Toccamenti fugaci sul seno: osteopata cieco condannato per violenza sessuale

Cass. Pen., Sez. III, Sent., 09 febbraio 2021, n. 5043
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:Dott. LIBERATI Giovanni -Presidente -Dott. CORBETTA Stefano -Consigliere -Dott. REYNAUD Gianni F. -rel. Consigliere -Dott. MENGONI Enrico -Consigliere -Dott. MACRI’ Ubalda -Consigliere -ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da: B.R., nato a (OMISSIS);avverso la sentenza del 13/12/2019 della Corte di appello di Torino;visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Gianni Filippo Reynaud;lette le richieste scritte trasmesse dal Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Mastroberardino Paola, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137,dell’art. 23, comma 8. conv., con modifica., dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176,che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;lette le conclusioni rassegnate, nell’interesse dell’imputato, dall’avv. Michela Malerba, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso. Svolgimento del processo –Motivi della decisione1. Con sentenza del 13 dicembre 2019, la Corte d’appello di Torino, decidendo il gravame proposto dall’odierno ricorrente, ha confermato la condanna del medesimo alle pene di legge in ordine al reato di cui all’art. 609 bis c.p..2. Avverso la sentenza di appello, a mezzo del difensore fiduciario, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo l’erronea applicazione dell’art. 609 bis c.p. ed il vizio di mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine alla prova dell’elemento soggettivo del reato. Si lamenta, in particolare, che non era stata data risposta alle doglianze al proposito proposte con il gravame, nel quale si era chiesto alla corte d’appello di valutare l’involontarietà del gesto compiuto dall’imputato -osteopata non vedente -nel massaggiare la paziente che gli si era rivolta. La sentenza -ci si duole -si limita ad escludere apoditticamente l’involontarietà dell’atto senza considerare il più rilevante degli elementi addotti dall’appellante, vale a dire la cecità, con ciò omettendo di rendere sul punto, come invece sarebbe stato necessario, argomentazioni chiare e precise.3. Il ricorso è inammissibile per genericità e manifesta infondatezza.3.1. Va in primo luogo rilevato che in esso vengono riproposte le stesse doglianze sull’involontarietà della condotta, concretizzatasi nel compimento di atti oggettivamente sessuali, tenuta dall’imputato nei confronti della paziente. Tali doglianze -reputa il Collegio -sono tuttavia state disattese dalla Corte territoriale con motivazione stringata, ma efficace e non illogica, senza che il ricorrente si confronti seriamente con la chiara ratio decidendi.In questo quadro, il ricorso è pertanto affetto da genericità, causa di inammissibilità che ricorre non solo quando i motivi risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568). In particolare, i motivi del ricorso per cassazione -che non possono risolversi nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito -si devono considerare non specifici, ma soltanto apparenti, quando omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e aa., Rv. 243838), sicchè è inammissibile il ricorso per cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto d’impugnazione, atteso che quest’ultimo non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425).3.2. In secondo luogo, il ricorrente si limita a contestare la ricostruzione del fatto non illogicamente operata dalla sentenza impugnata, peraltro in termini identici a quelli effettuati nella sentenza di primo grado, senza considerare che, ai sensi dell’art. 606 c.p.p.,comma 1, lett. e), il controllo di legittimità consentito sulla motivazione non concerne nè la ricostruzione dei fatti, nè l’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato contenga l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo sorreggono, che il discorso giustificativo sia effettivo e non meramente apparente (cioè idoneo a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata), che nella motivazione non siano riscontrabili contraddizioni, nè illogicità evidenti (cfr. Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, Longo, Rv. 251516).Quanto alla illogicità della motivazione come vizio denunciabile, la menzionata disposizione vuole peraltro che essa sia manifesta, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, restando ininfluenti le minime incongruenze e dovendosi considerare disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, appaiano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Sez. 2, n. 1405 del 10/12/2013, Cento e a., Rv. 259643). L’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione, inoltre, ha un orizzonte circoscritto (cfr. Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099), essendo precluse la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482).3.3. In particolare, la sentenza impugnata -ricostruendo il fatto in modo conforme a quanto avvenuto in primo grado, senza che sul punto il ricorrente muova contestazioni -attesta che, secondo le attendibili dichiarazioni della persona offesa, la quale si era rivolta all’imputato per un ciclo di trattamenti contro la cefalea, alla seconda seduta, mentre ella si trovava sul lettino in reggiseno e mutandine, l’uomo la “afferrò stretta stretta e ad un certo punto le toccò il gluteo all’interno delle mutandine e verso la fine del massaggio le toccò le grandi labbra. Nel frattempo con un braccio le aveva serrato il seno e ad un certo punto l’uomo si era toccato i genitali”.Dopo aver dato atto -anche qui senza che il ricorrente muova contestazioni -che lo stesso consulente tecnico della difesa aveva escluso che il trattamento delle cefalee richieda contatti con le zone genitali o il seno, la sentenza conclude nel senso che “i toccamenti pur fugaci sul seno e dentro le mutandine” erano “certo intenzionali, non potendo essere in alcun modo connessi alle pratiche osteopatiche, come affermato anche dal consulente tecnico della difesa”.Tale valutazione di merito -che non si presta a censure sul piano della logicità e non può dunque essere sindacata in questa sede -all’evidenza esclude, implicitamente ma inequivocabilmente, che la cecità dell’imputato possa aver avuto un qualsivoglia rilievo nella condotta contestata, stante, appunto, la chiara intenzionalità della stessa, sicchè nessun vizio di carenza di motivazione è al proposito ravvisabile. Se la condotta è intenzionale -e la conclusione sul punto è del tutto logicamente argomentata -è ovvio che sussiste l’elemento soggettivo e che nessun rilievo può riconoscersi alla cecità dell’imputato.4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, tenuto conto della sentenza Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p.,oltre all’onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 3.000,00. P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Dispone, a norma delD.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52che -a tutela dei diritti o della dignità degli interessati -sia apposta a cura della cancelleria, sull’originale della sentenza, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati riportati sulla sentenza. Motivazione semplificata.
Così deciso in Roma, il 26 gennaio 2021.
Depositato in Cancelleria il 9 febbraio 2021

Scelta della scuola pubblica e privata: come opera il giudizio.

