Sulla violazione degli obblighi di assistenza familiare

Cass. Pen., Sez. VI, Sent., 23 marzo 2021, n. 11195
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA sul ricorso proposto da: F.T., nato a (OMISSIS);avverso la sentenza del 29/05/2020 della Corte di appello di Ancona;visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;udita la relazione svolta dal Consigliere Ercole Aprile;udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Molino Pietro, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso;udito per l’imputato l’avv. I.N.che ha concluso chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.
Svolgimento del processo.
Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Ancona confermava la pronuncia di primo grado del 9 marzo 2018 con la quale il Tribunale di Ascoli Piceno aveva condannato F.T. in relazione al reato di cuiall’art. 570 c.p., contestato con riferimento a tre diversi periodi (il primo a partire dal 14 gennaio 2011, il secondo a partire dal novembre del 2011 e il terzo a partire dal novembre del 2012), per avere violato gli obblighi di assistenza familiare non versando, per il mantenimento dei figli F., S. e L., alla ex coniuge T.M.V. l’importo mensile di 300 Euro stabilito a suo carico dal Tribunale civile di Roma con sentenza relativa alla separazione coniugale del (OMISSIS).2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso il F., con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale ha dedotto i seguenti tre motivi.
2.1.Violazione di legge, in relazione all’art. 570 c.p., e art. 1218 c.c.,e vizio di motivazione, per mancanza e contraddittorietà, per avere la Corte di appello erroneamente confermato la condanna di primo grado, benchè le emergenze processuali avessero dimostrato che i tre figli non si erano mai trovati in uno stato di bisogno nè agli stessi erano venuti a mancare i mezzi di sussistenza, dato che essi avevano vissuto con la madre che aveva avuto significative capacità economiche e reddituali, essendo stata pure aiutata dai di lei genitori; e che egli, pur trovandosi in precarie condizioni economiche ed avendo così violato solo un obbligo civilistico, non aveva mai mancato di garantire ai tre bambini la sua presenza e la sua attenzione, venendo incontro, per quanto gli era stato possibile, alle loro esigenze personali, mediche e scolastiche; nonchè per avere la Corte territoriale sottovalutato la circostanza che, nel marzo del 2020, egli aveva trovato con la ex moglie un accordo, definendo ogni pendenza patrimoniale anche riguardante al passato.2.2. Violazione di legge, in relazione agliartt. 190 e 468 c.p.p.,anche per mancata assunzione di una prova decisiva, e vizio di motivazione, per mancanza e contraddittorietà, per avere la Corte distrettuale omesso di censurare la scelta del giudice di primo grado di revocare l’originaria ordinanza ammissiva delle prove, ritenendo superfluo l’esame di alcuni testi indicati dalla difesa, e per avere disatteso la sollecitazione alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello per provvedere all’ascolto di quei testimoni.2.3. Violazione di legge, in relazione agliartt. 81 e 133 c.p., art. 521 c.p.p.,per avere la Corte di appello confermato la decisione del Tribunale di condannare l’imputato ad una pena calcolata con aumenti per la continuazione tra i più reati contestati, rigettando le richieste difensive finalizzate ad ottenere una riduzione della sanzione irrogata, anche in considerazione dell’accordo raggiunto tra gli ex coniugi per la definizione di ogni rapporto creditorio tra le parti. Motivi della decisione1. Ritiene la Corte che il ricorso sia inammissibile.2. Il primo motivo dell’atto di impugnazione è manifestamente infondato.Costituiscono ius receptum nella giurisprudenza di legittimità i principi secondo i quali, in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’incapacità economica dell’obbligato, intesa come impossibilità di far fronte agli adempimenti sanzionati dall’art. 570 c.p., deve essere assoluta e deve altresì integrare una situazione di persistente, oggettiva ed incolpevole indisponibilità di introiti (così, tra le molte, Sez. 6, n. 53173 del 22/05/2018, R.,Rv. 274613); e che la minore età del figlio, a favore del quale è previsto l’obbligo di contribuzione al mantenimento, rappresenta in re ipsa una condizione soggettiva di stato di bisogno, che obbliga i genitori a contribuire al loro mantenimento, assicurando i predetti mezzi di sussistenza, con la conseguenza che il reato di cui all’art. 570 c.p., comma 2, sussiste anche quando uno dei genitori ometta la prestazione dei mezzi di sussistenza in favore dei figli minori ed al mantenimento della prole provveda in via sussidiaria l’altro genitore (in questo senso Sez. 6, n. 17766 del 27/02/2019, V., Rv. 275726).Di tali regulae iuris la Corte di appello di Ancona ha fatto corretta applicazione, evidenziando -con motivazione congrua, nella quale non è riconoscibile alcun vizio di manifesta illogicità -come il F. avesse in maniera sistematica disatteso l’obbligo di versamento dell’importo mensile per il mantenimento dei tre figli minori, stabilito a suo carico dal giudice della separazione; e come, in quel contesto omissivo (nella sostanza non negato dall’imputato), fossero del tutto ininfluenti tanto il fatto che il F. non aveva violato l’obbligo di incontrare periodicamente i tre bambini; quanto le vicissitudini economiche di un soggetto che, comunque, era stato dimostrato non si fosse trovato nell’assoluta impossibilità di adempiere al quel obbligo di versamento della somma mensile di mantenimento, essendo stato anzi provato che in quel periodo egli aveva acquistato un immobile, aveva avuto la disponibilità di una vettura di “fascia alta” ed aveva svolto attività lavorativa come geometra. Per le ragioni innanzi esposte non è neppure condivisibile la tesi difensiva secondo la quale i tre figli erano stati adeguatamente mantenuti dalla madre, che aveva un proprio lavoro ed era stata aiutata dai di lei genitori; nè conduce a differenti conclusioni la circostanza che l’imputato non abbia, comunque, fatto mancare la sua attenzione verso i bambini, in quanto, al riguardo, i giudici di merito hanno fatto
buon governo del criterio interpretativo fissato dalla giurisprudenza di questa Corte di cassazione, convincentemente spiegando che il genitore non può modificare arbitrariamente i contenuti dell’obbligazione economica al mantenimento posta a suo carico, ospitando i figli nella propria abitazione e provvedendo in tale periodo ai loro bisogni, trattandosi di iniziative estemporanee, in ogni caso inidonee a compensare il mancato versamento dell’assegno su cui l’altro genitore deve poter fare affidamento per il soddisfacimento delle esigenze primarie dei minori (così, ex multis, Sez. 6, n. 418 del 30/04/2019, dep. 2020, G., Rv. 278092).3. Del tutto prive di pregio sono le doglianze formulate dalla difesa con il secondo motivo del ricorso. La Corte di appello di Ancona ha spiegato come non fosse affatto censurabile la scelta del Tribunale di revocare l’ordinanza di ammissione delle prove ritenendo superfluo l’esame di alcuni testi, indicati dalla difesa, che avrebbero dovuto confermare che il F. aveva avuto difficoltà economiche e aveva affrontato delle spese per recarsi periodicamente da (OMISSIS) ad (OMISSIS) per incontrare i tre figli minori che vivevano con la madre: avendo il Tribunale chiarito in maniera perspicua come quelle spese di viaggio e di pernotto che il genitore avrebbe dovuto sostenere per frequentare i figli erano state già considerate dal giudice civile della separazione al momento di stabilire l’entità dell’assegno mensile dovuto dall’imputato; e come in ordine alle condizioni economiche del prevenuto fossero stati già acquisiti elementi di prova sufficienti a definire il contesto della vicenda oggetto di esame.Ragioni, queste, che correttamente la Corte territoriale ha posto a fondamento della determinazione di non disporre alcuna rinnovazione in appello dell’istruzione dibattimentale, decisione sul punto contestata dal ricorrente in termini molto generici.4. Anche il terzo e ultimo motivo del ricorso è manifestamente infondato.Il ricorrente ha preteso che, in questa sede di legittimità, si proceda ad una rinnovata valutazione delle modalità mediante le quali i giudici di merito hanno esercitato il potere discrezionale loro concesso dall’ordinamento ai fini della determinazione della pena finale da infliggere all’imputato. Esercizio che deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero del giudice in ordine all’esistenza dei presupposti di applicazione delle relative norme di riferimento.Nella specie del tutto legittimamente la Corte di appello ha ritenuto di negare all’imputato un’ulteriore riduzione della pena irrogata dal giudice di primo grado, avendo evidenziato -con motivazione completa e logicamente adeguata -che la sanzione irrogata, per giunta con la riduzione per le attenuanti generiche, fosse equa rispetto a un inadempimento che aveva riguardato il sostentamento di ben tre figli minori e che il prevenuto aveva anche un precedente penale. Contesto nel quale, ad avviso della Corte territoriale, era risultato ininfluente il fatto che gli ex coniugi avessero raggiunto una intesa per definire le reciproche pendenze economiche, peraltro formalizzato, molti anni dopo la commissione del reato, in un ricorso che, finalizzato al riconoscimento di una sentenza canonica di nullità del matrimonio, non era stato ancora depositato nè vagliato dall’autorità giudiziaria civile.5. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed a quella di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si stima equo fissare nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e a quella della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Sull’opposizione all’esecuzione promossa per la soddisfazione di crediti di mantenimento

Cass. Civ., Sez. VI – 3, Ord., 07 aprile 2021 n. 9330
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONE SESTA CIVILE SOTTOSEZIONE 3
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA sul ricorso iscritto al n. 10390 del ruolo generale dell’anno 2019, proposto da: M.M.G. (C.F.: (OMISSIS)) rappresentata e difesa dagli avvocati M.M.C.e S.T.-ricorrente -nei confronti di:T.E.P., (C.F.: (OMISSIS)) rappresentato e difeso dall’avvocato P.F.-controricorrente –
per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Ancona n. 1989/2018, pubblicata in data 28 settembre 2018;udita la relazione sulla causa svolta nella camera di consiglio in data 18 febbraio 2021 dal consigliere Augusto Tatangelo.
Svolgimento del processo
M.M.G. ha promosso l’esecuzione forzata (nelle forme del procedimento di espropriazione presso terzi) nei confronti del coniuge separato T.E.P., sulla base di provvedimenti di determinazione dell’assegno di mantenimento pronunciati nel corso del giudizio di separazione. Il T. ha proposto opposizione all’esecuzione, ai sensidell’art. 615 c.p.c.L’opposizione è stata respinta dal Tribunale di Ancona.La Corte di Appello di Ancona, in riforma della decisione di primo grado, la ha invece accolta, dichiarando l’inesistenza del diritto dalla M. di procedere ad esecuzione forzata nei confronti del T. e l’illegittimità dell’atto di pignoramento. Ricorre la M., sulla base di due motivi.Resiste con controricorso il T..
E’ stata disposta la trattazione in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375, 376 e 380 bis c.p.c., in quanto il relatore ha ritenuto che il ricorso fosse destinato ad essere dichiarato manifestamente fondato.E’ stata quindi fissata con decreto l’adunanza della Corte, e il decreto è stato notificato alle parti con l’indicazione della proposta.La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 2. Motivi della decisione1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 -Violazione e falsa applicazione della norma di cuiall’art. 616 c.p.c., in relazione agliartt. 706, 710 e 737 c.p.c.”.Il motivo è manifestamente fondato. Secondo l’indirizzo costante di questa Corte, sia in caso di opposizione all’esecuzione che agli atti esecutivi “l’introduzione del giudizio di merito nel termine perentorio fissato dal giudice dell’esecuzione, all’esito dell’esaurimento della fase sommaria di cui al comma 1 della indicata disposizione, deve avvenire con la forma dell’atto introduttivo richiesta nel rito con cui l’opposizione deve essere trattata, quanto alla fase di cognizione piena; pertanto, se la causa è soggetta al rito ordinario, il giudizio di merito va introdotto con citazione, da notificare allacontroparte entro il termine perentorio fissato dal giudice” (Cass. Sez. 6 -3, Ordinanza n. 19264 del 07/11/2012, Rv. 624337 -01; Sez. 3, Ordinanza n. 1152 del 19/01/2011, Rv. 615946 -01).Se l’opponente introduce il giudizio con ricorso invece che concitazione, è possibile la conversione dell’atto irregolare, ma ai fini del rispetto del termine perentorio fissato dal giudice dell’esecuzione, egli deve in tale termine non solo depositare il ricorso, ma anche provvedere alla sua notificazione.Questi principi risultano espressamente affermati e condivisi nella decisione impugnata e non sono in discussione nella presente sede.La corte di appello ha peraltro ritenuto che, nella specie, al merito dell’opposizione dovesse essere applicato il rito speciale camerale previsto in materia di separazione, che si introduce con ricorso.Tale conclusione è in palese contrasto con i principi di diritto affermati da questa Corte in ordine all’oggetto dell’opposizione all’esecuzione promossa per la soddisfazione di crediti di mantenimento derivanti dalla separazione o dal divorzio ed ai suoi limiti.Secondo tale principi, in sede di opposizione all’esecuzione promossa per crediti di mantenimento stabiliti in sede di separazione o divorzio, possono essere dedotte soltantoquestioni relative alla validità ed efficacia del titolo, non anche fatti sopravvenuti o comunque questioni che vanno fatte valere col procedimento di modifica delle condizioni della separazione di cui all’art. 710 c.p.c.,o del divorzio di cui allaL. n. 898 del 1970, art. 9(cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 17689 del 02/07/2019, Rv. 654560 -01; Sez. 6 -3, Ordinanza n. 20303 del 25/09/2014, Rv. 632384 -01).Il procedimento speciale camerale previsto dall’art. 710 c.p.c.,(così come quello previsto dalla L. n. 898 del 1970, art. 9, per la modifica delle condizioni del divorzio) è, in altri termini, l’unico procedimento applicabile per ottenere la modificazione delle condizioni stabilite in sede di separazione, mentre una siffatta modificazione non può essere richiesta (e di fatto non è stata neanche chiesta, nel caso di specie, dal T.) in sede di opposizione all’esecuzione promossa per il soddisfacimento dei relativi crediti.Logica ed inevitabile conseguenza di tale ricostruzione è che, in sede di opposizione all’esecuzione, non essendo possibile chiedere la modificazione delle condizioni della separazione, non è del pari applicabile il rito speciale camerale previsto in via esclusiva dalla legge per tale richiesta di modificazione. Il rito applicabile per la fase di merito a cognizione piena dell’opposizione all’esecuzione promossa per la soddisfazione di crediti di mantenimento derivanti dalla separazione o dal divorzio è dunque certamente quello ordinario, come è del resto pacifico nella prassi applicativa e come è stato correttamente ritenuto dal giudice di primo grado, mentre il rito speciale camerale è previsto dall’art. 710 c.p.c.,esclusivamente per la richiesta di modificazione dei provvedimenti riguardanti coniuge e
prole conseguenti alla separazione, richieste che non possono essere formulate in sede di opposizione all’esecuzione. Tanto meno, poi, potrebbe ritenersi applicabile il rito speciale contenzioso previsto dagli artt. 706 e ss. c.p.c. per la domanda di separazione personale dei coniugi, non essendo (e non potendo essere) ovviamente in discussione, in sede di opposizione all’esecuzione, la separazione coniugale. In conclusione, non possono esservi dubbi sul fatto che la fase di merito dell’opposizione avverso l’esecuzione forzata promossa per crediti derivanti da inadempimento agli obblighi di mantenimento stabiliti in sede di separazione o divorzio sia soggetta al rito ordinario e debba quindi essere instaurata con atto di citazione. Nella specie è pacifico, in fatto, che dopo la fase sommaria davanti al giudice dell’esecuzione, l’opponente abbia instaurato il giudizio di merito a cognizione piena relativo alla presente opposizione, mediante ricorso depositato entro il termine perentorio fissato, ai sensi dell’art. 616 c.p.c., dallo stesso giudice dell’esecuzione, ma abbia provveduto a notificare detto ricorso in data successiva alla scadenza di quel termine. La corte di appello ha dunque errato nel ritenere tempestiva l’instaurazione della fase di merito a cognizione piena dell’opposizione. La decisione va cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la controversia può essere decisa nel merito con la dichiarazione di improcedibilità della domanda di merito a cognizione piena relativa all’opposizione all’esecuzione proposta dal T..2. Con il secondo motivo si denunzia “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 -Violazione e falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 99, 100, 112, in relazione all’art. 352 c.p.c.”.Il motivo, proposto solo in via gradata dalla ricorrente, resta assorbito, in conseguenza dell’accoglimento del primo motivo e della decisione della controversia nel merito.3. Il ricorso è accolto.La sentenza impugnata è cassata in relazione e, decidendo nel merito, l’opposizione all’esecuzione proposta dal T. è dichiarata improcedibile.Le spese del giudizio di legittimità possono essere integralmente compensate tra tutte le parti, persistendo i motivi ritenuti sufficienti a tal fine dalla corte di appello, ed altresì in considerazione dell’alterno andamento del giudizio di merito e della situazione sostanziale sottostante emergente dagli atti.
P.Q.M.
La Corte:-accoglie il ricorso, cassa in relazione la decisione impugnata e, decidendo nel merito, dichiara improcedibile l’opposizione proposta dal T.;-dichiara integralmente compensate tra le parti le spese di giudizio

