro diritto reale) sulla cosa nel momento in cui è necessario eseguire le relative opere. Pertanto i lavori condominiali deliberati dall’assemblea ed eseguiti in data anteriore rispetto al provvedimento di assegnazione della casa fa¬miliare, di proprietà esclusiva di un coniuge, all’altro coniuge in sede di separazione giudiziale, sono a carico del proprietario, in quanto precedenti alla costituzione del diritto di abitazione.
Cass. civ. Sez. VI, 17 marzo 2017, n. 7007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il coniuge, già comodatario della casa familiare ed assegnatario della stessa in forza di provvedimento giudiziale adottato nell’ambito di procedura di separazione personale, può opporre il proprio titolo – ma solo entro il limite del novennio decorrente dalla sua adozione – al terzo acquirente il medesimo bene, ancorché la trascrizione del titolo di acquisto di quest’ultimo sia anteriore a quella del menzionato provvedimento giudiziale.
Cass. civ. Sez. II, 23 febbraio 2017, n. 4685 (Famiglia e Diritto, 2017, 6, 586)
Nel caso di cessazione della convivenza more uxorio, il convivente non assegnatario della casa familiare ha di¬ritto alla restituzione degli arredi e dei beni di sua proprietà, con esclusione di quelli strettamente connessi alle necessità dei figli della coppia.
Cass. civ. Sez. VI, 29 settembre 2016, n. 19347 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale, l’assegnazione della casa familiare prevista dall’art. 155 quater c.c. è finaliz¬zata unicamente alla tutela della prole e non può essere disposta come se fosse una componente dell’assegno previsto dall’art. 156 c.c., dovendo quest’ultimo essere inteso a consentire una tendenziale conservazione del tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio.
Cass. civ. Sez. II, 9 settembre 2016, n. 17843 (Foro It., 2017, 1, 1, 226)
L’ assegnazione del godimento della casa familiare, ex art. 155 c.c. previgente e art. 155 quater c.c., ovvero in forza della legge sul divorzio, non può essere considerata in occasione della divisione dell’immobile in comproprietà tra i coniugi al fine di determinare il valore di mercato del bene qualora l’immobile venga attribuito al coniuge titolare del diritto al godimento stesso, atteso che tale diritto è attribuito nell’esclusivo interesse dei figli e non del coniuge affidatario e, diversamente, si realizzerebbe una indebita locu-pletazione a suo favore, poten¬do egli, dopo la divisione, alienare il bene a terzi senza alcun vincolo e per il prezzo integrale.
Cass. civ. Sez. III, 26 luglio 2016, n. 15373 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di divorzio, la sentenza che ponga a carico del marito l’obbligo di mantenimento della ex moglie e revochi l’ assegnazione della casa coniugale a quest’ultima, contestualmente affermando che il bene segua “il normale regime civilistico”, va intesa nel senso che la casa torna nel godimento esclusivo della stessa ex moglie, in quanto ne era unica proprietaria, essendo tale interpretazione l’unica desumibile, oltre che dal tenore letterale del disposto, anche dalla piena corrispondenza di una simile conseguenza con l’imposizione, sempre al marito, dell’assegno di mantenimento. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza che aveva accolto l’opposizione a precetto per il rilascio dell’immobile, intimato dal marito a carico dell’ex moglie, rilevando come l’assenza di una statuizione espressa di assegnazione in suo favore della casa coniugale escludesse l’e¬sistenza di un titolo dotato del requisito della certezza che lo legittimasse a procedere ad esecuzione forzata).
Cass. civ. Sez. VI, 8 giugno 2016, n. 11783 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione tra coniugi, l’art. 155-quater c.c. tutela l’interesse prioritario della prole a permanere nell’habitat domestico, inteso come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare. In tale ottica, il giudice può limitare l’assegnazione della casa familiare ad una porzione dell’immobile, di proprietà esclusiva del genitore non affidatario, anche nell’ipotesi di pregressa destinazione a casa familiare dell’intero fabbricato, laddove tale soluzione, esperibile in relazione al lieve grado di conflittualità coniuga¬le, agevoli in concreto la con-divisione della genitorialità e la conservazione dell’habitat domestico dei figli minori.
Cass. civ. Sez. II, 22 aprile 2016, n. 8202 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi, cui l’immobile non appartenga in via esclusiva, instaura un vincolo (opponibile anche ai terzi per nove anni, e, in caso di trascrizione, senza limite di tempo) che ogget¬tivamente comporta una decurtazione del valore della proprietà, totalitaria o parziaria, di cui è titolare l’altro coniuge, il quale da quel vincolo rimane astretto, come i suoi aventi causa, fino a quando il provvedimento non sia eventualmente modificato, sicché nel giudizio di divisione se ne deve tenere conto indipendentemente dal fatto che il bene venga attribuito in piena proprietà all’uno o all’altro coniuge ovvero venduto a terzi.
Cass. civ. Sez. III, 20 aprile 2016, n. 7776 (Famiglia e Diritto, 2017, 1, 33 nota di CHIUSOLI)
In materia di assegnazione della casa familiare, l’art. 155 quater c.c. (applicabile “ratione temporis”), laddove prevede che “il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’art. 2643” c.c., va interpretato nel senso che entrambi non hanno effetto riguardo al creditore ipotecario che abbia acquistato il suo diritto sull’immobile in base ad un atto iscritto anteriormente alla trascrizione del provve¬dimento di assegnazione, il quale perciò può far vendere coattivamente l’immobile come libero.
Cass. civ. Sez. I, 19 febbraio 2016, n. 3331 (Foro It., 2016, 4, 1, 1229)
Il giudice può assegnare la casa familiare al genitore collocatario del figlio anche se il minore non ha mai abi¬tato nell’immobile, purché i genitori prima del conflitto abbiano destinato la casa ad abitazione familiare e vi abbiano stabilmente convissuto.
Cass. civ. Sez. III, 9 febbraio 2016, n. 2506 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il coniuge affidatario della prole minorenne, o maggiorenne non autosufficiente, assegnatario della casa familia¬re, può opporre al comodante, che chieda il rilascio dell’immobile, l’esistenza di un provvedimento di assegna¬zione, pronunciato in un giudizio di separazione o divorzio, solo se tra il comodante ed almeno uno dei coniugi il contratto in precedenza insorto abbia contemplato la destinazione del bene a casa familiare.
Cass. civ. Sez. VI, 17 dicembre 2015, n. 25420 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale dei coniugi, il godimento della casa familiare costituisce un valore economico – corrispondente, di regola, al canone ricavabile dalla locazione dell’immobile – del quale il giudice deve tener con¬to ai fini della determinazione dell’assegno dovuto all’altro coniuge per il suo mantenimento o per quello dei figli.
Cass. civ. Sez. VI, 28 settembre 2015, n. 19193 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’assegnazione della casa coniugale al coniuge non proprietario è legittima solo ove correlata all’affidamento dei figli minori, ovvero alla convivenzacon i figli maggiori di età non ancora autosufficienti, e al loro interesse alla conservazione dell’habitat familiare anche dopo la separazione dei genitori. Di talché la predetta assegnazione non può costituire una misura assistenziale per il coniuge economicamente più debole.
Cass. civ. Sez. I, 11 settembre 2015, n. 17971 (Nuova Giur. Civ., 2016, 2, 1, 243 nota di PALADINI)
Il provvedimento di assegnazione dell’immobile adibito a casa familiare è opponibile al terzo avente causa dell’ex convivente cui è stata trasferita la proprietà prima dell’ assegnazione stessa, dal momento che la qualità di detentore qualificato in capo al convivente assegnatario è preesistente al trasferimento immobiliare così come la desti-nazione dell’immobile a casa familiare impressa anche dal proprietario genitore fino al suo allontanamento volontario.
Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2015, n. 15367 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai sensi dell’art. 6, comma 6, della l. n. 898 del 1970 (nel testo sostituito dall’art. 11 della l. n. 74 del 1987), il provvedimento di assegnazione della casa familiare al coniuge (o al convivente) affidatario di figli minori (o maggiorenni non autosufficienti) è opponibile – nei limiti del novennio, ove non trascritto – anche al terzo acquirente dell’immobile, ma solo finché perdura l’efficacia della pronuncia giudiziale, sicché il venire meno del diritto di godimento del bene (nella specie, perché la prole è divenuta maggiorenne ed economicamente auto¬sufficiente) legittima il terzo acquirente dell’immobile, divenutone proprietario, a proporre un’ordinaria azione di accertamento al fine di conseguire la declaratoria di inefficacia del titolo e la condanna degli occupanti al pa¬gamento della relativa indennità di occupazione illegittima, con decorrenza dalla data di deposito della sentenza di accertamento.
Cass. civ. Sez. VI, 14 luglio 2015, n. 14727 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il trasferimento del genitore assegnatario comporta la revoca dell’assegnazione della casa familiare; il figlio maggiorenne non autosufficiente, già convivente con lui, potrà chiedere ai genitori il mantenimento, che do¬vrebbe permettergli anche di procurarsi un nuovo alloggio, senza poter pretendere di continuare ad abitare nella casa medesima.
Cass. civ. Sez. I, 12 maggio 2015, n. 9633 (Famiglia e diritto, 2015, 7, 725)
Il coniuge separato che intenda trasferire la residenza lontano da quella dell’altro coniuge non perde l’idoneità ad avere in affidamento i figli minori, sicché il giudice deve esclusivamente valutare se sia più funzionale all’interes¬se della prole il collocamento presso l’uno o l’altro dei genitori, per quanto ciò ineluttabilmente incida in negativo sulla quotidianità dei rapporti con il genitore non affidatario.
Cass. civ. Sez. I, 26 marzo 2015, n. 6132 (Foro It., 2015, 5, 1, 1 nota di 1543)
Posto che la scelta della residenza del minore va adottata tenendo conto in via esclusiva del suo interesse, il giu¬dice può confermare quella pur illegittimamente ed unilateralmente individuata da uno solo dei genitori, ma che comunque reputi in concreto corrispondente all’interesse del minore medesimo (nella specie, la Suprema corte ha confermato la pronuncia di merito che, pur affidando provvisoriamente il minore, nato fuori dal matrimonio dei genitori, al comune del luogo di residenza, aveva però rigettato la domanda del padre, di ritrasferimento del figlio a Milano da Roma, dove la madre, violando il regime di affido condiviso, lo aveva condotto unilateralmente, e senza la previa autorizzazione del giudice, avendo quel giudice accertato che il minore da un lato si era ormai radicato, da anni, nella capitale, dall’altro che egli non aveva un buon rapporto con il padre, sicché il richiesto ritrasferimento sarebbe stato per lui negativo).
Cass. civ. Sez. I, 12 novembre 2014, n. 24156 (Famiglia e Diritto, 2015, 12, 1085 nota di IPPOLITI MARTINI)
In tema di separazione personale dei coniugi, il giudice può limitare l’assegnazione della casa familiare ad una porzione dell’immobile, di proprietà esclusiva del genitore non collocatario, anche nell’ipotesi di pregressa destinazione a casa familiare dell’intero fabbricato, ove tale soluzione, esperibile in relazione al lieve grado di conflittualità coniugale, agevoli in concreto la condivisione della genitorialità e la conservazione dell’habitat do¬mestico dei figli minori.
Cass. civ. Sez. Unite, 29 settembre 2014, n. 20448 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il coniuge separato, convivente con la prole minorenne o maggiorenne non autosufficiente ed assegnatario dell’abitazione già attribuita in comodato, che opponga alla richiesta di rilascio del comodante l’esistenza di una destinazione dell’immobile a casa familiare , ha l’onere di provare che tale era la pattuizione attributiva del diritto personale di godimento, mentre spetta a chi invoca la cessazione del comodato dimostrare il so¬praggiungere del termine fissato “per relationem” e, dunque, l’avvenuto dissolversi delle esigenze connesse all’uso familiare.
Il coniuge affidatario della prole minorenne, o maggiorenne non autosufficiente, assegnatario della casa fami¬liare, può opporre al comodante, che chieda il rilascio dell’immobile, l’esistenza di un provvedimento di asse¬gnazione, pronunciato in un giudizio di separazione o divorzio, solo se tra il comodante e almeno uno dei coniugi (salva la concentrazione del rapporto in capo all’assegnatario, ancorché diverso) il contratto in precedenza insor¬to abbia contemplato la destinazione del bene a casa familiare. Ne consegue che, in tale evenienza, il rapporto, riconducibile al tipo regolato dagli artt. 1803 e 1809 cod. civ., sorge per un uso determinato ed ha – in assenza di una espressa indicazione della scadenza – una durata determinabile “per relationem”, con applicazione delle regole che disciplinano la destinazione della casa familiare , indipendentemente, dunque, dall’insorgere di una crisi coniugale, ed è destinato a persistere o a venir meno con la sopravvivenza o il dissolversi delle necessità familiari (nella specie, relative a figli minori) che avevano legittimato l’assegnazione dell’immobile.
Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18076 (Foro It., 2015, 3, 1, 1021)
In tema di separazione di coniugi, il genitore che non intenda più provvedere al mantenimento del figlio mag¬giorenne, anche con riferimento alla revoca dell’assegnazione della casa familiare, è onerato della prova del raggiungimento, da parte dello stesso, dell’indipendenza economica, ovvero dell’imputabilità al figlio del man¬cato conseguimento di quest’ultima, tenuto conto che l’obbligo di mantenimento non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo.
Cass. civ. Sez. VI, 11 aprile 2014, n. 8580 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale dei coniugi, il giudice può limitare l’assegnazione della casa familiare ad una porzione dell’immobile, di proprietà esclusiva del genitore non collocatario, anche nell’ipotesi di pregressa de¬stinazione a casa familiare dell’intero fabbricato, ove tale soluzione, esperibile in relazione del lieve grado di conflittualità coniugale, agevoli in concreto la condivisione della genitorialità e la conservazione dell’”habitat” domestico dei figli minori. Qualora, peraltro, il genitore non collocatario muti residenza, vengono meno i presup¬posti applicativi di cui all’art. 155 quater cod. civ. e non trova più giustificazione il provvedimento di assegnazio¬ne parziaria, che sia fondato, erroneamente, sulla riconducibilità alla casa familiare, in mancanza di riscontri di fatto, della sola porzione occupata dal genitore collocatario e sulla sufficienza, alla luce dell’art. 1022 cod. civ., della titolarità, da parte del genitore non collocatario, della proprietà dell’intero fabbricato.
Cass. civ. Sez. II, 22 ottobre 2014, n. 27128 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
ll diritto di abitazione della casa familiare è un atipico diritto personale di godimento (e non un diritto reale), pre¬visto nell’esclusivo interesse dei figli (art. 155, coma quarto, cod.civ.) e non nell’interesse del coniuge affi-datario.
Allorché l’immobile sia assegnato in proprietà esclusiva al coniuge affidatario l’assegnazione non può avere al-cuna interferenza sul valore di mercato dell’immobile ovvero sulla determinazione della porzione corrispondente alla quota di comproprietà spettante al condividente. Infatti, ove si operasse la decurtazione del valore in con-siderazione del diritto di abitazione, il coniuge non assegnatario verrebbe ingiustificatamente penalizzato con la corresponsione di una somma che non sarebbe rispondente alla metà dell’effettivo valore venale del bene: il che è comprovato dalla considerazione che, qualora intendesse rivenderlo a terzi, l’assegnatario in proprietà esclusiva potrebbe ricavare l’intero prezzo di mercato, pari al valore venale del bene, senza alcuna diminuzione.
Cass. civ. Sez. V, 3 febbraio 2014, n. 2273 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di agevolazioni tributarie, i benefici fiscali “prima casa “ sono preclusi, a nor-ma dell’art 1 della Tarif¬fa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, nota II bis, lett. b) e c), se l’acquirente ha la disponibilità di altro immobile a titolo di proprietà o altro diritto reale, sicché la disponibilità della casa familiare derivante dal provvedimento giudiziale di assegnazione da parte del giudice della separazione o del divorzio, non integrando un diritto reale, bensì un diritto personale di godimento di natura atipica, consente l’accesso ai suddetti benefici.
Cass. civ. Sez. I, 6 dicembre 2013, n. 27377 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non sussiste l’obbligo del mantenimento indiretto per la figlia maggiorenne, ormai tren-tenne, dotata di suo pa¬trimonio personale, ancora dedita, a spese del padre, agli studi universitari in sede diversa dal luogo di residenza familiare, senza avere né conseguito alcun correlato titolo di studio né trovato una pur possibile occupazione lavorativa. Il fatto che la figlia maggiorenne, per gli studi in sede diversa da quella della famiglia, non viva più abitualmente con uno dei genitori, fa venir meno il diritto all’assegnazione della casa coniugale.
Cass. civ. Sez. VI, 3 settembre 2013, n. 20183 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La nozione di “urgente e impreveduto bisogno”, di cui al secondo comma dell’art. 1809 cod. civ., fa riferimento alla necessità del comodante – su cui gravano i relativi oneri probatori – di appagare impellenti esigenze perso¬nali, e non a quella di procurarsi un utile, tramite una diversa opportunità di impiego del bene. Tale valutazione va condotta con rigore, quando il comodatario di un bene immobile abbia assunto a suo carico considerevoli oneri, per spese di manutenzione ordinaria e straordinaria, in vista della lunga durata del godimento concessogli.
Cass. civ. Sez. I, 3 settembre 2013, n. 20137 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne gravante, sotto forma di obbligo di corresponsione di un assegno, sul genitore non convivente, cessa all’atto del conseguimento, da parte del figlio, di uno “status” di autosufficienza economica consistente nella percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita in relazione alle normali e concrete condizioni di mercato. Pertanto, l’attribuzione del beneficio periodico non può essere fondata su ragioni improprie quali la perdita di chances rispetto ad una migliore e più proficua formazione personale e collocazione economico sociale, guardando al livello culturale e socio economico della famiglia di ori¬gine. In tal modo, si valorizza illegittimamente il diverso aspetto della responsabilità genitoriale, avente natura squisitamente compensativa e risarcitoria, indebitamente assumendolo a funzione del mantenimento.
Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2013, n. 18974 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo del genitore (separato o divorziato) di concorrere al mantenimento del figlio maggiorenne non con¬vivente cessa con il raggiungimento, da parte di quest’ultimo, di uno “status” di autosufficienza economica consistente nella percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita, in relazione alle normali e concrete condizioni di mercato, quale deve intendersi il compenso corrisposto al medico specializzando, in dipendenza di un contratto di formazione specialistica pluriennale ex art. 37, d.lgs. 17 agosto 1999, n. 368, non riconducibile ad una semplice borsa di studio.
Cass. civ. Sez. III, 25 giugno 2013, n. 15877 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel contratto di comodato il termine finale può, a norma dell’art. 1810 cod. civ., risultare dall’uso cui la cosa deve essere destinata, se tale uso abbia in sé connaturata una durata predeterminata nel tempo, mentre in mancanza di particolari prescrizioni di durata, ovvero di elementi certi ed oggettivi che consentano “ab origine” di prestabilirla, l’uso corrispondente alla generica destinazione dell’immobile configura un comodato a tempo indeterminato e, perciò, a titolo precario, e, dunque, revocabile “ad nutum” da parte del comodante, a norma del medesimo art. 1810.
Poiché il comodatario, quale detentore della cosa comodata, non può acquistare il possesso “ad usucapionem” senza prima avere mutato, mediante una “interversio possessionis”, la sua detenzione in possesso, deve rite¬nersi che l’intenzione, manifestata da chi eserciti un potere di fatto su di un bene, di stipulare per iscritto un contratto di comodato con il proprietario del bene stesso sia incompatibile con la sussistenza del possesso utile ai fini dell’usucapione, in quanto contiene, ad un tempo, l’esplicito riconoscimento del diritto altrui e l’esclusione dell’intenzione di possedere per conto e in nome proprio.
Cass. civ. Sez. III, 17 giugno 2013, n. 15113 (Nuova Giur. Civ., 2013, 11, 978, nota di PELLEGRIN)
Deve essere rimessa al Primo Presidente della Corte di Cassazione per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite la questione della determinazione della durata del comodato di casa familiare privo di espressa previsione del termine finale, e ciò anche in rapporto alla successiva crisi del rapporto coniugale: va invero rimeditato l’o¬rientamento interpretativo delineato al riguardo da Cass., sez. un., 21.7.2004 n. 13603.
Cass. civ. Sez. I, 16 maggio 2013, n. 11981 (Famiglia e Diritto, 2013, 7, 717)
Nella separazione personale dei coniugi, l’assegnazione della casa coniugale al genitore affidatario presuppone una continuità ambientale, decisiva ai fini del preminente interesse del minore alla permanenza nella casa fa¬miliare, suo domicilio abituale, continuità che non sussiste laddove il minore si sia già stabilito in altra abitazione.
Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2013, n. 11218 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale tra i coniugi, colui che agisca per la revoca dell’ assegnazione della casa fa¬miliare ha l’onere di provare in modo inequivoco il venir meno dell’esigenza abitativa con carattere di stabilità, cioè di irreversibilità (nella specie la madre affidataria utilizzava l’abitazione familiare solo per il periodo estivo), prova che deve essere particolarmente rigorosa in presenza di prole affidata o convivente con l’assegnatario; inoltre il giudice deve comunque verificare che il provvedimento richiesto non contrasti con i preminenti interessi della prole.
Cass. civ. Sez. II, 18 dicembre 2012, n. 23361 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di concessione in comodato da parte di un terzo di un bene immobile di sua proprietà perchè sia destinato a casa familiare , il successivo provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni o convivente con figli maggiorenni non auto sufficienti senza loro colpa, emesso nel giudizio di separazione o di divorzio, non modifica la natura ed il contenuto del titolo di godimento sull’immobile, ma deter¬mina una concentrazione, nella persona dell’assegnatario, di detto titolo di godimento, che resta regolato dalla disciplina del comodato; con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godi¬mento per l’uso previsto nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell’art. 1809 c.c., comma 2.
Cass. civ. Sez. I, 2 ottobre 2012, n. 16769 (Contratti, 2013, 3, 261, nota di PASSARELLA)
Il provvedimento, pronunciato nel giudizio di separazione o di divorzio, di assegnazione in favore del coniuge affidatario dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti della casa coniugale non modifica né la natura, né il contenuto del titolo di godimento dell’immobile già concesso in comodato da un terzo per la destinazione a casa familiare; pertanto, la specificità della destinazione, impressa per effetto della concorde volontà delle parti, è incompatibile con un godimento contrassegnato dalla provvisorità e dall’incertezza, che caratterizzano il como¬dato cosiddetto precario, e che legittimano la cessazione “ad nutum” del rapporto su iniziativa del comodante, con la conseguenza che questi, in caso di godimento concesso a tempo indeterminato, è tenuto a consentirne la continuazione anche oltre l’eventuale crisi coniugale, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed im¬previsto bisogno.
Cass. civ. Sez. I, 9 agosto 2012, n. 14348 (Foro It., 2013, 4, 1, 1193)
In tema di separazione giudiziale dei coniugi, può revocarsi l’assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, ovvero con cui convivano i figli minori, che non vi abiti più stabilmente, allorché l’altro coniuge – che ne è onerato – provi che ciò sia ormai irreversibile, e sempre che il giudice accerti che tale misura non contrasti con l’interesse della prole (nella specie, la Suprema corte ha confermato il provvedimento di merito che aveva rigettato la domanda di revoca dell’ assegnazione della casa coniugale, benché la moglie, assegnataria, vi trascorresse solo i fine settimana, in quanto la donna viveva per i restanti giorni nella casa dei genitori – che l’aiutavano nell’accudimento della figlia minore – più vicina alla sua sede di lavoro).
Cass. civ. Sez. III, 7 agosto 2012, n. 14177 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ove il comodato di un bene immobile sia stato stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare, già formato o in via di formazione, si versa nell’ipotesi del comodato a tempo indeterminato, caratterizzato dalla non prevedibilità del momento in cui la destinazione del bene verrà a cessare, ed il giudice della separazione, ai fini dell’assegnazione della casa coniugale, è tenuto a verificare che la concessione in comodato del bene sia stata effettuata nella prospettiva della sua utilizzazione quale casa familiare (Nella specie è stato rigettato il ricorso avverso la sentenza di merito che aveva disposto l’immediata restituzione dell’immobile concesso in comodato precario dai genitori al figlio e alla moglie di questo, poi separata, sul presupposto che la nuora, con¬testualmente alla concessione in comodato dell’appartamento controverso, aveva acquistato altro e più grande appartamento, sicché il nucleo familiare, pur privato dell’immobile dato in comodato, avrebbe comunque potuto utilmente collocarsi nell’altro senza perdita, per i figli dell’”habitat” domestico).
Cass. civ. Sez. I, 24 luglio 2012, n. 12977 (Foro It., 2013, 4, 1, 1193)
In tema di separazione giudiziale dei coniugi, al genitore con cui convivano i figli minorenni, o maggiorenni non autosufficienti, o anche portatori di handicap, va normalmente assegnata la casa coniugale, tale essendo quella abitata dalla famiglia fino all’instaurazione del giudizio di separazione o almeno fino ad epoca di poco anteriore, mentre non si fa luogo all’assegnazione allorché la destinazione ad abitazione familiare sia ormai cessata, essendo i coniugi separati di fatto da un significativo numero di anni (nella specie, la Corte ha confermato la sentenza di merito che non aveva assegnato la casa già familiare al genitore con cui conviveva il figlio maggio¬renne portatore di handicap, in quanto i due vivevano ormai da molti anni in un’altra città).
Cass. civ. Sez. III, 19 luglio 2012, n. 12466 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ assegnazione al coniuge affidatario dei figli, in sede di separazione, del godimento dell’immobile di proprietà esclusiva dell’altro non impedisce al creditore di quest’ultimo di pignorarlo e di determinarne la vendita coattiva.
Cass. civ. Sez. I, 14 giugno 2012, n. 9770 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Dall’estensione delle regole introdotte in materia di separazione e divorzio anche in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio ad opera della legge dell’8 febbraio 2006 n. 54 discende, da un alto, che l’art. 317- bis c.c. assume una sua autonomia procedimentale rispetto a quelli di cui agli artt. 330, 333 e 336 del ridetto civile, indipendentemente dalla natura di rito camerale fondata su ragioni di celerità e snellezza; dall’altro che i provvedimenti emessi dalla Corte di Appello, sezione per i minorenni, in sede di reclamo avverso i provvedimenti adottati ex art. 317-bis c.c. surrichiamato e relativi all’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio ed alle conseguenti statuizioni economiche, ivi compresa l’assegnazione della casa familiare, sono impugnabili con ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 111 della Costituzione.
Cass. civ. Sez. II, 30 marzo 2012, n. 5156 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di uso della cosa comune, sussiste la violazione dei criteri stabiliti dall’art. 1102 cod. civ. in ipotesi di occupazione dell’intero immobile ad opera del comproprietario e la sua destinazione ad utilizzazione personale esclusiva, tale da impedire all’altro comproprietario il godimento dei frutti civili ritraibili dal bene, con conse¬guente diritto ad una corrispondente indennità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la liceità dell’uso esclusivo della casa familiare da parte di un coniuge, protrattosi in seguito alla revoca dell’ordinanza di assegnazione dell’alloggio pronunciata nel corso del giudizio di separazione personale, nonostante il dissenso espresso dall’altro coniuge contitolare).
Cass. civ. Sez. I, 22 marzo 2012, n. 4555 (Nuova Giur. Civ., 2012, 9, 1, 712 nota di ROMA)
La nozione di convivenza rilevante agli effetti dell’ assegnazione della casa familiare comporta la stabile di-mora del figlio presso l’abitazione di uno dei genitori, con eventuali, sporadici allontanamenti per brevi periodi, e con esclusione, quindi, della ipotesi di saltuario ritorno presso detta abitazione per i fine settimana, ipotesi nella quale si configura invece un rapporto di mera ospitalità; deve, pertanto, sussistere un collega-mento stabile con l’abitazione del genitore, benché la coabitazione possa non essere quotidiana, essendo tale concetto compatibile con l’assenza del figlio anche per periodi non brevi per motivi di studio o di lavoro, purché egli vi faccia ritorno regolarmente appena possibile; quest’ultimo criterio, tuttavia, deve coniugarsi con quello della prevalenza tem¬porale dell’effettiva presenza, in relazione ad una determinata unità di tempo (anno, semestre, mese).
Cass. civ. Sez. III, 14 febbraio 2012, n. 2103 (Famiglia e Diritto, 2012, 7, 693, nota di AL MUREDEN)
La specificità della destinazione a casa familiare, quale punto di riferimento e centro di interessi del nucleo fami¬liare, è incompatibile con un godimento contrassegnato dalla provvisorietà e dall’incertezza che caratterizzano il comodato, cosiddetto precario, e che legittimano la cessazione “ad nutum” del rapporto su iniziativa del como¬dante. Il comodato di un immobile adibito a casa coniugale rientra nell’ipotesi di cui al comma 1 dell’art. 1809 codice civile la cui restituzione è legata al termine dell’utilizzo.
Cass. civ. Sez. I, 8 febbraio 2012, n. 1783 (Famiglia e Diritto, 2012, 6, 558 nota di PATANIA)
In ipotesi di separazione personale dei coniugi, l’assegnazione della casa familiare , in presenza di figli minori o maggiorenni non autosufficienti, spetta di preferenza e ove possibile (perciò non necessariamente) al coniu¬ge cui vengano affidati i figli medesimi, mentre, in assenza di figli, può essere utilizzata come strumento per realizzare (in tutto o in parte) il diritto al mantenimento del coniuge privo di adeguati redditi propri; nel primo caso, trattandosi di provvedimento da adottare nel preminente interesse della prole, il giudice può provvedere alla suddetta assegnazione anche in mancanza di specifica domanda di parte, mentre, nel secondo caso, trat¬tandosi di questione concernente il regolamento dei rapporti patrimoniali tra coniugi, la suddetta assegnazione presuppone un’apposita domanda del coniuge richiedente il mantenimento, onde non è configurabile in ogni caso un dovere (e un potere) del giudice di identificare ed assegnare comunque la casa familiare anche in assenza di qualsivoglia istanza in tal senso.
Cass. civ. Sez. III, 31 gennaio 2012, n. 1367 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di assegnazione della casa familiare , inizialmente disposta – come nella specie – con ordinanza del presidente del tribunale e poi oggetto di revoca, da parte del tribunale, con la sentenza che definisce il processo di separazione personale tra i coniugi, la natura speciale del diritto di abitazione, ai sensi dell’art.155-quater cod. civ., è tale per cui esso non sussiste senza allontanamento dalla casa familiare di chi non ne è titolare e, corrispon¬dentemente, quando esso cessa di esistere per effetto della revoca, determina una situazione simmetrica in capo a chi lo ha perduto, con necessario allontanamento da parte di questi; ne consegue che il provvedimento ovvero la sentenza rispettivamente attributivi o di revoca costituiscono titolo esecutivo, per entrambe le situazioni, anche quando l’ordine di rilascio non sia stato con essi esplicitamente pronunciato. (Principio affermato dalla S.C. con riguardo all’opposizione, esperita dalla coniuge già assegnataria della casa familiare, al precetto notificatole dall’al¬tro coniuge per il rilascio dell’immobile, sulla base della sola sentenza del tribunale di revoca dell’attribuzione).
Cass. civ. Sez. I, 11 novembre 2011, n. 23631 (Famiglia e Diritto, 2012, 5, 476 nota di ALVISI)
In tema di cessazione degli effetti civili del matrimonio, non può disporsi l’assegnazione parziale della casa fa¬miliare, a meno che l’unità immobiliare sia del tutto autonoma e distinta da quella destinata ad abitazione della famiglia, ovvero questa ecceda per estensione le esigenze della famiglia e sia agevolmente divisibile. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza che aveva disposto l’assegnazione parziale, in favore del coniuge non affidatario dei figli, della porzione immobiliare posta al piano sottostante, pur in mancanza di prova, tra l’altro, dell’autonomia dalla restante parte dell’abitazione familiare).
Cass. civ. Sez. I, 15 settembre 2011, n. 18863 (Famiglia e Diritto, 2012, 6, 579 nota di VESTO)
In tema di assegnazione della casa familiare , l’art. 155-quater c.c., applicabile anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, tutela, come noto, l’interesse prioritario della prole a permanere nell’habitat do¬mestico di cui ha usufruito insieme ai genitori; difatti, la casa familiare viene assegnata al genitore a cui il figlio viene prevalentemente collocato, pur se l’immobile è di proprietà esclusiva dell’altro genitore.
Trib. Padova Sez. I, 1 settembre 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando un terzo abbia concesso in comodato un immobile perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento – pronunziato nel giudizio di separazione o di divorzio – di autorizzazione di uno dei coniugi ad abitare nella stessa casa, emesso al di fuori della previsione e dei limiti normativi dell’art. 155, comma 4, c.c. – in quanto pronunziato in assenza del provvedimento di affidamento della prole -, non impone al comodante alcun obbligo di consentire la continuazione del godimento del bene, essendo cessata, al momento della separazione personale dei coniugi, la destinazione di questo a casa familiare. Ne consegue che l’occupante dell’alloggio non è in possesso di alcun titolo opponibile al comodante, legittimato, a chiedere il rilascio dell’immobile.
Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2011, n. 16126 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ assegnazione della casa familiare non è una componente in natura dell’assegno di mantenimento. In tema di separazione personale dei coniugi, ai fini dell’accertamento del diritto all’assegno di mantenimento e della sua determinazione, occorre considerare la complessiva situazione di ciascuno dei coniugi e, quindi, tener conto, oltre che dei redditi in denaro, di ogni altra utilità economicamente valutabile, ivi compresa la disponibilità della casa coniugale.
Cass. civ. Sez. I, 4 luglio 2011, n. 14553 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ assegnazione della casa familiare prevista dall’art. 155 quater cod. civ., rispondendo all’esigenza di conser¬vare l’”habitat” domestico, inteso come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare, è consentita unicamente con riguardo a quell’immobile che abbia costituito il centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza, con esclusione di ogni altro immobile di cui i coniugi aves¬sero la disponibilità e che comunque usassero in via temporanea o saltuaria. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, ha rigettato la domanda di assegnazione della “casa familiare”, relativa ad immobile acquistato allo stato di rustico, oggetto di lavori di completamento ed occasionalmente utilizzato dalla famiglia, durante il matrimonio, nel solo periodo estivo).
Cass. civ. Sez. III, 21 giugno 2011, n. 13592 (Contratti, 2011, 12, 1103, nota di COLUCCI)
Il comodato, stipulato senza prefissione di termine, di un immobile successivamente adibito, per inequivoca e comune volontà delle parti contraenti, ad abitazione di un nucleo familiare di fatto, costituito dai conviventi e da un figlio minore, non può essere risolto in virtù della mera manifestazione di volontà “ad nutum” espressa dal comodante ai sensi dell’art. 1810, primo comma, ultima parte, cod. civ., dal momento che deve ritenersi impres¬so al contratto un vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari idoneo a conferire all’uso cui la cosa è destinata il carattere implicito della durata del rapporto, anche oltre la crisi familiare tra i conviventi. Ne conse¬gue che il rilascio dell’immobile, finché non cessano le esigenze abitative familiari cui esso è stato destinato, può essere richiesto, ai sensi dell’art. 1809, secondo comma, cod.civ., solo nell’ipotesi di un bisogno contrassegnato dall’urgenza e dall’imprevedibilità.
Cass. civ. Sez. I, 20 aprile 2011, n. 9079 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’art. 156, secondo comma, cod. civ. stabilisce che il giudice debba determinare la misura dell’assegno “in rela¬zione alle circostanze ed ai redditi dell’obbligato”, mentre l’ assegnazione della casa familiare, prevista dall’art. 155 quater cod. civ., è finalizzata unicamente alla tutela della prole e non può essere disposta come se fosse una componente dell’assegno previsto dall’art. 156 cod. civ.; tuttavia, allorché il giudice del merito abbia revocato la concessione del diritto di abitazione nella casa coniugale (nella specie, stante la mancanza di figli della coppia), è necessario che egli valuti, una volta in tal modo modificato l’equilibrio originariamente stabilito fra le parti e venuta meno una delle poste attive in favore di un coniuge, se sia ancora congrua la misura dell’assegno di mantenimento originariamente disposto.
Cass. civ. Sez. II, 12 aprile 2011, n. 8361 (Nuova Giur. Civ., 2011, 11, 1157 nota di GALASSO
L’accordo tra i coniugi che dispone l’assegnazione della casa familiare in favore del coniuge affidatario dei figli costituisce in capo allo stesso un diritto personale di godimento opponibile al terzo acquirente e destinato a con¬servare la sua efficacia anche oltre il raggiungimento della maggiore età dei figli stessi ove ne persista l’interesse a risiedervi e sempreché venga accertata la relativa mancanza di autonomia economica.
Cass. civ. Sez. VI, 11 marzo 2011, n. 5907 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel contratto di comodato, il termine finale – che rileva, ai sensi degli artt. 1809 e 1810 cod. civ., ai fini della restituzione del bene in oggetto – può risultare dall’uso cui la cosa deve essere destinata solo in quanto tale uso abbia in sé connaturata una durata predeterminata nel tempo; in tema di comodato immobiliare, pertanto, ove manchi una particolare prescrizione di durata, l’uso corrispondente alla generica destinazione dell’immobile configura un comodato a tempo indeterminato e, perciò, a titolo precario, e, dunque, revocabile “ad nutum” da parte del comodante, a norma dell’art. 1810 cod. civ.
Cass. civ. Sez. III, 28 febbraio 2011, n. 4917 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di concessione in comodato da parte di un terzo di un bene immobile di sua proprietà perché sia de¬stinato a casa familiare, il provvedimento emesso in corso di separazione di assegnazione della casa coniugale ad uno dei due coniugi non è opponibile al comodante se lo stesso chieda la restituzione dell’immobile nell’ipotesi di sopravvenuto bisogno, caratterizzato dai requisiti della urgenza e della non previsione, come disposto dall’art. 1809 c.c..
Corte cost. 11 febbraio 2011, n. 47 (Famiglia e Diritto, 2012, 1, 17 nota di ALVISI)
È inammissibile, in riferimento agli artt. 3, 24, 29, 30 e 31 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 155-quater, 2652 e 2653 c.c. nella parte in cui non contemplano la trascrivibilità della domanda giudiziale di assegnazione della casa familiare contenuta in un ricorso per separazione giudiziale, proposto dal coniuge che non sia titolare di diritti reali o di godimento sull’immobile, e che richieda l’affidamento della prole.