Tribunale di Verona, 16 febbraio 2021
TRIBUNALE ORDINARIO di VERONA sezione I civile
Nella causa civile iscritta al N. 4846/2019 R.G.,il giudice dott. Marco Nappi Quintiliano, a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 28/01/2021,ha pronunciato la seguente ORDINANZA
Letti gli atti;rilevato che parte resistente, con istanza in corso di causa, ha chiesto l’autorizzazione a poter iscrivere il figlio minore, per il prossimo anno didattico, presso l’istituto scolastico “Seghetti” di Verona, motivando la scelta sulla base dell’esigenza di dover bilanciare i suoi orari di lavoro con le esigenze di cura del figlio e dell’impossibilità, allo stato, di poter contare sull’aiuto dell’altro genitore, residente a circa 200 km di distanza dal luogo del suo domicilio;rilevato che il resistente si è opposto all’accoglimento della suddetta istanza, dichiarando di preferire un istituto scolastico pubblico, anche in considerazione dei maggiori costi che comporta l’iscrizione in un istituto privato;rilevato che, allo stato, il figlio minore delle parti è affidato in via esclusiva alla madre, in virtù dei provvedimenti adottati all’esito dell’udienza presidenziale, confermativi di quanto già previsto nel precedente giudizio di separazione; tale regime è stato chiesto da entrambi i genitori, nell’ambito del suddetto giudizio, principalmente per far fronte alla distanza tra le loro residenze (cfr. quanto dichiarato nel relativo verbale d’udienza);rilevato altresì che, allo stato, la gestione del suddetto minore grava pressoché integralmente sulla resistente; in merito, va richiamato quanto riferito, nella relazione in atti, dai responsabili dei Servizi sociali incaricati da questo Tribunale, con riguardo sia al comportamento della madre, incline a non facilitare la relazione tra il figlio e il padre, sia all’atteggiamento assunto da quest’ultimo, descritto come poco propenso ad attivarsi per mantenere una regolarità nell’esercizio del diritto-dovere di visita in questione (cfr. relazione del 13.10.2020);rilevato quindi che la ricorrente ha esaustivamente spiegato le ragioni della sua preferenza per l’istituto scolastico di cui sopra,evidenziando la possibilità, offerta da detto istituto, di poter far svolgere al figlio attività ricreative nell’ambito del medesimo contesto scolastico, con conseguente più agevole gestione da parte della ricorrente medesima di eventuali impegni di lavoro concomitanti;rilevato ancora che, a fronte di dette e motivate esigenze (la resistente ha documentato l’attuale possesso di un lavoro con un orario settimanale di 40 ore), controparte ha frapposto un diniego che, pur essendo basato su ragioni oggettive astrattamente condivisibili (la predilezione dell’offerta formativa pubblica), è stato di fatto espresso senza intercettare in alcun modo le esigenze manifestate dalla madre e sopra evidenziate; al riguardo, il Cornelio non ha formulato alcun giudizio negativo e in relazione allo specifico progetto formativo della scuola scelta dalla resistente e in merito all’insieme dei valori ordinamentali fatti propri da un istituto privato qual è quello qui in discussione; lo stesso, ancora, non ha neppure allegato, in chiave comparativa, una specifica “superiorità didattica” o valoriale dell’istituto pubblico pur menzionato nel carteggio intercorso con la controparte (cfr. messaggi di testo di cui ai docc. 13 e ss. di parte resistente); rilevato che anche il motivo economico posto dal ricorrente a sostegno del suo diniego non può rappresentare un elemento dirimente, considerando anche la volontà espressa dalla Gaia di farsi carico dei 2/3 dei relativi importi annui (cfr. conclusioni depositate in data 27.1.2021);ritenuto pertanto, in considerazione delle superiori valutazioni, di dover autorizzare l’iscrizione del minore Tulliolo, per il prossimo anno scolastico, alla scuola primaria “Istituto Seghetti” di Verona, così come chiesto dalla madre;ritenuto inoltre che ogni ulteriore provvedimento ex art. 709 ter c.p.c. richiesto dalla resistente debba essere vagliato all’esito degli interventi demandati ai Servizi sociali, al fine di appurare le modalità di esercizio della responsabilità genitoriale oggetto del monitoraggio affidato a questi ultimi;
P.Q.M.
Autorizza la resistente Gaia a effettuare l’iscrizione del figlio minore Tulliolo, per il prossimo anno scolastico, alla scuola primaria “Istituto Seghetti” di Verona;rinvia, per la disamina delle istanze istruttorie e il prosieguo del procedimento, all’udienza del 21.7.2021

Provvedimenti limitativi o ablativi spettano al giudice del conflitto familiare.

Cassazione 11 febbraio 2021 n. 3490
Regolamento (facoltativo) di competenza.
La questione riguarda l’operatività del criterio di prevenzione, ovvero la vis attrattiva di cui alla novellata ripartizione di competenze TO-TM in caso di procedimento per provvedimenti ablativi della responsabilità genitoriale,instaurato successivamente a procedimento di separazione. Il TM aveva ritenuto sussistente la propria competenza poiché il giudizio era stato instaurato su domanda ex art. 330 c.c. formulata dal PMM. Per i procedimenti ex artt. 330 e 333 c.c., la competenza è attribuita in via generale al tribunale dei minorenni, salvo quando sia pendente un giudizio di separazione, di divorzio o ex art. 316 c.c., anche in grado di appello, in questo caso spettano sempre al giudice del conflitto familiare. Rif. Leg.: Art. 43 cpc – art. 38 disp. att. c.c. – L.219/2012 – artt. 330-333 ccCorte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 15 dicembre 2020 – 11 febbraio2021, n. 3490 Presidente Scaldaferri – Relatore Iofrida
Fatti di causa Con ricorso del 12/3/2019, il Pubblico Ministero presso il Tribunale per i minorennidi Trento, ha chiesto disporsi la sospensione della responsabilità genitoriale di D.A. sui figli minori E. e M. , nati dall’unione coniugale con P.E. , per condotte 1
vessatorie poste in essere dal marito, dando atto che era in corso tra i coniugi un procedimento per separazione. Il Tribunale per i minorenni, con decreto inaudita altera parte del 26/3/2019-2/4/2019, nell’ambito del procedimento apertosi di volontaria giurisdizione n. r.g. 66/2019, ha disposto la chiesta sospensione, affidando i minori al Servizio sociale Territoriale.Nel frattempo, nell’ambito del procedimento n. r.g. 3079/2017, pendente davanti al Tribunale ordinario di Trento (avente ad oggetto la separazione giudiziale tra i coniugi, con i provvedimenti conseguenziali, instaurato su ricorso per separazionecon addebito presentato il 21/8/2017 dal D. ), il Presidente delegato, con decreto ex art. 708 c.p.c., comma 3, in data 6/5/2019, all’esito di indagine peritale, autorizzati i coniugi a vivere separati, disponeva, atteso l’accesa conflittualità in essere tra i genitori, l’affidamento dei minori ai Servizi Sociali, disciplinando le modalità di frequentazione da parte del padre e della madre.Successivamente, in sede di volontaria giurisdizione dinanzi all’Ufficio minorile, con decreto definitivo del 14/5/2019, il Tribunale per i minorenni ha pronunciato la decadenza del D. della responsabilità genitoriale e revocata ogni precedente statuizione incompatibile con il decreto del T.O. di Trento.La Corte d’appello di Trento Sezione Minorenni, adita con reclamo del D. , con decreto n. 30/2020 depositato il 30/4/2020, ha confermato la decisione di primo grado del Tribunale per i minorenni, ribadendo, per quanto qui interessa, in puntodi rito, che sussiste la competenza del giudice minorile specializzato, pur nella previa instaurazione di un giudizio di separazione tra i coniugi dinanzi al Tribunaleordinario, trattandosi di procedimento per l’adozione di provvedimenti ablativi, esclusi dalla vis