Si apre la successione legittima se è raggiunta la prova della totale incapacità del de cuius

Trib. Modena, Sez. I, Sent., 5 febbraio 2021
TRIBUNALE DI MODENA
PRIMA SEZIONE CIVILE
ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 2618/2019 promossa da:G.L. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv…D.V. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. …Attori contro M.P.M. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. …C.B. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. …Convenuti Svolgimento del processo -Motivi della decisione V.D. e L.G. hanno proposto azione di annullamento del testamento olografo datato 21.07.2010 redatto dalla zia M.M., nata a F. il (…) e deceduta a Modena il 14.12.2016, con il quale la stessa ha nominato eredi unicamente due dei quattro nipoti, odierni convenuti. A fondamento del ricorso hanno dedotto che la testatrice, sottoposta sin dal 2006 a misure di tutela (inizialmente amministrazione di sostegno e successivamente interdizione) -al momento della stesura-si trovava in stato di assoluta incapacità di intendere e di volere; conseguentemente, hanno chiesto dichiararsi l’apertura della successione legittima con condanna dei convenuti alla restituzione dei beni facenti parte della loro quota ereditaria, ovvero con soddisfazione in denaro. In via subordinata, hanno chiesto l’annullamento del testamento per captazione deducendo che la scheda testamentaria è stata frutto dei raggiri perpetrati dalle convenute. M.P.M. e C.B. si sono costituite in giudizio, hanno contestato gli assunti avversari e chiesto il rigetto della domanda.Con la memoria ex art. 183, VI comma n.1 c.p.c. parte attrice ha modificato le proprie conclusioni chiedendo altresì che il testamento sia dichiarato inefficace e/o nullo anche in considerazione del
fatto che il Giudice Tutelare, con decreto del29.1.2008, aveva limitato la capacità di agire della beneficiaria per quanto concerne tutti gli atti di disposizione a titolo gratuito. I convenuti hanno eccepito l’inammissibilità della domanda poiché nuova e comunque l’infondatezza nel merito.La causa è stata istruita con produzioni documentali ed all’udienza del 29 ottobre 2020 è stata trattenuta in decisione.1.La domanda di accertamento dell’inefficacia e/o nullità del testamento per incapacità legale del de cuius è infondata in quanto la limitazione della capacità di agire contenuta nel provvedimento emesso dal Giudice Tutelare, avente ad oggetto gli atti a titolo gratuito, non esclude di per sé la capacità di testare, in assenza di una espressa previsione.Le ulteriori eccezioni di rito sollevate sono pertanto assorbite.2. Passando alla domanda di annullamento del testamento per incapacità naturale, in punto di diritto, si osserva che essa postula l’esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del de cuius, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi. Poiché lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l’eccezione, è onere di colui che impugna il testamento dimostrare la dedotta incapacità, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene provarne la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo (ex multis Cass. n. 3934/2018).In particolare, “il giudice del merito può trarre la prova dell’incapacità del testatore dalle sue condizioni mentali, anteriori o posteriori, sulla base di una presunzione, potendo l’incapacità stessa essere dimostrata con qualsiasi mezzo di prova; conseguentemente, quando l’attore in impugnazione abbia fornito la prova di una condizione di permanente e stabile demenza nel periodo immediatamente susseguente alla redazione del testamento, poiché in tal caso la normalità presunta è l’incapacità, spetta a chi afferma la validità del testamento la prova della sua compilazione in un momento di lucido intervallo” (Cass. 26873/2019).Oltre al dato clinico, comunque necessario, “ai fini del giudizio in ordine alla sussistenza o meno della capacità di intendere e di volere del de cuius al momento della redazione del testamento, il giudice del merito non può ignorare il contenuto dell’atto di ultima volontà e gli elementi di valutazione da esso desumibili, in relazione alla serietà, normalità e coerenza delle relative disposizioni, nonché ai sentimenti e ai fini che risultano averle ispirate” (Cass. 8690/2019).
3.1 Nel caso di specie, il testamento olografo con il quale il de cuius ha nominato eredi universali le odierne convenute è datato 21.07.2010.Al fine di valutare se la testatrice fosse, al momento della redazione, totalmente incapace di intendere e di volere, occorre ricostruire il quadro clinico e l’evoluzione della patologia.-M.M. risultava sin dal 2006, quando aveva 79 anni, “affetta da sindrome involutiva cerebrale con inerente disturbo cognitivo, segnatamente della capacità mnemoniche a breve termine” come attestato dal medico curante (doc. 42 attore).Ella aveva presentato personalmente, in data 13.10.2006, ricorso per la nomina di amministratore di sostegno nella quale esponeva di essere “priva della necessaria lucidità e capacità di comprendere, discernere, valutare le situazioni di vita e di lavoro che le si prospettano quotidianamente e di prendere le opportune decisioni”. Nel ricorso si dava atto che “lo stato confusionale in cui l’esponente, seppure non continuativamente, si trova, la rende facilmente suggestionabile e potenziale vittima di raggiri ed ingiustificate richieste di denaro da parte di persone e professionisti di pochi scrupoli (come peraltro successo nel recente passato)”. (doc. 1)Con decreto del 11 dicembre 2006 (doc. 3) veniva aperta l’amministrazione di sostegno e nominato AdS l’avv. M.V..La situazione dell’amministrata si aggravava progressivamente negli anni successivi, come dettagliatamente documentato nelle relazioni redatte dall’amministratore di sostegno e dai successivi provvedimenti del giudice tutelare. In particolare, nella relazione del 24 gennaio 2008 (doc. 5), risalente a circa due anni e mezzo prima del testamento, è riportato che “nel corso dell’anno la situazione è assolutamente peggiorata: pur osservando momenti di lucidità, spesso però apparenti, la beneficiaria specialmente dal settembre 2007 ha evidenziato un netto peggioramento, confermatomi telefonicamente sia dal dottor F.S., medico di base della beneficiaria, sia dal dottor D.V.L., medico che la segue proprio per la patologia invalidante. Peraltro detto peggioramento risulta essere il normale decorso della malattia, che non potràche peggiorare sempre di più”.Tale aggravio della malattia portava il Giudice Tutelare a prevedere ulteriori limiti alla capacità di agire, non concedendo alla beneficiaria di disporre in maniera autonoma, di “tutti gli atti di disposizione a titolo gratuito o comunque senza corrispettivo del valore superiore ad Euro 200,00; per quanto concerne tutti i negozi a titolo oneroso superiori ad Euro 2.000,00; per i prelievi personali di somme dal conto corrente bancario eccedenti Euro 1.000,00 mensili, limite non applicabile nel caso di prelievo autorizzato all’amministratore di sostegno (…)”.Nella relazione del 12 agosto 2009 (doc. 6) viene confermata, a seguito di ulteriori approfondimenti clinici, la diagnosi di demenza senile con la precisazione che “la repentina progressione…è del tutto evidente, come riconosciuto ora anche dalle parenti della beneficiaria. I momenti di lucidità appaiono veramente ridotti. Durante i miei colloqui con la beneficiaria, infatti, dopo pochi minuti l’oggetto del dialogo viene abbandonato e la beneficiaria sprofonda nel ricorso di eventi passati o di fatti che nulla hanno a che vedere con la conversazione. Peraltro la beneficiaria tende sempre ad annuire con i presenti, non riuscendo a contrastare le possibili richieste che le vengono fatte dai eventuali interlocutori diretti.”.Nella relazione del 12 ottobre 2010 (redatta pochi mesi dopo il testamento olografo in discussione) viene dato atto di un ulteriore e brusco aggravamento della patologia: “La beneficiaria colloquia confusamente avendo perduto a causa della malattia una capacità di ragionamento lineare: il pensiero pronunciato è ripetitivo e viene immediatamente rimosso dalla memoria. Nel colloquiare la beneficiaria confonde la realtà con l’immaginazione, mischia ricordi reali con elementi irreali: peraltro chiunque in buona fede, dopo cinque minuti, di colloquio è in grado di intuire che la beneficiaria non è affatto in grado di discernere la realtà…tende sempre ad annuire con i presenti, non riuscendo a contrastare le possibili richieste che le vengono fatte da eventuali interlocutori diretti. Tale stato rende la beneficiaria assolutamente fragile e facilmente manipolabile oltre che incapace di seguire i propri interessi patrimoniali e personali”. L’abitazione “continua ad essere molto frequentata da persone che ancora si rivolgono alla beneficiaria non essendo a conoscenza o fingendo di non essere a conoscenza delle evidenti difficoltà della signora M., cercandola di convincerla a stipulare negozi giuridici di cui poi, dopo qualche minuto, nemmeno ricorda più”.Nell’aprile 2011, la paziente veniva ricoverata presso il reparto di N.-P., V. R.. Nella diagnosi di accettazione del 13.4.2011 è riportato: “decadimento cognitivo in paziente con DDM e DP narcisistica… MMSE punteggio totale 4.4classificazione: compromissione cognitiva grave. Disorientata nel tempo e nello spazio…”In data 14 aprile 2011 il Procuratore della Repubblica promuoveva ricorso per l’interdizione. Nell’ambito di tale giudizio veniva espletata CTU. Il perito incaricato dott. Gabriele Silingardi all’esito dell’esame psichico del 4 agosto 2011 rilevava che la “paziente è completamente disorientata nel tempo. Il colloquio non può essere approfondito per l’evidente compromissione cognitivi della paziente. Non si scontrano in atto elementi patologici non riconducibili alla condizione di base di grave demenza”.Nell’elaborato peritale, depositato in data 8.2.2012, il CTU certificava che “M. M. è affetta da demenza in stato avanzato e irreversibile, necessita di assistenza continua in struttura ad alto impatto sanitario e la patologia che l’affligge è tale da azzerare totalmente e irreversibilmente la sua capacità di intendere e di volere”.Con sentenza n. 1038/2012, depositata il 4 luglio 2012, veniva quindi pronunciata l’interdizione legale.3.2. Ciò premesso, è pacifico che, perlomeno nell’agosto 2011 (un anno dopo la redazione del testamento), quando viene compiuto l’esame psichico da parte del CTU, dal quale emerge una “evidente compromissione cognitiva della paziente”, il de cuius fosse totalmente privo della capacità di intendere e di volere essendo la demenza “in stato avanzato ed irreversibile”, come sarà poi affermato dal perito nell’elaborato finale. E’ altrettanto certo che l’incapacità riscontrata non era dovuta a una fatto acuto, ma rappresentava l’esito di una patologia il cui esordio risale al 2006.
Vi sono poi ulteriori elementi di natura fattuale che consentono di collocare tale condizione di totale incapacità in un momento ancor più prossimo rispetto alla redazione del testamento:-i ricoveri presso Villa Rosa nell’aprile 2011 (9 mesi dopo la redazione del testamento) evidenziano un quadro di deterioramento cognitivo di grado severo (MMSE 4,4/30 e 6,4/30), a fronte di un punteggio soglia di 23-24;-già il Giudice Tutelare, a seguito dell’esame della beneficiaria (compiuto il 24.3.2011), aveva evidenziato l’assenza di capacità di autodeterminazione del soggetto e la necessità di promuovere il procedimento di interdizione;-infine, la relazione dell’amministratore di sostegno del 12 ottobre 2010, posta dal Giudice Tutelare a fondamento del provvedimento ora richiamato, tre mesi successiva alla redazione del testamento, evidenziava in maniera inequivoca, da parte di un soggetto terzo ed imparziale, che si trovava a stretto contatto con la beneficiaria, l’aggravamento delle condizioni psichiche nel corso del 2010, tanto da ritenere non più sufficiente lo strumento dell’amministrazione di sostegno.3.3. Orbene, a fronte del breve lasso temporale intercorso tra la redazione del testamento (21.07.2010) e le certificazioni che attestano una situazione di grave deterioramento cognitivo del de cuius, in un quadro involutivo celebrale progressivamente peggiorato dal 2006 (con rilevante aggravamento accertato tra il 2010 ed il 2011), sarebbe stato onere dei convenuti dimostrare la redazione della scheda testamentaria in un momento di lucido intervallo.3.4. Invero gli ulteriori elementi indiziari depongono tutti nel senso della totale incapacità della testatrice al momento della redazione del testamento. a) Le relazioni dell’amministratore di sostegno, immediatamente antecedenti alla redazione del testamento, evidenziano la gravità dello stadio già raggiunto dalla malattia, tanto da aver indotto il giudice tutelare (nel 2008) a limitare maggiormente la capacità di agire della beneficiaria. Nel 2009, come si legge nella relazione annuale, era già emersa “la repentina progressione” della malattia “come riconosciuto ora anche dalle parenti della beneficiaria”, tanto che “i momenti di lucidità appaiono veramente ridotti”.b) Inoltre, ulteriori elementi significativi si traggono dal contenuto del testamento e dalle modalità con cui è stato redatto.Il testamento olografo indica quali eredi esclusivamente le nipoti M.P.M. e C.B., non contemplando gli altri due nipoti che hanno promosso l’odierno giudizio. Se è vero che le convenute, dal 2008, quando è peggiorata la situazione di salute della zia, sono state effettivamente più presenti e questo potrebbe prima facie giustificare la loro designazione, tuttavia, ad una più approfondita disamina, tale scelta presenta profili di incoerenza rispetto alla volontà
espresse dalla defunta, ai rapporti che la stessa aveva con i propri familiari ed ai sentimenti manifestati. Il primo elemento di rilievo è il ricorso avente ad oggetto la richiesta di nomina di amministratore di sostegno, proposto dalla stessa testatrice, nella quale è riportato che ella non frequentava, se non sporadicamente, la sorella ed i quattro nipoti, eche non intendeva pertanto coinvolgerli in alcun modo nella gestione delle proprie vicende personali e di lavoro “non avendo questi mai mostrato interesse o preoccupazione per la situazione; in particolare poi con la nipote V.D. è in corso…una controversia attinente a presunte ingenti spettanze conseguenti al rapporto di lavoro subordinato”.La distanza e la sfiducia della zia verso i nipoti era tale da aver addirittura indotto la stessa a formulare istanza, per mezzo dei propri legali, affinché fosse “autorizzata la notifica ai parenti del ricorso in forma ridotta e limitata alla prima pagina e ultima pagina non volendo portare a conoscenza dei parenti i dati relativi al proprio matrimonio”.Seppure dalle relazioni redatte dall’amministratore di sostegno emerge una particolare avversione nei confronti della nipote D.V., tuttavia, nella relazione del 12 ottobre 2010, l’amministratore di sostegno evidenzia come la beneficiaria avesse in realtà rapporti difficili con tutti i nipoti: “come è stato confermato da amici di famiglia, dall’avvocato ricorrente, dai funzionari di banca, dai documenti rinvenuti effettivamente i rapporti tra la beneficiaria e la famiglia di origine (fratelli, sorelle, nipoti) erano in buona parte cessati totalmente nel corso degli annipassati a causa di forti diverbi…Con la famiglia della signora P.M. i rapporti si ruppero intorno al 1976 ovvero quando la beneficiaria volle porre termine al rapporto di lavoro corrente con la prima e con la madre D.B…. con la signora C.B. i rapportisi interruppero alcuni anni orsono: anche questa nipote lavorò alle dipendenze della beneficiaria per diversi anni e fu molto aiutata economicamente dalla beneficiaria, come risulta da un documento redatto di propria mano dalla signora M. e che la stessa mi consegnò insieme al proprio testamento nel 2008; anche con questa i rapporti si interruppero bruscamente. Con la signora D.V. i rapporti si interruppero alcun anni orsono, anche lei lavorò per diversi anni alle dipendenze della beneficiaria…”.Va poi considerato che, a seguito della richiesta di revoca dell’avv. V. quale amministratore di sostegno avanzata dalle odierne convenute, l’AdS aveva provveduto a conferire direttamente con la beneficiaria al fine di verificare se effettivamente la stessa avesse espresso un tale desiderio. Nella relazione del 13 marzo 2011 (doc. 14) è riportato che “mai infatti la beneficiaria aveva mostrato dissenso e ostilità nei miei confronti ma anzi la stessa più volte aveva sempre chiesto il mio aiuto affinché i propri beni non fossero gestiti dai nipoti verso i quali aveva sempre manifestato ostilità. Negli incontri tenutisi con la beneficiaria rispettivamente il 10 febbraio 2011 e il 3 marzo 2011 quest’ultima mi confermava e chiedeva espressamente di non “lasciarla sola” ricordando che una delle nipoti le aveva chiesto di scrivere qualcosa ma di cui però non ricordava il contenuto. Sempre in tali incontri la beneficiaria mostrava nuovamente contrarietà al fatto che il proprio patrimonio fosse gestito dalle nipoti lamentandosi delle insistenze recenti di quest’ultime”.E’ significativo quindi quanto espresso dalla testatrice pochi mesi dopo la redazione del testamento (di segno contrario rispetto alla volontà contenuta nella scheda testamentaria) ed il fatto che ella non si ricordasse neppure più di quanto fatto sottoscrivere da una delle nipoti.
Dalla lettura delle relazioni risulta poi come M.M. fosse sempre stata una donna particolarmente indipendente e che, anche dopo l’aggravamento della malattia, mal tollerava l’ingerenza delle convenute, le quali, dopo un periodo di interruzione di rapporti, avevano ripreso ad interessarsi della zia, anche in relazione agli aspetti patrimoniali.Infine, va evidenziato che, nei colloqui intercorsi con l’amministratore di sostegno ed il giudice tutelare, non era mai emersa la volontà del de cuius di lasciare i propri beni a parenti ma, invero, le richieste erano sempre nel senso contrario, di individuare modalità alternative rispetto alla devoluzione del patrimonio ai nipoti. In particolare l’avv. V. rilevava che, successivamente alla sua nomina, la beneficiaria gli aveva chiesto “più volte consiglio affinché i propri beni al momento della sua morte non andassero ai propri parenti” (doc.11) La beneficiaria, comparsa in data 27 febbraio 2008, dinanzi al giudice tutelare aveva manifestato il “desiderio di lasciare i propri averi a persona da lei conosciuta come retta e onesta, visto la mancanza di figli e dato che più di un nipote si era comportato male nei suoi confronti negli anni passati, manifestando il desiderio che con i suoi beni fosse costituita una fondazione in grado di operare in sua memoria nella creazione di un istituto di formazione nel campo della pellicceria”.In particolare, l’avv…., nelle proprie relazioni, dichiarava di essere “depositario di un testamento olografo consegnatomi dalla beneficiaria affinché lo custodissi: lo stesso contiene importanti disposizioni a favore dei domestici filippini. Dell’esistenza del testamento e del contenuto dello stesso è a conoscenza anche lanipote C. in quanto la beneficiaria, in mia presenza, lo mostrò anche a quest’ultima. Nei giorni successivi a tale evento stranamente la beneficiaria mi chieste più volte se poteva essere opportuno apportare al testamento delle modifiche: dopo vari tentennamenti decise di non modificarlo e di consegnarmelo affinché lo detenessi in custodia”.3.5. I difficili rapporti del de cuius con i propri nipoti, l’avversione rispetto alle ingerenze nella gestione del proprio patrimonio ed i desideri manifestati all’amministratore di sostegno ed al giudice tutelare in ordine alla propria successione rendono incoerente il contenuto del testamento impugnato.Anche la consegna diretta della scheda testamentaria nelle mani della nipote, che dopo pochi giorni ha provvedutoa farvi apporre la “data certa”, è elemento che mal si concilia con la personalità del de cuius, che mal tollerava le intromissioni delle nipoti, e che non voleva che quest’ultime fossero informate dei suoi rapporti patrimoniali. Così come tale modus operandi risulta incoerente rispetto alla consegna all’amministratore di sostegno, soggetto di cui la beneficiaria aveva fiducia in quanto terzo ed imparziale, della precedente scheda testamentaria, che parrebbe essere stata redatta in un momento antecedente rispetto all’aggravamento della malattia.3.6. Alla stregua delle considerazioni che precedono, sussistono indizi gravi, precisi e concordanti tali da far ritenere raggiunta -in via presuntiva-la prova della totale incapacità di intendere e di volere del de cuius al momento della redazione del testamento olografo.
4. Conseguentemente, non essendo stata fornita la prova di ulteriori testamenti in favore delle parti in causa, va dichiarata aperta la successione legittima.Le parti risultano rispettivamenteeredi legittimi per la quota di 1/4 ciascuno trattandosi dei parenti più prossimi, che succedono per rappresentazione rispetto alle sorelle ed ai fratelli del de cuius, premorti (artt. 570 e 468 c.c.).5. La domanda di condanna alla restituzione dei benio al pagamento del valore delle quote ereditarie formulata da parte attrice è inammissibile in quanto l’azione di petizione dell’eredità è volta all’accertamento della qualità di erede in capo all’attore ed alla condanna del terzo alla restituzione dei beni facenti parte della massa ereditaria.Nel caso di specie, invece, anche a seguito dell’apertura della successione legittima, i convenuti conservano la qualità di coeredi per cui il possesso dei beni ereditari non può ritenersi sine titulo.Inoltre, non può essere accolta la domanda di soddisfazione in denaro in quanto l’apertura della successione comporta l’insorgere di una comunione sui beni ereditari, il cui scioglimento presuppone la proposizione di domanda di divisione che non risulta avanzata e che potrà pertanto essere oggetto di autonomo procedimento.6. Le spese di lite vanno poste integralmente a carico di parte convenuta in ragione della prevalente soccombenza, senza operare alcuna parziale compensazione, anche in ragione della mancata adesione alla proposta conciliativa ex art. 185-bis c.p.c.I compensi vanno liquidati con applicazione dei parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014, scaglione indeterminabile -complessità alta (valori medi) al fine di adeguare i compensi all’effettivo valore della controversia.P.Q.M.Il Tribunale, definitivamente pronunciando,1) dichiara la nullità del testamento olografo redatto da M.M., nata a F. il (…) e deceduta a Modena il 14.12.2016, datato 21.7.2010, e pubblicato il 16 dicembre 2016 (rep. (…),raccolta (…) -Notaio M.Z.);2) dichiara aperta la successione legittima di M.M.;3) accerta la qualità di eredi legittimi di M.M. in capo ai nipoti G.L., D.V., M.P.M., B.C., nella misura di 1/4 ciascuno;4) condanna M.P.M. e C.B., in solido, a rifondere le spese di lite del presente giudizio in favore di G.L. e D.V., che liquida nella somma complessiva di Euro 13.430,00 per compensi, Euro 648,18 per esborsi, oltre spese generali15%, IVA e CPA come per legge.