È inammissibile per difetto di legittimazione del rimettente la questione incidentale relativa alla trascrivibilità della domanda di assegnazione della casa familiare sollevata nel corso di un procedimento di reclamo ex art. 2674-bis c.c., posto che tale procedimento non ha carattere giurisdizionale.
Cass. civ. Sez. Unite, 9 febbraio 2011, n. 3168 (Contratti, 2011, 7, 668, nota di DELLA CHIESA)
Nel contratto di comodato, il termine finale può, a norma dell’art. 1810 cod. civ., risultare dall’uso cui la cosa dev’essere destinata, in quanto tale uso abbia in sé connaturata una durata predeterminata nel tempo; in man¬canza di tale destinazione, invece, l’uso del bene viene a qualificarsi a tempo indeterminato, sicché il comodato deve intendersi a titolo precario e, perciò, revocabile “ad nutum” da parte del proprietario.
Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2010, n. 23591 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione, l’ assegnazione della casa familiare postula l’affida-mento dei figli minori o la convi¬venza con i figli maggiorenni non ancora autosufficienti; in assenza di tale condizione non può essere disposta a favore del coniuge proprietario esclusivo, neppure qualora l’eccessivo costo di gestione ne renda opportuna la vendita, se i figli sono affidati all’altro coniuge in quanto eventuali interessi di natura economica assumono rilievo nella misura in cui non sacrifichino il diritto dei figli a permanere nel loro habitat domestico.
Cass. civ. Sez. I, 11 agosto 2010, n. 18619 (Famiglia e Diritto, 2011, 2, 121 nota di MAGLI)
L’effettività della destinazione a casa familiare da parte del comodante non può essere desunta dalla mera natura immobiliare del bene concesso, ma implica un accertamento in fatto, che postula una specifica verifica della comune intenzione delle parti attraverso una valutazione globale del contesto nel quale il contratto si è perfezionato, della natura dei rapporti tra le medesime, degli interessi perseguiti e di ogni altro elemento che possa fare luce sulla effettiva intenzione di dare e ricevere il bene allo specifico fine della sua destinazione a casa familiare.
Cass. civ. Sez. I, 28 aprile 2010, n. 10222 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Come per tutti i provvedimenti conseguenti alla pronuncia di separazione o di divorzio, anche per l’ assegnazio¬ne della casa familiare vale il principio generale della modificabilità in ogni tempo per fatti sopravvenuti, non essendo a ciò ostativa la mancanza di una espressa previsione nell’art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come sostituito dall’art. 13 della legge 6 marzo 1987 n. 74; la predetta modificabilità, al pari di quella prevista specificamente per l’affidamento dei figli, nonché per la misura e le modalità dell’assegno divorzile, costituisce infatti un principio generale che trascende la specifica previsione normativa, pur quando, come nella specie, l’originaria statuizione sia stata espressamente giustificata a titolo di integrazione delle disposizioni di carattere economico, sul presupposto, venuto meno in concreto, della presenza dei figli minori non economicamente auto¬sufficienti, potendo semmai giustificarsi, in tale situazione, una rideterminazione dell’assegno divorzile.
Cass. civ. Sez. I, 19 aprile 2010, n. 9277 (Famiglia e Diritto, 2010, 8-9, 770 nota di LIUZZI)
Nel regime della legge n. 54 del 2006 sono impugnabili con il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111, co. 7, Cost., i provvedimenti emessi dalla Corte d’Appello, sezione per i minorenni, in sede di reclamo avverso i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 317-bis, relativamente all’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio ed alle conseguenti statuizioni economiche, ivi compresa l’assegnazione della casa familiare e ove il giudice ritenga necessario stabilire un assegno periodico a favore dei figli, ai fini della determinazione di tale assegno, vale, anche nei procedimenti di cui all’art. 317-bis, in forza del rinvio operato dall’art. 4, co. 2, legge n. 54/2006, la disciplina dettata dal novellato art. 155, co. 4, c.c..
Corte cost. 14 gennaio 2010, n. 7 (Foro It. 2010, 6, 1, 1721)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, 3° comma, legge 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui non prevede che, in caso di cessazione della convivenza more uxorio, al conduttore di immobile ad uso abitativo succeda nel contratto di locazione il convivente rimasto ad abitare nell’immobile locato, pure in mancanza di prole comune, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost..
Cass. civ. Sez. I, 17 dicembre 2009, n. 26586 (Foro It., 2010, 6, 1, 1821)
In tema di separazione personale dei coniugi, l’art. 155, quarto comma, cod. civ. (nel te-sto, applicabile “ratione temporis”, anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 1 della legge 8 febbraio 2006, n. 54), il quale dispone che l’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza, e ove sia possibile, al coniuge cui vengono affidati i figli, non detta una regola assoluta che rappresenti una conseguenza automatica del provvedimento di affidamento, ma attribuisce un potere discrezionale al giudice, il quale può pertanto limitare l’assegnazione a quella parte della casa familiare realmente occorrente ai bisogni delle persone conviventi nella famiglia, tenendo conto, nello stabilire le concrete modalità dell’ assegnazione, delle esigenze di vita dell’altro coniuge e delle possibilità di godimento separato e autonomo dell’immobile, anche attraverso modesti accorgimenti o piccoli lavori.
Cass. civ. Sez. I, 13 novembre 2009, n. 24104 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini della sussistenza del vincolo pertinenziale tra bene principale e bene accessorio è necessaria la presenza del requisito soggettivo dell’appartenenza di entrambi al medesimo soggetto, nonchè del requisito oggettivo della contiguità, anche solo di servizio, tra i due beni, ai fini del quale il bene accessorio deve arrecare una utilità al bene principale e non al proprietario di esso; ne discende che l’ assegnazione della casa coniugale deve intendersi estensibile al box, quale pertinenza della cosa principale, qualora questo sia oggettivamente al servizio dell’appartamento, essendo situato sullo stesso palazzo, ed entrambi gli immobili appartengano ad un solo coniuge.
Cass. civ. Sez. I, 4 novembre 2009, n. 23411 (Famiglia e Diritto, 2010, 2, 113 nota di DOSI)
Sono ricorribili per Cassazione, nel regime dettato dalla legge n. 54/2006, i provvedimenti emessi, ai sensi dell’art. 317-bis c.c., in sede di reclamo, relativi all’affidamento dei figli e alle relative statuizioni economiche, ivi compresa l’assegnazione della casa familiare, anche nel caso di genitori non sposati.
Cass. civ. Sez. I, 30 ottobre 2009, n. 23032 (Fam. Pers. Succ., 2010, 7, 501 nota di ASTIGGIANO)
È ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. il provvedimento emesso dalla Corte di Appello, Sezione per i minorenni, ai sensi dell’art. 317-bis c.c., in sede di reclamo, relativo all’affidamento dei figli di genitori non coniugati ed alle relative statuizioni economiche, ivi compresa l’assegnazione della casa familiare.
Cass. civ. Sez. III, 30 aprile 2009, n. 10104 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione personale dei coniugi, il provvedimento di assegnazione della casa familiare determina una cessione “ex lege” del relativo contratto di locazione a favore del coniuge assegnatario e l’estinzione del rapporto in capo al coniuge che ne fosse originariamente conduttore; tale estinzione si verifica anche nell’ipotesi in cui entrambi i coniugi abbiano sottoscritto il contratto di locazione, succedendo in tal caso l’assegnatario nella quota ideale dell’altro coniuge.
Cass. civ. Sez. II, 17 aprile 2009, n. 9310 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’ assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi in sede di divorzio è atto che, quando sia opponibile ai terzi, incide sul valore di mercato dell’immobile; ne consegue che, ove si proceda alla divisione giudiziale del medesimo, di proprietà di entrambi i coniugi, si dovrà tener conto, ai fini della determinazione del prezzo di vendita, dell’esistenza di tale provvedimento di assegnazione, che pregiudica il godimento e l’utilità economica del bene rispetto al terzo acquirente.
Cass. civ. Sez. I, 27 febbraio 2009, n. 4816 (Giur. It., 2009, 12, 2676 nota di BELLEZZA)
L’assegnazione della casa familiare prevista all’art. 155, 4° comma, c.c. è consentita unicamente con riguardo a quell’immobile che abbia costituito il centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza, con esclusione di ogni altro immobile di cui i coniugi abbiano la disponibilità. (Nella specie la moglie separata aveva chiesto l’assegnazione come casa coniugale di un appartamento, differente da quello in cui la fa-miglia aveva vissuto, maggiormente rispondente ai desideri ed alle necessità quotidiane della figlia adolescente).
Corte cost. 30 luglio 2008, n. 308 (Famiglia e Diritto, 2009, 1, 62)
Non è fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 155-quater, primo comma, c.c., introdotto dall’art. 1, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54, anche in combinato disposto con l’art. 4 della stessa legge, censurato, in riferimento agli artt. 2, 3, 29 e 30 Cost., nella parte in cui prevede la revoca automatica dell’assegnazione della casa familiare nel caso in cui l’assegnatario conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio. Premesso che la dichiarazione di illegittimità di una disposizione è giustificata dalla constatazione che non ne è possibile un’interpretazione conforme a Costituzione e premesso, altresì, che l’evoluzione normativa e giurisprudenziale evidenzia come non solo la decisione sulla assegnazione della casa familiare , ma anche quella sulla cessazione della stessa, sono sempre state subordinate, pur nel silenzio della legge, ad una valutazione, da parte del giudice, di rispondenza all’interesse della prole, la norma censurata non viola gli indicati parametri ove sia interpretata nel senso che l’assegnazione della casa coniugale non venga meno di diritto al verificarsi degli eventi di cui si tratta (instaurazione di una convivenza di fatto, nuovo matrimonio), ma che la decadenza dalla stessa sia subordinata ad un giudizio di conformità all’interesse del minore.
Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 2008, n. 16593 (Famiglia e Diritto, 2008, 12, 1106 nota di AMRAM)
L’assegnazione parziale della casa familiare non può essere disposta laddove il giudice ritenga che la prospettata divisione dell’immobile possa arrecare disagio psicologico al figlio della coppia per il mutamento della sua con¬dizione abitativa (nella specie il minore si vedrebbe costretto a vivere in un immobile grande la metà e, quindi, profondamente diverso da quello in cui aveva fino a quel momento vissuto).
Cass. civ. Sez. I, 16 aprile 2008, n. 9995 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione, e con riferimento al regime vigente in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge 8 febbraio 2006, n. 54, l’instaurazione di una relazione “more uxorio” da parte del coniuge affidatario dei figli minorenni non giustifica la revoca dell’ assegnazione della casa familiare , trattandosi di una circostanza inin¬fluente sull’interesse della prole, a meno che la presenza del convivente non risulti nociva o diseducativa per i minori, ed essendo l’assegnazione volta a soddisfare l’interesse di questi ultimi alla conservazione dell’”habitat” domestico, inteso come centro degli affetti, interessi e consuetudini nei quali si esprime e si articola la vita familiare. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato il decreto impugnato, con cui era stata revocata l’assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario della prole, avendo lo stesso intrapreso una convivenza “more uxorio” in quella medesima casa, divenuta pertanto un centro di riferimento degli affari imprenditoriali del convivente).
Trib. Cassino, 19 ottobre 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio di separazione, l’assegnazione della casa coniugale ad uno dei coniugi ai sensi dell’art. 155 c.c. ricomprende, di regola, non il solo l’immobile, bensì anche i beni mobili, gli arredi ed i servizi che vi si trovano. Tuttavia, nulla esclude che possa essere oggetto di accordo tra le parti il prelievo di alcuni mobili dalla casa fa¬miliare, specie se di proprietà esclusiva di uno dei coniugi.
Cass. civ. Sez. I, 2 ottobre 2007, n. 20688 (Famiglia e Diritto, 2008, 3, 241 nota di MARCHIONDELLI)
In materia di separazione e divorzio, l’assegnazione della casa coniugale postula che i soggetti, alla cui tutela è preordinata, siano figli di entrambi i coniugi, a prescindere dal titolo di proprietà dell’abitazione; ne consegue che deve escludersi il diritto all’ assegnazione al coniuge convivente con un figlio minore che non sia figlio anche dell’altro coniuge.
Corte cost. 27 aprile 2007, n. 142 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2652 e 2653 c.c., censurati, in riferimento agli artt. 3, 24, 29, 30 e 31 Cost., laddove non prevedono la trascrivibilità nei registri immobiliari della domanda giudiziale di assegnazione del diritto di abitazione nella casa familiare, proposta con il ricorso per separazione giudiziale nel quale si domandi l’affidamento dei figli minori. Infatti, dato che il rimettente non precisa se, al momento della pronuncia dell’ordinanza di rimessione, la domanda di assegnazione della casa familiare fosse stata o meno accolta, tale omissione incide sulla rilevanza, poiché l’eventuale accoglimento della domanda di assegnazione renderebbe priva di contenuto la richiesta di trascrizione della domanda stessa, in quanto il richiedente potrebbe trascrivere proprio il provvedimento di assegnazione.
Trib. Monza, 22 marzo 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando un terzo abbia concesso in comodato un bene immobile di cui sia proprietario o usufruttuario perché sia destinato a casa familiare, il successivo specifico provvedimento – pronunciato nel giudizio di separazione o di divorzio – di autorizzazione di uno dei coniugi ad abitare nella stessa casa, emesso dal giudice della separazione al di fuori della previsione e dei limiti normativi dell’art. 155, quarto comma, cod. civ. – in quanto pronunziato in assenza del provvedimento di affidamento della prole -, non impone al comodante alcun obbligo di consentire la continuazione del godimento del bene, essendo cessata, al momento della separazione personale dei coniugi, la destinazione di questo a casa familiare. Ne consegue che, in tale ipotesi, l’occupante dell’alloggio non è in possesso di alcun titolo opponibile al comodante, legittimato, pertanto, a chiedere il rilascio dell’immobile (Cass. n. 9253 del 4 maggio 2005).
Cass. civ. Sez. V, 16 marzo 2007, n. 6192 (Fam. Pers. Succ., 2007, 7, 614 nota di CICALA)
Non è soggetto passivo dell’Ici il coniuge cui in sede di separazione personale (o divorzio) viene giudizialmente assegnata la casa familiare di proprietà dell’altro coniuge, stante la natura non reale di tale diritto.
Cass. civ. Sez. I, 13 febbraio 2007, n. 3179 (Nuova Giur. Civ., 2007, 11, 1, 1274 nota di AL MAUREDEN)
Quando un bene immobile concesso in comodato sia stato destinato a casa familiare, il successivo provvedi¬mento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minori (o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa) emesso nel giudizio di separazione o di divorzio non modifica né la natura né il contenuto del titolo di godimento dell’immobile. Ciò comporta che gli effetti riconducibili al provvedimento giudiziale di assegnazione della casa, che legittima l’esclusione di uno dei coniugi dall’utilizzazione in atto e consente la concentrazione del godimento del bene in favore della persona dell’assegnatario, restano regolati dalla stessa disciplina già vigente nella fase fisiologica della vita matrimoniale. Ne consegue che ove si tratti di comodato senza la fissazione di un termine predeterminato – c.d. precario –, il comodatario è tenuto a restituire il bene quando il comodante lo richieda (art. 1810 cod. civ.) e che il diritto di recesso del proprietario può essere legittimamente esercitato.
Cass. civ. Sez. I, 17 novembre 2006, n. 24498 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne, gravante sul genitore separato non convivente sotto forma di obbligo di corresponsione di un assegno ex art. 156 cod. civ., cessa all’atto del conseguimento, da parte figlio, di uno “status” di autosufficienza economica consistente nella percezione di un reddito corrispondente alla profes¬sionalità – quale che sia – acquisita in relazione alle normali e concrete condizioni di mercato. Ne consegue che, una volta che sia provata la prestazione di attività lavorativa retribuita, resta rimessa alla valutazione del giudice del merito la eventuale esiguità del reddito percepito, al fine di escludere la cessazione dell’obbligo di contributo al mantenimento del figlio a carico del genitore non affidatario.
Cass. civ. Sez. I, 19 ottobre 2006, n. 22491 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto a percepire l’assegno di mantenimento, riconosciuto in sede di separazione personale tra i coniugi, può essere modificato o estinguersi solo mediante la procedura di cui all’art. 710 cod. proc. civ. con la conse¬guenza che il raggiungimento della maggiore età del figlio e la raggiunta autosufficienza economica dello stesso non sono, di per sé, condizioni sufficienti a legittimare “ipso facto”, in assenza di un accertamento giudiziale, la mancata corresponsione dell’assegno, ma determinano unicamente la possibilità per il genitore obbligato di richiedere l’accertamento di tali circostanze.
Cass. civ. Sez. III, 6 giugno 2006, n. 13260 (Foro It., 2006, 9, 1, 2309)
Nell’ipotesi di concessione in comodato da parte di un terzo di un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare , e di successivo provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, emesso nel giudizio di separazione, il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno.
Cass. civ. Sez. II, 13 febbraio 2006, n. 3072 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ove il comodato di un bene immobile sia stato stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare (nella specie: dal genitore di uno dei coniugi), si versa nell’ipotesi del comodato a tempo indeterminato, caratte¬rizzato dalla non prevedibilità del momento in cui la destinazione del bene verrà a cessare. In tal caso, per effet¬to della concorde volontà delle parti, si è impresso allo stesso un vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari (e perciò non solo e non tanto a titolo personale del comodatario) idoneo a conferire all’uso – cui la cosa deve essere destinata – il carattere implicito della durata del rapporto, anche oltre la eventuale crisi coniugale e senza possibilità di far dipendere la cessazione del vincolo esclusivamente dalla volontà, «ad nutum», del como¬dante, salva la facoltà di quest’ultimo di chiedere la restituzione nell’ipotesi di sopravvenienza di un bisogno, ai sensi dell’art. 1809, comma 2, cod. civ., segnato dai requisiti della urgenza e della non previsione.
App. Roma, 30 novembre 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In sede di separazione personale tra i coniugi, l’assegnazione della casa coniugale si estende alle rispettive per¬tinenze dovendo, la stessa, corrispondere alle concrete esigenze del coniuge assegnatario e dei figli minori; è pertanto legittima l’ assegnazione di un locale ad uso autorimessa al coniuge assegnatario della casa coniugale e affidatario dei figli minori che utilizzi la pertinenza per parcheggiarvi la propria autovettura, in quanto da tale as¬segnazione trae una utilità diretta il coniuge e traggono altresì una utilità riflessa i figli minori con lui conviventi.
Cass. civ. Sez. I, 4 maggio 2005, n. 9253 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di assegnazione della casa familiare ex art. 155, comma 4, c.c., la disciplina derivante da tale provve¬dimento non si sostituisce a quella scaturente dal contratto di comodato, i cui diritti ed obblighi si concretano in capo al nuovo comodatario per effetto dell’assegnazione: il coniuge assegnatario dell’alloggio consegue, dunque, un diritto personale atipico di godimento, modellato dalla disciplina del titolo negoziale preesistente, e non un diritto reale di abitazione.
Il giudice della separazione non può disporre l’assegnazione della casa familiare in assenza di figli, in quanto il titolo ad abitare per il coniuge è strumentale alla conservazione della comunità domestica ed è giustificato esclu¬sivamente dall’interesse morale e materiale della prole affidatagli.
Cass. civ. Sez. I, 4 aprile 2005, n. 6975 (Guida al Diritto, 2005, 16, 39, nota di FIORINI)
Il diritto di percepire gli assegni di mantenimento riconosciuti, in sede di divorzio, all’ex coniuge da sentenze pas¬sate in giudicato per i figli minori a lui affidati può essere modificato, ovvero estinguersi del tutto, solo attraverso la procedura prevista dall’art. 710 c.p.c. (oltre che per accordo tra le parti), con la conseguenza che la raggiunta maggiore età e la raggiunta autosufficienza economica del figlio non sono, di per sé, condizioni sufficienti a le¬gittimare, “ipso facto”, la mancata corresponsione dell’assegno.
Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 2005, n. 6278 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nell’ipotesi di concessione in comodato da parte di un terzo di un bene immobile di sua proprietà perché sia de¬stinato a casa familiare , il successivo provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, emesso nel giudizio di separa¬zione o di divorzio, non modifica la natura e il contenuto del titolo di godimento sull’immobile, ma determina una concentrazione, nella persona dell’assegnatario, di detto titolo di godimento, che resta regolato dalla disciplina del comodato, con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentirne la continuazione per l’uso previsto nel con¬tratto, salva la sopravvenienza di un urgente e imprevisto bisogno, ai sensi dell’articolo 1809, comma 2, del c.c. È, pertanto, opponibile al proprietario comodante la suddetta assegnazione giudiziale di casa coniugale, se ricorrono gli indicati presupposti di fatto: destina-zione a casa familiare del bene concesso in comodato e mancata allega¬zione e pro-va, da parte del proprietario comodante, della sopravvenienza di un suo urgente e imprevisto bisogno.
Cass. civ. Sez. II, 15 ottobre 2004, n. 20319 (Famiglia e Diritto, 2005, 6, 611 nota di DE MARZO)
L’assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi, cui l’immobile non appartenga in via esclusiva, instaura un vincolo (opponibile anche ai terzi per nove anni, e, in caso di trascrizione, senza limite di tempo) che ogget¬tivamente comporta una decurtazione del valore della proprietà, totalitaria o parziaria, di cui è titolare l’altro coniuge, il quale da quel vincolo rimane astretto, come i suoi aventi causa, fino a quando il provvedimento non venga eventualmente modificato. Ne consegue che di tale decurtazione deve tenersi conto indipendentemente dal fatto che il bene venga attribuito in piena proprietà all’uno o all’altro coniuge, ovvero venduto a terzi in caso di sua infrazionabilità in natura.
Cass. civ. Sez. Unite, 21 luglio 2004, n. 13603 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando un terzo (nella specie: il genitore di uno dei coniugi) abbia concesso in comodato un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare , il successivo provvedimento – pronunciato nel giudizio di sepa¬razione o di divorzio – di assegnazione in favore del coniuge (nella specie: la nuora del comodante) affidatario di figli minorenni o convivente con figlio maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, non modifica né la natura né il contenuto del titolo di godimento sull’immobile, atteso che l’ordinamento non stabilisce una “funzionalizza¬zione assoluta” del diritto di proprietà del terzo a tutela di diritti che hanno radice nella solidarietà coniugale o postconiugale, con il conseguente ampliamento della posizione giuridica del coniuge assegnatario. Infatti, il prov¬vedimento giudiziale di assegnazione della casa, idoneo ad escludere uno dei coniugi dalla utilizzazione in atto e a “concentrare” il godimento del bene in favore della persona dell’assegnatario, resta regolato dalla disciplina del comodato negli stessi limiti che segnavano il godimento da parte della comunità domestica nella fase fisiologica della vita matrimoniale. Di conseguenza, ove il comodato sia stato convenzionalmente stabilito a termine indeter¬minato (diversamente da quello nel quale sia stato espressamente ed univocamente stabilito un termine finale), il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell’art. 1809 c.c., secondo comma.
Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 2004, n. 5719 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Persistendo l’obbligo del genitore di contribuire al mantenimento dei figli maggiorenni ma non ancora autosuf¬ficienti rimasti a convivere con l’altro genitore, la cessazione di tale obbligo per avere detti figli raggiunto l’indi¬pendenza economica o per averla colpevolmente evitata o per avere cessato di vivere con il genitore richiedente il contributo, deve essere provata – secondo il disposto dell’articolo 2697, comma 2, c.c. – da colui che afferma essersi verificato alcuno dei menzionati fatti, estintivi della propria obbligazione.
Il genitore il quale adempia per intero all’obbligo imposto ad ambedue i coniugi dall’art. 147 c.c., valido anche nei confronti dei figli divenuti maggiorenni ma non ancora, senza loro colpa, autosufficienti economicamente, è legittimato proprio ime a chiedere all’altro genitore di contribuire al mantenimento nella misura che, in mancan¬za d’accordo tra le parti è stabilita dal giudice in conformità al criterio di ripartizione dettato dall’articolo 148 e a pretendere tale contributo anche per il futuro, finché non sia accertata la raggiunta indipendenza economica della prole.
Corte cost. 11 giugno 2003, n. 204 (Foro It. 2003, 1, 2222)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 L. 392/78, nella parte in cui non prevede che, in caso di cessazione della convivenza more uxorio, il convivente rimasto nella detenzione dell’immobile adibito ad abitazione succeda al conduttore nel contratto di locazione anche in mancanza di prole comune, in riferimento all’art. 3 Cost.
Cass. civ. Sez. Unite, 26 luglio 2002, n. 11096 (Giur. It., 2003, 1133 nota di CARRINO)
Ai sensi dell’art. 6, 6° comma, della L. 1° dicembre 1970, n. 898 (nel testo riformato dall’art. 11 della legge n. 74 del 1987) – dettato con riguardo al procedimento di divorzio, ma applicabile anche in caso di separazione per¬sonale dei coniugi – il provvedimento giudiziale di assegnazione in uso della casa familiare , in quanto avente data certa, è opponibile al terzo acquirente l’immobile (in data successiva al provvedimento di assegnazione), anche se non trascritto nei limiti di un novennio, decorrenti dalla data del provvedimento, ovvero anche dopo i nove anni, ove il titolo sia in precedenza trascritto.
Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2002, n. 4765 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo gravante sui genitori di concorrere al mantenimento del figlio divenuto maggiorenne non cessa automa¬ticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma persiste finché il genitore o i genitori interessati dimo¬strino che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica, ovvero è stato da loro posto nelle concrete condizioni per essere autosufficiente (nella fattispecie, la Corte di cassazione non ha ravvisato profili di colpa nella condotta del figlio che ha rifiutato una sistemazione lavorativa ritenendola non adeguata alla sua specifica preparazione, alle sue attitudini ed ai suoi interessi, se contenute nei limiti temporali in cui dette aspirazioni abbiano una ragio¬nevole possibilità di essere realizzate, e compatibilmente con le condizioni economiche della famiglia).
Cass. civ. Sez. I, 17 settembre 2001, n. 11630 (Giust. Civ., 2002, I, 55 nota di FINOCCHIARO)
L’assegnazione, in sede di divorzio come di separazione personale dei coniugi, della casa familiare al coniuge affidatario dei figli minori integra un diritto personale atipico di godimento, il quale non costituisce un peso sull’immobile destinato ad abitazione, come avviene per un diritto reale. Detta assegnazione non può, pertanto, essere presa in considerazione in sede di determinazione del valore dell’immobile, in caso di divisione, tra i co¬niugi, dell’immobile stesso ove comune (e il valore del cespite, quindi, deve essere accertato, ai fini del giudizio di divisione, come se non esistesse il provvedimento di assegnazione in questione).
Cass. civ. Sez. I, 16 giugno 2000, n. 8235 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il diritto di percepire gli assegni di mantenimento riconosciuti, in sede di separazione, da sentenze passate in giudicato o, come nella specie, da verbali di separazione consensuale omologata può essere modificato, ovvero estinguersi del tutto, solo attraverso la procedura prevista dall’art. 710 c.p.c. (oltre che per accordo tra le parti), con la conseguenza che la raggiunta maggiore età del figlio (minore all’epoca della separazione) e la raggiunta autosufficienza economica del medesimo non sono, di per sè, condizioni sufficienti a legittimare, “ipso facto”, la mancata corresponsione dell’assegno.
Cass. civ. Sez. III, 17 luglio 1996, n. 6458 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando la casa familiare, concessa in comodato ai coniugi per il tempo della loro convivenza, in sede di separa¬zione personale degli stessi sia assegnata, ai sensi dell’articolo 155, comma 4 codice civile, al coniuge affidatario dei figli, questi succede nella titolarità del rapporto di comodato, in applicazione analogica dell’art. 6 legge 27 luglio 1978 n. 392 (sull’equo canone) ricorrendo la medesima ratio dell’interesse della prole a non abbandonare la casa familiare, e giustificandosi l’estensione della suddetta norma ad ogni ipotesi in cui i coniugi si siano pro¬curati l’uso dell’abitazione familiare sulla base di un contratto di godimento.
Cass. civ. Sez. III, 26 gennaio 1995, n. 929 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il coniuge assegnatario della casa familiare ai sensi dell’art. 155, comma 4, codice civile subentrato per effetto del provvedimento di assegnazione della stessa posizione giuridica del coniuge separato, precedente comodata¬rio dell’appartamento, è tenuto a subire, ai sensi dell’art. 1810 codice civile gli effetti del recesso del comodante, non essendo opponibile ai terzi il provvedimento di assegnazione, attributivo non di un diritto reale, ma di un diritto atipico di godimento.
Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 1990, n. 11787 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il potere del giudice della separazione di assegnare l’abitazione della casa familiare, in deroga al normale regime privatistico, al coniuge affidatario dei figli minori include la facoltà di attribuire alcuni soltanto dei locali di detta casa, quando essi abbiano ampiezza sufficiente per soddisfare le esigenze dei figli e del genitore cui sono affi¬dati, ed altresì abbiano caratteristiche strutturali e funzionali tali da consentirne il distacco con autonoma unità abitativa, con modesti accorgimenti o piccoli lavori, senza opere edili di trasformazione (nella specie, trattandosi del piano di un villino, che poteva con facilità essere reso indipendente dal resto della costruzione).
Cass. civ. Sez. I, 25 maggio 1998, n. 5189 (Famiglia e Diritto, 1998, 6, 570)
In tema di separazione personale dei coniugi, se è vero che l’assegnazione della casa familiare si estende – di norma – anche a mobili ed arredi, nulla vieta ai coniugi di pattuire, anche al di fuori dei poi omologati accordi di separazione consensuale, che alcuni mobili , tanto più se di proprietà esclusiva di uno di loro, siano prelevati dalla casa familiare.
Corte Cost. 13 maggio 1998, n. 166 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è fondata, nei sensi di cui in motivazione, con riferimento agli artt. 3 e 30 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 155, comma 4, cod. civ., nella parte in cui non prevede la possibilità di assegnare in godimento la casa familiare al genitore naturale affidatario di un minore, o convivente con prole maggiorenne non economicamente autosufficiente, anche se lo stesso genitore affidatario non sia titolare di diritti reali o di godimento sull’immobile, in quanto posto che la questione deve essere risolta ponendosi sul piano del rapporto di filiazione e delle norme ad esso relative; che l’art. 261 cod. civ. enuncia il fondamentale principio in forza del quale il riconoscimento del figlio naturale comporta, da parte del genitore, l’assunzione di tutti i doveri e di tutti i diritti che egli ha nei confronti dei figli legittimi; che, nello spirito della riforma del diritto di famiglia del 1975, il matrimonio non costituisce più elemento di discrimine nei rapporti tra genitori e figli (legittimi e naturali riconosciuti), identico essendo il contenuto dei doveri, oltreché dei diritti, degli uni nei confronti degli altri, e la condizione giuridica dei genitori tra di loro, in relazione al vincolo coniugale, non può determinare una condizione deteriore per i figli, poiché quell’insieme di regole, che costituiscono l’essenza del rapporto di filiazione e che si sostanziano negli obblighi di mantenimento, di istruzione e di educazione della prole, derivante dalla qualità di genitore, trova fondamento nell’art. 30 Cost., il quale richiama i genitori all’obbligo di responsabilità; che il valore costituzionale di tutela della filiazione trova concreta specificazione nelle disposizioni previste dagli artt. 147 e 148 cod. civ., che, in quanto complessivamente richiamate dal successivo art. 261, devono essere riguardate nel loro contenuto effettivo, indipendentemente dalla menzione legislativa della qualità di coniuge, trattandosi dei medesimi doveri imposti ai genitori che abbiano compiuto il riconoscimento dei figli naturali; e che l’obbligo di mantenimento della prole, sancito dall’art. 147 cod. civ., comprende in via primaria il soddisfacimento delle esigenze materiali, connesse inscindibilmente alla prestazione dei mezzi necessari per garantire un corretto sviluppo psicologico e fisico del figlio, e segnatamente, tra queste, la predisposizione e la conservazione dell’am¬biente domestico, considerato quale centro di affetti, di interessi e di consuetudini di vita, che contribuisce in misura fondamentale alla formazione armonica della personalità del figlio – l’interpretazione sistematica dell’art. 30 Cost. in correlazione agli artt. 261, 146 e 148 cod. civ. impone che l’assegnazione della casa famiglia nell’i¬potesi di cessazione di un rapporto di convivenza “more uxorio”, allorché vi siano figli minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti, deve regolarsi mediante l’applicazione del principio di responsabilità genitoria¬le, il quale postula che sia data tempestiva ed efficace soddisfazione alle esigenze di mantenimento del figlio, a prescindere dalla qualificazione dello “status”.
Cass. civ. Sez. I, 11 marzo 1998, n. 2670 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’obbligo dei genitori di concorrere tra loro secondo le regole dell’art. 148 c.c. al mantenimento dei figli non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma continua invariato finché i genitori o il genitore interessato non provi che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica oppure che è stato da loro posto nella concreta posizione di poter essere autosufficiente, ma non ne abbia tratto profitto per sua colpa. Ne consegue che il genitore il quale contesta la sussistenza del proprio obbligo di mantenimento nei confronti di figli mag¬giorenni che non svolgono attività lavorativa retribuita, è tenuto a fornire la prova della condotta colpevole del figlio che persista in un atteggiamento d’inerzia nella ricerca di un lavoro compatibile con le sue attitudini e la sua professionalità, ovvero di rifiuto di corrispondenti occasioni di lavoro.
Cass. civ. Sez. III, 4 marzo 1998, n. 2407 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poichè l’assegnazione della casa coniugale ad un coniuge, in seguito alla separa-zione, non fa venir meno, in analogia a quanto dispone l’art. 6 l. 27 luglio 1978 n. 392, il contratto di comodato, l’applicazione della relativa disciplina permane e pertanto, se un genitore concede un immobile in comodato per l’abitazione della costituen¬da famiglia non è obbligato al rimborso delle spese, non necessarie nè urgenti, sostenute da un coniuge durante la convivenza familiare per la migliore sistemazione dell’abitazione coniugale.
Cass. civ. Sez. III, 20 ottobre 1997, n. 10258 (Nuova Giur. Civ., 1998, I, 591 nota di DI NARDO)
L’opponibilità al terzo acquirente dell’ assegnazione della casa familiare in sede di separazione dei coniugi o di divorzio, ai sensi dell’art. 6 comma 6 l. n. 898 del 1970, modificato dall’art. 11 l. n. 74 del 1987, in seguito alla trascrizione del relativo provvedimento, corrisponde al contenuto del preesistente titolo in base al quale i coniugi godevano dell’immobile, la cui natura rimane immutata; sicché, qualora il godimento trovi titolo in un contratto di comodato senza determinazione di tempo, il coniuge assegnatario dell’immobile è tenuto a restituirlo al comodante non appena questi lo richieda, ex art. 1810 c.c.
Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 1996, n. 10977 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Quando il provvedimento di assegnazione della casa familiare si renda opponibile e quando – in questo caso – l’al¬loggio in questione fosse utilizzato dai coniugi in virtù di un comodato senza predeterminazione di un termine fina¬le, la durata dell’utilizzazione dell’immobile è governata dalla disciplina fissata nel provvedimento giurisdizionale di assegnazione e non da quella propria del rapporto originario di comodato
Corte cost. 27 luglio 1989, n. 454 (Foro It., 1989, I, 3336 nota di JANNARELLI)
È illegittimo, per violazione degli art. 3, 29 e 31 cost., l’art. 155, 4° comma, c. c., nella parte in cui non prevede la trascrizione del provvedimento giudiziale di assegnazione dell’abitazione nella casa familiare al coniuge affida¬tario della prole, ai fini dell’opponibilità ai terzi.
Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404 (Foro It. 1988, I, 2515, nota di PIOMBO)
È costituzionalmente illegittimo – in riferimento agli art. 2 e 3 cost. – l’art. 6, l. 27 luglio 1978, n. 392 nella parte in cui non prevede la successione nel contratto di locazione al conduttore che abbia cessato la convivenza more uxorio a favore del già convivente quando vi sia prole naturale.
Cass. civ. Sez. I, 27 gennaio 1986, n. 518 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per la configurabilità della pertinenza devono concorrere l’elemento oggettivo, consistente nel rapporto funzio¬nale corrente tra la cosa principale e quelle accessorie, l’elemento soggettivo della destinazione pertinenziale, consistente nella volontà effettiva del titolare della proprietà, o di altro diritto reale, sui beni collegati di destinare durevolmente la cosa accessoria al servizio od all’ornamento di quella principale; non è pertanto configurabile come pertinenza, rispetto ad un alloggio economico popolare (di cui non è suscettibile per ciò di condividere il regime giuridico), l’autorimessa costruita e locata da un Iacp successivamente all’ assegnazione dell’alloggio medesimo e con la stipula di un separato contratto, che la assuma come autonoma entità giuridica.
Cass. civ. Sez. I, 9 dicembre 1983, n. 7303 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nel giudizio di separazione, l’assegnazione della casa coniugale ad uno dei coniugi, ai sensi dell’art. 155, 4° comma, c. c., ricomprende, per la necessaria tutela della prole minore, non il solo immobile, ma anche i mobili , gli arredi, gli elettrodomestici ed i servizi, con l’eccezione dei beni strettamente personali che soddisfano esi¬genze peculiari del coniuge privato del godimento della casa familiare ; tale diritto di uso dei mobili , essendo strumentale al godimento dell’immobile, è destinato a cessare quando l’assegnatario perda la disponibilità dello stabile, con la conseguenza che il coniuge che è stato privato del godimento di tali mobili , può reclamare quelli di sua appartenenza esclusiva o richiedere la divisione di quelli comuni, salvo che, in considerazione del perma¬nere di fondate esigenze del nucleo familiare, il giudice autorizzi il trasferimento dei mobili fin allora goduti nel nuovo alloggio.