actractiva prevista dall’art. 38 disp. att. c.c., come novellato dallaL. n. 219 del 2012.Avverso la suddetta pronuncia, comunicata dalla cancelleria il 30/4/2020, D.A. propone regolamento facoltativo di competenza, notificato tra il 9 ed il 18/6/2020, nei confronti di P.E. , D.E. e D.M. , in persona della Curatrice speciale,Avv. B.E. , Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Trento (che non svolgono difese). Il P.G. ha depositato parere.Il 15/12/2020, giorno fissato per l’adunanza camerale, è pervenuta in Cancelleria una memoria del ricorrente.Ragioni della decisione1. Il ricorrente, premessa l’ammissibilità del regolamento facoltativo di competenza ex art. 43 c.p.c., trattandosi di provvedimento ablativo della responsabilità genitoriale e quindi avente attitudine di giudicato rebus sic stantibus, lamenta che sia stato violato, in punto di competenza, l’unico criterio diriparto tra giudice ordinario e giudice minorile, individuato dall’art. 38 disp. att. c.c., quello della prevenzione e quindi, nella specie, chiede dichiararsi la competenza del Tribunale ordinario di Trento, previo annullamento del decreto impugnato.2. Il P.G. presso questa Corte ha chiesto il rigetto del regolamento di competenza,2
ritenendo che, nella specie, a prescindere dalla ratio seguita dalla Corte d’appello,il giudice preventivamente adito debba essere individuato nel Tribunale per i minorenni e non nel Tribunale ordinario, come emergerebbe dal riferimento, nel ricorso del Pubblico ministero presso il Tribunale per i minorenni del 12/3/2019, ad “atti TM r.g. 103/2017” e da un inciso a pag. 2 del decreto del Tribunale per i minorenni del 14/5/2019.3. Preliminarmente, va rilevato che il proposto regolamento facoltativo di competenza (notificato, a mezzo servizio postale, tra il 9 ed il 18/6/2020) è ammissibile, in quanto, a fronte del decreto della Corte d’appello di Trento Sezione minorile civile, del 30/04/2020, comunicato in pari data, che ha respinto il reclamo avverso decreto del Tribunale per i minorenni, che aveva deciso sia sulla competenza sia sul merito (con pronuncia di decadenza del D. dalla responsabilità genitoriale sui figli minori), il ricorrente ha scelto di promuovere un regolamento di competenza ex art. 43 c.p.c., dolendosi della sola pronuncia sulla competenza, nel termine di legge di trenta giorni, tenuto conto della sospensione dei termini processuali, disposta dal D.L. n. 18 del 2020, art. 83, comma 2, e dal D.L. n. 23 del 2020, art. 36, dal 9 marzo 2020 all’11 maggio 2020, legislazione urgente, imposta dall’emergenza epidemiologica da “covid-19”.4. Tanto premesso, il parere del Procuratore Generale non può essere condiviso.Invero, come si evince dagli atti, il ricorso del PM minorile, che ha dato luogo all’apertura del procedimento di volontaria giurisdizione n. 66/2019, reca l’indicazione del fascicolo “n. 103/2017 Aff.Civ. PM”. Trattasi quindi di richiamo non ad un procedimento già aperto, nel contraddittorio delle parti, ma agli atti delfascicolo del PM.Quanto al decreto del Tribunale per i minorenni, a pag. 2, non vi è affermazione della previa instaurazione del procedimento minorile, ma, anzi, del principio contrario dell’unicità della giurisdizione in favore del Tribunale ordinario, quanto però ai soli provvedimenti concernenti i figli, attratti dalla regolazione degli aspettirelativi alla separazione coniugale, “anche se precedentemente adito” il Tribunale per i minorenni. Detto Tribunale ha poi affermato che, tuttavia, vertendosi, nella specie, su domanda formulata ex art. 330 c.c., dal PMM (nel 2019), permaneva lacompetenza del Tribunale per i minorenni.In sostanza, la pendenza di un giudizio di separazione giudiziale tra i coniugi, previamente instaurato dinanzi al Tribunale ordinario, non è mai stata posta in discussione nè dal Tribunale per i minorenni nè dalla Corte d’appello Sezione minorile di Trento.5. Tanto premesso il regolamento proposto è fondato.5.1. L’art. 38 disp. att. c.c., comma 1, come novellato dalla L. n. 219 del 2012, art. 3, così recita: “Sono di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli artt. 84, 90, 330, 332, 333, 334, 335 c.c. e art. 371 c.c., u.c.. Per i procedimenti di cui all’art. 333, resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’art. 316 c.c.; in tale 3
ipotesi, per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenticontemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario”.Va rammentato che l’art. 330 c.c., disciplina le ipotesi in cui può essere pronunciata la decadenza dalla responsabilità genitoriale, quando il genitore viola o trascura i propri doveri o abusa dei relativi poteri, con grave pregiudizio del figlio, mentre l’art. 333 c.c., concerne i provvedimenti limitativi adottabili in presenza di una condotta del genitore pregiudizievole per il figlio ma non tale da dar luogo al provvedimento ablativo di cui all’artt. 330 c.c.. I provvedimenti giudiziali idonei ad incidere sulla responsabilità genitoriale sono quindi essenzialmente di due tipi, limitativi, che incidono solo sull’esercizio della situazione giuridica soggettiva, ed ablativi, che ineriscono alla stessa titolarità della posizione soggettiva.5.2. Orbene, questo giudice di legittimità, con ordinanza n. 1349/2015, ha già chiarito che ” l’art. 38 disp. att. c.c., comma 1, (come modificato dalla L. 10 dicembre 2012, n. 219, art. 3, comma 1, applicabile ai giudizi instaurati a decorrere dall’1 gennaio 2013), si interpreta nel senso che, per i procedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.c., la competenza è attribuita in via generale al tribunaledei minorenni, ma, quando sia pendente un giudizio di separazione, di divorzio o ex art. 316 c.c., e fino alla sua definitiva conclusione, in deroga a questa attribuzione, le azioni dirette ad ottenere provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale, proposte successivamente e richieste con unico atto introduttivo dalle parti (così determinandosi un’ipotesi di connessione oggettiva e soggettiva), spettano al giudice del conflitto familiare, individuabile nel tribunale ordinario, se sia ancora in corso il giudizio di primo grado, ovvero nella corte d’appello in composizione ordinaria, se penda il termine per l’impugnazione o sia stato interposto appello” (conf. Cass. 432/2016; Cass.17931/2016, in fattispecie in cui il Tribunale per i minorenni era stato successivamente adito, rispetto al Tribunale ordinario, per la pronuncia della decadenza dalla responsabilità genitoriale; Cass. 10365/2016, ove si è evidenziata l’irrilevanza del diverso ruolo svolto dal P.M. nei due procedimenti, ricorrente in quello minorile ed interventore obbligatorio nell’altro, atteso che “una diversa opzione ermeneutica, facente leva sul solo tenore letterale della citata disposizione, ne tradirebbe la “ratio” di attuare, nei limiti previsti, la concentrazione delle tutele onde evitare, a garanzia del preminente interesse del minore, il rischio di decisioni contrastanti ed incompatibili, tutte temporalmente efficaci ed eseguibili, resi da due organi giudiziali diversi”; Cass. 17190/2017).Nell’ordinanza n. 1349/15 con particolare riferimento alla competenza del tribunale ordinario del conflitto famigliare, ove preventivamente adito, anche per le azioni relative alla decadenza della responsabilità genitoriale, si è evidenziato come non possa escludersi in detto giudizio la partecipazione del pubblico ministero come organo d’impulso del procedimento anche quando tale te impulso provenga dall’ufficio del p.m. presso il Tribunale per i minorenni, potendo “gli 4