Separazione e diritto al risarcimento sorto dal vuoto emotivo, relazionale e sociale dettato dall’assenza paterna

Cass. Civ., Sez. I, Ord., 02 aprile 2021, n. 9188
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente: ORDINANZA sul ricorso 3006/2016 proposto da:S.N., elettivamente domiciliato in Roma, presso lo studio dell’avvocato P.N., rappresentato e difeso dall’avvocato R.A., giusta procura in calce al ricorso;-ricorrente –contro M.A.G., elettivamente domiciliata in Roma, presso lo studio dell’avvocato S.O., che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato C.R., giusta procura speciale per Notaio Dott. D.C. di Genova -Rep. n. (OMISSIS);-controricorrente –
avverso la sentenza n. 119/2015 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 23/11/2015;udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 16/09/2020 dal Cons. Dott. ACIERNO MARIA.
Svolgimento del processo –Motivi della decisione
1. La Corte d’Appello di Genova, nella causa di separazione personale intercorsa tra M.G. e S.N.E., in parziale riforma della pronuncia di primo grado, per quel che ancora interessa, ha elevato il contributo per il mantenimento della coniuge ad Euro 1500 mensili ed ha condannato S.N. al risarcimento dei danni subiti dai figli minori F. e V. per condotte illecite paterne nella misura di 40000 Euro per ciascun figlio. A sostegno della decisione ha affermato, in relazione alla sussistenza dell’illecito endofamiliare a carico del padre che il risarcimento in questione la natura esclusivamente non patrimoniale e che la consulenza tecnica d’ufficio ha posto in luce come per i minori, adottati dai coniugi in tenera età (quattro e tre anni), la separazione abbia riacutizzato il trauma dell’abbandono
determinando una profonda sofferenza psichica e ponendo a grave rischio l’equilibrio futuro. L’addebitabilità esclusiva delle cause della separazione personale al padre ed in particolare le modalità traumatiche della rotturaoltre al trasferimento del padre in una città diversa e la nascita di un altro figlio nel nuovo nucleo familiare creato dallo stesso hanno determinato una grave condizione di deprivazione e senso di abbandono, tenuto conto della maggiore fragilità dei figli adottivi già segnati da un abbandono originario. La Corte territoriale, in conclusione, ha ritenuto che il diritto al risarcimento nella specie sia sorto dal vuoto emotivo, relazionale e sociale dettato dall’assenza paterna che si è concretizzato nella lesione del diritto costituzionale di vivere ed essere mantenuti ed educati da entrambi i genitori. Si tratta di una lesione che supera la soglia di gravità necessaria, secondo la giurisprudenza di legittimità, per ammetterne la risarcibilità. La liquidazione è stata effettuata in forma equitativa.2. Quanto all’aumento del contributo al mantenimento del coniuge, alla luce della effettiva comparazione tra i due quadri reddituali, economici e patrimoniali delle parti, il consistente divario che emerge in favore di S., pur a fronte di una certa contrazione intervenuta nel tempo, dovendosi tenere conto anche della non affidabilità delle dichiarazioni fiscali dello stesso, conduce ad una riforma della statuizione di primo grado. La riduzione disposta dal Tribunale è ingiustificata alla luce della inconsistenza della capacità lavorativa della M., essendo in passato impegnata in attività strettamente collegate a quelle del marito ed in considerazione dell’età e della necessità di occuparsi della madre e dei due figli.3. Avverso questa pronuncia ha proposto ricorso per cassazione S.N.. Ha resistito con controricorso, accompagnato da memoria, M.G..4. Nel primo motivo viene dedotto l’omesso esame di un fatto decisivo oltre che l’inconferenza e la contraddittorietà delle conclusioni cui perviene la Corte territoriale in relazione alla statuizione con la quale è stato disposto l’aumento del contributo al mantenimento del coniuge, lasciando inalterato il contributo al mantenimento dei due figli. Il peggioramento della situazione economico-reddituale del ricorrente è stata provata sulla base di una molteplicità di elementi di prova ma tale evenienza ha prodotto effetti soltanto in relazione all’assegno relativo al mantenimento dei figli.4.1. La censura è inammissibile sotto il profilo della contraddittorietà, non essendo più previsto questo specifico profilo del vizio di motivazione a partire dalla nuova formulazionedell’art. 360 c.p.c., n. 5 (D.L. 22 giugno 2012, n. 83, ex art. 54, conv. inL. 7 agosto 2012, n. 134). Alla luce dell’intervento nomofilattico delle S.U. di questa Corte (S.U. 5083 del 2014) soltanto la motivazione fondata su affermazioni radicalmente inconciliabili può dar vita al vizio riconducibile alla violazionedell’art. 132 c.p.c.,n. 4, ed alla conseguente qualificazione della motivazione perplessa. Nella specie, la Corte d’Appello ha svolto un giudizio di adeguatezza del contributo per i figli correlato da un lato alla valutazione della capacità economico-patrimoniale del padre ma dall’altro alle loro effettive esigenze. Per quanto riguarda la moglie in virtù della negativa valutazione della sua capacità economica ha ritenuto inadeguata la precedente riduzione. Si tratta di valutazioni fondate su un percorso logico argomentativo del tutto esauriente e fondate su accertamenti di fatto insindacabili in sede di giudizio di legittimità.5. Nel secondo motivo il medesimo vizio viene riferito al rilievo riguardante la valutazione di probabile non attendibilità delle dichiarazioni fiscali. Anche questa censura è inammissibile perchè volta a colpire una valutazione fondata esclusivamente su elementi di fatto, peraltro soltanto integrativi del complessivo quadro probatorio posto alla base della decisione del giudice di merito.6. Nel terzo motivo viene dedotto l’omesso esame di un fatto decisivo in relazione al riconoscimento del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale da illecito endofamiliare in capo ai figli minori. Il ricorrente evidenzia di avere negli atti difensivi del giudizio d’appello respinto qualsivoglia addebito in merito all’esistenza di un nesso di causalità tra le sue condotte e la fine dell’unione coniugale e di aver concluso con la riforma “in senso favorevole al signor S. e comunque nella misura meglio vista e comunque ritenuta di giustizia”. Deve, pertanto, escludersi che vi sia stato un riconoscimento da parte del ricorrente in merito all’addebitabilità della separazione. In relazione alla prova della lesione al diritto costituzionalmente garantito dei minori a non subire un’ulteriore
privazione della genitorialità il ricorrente mette in luce di non aver mai fatto mancare nulla ai figli minori e di essere stato ostacolato dalla moglie nella relazione con loro. Il danno infine non risulta dimostrato su obiettivi criteri di scientificità e di carattere medico legale, non risultando descritti neanche i sintomi della sofferenza che avrebbe colpito i minori. Infine, non si sarebbe tenuto conto dell’affermazione “i figli sono ben contenti di vedere il padre; a contenuto sostanzialmente confessorio, della controricorrente che dovrebbe indurre ad escludere la sussistenza del danno riconosciuto.6.1. La censura è inammissibile. In ordine alla prima parte di essa, riguardante la contestazione dell’addebito in appello, non risulta formulata impugnazione incidentale da parte del ricorrente su tale statuizione del giudice di primo grado, essendo statoproposta impugnazione esclusivamente dalla signora M. (vedi sentenza d’appello, pag. 2).6.2. In relazione al merito della censura deve osservarsi che la Corte d’Appello ha valutato le risultanze istruttorie ed in particolare quelle fondate sull’indagine peritale svolta in primo grado in modo difforme dal Tribunale, svolgendo, tuttavia, un accertamento di fatto completo sulla sussistenza della lesione, sulla natura ed il contenuto del danno e sulla sua determinazione, rispetto al quale la censura proposta non supera il vaglio di ammissibilità. In particolare, è stata evidenziata la peculiarità della biografia dei due figli minori delle parti in quanto adottati all’età di tre e quattro anni. Entrambi (vedi pag. 7 sentenza impugnata) anche con caratteristiche di personalità diverse hanno mostrato un quadro clinico complesso, con necessità per tutti e due di terapia di sostegno. La separazione, secondo la valutazione della consulenza tecnica d’ufficio, condivisa dalla Corte d’Appello “ha riacutizzato nei minori, cresciuti in orfanotrofio, il trauma dell’abbandono, determinando in essi nell’immediato una profonda sofferenza e ponendo a grave rischio il loro futuro equilibrato sviluppo”. La responsabilità esclusiva del ricorrente, accertata con valore di giudicato, della rottura dell’unione coniugale, non è stata ritenuta di per sè sola, idonea ad integrare il fatto lesivo ma ne è stata posta in luce la modalità traumatica cui è seguito l’allontanamento geografico del padre ed il succedersi repentino di eventi tutti diretti a rafforzare l’idea della privazione della figura genitoriale paterna (nuovo nucleo familiare, nascita di un nuovo figlio). Queste scelte personali, secondo la valutazione dei fatti e delle conclusioni della CTU svolta insindacabilmente dalla Corte d’Appello, sono state adottate senza considerare o prendere in adeguata considerazione la fragilità dei figli adottivi e la precarietà dell’equilibrio affettivo dagli stessi raggiunto.Deve escludersi, in conclusione, che nella sentenza impugnata non sisia fornita una valutazione adeguata della natura e del contenuto dell’incidenza negativa sullo sviluppo psicofisico dei minori delle cause, delle modalità e delle conseguenze dei comportamenti del ricorrente, mediante un giudizio sulle emergenze fattualie sulle valutazioni medico legali insindacabile in sede di legittimità anche perchè, come illustrato, ampiamente ed esaurientemente argomentato. Il danno non patrimoniale è stato individuato nella riproposizione di una situazione di abbandono ancorchè nonequiparabile a quella di partenza ma, dall’indagine peritale condivisa dalla Corte d’Appello comunque ritenuta idonea a generare una sofferenza non contingente. Infine la determinazione, ancorchè equitativa del danno non patrimoniale, è stata ampiamente giustificata sulla base dell’incidenza della pregressa esperienza esistenziale dei minori e della sofferenza subita.In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con applicazione del principio della soccombenza alle spese processuali del presente giudizio. P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali da liquidarsi in Euro 5000 per compensi; Euro 200 per esborsi oltre accessori di legge. Sussistono i requisiti processuali per l’applicazione delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1quater .In caso di diffusione omettere le generalità.