Azienda coniugale e azienda personale

Di Gianfranco Dosi

I Impresa e azienda nel regime di comunione e di separazione dei beni
Un’attività imprenditoriale può essere esercitata da un coniuge personalmente o insieme all’altro coniuge. La disciplina giuridica applicabile alle due situazioni è influenzata dal regime patrimoniale.
In separazione dei beni l’esercizio personale di una attività imprenditoriale da parte di un coniuge non ha particolari conseguenze essendo i beni aziendali in genere di esclusiva proprietà dell’imprenditore che li utilizza e quindi non si producono particolari interferenze con l’altro coniuge. L’esercizio in comune da parte dei coniugi, invece, di un’attività imprenditoriale, si traduce in una gestione societaria e di conseguenza le regole applicabili sono quelle della società.
Il regime di comunione legale, influenza, viceversa in modo significativo la disciplina dell’azienda e dell’impresa dei coniugi, nel senso che l’esercizio di una attività imprenditoriale da parte di un coniuge determina l’ingresso in comunione de residuo dei beni (se l’impresa è costituita dopo il matrimonio) o degli incrementi (se l’impresa era già esistente da prima del matrimonio), mentre se l’impresa è cogestita i beni aziendali ovvero gli utili e gli incrementi entrano in comunione immediata a seconda che l’azienda sia costituita dopo il matrimonio o fosse personale di uno dei due coniugi da prima del matrimonio. La gestione, quindi, da parte del solo coniuge imprenditore comporta acquisizioni alla comunione de residuo, mentre la cogestione dell’impresa determina acquisizioni in comunione immediata. In quest’ultimo caso, per quanto, attiene alla disciplina dell’impresa (cogestita) troveranno, però, applicazione sempre le sole regole societarie essendo inconcepibile nel nostro sistema una comunione di impresa in quanto un’impresa collettiva è sempre una impresa societaria.
Come si vedrà, la giurisprudenza in materia di azienda e impresa dei coniugi in regime di comunione, pur significativa, è numericamente contenuta, segno evidente che nella realtà della vita sociale l’attività imprenditoriale è evidentemente soprattutto esercitata da coniugi in regime di separazione dei beni. E, come si è sopra detto, la separazione dei beni non interferisce quasi per nulla con l’attività imprenditoriale separata o comune dei coniugi.
Con queste premessa di carattere generale è ora possibile scendere all’esame del diverse tipologia che il codice civile prevede in caso di azienda e di impresa dei coniugi, con particolare riferimento alle interferenze con la comunione legale.
II Azienda coniugale (cogestita) e comunione immediata dell’azienda
L’espressione “azienda coniugale” non è una espressione usata genericamente, ma si riferisce – nella lettera d dell’art. 177 (oggetto della comunione)1 – all’azienda costituita dai coniugi in comunione legale dopo il matrimonio e cogestita da entrambi.
1 177 (Oggetto della comunione)
L’azienda costituita da entrambi i coniugi dopo il matrimonio (si pensi a due coniugi entrambi fotografi – in regime di comunione dei beni – che avviano una impresa da esercitare insieme e che acquistano i macchinari e le attrezzature necessarie) fa parte della comunione immediata in quanto l’acquisto dei beni aziendali è effettuato insieme dopo il matrimonio. Si tratta in fondo di un acquisto che come tutti gli acquisti fanno entrare il bene in comunione. D’altro lato l’azienda – come definita nell’art 2555 – è “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” ed è quindi conseguenziale che l’art. 177 consideri l’azienda coniugale come un insieme di beni (acquistati come beni strumentali dell’impresa) che hanno a che fare con la comunione.
Oggetto della comunione è quindi, l’azienda (e quindi i beni che compongono). Si ricorda che l’art, 179 (beni personali) alla lettera d esclude che siano beni personali, appunto, i beni destinati alla conduzione di una azienda facente parte della comunione.
La gestione comune da parte dei coniugi in comunione di una determinata impresa imprime ai beni destinati a quell’impresa la natura di un acquisto che ne giustifica l’inclusione nella comunione dei beni.
Con l’espressione “azienda coniugale” ci si riferisce quindi al complesso dei beni destinati da coniugi in comunione legale all’esercizio di una impresa costituita dopo il matrimonio e da essi cogestita durante il matrimonio.
Può trattarsi di beni immobili (locali commerciali, una fabbrica, capannoni) o beni mobili (strumenti di lavoro, attrezzature, mobilio) o anche mobili registrarti (autovetture, camion).
La collocazione di questa situazione all’interno della comunione dei beni (art. 177 c.c.) giustifica il nome che l’istituto ha. Non impresa coniugale ma “azienda coniugale” proprio per richiamare la dimensione dell’acquisto dei beni necessari per l’esercizio di una impresa. In ogni caso l’azienda coniugale è, da un punto di cista dinamico, una vera e propria impresa coniugale.
È appena il caso di osservare che se l’azienda non fosse cogestita dai coniugi – e quindi se fossimo in presenza di una azienda personale di uno dei coniugi (gestita, perciò, solo dal coniuge proprietario dell’azienda) – si verificherebbe la situazione descritta nell’art. 178 e i beni e gli incrementi aziendali entrerebbero in comunione de residuo.
III Azienda personale (cogestita) e comunione immediata degli utili e degli incrementi
Il codice si riferisce all’“azienda personale” per fare riferimento a quanto prevede il capoverso dell’art. 177 (“Qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi”). Si tratta di una azienda, quindi, appartenente ad uno dei coniugi da prima del matrimonio e, tuttavia, cogestita da entrambi.
L’ipotesi è quella in cui i beni aziendali (nell’esempio di sopra i macchinari e le attrezzature di fotografia) sono di proprietà da prima del matrimonio di uno dei coniugi che li aveva destinati alla propria attività imprenditoriale. Questi beni rimangono evidentemente beni personali (art. 179, lettera a) del coniuge imprenditore che li ha acquistati. In questo senso l’azienda è “appartenente” al coniuge imprenditore. Tuttavia, se dopo il matrimonio il coniuge imprenditore proprietario di quei beni chiama l’altro a partecipare e a gestire l’azienda, questa gestione comune fa sì che (non l’azienda ma solo) gli utili e gli incrementi dell’azienda entrino nella comunione immediata, avvantaggiando anche il coniuge non proprietario in virtù del fatto che anche lui gestisce l’azienda. Utili ed incrementi vengono pertanto equiparati agli acquisti ed entrano in comunione come tali.
Gli incrementi sono tutti gli acquisti effettuati dai coniugi successivamente all’inizio della cogestione aziendale insieme o separatamente. Gli utili sono i vantaggi monetari detratte le spese derivanti dalla cogestione. Oggetto della comunione è una entità (appunto gli utili) che può essere facilmente desunta dalla contabilità aziendale e dalla documentazione fiscale. E’ un caso in cui oggetto della comunione è in sostanza il denaro che normalmente non entra in comunione immediata ma in comunione de residuo.
Anche in questo caso se l’azienda personale di uno dei coniugi non fosse cogestita da entrambi si verificherebbe la situazione descritta nell’art. 178 e gli incrementi dell’azienda entrerebbero in comunione de residuo.
IV Azienda personale (gestita dal solo coniuge imprenditore) e comunione de residuo
L’art. 178 c.c. 2 prevede – analogamente a quanto si verifica in caso di proventi non consumati di attività separata (art. 177 lett. c) – che i beni aziendali di uno dei coniugi entrano nella comunione di residuo, se esistenti ancora al momento dello scioglimento del regime, a condizione che si tratti di “beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio” e di “incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente” e perciò anche dell’impresa costituita dopo il matrimonio.
L’azienda (costituita dopo il matrimonio o esistente da prima del matrimonio) è di proprietà del coniuge imprenditore che rimane tale senza che l’altro coniuge sia chiamato a cogestirla.
Si verifica una situazione che è molto simile a quella dei risparmi dei coniugi in comunione. In pratica i beni
Costituiscono oggetto della comunione:
a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali;
b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione;
c) i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati;
d) le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio.
Qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi.
2 178 (Beni destinati all’esercizio di impresa)
I beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa.