uffici del p.m. porre in atto meccanismi di raccordo e trasmissione degli atti del tutto legittimi”.Nella pronuncia si è poi evidenziato come, anche prima della Novella del 2012, successivamente alla L. n. 54 del 2006, introduttiva della regola sull’affidamento condiviso, si era giustificata (Cass. 20354/2011) l’adozione da parte del giudice del conflitto famigliare anche di provvedimenti incidenti sulla potestà genitoriale, in un’ottica di concentrazione delle tutele dinanzi allo stesso giudice per questioni attinenti ai rapporti tra i genitori ed i minori, principio questo ispiratore della L. n. 219 del 2012, e che quindi dell’art. 38 citato, debba essere data una lettura interpretativa nel suo complesso, senza procedere ad una suddivisione atomistica di ciascuna parte o locuzione.Quindi, a seguito della novella di cui alla L. n. 219 del 2012, art. 3, con la modifica dell’art. 38 disp. att. c.c., la competenza del Tribunale per i minorenni, sebbene continui anche a comprendere la materia dei c.d. provvedimenti de potestate, viene ridimensionata, laddove risulti già pendente un giudizio di separazione o di divorzio o ai sensi dell’art. 316 c.c. (responsabilità genitoriale), essendo prevista una proroga della competenza del giudice ordinario sia per i provvedimenti di cui all’art. 333 c.c., sia anche per altri provvedimenti di competenza dell’ufficio minorile, tra cui quelli di cui all’art. 330 c.c..5.3. Con riferimento al diverso caso in cui il procedimento minorile per i provvedimenti limitativi od ablativi della responsabilità genitoriale sia stato proposto prima di quello di separazione, divorzio o ex art. 316 c.c., questa Corte ha poi affermato il principio, complementare a quello sopra enunciato, secondo cui “ai sensi dell’art. 38 disp. att. c.c., come novellato dalla L. 10 dicembre 2012, n. 219, art. 3, il tribunale per i minorenni resta competente a conoscere della domanda diretta ad ottenere la declaratoria di decadenza o la limitazione della potestà dei genitori ancorché, nel corso del giudizio, sia stata proposta, innanzi al tribunale ordinario, domanda di separazione personale dei coniugi o di divorzio, trattandosi di interpretazione aderente al dato letterale della norma, rispettosa del principio della “perpetuatio jurisdictionis” di cui all’art. 5 c.p.c., nonché coerente con ragioni di economia processuale e di tutela dell’interesse superiore del minore, che trovano fondamento nell’art. 111 Cost., nell’art. 8 CEDU e nell’art. 24 Carta di Nizza” (Cass. 2833/2015; conf. Cass. 20202/2018; conf. anche, in motivazione, Cass. 5117/2020, in cui si è affermata la competenza del Tribunale per i minorenni, preventivamente adito per l’adozione anche del provvedimento di decadenza, essendo contemplata la speciale vis actractiva solo per il caso in cui il primo giudizio sia stato introdotto presso il giudice ordinario; Cass. 5306/2020, in fattispecie nella quale il Tribunale per i minorenni era stato previamente adito dal PM ex art. 330 c.c.).Nell’ordinanza di questa Corte n. 8166/2020, richiamata nella decisione della Corte d’appello qui impugnata, si è, in adesione a tale orientamento, affermata la competenza del Tribunale ordinario, preventivamente adito su questioni correlate all’affidamento di figlio minore nato dall’unione more uxorio dei genitori, rispetto 5
al Tribunale per i minorenni, adito successivamente per l’adozione di provvedimenti ablativi, risolvendosi la fattispecie in base al descritto criterio della prevenzione.5.4. Un unico precedente effettivamente contrario di questa Corte è, invece, quello espresso, in motivazione, nell’ordinanza n. 15971/2015, nel quale si è affermato che “instaurato da parte del P.M. un giudizio ex art. 333 c.c., davanti altribunale per i minorenni, nel corso del quale sia stata accertata l’insussistenza di comportamenti pregiudizievoli da parte dei genitori nei confronti del proprio figlio minore, il successivo procedimento ex art. 317 bis c.c. (oggi art. 337 ter), introdotto da uno dei genitori e relativo all’affidamento del figlio medesimo, è devoluto alla competenza generale del tribunale ordinario del luogo di residenza abituale del minore, non potendo subire la “vis actractiva” del tribunale per i minorenni, che ha competenze tassativamente individuate dalla legge”.In motivazione, si è precisato, sulla base della distinzione operata dall’art. 38 citato, con riguardo al procedimento ex art. 330 c.c., (nel quale si parla, al fine di radicare la competenza in capo al giudice ordinario, ove preventivamente adito, per detto procedimento ex art. 330 c.c., indicato nel primo periodo, di “provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo”, in quanto occorre distinguere tra la pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale e i conseguenti provvedimenti di affidamento, collocamento del minore, eventuale visite del genitore, contributo al mantenimento, ecc., distinzione che non sussiste invece nell’ambito del procedimento ex art. 333 c.c.),che “se la diversa collocazione introdotta dall’articolo in esame riveste un qualche significato, ciò comporta necessariamente che la pronuncia sulla decadenza rimanga di spettanza del Tribunale minorile e l’attrazione” attenga invece ai provvedimenti conseguenti”.Tale inciso è stato effettivamente poi richiamato da questa Corte nell’ordinanza n.1866/2019, che tuttavia ha risolto, come sopra esposto, in base al criterio generale della prevenzione, sopra richiamato, un conflitto tra Tribunale ordinario previamente adito e Tribunale per i minorenni, promosso dal PM per l’adozione dei provvedimenti ex art. 333-336 c.c..5.5. Ritiene questa Corte di dovere dare continuità al principio di diritto già espresso con l’ordinanza n. 1349/2015 (condiviso da questo giudice di legittimità nei numerosi precedenti sopra indicati), secondo cui, se è in corso, come nella specie, un giudizio di separazione (o divorzio o ex art. 316 c.c.), al momento dellaproposizione della domanda diretta all’adozione di un provvedimento de potestate(ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c.), si verifica l’effetto attrattivo della competenzain favore del giudice davanti al quale è in corso siffatto giudizio, il tutto nell’ottica,voluta dal legislatore del 2012, di concentrazione delle tutele in capo ad uno stesso giudice per le questioni attinenti al rapporto genitori-figli minori, così garantendosi l’armonia tra le decisioni e scongiurando il rischio di una loro frammentazione fonte di possibili contrasti.Invero, una diversa lettura (quale quella secondo cui la pronuncia sulla decadenza6
rimanga di spettanza del Tribunale minorile, successivamente adito, e l’attrazioneavvenga solo per i provvedimenti conseguenti, di affidamento collocamento del minore, visite del genitore, contributo al mantenimento) comporta quei rischi di frammentazione/duplicazione delle tutele che il legislatore del 2012 ha inteso scongiurare con la nuova formulazione dell’art. 38 disp. att. c.c..Va quindi dichiarata la competenza del Tribunale Ordinario di Trento.6. Per tutto quanto sopra esposto, in accoglimento del ricorso ex art. 43 c.p.c., vadichiarata la competenza del Tribunale ordinario di Trento anche in ordine agli eventuali provvedimenti ablativi sulla responsabilità genitoriale, dinanzi al quale vanno rimesse le parti. Le spese processali del presente giudizio saranno liquidatein detta sede.P.Q.M.La Corte accoglie il ricorso e dichiara la competenza anche in ordine agli eventualiprovvedimenti ablativi sulla responsabilità genitoriale del Tribunale ordinario di Trento, dinanzi al quale rimette le parti, anche in ordine alle spese processuali delpresente giudizio.Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.Dà atto che non sussistono i presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, perché il processo risulta esente.