Risarcimento del danno subito dal minore e obbligo di sorveglianza da parte dei genitori

Cass. Civ., Sez. VI – 3, Ord., 24 marzo 2021, n. 8216

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONE SESTA CIVILE SOTTOSEZIONE 3
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11901/2019 R.G. proposto da:C.P., B.N. (in proprio e quali genitori esercenti la responsabilità genitoriale sulla minore C.A.) e C.E., rappresentati e difesi dall’Avv. C.B.;-ricorrenti –contro S.S.p.a.;-intimata -e nei confronti di P.S.p.a. (società incorporante la S.S.p.a.), rappresentata e difesa dagli Avv.ti R.R.ed A.A.F.;-controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma, n. 3111/2018, depositata l’11 maggio 2018;Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 febbraio 2021 dal Consigliere Emilio Iannello.
Svolgimento del processo che:la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda risarcitoria proposta da C.P. e B.N. (in proprio e quali genitori esercenti la responsabilità genitoriale sui figli A. ed E.) nei confronti della S. S.p.a., per i danni subiti a causa di una caduta occorsa alla minore A. allorquando, in data (OMISSIS), durante un soggiorno di vacanza della famiglia in un albergo di Sharm el-Sheikh, trovandosi nei pressi della piscina, inciampava sul ceppo di un alberello all’interno di un prato, riportando una ferita alla gamba destra;la corte territoriale -per quanto ancora in questa sede interessa -ha ritenuto insussistenti i presupposti della dedotta responsabilità exart. 2051 c.c., della struttura alberghiera (e, dunque, di quella della società convenuta dedotta di riflesso in base alle condizioni generali di contratto, nonchè ai sensi dell’art. 1228 c.c., delD.Lgs. n. 206 del 2005, art. 93e dellaL. n. 1084 del 1977, art. 15);ha in tal senso rilevato che:-doveva ritenersi naturale la presenza di un arbusto all’interno di una aiuola, da non considerarsi luogo specifico su cui transitare;-le foto prodotte “propongono una panoramica generale dei luoghi di causa e non riescono a descrivere i tratti peculiari della vicenda oggetto di giudizio, non essendo stato indicato in modo specifico il luogo nel quale si è verificato l’incidente”;-presupponendo la responsabilità da cose in custodia (a) una alterazione della cosa che, per le sue intrinseche caratteristiche, determini la configurazione della c.d. insidia o trabocchetto e (b) la imprevedibilità ed invisibilità di tale alterazione da parte del danneggiato, entrambi tali presupposti difettano nella specie, per essere “del tutto naturale che all’interno di una aiuola possano rinvenirsi arbusti, radici odaltro materiale legnoso, mentre, sotto altro aspetto, il comportamento del soggetto dovrebbe essere adeguato alla situazione dei luoghi; con la ulteriore conseguenza che, trattandosi nel nostro caso di una minore di circa quattro anni, avrebbe dovuto essere più stringente la sorveglianza da parte dei genitori”;avverso tale sentenza C.P. e B.N. (in proprio e quali genitori esercenti la responsabilità genitoriale sulla minore C.A.) ed C.E. propongono ricorso per cassazione con unico mezzo, cui resiste, depositando controricorso, la P. S.p.a., nella dichiarata qualità di società incorporante la S.S.p.a.; questa, invece, benchè ritualmente intimata, non svolge difese;essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensidell’art. 380-bis c.p.c.,il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte. Motivi della decisioneche:con l’unico motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazionedell’art. 2051 c.c.;rilevano che, secondo i più recenti orientamenti della S.C., al danneggiato incombe soltanto l’onere di dimostrare il rapporto causale fra la cosa e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o dalle caratteristiche intrinseche della prima, spettando al convenuto dimostrare il caso fortuito o la forza maggiore nella causazione dell’evento, con la conseguenza che, nella specie, il giudice avrebbe dovuto valutare non solo se la condotta della vittima fosse stata negligente, ma anche e soprattutto se detta condotta fosse prevedibile da parte del custode (ossia dell’albergatore);la mancanza, nella specie, di tale accertamento comporta, secondo i ricorrenti, violazione o falsa applicazione dell’art. 2051 c.c.;il motivo non è fondato;come è noto questa Corte, sottoponendo a revisione i principi intema di responsabilità civile per danni da cose in custodia, ha stabilito, con le ordinanze 1 febbraio 2018, nn. 2480, 2481, 2482 e 2483, che:a) l’art. 2051 c.c., nel qualificare responsabile chi ha in custodia la cosa per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicchè incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, ilrapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima;b) la deduzione di omissioni, violazioni di obblighi di legge di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode rileva ai fini della sola fattispeciedell’art. 2043 c.c., salvo che la
deduzione non sia diretta soltanto a dimostrare lo stato della cosa e la sua capacità di recare danno, a sostenere allegazione e prova del rapporto causale tra quella e l’evento dannoso;c) il caso fortuito, il quale può essere rappresentato da fatto naturale o del terzo, o dalla stessa condotta del danneggiato, è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode; peraltro le modifiche improvvise della struttura della cosa incidono in rapporto alle condizioni di tempo e divengono, col trascorrere del tempo dall’accadimento che le ha causate, nuove intrinseche condizioni della cosa stessa, di cui il custode deve rispondere;d) la condotta del danneggiato, il quale entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione, anche ufficiosa, dell’art. 1227c.c., comma 1, richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espressodall’art. 2 Cost;e) ne consegue che, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludereche lo stesso comportamento costituisca un’evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro; questi principi, ai quali la giurisprudenza successiva si è più volte uniformata (v., tra le altre Cass. 12/11/2020, n. 25460; 29/01/2019, n. 2345; 03/04/2019, n. 9315) e che sono da ribadire ulteriormente nel giudizio odierno, devono ritenersi rispettato nella specie;la Corte di merito, al di là dell’ininfluente ma astratto richiamo alla nozione di insidia o trabocchetto, che per vero alla luce del menzionato nuovo paradigma esegetico deve ormai ritenersi inidonea ad indirizzare ad una corretta qualificazione della fattispecie concreta, ha di fatto deciso sulla base di accertamenti coerenti con gli esposti principi, di tal che la decisione si rivela comunque conforme a diritto;ha infatti, in sostanza, rilevato la sussistenza di un caso fortuito idoneo ad interrompere il nesso causale tra la cosa in custodia e l’evento dannoso: caso fortuito rappresentato dalla condotta della vittima (ed essendo questa una bambina di tenerissima età, di quella dei suoi genitori tenuti ad una più stretta sorveglianza) caduta nell’inciampo nonostante la sua piena prevedibilità in ragione del luogo ove esso era posto (un’aiuola) di per sè non deputato al transito;l’assunto dei ricorrenti secondo cui tale valutazione sarebbe erronea in diritto poichè mancante della necessaria verifica della prevedibilità, da parte del custode, della condotta anomala degli utenti della struttura non può essere condiviso;esso infatti postula la rilevanza di un coefficiente colposo, in capo al custode, che è invece estraneo alla fattispecie astratta di responsabilità, la qualecome detto si colloca interamente sul piano oggettivo del rapporto causale tra cosa in custodia e danno;come questa Corte ha ulteriormente evidenziato, invero, “la deduzione di omissioni o violazioni di obblighi di legge, di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode può essere diretta soltanto a rafforzare la prova dello stato della cosa e della sua attitudine a recare danno, sempre ai fini dell’allegazione e della prova del rapporto causale tra la prima e il secondo; nè è da escludere che, viceversa, sia il custode a dedurre la conformità della cosa agli obblighi di legge o a prescrizioni tecniche o a criteri di comune prudenza al fine di escludere l’attitudine della cosa a produrre il danno: in entrambi i casi -va ribadito-si tratta di deduzioni volte a sostenere oppure a negare la derivazione del danno dalla cosa e non, invece, a riconoscere rilevanza al profilo della condotta del custode; resta dunque fermo che, prospettato e provato dal danneggiato il nesso causale tra cosa custodita ed evento dannoso, la colpa o l’assenza di colpa del custode rimane del tutto irrilevante ai fini dell’affermazione della sua responsabilità ai sensi dell’art. 2051 c.c., ” (Cass. n. 2479 del 2018, cit.);in tale prospettiva può bensì ammettersi che “sebbene il caso fortuito possa essere integrato dal fatto colposo dello stesso danneggiato, è tuttavia necessario che risulti anche escluso -con onere probatorio
a carico del custode -qualunque collegamento fra il modo di essere della cosa e l’evento dannoso, sì da individuarne la causa esclusiva nella condotta del danneggiato e da far recedere la condizione della cosa in custodia a mera occasione o “teatro” della vicenda produttiva di danno”;a tal fine però non è la prevedibilità, da parte del custode, dell’uso anomalo della cosa che può assumere rilievo, bensì la circostanza che l’evento dannoso si sia verificato all’interno di una situazione di macroscopica insidiosità della cosa;che una tale situazione possa ipotizzarsi nella specie non risulta però nemmeno dedotto e tanto meno provato, restando pertanto confermata, anche sotto tale profilo, la correttezza in iure della decisione di merito;il ricorso deve essere pertanto rigettato, con la conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo;va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi delD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13,comma 1-quater, nel testo introdotto dallaL. 24 dicembre 2012, n. 228, art.1,comma 17,di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13. P.Q.M.rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in solido, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13,comma 1quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art.1,comma 17,dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.

Revoca di trasferimento immobiliare effettuato nell’ambito di divorzio.