aziendali dell’impresa di un coniuge acquistati dopo il matrimonio e gli incrementi aziendali dell’impresa di uno dei coniugi (iniziata prima o dopo il matrimonio) diventano anche dell’altro coniuge se esistenti al momento dello scioglimento del regime della comunione legale.
Si tratta perciò di “beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio” e di “incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente” che secondo l’art. 178 “si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa”.
In definitiva, i beni che il coniuge imprenditore destina alla sua impresa costituita dopo il matrimonio non entrano in comunione immediata ma, se esistenti al momento dello scioglimento della comunione, fanno parte della comunione de residuo.
Altrettanto avviene per i beni destinati ad un’impresa che il coniuge esercitava già da prima del matrimonio. In tal caso, appunto, resteranno in comunione de residuo gli incrementi di tale impresa.
Il diritto del coniuge non imprenditore sugli incrementi, al momento dello scioglimento della comunione legale, ha natura di diritto di credito.
Il codice tratta quindi i beni (della nuova impresa di un coniuge) e gli incrementi (dell’impresa già avviata da un coniuge da prima del matrimonio) come proventi di attività separata e li destina alla comunione de residuo.
VI concetti di gestione e di cogestione
a) Proprietà dei beni aziendali e gestione dell’impresa sono due piani diversi
Come si è visto, oggetto della comunione immediata nel caso dell’azienda coniugale prevista nell’art. 177 lett. d (comunione dell’azienda) e nel caso dell’azienda personale prevista nel capoverso del medesimo art. 177 (comunione degli utili e degli incrementi) è la cogestione. Non c’è invece nessuna cogestione della situazione descritta nell’art. 178.
In entrambe le situazioni, per potersi parlare di comunione immediata dell’azienda ovvero degli utili e degli incrementi, elemento imprescindibile è che l’azienda sia cogestita. E ciò, indipendentemente dal fatto che l’azienda sia stata costituita da entrambi i coniugi dopo il matrimonio (azienda coniugale) o che appartenesse ad uno dei coniugi prima del matrimonio (azienda personale) (Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2004, n. 13164; App. Milano, 10 maggio 2006).
In verità il termine cogestione fa riferimento logico ad una situazione dinamica, quindi all’impresa esercitata dai coniugi e non ad un elemento statico come l’azienda. Poiché però il legislatore ha dato prevalenza all’elemento strutturale del trovarsi i beni aziendali ovvero gli utili e gli incrementi in comunione legale, la norma parla di cogestione dell’azienda, ma tecnicamente si tratta di una cogestione dell’impresa.
Proprio per questo Tribunale Roma 16 settembre 1999 – una delle pochissime sentenze reperibili su questo argomento – ha in passato affermato che cogestire un’impresa significa in sostanza per due coniugi trovarsi tra loro in società di fatto. La sentenza in questione (che si occupò del fallimento di una società di fatto tra due coniugi in comunione che cogestivano un’impresa di commercio di oggetti preziosi) faceva rilevare che “nel caso in cui ambedue i coniugi siano proprietari e cogestiscano l’azienda familiare, ai fini dell’individuazione delle norme applicabili occorre distinguere i rapporti concernenti la proprietà, art. 177 c.c., dai rapporti concernenti la gestione, art. 2247 c.c..
In sostanza il tribunale sostenne che il problema centrale, nel caso di impresa esercitata da entrambi i coniugi nella forma dell’azienda coniugale, è quello di stabilire se all’impresa collettiva, vadano applicate le disposizioni che disciplinano la comunione legale oppure le norme di diritto societario, in quanto vera e propria società di fatto.
La dottrina è stata a lungo impegnata nella questione della sottoposizione della gestione dell’impresa coniugale alla regolamentazione delle società (e, in particolare, a quella della società di fatto) ovvero alla disciplina della comunione legale. Molti hanno sostenuto la tesi dell’applicazione delle norme della comunione negando in radice la stessa possibilità per i coniugi in comunione legale di concludere un contratto di società con cui esercitare in comune l’attività di impresa, con la conseguenza che la gestione in forma societaria di un’azienda di proprietà dei due coniugi sarebbe ammissibile solamente ove la stessa venisse previamente estromessa dalla comunione con una modifica convenzionale (art. 210 c.c.). Altri sono stati propensi a riconoscere, invece, alla disciplina della comunione legale un rilievo tale da non sconvolgere i rapporti con i terzi, ma da esplicarsi per quanto possibile nei soli rapporti interni, ammettendo che la gestione in comune dell’azienda da parte dei coniugi dà luogo ad una società di fatto alla quale dovrà applicarsi tutta la disciplina di tali società, compresa la responsabilità illimitata dei soci come se si trattasse sempre di obbligazioni assunte congiuntamente per le quali i beni della comunione rispondono sempre (art, 186, lett. d) e senza applicazione della regola prevista per le obbligazioni contratte separatamente (art. 189).
Nella scarsissima giurisprudenza reperibile il problema è stato risolto – come si è visto (Tribunale Roma 16 settembre 1999) – ritenendo sempre applicabili alla (co)gestione le regole della società.
In verità precedentemente era anche sta proposta la tesi contraria: che ciò si applicassero le regole della comunione (Trib. Catania, 21 gennaio 1983 affermò, infatti, che un’azienda gestita di fatto da entrambi i coniugi in regime di comunione legale, in assenza di precisi accordi formali, ricade nell’ipotesi di cui all’art. 177, lett. d), cod. civ., ovvero, qualora si tratti di azienda già appartenente ad uno dei coniugi prima del matrimonio, nell’ipotesi di cui al comma 2 del medesimo articolo”).
Secondo questo orientamento più attempato l’applicazione del regime proprio della comunione familiare alla gestione in comune da parte dei coniugi di un’azienda coniugale si giustificherebbe con l’esigenza di evitare (applicandosi altrimenti il più gravoso regime societario) che l’azienda coniugale, concepita a tutela del lavoro coniugale e familiare, possa comportare pesanti conseguenze per il coniuge più debole che ha prestato la propria attività lavorativa nell’azienda del consorte. Tuttavia, all’inquadramento dell’azienda coniugale nell’ambito della comunione legale tra coniugi, osta effettivamente l’impossibilità di configurare imprese collettive non di tipo societario, ma nelle forme della comunione d’impresa. Un’impresa collettiva è nel nostro sistema sempre una impresa societaria.
Non resta, perciò, che distinguere i due aspetti: una cosa è la comunione dell’azienda ed un’altra cosa è l’esercizio collettivo dell’impresa in forma societaria.
Il primo aspetto, che riguarda l’appartenenza dei beni (e cioè la disciplina dell’acquisto dei diritti reali e patrimoniali da parte dei coniugi) rientra nell’ambito di applicazione delle norme di cui all’art. 177, lett. d) e 2° comma, c.c., mentre il secondo aspetto e cioè l’esercizio in comune dell’impresa, troverà la propria disciplina all’interno della materia societaria, posto che, in assenza di una espressa previsione di deroga da parte del legislatore, la disciplina dell’esercizio in comune di una attività economica, non può che essere demandata alle norme in materia di società.
Con la precisazione, importante, che la comunione legale tra coniugi non implica, per ciò stesso, l’esistenza di una società di fatto tra gli stessi, occorrendo sempre la prova della (co)gestione (Cass. civ. Sez. I, 1 giugno 1995, n. 6142 che ammette quindi che due coniugi in comunione possano esercitare un’attività in società).
Seguendo tale interpretazione si perviene alla conclusione che, quando due coniugi utilizzano beni aziendali per l’esercizio in comune di una attività economica, danno luogo ad una società di fatto, regolata secondo gli artt. 2247 e segg. c.c. se vi è la effettiva gestione comune. Le norme di cui all’art. 177, lett. d), e 2° comma, c.c. disciplinano, invece, l’attribuzione della titolarità di determinati beni aziendali, allorquando l’azienda, costituita prima o dopo il matrimonio, sia gestita da entrambi i coniugi.
In questa prospettiva per esempio Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2004, n. 13164 aveva annullato una decisione di merito “in quanto la sentenza impugnata ha fatto applicazione dell’ultimo comma dell’art. 177 cod. civ. che comprende nella comunione familiare gli utili e gli incrementi delle aziende appartenenti a uno dei coniugi anteriormente al matrimonio, ma gestite da entrambi, senza alcun riferimento alla cogestione dell’azienda”.
Va anche considerato che la gestione comune dell’azienda coniugale fa assumere ai coniugi, per ciò stesso, la qualifica di (co)imprenditori, con tutte le conseguenze previste nel caso di insolvenza dalla legge fallimentare (RD 16 marzo 1942, n. 267 nel testo vigente dopo le riforme attuate con il Decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169).
b) Che significa cogestione?
A questo punto occorre chiedersi che cosa significa cogestione.
Su questo aspetto viene spesso richiamata una decisione piuttosto significativa (App. Milano, 10 maggio 2006) nella quale i giudici procedono proprio alla verifica delle modalità di gestione di una impresa di attività di parrucchiere, ritenendo che determinante è verificare il ruolo rispettivamente svolto dai coniugi nella fase gestionale. “Già nella sentenza impugnata si dà correttamente atto che la L. assumeva con il marito le scelte relative all’impiego degli utili, all’assunzione di nuovo personale, agli indirizzi dell’attività e, in particolare, si sottolinea che era la L. che organizzava il lavoro con le dipendenti e gestiva le clienti, che incassava, che verificava le necessità relative ai prodotti e ad eventuale manodopera, in quanto il marito era occupato pressoché per l’intera giornata nel negozio”. Né ad avviso della Corte “pare significativo per escludere la configurabilità di una gestione della L. in comune con il marito che fosse quest’ultimo a mantenere i rapporti con i fornitori ed a gestire il conto corrente relativo all’attività dell’impresa o a consultare il commercialista, al quale trasmetteva la documentazione contabile. Una divisione dei compiti nell’ambito dell’esercizio in comune dell’azienda sembra infatti pienamente rispondente ad un’ottica di efficienza: da una parte il M. seguiva i rapporti con i professionisti e consulenti, dall’altra la L. seguiva gli aspetti più propriamente operativi dell’impresa, che per le sue caratteristiche artigianali si concretizzano soprattutto nello svolgimento in prima persona del “mestiere”, nel tenere i rapporti con la clientela, nell’incassare e rilasciare ricevute fiscali, coordinare e dirigere il personale”
Quindi assumere le scelte relative all’impiego degli utili, all’assunzione di nuovo personale, agli indirizzi dell’attività, all’organizzazione del lavoro dei dipendenti, ai rapporti con i clienti, lasciando che l’altro coniuge si occupi della contabilità e dei rapporti con i fornitori significa cogestire un’azienda.
Spesso un elemento che viene in evidenza è l’avvenuta concessione, da parte del coniuge formalmente estraneo all’attività, di fideiussioni o di altre forme di garanzia a favore dell’impresa, ovvero l’avvenuto compimento di atti di pagamento. Rispetto a tali comportamenti la Cassazione ha statuito che trattasi di atti di per sé neutri, normalmente ispirati da ragioni di solidarietà familiare (o necessitati dalla prassi delle banche di subordinare i finanziamenti alle aziende alla prestazione di garanzie da parte dei familiari dell’imprenditore) ed inidonei in quanto tali a far inferire, anche solo nei rapporti con i terzi, la sussistenza di un vincolo societario. Per l’accertamento del vincolo societario serve una rigorosa valutazione (quanto ai rapporti tra soci) del complesso delle circostanze idonee a rivelare l’esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all’esercizio congiunto di un’attività economica, l’alea comune dei guadagni e delle perdite e l’affectio societatis, cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi; essendo, peraltro, sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale dei soci, l’esteriorizzazione del vincolo sociale, ossia l’idoneità della condotta complessiva di taluno dei soci ad ingenerare all’esterno il ragionevole affidamento circa l’esistenza della società. Tuttavia, in caso di società di fatto (che si assuma) intercorrente fra familiari (non necessariamente coniugi), la prova della esteriorizzazione del vincolo deve essere particolarmente rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dalla affectio familiaris, sicché, di regola, non è di per sé sufficiente la dimostrazione, per esempio, di finanziamenti o pagamenti ai creditori dell’impresa da parte del congiunto dell’imprenditore, costituendo questi atti neutri, spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare. Soltanto ove contrassegnati da un carattere di sistematicità tali comportamenti potrebbero consentire il superamento della qualifica individuale dell’impresa, e determinare, attraverso la qualificazione societaria dell’attività d’impresa, l’assoggettamento del loro autore alla procedura fallimentare.
Applicando questi principi la giurisprudenza di legittimità sostiene ormai da tempo che ai fini dell’estensione del fallimento è necessario il positivo accertamento dell’effettiva costituzione di una società di fatto , attraverso l’esame del comportamento assunto dai familiari nelle relazioni esterne all’impresa, al fine di valutare se vi sia stata la spendita del nomen della società o quanto meno l’esteriorizzazione del vincolo sociale, l’assunzione delle obbligazioni sociali ovvero un complessivo atteggiarsi idoneo ad ingenerare nei terzi un incolpevole affidamento in ordine all’esistenza di un vincolo societario, mentre non assume rilievo univoco né la (simulata) qualificazione dei familiari come collaboratori di impresa familiare, né l’eventuale condivisione degli utili, trattandosi d’indicatori equivoci rispetto agli elementi indefettibili della figura societaria costituiti dal fondo comune e dalla affectio societatis (società tra consanguinei: Cass. civ. Sez. II, 20 giugno 2013, n. 15543; Cass. civ. Sez. I, 16 giugno 2010, n. 14580; Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 1999, n. 3163; Cass. civ. Sez. I, 26 luglio 1996, n. 6770; società tra coniugi: Cass. civ. Sez. I, 5 luglio 2013, n. 16829 e Cass. civ. Sez. I, 24 marzo 2000, n. 3520).
In linea generale la giurisprudenza di merito si è adeguata a questi principi (Trib. Bari Sez. IV, 7 gennaio 2009; Trib. Santa Maria Capua Vetere, 15 gennaio 2003; Trib. Cassino, 21 gennaio 2001; Trib. Roma, 5 luglio 1995; Trib. Cassino, 14 giugno 1995; Trib. Pordenone, 8 aprile 1993; Trib. Catania, 15 luglio 1992).
c) La differenza con l’impresa familiare
E’ a questo punto molto chiara la differenza tra l’impresa coniugale esercitata cogestendo un’azienda in comunione (nei casi di cui all’art. 177 lett. e di cui all’art. 177 capoverso) e l’impresa familiare3 a cui si riferiscono l’art. 230-bis per la famiglia fondata sul matrimonio e l’art. 230-ter per i conviventi di fatto.
Nell’azienda coniugale vi è cogestione dell’attività imprenditoriale. Nell’impresa familiare non c’è alcuna cogestione: l’imprenditore è solo uno, mentre il familiare che collabora è un semplice collaboratore. Se vi fosse cogestione sarebbe in radice esclusa l’impresa familiare.
Vi è, invece, possibile sovrapposizione di disciplina giuridica tra impresa personale appartenente ad un coniuge in regime di comunione (a cui fa riferimento l’art. 178) e impresa familiare ove il familiare dell’imprenditore presti continuativamente la sua collaborazione lavorativa. In tal caso non c’è nessuna incompatibilità e la disciplina della comunione si sovrappone a quella dell’impresa familiare.
E’ anche questa l’opinione della giurisprudenza che tuttavia sul punto non ha detto nulla di più di quanto non possa desumersi dalle espressioni usate nelle due diverse disposizioni delle disposizioni (cfr per esempio l’importante Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390 che precisava sull’argomento la diversità degli elementi costitutivi tra le fattispecie dell’impresa coniugale e dell’impresa familiare “atteso che solo nella prima ipotesi la collaborazione dei coniugi si realizza attraverso la gestione comune dell’impresa”.
VIIl fallimento dell’impresa coniugale cogestita
Si è detto che tra coniugi la prevalenza dell’affectio societatis produce l’inquadramento del rapporto di impresa all’intero della categoria generale della società di fatto (cfr la giurisprudenza sopra citata). Tale è, infatti, quella che sorge in base anche ad un semplice comportamento concludente dal quale emerga inequivocabilmente la volontà delle parti di costituire un rapporto sociale. Naturalmente, come anche si è già detto, non è escluso che i coniugi in regime di comunione (per i coniugi in separazione dei beni non vi è alcun problema) possano anche costituire tra di loro una società a responsabilità illimitata, come per esempio, una società in nome collettivo (art. 2291 ss c.c.), che sarebbe del tutto compatibile con la responsabilità illimitata che deriva, nel regime di comunione, da obbligazioni assunte congiuntamente per le quali i beni della comunione rispondono sempre (art, 186, lett. d).
Tuttavia la fattispecie più consueta che si presenta è quella in cui i coniugi, cogestendo una impresa di quelle di cui si è parlato, di per sé realizzano un rapporto societario di fatto, rapporto che, sempre ferma la responsabilità illimitata di ciascuno dei coniugi (art. 2267 c.c.)4, è anche sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale tra di loro ai sensi dell’art. 2297 c.c. 5 in quanto l’impresa coniugale esercitata in via di fatto non è certo registrata.
Pacificamente la giurisprudenza riconosce (naturalmente anche al di fuori del rapporto societario tra coniugi o consanguinei a cui si riferisce la giurisprudenza sopra citata) che la mancanza della prova scritta del contratto di costituzione di una società di fatto o irregolare (non richiesta dalla legge ai fini della sua validità) non impedisce al giudice del merito l’accertamento aliunde, mediante ogni mezzo di prova previsto dall’ordinamento, ivi
3 cfr la v oce IMPRESA FAMILIARE
4 Art. 2267 (Responsabilità per le obbligazioni sociali)
I creditori della società possono far valere i loro diritti sul patrimonio sociale. Per le obbligazioni sociali rispondono inoltre personalmente e solidalmente i soci che hanno agito in nome e per conto della società e, salvo patto contrario, gli altri soci.
Il patto deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza, la limitazione della responsabilità o l’esclusione della solidarietà non è opponibile a coloro che non ne hanno avuto conoscenza.
5 Art. 2297 (Mancata registrazione)
Fino a quando la società non è iscritta nel registro delle imprese i rapporti tra la società e i terzi ferma restando la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci, sono regolati dalle disposizioni relative alla società semplice.
Tuttavia si presume che ciascun socio che agisce per la società abbia la rappresentanza sociale, anche in giudizio. I patti che attribuiscono la rappresentanza ad alcuno soltanto dei soci o che limitano i poteri di rappresentanza non sono opponibili ai terzi, a meno che si provi che questi ne erano a conoscenza.
comprese le presunzioni semplici, dell’esistenza di una struttura societaria, all’esito di una rigorosa valutazione (quanto ai rapporti tra soci) del complesso delle circostanze idonee a rivelare l’esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all’esercizio congiunto di un’attività economica, l’alea comune dei guadagni e delle perdite e l’affectio societatis, cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi; peraltro, è sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale dei soci, ai sensi dell’art. 2297 c.c., l’esteriorizzazione del vincolo sociale, ossia l’idoneità della condotta complessiva di taluno dei soci ad ingenerare all’esterno il ragionevole affidamento circa l’esistenza della società (Cass. civ. Sez. VI, 5 maggio 2016, n. 8981; Cass. civ. Sez. I, 11 marzo 2010, n. 5961).
Le aziende coniugali sono strumentali all’esercizio di una attività commerciale (art. 2195 c.c. Imprenditori soggetti a registrazione) per le quali il codice prevede l’obbligo di costituzione “secondo uno dei tipi regolati nei capi III e seguenti “ del titolo V (art. 2249). Pertanto la società di fatto tra coniugi – che non è, cioè, costituita secondo uno di quei tipi – potrebbe essere considerata società in nome collettivo irregolare, perché non iscritta nel registro delle imprese. In ogni caso trova applicazione il citato articolo art. 2297 (Mancata registrazione: “Fino a quando la società non è iscritta nel registro delle imprese i rapporti tra la società e i terzi ferma restando la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci, sono regolati dalle disposizioni relative alla società semplice”). La responsabilità dei soci è quindi illimitata.
Trattandosi di società di persone, il fallimento della società di fatto è disciplinato nella legge fallimentare dagli artt. 147 6 e 1487 che trattano proprio il caso del fallimento delle società con soci a responsabilità illimitata, ferma sempre l’esclusione del fallimento nelle ipotesi indicate in via generale per tutti gli imprenditori dal secondo comma dell’art. 1 della legge fallimentare che fa riferimento a determinati parametri quantitativi di esclusione.
Se l’esistenza della società di fatto, quindi, è individuata dal soggetto che ne chiede il fallimento e accertata in giudizio, si procede ai sensi dell’art. 147, primo comma, della legge fallimentare e “la sentenza che dichiara il fallimento… produce anche il fallimento dei soci… illimitatamente responsabili”. Può avvenire che gli elementi per l’individuazione dell’esistenza della società di fatto siano scoperti dal curatore del fallimento di uno dei soci. La legge dispone, perciò, che sia dichiarato il fallimento della società (e di tutti i suoi soci) “qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile” (art. 147, quinto comma, legge fallimentare).
Per quanto concerne invece le imprese individuali (art. 178) che pongono problemi di comunione de residuo , poiché il fallimento determina lo scioglimento della comunione (art. 191 c.c.), si è posto il problema di come intendere la comunione de residuo su “i beni destinati all’esercizio dell’impresa costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente” che “si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa”.
Si è ritenuto in giurisprudenza che il fallimento di uno dei coniugi in regime di comunione legale dei beni determina la comunione de residuo sui beni destinati post nuptias all’esercizio di impresa, soltanto rispetto a quelli eventualmente residui dopo la chiusura della procedura (Cass. civ. Sez. I, 14 aprile 2004, n. 7060) ed in effetti i beni acquistati e destinati all’esercizio dell’impresa, prima dello scioglimento della comunione, sono aggredibili per intero dai creditori del coniuge imprenditore e sarebbe del tutto irragionevole pensare che con la dichiarazione di fallimento la garanzia dei creditori possa ridursi. Inoltre la dichiarazione di fallimento determina lo scioglimento della comunione, e quindi anche lo spossessamento del debitore ed il vincolo di tutti i suoi beni al soddisfacimento dei creditori. Pertanto la comunione de residuo si attua, in caso di fallimento di un coniuge, su ciò che rimane dopo aver pagato le passività.
6 Art. 147 (Società con soci a responsabilità illimitata)
La sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile, produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili.
Il fallimento dei soci di cui al comma primo non può essere dichiarato decorso un anno dallo scioglimento del rapporto sociale o dalla cessazione della responsabilità illimitata anche in caso di trasformazione, fusione o scissione, se sono state osservate le formalità per rendere noti ai terzi i fatti indicati. La dichiarazione di fallimento è possibile solo se l’insolvenza della società attenga, in tutto o in parte, a debiti esistenti alla data della cessazione della responsabilità illimitata.
Il tribunale, prima di dichiarare il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, deve disporne la convocazione a norma dell’articolo 15.
Se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale, su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito, dichiara il fallimento dei medesimi.
Allo stesso modo si procede, qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile.
Contro la sentenza del tribunale è ammesso reclamo a norma dell’articolo 18.
In caso di rigetto della domanda, contro il decreto del tribunale l’istante può proporre reclamo alla corte d’appello a norma dell’articolo 22.
7 Art. 148 (Fallimento della società e dei soci)
Nei casi previsti dall’articolo 147, il tribunale nomina, sia per il fallimento della società, sia per quello dei soci un solo giudice delegato e un solo curatore, pur rimanendo distinte le diverse procedure. Possono essere nominati più comitati dei creditori.
Il patrimonio della società e quello dei singoli soci sono tenuti distinti.
Il credito dichiarato dai creditori sociali nel fallimento della società si intende dichiarato per l’intero e con il medesimo eventuale privilegio generale anche nel fallimento dei singoli soci. Il creditore sociale ha diritto di partecipare a tutte le ripartizioni fino all’integrale pagamento, salvo il regresso fra i fallimenti dei soci per la parte pagata in più della quota rispettiva.
I creditori particolari partecipano soltanto al fallimento dei soci loro debitori.
Ciascun creditore può contestare i crediti dei creditori con i quali si trova in concorso.
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI, 5 maggio 2016, n. 8981 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mancanza della prova scritta del contratto di costituzione di una società di fatto o irregolare (non richiesta dalla legge ai fini della sua validità) non impedisce al giudice del merito l’accertamento aliunde, mediante ogni mezzo di prova previsto dall’ordinamento, ivi comprese le presunzioni semplici, dell’esistenza di una struttura societaria, all’esito di una rigorosa valutazione (quanto ai rapporti tra soci) del complesso delle circostanze idonee a rivelare l’esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all’esercizio congiunto di un’attività economica, l’alea comune dei guadagni e delle perdite e l’affectio societatis, cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi; peraltro, è sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale dei soci, ai sensi dell’art. 2297 c.c., l’esteriorizzazione del vincolo sociale, ossia l’idoneità della condotta complessiva di taluno dei soci ad ingenerare all’esterno il ragionevole affidamento circa l’esistenza della società
Cass. civ. Sez. I, 5 luglio 2013, n. 16829 (Giur. It., 2014, 6, 1428 nota di MORINO)
Se si assume l’esistenza di una società di fatto fra consanguinei, per accertarne la costituzione non solo è necessario procedere all’esame del comportamento assunto dai familiari nelle relazioni esterne, al fine di valutare se vi sia stata la spendita del nomen della società o quanto meno l’esteriorizzazione del vincolo sociale, l’assunzione delle obbligazioni sociali ovvero un complessivo atteggiarsi idoneo ad ingenerare nei terzi un incolpevole affidamento in ordine all’esistenza di tale vincolo, ma occorre altresì che l’esteriorizzazione sia provata in modo rigoroso, giacché essa deve basarsi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dall’ affectio familiaris.
Cass. civ. Sez. II, 20 giugno 2013, n. 15543 (Pluris, Wolters Kluwer Italia
In tema di società di fatto tra consanguinei, la prova della esteriorizzazione del vincolo societario deve essere rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dalla “ affectio familiaris” e deporre, invece, nel senso di una sua compartecipazione all’attività commerciale.
Cass. civ. Sez. I, 16 giugno 2010, n. 14580 (Pluris, Wolters Kluwer Italia
Ai fini dell’estensione del fallimento del titolare dell’impresa familiare agli altri componenti della stessa è necessario il positivo accertamento dell’effettiva costituzione di una società di fatto , attraverso l’esame del comportamento assunto dai familiari nelle relazioni esterne all’impresa, al fine di valutare se vi sia stata la spendita del “nomen” della società o quanto meno l’esteriorizzazione del vincolo sociale, l’assunzione delle obbligazioni sociali ovvero un complessivo atteggiarsi idoneo ad ingenerare nei terzi un incolpevole affidamento in ordine all’esistenza di un vincolo societario, mentre non assume rilievo univoco né la qualificazione dei familiari come collaboratori dell’impresa familiare, né l’eventuale condivisione degli utili, trattandosi d’indicatori equivoci rispetto agli elementi indefettibili della figura societaria costituiti dal fondo comune e dalla “ affectio societatis”.
Cass. civ. Sez. I, 11 marzo 2010, n. 5961 (Pluris, Wolters Kluwer Italia
La mancanza della prova scritta del contratto di costituzione di una società di fatto o irregolare (non richiesta dalla legge ai fini della sua validità) non impedisce al giudice del merito l’accertamento “aliunde”, mediante ogni mezzo di prova previsto dall’ordinamento, ivi comprese le presunzioni semplici, dell’esistenza di una struttura societaria, all’esito di una rigorosa valutazione (quanto ai rapporti tra soci) del complesso delle circostanze idonee a rivelare l’esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all’esercizio congiunto di un’attività economica, l’alea comune dei guadagni e delle perdite e l’”affectio societatis”, cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi,. peraltro, è sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale dei soci, ai sensi dell’art. 2297 cod. civ., l’esteriorizzazione del vincolo sociale, ossia l’idoneità della condotta complessiva di taluno dei soci ad ingenerare all’esterno il ragionevole affidamento circa l’esistenza della società. Tali accertamenti, risolvendosi nell’apprezzamento di elementi di fatto, non sono censurabili in sede di legittimità, se sorrette da motivazioni adeguate ed immuni da vizi logici o giuridici.
Trib. Bari Sez. IV, 7 gennaio 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’esistenza di un vincolo parentale e familiare, lo svolgimento della medesima attività e negli stessi locali con un’identica ragione sociale, la costante presenza nell’adempimento delle obbligazioni contratte dall’altra parte, sono tutti indici presuntivi della sussistenza di una società di fatto . (Sulla base di tale presupposto il giudice ha rigettato l’opposizione proposta contro la sentenza dichiarativa del fallimento in estensione).
App. Milano, 10 maggio 2006 (Famiglia e Diritto, 2008, 4, 363 nota di BECCARA)
La peculiarità della fattispecie disciplinata dall’art. 177, comma 1, lett. d), c.c. per quanto attiene all’azienda sta nel fatto che quando la costituzione (o l’acquisto) della stessa avviene dopo la celebrazione del matrimonio e non si tratti, in forza del titolo, di un bene personale, l’attribuzione della titolarità a uno solo dei coniugi ovvero alla comunione coniugale viene a dipendere non dalle modalità con cui si costituisce o viene acquistata l’azienda medesima, bensì dal dato rappresentato dalla gestione.
Cass. civ. Sez. I, 16 luglio 2004, n. 13164 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Elemento costitutivo del diritto – al momento dello scioglimento della comunione – alla ripartizione degli utili e degli incrementi dell’ azienda appartenente a uno dei coniugi anteriormente al matrimonio da parte dell’altro è la gestione comune dell’ azienda stessa in costanza di matrimonio, gestione comune la cui sussistenza non può essere ritenuta in mancanza di prova da parte di colui che propone la domanda di divisione.
Cass. civ. Sez. I, 14 aprile 2004, n. 7060 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il fallimento di uno dei coniugi in regime di comunione legale dei beni determina la comunione de residuo sui beni destinati post nuptias all’esercizio di impresa, soltanto rispetto a quelli eventualmente residui dopo la chiusura della procedura.
Trib. Santa Maria Capua Vetere, 15 gennaio 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’esistenza di una società di fatto può inferirsi dal capitale comune, dall’affectio societatis, dalla partecipazione agli utili o alle perdite, nonché dall’esteriorizzazione del vincolo sociale. A tal fine, non è necessaria la prova della stipulazione del patto sociale, essendo sufficiente la dimostrazione di un comportamento da parte dei soci tale da ingenerare nei terzi il convincimento giustificato ed incolpevole sull’esistenza della società.
Trib. Cassino, 21 gennaio 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le fideiussioni e gli avalli, se realizzati in maniera sistematica, possono costituire sufficiente elemento di prova circa la sussistenza di una società di fatto tra i coniugi e legittimare l’estensione del fallimento, ai sensi dell’art. 147 legge fallimentare, anche a quello tra i due che non risulta titolare dell’impresa
Cass. civ. Sez. I, 24 marzo 2000, n. 3520 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
A prescindere dal problema più generale relativo alla natura in sé societaria o meno dell’impresa familiare, in ogni caso, quando il rapporto fra i componenti della stessa si strutturi all’esterno, come un rapporto societario, nell’ambito del quale i soci partecipino agli utili ed alle perdite, intrattengano rapporti con i terzi assumendo le conseguenti obbligazioni, spendano il nome della società, manifestando palesemente, nei rapporti esterni, l’”affectio societatis”, si costituisce fra i componenti stessi una società di fatto che si sovrappone al rapporto regolato dall’art. 230 bis c.c., di talché tale rapporto perde di rilevanza esterna, con conseguente applicazione – ad esempio – in relazione alle procedure concorsuali, dei principi generali che regolamentano le società di fatto, tra i quali l’assoggettabilità al fallimento di tutti i soggetti che partecipano al rapporto societario.
Tribunale Roma 16 settembre 1999 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La semplice circostanza che i coniugi siano comproprietari di azienda, non è sufficiente di per sé a ritenere che quest’ultima sia necessariamente cogestita da entrambi e che, pertanto, tra essi sussista una società di fatto (artt. 177, 178, c.c.). Nel caso in cui ambedue i coniugi siano proprietari dell’azienda familiare, ai fini dell’individuazione delle norme applicabili occorre distinguere i rapporti concernenti la proprietà, art. 177 c.c., dai rapporti concernenti la gestione, art. 2247 c.c.
Cass. civ. Sez. I, 2 aprile 1999, n. 3163 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di società di fatto che si assuma intercorrente tra soggetti legati da stretti vincoli familiari, la prova della esteriorizzazione del vincolo societario, necessaria e sufficiente per poter considerare esistente la società, deve essere rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dall’”affectio familiaris”, e da deporre, invece, in modo non equivoco nel senso di una sua compartecipazione all’attività commerciale del consanguineo (nella fattispecie, la S.C., alla stregua di tale principio, ha cassato la decisione della Corte di merito che aveva ritenuto indici non equivoci della asserita compagine sociale, senza dare sufficientemente conto dell’”iter” logico seguito per convincersi che essi fossero da qualificare come atti di partecipazione all’attività commerciale, e non fossero, invece, inquadrabili in atti di solidarietà familiare, la partecipazione agli utili nella percentuale del 60 per cento da parte della moglie e del figlio dell’imprenditore, l’intervento della prima in favore del coniuge come terzo datore di ipoteca e fideiussore, con rinunzia al beneficio di escussione del debitore principale, ed inoltre con rilascio di cambiali all’ordine del marito, e da lui girati al terzo fornitore effetti cambiari al garante ed avallante, attraverso finanziamento ed apertura di credito con garanzia ipotecaria e – richiedendo, pertanto, ai giudici di merito un riesame della controversia sotto tale profilo).
Cass. civ. Sez. I, 26 luglio 1996, n. 6770 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per poter considerare esistente una società di fatto, agli effetti della responsabilità delle persone e/o dell’ente, anche in sede fallimentare, non occorre necessariamente la prova del patto sociale, ma è sufficiente la dimostrazione di un comportamento, da parte dei soci, tale da ingenerare nei terzi il convincimento giustificato ed incolpevole che quelli agissero come soci, atteso che, nonostante l’inesistenza dell’ente, per il principio dell’apparenza del diritto, il quale tutela la buona fede dei terzi, coloro che si comportino esteriormente come soci vengono ad assumere in solido obbligazioni come se la società esistesse. Tuttavia, in caso di società di fatto (che si assuma) intercorrente fra consanguinei, la prova della esteriorizzazione del vincolo deve essere particolarmente rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dalla affectio familiaris, sicché, di regola, non è di per sè sufficiente la dimostrazione di finanzia-menti e/o pagamenti ai creditori dell’impresa da parte del congiunto dell’imprenditore, costituendo questi atti neutri, spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare.
Trib. Roma, 5 luglio 1995 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Deve essere dichiarata l’estensione il fallimento di un farmacista alla società di fatto (occulta) fra il farmacista e sua moglie, quando risulti che il marito si sia occupato solo della parte tecnico – farmaceutica e la moglie abbia gestito la parte contabile – amministrativa.
E’ ben ipotizzabile l’esistenza di una società di fatto per l’esercizio di una farmacia, anche se la legislazione speciale ne esclude la gestione da parte di persona non munita di titolo e non iscritta nell’ordine professionale dei farmacisti.
Trib. Cassino, 14 giugno 1995 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Le fideiussioni e gli avalli, anche se ripetuti ed ingenti, non possono costituire nel rapporto tra coniugi circostanze idonee ad esteriorizzare un vincolo sociale, in quanto effettuati nell’ambito del rapporto coniugale ed al fine di sopperire alle difficoltà del soggetto garantito.
Cass. civ. Sez. I, 1 giugno 1995, n. 6142 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Poiché alle pronunce della commissione tributaria centrale non è direttamente applicabile l’art. 360 n. 5 c.p.c., ma solo l’art. 111 cost., il controllo della motivazione, in sede di legittimità, deve limitarsi alla verifica della sua esistenza effettiva, della sua non contraddittorietà, della sua non incomprensibilità (nell’affermare tale principio la cassazione ha ritenuto del tutto sfornita di motivazione la decisione della commissione tributaria centrale che aveva dedotto dalla sola comunione la esistenza di una società di fatto tra i coniugi, che avevano proceduto alla vendita di un bene immobile; ciò perché la comunione legale tra coniugi non implica l’esistenza di una società di fatto tra gli stessi.
Trib. Pordenone, 8 aprile 1993 (Nuova Giur. Civ., 1994, I, 217 nota di COLUSSI)
L’accertamento dei presupposti dell’esistenza di una società fra parenti deve condursi con criteri assai cauti e più intensi rispetto alla norma, dei rapporti fra estranei; in particolare la prestazione di una fideiussione della moglie a favore del marito non costituisce manifestazione di “affectio societatis”.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 dicembre 1992, n. 13390 (Nuova Giur. Civ., 1993, 1, 609 nota di BONTEMPI)
In relazione al disposto dell’art. 230 bis c. c., l’ipotesi di impresa familiare realizzata mediante la partecipazione del coniuge all’attività aziendale si differenzia dalla fattispecie dell’azienda coniugale prevista dall’art. 177, lett. d, c. c., in cui la collaborazione dei coniugi si attua con la gestione comune dell’impresa; ai fini di tale distinzione non ha alcuna rilevanza diretta il regime di comunione dei beni vigente tra i coniugi, che può spiegare effetti solo sul piano della tutela, ex art. 178 c. c., dei diritti sui beni destinati all’esercizio di impresa.
Trib. Catania, 15 luglio 1992 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ai fini dell’accertamento di una società di fatto, la prestazione di fideiussioni può dar luogo alla configurazione di un conferimento di capitale da destinare a fondo sociale, quando essa sia caratterizzata da un’estensione generalizzata, da una reiterazione nel tempo e da una notevole entità degli affidamenti compiuti; tale regola è valida ancorché si tratti di soggetti legati da un rapporto di parentela stretta o di coniugio, ma in questa evenienza è necessario che la valutazione delle risultanze processuali sia più rigorosa, dovendosi tener conto delle naturali implicazioni di siffatti rapporti.
Trib. Catania, 21 gennaio 1983 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Un’azienda gestita di fatto da entrambi i coniugi in regime di comunione legale, in assenza
i precisi accordi formali, ricade nell’ipotesi di cui all’art. 177, lett. d), cod. civ., ovvero, qualora si tratti di azienda già appartenente ad uno dei coniugi prima del matrimonio, nell’ipotesi di cui al comma 2 del medesimo articolo.