Programma le nozze, ma il datore di lavoro la licenzia…..

Cass. Civ., Sez. VI – Lav., Ord., 09 febbraio 2021, n. 3181
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONE SESTA CIVILESOTTOSEZIONE I
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:Dott. LEONE Margherita Maria -Presidente -Dott. ESPOSITO Lucia -rel. Consigliere -Dott. PONTERIO Carla -Consigliere -Dott. MARCHESE Gabriella -Consigliere -Dott. DE FELICE Alfonsina -Consigliere -ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 26742-2019 proposto da:F.., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL CONSOLATO 6, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO SERRA, rappresentata e difesa dall’avvocato LUCA LANDUZZI;-ricorrente –
contro
C.M., elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE DEI MELLINI 44, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO ZAMPONE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUIGI ANDREA COSATTINI;-controricorrente –
avverso il provvedimento n. 640/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 09/07/2019;udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 21/10/2020 dal Consigliere Relatore Dott. ESPOSITO LUCIA. Svolgimento del processo CHE:con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Bologna confermava la decisione del giudice di primo grado che aveva accolto la domanda proposta da C.M., dipendente della F.., volta a ottenere la declaratoria di illegittimità del recesso intimatole, in ragione della sua natura discriminatoria;rilevava la Corte territoriale che doveva ritenersi presunta la conoscenza da parte del datore di lavoro delle nozze programmate dalla dipendente, risultando edotti della circostanza i colleghi di lavoro, nell’ambito di una ristretta dimensione occupazionale e alla presenza costante del socio accomandatario nella farmacia;
per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso F.. s.a.s. sulla base di tre motivi;la lavoratrice ha resistito con controricorso;la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c.,è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata.
Motivi della decisione CHE:con il primo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 108 del 1990, art. 3,dell’art. 2119 c.c., della L. n. 300 del 1970, art. 18, in relazione all’art. 360 c.p.c.,comma 1, n. 3, per avere la Corte d’appello valutato il carattere discriminatorio del licenziamento e applicato la tutela reale in luogo di quella obbligatoria, osservando che non avendo la C. riferito all’accomandatario la sua intenzione di sposarsi non era ravvisabile la rilevata discriminazione;con il secondo motivo si deduce l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c.,n. 5: si osserva che sarebbe ravvisabile la mancanza assoluta dei motivi sotto l’aspetto materiale e grafico in ragione di un salto nel ragionamento a pg. 7, rigo 10, non essendovi alcuna connessione con il periodo precedente interrotto;con il terzo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c.in relazione all’art. 360 c.p.c.,comma 1, n. 3, per avere la Corte d’appello presunto la conoscenza da parte del Dott. D. delle nozze della dipendente, con conseguente inammissibilità della praesumptio de presumpto su cui era basata la discriminatorietà del recesso, osservando che la conoscenza era stata presunta a contrario con ragionamento assiomatico di doppia negazione, oltrepassando i limiti di cui all’art. 2729 c.c.,;il primo motivo è inammissibile, perchè investe la valutazione istruttoria in forza della quale la Corte di merito ha desunto la conoscenza in capo al datore di lavoro delle nozze programmate dalla dipendente, con ciò prospettando, sub specie di violazionedi legge, una rivalutazione dei fatti (Cass. n. 8758 del 04/04/2017, Cass. SU 34476 del 27/12/2019);il secondo motivo è allo stesso modo inammissibile per quanto attiene alla censura dedotta ai sensi dell’art. 360 c.p.c.,n. 5, versandosi in un’ipotesi di doppia conforme in fatto (cfr. Cass. n. 26774 del 22/12/2016), mentre, per ciò che riguarda la violazione di legge, pure dedotta, non si ravvisano gli estremi diuna motivazione mancante o meramente apparente, poichè l’iter motivazionale esiste ed è ben comprensibile, non evidenziandosi profili di manifesta illogicità e contraddittorietà (Cass. n. 23940 del 12/10/2017);in ordine al terzo motivo, va rilevato che non è ravvisabile una presumptio de presunto (che pretende di valorizzare come fatto noto una presunzione, per derivarne altra presunzione), poichè il ragionamento poggia su una sola presunzione, fondata su molteplici elementi di fatto (la circostanza delleprogrammate nozze era definita dai testi come notoria nell’ambito di un ristretto ambiente lavorativo e il Dott. D. era costantemente presente in farmacia), mentre, per altro verso, va richiamata la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale la prova per presunzione semplice può anche costituire l’unica fonte del convincimento del giudice, poichè integra apprezzamento in fatto, insindacabile purchè sostenuto, come nel caso in esame, da congrua motivazione (Cass. 5484 del 26/2/2019);in base alle svolte argomentazioni il ricorso va rigettato, con liquidazione delle spese secondo soccombenza.
P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15 % e accessori di legge. Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 21 ottobre 2020. Depositato in Cancelleria il 9 febbraio 2021

Procedimento applicabile alla domanda di pagamento delle competenze dell’avvocato.

Tribunale Rovigo, 19 gennaio 2021
REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il TRIBUNALE di ROVIGO
riunita in camera di consiglio nelle persone dei magistrati dott. Paola Di Francesco- presidente rel.- dott. Federica Abiuso – consigliere – dott. Nicola Del Vecchio- consigliere – ha pronunciato la seguente SENTENZA
nella causa n. 1243/2018 R.G. promossa da LUIGINO (C.F. rappresentato e difeso dall’avv. Tonino Giordan ed elettivamente domiciliato presso lo studio dello stesso, sito in Monselice (PD), Via Cesare Battisti, n. 5, giusta procura in calce alla comparsa di risposta del primo grado del giudizio;-appellante
contro
GIULIO (C.F. rappresentato e difeso dall’avv. giusta procura in calce alla comparsa di risposta del grado d’appello;-appellato
Oggetto: appello avverso la sentenza n. 203/18 emessa dal Giudice di Pace di Rovigo.
CONCLUSIONI Parte appellante“ Voglia il Tribunale adito, in riforma della sentenza di primo grado appellata, in via preliminare dichiarare la nullità della sentenza di primo grado ex artt. 50 bis, 50 quater, 161, c.p.c., e 14, D.L.vo 150/2011;nel merito-accertare e dichiarare che l’avv. Giulio non vanta alcun credito nei confronti dell’esponente a titolo di competenze professionali;
2 -condannare parte convenuta alla rifusione delle spese e competenze del doppio grado di giudizio, oltre a Iva e cpa come per legge con la distrazione in favore del sottoscritto difensore antistatario ai sensi dell’art. 93 c.p.c.”Parte appellata“Rigettare in toto l’appello proposto dal Signor Luigino avverso la sentenza n.203/2018 del G.d.P. di Rovigo, datata 15.03.2018 e depositata il 20.03.2018; con conseguente conferma dell’esecutività della sentenza appellata;Condannare il Signor Luigino al pagamento in favore dell’Avv. Giulio della somma di €.2.047,00, già comprensiva di oneri fiscali, oltre alla rifusione delle spese e competenze di giudizio, oltre al rimborso forfettario del 15%, iva e c.n.p.a. come per legge, con distrazione in favore dello scrivente difensore antistatario ai sensi dell’art.93 c.p.c.