Tribunale Frosinone, 03 marzo 2021
TRIBUNALE ORDINARIO DI FROSINONE
Il Giudice, a scioglimento della riserva di cui al verbale d’udienza del 12/1/21;
letti gli atti ha emesso la seguente
ORDINANZA nella causa iscritta al n. 1311/17 R.G., introdotta con ricorso ex art. 702 bis c.p.c. depositato il 6/4/17 da Banca s.p.a., rappresentata e difeso dagli avv. Eramo Giuseppe e Di Stefano Franco giusta procura allegata al ricorso ATTRICE
CONTRO Elena, rappresentata e difesa dall’avv. Pizzutelli Marco giusta procura allegata alla comparsa di costituzione e risposta CONVENUTA
E CONTRO angelo e Simone CONVENUTI, CONTUMACI
CON IL SUCCESSIVO INTERVENTO DI pl’s s.r.l., rappresentata e difesa dagli avv. Eramo Giuseppe e Di Stefano Franco giusta procura allegata alla comparsa d’intervento per la cessionaria del credito
La presente causa inerisce alle domande giudiziali proposte da Banca del s.p.a. nei confronti di Elena, angelo e Simone con ricorso ex art. 702 bisc.p.c. depositato il 6/4/17. L’attrice ha esposto di avere intrattenuto con S. di angelo s.r.l., in persona dell’a.u. Elena, un rapporto di c/c come da contratto stipulato il 16/9/08 ( 35/230231/6 ) ed un altro rapporto di c/c, valevole anche per gli anticipi fatture, come da ulteriore contratto stipulato il 15/9/08( 35/230232/4 ). In data 16/9/08 veniva inoltre pattuito tra le parti un affidamento di € 100.000 per il c/c valevole per anticipi fatture ed uno di € 15.000 per l’altro c/c, rispettivamente in seguito diminuito ad € 90.000 ed aumentato ad € 25.000. In data 19/9/08 Elena e angelo si erano costituiti fideiussori in favore della Banca del F in relazione a tutte le obbligazioni della S. s.r.l. fino alla concorrenza di € 138.000. In data 16/11/09 Banca del accordava alla S. un finanziamento di € 100.000 e contestualmente i due fideiussori hanno aumentato la garanzia fino alla concorrenza di € 258.000. In data 13/5/11 i due garanti chiedevano di effettuare pagamenti rateali ad estinzione delle obbligazioni fino ad allora maturate, in particolare in relazione al mancato pagamento delle rate del finanziamento chirografario a far data dall’11/8/10 in poi. Tale loro impegno rimaneva però senza seguito, e pertanto Banca del con lettera raccomandata A/R del 19/7/11 revocava le linee di fido e comunicava la decadenza dal beneficio del termine del finanziamento. Alla data del 19/1/17 il rapporto di c/c 35/230231 presentava un saldo debitore di € 50.699,49, oltre interessi annui al tasso legale dall’1/1/17 al saldo, mentre per il finanziamento risultava dovuto l’importo di € 106.162,80, oltre interessi annui al tasso del 3,36 % dall’1/1/17 al saldo, quindi per un importo totale di € 156.862,29, oltre i predetti interessi. L’attrice esponeva poi che con due separati atti stipulati in data 5/12/13 per un verso angelo cedeva a Elena la quota di comproprietà di 1/2 dell’immobile sito in ( FR ), distinto catastalmente a Fg. 5, part. 221, e per altro verso la donava al proprio figlio Simone la piena proprietà di tale immobile. L’attrice quindi argomentava in ordine alla sussistenza dei presupposti per la dichiarazione d’inefficacia nei suoi confronti ex art. 2901 c.c. dei predetti atti traslativi nonché dei presupposti per la condanna di Elena e angelo al pagamento della predetta complessiva somma di denaro nella loro qualità di fideiussori della S. Elena si è costituita in giudizio, resistendo alle avverse pretese giudiziali. Ha contestato la sussistenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda di revocatoria, sostenendo che gli atti traslativi in oggetto erano stati posti in essere in attuazione degli accordi presi dai coniugi Elena e angelo in sede di loro separazione personale e come tali, stante la loro funzione solutorio-compensativa, non erano qualificabili a titolo gratuito bensì a titolo oneroso, e sostenendo la mancanza della prova del conseguente presupposto della consapevolezza in capo al terzo, Simone, del pregiudizio in danno della creditrice. Difettava inoltre il presupposto dell’eventus damni, in ragione dell’esistenza sull’immobile di un’ipoteca a favore di Banca Monte dei Paschi di Siena a garanzia di un mutuo trentennale, iscritta in data 15/12/06 e quindi preesistente di circa due anni al rilascio della fideiussione del 19/9/08. La convenuta contestava inoltre il quantum debeatur dell’avversa domanda di condanna, rilevandone l’eccessività anche in relazione alla quantificazione operata dalla stessa odierna attrice in sede d’insinuazione al passivo fallimentare di S. s.r.l., invero nelle more fallita in data 20/12/11, posto che il quella sede il credito per il saldo debitore del c/c veniva quantificato in € 44.769,23 alla data del 20/7/11 e, tenuto conto della cristallizzazione del credito alla data del fallimento, con l’applicazione dei soli interessi legali il credito poteva essere quantificato al più in € 48.073,69. Analoga contestazione veniva svolta in ordine al quantum preteso per il finanziamento, in relazione al quale in sede fallimentare era stato esposto l’importo di € 88.491,76. Somme di denaro ulteriormente inferiori erano state indicate in occasione della predisposizione del piano di rientro del 13/5/11. La contestava poi che nel contratto inerente al rapporto di c/c non risultava che il leg. rapp.te di S. s.r.l. avesse specificamente sottoscritto la pattuizione degli interessi ultra legali, conseguendone la necessità del ricalcolo degli interessi passivi con applicazione del tasso sostitutivo ex art. 117, co. 1, T.U.B.. Sosteneva inoltre che andasse verificato se l’unilaterale applicazione degli interessi passivi avesse comportato il superamento del tasso soglia usurario. Si doleva anche dell’applicazione di interesse anatocistici. Si doleva infine dell’illegittimo addebito di commissioni contrattualmente non dovute per messa a disposizione e di scoperto, peraltro nulle in quanto non determinabili, nonché degli addebiti di spese e commissioni anche per il periodo temporale successivo al recesso dal rapporto di c/c ed alla dichiarazione di fallimento della debitrice principale. Concludeva chiedendo il rigetto della domanda ex art. 2901 c.c. e la rideterminazione del dovuto in relazione ai rapporti bancari. Gli altri due resistenti non si sono costituiti in giudizio, e ne è stata accertata e dichiarata la contumacia. La causa è stata istruita a mezzo della documentazione rispettivamente prodotta dalle parti costituite, in quanto il G.I. non ha ammesso la c.t.u. contabile richiesta dalla perché avente “natura esplorativa e dunque ritenutane l’inammissibilità”. Con comparsa depositata l’1/10/20 Npl’s s.r.l. ha proposto intervento ex art. 111 c.p.c. in ragione della cessione in suo favore dei crediti oggetto di causa avvenuta il 14/6/19.All’esito dell’udienza del 12/1/21 la causa è stata trattenuta per la decisione, dopo che già era stato fissato alle parti costituite un termine fino al 15/12/20 per il deposito di note difensive conclusive. Domanda di revocatoria ex art. 2901 c.c..La domanda giudiziale in esame è fondata. Pacifica la revocabilità di atti di trasferimenti immobiliari posti in essere in esecuzione di accordi tra coniugi in sede di separazione personale, la questione da risolvere nella specie attiene alla loro qualificabilità come atti a titolo oneroso oppure a titolo gratuito. Il G.I. in proposito richiama e fa proprio l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui “gli accordi di separazione personale fra i coniugi, contenenti reciproche attribuzioni patrimoniali e concernenti beni mobili o immobili, rispondono, di norma, ad uno specifico spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell’evento di separazione consensuale che svela una sua tipicità propria la quale, ai fini della più particolare e differenziata disciplina di cui all’art. 2901 c.c., può colorarsi dei tratti dell’obiettiva onerosità piuttosto che di quelli della gratuità, in ragione dell’eventuale ricorrenza, o meno, nel concreto, dei connotati di una sistemazione solutorio-compensativa più ampia e complessiva, di tutta quella serie di possibili rapporti aventi significati, anche solo riflessi, patrimoniali maturati nel corso della quotidiana convivenza matrimoniale.” (così Cass. 27409 del 25/10/19 ).Nella specie, giusta quanto eccepito dall’attrice, la convenuta non ha assolto all’onere probatorio a suo carico di allegare e provare la sussistenza in concreto dell’invocata funzione solutorio-compensativa, nulla avendo provato in proposito in relazione ai pregressi rapporti economico-patrimoniali tra i coniugi e non avendo neppure prodotto gli accordi di cui alla separazione consensuale ed il relativo decreto di omologa del Tribunale. Gli atti in questione vanno pertanto qualificati, corrispondentemente alla loro natura formale, come atti a titolo gratuito, conseguendone l’infondatezza in radice dell’eccezione sollevata dalla circa la mancanza di consapevolezza in capo al terzo Simone, del pregiudizio in danno della creditrice. Rammentato inoltre che “le condizioni per l’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria consistono nell’esistenza di un valido rapporto di credito tra il creditore che agisce in revocatoria ed il debitore disponente, nell’effettività del danno, inteso come lesione della garanzia patrimoniale a seguito del compimento, da parte del debitore, dell’atto traslativo, e nella ricorrenza, in capo al debitore medesimo, ed eventualmente al terzo, della consapevolezza che, con l’atto di disposizione, venga a diminuire la consistenza delle garanzie spettanti ai creditori. A tal fine, non vale ad escludere l'”eventus damni” la circostanza che i beni (nella specie oggetto di donazione limitatamente alla nuda proprietà) fossero stati in precedenza ipotecati a favore di un terzo, atteso che l’azione revocatoria ordinaria ha la funzione di ricostituire la garanzia generica assicurata al creditore dal patrimonio del suo debitore, e non la garanzia specifica, con la conseguenza che sussiste l’interesse del creditore, da valutarsi “ex ante”, e non con riguardo al momento dell’effettiva realizzazione, di far dichiarare inefficace un atto che impedisca o renda maggiormente difficile e incerta l’esazione del suo credito.” ( così, condivisibilmente, Cass. 13172 del 25/5/17 ), ne consegue che la mera circostanza fattuale della preesistenza di un’ipoteca sull’immobile de quo in favore di un altro istituto di credito non è di per sé idonea ad escludere la sussistenza dell’eventus damni, nulla avendo specificamente allegato e provato in relazione a quanto dedotto sul punto dall’attrice circa il depauperamento del patrimonio dei due garanti in conseguenza dei due atti di trasferimento immobiliari oggetto di causa, essendo essi rimasti proprietari soltanto di un terreno agricolo di mq. 3.620, essendo per converso evidente la maggiore difficoltà nel realizzo del credito dell’attrice così determinatasi. Gli altri presupposti dell’azione revocatoria ordinaria ( anteriorità delle ragioni creditorie della Banca del F rispetto alla stipula degli atti di trasferimento a titolo gratuito, consapevolezza dei due debitori del pregiudizio che arrecavano con la stipula di tali atti alle predette avverse ragioni creditorie ) emergono in modo evidente dagli atti del presente giudizio e non sono stati contestati dalla convenuta costituita. La domanda in esame, in definitiva, va accolta. Domanda giudiziale di pagamento del saldo debitore del c/c e del saldo debitore del mutuo chirografario. Anche tale domanda giudiziale dell’attrice è fondata. L’attrice ha assolto all’onere probatorio circa il fatto costitutivo del proprio diritto di credito inerente al c/c a mezzo della produzione e/c integrali dall’inizio del rapporto fino alla sua conclusione, nonché della documentazione contrattuale contenente le relative condizioni economiche, ed in proposito non vi sono state circostanziate contestazioni dei due convenuti a ciò in tesi interessati (Elena e angelo ). Ugualmente dicasi per i rapporti inerenti agli affidamenti e per il mutuo chirografario, avendo l’attrice anche depositato, in corso di causa, un prospetto con l’indicazione analitica dei tassi di interesse passivo applicati in corso di rapporto con riferimento a ciascuna ragione creditoria ( c/c e finanziamento chirografario ).Le generiche contestazioni della convenuta costituita sono infondate. Innanzitutto lo è quella inerente all’asserita cristallizzazione del credito alla data di fallimento della debitrice principale, che opera soltanto nei confronti di quest’ultima ma non anche nei confronti dei due fideiussori ( cfr. Cass. 18951 dell’8/8/13 ).Quanto alle differenze tra gli importi chiesti in sede d’insinuazione al passivo fallimentare e quelli chiesti nel presente giudizio, le stesse trovano spiegazione con l’applicazione dei tassi di interesse passivo effettuata da Banca del F ed analiticamente specificata in giudizio, senza successive specifiche contestazioni della parte costituita. Contrariamente a quanto eccepito da Elena, inoltre, la pattuizione relativa agli interessi ultra-legali risulta in atti ritualmente sottoscritta dalla società debitrice principale in persona, peraltro, della medesima docc. 3, 4, 5, 6 e 9, produzioni dell’attrice ).La doglianza relativa all’usura è stata svolta dalla informa del tutto generica e dubitativa, senza neppure produrre i D.M. relativi al tasso soglia asseritamente superato e senza alcuna specifica indicazione siffatto superamento. La doglianza della relativa all’anatocismo è pure infondata, posto che il contratto di c/c è stato sottoscritto il 16/9/08 e, in conformità alla delibera CICR del 9/2/00, ha previsto la pari periodicità ( trimestrale ) della capitalizzazione degli interessi attivi e di quelli passivi. Parimenti del tutto generica risulta la contestazione circa il presunto illegittimo addebito di commissione contrattualmente non dovute, negato dall’attrice e ciò nonostante senza specifica indicazione da parte di siffatti asseriti addebiti. Anche la domanda giudiziale attrice in oggetto va dunque accolta.Stante il trasferimento a titolo particolare avvenuto in corso di causa delle ragioni creditorie dell’attrice in favore s.r.l., e l’intervento ex art. 111 c.p.c. da questa effettuato, le complessive statuizioni della presente ordinanza vanno estese –ex art. 111, u.co., c.p.c. –nei confronti della cessionaria, mentre non può disporsi l’estromissione dell’attrice, pure richiesta dall’intervenuta, in ragione del difetto del consenso delle altre parti del giudizio ( comma 3, art. 111 cit. ).La regolamentazione delle spese di lite avviene con applicazione del principio della soccombenza e dunque i convenuti vanno condannati in solido a rifondere all’attrice ed all’intervenuta le spese di lite, liquidate come in dispositivo in relazione alle attività defensionali rispettivamente svolte. Le spese di lite vanno invece compensate in relazione al terzo convenuto, estraneo al dictum inerente alla condanna al pagamento di somme di denaro e che non ha resistito in giudizio rispetto all’altra domanda giudiziale di attrice ed intervenuta, avente natura dichiarativa ( e relativa ad un atto traslativo nel quale egli ha rivestito la mera qualità di terzo beneficiario ), non sussistendo dunque una situazione di soccombenza nei suoi confronti.
P.Q.M.
Il Tribunale di Frosinone, definitivamente pronunciando sulla causa proposta da Banca del.p.a. nei confronti di con ricorso ex art. 702 bisc.p.c. depositato il 6/4/17, col successivo intervento in data 1/10/20 di Npl’s s.r.l., così provvede:a) dichiara l’inefficacia nei confronti dell’attrice e dell’intervenuta dei due atti di trasferimento immobiliare oggetto di causa in data 5/12/13 ( atto del 5.12.2013a rogito Notaio Avv. Francesco Raponi di Frosinone trascritto il 12.12.2013 presso l’Agenzia Provinciale di Frosinone –Territorio, R.G. 23967, R.P. 17323, con il angelo ha ceduto a lena i diritti pari ad ½ dell’immobile sito in Arnara via San Pietro e precisamente fabbricato per civile abitazione di vani catastali 8,5 censito nel C.F. del Comune foglio 5 part 221 cat A/7 [ rep 50.687, racc. 23.702 ], e atto del 5.12.2013a rogito Notaio Avv. Francesco Raponi di Frosinone trascritto il 12.12.2013 presso l’Agenzia Provinciale di Frosinone –Territorio, R.G. 23969, R.P. 17325, con il quale Elena ha donato a Simone la piena proprietà del suddetto immobile [ rep 50.688, racc. 23.703 ]), ordinando al Conservatore dell’Agenzia delle Entrate, Ufficio Provinciale di Frosinone del Territorio, sez. pubblicità immobiliare, di procedere alle correlative annotazioni della presente ordinanza
b) condanna i convenuti Elena e angelo, in solido tra loro, al pagamento in favore solidale di attrice ed intervenuta della somma di € 156.862,29, oltre interessi annui al tasso legale su € 50.699,49 dall’1/1/17 al soddisfo ed interessi annui al tasso del 3,36% su € 106.162,80 dall’1/1/17 al soddisfo;
c) condanna i convenuti Elena e angelo, in solido tra loro, a rifondere all’attrice le spese di lite, che liquida in € 757,03 per esborsi ed € 9.000 per compensi, oltre rimborso spese forfettarie nonché I.V.A. e C.A. come per legge;
d) condanna i convenuti Elena e angelo, in solido tra loro, a rifondere all’intervenuta le spese di lite, che liquida in € 4.000 per compensi, oltre rimborso spese forfettarie nonché I.V.A. e C.A. come per legge;
e)compensa le spese di lite quanto al rapporto processuale tra attrice ed intervenuta nei confronti del convenuto.

Quando sussiste il reato di somministrazione di bevande alcoliche a minori?

Cass. Pen., Sez. V, Sent., 30 marzo 2021, n. 12058

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da: M.A., nato a (OMISSIS);avverso la sentenza del 11/10/2019 del GIUDICE DI PACE di CALTANISSETTA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere TUDINO ALESSANDRINA; il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore VINCENZO SENATORE ha concluso chiedendo per iscritto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
Svolgimento del processo1. Con sentenza dell’11 ottobre 2019, il Giudice di pace di Caltanissetta ha affermato la responsabilità penale di M.A., nella qualità di gestore del locale (OMISSIS), per il reato di cui all’art. 689 c.p., per aver somministrato bevande alcoliche a P.R., infrasedicenne.2. Avverso la sentenza del Giudice di pace di Caltanissetta ha proposto ricorso l’imputato, con atto a firma del difensore, Avv. M.B., articolando due motivi.2.1. Con il primo motivo, deduce violazione di legge, sub specie di mancanza della motivazione quanto all’accertamento degli elementi costitutivi del reato, in assenza dell’esplicitazione degli accertamenti svolti tanto in riferimento all’età della P., ritenuta infrasedicenne alla sola stregua delle dichiarazioni rese dalla medesima alla polizia giudiziaria e senza alcun accertamento anagrafico, che sulla bevanda che la medesima stava consumando.2.2. Con il secondo motivo, formula analoga censura in riferimento alla dimostrazione dell’effettiva attività di somministrazione, risultando dal testo della sentenza impugnata la mera assunzione della
P., con conseguente assoluta incertezza di una effettiva attività di cessione di bevande alcoliche in suo favore da parte dell’imputato.3. Con requisitoria scritta D.L. 28 ottobre 2020, n. 37, ex art. 23, il Procuratore generale ha concluso per l’annullamento con rinvio. Motivi della decisione Il secondo motivo di ricorso è fondato.1. Il primo motivo di ricorso è inammissibilmente formulato.1.1. Il ricorrente lamenta il mancato accertamento della natura effettivamente alcolica della bevanda che P.R. stava assumendo all’atto del controllo, oltre che dell’età della medesima, solo riferita agli operanti. Ebbene, quanto al primo profilo, la sentenza impugnata dà atto della percezione, almeno olfattiva, degli operanti riguardo la natura della bevanda, ben potendo il giudice di merito -in un sistema che non prevede l’utilizzazione di prove legali -ricavarne l’esistenza da elementi sintomatici quali l’aroma vinoso (V. in tema di accertamento dello stato di ebbrezza ex multis Sez. 4, n. 4633 del 04/12/2019 -dep. 2020, Carrara, Rv. 278291); donde la sentenza impugnata non rivela, sul punto, il vizio denunciato.1.2. L’ulteriore profilo di doglianza è, invece, generico.Il ricorrente si limita a predicare l’inadeguatezza delle mere dichiarazioni della P. in riferimento alla data di nascita, rese agli operanti, in punto di dimostrazione dell’età, senza confrontarsi con il principio per cui la genuinità della autenticità delle predette dichiarazioni è, da un lato, logicamente corroborata dalla mancanza di interesse al mendacio; dall’altro, siffatta dichiarazione non è stata contrastata dalla difesa mediante produzione del certificato di nascita della medesima che, a prova contraria, l’imputato avrebbe ben potuto introdurre.Con conseguente genericità della censura.2. E’, invece, fondato il secondo motivo.2.1. La sentenza impugnata non ha affrontato -e risolto -il tema inerente l’elemento oggettivo del reato.Integra, invero, il reato di somministrazione di bevande alcoliche a minori (art. 689 c.p.), la condotta di colui che, in qualità di gestore di bar, somministri bevande alcoliche ad un minore degli anni sedici (Sez. 5, n. 7021 del 02/12/2010 dep. 2011, R., Rv. 249830), con conseguente necessità -prima ancora della verifica del grado di diligenza dell’agente -di precisare cosa debba intendersi per somministrazione.Ebbene, nell’ermeneusi della norma incriminatrice, il significato letterale della espressione verbale implica il concetto di erogazione, ovvero di una forma di cessione a titolo oneroso, mentre, in termini giuridici, la somministrazione è il contratto con il quale una parte si obbliga, dietro corrispettivo di un prezzo, ad eseguire in favore dell’altra prestazioni, specificatamente periodiche o continuative, siffatto ultimo dato costituendoelemento specializzante rispetto alla compravendita.Se ne trae la conseguenza per cui, stante la natura di reato di pericolo della contravvenzione in questione, la condotta penalmente sanzionata deve ricondursi alla nozione di cessione, anche in unica soluzione; il che, se da un lato non richiede il carattere della pluralità, postula, nondimeno, sotto il profilo materiale del reato, la prova della diretta datio di bevande alcoliche da parte del gestore di un pubblico esercizio.2.2. Facendo applicazione disiffatti principi, questa Sezione ha già affermato (Sez. 5, n. 4320 del 06/11/2012 -dep. 2013, Celani, Rv. 254391), coerentemente, come non sussistono gli estremi della fattispecie costitutiva del reato di somministrazione di bevande alcooliche a personaappartenente alle categorie previste dalla norma incriminatrice (minori degli anni sedici o soggetti in stato di manifesta ubriachezza), qualora queste ultime abbiano direttamente prelevato la bevanda dal frigo bar (servendosi da sè, cosiddetto self service), in quanto, in tal caso, la richiesta della merce avviene attraverso un comportamento concludente ed il cliente può consumarla prima ancora di pagarla, con la conseguenza che nè il titolare, nè il gestore dell’esercizio prestano alcun consenso in ordine al
prelievo ed al consumo della bevanda e, pertanto, essi non rivestono una posizione di garanzia nei confronti dei clienti.Deve, pertanto, ribadirsi come, ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 689 c.p., è necessaria la dimostrazione dell’effettiva somministrazione di bevande alcoliche a minori degli anni sedici da parte del gestore o dei propri dipendenti, solo a tale condotta potendo riferirsi la specifica posizione di garanzia, che non si estende ex se al consumo, trattandosi di post-factum estraneo all’area di prevenzione delineata a carico del soggetto attivo del reato dalla fattispecie contravvenzionale di pericolo in parola.2.3. Nel caso in esame, la sentenza impugnata non ha affrontato il punto essenziale inerente le modalità attraverso le quali la P. avesse ricevuto la bevanda che stava consumando all’esterno del locale, e dunque in una fase successiva alla somministrazione, che lascia del tutto impregiudicata la ricostruzione del segmento fattuale antecedente, necessario al fine della integrazione della condotta del reato.3. La sentenza impugnata deve essere, pertanto, annullata perchè il giudice del merito -in piena libertà di giudizio, ma facendo corretta applicazione dei principi enunciati -proceda a nuovo esame. P.Q.M.annulla la sentenza impugnata con rinvio al Giudice di pace di Caltanissetta.Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2021.Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2021

Palpeggiamento dei glutei “per scherzo”: è violenza sessuale?