Linee guida sul contributo al mantenimento dei figli

adottate dal Gruppo famiglia e minori
nell’ambito dell’Assemblea Nazionale degli Osservatori sulla giustizia civile
il 20 maggio 2017

PREMESSA
Finalità delle proposte Linee Guida è quella di individuare in via preventiva, nel prioritario interesse dei figli, le modalità per determinare la misura dell’assegno mantenimento il più possibile comprensivo di voci di spesa caratterizzate dall’ordinarietà o, comunque, dalla frequenza, anche al fine di consentire al genitore beneficiario una corretta ed oculata amministrazione del budget di cui sa di poter disporre, riducendo le occasioni di richiesta al coobbligato e di possibile conflitto.
Nella determinazione del contributo economico e nelle questioni inerenti il mantenimento dei figli, i genitori dovranno conformare l’esercizio della responsabilità genitoriale al rispetto del superiore interesse del minore, costituendo quest’ultimo punto di resistenza e garanzia per una giustizia a misura di minore1, in ossequio alla lettera B, numero 1, dei principi fondamentali delle Linee Guida del Consiglio d’Europa, secondo cui “ Gli Stati membri dovrebbero garantire l’effettiva attuazione del diritto dei minori affinché il loro interesse superiore sia posto davanti a ogni altra considerazione in tutte le questioni che li coinvolgono o li riguardano”.
1 Nell’ambito dei principi fondamentali delle Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore, adottate dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 17 novembre 2010 con il fine di fungere da indirizzo per gli Stati membri per adeguare i “loro sistemi giuridici agli interessi e alle esigenze specifiche dei minori”, l’art.36, così recita:” L’interesse superiore dei minori dovrebbe essere tra i primi aspetti da considerare in tutti i casi in cui sono coinvolti. La valutazione della situazione specifica deve essere svolta con accuratezza…”.
In attuazione dell’indicata finalità connessa all’esercizio della responsabilità genitoriale è necessario che le parti si comunichino preventivamente, con il mezzo più idoneo in relazione alla eventuale urgenza del caso, la necessità di una spesa non ricompresa nell’assegno perequativo e perseguano, in quanto possibile, la ricerca dell’accordo.
In quest’ottica la determinazione dell’assegno periodico di mantenimento tiene conto di quelle che già erano le specifiche spese correnti della famiglia in regime di convivenza, che le parti hanno l’onere di esporre con il maggior dettaglio possibile nei rispettivi atti introduttivi, al fine di consentire, in caso di mancato accordo tra le stesse, una quantificazione giudiziale adeguata alle complessive esigenze quotidiane di vita dei figli e, nel contempo, correlata alla situazione reddituale e patrimoniale, spesso più gravosa, determinata dalla crisi della famiglia.
Al di fuori di queste voci di spese correnti vi sono le spese extra assegno, così dette straordinarie, non soltanto perché, talvolta, oggettivamente imprevedibili, ma, altresì, perché, quantunque relative a necessità o utilità prevedibili, non sono determinabili nel quantum, ovvero attengono ad esigenze saltuarie ovvero sono di importo apprezzabile rispetto alle capacità economiche dei genitori.
Efficacia
La concreta attuazione degli obiettivi perseguiti dalle presenti linee guida dipenderà dalla più che auspicabile recezione di esse, anche per relationem, nei protocolli adottati nei vari tribunali in materia di contribuzione economica e di mantenimento della prole, fatti salvi gli effetti dei provvedimenti aventi ad oggetto le spese straordinarie di cui non sia chiesta la modifica o la revisione”.
Invito
agli avvocati, al Presidente del tribunale, al tribunale in funzione collegiale ed ai giudici
Si invitano gli avvocati a specificare, in maniera dettagliata, nei rispettivi atti introduttivi le voci di spesa inerenti ai figli e ciò in quanto il criterio preminente per fissare l’assegno è costituito dalle attuali esigenze dei figli2 , indicando le esigenze correnti di natura primaria (tra cui, ad es., quelle alimentari3, abitative4, di cura della persona5 e di abbigliamento), nonché quelle di natura sanitaria, scolastica, parascolastica, sportiva e sociale, così da consentire al giudice, funzionalmente competente, di provvedere, ai sensi del IV comma dell’art. 337 ter c.c.6 (o dell’art. 316 bis c.c.), alla imputazione dei costi diretti a carico di ciascun genitore e alla quantificazione dell’assegno di mantenimento7.
2 Cass .n. 26198/10 secondo cui “ l’interesse morale e materiale della prole è il criterio guida che deve essere tenuto presente dal giudice il quale deve provvedere attribuendo sicura preminenza al criterio delle “attuali esigenze del figlio”.
3 Ad esempio celiachia, intolleranze alimentari, gluten sensitive, etc
4 Ad esempio il concorso alle spese di casa per canone locativo, utenze , consumi: così Prot. Torino, pag.2.
5 Ad esempio estetista, parrucchiere, etc
6 Cfr.. art. 337 ter, IV comma, c.c.: “il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalita’, da determinare considerando:
1) le attuali esigenze del figlio.
2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori.
3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore.
4) le risorse economiche di entrambi i genitori.
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.”
7 citata Cass 26198/10 in ordine alla preminenza del criterio delle attuali esigenze del figlio.
8 Così art.14, protocollo Reggio Emilia (2014) e vedasi criterio guida in trib. di Roma (decreto 4.3.2016)
Il Presidente del tribunale, nell’emanazione dei provvedimenti provvisori ai sensi dell’art. 708 c.p.c. e nelle ordinanze emesse ai sensi dell’art. 316 bis c.c., il Collegio, nei provvedimenti provvisori e definitivi aventi ad oggetto le richieste economiche riguardanti i figli non matrimoniali ex art. 337 bis e ss c.c., provvederanno a:
– individuare, in modo dettagliato, le spese incluse nell’assegno di mantenimento per i figli e quelle extra, indicando i criteri guida cui le parti dovranno attenersi per l’individuazione delle spese extra assegno8,
– distinguere quali tra le spese extra, ai fini della rimborsabilità, richiedono il consenso dell’altro genitore da quelle che non lo richiedono
– ed indicare la quota di riparto gravante sui genitori da determinare nel rispetto del principio di proporzionalità (o l’onere esclusivo a carico di un solo genitore).
Contenuto dell’assegno di mantenimento
Si intendono ricomprese nell’assegno di mantenimento (quelle chiamate sinora spese ordinarie) le voci di spesa che soddisfano esigenze della vita quotidiana dei figli e, in ogni caso, quelle che hanno, quale requisito temporale, la periodicità, come requisito quantitativo, la non gravosità, e per requisito funzionale, l’utilità e/o necessarietà.
Salva diversa previsione, si considerano comprese nell’assegno di mantenimento, a titolo esemplificativo, le seguenti spese: le visite pediatriche di routine e medicinali da banco9, il vitto (e quindi la mensa scolastica, in quanto sostitutiva del pranzo)10, il contributo alle spese abitative, l’abbigliamento ordinario (inclusi i cambi di stagione), le tasse scolastiche di istituti pubblici sino al ciclo di studi medio-superiore, i trasporti pubblici (tessera autobus, metro, ecc.), i trattamenti estetici (limitatamente intesi al parrucchiere ed estetista), la ricarica del cellulare, il materiale scolastico di cancelleria, le gite scolastiche giornaliere senza pernottamento; le rette di iscrizione e frequenza di istituti scolastici privati e baby sitter11 purchè già presenti nell’organizzazione familiare prima della separazione o conseguenti al nuovo assetto familiare determinato dalla cessazione della convivenza, a condizione che si tratti di una spesa sostenibile.
9 Cass. n.16664/12.
10 Cfr tribunale di Milano, decreto del 27.11.2013, così ha deciso: “La mensa scolastica non riveste alcuna connotazione straordinaria, essendo solo una modalità sostitutiva della voce “vitto” domestico già compresa in qualsiasi assegno mensile”.
Anche il tribunale di Novara ha stabilito che: “Giova precisare che nel concetto di spese scolastiche straordinarie non rientrano i buoni mensa che costituiscono mera sostituzione del pasto casalingo rientrante nel mantenimento ordinario” (Trib. Novara, Sent. del 26.03.2009). Così tribunale di Roma (sez. I, sentenza del 09.10.2009).
Contra tribunale di Bergamo, protocollo sulle spese straordinarie del 2014, ritiene le spese della mensa “non coperte dall’assegno di mantenimento“. I Giudici bergamaschi, pertanto, inseriscono espressamente la voce “mensa scolastica” nei propri provvedimenti identificandola come “spese scolastiche straordinarie per cui non è richiesto il preventivo accordo fra i genitori”.
11 Cass. n. 16983/07.
12 Cfr così protocollo Udine, Trieste (entrambi del 2015) e Sulmona (2016) in conformità alla Cass. n.7972/13.
13 Cass. n.15098/05 e Cass. n. 28987/08.
Il contributo dovuto per tali spese dal genitore non collocatario (o non affidatario) dovrà intendersi soddisfatto mediante la corresponsione dell’assegno periodico di mantenimento, determinato come sopra, in maniera omnicomprensiva da frazionarsi in 12 rate annue12, attesa la natura non meramente alimentare di quest’ultimo, e salvi sempre diversi accordi liberamente sottoscritti dalle parti, nel rispetto del principio di proporzionalità.
Non compensabilità tra spese comprese nell’assegno perequativo e spese extra.
Divieto di inclusione delle “spese extra” nell’assegno perequativo.
Non sono ammesse le compensazioni tra le somme dovute per spese extra e l’assegno mensile di
mantenimento e viceversa.
Le spese extra assegno non devono essere incluse nell’ammontare dell’assegno di mantenimento in quanto la loro forfettizzazione può rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità e con quello di adeguatezza del mantenimento e recare grave danno ai figli.14
14 Cass. n. 9372/12, Cass.18869/14 e Cass. 11894/15.
15 Sull’onere di documentazione della spesa tutti i protocolli esaminati concordano. Sulle somme spese per i bisogni ordinari dei figli è utile ricordare che non è previsto alcun obbligo di rendicontazione da parte del genitore percettore.
16 Sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità sull’onere di concertazione, si veda Cass. n. 19607/11, Cass. n. 16175/15, Cass. n. 2127/16 e Cass. n. 4182/16.
17 Cass. n. 16664/12.
18 La Cassazione colloca alcune spese per i figli, diversamente dalla giurisprudenza di merito, all’interno dell’assegno ordinario. Esse riguardano le spese scolastiche, libri e corredo scolastico, spese sportive, cure mediche ordinarie (come le visite pediatriche ed alcune periodiche), che, pur di costo elevato, riguardino la cura di un figlio disabile.
19 Cass n. 2127/16.
Spese extra assegno:
documentazione, ripartizione e concertazione.
Tutte le spese extra assegno devono essere documentate15.
Anche le spese extra assegno vanno ripartite tra i genitori pro quota, secondo una misura da determinarsi espressamente dal giudice in conformità al principio di proporzionalità, fatta salva l’ipotesi in cui siano poste a carico di un solo genitore per altre ragioni.
Alla stregua delle superiori considerazioni possono essere indicati i seguenti ambiti di spese: sanitarie, scolastiche ed extrascolastiche.
Rientrano nelle spese extra, in quanto non richiedono il previo accordo dei genitori, comunque suscettibili di rimborso pro quota in relazione alla loro obiettiva necessità16:
a) sanitarie: di norma, quelle connotate dai caratteri della necessarietà od urgenza, non richiedono mai il preventivo accordo, come pure i trattamenti sanitari, gli esami e le visite specialistiche prescritte dal pediatra o dal medico di base, effettuate nell’ambito del SSN, compresi i relativi tickets sanitari e spese farmaceutiche conseguenziali (a titolo esemplificativo, rientrano le spese per impianti di ausilio sanitario, oculistiche, compresi occhiali da vista17 e lenti a contatto, ortopediche ed acustiche). Tutte le spese mediche e sanitarie in ambito privatistico devono essere concordate tra i genitori.
b) scolastiche18: iscrizione e retta dell’asilo nido infantile 19, tasse ed assicurazioni scolastiche per scuole o istituti privati, tasse universitarie, libri scolastici e universitari, tablet e p.c. per uso scolastico (con costi da rapportare alle condizioni economiche della famiglia), se sorte dopo la separazione o dopo la cessazione della convivenza e non incluse nell’assegno e compatibili con le possibilità economico/patrimoniali dei genitori;

c) extrascolastiche: spese sportive per un’attività, spese di manutenzione (ordinaria e straordinaria, per meccanica e/o carrozzeria) relative ai mezzi di locomozione (bicicletta e bici elettrica, ciclomotore, motociclo, mini-car, auto) acquistati in accordo tra i genitori, nonché le relative spese connesse (bollo e assicurazione, corso per il conseguimento della patente di guida).

Costituiscono, invece, spese extra assegno, richiedenti il necessario accordo, espresso o tacito (con riguardo alle spese extra assegno da concordare, il genitore, a fronte di una richiesta scritta dell’altro, dovrà manifestare un motivato dissenso per iscritto nell’immediatezza della richiesta, al massimo 10 giorni, ovvero in un termine all’uopo fissato; in difetto il silenzio sarà inteso come consenso alla richiesta), tra i genitori o, in difetto di accordo e/o di rifiuto al rimborso20, una valutazione giudiziale di rispondenza della spesa all’interesse del figlio (sostenibilità della detta spesa rapportata alla condizione economico/patrimoniale dei genitori) o alla necessità e congruità rispetto alla entità e sostenibilità della spesa 21, quelle relative a :
20 Ad esempio, vedasi protocollo di Torino, pag.3, art.3, sulla prova del preventivo accordo, secondo cui il genitore richiedente il rimborso dovrà provare di aver inviato comunicazione all’altro, con mezzo idoneo, ed in caso di silenzio nei successivi 10 gg, la relativa spesa s’intenderà accettata.
21 Cass civ. n.2127/16 (sulla retta di asilo) secondo cui la rispondenza delle spese straordinarie viene effettuata mediante la commisurazione dell’entità della spesa rispetto all’utilità derivante ai figli e della sostenibilità della detta spesa rapportata alla condizione economica dei genitori.
22 Cass.civ. n.18077/14.
23 Cass. civ. n.19607/11.
a) sanitarie: visite mediche, esami diagnostici, prestazioni sanitarie erogate da strutture private non urgenti e non accompagnate da prescrizione medica, apparecchi sanitari e ortodontici;
b) scolastiche: lezioni private (c.d. ripetizioni), stages, corsi di lingua, corsi di musica ed acquisto strumento musicale, corsi di preparazione e selezione per l’ingresso nelle facoltà universitarie, per la formazione o specializzazione universitaria o per l’avvio nel mondo del lavoro, spese per università all’estero22 e alloggio fuori sede inerente alla frequenza universitaria e relative utenze domestiche, corsi di formazione post universitari (specializzazioni o master), gite scolastiche con pernottamento, viaggi studio all’estero 23, scuole e università private;
c) extra scolastiche: baby sitter post separazione, viaggi e vacanze trascorsi autonomamente dal figlio, attività sportiva agonistica, comprensiva dell’attrezzatura e di quanto necessario per la partecipazione a gare e tornei (ivi comprese le spese di trasporto e stages); attività ludico-ricreative (centri estivi), cellulare, spese per acquisto di mezzi di locomozione (bicicletta e bici elettrica, ciclomotore, motociclo, mini-car, auto), casco, corso per conseguimento della patente, attività artistiche, culturali e ricreative (come acquisto di strumenti musicali, corsi di informatica, ecc.), spese per comunione-cresima-matrimonio (trattenimento,servizio fotografico, regalo madrina/padrino, parrucchiere).

Il rimborso al genitore anticipatario: quota e modalità.
E’ auspicabile che entrambi i genitori provvedano contestualmente al pagamento della spesa extra assegno per i figli (anche mediante la messa a disposizione della provvista), secondo la ripartizione proporzionale di pertinenza, evitando così di addossare ad un solo genitore l’anticipazione della quota spettante all’altro.
Ove ciò non avvenga, il genitore anticipatario, entro 30 giorni dall’effettuazione della spesa, dovrà richiedere il rimborso pro-quota, previa esibizione e consegna di idonea documentazione, e l’altro genitore dovrà provvedere entro 30 giorni dalla richiesta.
Ai fini di una responsabile gestione delle spese per i figli, è opportuno che ciascuna delle parti comunichi preventivamente all’altra, con il mezzo più idoneo in relazione all’eventuale urgenza del caso, la necessità di una spesa extra.
Deducibilità fiscale
I documenti fiscali di ogni spesa extra assegno sostenuta dovranno, ove possibile, essere intestati ai figli24 e periodicamente (entro trenta giorni e, in ogni caso, entro la scadenza fiscale o assicurativa) consegnati, in copia, all’altro genitore, ai fini della deducibilità fiscale dal reddito, che opererà nella stessa quota proporzionale della spesa sostenuta.
24 Prot. Bologna (2017).
Le deduzioni per i figli a carico saranno effettuate, salvo diverso accordo, al 50% tra i genitori.
Rimborsi e sussidi
Gli eventuali rimborsi erogati dallo Stato e da altri enti pubblici o privati, per spese scolastiche e sanitarie relative ai figli vanno ripartiti tra entrambi i genitori nella stessa percentuale della loro partecipazione alle spese extra assegno.
Assegni familiari
Gli assegni familiari devono essere corrisposti al genitore collocatario (o affidatario) dei figli e rappresentano una voce aggiuntiva rispetto all’assegno di mantenimento, anche se erogati dal datore di lavoro dell’altro genitore, salvi diversi accordi tra le parti o diversa indicazione giudiziale.
Per evidenti ragioni di semplificazione, i provvedimenti giudiziari adottandi in tale materia conterranno l’esplicita previsione dell’attribuzione ex lege al genitore collocatario e/o affidatario, anche dei predetti assegni familiari.

Riconciliazione

Di Gianfranco Dosi
I
Il quadro normativo
Di riconciliazione – non meglio definita nei codici – si parla nel diritto di famiglia per riferirsi a quella condizione di “integrale ripresa del consortium vitae” tra coniugi (come si esprimono Cass. civ. Sez. VI, 24 agosto 2016, n. 17318; Cass. civ. Sez. VI, 24 agosto 2016, n. 17318) che era stato infranto dallo stato di separazione.
La prima norma che ne tratta è l’art. 154 c.c. (Riconciliazione) dove si legge che “La riconciliazione tra i coniugi comporta l’abbandono della domanda di separazione personale già proposta”. Una norma analoga non è prevista per il procedimento di divorzio. L’aspetto giuridico più problematico che si presenta è quello di differenziare gli effetti della riconciliazione (che porta o dovrebbe portare all’abbandono della causa di separazione) rispetto agli effetti dell’abbandono della causa da parte dei coniugi senza alcuna riconciliazione (art. 181 c.p.c.) ed in cui il giudice dichiara l’estinzione del processo. Il tema comporta l’approfondimento del discutibile principio contenuto nell’art. 189 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile (applicabile, come si dirà, sia alla separazione che al divorzio).
La seconda norma che si occupa della riconciliazione è l’art. 157 c.c. (Cessazione degli effetti della separazione) in cui si prevede al primo comma che “I coniugi possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice, con una espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione” e al secondo comma che “La separazione può essere pronunziata nuovamente soltanto in relazione a fatti e comportamenti intervenuti dopo la riconciliazione”. Qui la norma fa riferimento alla ripresa del consortium vitae dopo il giudicato di separazione e l’intenzione evidente del legislatore è quella di agevolare la ripresa della vita matrimoniale non gravando i coniugi che si riconciliano di oneri processuali imposti come necessari per la cancellazione della pronuncia.
C’è una terza disposizione che tratta espressamente il tema della riconciliazione ed è contenuta nella legge sul divorzio, dove si prescrive che in caso di domanda di divorzio in seguito al giudicato di separazione “L’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta” (art. 3, n. 2 b, ultima parte, legge 1 dicembre 1970, n. 898 come modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74). Qui il legislatore non usa il termine “riconciliazione” ma è questo il significato della disposizione il cui fondamento appare solo quello di imporre il rispetto formale della sequenza prevista tra il procedimento di separazione e quello di divorzio.
È appena il caso di osservare che alla riconciliazione tra coniugi tende anche, nella interpretazione tradizionale della norma, il “tentativo di conciliazione” che il presidente del tribunale è chiamato a fare all’inizio del procedimento di separazione (art. 708 c.p.c.) e di divorzio (art. 4, comma 8, legge 1 dicembre 1970, n. 898), prima dell’adozione dei provvedimenti provvisori e urgenti.

Che cosa significa e quale natura ha la riconciliazione?
Il concetto di “integrale ripresa del consortium vitae” tra coniugi (Cass. civ. Sez. VI, 24 agosto 2016, n. 17318; Cass. civ. Sez. VI, 24 agosto 2016, n. 17318) è quello che rende meglio di tutti il significato della riconciliazione.
Riconciliarsi vuol dire, insomma, riprendere la “comunione spirituale e materiale” in cui consiste la vita matrimo¬niale, secondo la definizione che è rinvenibile, paradossalmente, nella legge sul divorzio dove all’art. 1 si legge che il giudice pronuncia il divorzio quando “accerta che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita”.
Come precisato da una ormai copiosa giurisprudenza, la riconciliazione deve concretizzarsi in una durevole ri¬costituzione del preesistente nucleo familiare nell’insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali sì da ridar vita al pregresso vincolo coniugale, e non in un semplice riavvicinamento occasionale dei coniugi, pur con la ripresa della convivenza e dei rapporti sessuali (Cass. civ. Sez. VI, 24 dicembre 2014, n. 27386; Cass. civ. Sez. VI, 21 novembre 2014, n. 24833; Cass. civ. Sez. I, 17 settembre 2014, n. 19535; Cass. civ. Sez. I, 24 dicembre 2013, n. 28655; Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2000, n. 1227; Cass. civ., 17 novembre 1983, n. 6860; Cass. civ., 24 marzo 1983, n. 2058; Cass. civ. Sez. I, 6 marzo 1979, n. 1400; App. Napoli, 9 novembre 2012; Trib. Potenza, 27 maggio 2011; Trib. Trento, 18 gennaio 2011; Trib. Reggio Emilia, 12 maggio 2008; App. Roma, 13 febbraio 2008; App. Catania, 26 aprile 2007).
Non basta quindi certamente la sola ripresa della coabitazione che non costituisce, di per sé, quindi, un dato sufficiente per far ritenere intervenuta fra gli stessi una riconciliazione, occorrendo una stabile e consapevole ripresa della vita in comune, con una compartecipazione responsabile rispetto agli eventi incidenti sulla gestio¬ne familiare (Cass. civ. Sez. I, 10 gennaio 2014, n. 369; Cass. civ. Sez. I, 6 dicembre 2006, n. 26165; Cass. civ. Sez. I, 6 ottobre 2005, n. 19497; Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2004, n. 12427; Cass. civ. Sez. I, 11 ottobre 2001, n. 12428; Cass. civ. Sez. I, 28 febbraio 2000, n. 2217; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 1998, n. 6031). In passato alla coabitazione era stato tuttavia attribuito un forte valore presuntivo. Così per esempio Cass. civ. Sez. I, 25 maggio 2007, n. 12314 secondo cui l’elemento oggettivo del ripristino della coabitazione tra i coniugi, è potenzialmente idoneo a fondare, nel giudice, il positivo convincimento circa l’avve¬nuta riconciliazione e spetterà, quindi, al coniuge interessato a negarla dimostrare che il nuovo assetto posto in essere era, per intercorsi accordi tra le parti o per le modalità di vita familiare sotto lo stesso tetto, tale da non integrare una ripresa della convivenza, e quindi tale da non poter essere configurato come evento riconciliativo.
Interessante la pronuncia di Corte Conti Sez. III Pens. civ., 13 gennaio 1987, n. 59770 (risalente ai tempi in cui l’addebito era considerata causa di esclusione della pensione di reversibilità) secondo cui la sola ripresa della coabitazione non costituisce indice sicuro ed univoco dell’avvenuta riconciliazione fra i coniugi, idonea a superare l’impedimento per la corresponsione del trattamento di riversibilità a favore della vedova separata per sua colpa.
Anche la giurisprudenza di merito ha sempre applicati da tempo i medesimi principi (App. Napoli, 19 luglio 2013; Trib. Milano, 22 maggio 2013; Trib. Benevento, 22 gennaio 2010; Trib. Trani, 19 maggio 2008; Trib. Chieti, 18 ottobre 2007; Trib. Monza Sez. IV, 11 aprile 2006; App. Napoli, 17 gennaio 2005; App. Perugia, 9 ottobre 2003; Trib. Vercelli, 9 maggio 2001). La giurisprudenza di merito utilizza in generale criteri così rigorosi per la verifica dell’avvenuta riconciliazione da lasciare margini molto esigui per l’accoglimento dell’eccezione. Questo è molto evidente per esempio in Trib. Milano Sez. IX, 12 marzo 2009 secondo cui va esclusa la sussistenza di una vera e propria riconciliazione in presenza di incontri dei coniugi nei fine settimana o nelle vacanze, in presenza di visite anche giornaliere dettate da motivi umanitari, in relazione al semplice fatto che uno dei coniugi si rechi a consumare i pasti nell’abitazione familiare, in presenza di ritorni saltuari del marito nel luogo di residenza della moglie e di rapporti sessuali tra loro intervenuti in dette occasioni, in presenza del fatto che il marito, convivente con la moglie, corrisponda con continuità a quest’ultima somme di denaro: tali comportamenti non integrano ex se la prova dell’intervenuta riconciliazione, occorrendo per converso che que¬sti siano stati accompagnati da un insieme di altri comportamenti che realmente e concretamente dimostrino il ripristino della comunione di vita in tutti i suoi profili, sia materiali che spirituali.
L’accertamento deve compiersi “attribuendo rilievo preminente alla concretezza degli atti, dei gesti e dei compor¬tamenti posti in essere dagli stessi coniugi, valutati nella loro effettiva capacità dimostrativa della disponibilità alla ripresa della convivenza e alla costituzione di una rinnovata comunione, piuttosto che con riferimento a supposti elementi psicologici, tanto più difficili da provare in quanto appartenenti alla sfera intima dei sentimenti e della spiritualità soggettiva” e, naturalmente, implicando un’indagine di fatto, certamente non è censurabile in sede di legittimità (Cass. civ. Sez. I, 1 ottobre 2012, n. 16661; Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 2008, n. 21001; Cass. civ. Sez. I, 25 maggio 2007, n. 12314; Cass. civ. Sez. I, 15 marzo 2001, n. 3744).
Secondo Trib. Roma Sez. I, 19 luglio 2010 e App. Roma, 12 aprile 2006 a fronte dell’allegazione da parte di un coniuge degli elementi da cui desumere la riconciliazione, è onere del coniuge che contesti l›interruzione degli effetti della pregressa separazione dimostrare le modalità di svolgimento della vita coniugale sotto lo stesso tetto tali da far escludere l›intento conciliativo.
Il concetto di riconciliazione a cui si riferiscono le tre disposizioni alle quali si è sopra fatto cenno è un concetto unitario. La circostanza che solo l’art. 157 richiami la necessità che vi sia un “comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione” è comprensibile dal momento che in caso di contrasti sull’avvenuta riconciliazione – così come in caso di eccezione del convenuto in sede divorzile – è attribuito al giudice il compito di verifica dell’esistenza della ripresa della comunione di vita. Viceversa nel caso indicato nell’art. 154 la valuta¬zione è lasciata alla sola iniziativa dei coniugi essendo escluso che il giudice della causa in corso abbia il potere di verifica dell’esistenza o meno dei requisiti per potersi parlare di riconciliazione.
Il comportamento non equivoco a cui di riferisce l’art. 157 rileva come fatto giuridico più che come manifesta¬zione di volontà negoziale dei coniugi. Perché vi sia riconciliazione non basta una semplice dichiarazione (come ha tuttavia ritenuto Cass. civ. Sez. VI, 12 gennaio 2012, n. 334 in controtendenza rispetto all’orientamento prevalente) ma occorre che vi sia l’effettiva ricostituzione dei rapporti spirituali e materiali propri del vincolo coniugale. Tuttavia l’art. 157 afferma che i coniugi possono riconciliarsi “con una espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco” e pertanto, ferma la possibilità per il giudice di verifica della effettiva ripresa del consortium vitae, allorché la dichiarazione dei coniugi è fatta (come meglio si dirà in seguito) davanti all’uffi¬ciale di stato civile, non sarà possibile opporre ai terzi quanto meno l’inesistenza dell’effetto ripristinatorio della comunione legale. In questi limiti la “dichiarazione” ha valore negoziale.
III La riconciliazione nel corso della causa di separazione
a) Che vuol dire che la riconciliazione comporta l’abbandono della causa?
Come si è detto l’art. 154 c.c. prescrive che “La riconciliazione tra i coniugi comporta l’abbandono della domanda di separazione personale già proposta”. Una norma analoga, come si è detto, non è prevista nella normativa sul divorzio. Pertanto ove due coniugi si dovessero riconciliare nel corso della causa di divorzio, troverà applicazione l’art. 157 c.c. (operativo ovviamente fino al giudicato sullo status di divorzio) e i coniugi potranno rinunciare al giudizio in corso.
Allorché nel corso della causa di separazione due coniugi si riconciliano riprendendo il loro consortium vitae si ve¬rifica automaticamente quella situazione che l’art. 154 c.c. chiama, come si è visto, “abbandono della domanda di separazione”. Quindi alla riconciliazione il legislatore attribuisce effetti preclusivi del giudizio di separazione in corso.
Prima della riforma del 1975 la norma prevedeva anche l’effetto sostanziale, consistente nella estinzione del diritto di chiedere la separazione per fatti anteriori (si ricorda che prima della riforma del 1975 la separazione poteva essere chiesta solo adducendo specifici fatti previsti dal codice).
Ebbene se è vero che la riconciliazione comporta ipso iure l’abbandono della causa in corso (su cui in genere c’è evidentemente accordo tra i coniugi) è anche vero, però, che se la riconciliazione non viene portata a cono¬scenza del giudice, il processo inevitabilmente continuerà. Con l’effetto che la mancata comparizione delle parti alle udienze condurrà all’estinzione del processo ai sensi degli articoli 181 e 309 del codice di procedura civile, con l’inevitabile applicazione delle conseguenze indicate nell’art. 189 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile (di cui si parlerà tra breve) che prevede l’ultrattività dei provvedimenti provvisori e urgenti dati all’inizio della causa.
Per i coniugi riconciliati, però, non sarebbe accettabile l’ultrattività dei provvedimenti presidenziali, dal momento che questa conseguenza non è, peraltro, quella che i coniugi vogliono, riconciliandosi.
In che modo, quindi, si può evitare il rischio dell’applicazione automatica dell’art, 189 delle disposizioni di attua¬zione del codice di procedura civile?
b) Il rischio dell’ultrattività dell’ordinanza presidenziale
Per capire il senso dell’art. 189 disp. att. c.p.c. occorre considerare che capita di frequente che i coniugi, ottenuti i provvedimenti presidenziali, non abbiano più interesse alla prosecuzione della causa (perché magari non inten¬dono divorziare o semplicemente perché non vogliono affrontare gli ulteriori costi del giudizio) e – soddisfatti di quei provvedimenti – decidano di abbandonare il processo non presentandosi più alle udienze.
A tale evenienza nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, si riferisce l’art. 189 (Provvedi¬menti relativi alla separazione personale dei coniugi) – applicabile anche al divorzio in base all’art. 4, comma 8, ultima parte, della legge 1 dicembre 1970, n. 898) – che, dopo aver prescritto al primo comma che “L’ordinanza con la quale il presidente del tribunale o il giudice istruttore dà i provvedimenti di cui all’articolo 708 del codice costituisce titolo esecutivo” prevede al secondo comma che “Essa conserva la sua efficacia anche dopo l’estinzio¬ne del processo finché non sia sostituita con altro provvedimento emesso dal presidente o dal giudice istruttore a seguito di nuova presentazione del ricorso per separazione personale [o di divorzio] dei coniugi”.
Pertanto se i coniugi che si sono riconciliati e i rispettivi avvocati non si presentano più alle udienze, il proces¬so si estinguerà per mancata comparizione delle parti (art. 309 c.p.c.1 che richiama l’art. 181 c.p.c. 2) e in tal
1 Art. 309 (Mancata comparizione all’udienza)
Se nel corso del processo nessuna delle parti si presenta all’udienza, il giudice provvede a norma del primo comma dell’articolo 181.
2 Art. 181 (Mancata comparizione delle parti)
Se nessuna delle parti compare alla prima udienza, il giudice fissa un’udienza successiva, di cui il cancelliere dà comunicazione alle parti costituite. Se nessuna delle parti compare alla nuova udienza, il giudice ordina che la causa sia cancellata dal ruolo e dichiara l’estinzione del processo.

caso rimarrebbero in vita per i coniugi riconciliati i provvedimenti provvisori e urgenti dati all’inizio della causa di separazione o di divorzio, come previsto nell’art. 189 di cui si è detto. Il che è un assurdo. Diversa infatti è la condizione dei coniugi riconciliati (che sono coniugi a tutti gli effetti) e quella dei coniugi per i quali, essendosi verificata l’estinzione della causa per inattività, continuano a valere tutte le condizioni stabilite in sede presiden¬ziale, pur non essendo la causa giunta alla sentenza di separazione.
Quindi occorre un meccanismo che eviti l’applicazione automatica dell’art. 189 disp. att. c.p.c., che consegue all’abbandono della causa, giacché i provvedimenti presidenziali non possono certo conservare la loro efficacia per i coniugi riconciliati.
c) La rinuncia al giudizio e la cessazione della materia del contendere
Questo meccanismo non può essere che la rinuncia al giudizio (di cui, in verità, tratta l’art. 306 c.p.c.3 che po¬trebbe, però, portare ugualmente alla dichiarazione di estinzione del processo). Per questo nella prassi il giudice, in seguito alla rinuncia delle parti, anziché dichiarare l’estinzione (come vorrebbe l’art. 306 c.p.c.) dichiara con ordinanza la cessazione della materia del contendere.
Così, espressamente Trib. Benevento, 7 marzo 2007 secondo cui l’avvenuta riconciliazione nelle more del processo – prodotta in giudizio mediante deposito della rinunzia alla stessa, sottoscritta dai coniugi ed autenti¬cata dal legale – comporta la declaratoria di cessazione della materia del contendere.
Si tratta di una prassi ragionevole anche se, come si è accennato, processualmente anomala dal momento che il meccanismo di cui all’art. 306 c.p.c. dovrebbe portare alla dichiarazione di estinzione con la conseguenza di rendere applicabile automaticamente l’art. 189 disp. att. c.p.c. che porterebbe, però, a sovrapporre i prov¬vedimenti provvisori e urgenti di separazione e di divorzio a coniugi che non intendono esserne destinatari, essendosi riconciliati.
La prassi, perciò, seguita – di dichiarare su richiesta delle parti la cessazione della materia del contendere – è l’unica capace di evitare l’applicazione dell’art. 189 disp. att. c.p.c. anche se richiede ai coniugi un adempimento processuale (appunto, l’atto di rinuncia) di cui il codice civile, con la formulazione dell’art. 154, non intendeva gravare gli interessati.
d) L’eccezione di avvenuta riconciliazione nel corso della stessa causa di separazione
Nel corso di una causa di separazione non può escludersi (sebbene dovrebbe essere del tutto infrequente visto che i coniugi riconciliati abbandonano la causa) che un coniuge eccepisca che dopo l’introduzione della causa vi sarebbe stata una riconciliazione e che, nonostante ciò, il processo sia proseguito in violazione del principio contenuto nell’art. 154.
In tal caso il giudice potrebbe ritenere l’eccezione fondata e che la causa non avrebbe dovuto proseguire; questo accertamento sarebbe possibile anche d’ufficio. E’ quanto si è verificato nella vicenda trattata da Cass. civ. Sez. I, 17 settembre 2014, n. 19535 in cui i giudici, dopo aver chiarito la differenza tra l’art. 154, secondo cui la riconciliazione determina l’abbandono della domanda di separazione, e l’art. 157, che ne regola gli effetti succes¬sivamente alla sentenza, affermano che In nessuna delle due norme la riconciliazione può essere ricondotta ad un fatto impeditivo, qualificabile come eccezione in senso stretto, trattandosi della sopravvenienza di una nuova con¬dizione da accertarsi ufficiosamente dal giudice ancorché sulla base delle deduzioni e allegazioni delle parti. Il regi¬me giuridico – afferma inoltre la sentenza – è diverso rispetto a ciò che avviene nel giudizio di divorzio, in quanto l’art. 3, comma 5, della legge sul divorzio, stabilisce espressamente che l’interruzione della separazione, in quanto fatto specificamente impeditivo della realizzazione della condizione temporale stabilita nella medesima disposizio¬ne, deve essere eccepita dalla parte convenuta e non può essere eccepita dal giudice (eccezione in senso stretto).
IV La riconciliazione dopo la separazione
Dopo la separazione (passata in giudicato) la riconciliazione ne fa cessare gli effetti senza che sia necessario l’in¬tervento del giudice (art. 157 c.c.). Non serve quindi null’altro che riconciliarsi riprendendo la vita matrimoniale. La norma intende evidentemente agevolare la voluta ripresa della vita matrimoniale, senza gravare i coniugi che si riconciliano di oneri processuali particolari finalizzati alla cancellazione degli effetti della separazione.
a) La dichiarazione e il comportamento non equivoco
L’art. 157 prevede che la riconciliazione dei coniugi debba evidenziarsi “con una espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco”. Come si è già detto la riconciliazione è un fenomeno unitario e pertanto deve ugualmente qui avvenire la ripresa effettiva della comunione di vita anche quando la volontà di riconciliazione
Se l’attore costituito non comparisce alla prima udienza, e il convenuto non chiede che si proceda in assenza di lui, il giudice fissa una nuova udienza, della quale il cancelliere dà comunicazione all’attore. Se questi non comparisce alla nuova udienza, il giudice, se il convenuto non chiede che si proceda in assenza di lui, ordina che la causa sia cancellata dal ruolo e dichiara l’e¬stinzione del processo.
3 Art. 306.(Rinuncia agli atti del giudizio)
Il processo si estingue per rinuncia agli atti del giudizio quando questa è accettata dalle parti costituite che potrebbero aver interesse alla prosecuzione. L’accettazione non è efficace se contiene riserve o condizioni.
Le dichiarazioni di rinuncia e di accettazione sono fatte dalle parti o da loro procuratori speciali, verbalmente all’udienza o con atti sottoscritti e notificati alle altre parti.
Il giudice, se la rinuncia e l’accettazione sono regolari, dichiara l’estinzione del processo.
Il rinunciante deve rimborsare le spese alle altre parti, salvo diverso accordo tra loro. La liquidazione delle spese è fatta dal giudice istruttore con ordinanza non impugnabile.