”Ragioni della decisione In fatto
–Con atto di citazione notificato in data 9 aprile 2016 Giulio convenne Luigino innanzi al Giudice di pace di Rovigo, al fine di sentirlo condannare al pagamento della somma di euro 2.506,00, poi ridotta ad euro 2.047,00, quale corrispettivo del contratto d’opera professionale sottoscritto tra le parti. A fondamento delle proprie pretese l’avv. asserì che lo si fosse a lui rivolto manifestando l’intenzione di volere agire giudizialmente nei confronti di tale Eugenio, per ottenerne la condanna al risarcimento del danno patito dallo a seguito di un’accusa calunniosa, definitivamente accertata tale dalla Corte d’Appello di Venezia. Precisava l’avv. che, al fine di vagliare la migliore strategia processuale, aveva incontrato più volte lo il quale solo dopo la redazione della bozza dell’atto di citazione gli aveva comunicato la propria intenzione di non promuovere la causa risarcitoria. Pertanto, conformemente alle tariffe concordate, pari ad euro 1.500,00 per la fase di studio ed euro 1.800,00 per quella introduttiva, oltre ad IVA, CPA e al rimborso forfettario del 12% delle spese vive, detratto l’importo di euro 1.500,00 già corrisposto a titolo di acconto dallo l’avv. quantificò le proprie pretese nella somma di euro 930,92, oltre oneri, avendo svolto soltanto parzialmente le prestazioni relative alla fase introduttiva, chiedendo la corresponsione dell’importo complessivo di euro 2.506,00, poi ridotto alla minor somma di euro 2.047,00, per un errore di calcolo. Con comparsa di risposta del 20 giugno 2016 si costituì in giudizio lo chiedendo il rigetto delle avversarie pretese, in quanto sfornite del benché minimo fondamento probatorio, avendo omesso l’avv. financo di produrre l’atto di citazione da lui asseritamente redatto,
3 nonché la procura alle liti sottoscritta dallo indispensabile per ritenere che si fosse svolta anche la fase introduttiva del promuovendo giudizio. All’udienza del 13 novembre 2017 il Giudice di pace trattenne la causa in decisione, assegnando alle parti termine per il deposito delle note conclusive, e con sentenza depositata in data 20 marzo 2018 rigettò, in quanto tardiva,l’eccezione sollevata dallo nella memoria istruttoria, avente ad oggetto l’errata instaurazione del giudizio innanzi all’Ufficio del giudice di pace, anziché innanzi al tribunale in composizione collegiale, e accolse la domanda attorea, condannando lo al pagamento della somma di euro 2.047,00, oltre agli interessi legali dalla domanda al saldo, condannando il convenuto alla rifusione delle spese di lite e al risarcimento del danno ex art. 96, comma 3, c.p.c., quantificato nella somma di euro 2.300,00, oltre IVA, CPA e rimborso del forfettario. Con atto di citazione notificato in data 11 maggio 2018 lo ha proposto tempestivo appello avverso la predetta sentenza, chiedendone altresì la sospensione dell’efficacia esecutiva, concessa con ordinanza del 1° giugno 2018. Con comparsa dell’11 settembre 2018 si è costituito in giudizio l’avv. instando per l’integrale rigetto del gravame. Con ordinanza del 3 maggio 2019 la causa è stata rimessa in istruttoria, poiché ritenuta di competenza del collegio, in conformità alle previsioni di cui al disposto dell’art. 14, D.Lgs. 150/11. All’udienza del 9 ottobre 2020 la causa è stata trattenuta in decisione, previa concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. In diritto–Il primo motivo di gravame si incentra sulla nullità della sentenza impugnata, in quanto pronunciata dal giudice monocratico, in violazione del disposto di cui all’art. 14, D.Lgs. 150/11, che devolve al tribunale in composizione collegiale la competenza a decidere sulle controversie aventi ad oggetto la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti nei confronti del cliente. Il secondo motivo di doglianza ha ad oggetto l’illegittimità della sentenza impugnata, in quanto la motivazione ricalcherebbe pedissequamente le note conclusive depositate dall’avv. Con il terzo motivo d’appello lo censura la decisione impugnata, laddove il primo giudice ha ritenuto che l’avv. avesse offerto piena prova della propria pretesa creditoria. Il primo motivo di gravame merita accoglimento. Occorre premettere che, come correttamente rilevato dall’odierno appellante, in ragione del disposto di cui all’art. 14, D.Lgs. 150/11, allorquando la controversia abbia ad oggetto la liquidazione delle spettanze dell’attività professionale svolta in un giudizio civile, o per
4 l’espletamento di prestazioni professionali che si pongano in stretto rapporto di dipendenza con il mandato relativo alla rappresentanza giudiziale, questa deve necessariamente essere introdotta con un ricorso ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c., che dà luogo ad un procedimento sommario “speciale” disciplinato dagli artt. 3, 4 e 14 del menzionato D.Lgs., oppure ai sensi degli artt. 633 segg. c.p.c., rimanendo invece esclusa la possibilità di introdurre l’azione sia con il rito ordinario di cognizione, sia con quello del procedimento sommario ordinario codicistico disciplinato esclusivamente dagli art. 702-bis ss. c.p.c. (v. Cass. civ., S.U., 23-02-2018, n. 4485). Si consideri, inoltre, che la controversia avente ad oggetto la domanda di condanna del cliente al pagamento delle spettanze giudiziali dell’avvocato, resta soggetta al rito di cui all’art. 14, D.Lgs. 150/11, anche quando il cliente sollevi contestazioni relative all’esistenza del rapporto o, in genere, all'”an debeatur”(v., ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 30-11-2020, n. 27308). Sulla scorta di tali principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, non può revocarsi in dubbio che la presente controversia avrebbe dovuto essere introdotta dall’avv. facendo ricorso al rito sommario “speciale”, o al procedimento per decreto ingiuntivo, innanzi al tribunale in composizione collegiale, così come previsto dal disposto di cui all’art. 14, comma 2, D.Lgs. 150/11. Poste tali premesse, nel caso che ci occupa il giudice di prime cure è incorso in una violazione del combinato disposto di cui agli artt. 50 bis e quater c.p.c., il che determina la nullità della decisione impugnata, con conseguente conversione di tale nullità in motivo di impugnazione(v., ex plurimis, Cass. civ., sez. VI, 3-10-2019, n. 24754). Non può infatti trovare accoglimento la tesi dell’appellato, il quale sostiene che alla presente controversia non si applicherebbe il disposto di cui all’art. 14, D.Lgs. 150/11, perché il compenso richiesto avrebbe ad oggetto l’assistenza legale stragiudiziale offerta allo se si considera che sin dal primo grado del giudizio l’avv. ha basato la propria pretesa creditoria sul mancato pagamento del corrispettivo dovuto per la redazione dell’atto di citazione, attività che indubbiamente rientra tra quelle prodromiche all’instaurazione di un giudizio. D’altronde, ilcontratto d’opera professionale versato in atti ha ad oggetto il conferimento di “un incarico di assistenza, rappresentanza e difesa nel procedimento giudiziale”, così come la nota spese inviata a suo tempo allo fa espresso riferimento“al valore delle controversia” e nel computo del compenso èriportata la dicitura “fase studio controversia” e “fase introduttiva del giudizio” (v. docc. nn. 2 e 4, fascicolo di primo grado di parte attrice).