Cass. Pen., Sez. III, Sent., 09 aprile 2021, n. 13278
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Modena dal Procuratore Generale presso la Corte di appello di Bologna; nel procedimento a carico di: L.F., nato a (OMISSIS);avverso la sentenza del 21/02/2020 della Corte di appello di Bologna; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;udita la relazione svolta dal Consigliere CORBETTA Stefano; letta la requisitoria redatta ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137,art.23, dal Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale FILIPPI Paola, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata; lette le conclusioni del difensore della parte civile, avv. R.G, del foro di Modena, che si associa alle richieste del Procuratore Generale;lette le conclusioni del difensore dell’imputato, avv. S.G., del foro di Modena, che chiede il rigetto dei ricorsi.S volgimento del processo1. Con l’impugnata sentenza, in riforma della pronuncia di condanna emessa dal Tribunale di Modena e appellata dall’imputato, la Corte d’appello di Bologna assolveva L.F., perchè il fatto non sussiste, dal reato di cui all’art. 609-bis c.p., comma 3, a lui contestato al capo B) perchè, con violenza e minaccia, in un’occasione palpeggiandole il sedere con entrambe le mani, costringeva una propria dipendente, S.B., a subire atti sessuali; la Corte d’appello rigettava l’appello proposto, ai soli fini civili, dalla parte civile in relazione all’assoluzione dell’imputato dal delitto di cui all’art. 572 c.p., contestato al capo A). Il Tribunale, inoltre, aveva dichiarato non doversi procedere ne confronti dell’imputato in
relazione ad ulteriori episodi di cui al capo B), consistiti nel tentativo di baciare la persona offesa, per mancanza di tempestiva querela, statuizione non oggetto di impugnazione.2. Avverso l’indicata sentenza, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Modena e il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Bologna propongono ricorso per Cassazione.3. Il ricorso del Procuratore della Repubblica è affidato a due motivi.3.1. Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), in relazione all’art. 609-bis c.p., comma 3. Il ricorrente censura la motivazione, laddove ha ritenuto che il palpeggiamento ai glutei, ancorchè volgare e inopportuno, fosse interpretabile come uno scherzo, nonostante la relazione sentimentale con l’imputato si fosse da tempo conclusa, e considerando la posizione di supremazia rivestiva dal L., essendo il datore di lavoro della persona offesa. Ad avviso del ricorrente, il non riconoscere, nella vicenda in esame, la sussistenza di atti offensivi dell’integrità e della dignità sessuale del destinatario delle “attenzioni” sarebbe frutto di un’erronea interpretazione della fattispecie in esame, che è posta a tutela dell’intangibilità sessuale dell’offeso. Nel caso in parola, sarebbero invece sussistenti sia l’elemento oggettivo del reato, in quanto il palpeggiamento dei glutei rientra nella nozione di atto sessuale, sia l’elemento soggettivo, il quale prescinde dalle intenzioni dell’agente.3.2. Con il secondo motivo si lamenta il vizio di motivazione e il travisamento della prova. Evidenzia il ricorrente che la Corte territoriale ha erroneamente affermato che la moglie e la figlia dell’imputato vennero a conoscenza della relazione extraconiugale dell’imputato nel settembre 2012, mentre la donna in dibattimento ha riferito di avere appreso tale fatto nell’aprile 2012, allorquando chiese alla S. un incontro chiarificatore. Sostiene il ricorrente che il travisamento sarebbe inoltre rinvenibile nel fatto che la Corte d’appello abbia ritenuto che, al momento del fatto, vi fossero ancora legami incentrati sulla complicità sentimentale, mentre la persona offesa ha dichiarato che la relazione si era protratta fino a novembre 2011. La motivazione, infine, sarebbe contraddittoria, laddove, per un verso, si ritiene che il fatto si sia verificato per mero “scherzo”, e, per altro verso, assolve l’imputato perchè il fatto non sussiste, con ciò ammettendo che il fatto non sia mai esistito.4. Il ricorso del Procuratore generale si articola in due motivi, che sono identici a quelli del ricorso promosso dal Procuratore della Repubblica. Motivi della decisione1. Il ricorso del Procuratore della Repubblica è inammissibile, essendo stato promosso al di fuori dei casi previsti dall’art. 608 c.p.p., commi 2 e 4.che limitano la facoltà di ricorso per cassazione del Procuratore della Repubblica, rispettivamente, alle sole sentenze inappellabili, di condanna o di proscioglimento, pronunciate dalla Corte di assise, dal Tribunale o dal giudice per le indagini preliminare presso il Tribunale, e ai casi previsti dall’art. 569 c.p.p.: situazioni non sussistenti nel caso in esame, in cui oggetto di impugnazione è una sentenza emessa dalla Corte di appello.2. Il ricorso promosso dal Procuratore Generale è fondato.3. Va premesso che il fatto, nella sua materialità, non è controverso. La Corte territoriale ha recepito la ricostruzione operata dal Tribunale, ossia: nel periodo 2001-2002 L. aveva iniziato una relazione extraconiugale con una sua dipendente, S.B.; nel maggio 2009, di ritorno da una trasferta di lavoro in Tunisia iniziata nel 2008, la donna comunicò all’imputato la sua volontà di porre fine alla relazione, la quale, tuttavia, non si interruppe in maniera brusca e definitiva, trascinandosi sino a novembre 2011, quando i due si trovarono insieme per motivi di lavoro a Barcellona, dove consumarono l’ultimo rapporto sessuale; da allora, secondo la versione della donna, sarebbe stata importunata dall’imputato sul luogo di lavoro e, in tale contesto, si colloca l’episodio del luglio 2012, allorquando l’imputato, passando in un corridoio stretto, palpeggiò i glutei della persona offesa, la quale era intenta ad aiutare una collega a riporre abiti in scatoloni, gesto che poi, in un secondo momento e davanti alle rimostranze della donna, l’imputato definì uno scherzo; nel settembre 2012 la moglie dell’imputato scoprì la relazione extraconiugale del marito e da allora, unitamente alla
figlia, cominciò a vessare la S. sul posto di lavoro, mentre L. cercava di mediare la situazione, ragion per cui fu assolto da delitto ex art. 572c.p.4. Ciò posto, la Corte territorio è pervenuta all’epilogo assolutorio, sul presupposto che il fatto, pur volgare e inopportuno, fosse uno “scherzo per L. e non un atto esplicativo del suo desiderio sessuale”.Si tratta di una conclusione errata, in quanto poggia su un’errata interpretazione della norma che si assume violata.5. Il reato di cui all’art. 609-bis c.p., è posto a presidio della libertà personale dell’individuo, che deve poter compiere atti sessuali in assoluta autonomia e libertà, contro ogni possibile condizionamento, fisico o morale, e contro ogni non consentita e non voluta intrusione nella propria sfera intima, anche se attuata con l’inganno. La libertà sessuale, quale espressione della personalità dell’individuo, trova la sua più alta forma di tutela nella proclamazione della inviolabilità assoluta dei diritti dell’uomo, riconosciuti e garantiti dalla Repubblica in ogni formazione sociale (art. 2 Cost.), e nella promozione del pieno sviluppo della persona che la Repubblica assume come compito primario (art. 3 Cost. comma 2).La libertà di disporre del proprio corpo a fini sessuali è assoluta e incondizionata e non incontra limiti nelle diverse intenzioni che l’altra persona possa essersi prefissa. L’assolutezza del diritto tutelato non tollera, nella chiara volontà del legislatore, possibili attenuazioni che possano derivare dalla ricerca di un fine ulteriore e diverso dalla semplice consapevolezza di compiere un atto sessuale, fine estraneo alla fattispecie e non richiesto dall’art. 609-bis c.p., per qualificare la penale rilevanza della condotta.6. Coerentemente alla natura del bene tutelato e alla centralità della persona offesa, unica titolare del diritto, nè il dolo specifico (“al fine di”), nè alcun movente esclusivo (“al solo scopo di”) contribuiscono alla tipizzazione dell’offesa, la quale è soggettivamente ascrivibile all’agente a titolo di dolo generico. La valorizzazione di atteggiamenti interiori sposterebbe il disvalore della condotta incriminata dalla persona che subisce la limitazione della libertà sessuale a chi la viola. L’atto deve essere definito come “sessuale” sul piano obiettivo, non su quello soggettivo delle intenzioni dell’agente. Se, perciò, il fine di concupiscenza non concorre a qualificare l’atto come sessuale, il fine ludico o di umiliazione della vittima non lo esclude (Sez. 3, n. 25112 del 13/02/2007, Rv. 236964; Sez. 3, n. 35625 del 11/07/2007, Polifrone, Rv. 237294).7. Ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale non è perciò necessario che la condotta sia specificamente finalizzata al soddisfacimento del piacere sessuale dell’agente, essendo sufficiente che questi sia consapevole della natura oggettivamente “sessuale” dell’atto posto in essere volontariamente, ossia della sua idoneità a soddisfare il piacere sessuale o a suscitarne lo stimolo, a prescindere dallo scopo perseguito (Sez. 3, n. 3648 del 03/10/2017, dep. 25/01/2018, T., Rv. 272449: fattispecie di palpeggiamento dei glutei e del seno delle persone offese; Sez. 3, n. 21020 del 28/10/2014, dep. 21/05/2015, P.G. in c. C., Rv. 263738: fattispecie di palpeggiamenti e schiaffi sui glutei della vittima, nella quale la Corte ha escluso che l’eventuale finalità ingiuriosa dell’agente escludesse la natura sessuale della condotta).In altri termini, l’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale è integrato dal dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà sessuale della persona offesa non consenziente, sicchè non è necessario che detto atto sia diretto al soddisfacimento dei desideri dell’agente, nè rilevano possibili fini ulteriori -di concupiscenza, di gioco, di mera violenza fisica o di umiliazione morale -dal medesimo perseguiti (Sez. 3, n. 4913 del 22/10/2014, dep. 03/02/2015, P., Rv. 262470).8. Nel caso di specie, non è controversa la natura sessuale dell’atto, e nemmeno che esso sia stato deliberatamente realizzato dall’imputato; del pari, non emerge che la donna avesse prestato il preventivo consenso all’atto, anche considerando che, in ogni caso, la relazione sentimentale tra i due era terminata da parecchi mesi, quantomeno dal novembre 2011. La circostanza, valorizzata dalla Corte territoriale, che l’imputato non fosse mosso da un desiderio sessuale, ma abbia agito per scherzo attiene unicamente al movente dall’azione, che, come detto, non incide sulla sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie in esame.
In altri termini, la Corte territoriale ha attribuito rilevanza scusante al movente, ossia al fatto che l’agente avesse agito per “scherzo”, il che si pone in contrasto con la ricostruzione della fattispecie come sopra delineata.9. Per i motivi indicati, si impone l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Bologna, a cui rimette il regolamento delle spese relative al presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Bologna. Dichiara inammissibile il ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Modena.In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52,in quanto imposto dalla legge

Offrire denaro ad una diciassettenne per un servizio fotografico integra il reato di induzione alla prostituzione minorile?

Cass. Pen., Sez. III, Sent., 05 marzo 2021, n. 9080
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da :L.A., nato a (OMISSIS);avverso la sentenza del 21/04/2020 della Corte d’appello di Torino;visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere REYNAUD Gianni Filippo; lette le richieste scritte trasmesse dal Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale MANUALI Valentina, ai sensi delD.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8,che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata; letta la memoria di replica presentata dal difensore del ricorrente, avv. N.G.C., con cui si è insistito per l’accoglimento dei motivi del ricorso. Svolgimento del processo1. Con sentenza del 21 aprile 2020, la Corte d’appello di Torino, accogliendo parzialmente il gravame proposto dall’odierno ricorrente con riguardo alla riduzione dell’aumento di pena a titolo di continuazione fissato per il delitto di tentata prostituzione minorile contestato al capo 6) dell’imputazione, ne ha per il resto confermato la penale responsabilità in ordine a tale reato ed a cinque reati di violenza sessuale consumata commessi in danno di diverse persone offese.2. Avverso la sentenza di appello, a mezzo del difensore fiduciario, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, lamentando, con il primo motivo, l’erronea applicazione dell’art. 600 bis, comma 2, in relazione all’art. 56 c.p.,con riguardo al richiamato reato contestato al capo 6) della rubrica.
Si lamenta, in particolare, il difetto del requisito della univocità della condotta compiuta dall’imputato rispetto all’induzione della persona offesa minorenne a concedersi sessualmente a lui verso il corrispettivo della somma di 3.000 Euro. L’offerta della suddetta somma -allega il ricorrente -era stata effettuata (peraltro, solo ironicamente, stante l’evidente incongruità per eccesso) al fine di convincere la minore ad accettare un incontro con lui in una camera di albergo non già per una prestazione di tipo sessuale, bensì per un servizio fotografico. La stessa sentenza impugnata, nel qualificare la proposta di un servizio fotografico alla minore quale pretesto per approfittare sessualmente di lei, tale essendo l’intenzione dell’agente ricostruita dal giudice di merito, avrebbe piuttosto dovuto astrattamente ricondurre la condotta all’ipotesi di reato dell’adescamento di minori di cui all’art. 609 undecies c.p., finalizzato al compimento del delitto di tentata prostituzione minorile (qualora, accettando l’incontro per il servizio fotografico, l’imputato avesse poi svelato che la sua vera intenzione era quella di corrispondere la somma per ottenere una prestazione sessuale), salvo poi doverne escludere la configurabilità in ragione del fatto che si trattava di una ragazza diciassettenne.3. Con il secondo motivo di ricorso, si lamenta l’erronea applicazionedell’art. 62 c.p.,n. 6) e la mancanza e contraddittorietà della motivazione per essere stata esclusa la sussistenza dell’invocata circostanza attenuante sul rilievo che il risarcimento del danno non fosse integrale, benchè risultasse che tutte le persone offese erano state risarcite dei danni patiti e avevano rilasciato quietanze pienamente liberatorie senza che potesse desumersi la natura transattiva delle stesse. Motivi della decisione1. Il primo motivo di ricorso è fondato.Questa Corte ha affermato che integra il tentativo del reato di induzione alla prostituzione minorile la condotta di colui che compia atti idonei e diretti in modo univoco ad intrattenere rapporti sessuali a pagamento con persone di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni (Sez. 3, n. 39452 del 27/04/2012, T., Rv. 253401). E’ stata ritenuta tale l’offerta di denaro ad una minore per convincerla a compiere atti sessuali,poi non effettivamente compiuti (Sez. 3, n. 39433 del 14/05/2014, B., Rv. 260601), non potendosi in tal caso dubitare quantomeno in astratto e fatte salve le particolarità di ogni singolo caso concreto -che la condotta sia idonea e, appunto, diretta in modo non equivoco ad indurre il minore a concedersi sessualmente per denaro.2. Nel caso di specie, per contro, la stessa sentenza attesta che l’offerta di denaro che il ricorrente fece alla ragazza diciassettenne che aveva incontrato in una precedente occasione con il pretesto di scattarle fotografie in cambio di denaro, usandole poi violenza sessuale, era stata fatta per convincerla a recarsi con lui in una camera di albergo al dichiarato fine di realizzare un servizio fotografico.La minore aveva rifiutato -come ebbe a dichiarare in sede di s.i.t. -perchè aveva capito, anche in relazione a quanto accaduto nel precedente incontro, che l’intento dell’uomo non era quello di scattarle delle fotografie, bensì di consumare con lei rapporti sessuali e ciò le sarebbe stato successivamente confermato dallo stesso imputato.Come correttamente reputa il ricorrente, però, al di là di quale potesse essere la sua intenzione, sul piano oggettivo la condotta di offerta di denaro era stata ricollegata alla realizzazione di un servizio fotografico e non già ad ottenere una prestazione sessuale, prospettazione, questa, che, stando all’accertamento effettuato dai giudici di merito, l’imputato non aveva fatto alla ragazza.2.1. Il fatto, pertanto, non può essere ricondotto alla fattispecie ascritta e ritenuta dai giudici di merito, perchè il delitto tentato si caratterizza per l’idoneità degli atti univocamente diretti alla commissione del reato e la verifica di questo ineludibile elemento di tipicità non può essere sostituita dall’intenzione del soggetto agente aliunde ricostruita, concorrendo alla configurazione del tentativo soprattutto criteri di natura oggettiva (cfr. Sez. 1, n. 24808 del 16/06/2010, Lazzaro, Rv. 247806). La direzione non equivoca degli atti, infatti, non indica un parametro probatorio, ma una caratteristica oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono di per sè rivelare l’intenzione dell’agente (Sez. 1, n. 9284 del 10/01/2014, Losurdo e aa., Rv. 259249; Sez. 1, n. 9411 del 07/01/2010, Musso e a., Rv. 246620). L’accertamento della idoneità degli atti, da compiersi secondo il criterio di prognosi postuma, con riferimento alla situazione che si presentava al momento della condotta, in base alle
condizioni prevedibili (cfr., ex multis,Sez. 2, n. 36311 del 12/07/2019, Raicevic, Rv. 277032-02; Sez. 2, n. 44148 del 07/07/2014, Guglielmino, Rv. 260855; Sez. 1, n. 32851 del 10/06/2013, Ciancio, Rv. 256991), va rapportata all’integrazione della condotta quale descritta dalla fattispecie incriminatrice, che nel caso del reato previsto dall’art. 600 bis c.p., comma 2, postula il compimento di atti sessuali con un minore di età compresa tra i quattordici e diciotto anni in cambio di un corrispettivo in danaro o altra utilità, anche solo promessi, perseguendosi lo scopo di tutelare il libero sviluppo psicofisico del minore rispetto alla mercificazione del suo corpo a fini sessuali (cfr. Sez. 3, n. 33470 del 04/07/2006, Cantoni e aa., Rv. 234787). Laddove l’agente, senza manifestare le proprie intenzioni, tantomeno quelle di ottenere uno scambio tra prestazione sessuale e denaro o altra utilità, cerchi di precostituirsi le condizioni per trovarsi solo con il minore -pur allettandolo con la promessa di compensi o regali -onde poter tentare un approccio di natura sessuale (magari neppure fondato sul consenso prezzolato, come nel caso di specie avvenuto in occasione del primo incontro, in cui si consumò una violenza sessuale), la finalità lato sensu predatoria sul piano sessuale non si accompagna ad una condotta oggettivamente idonea ad integrare l’ipotizzato reato di mercificazione del corpo del minore.2.2. E’ invece corretta la prospettazione del ricorrente circa l’astratta riconducibilità della condotta al delitto di adescamento, tuttavia nel caso sub iudice non configurabile per l’età della giovane. Ed invero, il reato di cui all’art. 609 undecies c.p., mira ad anticipare, anche rispetto al tentativo punibile, la tutela del bene protetto dai reati di aggressione sessuale, come questa Corte ha avutomodo di precisare allorquando ha affermato che, in tema di reati sessuali, in forza della clausola di riserva previstadall’art. 609-undecies c.p.,il reato di adescamento di minori si configura soltanto quando la condotta non integra gli estremi del reato-fine neanche nella forma tentata (Sez. 3, n. 8691 del 29/09/2016, dep. 2017, P. e aa., Rv. 269194) e consiste in una condotta a forma libera (“qualsiasi atto”)oggettivamente volta “a carpire la fiducia del minore attraverso artifici, lusinghe o minacce” con il dolo specifico della commissione di uno dei reati sessuali previsti dalla disposizione.La condotta accertata in fatto dai giudici di merito è perfettamente riconducibile a questo schema. Nella sentenza impugnata si legge che, anche alla luce di quanto in concreto avvenuto durante il primo incontro tra l’imputato e la ragazza -nel corso del quale, come si è detto, l’uomo aveva sessualmente abusato di lei -“correttamente il primo Giudice ha osservato che la promessa di una somma molto più consistente, per un incontro in una camera d’albergo, non può che essere interpretata come univocamente diretta a convincere la minore…ad accettare l’incontro in un luogo in cui approfittare di lei al fine di compiere altri atti della medesima natura”. Il punto è, tuttavia, che l’offerta di denaro per un servizio fotografico -certamente, come afferma la sentenza, un “pretesto” o, per dirla con le parole usate nell’art. 609 undecies c.p., un “artificio” -non corrisponde al fatto tipico previstodall’art. 56 c.p.,e art. 600 bis c.p., comma 2, e ciò al di là dell’intenzione dell’agente (che corrisponde al dolo specifico richiesto dal reato di adescamento di minori) e del fatto che la giovane diciassettenne rifiutò la proposta, avendo compreso quali fossero le reali intenzioni dell’uomo (“io però ho capito che non si trattava di fotografie ma che voleva pagarmi per fare sesso con me”). La condotta di “adescamento” nella specie posta in essere, tuttavia, non corrisponde alla fattispecie punibile, essendo richiesto che la persona offesa minorenne abbia un’età inferiore ai sedici anni proprio sul presupposto -in qualche modo confermato dalla vicenda in esame -che minorenni più prossimi al raggiungimento della maggiore età abbiano, di regola, gli strumenti per accorgersi delle intenzioni illecite dei predatori sessuali, sì da evitare di cadere nelle trappole da costoro ordite.Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto -a fronte di una conforme ricostruzione della vicenda avvenuta nei termini più sopra descritti in entrambi i precedenti gradi di giudizio, peraltro celebratosi con rito abbreviato la sentenza impugnata deve pertanto essere annullata senza rinvio limitatamente al reato di cui all’art. 56 c.p.,e art. 600 bis c.p., comma 2, (capo 6 della rubrica) perchè il fatto non sussiste, con conseguente eliminazione della pena di mesi due di reclusione applicata per detto reato a titolo di continuazione (mesi tre, con riduzione per la scelta del rito).2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile per genericità e perchè sottopone a questa Corte una non consentita valutazione di merito.
Ed invero, nella giurisprudenza di questa Corte è consolidato il principio giusta il quale, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p.,comma 1, n. 6, il risarcimento del danno deve essere integrale, ossia comprensivo della totale riparazione di ogni effetto dannoso, e la valutazione in ordine alla corrispondenza fra transazione e danno spetta al giudice, che può anche disattendere, con adeguata motivazione, ogni dichiarazione satisfattiva resa dalla parte lesa (Sez. 2, n. 51192 del 13/11/2019, C., Rv. 278368-02; Sez. 2, n. 53023 del 23/11/2016, Casti, Rv. 268714; Sez. 4, n. 34380 del 14/07/2011, Allegra, Rv. 251508).La sentenza impugnata -oltre ad attestare, con particolare riguardo al più grave reato di cui al capo 1) dell’imputazione, che l’allegato risarcimento non poteva neppure dirsi provato, poichè non v’era certezza sull’autenticità della firma apposta sulla quietanza prodotta in giudizio -ha ritenuto, per tutti i reati, che alle giovani vittime erano state corrisposte “somme “simboliche”…per nulla satisfattive rispetto al danno, anche morale, sofferto, a fronte di atti di violenza sessuale sicuramente invasivi”. La motivazione non è manifestamente illogica e la contestazione mossa sul punto dal ricorrente è del tutto generica e non consente a questa Corte alcun margine di sindacato nei limiti consentitidall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e).
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo 6 (art. 56 c.p.,e art. 600 bis c.p., comma 2) perchè il fatto non sussiste ed elimina la relativa pena di mesi due di reclusione. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso. Dispone, a norma delD.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52,che -a tutela dei diritti o della dignità degli interessati -sia apposta a cura della cancelleria, sull’originale della sentenza, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati riportati sulla sentenza.