sia espressa in una dichiarazione (quale che ne sia l’atto o la forma). In altre parole la dichiarazione in sé non esime dalla verifica della effettiva ripresa del consortium vitae.
b) La pubblicità notizia
Se il “comportamento non equivoco” è ritenuto sufficiente tra le parti per considerare riconciliati i coniugi che lo hanno messo in essere, è evidente che questo non è sufficiente nei confronti dei terzi.
La separazione è, infatti, annotata nell’atto di matrimonio (art. 49. lett. d dell’Ordinamento di stato civile appro¬vato con DPR 3 novembre 2000, n. 396) e pertanto i coniugi continueranno ad essere pubblicamente considerati “separati”. Per questo motivo l’ordinamento di stato civile (DPR 3 novembre 2000, n. 396) ha previsto all’art. 49, lett. f che negli atti di matrimonio si annotano anche “le dichiarazioni con le quali i coniugi separati manifestano [cioè rendono manifesta] la loro riconciliazione”.
Sulla necessità dell’annotazione negli atti di stato civile della dichiarazione di riconciliazione cfr Trib. Monza, 1 aprile 2004.
La dichiarazione in questione – che si rende davanti all’ufficiale di stato civile (decreto ministeriale del 5 aprile 2002, formula n. 121-bis4) – non ha, però, certamente funzione costitutiva ma soltanto di pubblicità notizia5 pre¬disposta per assicurare la conoscibilità legale di determinati fatti e, quindi, con una funzione informativa. Serve, cioè, a rendere conoscibile l’atto al quale il legislatore reputa che si debba dare notorietà legale. In questi casi l’atto pubblicizzato nel modo previsto ha piena validità senza che il terzo possa dichiarare di non averne avuto conoscenza. Ove la riconciliazione, non fosse stata annotata perché non dichiarata all’ufficiale di stato civile, essa ha ugualmente valore ma sarà l’interessato che deve dimostrare che il terzo ne era comunque a conoscenza. La pubblicità-notizia si limita, perciò, a dare notizia di determinati fatti, senza che la sua omissione impedisca ai medesimi di produrre i loro effetti giuridici che, nel caso della riconciliazione, sono quelli di ripristinare tra le parti la condizione coniugale piena facendo cessare gli effetti della separazione.
Soltanto ai fini del ripristino del regime della comunione legale – come si dirà – si può ritenere che la formalità abbia funzione dichiarativa, non potendo la riconciliazione, in difetto di pubblicità, essere opposta ai terzi. In tutti gli altri casi l’effetto ripristinatorio della condizione coniugale si verifica, quindi, anche se per ipotesi i coniugi non dichiarassero l’avvenuta riconciliazione. Proprio su questi aspetti Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 2003, n. 18619 ha affermato in passato che occorre distinguere tra effetti interni ed esterni del ripristino della comunione legale e, conseguentemente, in mancanza di pubblicità della riconciliazione, la ricostituzione della comunione legale derivante dalla riconciliazione non può essere opposta al terzo in buona fede che abbia acquistato a titolo oneroso un immobile dal coniuge che risultava unico ed esclusivo del medesimo, benché lo avesse acquistato successivamente alla riconciliazione .
c) La cessazione degli effetti personali della separazione
Secondo la pacifica interpretazione dell’art. 157 gli effetti della separazione che cessano sono quelli personali cioè collegati allo status e non quelli patrimoniali.
Si annullano, quindi, gli effetti dell’eventuale addebito e tutti gli altri effetti personali collegati alla pronuncia di separazione. Riprendono vita perciò i diritti e i doveri coniugali (fedeltà coabitazione, dovere di assistenza morale e materiale) nonché le obbligazioni contributive di cui parla l’art. 143 c.c. oltre che le altre regole della vita matri¬moniale come quella dell’accordo (art. 144 c.c.). Rientrano tra gli obblighi di natura personale che vengono meno ex nunc anche quelli collegati agli eventuali obblighi di mantenimento (coniugale e per i figli) (Cass. pen. Sez. VI, 26 giugno 1992, n. 7442) oltre che le statuizioni relative all’affidamento stabilite in sede di separazione.
La riconciliazione produce anche il ripristino della presunzione di concepimento durante il matrimonio (Cass. civ. 23 gennaio 1984, n. 541; Trib. Napoli, 19 marzo 1991).
Come è stato ben precisato da Cass. civ. Sez. III, 26 agosto 2013, n. 19541 l’effetto di caducazione del provvedimento di separazione decorre dal ripristino della convivenza spirituale e materiale, propria della vita coniugale. Con la conseguenza che, in caso di successiva separazione, occorre una nuova regolamentazione dei rapporti economici tra i coniugi, a cui il giudice deve provvedere sulla base di una nuova valutazione della situa¬zione economico-patrimoniale dei coniugi stessi, che tenga conto delle eventuali sopravvenienze e, quindi, anche delle disponibilità da loro acquisite per effetto della precedente separazione.
d) La sopravvivenza degli obblighi negoziali assunti con la separazione
Gli obblighi di tipo negoziale e contrattuale assunti con la separazione non vengono meno, naturalmente, trat¬tandosi di obbligazioni contrattuali indipendenti dalla pronuncia di separazione.
A questo riguardo occorre dare conto della distinzione – a fini descrittivi accettabile – accolta in giurisprudenza (Cass. civ. Sez. I, 19 agosto 2015, n. 16909; Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18066; Cass. civ. Sez. I, 15 maggio 1997, n. 4306; Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2007, n. 24321) tra contenuto necessa¬rio degli accordi di separazione (da qualcuno definito “tipico” e in sostanza coincidente con le clausole collegate ai diritti e agli obblighi nascenti dal matrimonio) e contenuto eventuale (da qualcuno definito “atipico” concernente clausole di vario contenuto che le parti possono sempre liberamente inserire nella loro separazione o nel loro divorzio). Nel contenuto necessario si indicano anche clausole negoziali collegate al mantenimento mentre nel contenuto eventuale si aggregano clausole contrattuali soltanto “occasionate dalla separazione” e che potrebbe¬ro anche essere stipulate al di fuori della separazione. Le clausole contrattuali non possono essere considerate azzerata dalla riconciliazione, ostandovi la loro natura non collegata agli aspetti essenziali della separazione.
Il fatto che le obbligazioni negoziali assunte con la separazione restano ferme è opinione pacifica in giurispru¬denza (Trib. Genova Sez. IV, 29 marzo 2016 secondo cui le pattuizioni relative a trasferimenti di diritti reali non possono ritenersi condizionate dalla intervenuta riconciliazione).
e) Gli effetti della riconciliazione sul regime patrimoniale
Poiché la riconciliazione, cancellando la separazione, ripristina la vita matrimoniale, si è sempre discusso se il regime patrimoniale nel quale si trovavano i coniugi riconciliatisi, si ripristina automaticamente o meno.
La risposta a questa domanda è positiva nel senso che si può affermare che i coniugi rientrano ex nunc nel re¬gime patrimoniale nel quale si trovavano. Se erano in separazione di beni, quindi, ritornano in separazione dei beni. Se erano in comune legale ritornano in comunione legale.
Effettivamente la giurisprudenza (salvo qualche eccezione come Trib. Monza Sez. II, 5 maggio 2008) ha ritenuto, con orientamento che appare oggi consolidato, che ove il regime patrimoniale dei coniugi in corso di matrimonio era quello della comunione dei beni, alla riconciliazione si accompagna il ripristino della comunione legale ex nunc ma non certo per quanto riguarda i beni acquistati dopo l’avvenuto scioglimento della comunione (Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 2003, n. 18619; Cass. civ. Sez. I, 12 novembre 1998, n. 11418; Trib. Milano Sez. IX, 10 novembre 2003; App. Trento, 2 settembre 1996).
L’avvenuta riconciliazione dei coniugi separati spiega effetti soltanto interni alla coppia e non può operare ester¬namente al fine di travolgere atti dispositivi compiuti da uno dei coniugi in favore di terzi di buona fede, e quindi non può essere opposta agli acquirenti di un bene immobile dalle mani del coniuge che si è dichiarato legittimato a disporne, dopo che l’avvenuta separazione aveva sciolto il precedente regime di comunione legale (Trib. Bo¬logna, 28 gennaio 1998; Trib. Palermo, 29 marzo 1997).
Perché questo effetto possa, però, essere opposto ai terzi occorrerà che i coniugi rendano la dichiarazione di ri¬conciliazione e che questa – analogamente a quanto avverrebbe se scegliessero ex novo un regime determinato – venga annotata nell’atto di matrimonio (Trib. Napoli, 21 dicembre 1998). In tal caso, però l’annotazione ha, quindi, funzione analoga all’annotazione delle convenzioni matrimoniali che è quella di pubblicità dichiarativa, nel senso che l’annotazione serve a rendere opponibili ai terzi le convenzioni e le loro modifiche, non potendo in difetto, essere surrogate dal fatto che il terzo ne sia venuto altrimenti a conoscenza.
f) L’effetto di resetting
La riconciliazione ha l’effetto di azzerare il conflitto coniugale nel senso che “La separazione può essere pro¬nunziata nuovamente soltanto in relazione a fatti e comportamenti intervenuti dopo la riconciliazione” (art.157 capoverso). L’effetto di resetting (secondo il nome che qui si suggerisce) comporta l’annullamento di tutto il con¬tenzioso che aveva caratterizzato la causa di separazione e quindi, per esempio, anche dell’eventuale pronuncia di addebito.
Un effetto analogo non è previsto nel caso di riconciliazione durante la separazione; situazione che non è apparsa illegittima alla Corte costituzionale (Corte cost. 21 aprile 1983, n. 104).
Ha espresso bene questo concetto anche App. Roma, 7 marzo 2007 dove si afferma che la riconciliazione è fonte non soltanto di effetti processuali – preclusivi come tali del giudizio di separazione in corso – ma anche di effetti propriamente sostanziali, consistenti specificamente nel determinare la inidoneità di fatti anteriori alla stessa ad assumere autonomo valore probatorio ai fini di una pronuncia di addebito di separazione avanzata dopo l’evento riconciliativo di fatto non riuscito.
Ove i coniugi dovessero di nuovo separarsi, l’addebito potrà essere eventualmente pronunciato solo per fatti suc¬cessivi alla riconciliazione (Cass. civ. Sez. I, 19 luglio 2010, n. 16873¸Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 1991, n. 26; Cass. civ. Sez. I, 29 novembre 1990, n. 11523). Questa è l’interpretazione più logica che deriva dalla lettura del capoverso della disposizione, essendo evidente che ai fini della domanda di separazione non è neces¬sario dare conto di alcun fatto o comportamento che giustifichi l’esercizio di tale diritto. A differenza di quanto avveniva nel regime precedente alla riforma del 1975 in cui – secondo il codice del 1942 – la separazione era fondata su ipotesi tipiche di colpa per violazione di specifici doveri derivanti dal matrimonio e la riconciliazione implicava l’impossibilità di utilizzare i fatti anteriori come causa petendi di una nuova domanda di separazione.
g) La riconciliazione estingue i reati commessi tra coniugi nel corso della separazione?
A questa domanda ha dato implicitamente risposta negativa in passato Corte cost. 20 luglio 1990, n. 357 dichiarando manifestamente inammissibile – in riferimento agli art. 2, 3, 29, 30 e 31 della Costituzione – la que¬stione di legittimità costituzionale dell’art. 572, 1° comma, c. p., nella parte in cui non prevede come causa di estinzione del reato di maltrattamenti in famiglia la seria riconciliazione dei coniugi ed il normale svolgimento della vita coniugale, giudizialmente accertati; e ciò in quanto spetta esclusivamente al legislatore stabilire se esistano fatti successivi al reato in grado di estinguere il carattere criminale delle violazioni commesse e le rela¬tive conseguenze sanzionatorie.
Una volta riconosciuta e confermata l’attuale validità della rilevanza penale di fatti che violano i principi su cui si fonda l’unità della famiglia e l’etica della coesistenza pacifica dei suoi membri (anche nell’interesse dei figli minori), non può spettare che allo stesso legislatore stabilire se esistano fatti successivi in grado di estinguere, sotto condizioni che ancora una volta solo il legislatore può disciplinare, il carattere penale di quelle violazioni e le relative conseguenze sanzionatorie.
In ordine al reato di violazione degli obblighi di assistenza Corte cost. 18 aprile 1983, n. 102 dichiarò inam-missibile una questione di costituzionalità che era stata sollevata. Alte questioni vennero affrontate da Corte cost. 29 luglio 1982, n. 157 che restituì gli atti ai giudici remittenti sulla base della introduzione ad opera della riforma penale del 1981 della querela di parte per i reati sui quali si erano concentrate le censure di inco¬stituzionalità.
h) Può la riconciliazione essere eccepita in un giudizio di modifica delle condizioni di separazione?
Secondo Trib. Modena Sez. II, 10 marzo 2011 nel procedimento di modifica delle condizioni di separazione promosso ai sensi dell’art. 710 c.p.c. sarebbe irrilevante in relazione all’oggetto del processo, se non addirittura inammissibile, l’eccezione di intervenuta riconciliazione tra i coniugi.
La decisione non appare condivisibile dal momento che ove si fosse verificata effettivamente la riconciliazione si sarebbero verificati gli effetti previsti dall’art. 157 e dovrebbe quindi essere dichiarata l’improponibilità del procedimento di modifica delle condizioni di separazione.
V L’eccezione di riconciliazione in sede divorzile
Si è detto all’inizio che in caso di domanda di divorzio fondata su una precedente pronuncia di separazione (con¬sensuale o giudiziale) l’art. 3, n. 2 b, ultima parte, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, nel testo modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74 prescrive che “L’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta”.
Si tratta di un’eccezione in senso stretto. Non è rilevabile d’ufficio, deve essere tempestivamente proposta ad istanza della parte convenuta ed è inammissibile se proposta per la prima volta in appello (Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11885; Cass. civ. Sez. I, 17 settembre 2014, n. 19535; Cass. civ. Sez. I, 19 novembre 2010, n. 23510).
Quindi il legislatore consente al convenuto di neutralizzare la domanda di divorzio presentata dall’altro coniu¬ge, eccependo l’“interruzione della separazione”, espressione che è usata come sinonimo di “riconciliazione”. Il fondamento della norma è quello di imporre il rispetto formale della sequenza prevista tra il procedimento di separazione e quello di divorzio.
La legge 6 maggio 2015, n. 55 che ha ridotto i termini minimi necessari per la presentazione della domanda di divorzio – un anno dall’udienza presidenziale se la separazione è giudiziale e sei mesi dalla consensuale o dalla consensualizzazione6 – ha reso molto improbabile l’eventualità di una riconciliazione in così poco tempo di vita da separati.
Ciononostante ove il convenuto eccepisse e provasse l’avvenuta riconciliazione il tribunale dovrebbe dichiarare inammissibile la domanda.
E’ frequente il caso in cui, respinta l’eccezione di riconciliazione, la causa prosegua magari giungendo alla sen¬tenza non definitiva di divorzio. E’ questo uno dei pochi casi in cui il ricorrente deluso dal rigetto dell’eccezione potrebbe, avendovi interesse, presentare appello immediato avverso la decisione sullo status, con la conseguen¬za che la causa potrebbe prolungarsi per molto tempo in appello e magari anche davanti alla Corte di cassazione.
Interessante la pronuncia di Trib. Verona, 5 giugno 2002 secondo cui il pubblico ministero, ai sensi dell’art. 397 c.p.c. è legittimato a chiedere la revocazione della sentenza di divorzio pronunziata sulla base della ininter¬rotta durata della separazione, senza che emergesse la sopravvenuta riconciliazione dei coniugi, giacché è ben vero che ai sensi dell’art. 3 n. 2 lett. b) l. n. 898 del 1970 l’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta, ma nella specie la mancata allegazione e prova in giudizio della riconciliazione integrava una collusione dei coniugi volta a evitare che il giudice appurasse anche d’ufficio l’avvenuta riconcilia¬zione, stante la rilevanza pubblicitaria della disciplina. Questo presupposto, però – che il giudice potesse rilevare d’ufficio la riconciliazione – è errato.
6 In tutti i casi di divorzio chiesto in seguito alla pregressa separazione, “per la proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le separazioni devono essersi protratte ininterrottamente da almeno dodici mesi dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale e da sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale, ovvero dalla data certificata nell’accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato ovvero dalla data dell’atto contenente l’accordo di separazione concluso innanzi all’ufficiale dello stato civile. L’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta” (art. 3, n. 2, b, seconda parte, delle legge sul divorzio dopo le modifiche apportate dalla legge 6 maggio 2015, n. 55 ).
Giurisprudenza
Cass. civ. Sez. VI, 24 agosto 2016, n. 17318 (Giur. It., 2017, 3, 594 nota di EMILIOZZI)
In tema di riconciliazione, nulla ha mutato al riguardo, limitandosi a ridurre i termini dall’udienza presidenziale, la recente L. n. 55 del 2015. D’altra parte, l’eventuale interruzione della separazione dovrà essere eccepita, ai sensi dell’art. 3 L. Divorzio, dalla parte convenuta, che dovrà dunque fornire piena prova dell’intervenuta riconciliazione e dell’integrale ripresa del consortium vitae tra i coniugi.
Trib. Genova Sez. IV, 29 marzo 2016 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La clausola con la quale i coniugi nel verbale di separazione consensuale riconoscano la proprietà esclusiva di beni immobili, costituisce negozio attributivo della proprietà e soddisfa, per i beni immobili, l’esigenza della forma scritta, non essendo neces¬sario l’atto notarile. L’anzidetta concorde attribuzione della proprietà sugli immobili costituisce, dunque, atto dispositivo della proprietà, immediatamente efficace, che non può essere condizionato dalla successiva riconciliazione, ma, eventualmente, solo da un successivo concorde ed autonomo atto di disposizione della stessa proprietà.
Cass. civ. Sez. I, 9 giugno 2015, n. 11885 (Foro It., 2015, 7-8, 1, 2301)
Nei giudizi di divorzio l’eccezione di sopravvenuta riconciliazione non è rilevabile d’ufficio, ma deve essere tempestivamente proposta esclusivamente ad istanza della parte convenuta, in quanto non ne è ammissibile la successiva proposizione da parte del coniuge che aveva chiesto il divorzio (nella specie, è stata cassata la sentenza di merito che aveva invece accolto l’eccezione di riconciliazione proposta dalla ricorrente, dopo che il marito, costituendosi, aveva aderito alla domanda di divorzio, sussistendo però contrasto quanto ai profili economici).
Cass. civ. Sez. VI, 24 dicembre 2014, n. 27386 (Giur. It., 2015, 5, 1076 nota di DALMASSO DI GARZEGNA)
La convivenza ripresa dopo la separazione ed idonea ad interromperla, non deve essere caratterizzata dalla temporaneità, do¬vendosi ricostituire concretamente il preesistente vincolo coniugale, nella sua essenza materiale e spirituale, di certo non realiz¬zabile se l’altro coniuge si trova in carcere. Nella disciplina della cessazione degli effetti civili del matrimonio, il pregresso stato di separazione tra i coniugi (concretante un vero e proprio requisito dell’azione, ex art. 3 n. 2 della legge n. 898 del 1970) può legittimamente dirsi interrotto nel caso in cui si sia concretamente e durevolmente ricostituito il preesistente nucleo familiare nell’insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali sì da ridar vita al pregresso vincolo coniugale, e non anche quando il riavvicina¬mento dei coniugi, pur con la ripresa della convivenza e dei rapporti sessuali, rivesta caratteri di temporaneità ed occasionalità.
Cass. civ. Sez. VI, 21 novembre 2014, n. 24833 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La riconciliazione coniugale non può consistere nel mero ripristino della situazione quo ante, bensì si sostanzia nella ricostitu¬zione del consorzio familiare attraverso la ricomposizione della comunione coniugale di vita vale a dire la ripresa di relazioni reciproche, oggettivamente rilevanti, tali da comportare il superamento di quelle condizioni che avevano reso intollerabile la pro¬secuzione della convivenza e che si concretizzino in un comportamento non equivoco incompatibile con lo stato di separazione.
Cass. civ. Sez. I, 17 settembre 2014, n. 19535 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per provare la riconciliazione tra coniugi separati, non è sufficiente che i medesimi abbiano ripristinato la convivenza, essendo invece necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali, caratteristici della vita coniugale.
L’art. 154 cod. civ., stabilisce che la riconciliazione determina l’abbandono della domanda di separazione personale. Il successivo art. 157 cod. civ., ne regola gli effetti successivamente alla sentenza con la quale è stata dichiarata la separazione personale. In nessuna delle due norme la riconciliazione può essere ricondotta ad un fatto impeditivo, qualificabile come eccezione in senso stretto, trattandosi della sopravvenienza di una nuova condizione da accertarsi officiosamente dal giudice ancorché sulla base delle deduzioni e allegazioni delle parti. Il regime giuridico è nettamente diverso nel giudizio di divorzio in quanto l’art. 3, comma 5, così come sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 5, stabilisce espressamente che l’interruzione della separazione, in quanto fatto specificamente impeditivo della realizzazione della condizione temporale stabilita nella medesima disposizione, deve esse¬re eccepita dalla parte convenuta. Ne consegue, limitatamente a questa ipotesi, l’improponibilità per la prima volta in appello dell’eccezione (Cass. 23510 del 2010).
Cass. civ. Sez. I, 10 gennaio 2014, n. 369(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La coabitazione dei coniugi non costituisce, di per sé, un dato sufficiente per far ritenere intervenuta fra gli stessi una riconci¬liazione, essendo al contrario necessario, a tal fine, che sia concretamente ricostituito il preesistente nucleo familiare nell’insie¬me dei suoi rapporti materiali e spirituali. Occorre, pertanto, che sia data dimostrazione dell’avvenuto raggiungimento di una stabile e consapevole ripresa della vita in comune, con una compartecipazione responsabile rispetto agli eventi incidenti sulla gestione familiare.
Cass. civ. Sez. I, 24 dicembre 2013, n. 28655 (Foro It., 2014, 2, 1, 480)
La cessazione degli effetti civili della separazione si determina a seguito di riconciliazione , che non consiste nel mero ripristino della situazione “quo ante”, ma nella ricostituzione del consorzio familiare attraverso la ricomposizione della comunione coniu¬gale di vita, vale a dire la ripresa di relazioni reciproche, oggettivamente rilevanti, tali da comportare il superamento di quelle condizioni che avevano reso intollerabile la prosecuzione della convivenza e che si concretizzino in un comportamento non equi¬voco incompatibile con lo stato di separazione.
Cass. civ. Sez. III, 26 agosto 2013, n. 19541 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La riconciliazione successiva al provvedimento di omologazione della separazione consensuale, ai sensi dell’art. 157 cod. civ., determina la cessazione degli effetti della precedente separazione, con caducazione del provvedimento di omologazione, a far data dal ripristino della convivenza spirituale e materiale, propria della vita coniugale. Ne consegue che, in caso di successiva separazione, occorre una nuova regolamentazione dei rapporti economici tra i coniugi, cui il giudice deve provvedere sulla base di una nuova valutazione della situazione economico-patrimoniale dei coniugi stessi, che tenga conto delle eventuali sopravve¬nienze e, quindi, anche delle disponibilità da loro acquisite per effetto della precedente separazione.
App. Napoli, 19 luglio 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Perché possa configurarsi la riconciliazione dei coniugi separati non è sufficiente che i coniugi abbiano ripristinato la convivenza, essendo invece necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali tipici del rapporto coniugale, la cui prova va individuata nella ripresa dell’affectio coniugalis, nella sussistenza di circostanza di fatto incompatibili con il permanere dello stato di sepa¬razione, con la ripresa di frequentazioni di amici e conoscenti, con lo svolgimento di viaggi, con la cura e l’educazione costante della prole, lo scambio di regali in occasione di feste e ricorrenze e quindi con tutto ciò che costituisce espressione del ripristino della solidarietà familiare caratterizzante la vita dei coniugi.
Trib. Milano, 22 maggio 2013 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La riconciliazione tra i coniugi va intesa quale ricostituzione di un’affectio coniugalis piena e profonda, quale ripristino del con¬sorzio familiare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale dei coniugi (Cass. Sez. I 25.5.2007 n. 12314, Cass. Sez. I 6.10.2005 n. 19497). Non è elemento sufficiente il fatto che i coniugi, dopo la separazione, per un certo periodo, abbiano scelto di tornare a coabitare.
App. Napoli, 9 novembre 2012 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La riconciliazione tra i coniugi, successiva alla separazione legale (giudiziale o consensuale) toglie efficacia a quest’ultima e osta al divorzio sempre che si risolva – e il coniuge istante ne offra la prova – nella ripresa della comunione di vita, vale a dire della convivenza con le ordinarie modalità della stessa, sempre che siano riconducibili allo schema legale di rapporto coniugale (nella specie la Corte ha rigettato l’eccezione di riconciliazione della moglie, secondo cui già in epoca precedente alla separazione i due concordemente non convivevano, e la moglie stessa tollerava i continui adulteri del marito, assetto che si sarebbe riproposto anche successivamente alla riconciliazione).
Cass. civ. Sez. I, 1 ottobre 2012, n. 16661 (Famiglia e Diritto, 2013, 2, 199)
La dichiarazione di divorzio non consegue automaticamente alla constatazione della presenza di una delle cause previste dall’art. 3 della legge n. 898 del 1970 (oggi dagli artt. 1 e 7 della legge n. 74 del 1987), ma presuppone, in ogni caso, attesi i riflessi pubblicistici riconosciuti dall’ordinamento all’istituto familiare, l’accertamento, da parte del giudice, della esistenza (dell’essen¬ziale condizione) della concreta impossibilità di mantenere o ricostituire il consorzio coniugale per effetto della definitiva rottura del legame di coppia, onde, in questo senso, lo stato di separazione dei coniugi concreta un requisito dell’azione, necessario secondo la previsione dell’art. 3, n. 2, lett. b), della citata legge n. 898 del 1970, la cui interruzione, da opporsi a cura della parte convenuta (art. 5 della legge n. 74 del 1987) in presenza di una richiesta di divorzio avanzata dall’altra parte, postula l’avvenuta riconciliazione, la quale si verifica quando sia stato ricostituito l’intero complesso dei rapporti che caratterizzano il vincolo ma¬trimoniale e che, quindi, sottende l’avvenuto ripristino non solo di quelli riguardanti l’aspetto materiale del consorzio anzidetto, ma altresì di quelli che sono alla base dell’unione spirituale tra i coniugi.
L’accertamento dell’avvenuta riconciliazione tra coniugi separati, per avere essi tenuto un comportamento non equivoco che risulti incompatibile con lo stato di separazione (da compiersi attribuendo rilievo preminente alla concretezza degli atti, dei ge¬sti e dei comportamenti posti in essere dagli stessi coniugi, valutati nella loro effettiva capacità dimostrativa della disponibilità alla ripresa della convivenza e alla costituzione di una rinnovata comunione, piuttosto che con riferimento a supposti elementi psicologici, tanto più difficili da provare in quanto appartenenti alla sfera intima dei sentimenti e della spiritualità soggettiva), implicando un’indagine di fatto, è rimesso all’apprezzamento del giudice di merito e si sottrae, quindi, a censura, in sede di le¬gittimità, là dove difettino vizi logici o giuridici.
Cass. civ. Sez. VI, 12 gennaio 2012, n. 334 (Foro It., 2012, 2, 1, 417)
Deve essere dichiarata improponibile per difetto dei requisiti di cui all’art.3 n.2 lett.b) della legge 1 dicembre 1970, n.898, la domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nel caso in cui le parti, all’udienza presidenziale di un precedente ana¬logo giudizio, abbiano dichiarato di aver ripristinato la convivenza spirituale e materiale, propria delle vita coniugale, in quanto tale dichiarazione, ai sensi dell’art.157 cod.civ., è sufficiente a fare cessare gli effetti della precedente separazione personale.
Osta alla pronuncia del divorzio l’esibizione di una espressa dichiarazione dei coniugi relativa alla loro intervenuta riconciliazione, verbalizzata in un precedente giudizio di divorzio tra le stesse parti, non essendo invece necessaria anche la prova dell’effettivo ripristino della convivenza.
Trib. Potenza, 27 maggio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di separazione, i coniugi possono far cessare gli effetti della separazione giudiziale o consensuale senza che sia ne¬cessario l’intervento del giudice con un’espressa dichiarazione ovvero con un comportamento non equivoco incompatibile con lo stato di separazione. Ne consegue che in caso di riconciliazione la separazione può essere pronunciata solo in relazione a fatti o comportamenti sopravvenuti. Perché possa parlarsi di riconciliazione occorre che venga ricostituito il consorzio familiare attra¬verso la restaurazione della comunione materiale e spirituale dei coniugi, cessata con la separazione.
Trib. Modena Sez. II, 10 marzo 2011 (Famiglia e Diritto, 2011, 5, 492 nota di GRAZIOSI)
Nel procedimento di modifica delle condizioni di separazione promosso ai sensi dell’art. 710 c.p.c. è irrilevante in relazione all’og¬getto del processo, se non addirittura inammissibile, l’eccezione di intervenuta riconciliazione tra i coniugi.
Trib. Trento, 18 gennaio 2011 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio non consegue automaticamente alla constatazione della pre¬senza di una delle cause che costituiscono il requisito dell’azione. La pronunzia di cessazione presuppone, infatti, in ogni caso, l’accertamento, da parte del giudice, della concreta impossibilità di ricostituire il consorzio familiare a causa della definitività della rottura dell’unione spirituale e materiale tra i coniugi. L’asserito venir meno dello stato di separazione, opposto da un co¬niuge a fronte della domanda di divorzio dell’altro, ha pertanto, come suo indefettibile presupposto, l’avvenuta riconciliazione, ossia la ricostruzione del nucleo familiare nell’insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali. Detta riconciliazione va accertata attribuendo rilievo preminente alla concretezza degli atti, dei gesti e dei comportamenti posti in essere dai coniugi, valutati nella loro effettiva capacità dimostrativa della disponibilità alla ricostruzione del rapporto matrimoniale, piuttosto che con riferimento al mero elemento psicologico, tanto più difficile da provare in quanto appartenente alla sfera intima dei sentimenti e della spi¬ritualità soggettiva. La ricostruzione della comunione spirituale e materiale tra i coniugi, va intesa, sotto il primo aspetto, come animus di riservare al coniuge la posizione di esclusiva compagna di vita e di adempiere ai doveri coniugali e, sotto il secondo aspetto, come convivenza caratterizzata da una comune organizzazione domestica.
Cass. civ. Sez. I, 19 novembre 2010, n. 23510 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Nei giudizi di divorzio, l’art.3, secondo comma, lett. b) della legge 1 dicembre 1970 espressamente stabilisce che l’eccezione di sopravvenuta riconciliazione deve essere proposta ad istanza di parte; pertanto, il giudice non può rilevarla d’ufficio, non inve¬stendo profili d’ordine pubblico, ma aspetti strettamente attinenti ai rapporti tra i coniugi, in ordine ai quali è onere della parte convenuta eccepire e conseguentemente provare l’avvenuta riconciliazione (nella fattispecie la ricorrente, contumace in primo grado, aveva per la prima volta proposto l’eccezione di riconciliazione in fase di appello con conseguente e confermata declara¬toria d’inammissibilità da parte del giudice di secondo grado).
Cass. civ. Sez. I, 19 luglio 2010, n. 16873 (Nuova Giur. Civ., 2011, 2, 1, 178 nota di MAIONE)
L’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale, determinando di regola l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, co¬stituisce in genere circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempre che non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, con un accertamento rigoroso e una valutazione comples¬siva del comportamento di entrambi i coniugi, rimessa al giudice di merito per accertare se vi è la preesistenza d’una crisi irri¬mediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza solo formale. Sussiste pertanto l’addebito per il coniuge che a seguito di riconciliazione non ha rispettato l’obbligo di fedeltà sul presupposto che la stessa fosse stata soltanto formale.
Trib. Roma Sez. I, 19 luglio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione coniugale, costituiscono elementi univoci e convergenti in ordine alla volontà riconciliativa da parte dei coniugi idonei ad interrompere gli effetti della precedente separazione, l’aver continuato a convivere per ben due anni succes¬sivamente all’omologa della separazione consensuale nonché l’aver trascorso addirittura insieme le vacanze estive. In siffatta situazione è, dunque, onere del coniuge che contesti l’interruzione degli effetti della pregressa separazione dimostrare la sussi¬stenza di diversi accordi intercorsi con l’altro coniuge o le modalità di svolgimento della vita coniugale sotto lo stesso tetto tali da far escludere l’intento conciliativo, sì da superare l’elemento oggettivo del ripristino della loro coabitazione presunto dalle circostanze suesposte (convivenza dopo l’omologazione della separazione; vacanze comuni).
Trib. Benevento, 22 gennaio 2010 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione dei coniugi, la riconciliazione non può farsi discendere dalla coabitazione dei coniugi che può trovare ragioni non incompatibili con il perdurare di quello stato, quale, ad esempio, l’esigenza di dissimulare temporaneamente la sepa¬razione ai figli minori, ovvero sia riconducibile ad una comunanza di indirizzo e dei servizi forniti dall’immobile ma non si inserisce nell’ambito di una normale vita matrimoniale.
Trib. Milano Sez. IX, 12 marzo 2009 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Va esclusa la sussistenza di una vera e propria riconciliazione in presenza di incontri dei coniugi nei fine settimana o nelle vacan¬ze, in presenza di visite anche giornaliere dettate da motivi umanitari, in relazione al semplice fatto che uno dei coniugi si rechi a consumare i pasti nell’abitazione familiare, in presenza di ritorni saltuari del marito nel luogo di residenza della moglie e di rapporti sessuali tra loro intervenuti in dette occasioni, in presenza del fatto che il marito, convivente con la moglie, corrisponda con continuità a quest’ultima somme di denaro: tali comportamenti non integrano ex se la prova dell’intervenuta riconciliazione, occorrendo per converso che questi siano stati accompagnati da un insieme di altri comportamenti che realmente e concreta¬mente dimostrino il ripristino della comunione di vita in tutti i suoi profili, sia materiali che spirituali.
Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 2008, n. 21001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Posto che osta alla pronuncia del divorzio l’intervenuta riconciliazione dei coniugi, consistente nel ripristino non solo della convi¬venza materiale, ma anche della unione spirituale tra gli stessi, ai fini della prova relativa, che incombe sul coniuge che si oppone al divorzio, deve attribuirsi prevalente valore, piuttosto che ad elementi psicologici e soggettivi, a quelli esteriori, oggettivamente diretti a dimostrare la volontà dei coniugi di ripristinare la comunione di vita, quali la ripresa della convivenza e le sue modalità.
Ai fini dell’interruzione della separazione tra coniugi, è necessario che tra loro venga ripristinata la comunione materiale e spiri¬tuale. Particolare importanza deve essere data agli elementi esteriori che rivelano il ripristino della convivenza, perché costitui¬scono prova dell’avvenuta riconciliazione, non rilevando le eventuali riserve mentali di uno dei coniugi. La convivenza dimostra una disponibilità alla ricostruzione del matrimonio e ove protrattasi nel tempo, rappresenta la prova dell’avvenuta riconciliazione.
Trib. Trani, 19 maggio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Al fine del riscontro dei requisiti per il divorzio, la cessazione di uno stato di separazione giudiziale dei coniugi, per effetto di una riconciliazione, richiede la ricostituzione del consorzio familiare nell’insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali e, pertanto, non può discendere dalla mera coabitazione, che può trovare ragioni non incompatibili con il perdurare di quello stato.