5 Ne deriva che, rientrando la presente controversia nell’alveo applicativo del disposto di cui all’art. 14, D.Lgs. 150/11, va dichiarata la nullità della sentenza di primo grado, in quanto emessa dal giudice monocratico, anziché dal tribunale in composizione collegiale. Peraltro, a differenza di quanto ritenuto dal giudice di prime cure e ribadito dall’appellato nella comparsa di risposta, l’eccezione sollevata dallo nella memoria istruttoria non poteva in alcun modo ritenersi tardiva, posto che l’art. 14, D.lgs. n. 150/11 “configura una vera e propria “competenza funzionale” dell’ufficio giudiziario di merito adito per il processo nel quale l’avvocato ha prestato la propria opera”, la cui violazione è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado (v. Cass. civ., sez. VI, 11-01-2017, n. 548) La nullità della pronuncia impugnata non determina la rimessione degli atti al primo giudice ai sensi dell’art 354, comma 1, c.p.c., giacché l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale costituisce, per effetto del rinvio operato dall’art. 50 quater, c.p.c., all’art. 161, comma 1, c.p.c., un’autonoma causa di nullità della decisione, con conseguente convertibilità della medesima in motivo di impugnazione. Ne deriva che, ferma la validità degli atti e dell’attività processuale che hanno preceduto la pronuncia della sentenza nulla, la declaratoria di nullità non comporta la rimessione degli atti al primo giudice, ove quello dell’impugnazione sia anche giudice del merito, così che la controversia deve essere decisa da questo collegio (v. Cass. civ., sez. VI, 20-6-2018, n. 16186).Venendo alla disamina del merito della pretesa creditoria dedotta in giudizio dall’avv. si ritiene che non vi sia sufficiente riscontro probatorio della stessa, sulla scorta del corredo probatorio documentale prodotto in giudizio. Ricordato che“in tema di contratto d’opera intellettuale, il professionista che agisce per ottenere il soddisfacimento di crediti inerenti all’attività asseritamente prestata a favore del cliente ha l’onere di provare sia l’an del credito vantato, sia l’entità delle prestazioni eseguite al fine di consentire la determinazione quantitativa del suo compenso, cosicché la parcella predisposta dal medesimo è priva di rilevanza probatoria nell’ordinario giudizio di cognizione” (Cass. civ., sez. II, 21/02/2019, n. 5138), l’avv. avrebbe dovuto offrire la prova dell’attività prestata in favore dello non essendo sufficiente a tal riguardo il deposito del contratto d’opera professionale, né della parcella inviata al cliente, che, all’evidenza, nulla dimostrano in merito al fatto che l’avv. abbia effettivamente svolto, seppur soltanto parzialmente – come egli stesso ammette – anche la fase introduttiva del giudizio. Invero, dalla documentazione versata in atti emerge unicamente la prova che egli ha portato a compimento la fase di studio della controversia, posto che lo stesso riconosce che fu
6 l’appellato a metterlo in contatto con il medico legale dott. Norbiato, per una visita preliminare alla quantificazione dei danni patiti a fronte della denuncia calunniosa dell’A. (v. docc. nn. 3 e 5 fascicolo di parte attrice del primo grado del giudizio). Tale circostanza è avvalorata tanto dalla missiva inviata dalloall’avv. datata 14 ottobre 2015, nella quale il cliente fa riferimento a documentazione inoltrata al difensore e inerente alla propria posizione, quanto dal fatto che lo corrispose all’avv. la somma di euro 1.500,00, corrispondente proprio al compenso pattuito nel contratto d’opera con riferimento alla fase di studio. A tal riguardo, le doglianze dello relative ad un preteso riempimento postumo da parte dell’avv. del contratto d’opera professionale non possono trovare accoglimento, considerato che la denunzia dell’abusivo riempimento di un foglio firmato in bianco avrebbe richiesto la proposizione di querela di falso, poiché nella stessa prospettazione dell’appellante la compilazione sarebbe avvenuta absque pactis, ossia in assenza di uno specifico accordo sul contenuto del documento(v. , ex multis, Cass. civ., sez. III, 23-4-2020, n. 8105).Tanto premesso, non v’è alcuna prova della circostanza che l’avv. abbia svolto, anche solo parzialmente, la successiva attività introduttiva della causa, se solo si considera che non è stato prodotto né l’ atto di citazione che l’appellato sostiene di aver redatto nell’interesse del cliente, né la procura alle liti sottoscritta dallo così che la domanda di condanna può trovare accoglimento nella esigua misura di cui si dirà. Il contratto d’opera sottoscritto dalle parti prevedeva che alle somme da corrispondere per le diverse fasi del giudizio dovesse aggiungersi un importo pari al 12% a titolo di rimborso forfettario delle spese generali, oltre IVA e CPA. Per quanto attiene agli oneri fiscali e previdenziali, questi non sono dovuti, non avendo l’appellato provato di aver emesso regolare fattura, nonostante il pacifico versamento dell’importo di euro 1.500,00, mentre lo è tuttora debitore della somma di 180,00 euro, pari al 12% della somma versata, a titolo di rimborso forfettario delle spese generali, il cui pagamento fu espressamente previsto dalle parti. In ordine al regolamento delle spese di lite di entrambi i gradi del giudizio, alla luce del principio per cui “è senz’altro corretta l’individuazione di una situazione di parziale reciproca soccombenza delle parti nell’ipotesi in cui l’unica domanda di parte attrice risulti accolta solo parzialmente nel quantum” (Cass. civ. [ord.], sez. III, 20-04-2020, n. 7961), si ritiene di disporne la integrale compensazione ex art. 92, comma 2, c.p.c.
7 P.Q.M.
definitivamente decidendo nel procedimento di appello n. n. 1242/2018 R.G., promosso da Luigino nei confronti di Giulio avverso la sentenza n. 203/2018 del Giudice di pace del Tribunale di Rovigo,- dichiara la nullità della sentenza impugnata; – condanna Luigino al pagamento, in favore di Giulio della somma di euro 180,00, oltre agli interessi al saggio legale dalla domanda giudiziale al saldo;- dichiara integralmente compensate le spese di lite di entrambi i gradi del giudizio.
Rovigo, 19 gennaio 2021.