La sopravvenienza di figli in capo all’adottante non comporta la revoca dell’adozione di persona maggiorenne

TRIBUNALE DI ROMA
PRIMA SEZIONE CIVILE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 5532/2017 promossa da: M.G.P., in proprio ed unitamente ad A.A. n.q. di legale rappresentante dei minori M.G. e M.P.P., rappresentati e difesi dall’ Avv. Antonio Catricalà, presso il di lui studio elettivamente domiciliati in Roma, via Vittoria Colonna n.40, giusto mandato in atti ATTORI controM.M.M., rappresentato e difeso dagli Avv. Giulia Sarnari e Avv. Saveria Francesca Caporale, elettivamente domiciliato in Roma, via Giovanni Nicotera, 29, presso lo studio della prima, giusto mandato in atti CONVENUTO E M.B.D.M.M.R., elettivamente domiciliata in Cosenza, via Tagliamento 15, presso lo studio legale Testa Mungo, rappresentata e difesa, come da mandato in calce alla comparsa di costituzione, dall’Avv. Antonio Testa CONVENUTA e con l’intervento del Pubblico Ministero presso il Tribunale INTERVENUTO
OGGETTO: adozione di maggiorenne
Svolgimento del processo -Motivi della decisione
Con atto di citazione ritualmente notificato, gli attori convenivano in giudizio M.M.M. e M.B.D.M.M.R. al fine di far accertare e dichiarare, in via principale, la nullità sopravvenuta della adozione dei convenuti da parte dell’attore G.M. pronunciata dal Tribunale Civile di Roma con sentenza del 5 luglio 2002, essendo venuto meno il requisito essenziale della mancanza di discendenti previsto dall’art. 291 c.c. per avere concepito i figli G. Jr. e P.P.; in via subordinata, ritenuta non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 305, 306 e 307 c.c. nella parte in cui non prevedeva tra i casi di revoca dell’adozione dei maggiorenni l’ipotesi di sopravvenienza di figli minori per violazione dell’articolo 3 della Costituzione, la sospensione del giudizio e all’esito positivo del procedimento innanzi alla Corte Costituzionale, revocare l’adozione dei convenuti, in ragione della sopravvenienza di figli naturali, disponendo, in ogni caso, che gli stessi fossero privati del cognome M..Deducevano gli attori a sostegno della domanda che: in data 5 luglio 2002 il Tribunale di Roma dichiarava l’adozione dei convenuti-collaboratori dell’attore nella agenzia di stampa in sua titolarità-, previa verifica dei requisiti di cui all’art.291 c.c.; che successivamente, dall’unione di G.M. con A.A., nascevano nell’anno 2008 i figli G. e P.; che i minori erano lesi dall’adozione dei convenuti da parte del padre, deducendo, peraltro, che i rapporti si erano in seguito deteriorati; che la mancanza sopravvenuta di uno degli elementi essenziali dell’art.291 c.c. (e, segnatamente, i figli minori) e la conseguente perdita della capacità di adottare incidevano sulla validità dell’adozione, evidenziandone il carattere negoziale e precisando, inoltre, che anche la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva ritenuto lapossibilità del venir meno del vincolo dell’adozione in presenza di ragioni sufficienti ai sensi dell’art. 8 CEDU, qui ravvisabile nel preminente interesse dei figli minori. Rilevavano, inoltre, in via subordinata, l’illegittimità costituzionale degli artt.305, 306, 307 del c.c. per violazione dell’art.3 Costituzione per non prevedere la revoca nel caso di sopravvenienza di figli naturali, in considerazione del diverso trattamento legislativo previsto per la donazione (art.803 c.c.), di cui era possibile la revoca in ipotesi di sopravvenienza di figli, essendo identici i presupposti meramente patrimoniali dei due istituti.Si costituiva M.M.M. che, previa contestazione della ricostruzione dei fatti come prospettata dagli attori, chiedeva il rigetto della domanda di nullità sopravvenuta dell’adozione, precisando trattarsi di atto non negoziale ma giudizialmente disposto, nonché che fosse dichiarata inammissibile la subordinata domanda di revoca dell’adozione per avvenuta prescrizione del diritto e/o improcedibile per decadenza dall’azione, con rigetto nel merito perché infondata in fatto ed in diritto, mentre infondata era la questione di legittimità costituzionale con riferimento alla diversità di trattamento di cui alla disciplina dell’art.803 c.c. in tema di donazione, essendo diversi gli ambiti di applicazione dei due istituti, con conseguente condanna della controparte al pagamento delle spese di giudizio, nonché ex art. 96 c.p.c. per lite temeraria.Si costituiva in giudizio M.B.D.M.M.R. che chiedeva il rigetto delle domande attoree, deducendo l’insussistenza di ipotesi ulteriori di nullità oltre a quelle tassativamente previste, l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale con riferimento all’art.803 c.c., l’insussistenza di ipotesi di revoca dell’adozione oltre quelle normativamente previste.Concessi i termini di cui all’art.183, VI co. c.p.c., non ammesse le prove orali di parte convenuta M., istruito documentalmente il procedimento, all’udienza del 27.1.2020 le parti concludevano come in epigrafe e la causa era rimessa al Collegio per la decisione, con i termini di cui all’art. 190 c.p.c.
Preliminarmente, deve rilevarsi l’applicabilità al presente procedimento della sospensione dei termini processuali disposta dal D.L. 17 marzo 2020, n. 18 a far data dal 9 marzo 2020 sino al 15 aprile 2020, termine poi prorogato con D.L. dell’8 aprile 2020, n. 23 all’11 maggio 2020.Sempre in via preliminare, il Collegio ritiene di condividere l’ordinanza istruttoria del 18.12.19 per essere le prove orali articolate irrilevanti alla luce del thema decidendum.Prima di esaminare la domanda attorea, occorre svolgere premesse di ordine generale.Come è noto, l’adozione di maggiorenne è stata introdotta dalla riforma del 1983 ed ha preso il posto dell’antica adozione ordinaria, che concerneva originariamente sia i maggiorenni che i minori superiori agli anni otto, mentre per i minori degli anni otto si applicava l’adozione speciale prevista nella L. n. 431 del 5 giugno 1967.A seguito della riforma, l’adozione ordinaria è stata circoscritta all’adozione di maggiorenni come disciplinata dagli artt.291 e ss. del c.c. che, pur essendo istituto utilizzato a trasmettere il nome ed il patrimonio è ritenuto attualmente funzionale a dare veste giuridica ad un rapporto personale ed affettivo che, nella maggioranza dei casi è già di fatto sussistente tra adottante ed adottato (ad es. perché figlio dell’altro coniuge o per consuetudine di affetti), cui consegue il rilevante interesse morale all’aggiunta del cognome adottivo, attraverso uno strumento più duttile rispetto all’analogo strumento previsto per l’adozione di minorenne (cfr., Cass., 2426/2006).Ne consegue, pertanto, che alla luce della normativa precitata, l’adozione di maggiorenni, pur perseguendo fini prevalentemente privatistici, inerenti alla tutela degli esclusivi interessi dell’adottante e dell’adottato, di natura principalmente successoria, è sottoposta ad un controllo pubblicistico da parte dell’ordinamento circa la rispondenza di siffatta adozione all’interesse dell’adottando e ciò in considerazione del conferimento dello status di figlio adottivo all’adottato maggiorenne, che si aggiunge al precedente stato familiare.Al riguardo, mentre la normativa anteriore prevedeva che ” l’adottato aggiunge al proprio il cognome dell’adottante”, il legislatore del 1983, per sottolineare il rilievo che assume lo stato adottivo e la creazione del nuovo rapporto giuridico (che, tra l’altro, obbliga entrambe le parti agli alimenti legali) ha espressamente stabilito che l’adottando assume il cognome dell’adottante anteponendolo al proprio, né sono ammesse eccezioni (cfr., al riguardo, sulla non irrazionalità dell’anteposizione del cognome dell’adottante, Corte Cost. n. 120 del 2001).Data la natura pubblicistica dell’adozione di maggiorenne, il provvedimento che pronuncia l’adozione (in precedenza il decreto e, con la modifica effettuata con la novella del 2001, la sentenza) è costitutivo dell’adozione, producendo effetti direttamente incidenti sullo status, ciò che garantisce stabilità al nuovo rapporto, stabilità comprovata dalla circostanza della previsione della sua revocabilità soltanto nei casi tassativamente previsti dalla legge (artt.305-309 c.c.) in conseguenza di fatti sopravvenuti.In tal senso, secondo parte della giurisprudenza a cui questo Collegio ritiene di aderire (cfr., Cass. 16.7.04, n.13171), avendo la pronuncia carattere decisorio e definitivo, i vizi sia processuali che
sostanziali che eventualmente la inficiano si convertono in motivi di impugnazione e possono essere fatti valere esclusivamente con il mezzo dell’impugnazione previsto dall’ordinamento, con la conseguenza che la decadenza dell’impugnazione comportache gli stessi in applicazione del principio stabilito dal’art. 161 c.p.c. non possono essere più dedotti, nemmeno con l’actio nullitatis, esperibile nei limitati casi in cui la pronuncia sia stata emessa in assoluta carenza di potere giurisdizionale, in riferimento ad un provvedimentoche si configura come abnorme.In tale ottica, l’adozione è un atto giudiziale, ove i consensi e gli assensi dei singoli interessati assumono la connotazione di presupposti dell’atto, ossia le condizioni che il Tribunale deve verificare prima di emettere la pronuncia costitutiva, e, successivamente ad essa, non possono essere impugnati autonomamente per un eventuale loro vizio, in quanto la valutazione della manifestazione di colui che ha prestato il consenso resta assorbitanella decisione giurisdizionale passata in giudicato, e non può, pertanto, trovare più tutela se non nell’ambito dei rimediimpugnatori del provvedimento.La natura giudiziale dell’adozione di maggiorenne appare, a parere del Tribunale, coerente con il principio generale dell’indisponibilità negoziale degli stati familiari, trovando ulteriore conferma nella mancata previsione, da parte del legislatore dell’impugnazione dell’adozione per vizi della volontà dei dichiaranti.Deve, peraltro, sottolinearsi come, anche per quella parte della giurisprudenza secondo la quale l’istituto avrebbe, invece, carattere negoziale (cfr., in termini, Cass.4694/ 1992; Cass. 4461/83), l’azione di annullamento dell’adozione (ad es., per incapacità naturale dell’adottante o per vizi del consenso) riguarda esclusivamente vizi genetici dell’atto.Inoltre, in mancanza di una espressa disposizione normativa circa le persone legittimate a far valere la situazione invalidante, si esclude che possa trovare applicazione la disposizione generale dell’art.428 c.c., -che consente l’esercizio dell’azione anche agli eredi e agli aventi causa -in quanto volta a tutelare interessi essenzialmente patrimoniali, con la conseguenza che soggetto a legittimato a proporre l’azione di impugnazione del consenso dell’adottante è soltanto l’adottante stesso, titolare della posizione soggettiva in contestazione, dovendo tale azione considerarsi esclusivamente personale e non trasmissibile (cfr. Cass. 4694/92, cit., Cass. 2520/75).Anche in ipotesi di actio nullitatis, i vizi dell’atto (sia optando per la tesi negoziale che per quella giudiziale, in quest’ultima ricostruzione nei limitati casi in cui la pronuncia sia stata emessa in assoluta carenza di potere giurisdizionale) sono comunque sempre genetici, non essendo prevista dall’ordinamento un’invalidità dell’atto per fatti sopravvenuti (e, comunque, nelle fattispecie di elaborazione giurisprudenziale, come ad esempio in tema di anatocismo degli interessi bancari, non tali da inficiare la validità e l’efficacia del negozio costitutivo, cfr. SU 24675/17).Alla luce di tali considerazioni, non meritevole di accoglimento è la domanda svolta in via principale dagli attori (in proprio e quale rappresentante dei figli minori, M.G. e quale rappresentante dei figli minori A.A.) di nullità dell’adozione dei convenuti di cui alla pronuncia (passata in giudicato del Tribunale di Roma del 5 luglio 2002, per essere venuto meno, in considerazione della sopravvenienza dei figli minori, il requisito previsto dall’art.291 c.c.(per cui soltanto il soggetto privo di discendenti legittimi, ovvero, con discendenti maggiorenni, ma consenzienti, può procedere
all’adozione), trattandosi, invero, di evento sopravvenuto come tale non idoneo ad incidere sulla validità dell’atto compiuto oggetto di verifica giudiziale costitutiva di status.Inoltre, l’esistenza di un impedimento di legge preesistente all’adozione configurerebbe, comunque, un vizio la cui sussistenza al momento della pronuncia costitutiva dello status dovrebbe essere fatta valere nei termini di impugnazione della sentenza.Passando all’esame della domanda svolta in via subordinata dagli attori di revoca dell’adozione per sopravvenienza di figli minori, contestualmente ponendo la questione di legittimità costituzionale degli articoli 305, 306 e 307 c.c. nella parte in cui non prevedono tra i casi di revoca dell’adozione dei maggiorenni l’ipotesi di sopravvenienza di figli minori, in considerazione, in primo luogo, del diverso trattamento legislativo previsto per la donazione (art.803 c.c.), in cui è possibile la revoca in ipotesi di sopravvenienza di figli, essendo a loro dire identici i presupposti meramente patrimoniali dei due istituti ed, in secondo luogo ed in generale, per violazione dell’articolo 3 della Costituzione, lamentando la lesione dell’interesse dei figli minori, si osserva quanto segue.E’ noto che a tenore dell’art.291 c.c. l’adozione delle persone maggiori di età è permessa alle persone che non hanno discendenti legittimi o legittimati, ciò sul presupposto della tradizionale funzione dell’istituto di dare un figlio a chi non ne ha, per rendere possibile una discendenza elettiva, attributiva del cognome e della qualità di erede.Tale condizione è stata temperata dall’intervento della Corte costituzionale, che ha consentito l’adozione anche a chi ha già una discendenza di sangue (cfr., sent.245 del 20 luglio 2004 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 291 del codice civile, nella parte in cui non prevede che l’adozione di maggiorenni non possa essere pronunciata in presenza di figli naturali, riconosciuti dall’adottante, minorenni o, se maggiorenni, non consenzienti).Attualmente, dunque, il divieto di adottare è limitato per chi abbia figli minorenni legittimi, legittimati e naturali e per coloro che abbiano figli maggiorenni legittimi, legittimati e naturalinon consenzienti all’adozione.Secondo gli attori, attesa la natura prettamente patrimoniale dell’adozione di maggiorenne, anche qualora non inficiante l’atto nella sua validità, la sopravvenienza di figli minori dovrebbe costituire motivo di revoca dell’adozione -come previsto, in fattispecie analoga, per la donazione-pregiudicando, diversamente, i diritti (in particolare di carattere successorio) dei figli minori, ciò trovando coerenza con l’espresso divieto normativo di consentire l’adozione in ipotesi di figli minori (che, diversamente dai maggiorenni, non possono valutare la portata dell’atto da compiersi né, conseguentemente, prestare validoconsenso).La tesi attorea non è condivisibile.Occorre partire dal presupposto che, secondo la ricostruzione dell’istituto, lo stato di figlio adottivo è considerato uno stato definitivo della persona, così da ammettere all’art. 305 del codice civile una limitatissima possibilità di revoca mediante sentenza del tribunale, come disciplinata, in via tassativa, dai successivi artt.306 e 307 c.c.: la revoca può essere pronunziata su domanda dell’adottante in caso di indegnità dell’adottato, o su domanda dell’adottato in caso di indegnità dell’adottante, domande su cui è competente a pronunciarsi il Tribunale del luogo di residenza dell’adottante, con l’intervento obbligatorio del P.M., trattandosi di controversia in materia di status.