Trib. Reggio Emilia, 12 maggio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il venir meno dello stato di separazione per effetto dell’intervenuta riconciliazione va provato dando rilievo preminente alla concretezza degli atti, dei gesti e dei comportamenti dei coniugi più che al mero elemento psicologico (nella specie, il Tribunale ha accolto la domanda di separazione proposta dal marito rigettando l’eccezione di improcedibilità sollevata dalla moglie con riguardo alla pregressa separazione consensuale omologata).
Trib. Monza Sez. II, 5 maggio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di rapporti patrimoniali tra coniugi, la riconciliazione tra gli stessi, avvenuta dopo l’omologa della separazione con¬sensuale, non comporta di per sé l’automatico ripristino del previgente regime di comunione legale, né ex tunc né ex nunc, in quanto se così fosse il regime pubblicistico relativo al regime patrimoniale della famiglia verrebbe ad essere irrimediabilmente inficiato; tra i coniugi riconciliati continua a sussistere il regime patrimoniale della separazione dei beni, conseguenza ex lege dell’omologazione della separazione consensuale.
App. Roma, 13 febbraio 2008 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione tra coniugi, perché si abbia riconciliazione, con conseguente cessazione degli effetti della separazione, occorre il ripristino del consorzio familiare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale dei coniugi, cessata appunto con la separazione; a tal fine, il giudice di merito deve attribuire prevalente valore agli elementi esteriori oggettivamen¬te diretti a dimostrare la volontà dei coniugi di ripristinare la comunione di vita piuttosto che a elementi psicologici permeati di soggettività. (Cass. n. 12314/2007; Cass. n. 26165/2006; Cass. n. 6031/98)
Trib. Chieti, 18 ottobre 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La mera convivenza – pur essendo un elemento altamente indiziate – non può costituire la prova di una riconciliazione tra i co¬niugi. In particolare, la ripresa della convivenza “a scopo sperimentale”, nell’ottica di una verifica delle possibilità di ricostituire l’unione spirituale, non può in alcun caso dar luogo ad una riconciliazione. In simili casi, infatti, i coniugi riprendono ad avere rapporti interpersonali con l’evidente riserva di verificare l’eventuale superamento delle condizioni che avevano condotto alla separazione; nel periodo in cui si attua tale tentativo, non può, dunque, ritenersi sussistente una reale volontà di ripristinare l’originario rapporto coniugale. (Cass., n. 12427/04)
Cass. civ. Sez. I, 25 maggio 2007, n. 12314 (Famiglia e Diritto, 2007, 10, 879 nota di RUSSO)
Perché si abbia riconciliazione, con conseguente cessazione degli effetti della separazione, occorre il ripristino del consorzio familiare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale dei coniugi cessata appunto con la separazione; a tal fine, il giudice di merito deve attribuire prevalente valore agli elementi esteriori oggettivamente diretti a dimostrare la volontà dei coniugi di ripristinare la comunione di vita piuttosto che a elementi psicologici permeati di soggettività (nella specie la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che non aveva adeguatamente valutato l’elemento del ripristino della convivenza sopravvalutando aspetti legati alla sfera dei sentimenti).
L’elemento oggettivo del ripristino della coabitazione tra i coniugi, è potenzialmente idoneo a fondare, nel giudice, il positivo convincimento circa l’avvenuta riconciliazione. Da ciò discende che spetterà al coniuge interessato a negarla dimostrare che il nuovo assetto posto in essere era, per intercorsi accordi tra le parti o per le modalità di vita familiare sotto lo stesso tetto, tale da non integrare una ripresa della convivenza, e quindi tale da non poter essere configurato come evento riconciliativo.
App. Catania, 26 aprile 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Affinché lo stato di separazione possa ritenersi interrotto a causa di riconciliazione occorre il ripristino del consorzio familiare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi cessata con la separazione, consistendo la ri¬conciliazione nella volontà di questi ultimi di ricostituire in pieno non solo la loro convivenza materiale, ma anche quell’unione spirituale che è alla base della convivenza medesima.
App. Roma, 7 marzo 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di separazione coniugale, l’avvenuta riconciliazione del rapporto materiale e morale tra i coniugi – da intendersi quale effettivo ripristino della convivenza – è fonte non soltanto di effetti processuali – preclusivi come tali del giudizio di separazione in corso – ma anche di effetti propriamente sostanziali, consistenti specificamente nel determinare la inidoneità di fatti anteriori alla stessa ad assumere autonomo valore probatorio ai fini di una pronuncia di addebito di separazione avanzata dopo l’evento riconciliativo di fatto non riuscito. Purtuttavia non può negarsi che il giudice possa egualmente tenere conto dei fatti anteriori, anche se al solo scopo di definire il contesto storico nel quale va operato l’apprezzamento in ordine alla pronuncia suddetta.
Trib. Benevento, 7 marzo 2007 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In materia di separazione personale dei coniugi, l’avvenuta riconciliazione nelle more del processo – prodotta in giudizio mediante deposito della rinunzia alla stessa, sottoscritta dai coniugi ed autenticata dal legale – comporta la declaratoria di cessazione della materia del contendere.
Cass. civ. Sez. I, 6 dicembre 2006, n. 26165 (Famiglia e Diritto, 2007, 8-9, 805 nota di VALENTE)
La dichiarazione di divorzio non consegue automaticamente alla constatazione della presenza di una delle cause previste dall’art. 3 della legge n. 898 del 1970 (oggi dagli artt. 1 e 7 della legge n. 74 del 1987), ma presuppone, in ogni caso, attesi i riflessi pubblicistici riconosciuti dall’ordinamento all’istituto familiare, l’accertamento, da parte del giudice, della esistenza (dell’essen¬ziale condizione) della concreta impossibilità di mantenere o ricostituire il consorzio coniugale per effetto della definitiva rottura del legame di coppia, onde, in questo senso, lo stato di separazione dei coniugi concreta un requisito dell’azione, necessario secondo la previsione dell’art. 3, n. 2, lett. b), della citata legge n. 898 del 1970, la cui interruzione, da opporsi a cura della parte convenuta (art. 5 della legge n. 74 del 1987) in presenza di una richiesta di divorzio avanzata dall’altra parte, postula l’avvenuta riconciliazione, la quale si verifica quando sia stato ricostituito l’intero complesso dei rapporti che caratterizzano il vincolo ma¬trimoniale e che, quindi, sottende l’avvenuto ripristino non solo di quelli riguardanti l’aspetto materiale del consorzio anzidetto, ma altresì di quelli che sono alla base dell’unione spirituale tra i coniugi.
L’accertamento dell’avvenuta riconciliazione tra coniugi separati, per avere essi tenuto un comportamento non equivoco che risulti incompatibile con lo stato di separazione (da compiersi attribuendo rilievo preminente alla concretezza degli atti, dei ge¬sti e dei comportamenti posti in essere dagli stessi coniugi, valutati nella loro effettiva capacità dimostrativa della disponibilità alla ripresa della convivenza e alla costituzione di una rinnovata comunione, piuttosto che con riferimento a supposti elementi psicologici, tanto più difficili da provare in quanto appartenenti alla sfera intima dei sentimenti e della spiritualità soggettiva), implicando un’indagine di fatto, è rimesso all’apprezzamento del giudice di merito e si sottrae, quindi, a censura, in sede di le¬gittimità, là dove difettino vizi logici o giuridici.
App. Roma, 12 aprile 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Dal provvedimento di separazione legale (sia esso giudiziale che consensuale) discende una presunzione di non convivenza dei coniugi separati sicché, in costanza di pregresso provvedimento di separazione debitamente omologato, sul coniuge nuovamente ricorrente per la separazione incombe l’onere di dimostrare che il precedente provvedimento è stato posto nel nulla per succes¬siva riconciliazione. In difetto di tale prova il nuovo ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Trib. Monza Sez. IV, 11 aprile 2006 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La domanda proposta per ottenere lo scioglimento del matrimonio non può essere accolta laddove sia intervenuta la riconcilia¬zione dei coniugi, a norma dell’art. 157 cod. civ. La riconciliazione, che ricorre ove ripristinato il consorzio familiare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi, può risultare da una dichiarazione espressa ovvero da un comportamento concludente non equivoco ed incompatibile con lo stato di separazione e, ove deve essere ritenuta per facta concludentia, abbisognia non di singoli comportamenti in sé considerati, quali la ripresa della mera coabitazione temporanea o la riunione durante le vacanze o la presenza di sporadici rapporti sessuali, ma di una ripresa della convivenza coniugale accompa¬gnata da una stabile coabitazione, dall’organizzazione domestica e, normalmente, da rapporti sessuali e da altre manifestazioni di affetto. Tali fatti concludenti si ravvisano, considerandoli nel loro complesso, nell’aver trascorso vacanze unitamente al loro cane, nell’acquisto comune di una lavatrice, nelle telefonate che dall’utenza fissa casalinga risultano effettuate sul telefono mo¬bile della moglie, nell’aver sottoscritto, in qualità di testimone, il verbale di consegna della salma del suocero, tutte attività che comprovano la partecipazione alle attività ed alle incombenze quotidiane della ricostituita famiglia.
Cass. civ. Sez. I, 6 ottobre 2005, n. 19497 (Famiglia e Diritto, 2006, 1, 22 nota di CARBONE)
Non è sufficiente, per provare la riconciliazione tra i coniugi separati, per gli effetti che ne derivano, che i medesimi abbiano ripristinato la convivenza a scopo sperimentale, essendo invece necessaria la completa ripresa dei rapporti caratteristici della vita coniugale.
App. Napoli, 17 gennaio 2005 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Per aversi la riconciliazione occorre che il consorzio familiare sia stato integralmente ricostituito, ossia ripristinato attraverso la piena ripresa della convivenza materiale e della unione spirituale. La riconciliazione configurata dal legislatore, infatti, non consiste in un semplice riavvicinamento dei coniugi, né è attestata dalla sola ripresa, per un certo periodo, della convivenza e dei rapporti sessuali, ma richiede la riunificazione della famiglia, accompagnata dalla ferma intenzione di ricomporre l’unione di coppia, in condizioni di rinnovata comunione e di reciproca solidarietà.
Cass. civ. Sez. I, 7 luglio 2004, n. 12427 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Non è sufficiente, per provare la riconciliazione tra coniugi separati, per gli effetti che ne derivano, che i medesimi abbiano ripri¬stinato la convivenza a scopo sperimentale, essendo invece necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali, caratteristici della vita coniugale.
Trib. Monza, 1 aprile 2004 (Foro It., 2004, 1, 2272)
L’espressa dichiarazione dei coniugi, idonea ai sensi dell’art. 157 c.c. a far cessare gli effetti della separazione, deve essere, sotto il profilo formale, inequivoca e verificabile in ogni momento, anche mediante la sua iscrizione tra gli atti dello stato civile, ed inoltre deve essere accompagnata da elementi tali che ne confermino la valenza reale e non astratta, quali la ripresa effettiva della convivenza (nella specie, il tribunale ha escluso l’idoneità, ai fini della riconciliazione, di una comunicazione telefonica, nel corso della quale il marito separato avrebbe dichiarato alla moglie – che avrebbe contestualmente accettato – di voler riprendere la vita coniugale, seguita da una breve ripresa della convivenza).
Cass. civ. Sez. I, 5 dicembre 2003, n. 18619 (Famiglia e Diritto, 2004, 253 nota di SESTA)
In materia di comunione legale tra i coniugi, la separazione personale costituisce causa di scioglimento della comunione, che è rimossa dalla riconciliazione dei coniugi, dalla quale deriva il ripristino del regime di comunione originariamente adottato; tut¬tavia, in applicazione dei principi costituzionali di tutela della buona fede dei contraenti e della concorrenza del traffico giuridico (artt. 2 e 41 Cost.), occorre distinguere tra effetti interni ed esterni del ripristino della comunione legale e, conseguentemente, in mancanza di un regime di pubblicità della riconciliazione , la ricostituzione della comunione legale derivante dalla riconciliazione non può essere opposta al terzo in buona fede che abbia acquistato a titolo oneroso un immobile dal coniuge che risultava unico ed esclusivo del medesimo, benché lo avesse acquistato successivamente alla riconciliazione. (Fattispecie alla quale “ratione temporis” non era applicabile l’art. 69 del D.P.R. n. 396 del 2000, che ha previsto l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio delle dichiarazioni con le quali i coniugi separati manifestano la loro riconciliazione).
A seguito della riconciliazione tra coniugi si ripristina automaticamente tra loro il previgente regime di comunione legale dei beni. Tuttavia, in difetto di alcuna segnalazione esterna di quell’evento, detto ripristino non è opponibile a terzi di buona fede che abbiano acquistato a titolo oneroso dal coniuge che risultava unico ed esclusivo titolare dell’immobile alienato, poiché operano le norme generali che governano la pubblicità delle vicende giuridiche a tutela dei terzi (ed ora il meccanismo di annotazione specificamente predisposto per la riconciliazione dei coniugi agli artt. 63 e 69 del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396).
II ripristino automatico dell’originario regime patrimoniale legale di comunione, tra coniugi separatisi, in conseguenza di succes¬siva riconciliazione ex articolo 157 del c.c., non può essere opposto ai terzi che hanno acquistato in buona fede, a titolo oneroso, dal coniuge che risultava unico ed esclusivo titolare dell’immobile alienato, per averlo egli, a sua volta, acquistato, a seguito di annotazione a margine dell’atto di matrimonio, in regime di separazione dei beni.
Trib. Milano Sez. IX, 10 novembre 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La riconciliazione compiuta dai coniugi successivamente alla loro separazione personale consensuale omologata, oltre a far ces¬sare gli effetti personali della separazione, comporta la ricostituzione ipso iure della comunione legale già disciolta al momento della separazione stessa.
App. Perugia, 9 ottobre 2003 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
L’elemento oggettivo, da cui è possibile desumere la ricostituzione del nucleo familiare, prevale sul mero elemento psicologico, nel caso in cui questo non si sia estrinsecato in gesti quotidiani che lo rivelino con chiarezza e senza fraintendimenti. Tale ele¬mento oggettivo, può consistere nella ripresa della convivenza, purché concreta, durevole, e non temporanea ed occasionale, nonché nella redazione di un testamento olografo a favore dei figli, unito alla revoca delle disposizioni testamentarie a favore della precedente convivente (nel caso di specie, il giudice ha ritenuto che nessuna rilevanza potesse essere attribuita al fatto che il coniuge avesse riallacciato dei rapporti con la propria amante, non essendovi prova che la moglie fosse a conoscenza di tale relazione, né fosse significativo il fatto che i coniugi avessero vissuto in camere separate, non avendo da tempo rapporti di natura sessuale, anche in considerazione dell’età dei due coniugi).
Trib. Verona, 5 giugno 2002 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Il p.m. ai sensi dell’art. 397 c.p.c. è legittimato a chiedere la revocazione della sentenza di divorzio pronunziata sulla base della ininterrotta durata della separazione, senza che emergesse la sopravvenuta riconciliazione dei coniugi, giacché è ben vero che ai sensi dell’art. 3 n. 2 lett. b) l. n. 898 del 1970 l’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte con¬venuta, ma nella specie la mancata allegazione e prova in giudizio della riconciliazione integrava una collusione dei coniugi volta a evitare che il giudice appurasse anche d’ufficio, stante la rilevanza pubblicitaria della disciplina, la mancanza dei presupposti di legge del divorzio.
Cass. civ. Sez. I, 11 ottobre 2001, n. 12428 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Affinchè lo stato di separazione possa ritenersi interrotto a causa di riconciliazione, occorre il ripristino del consorzio familiare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi cessata appunto con la separazione, consistendo la riconciliazione nella volontà di questi ultimi di ricostituire in pieno non solo la loro convivenza materiale, ma anche quell’unione spirituale che è alla base della convivenza medesima.
Trib. Vercelli, 9 maggio 2001 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di eccezione alla domanda di scioglimento degli effetti civili del matrimonio, l’accertamento della riconciliazione dei co¬niugi non può non solo implicare necessariamente una ripresa della convivenza materiale, ovvero concretarsi in una coabitazione “sotto lo stesso tetto”, ma anche la ripresa della c.d. “affectio maritalis”, per la cui prova non basta tuttavia il certificato storico di residenza dell’attore prodotto dalla parte convenuta, dato il valore presuntivo di tali risultanze.
Cass. civ. Sez. I, 15 marzo 2001, n. 3744 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Perché si abbia riconciliazione, con conseguente cessazione degli effetti della separazione, occorre il ripristino del consorzio fami¬liare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale dei coniugi cessata appunto con la separazione. Il relativo accertamento, implicando un’indagine di fatto, è rimesso all’apprezzamento del giudice di merito e non è, quindi, censurabile in cassazione in mancanza di vizi logici o giuridici.
Cass. civ. Sez. I, 28 febbraio 2000, n. 2217 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Affinchè lo stato di separazione possa ritenersi interrotto a causa di riconciliazione, occorre il ripristino del consorzio familiare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi cessata appunto con la separazione, consistendo la riconciliazione nella volontà di questi ultimi di ricostituire in pieno non solo la loro convivenza materiale, ma anche quell’unione spirituale che è alla base della convivenza medesima.
Cass. civ. Sez. I, 4 febbraio 2000, n. 1227 (Giur. It., 2000, 2035 nota di DE CANDIA)
Affinché lo stato di separazione tra i coniugi possa ritenersi per effetto della riconciliazione, con conseguenze preclusive della successiva domanda di divorzio, non è sufficiente un semplice e transitorio riavvicinamento tra i coniugi, anche con la eventuale ripresa della convivenza e dei rapporti sessuali, essendo necessaria a tal fine la ricostituzione del nucleo familiare nell’insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali, con il fine di ridare vita al vincolo coniugale. (Nella specie non può ritenersi che abbia dato luogo ad una stabile ricostituzione di duraturi rapporti familiari la convivenza protrattasi per soli dieci giorni in occasione dello stato di detenzione domiciliare del marito).
Trib. Napoli, 21 dicembre 1998 (Nuova Giur. Civ., 2000, I, 359 nota di SASSOLI)
La riconciliazione avvenuta tra i coniugi già consensualmente separati comporta “ex se”, automaticamente, il ripristino dell’ante¬cedente regime di comunione legale, solo quanto ai rapporti tra i coniugi, ma tale efficacia immediata della riconciliazione non si estende ai terzi, atteso che occorre tutelare l’affidamento e la buona fede di questi ultimi. Infatti ai fini dell’opponibilità ai terzi occorre (come anche per lo stesso provvedimento di separazione) l’annotazione dell’avvenuta riconciliazione a margine dell’atto di matrimonio o la stipulazione di una convenzione matrimoniale debitamente annotata e trascritta (alla stregua di tale principio, nel caso di specie, il tribunale ha rigettato la domanda di annullamento dell’atto di vendita a terzi di un immobile che era stato acquistato dal marito successivamente alla separazione consensuale).
La riconciliazione dei coniugi di per sé non determina l’automatico ripristino del previgente regime di comunione legale poiché, se così fosse, il sistema pubblicistico relativo al regime patrimoniale dei coniugi, stabilito proprio al fine di predisporre un’adeguata e necessaria tutela dei terzi, verrebbe di fatto ad essere inficiato.
Cass. civ. Sez. I, 12 novembre 1998, n. 11418 (Famiglia e Diritto, 1999, 185, 252 nota di DE MICHEL)
Posto che, ai sensi dell’art. 191 c.c., la separazione personale dei coniugi costituisce causa di scioglimento della comunione dei beni, una volta rimossa con la riconciliazione tale causa si ripristina automaticamente tra le parti il regime di comunione origina¬riamente adottato, con esclusione di quegli acquisti effettuati durante il periodo della separazione.
La riconciliazione, intervenuta tra coniugi separati, fa cessare con effetto “ex nunc” tutti gli effetti della separazione, sia personali che patrimoniali, con il conseguente ripristino del regime della comunione dei beni esistente in origine tra i coniugi, venuto meno in seguito al provvedimento di separazione.
Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 1998, n. 6031 (Famiglia e Diritto, 1998, 4, 317 nota di CARBONE)
La dichiarazione di divorzio non consegue automaticamente alla constatazione della presenza di una delle cause previste dall’art. 3 l. n. 898 del 1970 (oggi dagli art. 1 e 7 l. n. 74 del 1987), ma presuppone, in ogni caso, attesi i riflessi pubblicistici riconosciuti dall’ordinamento all’istituto familiare, l’accertamento, da parte del giudice, della esistenza (dell’essenziale condizione) della concreta impossibilità di mantenere o ricostituire il consorzio familiare per effetto della definitività della rottura dell’unione spi¬rituale e materiale tra i coniugi (accertamento di ampiezza ed approfondimento diversi, secondo le circostanze emergenti dagli atti e le deduzioni svolte in concerto dalle parti). L’asserito venir meno dello stato di separazione, opposto da uno dei coniugi in presenza di una richiesta di divorzio avanzata dall’altro coniuge, ha, pertanto, come suo indefettibile presupposto, l’avvenuta riconciliazione (ossia la ricostituzione del nucleo familiare nell’insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali), e va accertato at¬tribuendo rilievo preminente alla concretezza degli atti, dei gesti e dei comportamenti posti in essere dai coniugi – valutati nella loro effettiva capacità dimostrativa della disponibilità alla ricostruzione del rapporto matrimoniale – piuttosto che con riferimento al mero elemento psicologico, tanto più difficile da provare in quanto appartenente alla sfera intima dei sentimenti e della spi¬ritualità soggettiva.
Trib. Bologna, 28 gennaio 1998 (Dir. Famiglia, 1998, 1047 nota di CONTE)
Ritenuto che l’eventuale carattere simulatorio del verbale di separazione consensuale omologata non può, ex art. 1415 c.c., essere opposto ai terzi, e ritenuto altresì che l’eventuale rinconciliazione dei coniugi ritualmente separati può spiegare effetti soltanto interni alla coppia, non potendo rilevare al fine di travolgere atti dispositivi compiuti da uno dei coniugi in favore di terzi di buona fede, nè l’asserita simulazione della separazione, né l’asserita riconciliazione dei “partners” dopo l’omologa possono essere opposte agli acquirenti di un bene immobile dalle mani di un coniuge legittimato a disporne per avere acquistato il bene dopo l’omologa della separazione, che aveva sciolto il precedente regime di comunione legale.
Trib. Palermo, 29 marzo 1997 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Ritenuto che l’avvenuta riconciliazione dei coniugi ritualmente separati spiega effetti soltanto interni alla coppia e non può operare esternamente al fine di travolgere atti dispositivi compiuti da uno dei coniugi in favore di terzi di buona fede, l’asserita riconciliazione dei coniugi in regime di separazione omologata non può essere opposta agli acquirenti di un bene immobile dalle mani del coniuge che si è dichiarato legittimato a disporne, dopo che l’avvenuta separazione aveva sciolto il precedente regime di comunione legale.
App. Trento, 2 settembre 1996 (Famiglia e Diritto, 1996, 6, 549 nota di FIGONE)
La riconciliazione, intervenuta fra coniugi separati, fa cessare con effetto “ex nunc” tutti gli effetti della separazione, sia personali che patrimoniali, con l’effetto anche di ripristinare il regime della comunione dei beni esistente in origine tra i coniugi, venuto meno in seguito al provvedimento di separazione.
Cass. pen. Sez. VI, 26 giugno 1992, n. 7442 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, non costituisce circostanza idonea a far ritenere cessati gli effetti della separazione tra i coniugi ex art. 157 c.c., e, conseguentemente, sufficiente a far venire meno l’obbligo di versare l’assegno di mantenimento fissato a favore della coniuge nel corso del procedimento di separazione, il fatto che si siano verificate delle mani¬festazioni di buona volontà da parte del marito con doni, elargizioni di denaro ed esecuzione di opere nella casa coniugale. Infatti, affinché lo stato di separazione tra i coniugi possa ritenersi interrotto a causa di riconciliazione , è necessaria la ricostituzione del consorzio familiare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale dei coniugi, cessata con la pronuncia di separazione, per cui non sono sufficienti a tale fine la ripresa della convivenza anche per periodi di tempo considerevoli e quella degli stessi rapporti sessuali, trattandosi di fatti inidonei a privare di valore lo stato di perdurante separazione. In altri termini la riconciliazione consiste nella volontà di entrambi i coniugi di ripristinare in pieno non solo la loro convivenza materiale, ma anche quell’unione spirituale che è alla base medesima della convivenza materiale, in modo che si debba considerare perdonata e posta nell’oblio ogni eventuale colpa attribuita reciprocamente dall’uno all’altro coniuge.
Trib. Napoli, 19 marzo 1991 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Perché si abbia riconciliazione per fatti concludenti, che ai sensi dell’art. 157 c.c. faccia cessare gli effetti della sentenza di sepa¬razione, è necessario che vi sia il ripristino del consorzio familiare nei suoi rapporti materiali e spirituali (nella specie, il tribunale ha ravvisato tali rapporti, tipici della convivenza coniugale, nella coabitazione della stessa casa, con l’uso dei servizi che essa offre nella sua quotidianeità; nella pratica dei rapporti sessuali; nei ricevimenti di amici comuni nella propria abitazione; nelle visite agli amici comuni; nel soggiorno in località di vacanza; nei fine settimana; nelle preoccupazioni e nelle attenzioni per la salute dell’altro coniuge).
Posto che l’avvenuta riconciliazione fra i coniugi ed il conseguente ripristino del consorzio familiare annullano gli effetti propri della separazione, compreso quello previsto dall’art. 232, 2° comma, c.c., ne consegue che riprende ad operare la presunzione di concepimento in costanza di matrimonio.
Cass. civ. Sez. I, 3 gennaio 1991, n. 26 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Sussistono i presupposti della separazione con addebito a carico della moglie che, dopo la riconciliazione seguita a separazione consensuale, venga sorpresa in compagnia dell’uomo che era stato la causa dei precedenti contrasti tra i coniugi, con il quale aveva convissuto durante il periodo di separazione consensuale e con il quale riprenda poi a convivere dopo la proposizione del ricorso introduttivo del giudizio di separazione giudiziale.
Cass. civ. Sez. I, 29 novembre 1990, n. 11523 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La riconciliazione fra i coniugi – intesa quale situazione di completo ed effettivo ripristino della convivenza, mediante ripresa dei rapporti materiali e spirituali che, caratterizzando il vincolo del matrimonio ed essendo alla base del consorzio familiare, appaiono oggettivamente idonei a dimostrare una seria e comune volontà di conservazione del rapporto, a prescindere da irrilevanti riser¬ve mentali – è fonte non soltanto di effetti processuali, preclusivi del giudizio di separazione in corso, ma altresì di effetti sostan-ziali, consistenti nel determinare l’inidoneità dei fatti ad essa anteriori – posti in essere durante la convivenza o la separazione di fatto – ad assumere autonomo valore giustificativo di una pronuncia di separazione personale, emessa su domanda successiva all’evento riconciliativo rimasto privo di esito definitivo, con la conseguenza che, ai fini di tale pronuncia e della valutazione dell’addebito, sono utilizzabili soltanto i fatti successivi all’evento medesimo, mentre quelli anteriori possono essere considerati al solo scopo di lumeggiare il contesto storico nel quale va operato l’apprezzamento in ordine all’intollerabilità della convivenza.
I fatti anteriori alla riconciliazione, intesa come completo ed effettivo ripristino della convivenza mediante ripresa dei rapporti materiali e spirituali, avvenuti prima della proposizione della domanda di separazione nel periodo di convivenza o di separazione di fatto, pur non potendo da soli valere a giustificare la domanda di separazione, possono valere a lumeggiare il contesto storico nel quale valutare la intollerabilità della convivenza.
Corte cost. 20 luglio 1990, n. 357(Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ manifestamente inammissibile – in riferimento agli art. 2, 3, 29, 30 e 31 cost. – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 572, 1° comma, c. p., nella parte in cui non prevede come causa di estinzione del reato di maltrattamenti in famiglia la seria riconciliazione dei coniugi ed il normale svolgimento della vita coniugale, giudizialmente accertati; e ciò in quanto spetta esclusivamente al legislatore stabilire se esistano fatti successivi al reato in grado di estinguere il carattere criminale delle vio¬lazioni commesse e le relative conseguenze sanzionatorie.
Una volta riconosciuta e confermata l’attuale validità della rilevanza penale di fatti che violano i principi su cui si fonda l’unità della famiglia e l’etica della coesistenza pacifica dei suoi membri (anche nell’interesse dei figli minori), non può spettare che allo stesso legislatore stabilire se esistano fatti successivi in grado di estinguere, sotto condizioni che ancora una volta solo il legisla¬tore può disciplinare, il carattere criminale di quelle violazioni e le relative conseguenze sanzionatorie. (Manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 572 cod. pen. sollevata in riferimento agli artt. 2,3, 29, 30 e 31 Cost.).
C. Conti Sez. III Pens. civ., 13 gennaio 1987, n. 59770 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La sola ripresa della coabitazione non costituisce indice sicuro ed univoco dell’avvenuta riconciliazione fra i coniugi, idonea a superare l’impedimento per la corresponsione del trattamento di riversibilità a favore della vedova separata per sua colpa.
Cass. civ. 23 gennaio 1984, n. 541 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
In caso di riconciliazione dei coniugi, già autorizzati a vivere separati, riprende ad operare la presunzione di concepimento in costanza di matrimonio, di cui all’art. 232 c. c., onde il figlio nato dopo la riconciliazione, avvenuta prima del decorso di trecento giorni da quella autorizzazione, si reputa legittimo, salva l’azione di disconoscimento ex art. 235, n. 1 c. c.
Cass. civ., 17 novembre 1983, n. 6860 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Affinché lo stato di separazione tra i coniugi di cui all’art. 3 l. 1 dicembre 1970, n. 898 possa ritenersi interrotto per effetto di riconciliazione e quindi non idoneo per la pronunzia di divorzio è necessaria la ricostituzione del consorzio familiare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi, cessata con la pronunzia di separazione, onde non sono sufficienti a tal fine i saltuari ritorni del marito nel luogo di residenza della moglie nonché gli stessi rapporti sessuali avvenuti in tali occasioni, trattandosi di fatti inidonei a privare di valore lo stato perdurante di separazione.
Corte cost. 21 aprile 1983, n. 104 (Foro It., 1983, I, 2350 nota di RUNFOLA TESTINI)
Non è fondata, in riferimento agli art. 29 e 3 cost., la questione di legittimità costituzionale del novellato art. 154 c. c.
E’ infondata la questione di legittimità costituzionale del novellato art. 154 c. c., nella parte in cui attribuisce rilevanza, nel giu¬dizio di separazione addebitabile, a fatti anteriori alla riconciliazione, in riferimento agli art. 3 e 29 cost.
La norma che (secondo l’interpretazione della Cassazione) attribuisce rilievo (sia pur limitato) ai fatti anteriori alla riconciliazione e al giudizio di separazione, nel senso che tali fatti confluiscono, insieme a quelli successivi alla riconciliazione , a formare il libero convincimento del Giudice, non viola la garanzia dell’unità familiare, in quanto ben potrebbe ritenersi che proprio una norma che viceversa prevedesse sempre l’irrilevanza dei fatti anteriori alla riconciliazione scoraggerebbe o ritarderebbe il rappacificamento dei coniugi; e comunque tale apprezzamento appartiene all’ambito delle valutazioni del legislatore. Né è violato il principio di eguaglianza rispetto al caso di riconciliazione seguita a una precedente pronuncia di separazione (art. 157 c.c.), in quanto la assoluta irrilevanza in quest’ultima ipotesi dei fatti anteriori alla riconciliazione è giustificata dal rilievo che nel giudizio conclu¬sosi con la precedente sentenza i pregressi rapporti fra i coniugi sono stati giudicati e, per così dire, assorbiti nella pronunzia di separazione e si comprende come soltanto i fatti e i comportamenti successivi possano motivare una nuova pronunzia di separa¬zione. (Non fondatezza, in riferimento agli artt. 3 e 29 Cost., della questione di legittimità` costituzionale dell’art. 154 cod. civ.).
Corte cost. 18 aprile 1983, n. 102 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
E’ manifestamente inammissibile, perché sollevata con ordinanza motivata mediante il semplice rinvio alla motivazione di altre ordinanze emesse dallo stesso giudice a quo, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 570 c. p., nella parte in cui non esclude la punibilità del coniuge che sia venuto meno agli obblighi di assistenza familiare, nel caso di avvenuta riconciliazione con l’altro coniuge, in riferimento agli art. 2, 3, 29, 31 cost.
Cass. civ., 24 marzo 1983, n. 2058 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
La riconciliazione dei coniugi implica, oltre al perdono delle colpe precedenti, anche il completo ripristino della convivenza coniu¬gale mediante la ripresa dei rapporti che caratterizzano il vincolo matrimoniale e che sono costituiti dalla comunione spirituale (intesa come animus di riservare al coniuge la posizione di esclusivo compagno di vita e di adempire ai doveri coniugali) e dalla comunione materiale nella convivenza caratterizzata da una comune organizzazione domestica e, normalmente, da rapporti sessuali; pertanto, quando detti rapporti siano avvenuti sporadicamente senza essere accompagnati da altre manifestazioni di affetto, essi non possono da soli valere come riconciliazione non essendo sufficienti a dimostrare la ripresa della predetta comu¬nione materiale e spirituale, in rapporto con il corrispondente concetto di separazione personale dei coniugi.
Corte cost. 29 luglio 1982, n. 157 (Pluris, Wolters Kluwer Italia)
Sono state sollevate questioni di legittimità costituzionale degli art. 570 1° comma c. p. (violazione degli obblighi di assistenza familiare) e 146 2° comma c. c. (allontanamento dalla residenza familiare); il pretore di Nardò, con ordinanze 27 aprile 1978 e 25 maggio 1978, ha denunciato, in riferimento agli art. 2, 3, 29 e 31 cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 570, 1° comma, c. p., nella parte in cui non prevede, quale causa di non punibilità del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’avvenuta riconciliazione tra i coniugi; ed il pretore di Venafro, con ordinanza 29 gennaio 1979, investe, in riferimento agli art. 3 e 29 cost., il combinato disposto degli art. 570, 1° comma, c. p. e 146, 2° comma, c. c., nella parte in cui punisce la violazione, mediante abbandono del domicilio, degli obblighi di assistenza inerenti alla qualità di coniuge, salvo il caso in cui l’allontanamento dalla residenza familiare segua alla presentazione di una delle domande di cui all’art. 146 c. c. (separazione, annullamento, scioglimento, cessazione degli effetti civili); successivamente alla pronuncia delle ordinanze in epigrafe, è entrata in vigore la l. 24 novembre 1981, n. 689 (modifiche al sistema penale), che, all’art. 90, ha reso procedibile soltanto a querela della persona offesa il reato previsto dall’art. 570, 1° comma, c. p., precedentemente perseguibile d’ufficio; conseguentemente, si rende necessario (v. ordinanza della corte n. 129 del 1982) che i giudici a quibus, cui gli atti vanno restituiti, riesaminino la rilevanza delle questioni proposte, tenendo conto di tale nuova normativa.
Cass. civ. Sez. I, 6 marzo 1979, n. 1400 (Giur. It., 1981, I,1, 994 nota di RUNFOLA TESTINI)
Una sporadica ripresa dei rapporti sessuali tra coniugi separati di fatto, anche con conseguente nascita di un figlio, non può da sola avere valore di riconciliazione.