E’ significativo, in relazione alla tutela che l’ordinamento appresta agli interessi dell’adottato che la pronuncia ha efficacia costitutiva, facendo venir meno gli effetti dell’adozione dal suo passaggio in giudicato, con la sola eccezione per il caso di revoca pronunciata dopo la morte dell’adottante per fatto imputabile all’adottato, che retroagisce, ma limitatamente ai soli effetti successori, alla morte dell’adottante.Costituiscono peculiari casi di indegnità l’attentato all’adottato o dell’adottante alla vita, rispettivamente, dell’adottante o dell’adottato o del loro coniuge, discendenti o ascendenti o la commissione nei loro confronti di un reato punibile conpena non inferiore a tre anni.Conseguentemente, la revoca dell’adozione, con la quale viene meno ogni effetto di essa (cognome, diritti successori, alimentari, ecc.) può essere pronunciata soltanto per fatti tassativi e particolarmente gravi -comunque sempre sopravvenuti rispetto allapronuncia -più gravi e limitati rispetto ad altre situazioni per certi versi ad essa assimilabili, come, ad esempio l’indegnità a succedere ex art. 463 c.c. e la revocazione della donazione ex art. 801 c.c. e ciò al fine evidente di apprestare all’istituto, per le sue rilevanti conseguenze sullo status dei soggetti, di particolari garanzie di stabilità.In tal senso, la previsione di ipotesi tassative e non suscettibili di applicazioni analogica della revoca dell’adozione del maggiorenne integrano una sorta di sanzione ad un comportamento particolarmente negativo del soggetto.Il disfavore dell’ordinamento nei confronti di eventi sopravvenuti tali da incidere-se non nelle richiamate eccezionali ipotesi-sullo status di adottato è confermata dall’abrogazione da parte del legislatore del 1983 della revoca per ragioni di buon costume prevista dalla disciplina anteriore (art.308 c.c.), ragioni che erano generalmente collegate all’esigenza di protezione del fanciullo.Svolte tali considerazioni, non fondata è la questione di costituzionalità prospettata dagli attori per disparità di trattamento ex art.3 Cost. con riferimento alla diversa disciplina dettata in materia di donazione dall’art.803 c.c. (che, prevede, per l’appunto, la revoca dell’atto donativo fatto da chi non aveva o ignorava di avere figli al tempo della donazioni) per essere diversa la ratio e la funzione dei due istituti, essendo quello regolato dall’art.803 c.c. teso a salvaguardare un interesse di carattere eminentemente patrimoniale del donante, consentendogli una rivalutazione dell’opportunità dell’atto di liberalità di fronte al fatto sopravvenuto della nascita di figli, mentre l’eventuale revoca dell’adozione verrebbe ad incidere (peraltro, con effetti ex tunc) sullo status del soggetto come acquisito in conseguenza dell’adozione.Del pari non fondato è l’ulteriore profilo di legittimità delle norme degli artt.305 e ss. per la mancata previsione di revoca per sopravvenienza di figli, sollevata dagli attori con riferimento, in via generale,all’art.3 della Costituzione, lamentando in tal modo la lesione degli interessi di figli minori venuti in vita successivamente all’adozione.Al riguardo, nel bilanciamento tra opposti interessi -da un lato, quello prevalentemente di natura patrimoniale e successoria dei figli legittimi dell’adottante e, dall’altro, quello non soltanto di carattere patrimoniale e successorio ma, congiuntamente e previamente, anche quello morale e pubblicisticamente rilevante al mantenimento dello status di figlio adottivodell’adottato -non può essere ritenuto prevalente quello dei figli legittimi successivamente venuti alla vita.
Ed invero, se, come già in precedenza evidenziato, non si può disconoscere che l’adozione di persone maggiori di età sia stata concepita, sin dal diritto romano, come istituto volto a rendere possibile una discendenza elettiva e che tale funzione abbia successivamente mantenuto, non si può soggiacere come l’attuale finalità dell’adozione ordinaria non sia più soltanto quella tradizionale di consentire la trasmissione del cognome e della qualità di erede dell’adottante, ma anche per formalizzare rapporti affettivi (ad es. quello creatosi tra un coniuge ed i figli dell’altro coniuge o rapporti di accoglienza e consuetudine tra gli interessati già sperimentati e concretamente vissuti, come accaduto anche nel caso di specie), in tal modo consolidando l’unità familiare e consentendo all’adottato, in considerazione dello status conseguito e dell’importante interesse morale all’anteposizione del cognome adottivo, una diversa riconoscibilità tra i consociati.In tale ottica di favor per l’adozione di maggiorenni anche in presenza di figli dell’adottante si pongono le pronunce del Giudice delle leggi(la sent. 245/04, ma, già in precedenza, la sent.557/88), che hanno eliminato il divieto di adozione anche in ipotesi di figli maggiorenni se consenzienti, in tal modo consentendo l’adozione di maggiori di età anche in presenza di discendenti di sangue.In caso di sussistenza di figli maggiorenni, qualora gli stessi dissentano dall’adozione, il bilanciamento degli interessi di chi fa già parte della famiglia legittima, da un lato, ed il favor verso l’istituto dell’adozione, dall’altro, è risolto, correttamente, a favore di chi è già parte della famiglia legittima, per le conseguenze che ne deriverebbero (pur senza essere parti del rapporto) dalla costituzione del vincolo.Coerentemente, per i figli minori già presenti nella famiglia legittima-proprio perché non capaci di prestare valido consenso (né potendo lostesso essere validamente in loro vece prestato da terzi) la tutela dell’ordinamento è massima, essendo del tutto vietata, in tal caso, l’adozione di soggetti maggiorenni.Né, in tali ipotesi (figli maggiori dissenzienti o figli minori), si può ritenere ingiustamente compresso l’interesse dell’adottando ad entrare nella famiglia dell’adottato (come invece è previsto nell’ipotesi di adozione di soggetti minori).Come autorevolmente chiarito dalla Corte Cost. nella pronuncia 53/ 94, “mentre con l’adozione speciale l’ordinamento giuridico intende inserire in un’ idonea e stabile famiglia (preferibilmente già con figli) un minore moralmente e materialmente abbandonato -e per questo interesse prevalente ritiene secondaria l’eventuale soddisfazione ridotta degli interessi personali e patrimoniali dei figli legittimi (anche se minorenni) degli adottanti -, nel caso invece dell’adozione ordinaria il legislatore non ha riscontrato analogo interesse prevalente, in quanto l’adottando non solo é maggiorenne e continua ad essere legato ai propri genitori, ma, entrando anche in una seconda famiglia, assorbe una parte degli interessi morali e patrimoniali del figlio minore, legato soltantoalla famiglia dell’adottante”.L’interesse dell’adottando, non pregiudicato se non nei limiti del mancato ingresso nella famiglia dell’adottante per la presenza di figli minori o di maggiorenni dissenzienti, non può essere, a parere del Tribunale, viceversa sacrificato (con revoca della adozione ex tunc e perdita del cognome acquisito,come pure richiesto dagli attori) in ipotesi di sopravvenienza di figli, né appare lesiva degli interessi della prole sopravvenuta la mancata previsione positiva in tal senso, in relazione al dettato costituzionale.
Ed invero, come sopra evidenziato, la valida costituzione del vincolo adottivo in presenza dei presupposti normativamente previsti, come giudizialmente accertati, non può essere inficiata dalla successiva venuta meno di un requisito di validità (nella specie, la sopravvenienza di figli minori).Né tale evento sopravvenuto può portare alla revoca dell’adozione, in quanto, successivamente alla pronuncia, l’adottando acquisisce non soltanto diritti patrimoniali e successori, ma un nuovo status -di cui l’anteposizione del cognome dell’adottante al proprio rappresenta l’indice più evidente ed il segno della sua appartenenza alla famiglia dell’adottato-che, nel bilanciamento con gli interessi di carattere eminente patrimoniale e successorio della prole successivamente venuta alla vita, non può soccombere come invece, legittimamente, prima dell’adozione.Detto in altri termini, coerente con l’impianto costituzionale è sia il divieto normativo -antecedentemente all’atto adottivo -di procedere all’adozione di persone maggiori di età in ipotesi di figli maggiorenni non consenzienti o di minori, prevalendo in questo caso l’interesse di questi a salvaguardare i propri diritti patrimoniali su quello dell’adottando di avere riconoscimento giuridico al rapporto in essere con l’adottante, e ciò sulla scorta della sussistenza in suo capo di una famiglia d’origine edi una già detenuta riconoscibilità nella società, sia la mancata previsione positiva-oltre a quelle tassativamente previste-della perdita di status di figlio adottivo per sopravvenienza di figli legittimi, in considerazione della prevalenza che va riconosciuta, dopo l’avvenuta costituzione, all’interesse al mantenimento dello status e della riconoscibilità tra i consociati in conseguenza dell’assunzione del cognome dell’adottante (nel caso di specie, i convenuti hanno assunto tale identità da quasi venti anni).Se, invero, in una valutazione ex ante (cioè al momento della pronuncia d’adozione), l’interesse dei figli minori e dei maggiorenni dissenzienti, per quanto esposto, è ex lege impediente all’adozione, tale interesse non può prevalere, sino a privare l’adottato dello status acquisito, in una valutazione ex post (e, ciò, dopo diversi anni il conseguimento dello status), non potendosi ravvisare in concreto una lesione degli interessi della prole legittima (di carattere eminentemente patrimoniale e successoria) idonea a prevalere sull’interesse anche morale dell’adottato a conservare lo stato di figlio adottivo, anche in considerazione della natura ontologicamente definitiva ed indisponibile degli status e della rilevanza pubblicistica dell’istituto dell’adozione anche nei confronti dei terzi.Né, infine, la normativa codicistica appare in contrasto con le indicazioni giurisprudenziali a livello comunitario ricordate dagli attori relativamente alla possibilità del venir meno del vincolo dell’adozione in presenza di ragioni sufficienti ai sensi dell’art. 8 CEDU, essendo previste, come si è visto, dall’ordinamento interno ipotesi di sopravvenuta inefficacia dell’adozione con indicazione delle relative ragioni (cfr. art.305 e ss. c.c. sopra richiamati), ipotesi non suscettibili di applicazione analogica e, per quanto esposto, coerenti con la ricostruzione dogmatica dell’istituto e conformi al dettato costituzionale.
In conclusione, la domanda non è meritevole di accoglimento.Non può essere accolta la domanda di parte convenuta M.M. di condanna degli attori ai sensi dell’art. 96 c.p.c., atteso che l’azione di parte attrice si è estrinsecata nella prospettazione di tesi giuridico fattuali risultate non fondate all’esito del giudizio, senza però che ciò possa essere ritenuto espressione di dolo o colpa grave. La giurisprudenza ha affermato che “La condanna per responsabilità processuale aggravata, per lite temeraria, quale sanzione dell’inosservanza del dovere di lealtà e probità cui ciascuna parte è tenuta, non può derivare solo dal fatto della prospettazione di tesi giuridiche riconosciute errate dal giudice, occorrendo che l’altra parte deduca e dimostri nell’indicato comportamento la ricorrenza del dolo o della colpa grave, nel senso della consapevolezza, o dell’ignoranza, derivante dal mancato uso di un minimo di diligenza, dell’infondatezza delle suddette tesi” (così Cass. n. 7101 del 1994; Cass. n. 19976 del 2005 e in senso sostanzialmente conforme, Cass. n. 15789 del 2007).Non risulta assolto dalla parte convenuta l’onere della prova in ordine alla sussistenza del dolo o della colpa grave. Sussistono giustificati motivi attesa la peculiarità e particolare originalità delle questioni di diritto trattate, per compensare le spese di lite.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando nel procedimento di primo grado iscritto al R.G.N.5532/17, ogni altra istanza, deduzione ed eccezione disattesa, così decide:1) rigetta la domanda attorea; 2) rigetta la domanda ex art. 96 c.p.c. di parte convenuta M.M.; 3) compensa le spese di lite.