Può essere chiesta la revoca dell’assegno di divorzio in seguito al nuovo orientamento della prima sezione della Cassazione sul criterio di attribuzione dell’assegno divorzile?

Il punto di vista di Gianfranco Dosi

Sommario
1) Il valore delle decisioni della Corte di cassazione
2) L’applicazione del nuovo orientamento nei procedimenti in corso
3) Il problema dell’applicabilità del nuovo orientamento dopo il giudicato sull’assegno
a) La ratio della regola rebus sic stantibus
b) L’intangibilità del giudicato
c) Solo la legge può disporre l’applicazione ai rapporti definiti con il giudicato di una normativa nuova
d) Il mutamento repentino di giurisprudenza (overruling)
4) Il nuovo orientamento della giurisprudenza come “motivo giustificato” di revisione?

Va affrontato il problema se il procedimento di revisione delle condizioni di divorzio ex art. 9 della legge 898/70, possa essere azionato sulla base della sopravvenienza di un orientamento nuovo della giurisprudenza di legittimità. Si può prendere spunto dalle sentenze con cui la prima sezione della Corte di Cassazione (Cass. civ. Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 e Cass. civ. Sez. I, 22 giugno 2017, n. 15481) ha ribaltato l’orientamento costantemente seguito dalla giurisprudenza da quasi trent’anni (a seguito di Cass. civ. Sez. Unite, 29 novembre 1990, n. 11490) – con l’avallo di Corte Cost. 11 febbraio 2015 n. 11 – secondo cui il diritto all’assegno divorzile trova fondamento e giustificazione nella circostanza che l’ex coniuge richiedente non ha “mezzi adeguati” (art. 5, comma 6, della legge sul divorzio) a mantenere tendenzialmente il tenore di vita goduto nel corso della convivenza matrimoniale. La prima sezione della Cassazione con le sentenze sopra richiamate ha ritenuto che questo criterio attributivo e giustificativo del diritto all’assegno divorzile debba essere sostituito da altro criterio basato su diversa interpretazione dell’espressione “mezzi adeguati”. Sarebbero tali, secondo l’interpretazione proposta, quelli che possono garantire, a chi li possiede, una autosufficienza economica.
Ci si chiede se questo nuovo orientamento possa legittimare l’ex marito obbligato al pagamento dell’assegno divorzile, a richiedere, in caso di autosufficienza economica della moglie, una revoca dell’assegno a suo tempo eventualmente stabilito sulla base del precedente criterio attributivo.

1) Il valore delle decisioni della Corte di cassazione
L’attività interpretativa della giurisprudenza nei Paesi di civil law racchiude in sé ineliminabili momenti di creazione del diritto. Tuttavia l’art. 1 delle preleggi non indica tra le fonti del diritto le sentenze dei giudici.
Un conto è, però, il valore della sentenza nell’ordinamentale generale e un conto è il valore che le sentenze, specificamente quelle della Corte di cassazione, hanno in ambito giudiziario. In base a quanto dispone l’art. 65 dell’Ordinamento giudiziario (Attribuzioni della corte suprema di cassazione) “La Corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni…”. Il che comporta che le decisioni della Cassazione sono di fatto vincolanti per i giudici. L’art. 374 c.p.c.[1] (Pronuncia a sezioni unite) pone solo una deroga riferibile al rapporto tra una sezione della Corte e le Sezioni unite prescrivendo al quarto comma che “…Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”.
Proprio per sottolineare il valore delle decisioni della Corte di cassazione l’art. 360-bis[2] c.p.c. dichiara che il ricorso per cassazione è inammissibile, tra l’altro, “quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa”.
L’interpretazione delle norme di diritto da parte della Corte di cassazione (nell’esercizio della sua essenziale funzione nomofilattica) determina quello che viene chiamato significativamente “diritto vivente” ed in questi limiti è certamente corretto affermare che le sentenze acquisiscono in senso lato una funzione di creazione delle regole di diritto.
Pertanto un nuovo orientamento interpretativo della Corte di cassazione in una determinata materia si traduce in una sopravvenienza in grado di imporsi nell’applicazione al caso concreto come nuova regola di diritto applicabile nei giudizi aventi ad oggetto quella materia.

2) L’applicazione del nuovo orientamento nei procedimenti in corso
Si è visto che nella legge sul divorzio il diritto di richiedere in corso di causa la modifica dei provvedimenti è previsto nell’art. 4, comma 8, seconda parte della legge 898/1970 dove si legge che “L’ordinanza del presidente può essere revocata o modificata dal giudice istruttore a norma dell’art. 177 del codice di procedura civile”. Naturalmente il giudice istruttore ha poi sempre il potere di modificare anche i provvedimenti da lui stesso emessi.
Le ragioni della modifica che viene richiesta non sono rilevanti. Qualsiasi ragione può essere proposta al giudice, ivi compresa quindi quella di adeguare l’assetto economico ad una legge sopravvenuta o ad un nuovo orientamento giurisprudenziale di legittimità. Le norme sopra richiamate non impongono alcuna restrizione. E d’altra parte lo stesso giudice, ove il nuovo orientamento provenisse da decisioni della Corte di cassazione, avrebbe il dovere di applicarne i principi.
Ciò premesso, non possono esserci dubbi sul fatto che il nuovo orientamento della giurisprudenza di legittimità trovi applicazione nei procedimenti in corso, anche d’ufficio, fatta salva l’esistenza dei presupposti e l’assolvimento dell’onere della prova da parte dell’interessato che ne potrebbe essere impedito dalla eventuali preclusioni processuali già intervenute. In tal caso nulla impedirebbe anche d’ufficio al giudice di rimettere la causa sul ruolo per la formazione della prova in ordine ai nuovi presupposti attributivi dell’assegno. Nei procedimenti in corso (in primo grado e in fase di impugnazione), insomma, prima del formarsi del giudicato, è sempre proponibile una richiesta di modifica dei provvedimenti vigenti per adeguarli al nuovo orientamento.

3) Il problema dell’applicabilità del nuovo orientamento dopo il giudicato sull’assegno
Più problematica si presenta, invece, la situazione ove si intendesse fare applicazione del nuovo orientamento dopo il giudicato già formatosi sull’assegno divorzile.
Per quanto si dirà, benché la soluzione possa apparire ingiusta, non sembra sussista la possibilità di poter pretendere, attraverso un procedimento di modifica delle condizioni di divorzio, l’applicazione del nuovo orientamento.
Le ragioni sono connesse sostanzialmente al tema dell’intangibilità del giudicato.

a) La ratio della regola rebus sic stantibus
Come si è avuto modo di osservare, la validità rebus sic stantibus di tutti i provvedimenti sui figli di natura economica nel diritto di famiglia è alla base stessa dei principi di modificabilità espressi nell’art. 9 della legge sul divorzio. Il principio costantemente affermato è che la sentenza di divorzio, in relazione alle statuizioni di carattere patrimoniale in essa contenute, passa in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, anche se la sopravvenienza di fatti nuovi, successivi alla sentenza di divorzio, non è di per sé idonea ad incidere direttamente ed immediatamente sulle statuizioni di ordine economico da essa recate e a determinarne automaticamente la modifica, essendo al contrario necessario che i “giustificati motivi” sopravvenuti siano esaminati, ai sensi dell’art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 dal giudice e che questi, valutati detti fatti, rimodelli, in relazione alla nuova situazione, ricorrendone le condizioni di legge, le precedenti statuizioni (tra le tante Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2017, n. 2953; Cass. civ. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 17618; Cass. civ. Sez. I, 29 dicembre 2011, n. 30033; Cass. civ. Sez. I, 9 maggio 2011, n. 10077).
La giurisprudenza considera quali presupposti della domanda di modifica “fatti nuovi sopravvenuti”, modificativi della situazione in relazione alla quale il provvedimento era stato adottato o l’accordo su quelle statuizioni era stato stipulato (tra le tante Cass. civ. Sez. VI, 6 giugno 2014, n. 12781; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2009, n. 14093; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11488; Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2007, n. 24321; Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2001, n. 3149).
La ratio di questa vera e propria deroga all’intangibilità del giudicato, quindi, sta proprio nella necessità che nell’ambito del diritto di famiglia i provvedimenti possano essere costantemente adeguati alla situazione di fatto che li aveva giustificati. Al di là di questo non è, però, ipotizzabile una generale modificabilità dei provvedimenti.

b) L’intangibilità del giudicato
L’art. 2909 c.c. (Cosa giudicata) afferma il principio che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. Da un punto di vista sostanziale il giudicato si riferisce all’accertamento contenuto nella sentenza che abbia acquisito l’autorità della cosa giudicata formale, in quanto non sia più soggetta a regolamento di competenza o ad alcuno dei mezzi ordinari di impugnazione (appello, ricorso per cassazione, revocazione per i motivi di cui all’art. 395, nn. 4 e 5), previsti nell’art. 324 c.p.c. traducendosi in un preciso vincolo giuridico, in forza del quale quell’accertamento fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. La conseguenza di questa preclusione è l’immodificabilità della sentenza.
La formula secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile significa che il giudicato copre non soltanto le ragioni giuridiche fatte valere (giudicato esplicito) ma anche tutte le altre – proponibili sia in via di azione che di eccezione – le quali, sebbene non dedotte specificamente si caratterizzano per la comune inerenza ai fatti costitutivi delle pretese anteriormente svolte (giudicato implicito).
Questi concetti sono stati affermati in generale (Cass. civ. Sez. III, 20 aprile 2017, n. 9954; Cass. civ. Sez. lavoro, 23 febbraio 2016, n. 3488; Cass. civ. Sez. I, 5 luglio 2013, n. 16824; Cass. civ. Sez. lavoro, 16 agosto 2012, n. 14535; Cons. Stato Sez. IV, 17 maggio 2012, n. 2833; Cass. civ. Sez. I, 28 ottobre 2011, n. 22520; Cass. civ. Sez. lavoro, 30 giugno 2009, n. 15343; Cass. civ. Sez. lavoro, 3 agosto 2007, n. 17078; Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 2007, n. 14055; Cass. civ. Sez. lavoro, 24 marzo 2004, n. 5925; Cass. civ. Sez. I, 29 maggio 1999, n. 5263; Cass. civ. Sez. I, 19 agosto 1993, n. 8784) ma anche spesso in vicende relative proprio all’assegno di divorzio (Cass. civ. Sez. I, 3 febbraio 2017, n. 2953; Cass. civ. Sez. I, 1 febbraio 2016, n. 1863; Cass. civ. Sez. I, 25 agosto 2005, n. 17320; Cass. civ. Sez. I, 2 novembre 2004, n. 21049; Cass. civ. Sez. I, 2 febbraio 1998, n. 1031) dove il principio costantemente affermato è che le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata rebus sic stantibus, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli, in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile.
Anche l’efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale trova un limite nei rapporti esauriti in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato (art. 136 Cost. e art. 30 legge 11 marzo 1953, n. 87 secondo cui la norma dichiarata incostituzionale cessa di avere effetti dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione). Come è stato ben ribadito recentemente (Cons. Stato Sez. III, 20 ottobre 2016, n. 4396; Cons. Stato Sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1458) la dichiarazione di illegittimità costituzionale determina la invalidità originaria della legge, sia essa di natura sostanziale, procedimentale o processuale, per contrasto con un precetto costituzionale, sicché essa elimina la norma con effetto ex tunc, con la conseguenza che essa non è più applicabile, indipendentemente dalla circostanza che la fattispecie sia sorta in epoca anteriore alla pubblicazione della decisione; fermo restando il principio che gli effetti dell’incostituzionalità non si estendono ai diritti quesiti e ai rapporti ormai esauriti in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l’ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali, o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d’incostituzionalità.

c) Solo la legge può disporre l’applicazione ai rapporti definiti con il giudicato di una normativa nuova
Quanto sopra detto, circa l’intangibilità del giudicato, trova una conferma anche nella legge 8 febbraio 2006 n. 54 sull’affidamento condiviso. L’art. 4 di tale legge (disposizioni finali) prevedeva che “Nei casi in cui il decreto di omologa dei patti di separazione consensuale, la sentenza di separazione giudiziale, di scioglimento, di annullamento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio sia già stata emessa alla data di entrata in vigore della presente legge, ciascuno dei genitori può richiedere, nei modi previsti dall’articolo 710 del codice di procedura civile o dall’articolo 9 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, l’applicazione delle disposizioni della presente legge”.
Questa norma – che si riferisce ai casi in cui era passata in giudicato la sentenza (imprecisa formulazione: “già stata già emessa”) che aveva fatto applicazione dei precedenti criteri di affidamento – ha senso solo se si considera che altrimenti anche la stessa legge nuova non avrebbe potuto estendere i suoi effetti ai rapporti definiti con decisioni passate in giudicato (ancorché rebus sic stantibus).
Anche la giurisprudenza affermò che questa norma non autorizzava a ritenere immediatamente applicabili le disposizioni della nuova legge al passato, non rinvenendosi una deroga al principio generale, sancito dall’art. 11 delle preleggi, della irretroattività della legge, ma che le nuove disposizioni potevano trovare applicazione soltanto attraverso un nuovo procedimento nelle forme previste dall’art. 710 cod. proc. civ. (Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2006, n. 20256; Cass. civ. Sez. I, 10 dicembre 2010, n. 24996).
Pertanto se non ci fosse stata la legge a prevederlo espressamente, la normativa sopravvenuta non avrebbe potuto essere posta a fondamento di un procedimento di revisione delle condizioni di divorzio, ostandovi l’intangibilità giudicato.

d) Il mutamento repentino di giurisprudenza (overruling)
Si ritiene in ambito processualistico che i fatti giuridici (costitutivi, modificativi, impeditivi od estintivi), i quali non sarebbero stati nemmeno “deducibili” (o suscettibili di allegazione e di prova) in un processo, per essere ontologicamente sopravvenuti dopo il maturarsi dell’ultima preclusione utile, non sono “coperti” o “preclusi” da quel giudicato. Ciò premesso ci si può infine porre il problema se l’orientamento nuovo della giurisprudenza possa essere considerato un “fatto” nuovo rilevante ai fini dell’istanza di modifica.
La risposta decisamente negativa emerge dall’esame della giurisprudenza formatasi sul tema dell’overruling.
Il cosiddetto overruling giurisprudenziale ricorre quando si registra una svolta repentina rispetto ad un precedente diritto vivente consolidato che si risolve in una compromissione del diritto di azione e di difesa di una parte. Secondo la giurisprudenza tale situazione ricorre quando il cambio di orientamento ha ad oggetto una norma processuale, quando si tratta di un mutamento imprevedibile e quando esso determina un effetto preclusivo del diritto di azione o difesa.
Nel caso del cambiamento relativo ai presupposti attributivi dell’assegno non siamo in presenza di un cambiamento relativo ad una regola processuale.
I principi richiamati sono stati elaborati in applicazione dei valori del giusto processo, e tendono ad escludere la validità di un nuovo e improvviso orientamento giurisprudenziale nei confronti della parte che abbia confidato nella consolidata precedente interpretazione della stessa regola.
Secondo Cass. civ. Sez. Unite, 11 luglio 2011, n. 15144 – che ha precisato e riassunto tutti questi principi – per effetto di essi il comportamento processuale che si era conformato al precedente diritto vivente, va valutato con riferimento alla giurisprudenza vigente al momento dell’atto stesso e non con riferimento a quella nuova. Trattasi di una “soluzione confortata dall’esigenza di non alterare il parallelismo tra legge retroattiva e interpretazione giurisprudenziale retroattiva, per il profilo dei limiti, alla retroagibilità della regola, imposti dal principio di ragionevolezza. Ciò che non è consentito alla legge non può similmente essere consentito alla giurisprudenza”.
La giurisprudenza si è adeguata a questi limiti di rilevanza del cambiamento repentino rispetto al precedente diritto vivente (T.A.R. Abruzzo Pescara Sez. I, 10 agosto 2016, n. 291 secondo cui il giudicato è insensibile ai mutamenti legislativi e giurisprudenziali sopravvenuti; Cass. civ. Sez. VI, 27 luglio 2016, n. 15530, Cass. civ. Sez. II, 11 marzo 2016, n. 4826 e Cass. civ. Sez. I, 28 ottobre 2015, n. 22008, Cass. civ. Sez. VI, 9 gennaio 2015, n. 174; Cass. civ. Sez. Unite, 16 giugno 2014, n. 13676 nelle quali tutte si precisa che in tema di overruling rileva il solo mutamento imprevedibile di un consolidato orientamento giurisprudenziale di una regola del processo, che comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte).
Applicazione nell’ambito del diritto di famiglia è stata fatta da Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2015, n. 25676 secondo cui alla luce del principio costituzionale del giusto processo, non ha rilevanza preclusiva l’errore della parte che, convenuta in un giudizio di delibazione di sentenza ecclesiastica dichiarativa di nullità matrimoniale, abbia tardivamente eccepito, quale situazione ostativa alla delibazione, la convivenza di lunga durata “come coniugi”, facendo affidamento su una giurisprudenza di legittimità, consolidata al momento della sua tempestiva costituzione ma poi travolta da un mutamento interpretativo (dovuto alla sentenza n. 16379 del 2014 delle Sezioni Unite che, innovando quella giurisprudenza, hanno qualificato detta eccezione come in senso stretto), che riteneva il relativo fatto rilevabile d’ufficio, dovendo altresì individuarsi nella rimessione in termini lo strumento per ovviare a quell’errore. In seguito, però, con altra decisione (Cass. civ. Sez. I, 19 dicembre 2016, n. 26188) la rimessione in termini, sulla stessa questione, non è stata riconosciuta.
Da quanto precede deriva che al mutamento improvviso di giurisprudenza viene riconosciuta rilevanza solo se il mutamento riguarda una regola processuale prima consolidata in giurisprudenza e sempre che il mutamento si rivolge in danno (e non a vantaggio) della parte che aveva incolpevolmente confidato nel precedente indirizzo.
Sulla base di queste premesse non è possibile attribuire al mutamento di giurisprudenza in ordine ai presupposti attributivi dell’assegno divorzile la forza idonea a giustificare un’istanza di revisione delle condizioni di divorzio.

4) Il nuovo orientamento della giurisprudenza come “motivo giustificato” di revisione?
Come si è ampiamente detto, l’art. 9 della legge sul divorzio al primo comma prevede espressamente che la domanda di revisione possa essere presentata solo “qualora sopravvengano giustificati motivi dopo la sentenza…”.
La giurisprudenza, come anche si è già detto, ha sempre interpretato i giustificati motivi che autorizzano la modifica delle condizioni della separazione come “fatti” nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale i provvedimenti erano stati adottati (Cass. civ. Sez. I, 30 aprile 2015, n. 8839; Cass. civ. Sez. VI, 6 giugno 2014, n. 12781; Cass. civ. Sez. I, 17 giugno 2009, n. 14093; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11488; Cass. civ. Sez. I, 22 novembre 2007, n. 24321; Cass. civ. Sez. I, 5 marzo 2001, n. 3149) e che in genere consistono in circostanze sopravvenute che riguardano il peggioramento o il miglioramento dei redditi o della condizione patrimoniale – anche rispetto a nuovi eventi della vita quali la nascita id un figlio, un nuovo matrimonio o altro – e per le quali il giudice deve verificare se, ed in quale misura, abbiano alterato l’equilibrio stabilito in precedenza (Cass. civ. Sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 214 e Cass. civ. Sez. VI, 20 giugno 2014, n. 14143; Cass. civ. Sez. I, 8 maggio 2008, n. 11487 ; Cass. civ. Sez. I, 24 gennaio 2008, n. 1595; Cass. civ. Sez. I, 3 agosto 2007, n. 17041; Cass. civ. Sez. I, 30 maggio 2007, n. 12687; Cass. civ. Sez. I, 23 agosto 2006, n. 18367; Cass. civ. Sez. I, 1 agosto 2003, n. 11720; Cass. civ. Sez. I, 9 dicembre 1993, n. 12125).
Questa impostazione è assolutamente in linea con la ratio della validità rebus sic stantibus delle sentenze o dei provvedimenti camerali di divorzio e con il limite generale di cui si è parlato dell’intangibilità del giudicato.
Al di fuori di questi limiti l’attribuzione ad eventi diversi della capacità di violare il giudicato potrebbe essere arbitraria.
Pertanto non sarebbe accettabile una ricostruzione delle cause giustificative della revisione delle condizioni di divorzio che volesse intrepretare l’espressione “giustificati motivi” (art. 9 della legge sul divorzio) oltre il significato che la giurisprudenza ha fin qui dato a questa espressione.
Astrattamente pertanto – e volendo seguire una interpretazione solamente letterale dell’espressione – si potrebbe anche sostenere che un nuovo e diverso orientamento della giurisprudenza potrebbe integrare quei “giustificati motivi” che consentono l’istanza di revisione. Così facendo, però (e dando alla parola “motivi” un senso generico e completamente diverso da quello ristretto di “fatti sopravvenuti”) si finisce per violare e incrinare quei limiti di intangibilità del giudicato che, come si è sopra detto, costituiscono il fondamento del processo civile.
Viceversa si deve ribadire che l’unica eccezione all’intangibilità del giudicato nell’ambito del diritto di famiglia è la regola rebus sic stantibus prevista e valida al solo fine di consentire l’adeguamento dei provvedimenti alle circostanze di fatto che modificano i presupposti in base ai quali quei provvedimenti erano stati adottati.