Il Presidente estensore Paola Di Francesco

Legittimazione ‘iure proprio’ del genitore per il mantenimento del figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente

Cassazione civile, sez. I, 31 Dicembre 2020, n. 29977. Pres. De Chiara. Est. Clotilde Parise.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 1634/2016 proposto da:
B.G., elettivamente domiciliato in Roma, *, presso lo studio dell’avvocato Z. G., rappresentato e difeso dall’avvocato Z. I., giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
V.M., elettivamente domiciliata in Roma, *, presso lo studio dell’avvocato R. M. R., rappresentata e difesa dall’avvocato R. M. G., giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositato il 19/11/2015;
nonchè sul ricorso 20675/2016 proposto da:
B.G., elettivamente domiciliato in Roma, *, presso lo studio dell’avvocato Z. G., rappresentato e difeso dall’avvocato Z. I., giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
V.M., elettivamente domiciliata in Roma, *, presso lo studio dell’avvocato R. M. R., rappresentata e difesa dall’avvocato R. M. G., giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 675/2016 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 27/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/09/2020 dal Cons. Dott. PARISE CLOTILDE;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca che ha concluso per il rigetto dei ricorsi, riportandosi alle conclusioni scritte nella requisitoria già depositata in atti;
udito, per il ricorrente, l’Avvocato Z. I. che si riporta e chiede l’accoglimento dei ricorsi;
udito, per la controricorrente, l’Avvocato R. M. G. che si riporta e chiede il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con ricorso ex art. 337 quinquies c.c., V.M. chiedeva al Tribunale di Lecce l’aumento, da Euro 200 a Euro 450, dell’assegno di mantenimento a carico del padre B.G. per il figlio maggiorenne L., studente iscritto all’Università di (*). Il Tribunale, con Decreto 28 gennaio 2015, rigettava la domanda rilevando che la coabitazione del figlio maggiorenne con la madre già affidataria era cessata e che il figlio, in ragione della frequenza dei corsi universitari a (*), faceva rientro presso l’abitazione materna solo in occasione delle festività natalizie e pasquali e durante le vacanze estive.
2. Il reclamo proposto dalla V. avverso il citato decreto è stato accolto dalla Corte d’appello di Lecce con Decreto n. 139 del 2015, pubblicato il 19-11-2015 e notificato 27-11-15. La Corte territoriale ha ritenuto sussistente la legittimazione iure proprio e concorrente della madre a chiedere l’aumento del contributo di mantenimento del figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente, il quale “fa sempre capo al genitore con cui coabita per reperire le risorse necessarie per soddisfare le sue esigenze, a cui non può provvedere autonomamente”. La Corte d’appello ha, pertanto, disatteso l’orientamento richiamato dal Tribunale, non attribuendo rilevanza, nel caso di specie, al criterio del tempo, prevalente o sporadico, trascorso dal figlio maggiorenne presso l’abitazione del genitore già collocatario, essendo giustificato da ragioni di studio l’allontanamento, per parte prevalente dell’anno, del figlio stesso dalla suddetta abitazione. La Corte territoriale ha, inoltre, accolto la richiesta di aumento del contributo di mantenimento a carico del padre, quantificato in Euro 450,00 mensili, importo ritenuto congruo in considerazione delle spese che notoriamente deve affrontare uno studente universitario fuori sede.
3. Avverso questo provvedimento B.G. propone ricorso per cassazione (R.G.N. 1634/2016), affidato a due motivi, di cui il primo articolato in cinque punti, nei confronti di V.M., che resiste con controricorso.
4. Avverso lo stesso Decreto n. 139 del 2015, B.G. ha proposto, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, ricorso per revocazione, che è stato dichiarato inammissibile dalla Corte d’appello di Lecce con sentenza n. 675/2016 pubblicata il 27-6-2016. La Corte territoriale ha ritenuto insussistente il denunciato errore di fatto, rilevando che con il decreto impugnato era stato valutato l’aspetto della maggiore o minore permanenza del figlio presso la casa materna, presso quella paterna e presso la sede universitaria e se ne era esclusa la rilevanza, attribuita, invece, alla circostanza che il figlio, nonostante la coabitazione sporadica con la madre, faceva capo alla stessa “per reperire le risorse necessarie per soddisfare le sue esigenze, a cui non può provvedere autonomamente”.
5. Avverso la citata sentenza n. 675/2016 della Corte d’appello di Lecce B.G. propone ricorso per cassazione (R.G.N. 20675/2016), affidato a sette motivi, nei confronti di V.M., che resiste con controricorso.
6. La prima causa, inizialmente assegnata alla Sesta Sezione di questa Corte, è stata rimessa alla pubblica udienza, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., u.c., per l’eventuale riunione dell’altra causa ai sensi dell’art. 335 c.p.c..
La Procura Generale ha depositato requisitoria e le parti hanno depositato memorie illustrative.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso di cui al n. 1634/2016 R.G. il ricorrente lamenta: (i) l’erronea valutazione da parte della Corte d’appello del fatto che il figlio ormai maggiorenne non coabita più con la madre e del fatto che a questa si sarebbe dovuto rivolgere per le proprie esigenze economiche, rimarcando che nei gradi di merito la stessa madre aveva riferito che il figlio abitava a (*) e nei periodi in cui rientrava a (*) si tratteneva anche presso la casa paterna, nonchè assumendo come pacifica la contribuzione del padre alle spese universitarie, specie quelle concordate con il figlio (pag. 4 ricorso), il quale, dunque, non faceva solo riferimento alla madre per tali spese; (ii) la violazione del disposto dell’art. 337 septies c.c., che prevede il versamento dell’assegno periodico di mantenimento per il figlio, maggiorenne ma non indipendente economicamente, direttamente a questi, e non la regola opposta indicata nel decreto impugnato, ossia la responsabilità economica esclusiva di un solo genitore, benchè collocatario, verso il figlio maggiorenne; (iii) la mancanza di motivazione specifica in ordine alle circostanze di fatto giustificative della decisione di disporre il versamento dell’assegno di mantenimento non al figlio ma alla madre, la cui legittimazione concorrente sussiste solo se permane la convivenza; (iv) la mancata considerazione da parte del giudice di merito della cessata coabitazione tra il figlio maggiorenne, che si gestisce del tutto autonomamente, e la madre, in violazione e falsa applicazione degli artt. 337 ter e 337 septies c.c.; (v) l’erronea valutazione delle circostanze di fatto (maggiore età del figlio, suo trasferimento a (*), rientro in (*) in alcuni periodi di vacanza con alloggio alternato presso entrambi i genitori, versamento dell’assegno di mantenimento sul conto corrente intestato al figlio), nonchè la violazione del principio dettato dall’art. 337 septies c.c., secondo il quale, ad avviso del ricorrente, il figlio maggiorenne che non coabita con i genitori “è legittimato in via esclusiva alla fissazione dell’ammontare degli assegni di mantenimento”, considerato che, nella specie, gli assegni di mantenimento pagati dal padre venivano versati dalla madre sul conto corrente bancario intestato al figlio, il quale si gestiva in autonomia, come risultava dal contenuto della nota di whatsapp prodotta e inviata nel (*).
1.2. Con il secondo motivo del medesimo ricorso (n. 1634/2016 R.G.) il ricorrente si duole dell’omessa valutazione delle sue deduzioni nel merito della suddivisione dell’onere di mantenimento del figlio tra gli ex coniugi, stante la dedotta sua limitata disponibilità economica, quale libero professionista, come assume documentato in causa in relazione ai redditi dello stesso degli anni 2013 e 2014, rispetto a quella della madre, dirigente ASL con cospicuo stipendio e proprietaria di immobili. Denuncia altresì il vizio di omessa motivazione, avendo la Corte territoriale valutato soltanto le necessità dello studente universitario e non le possibilità di ciascun genitore al fine della distribuzione dell’onere contributivo.
2. Con il secondo ricorso (n. 20675/2016 R.G.) il ricorrente lamenta: (i) con il primo motivo il vizio di illogicità logica e contraddittorietà della motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la corte territoriale escluso la rilevanza della coabitazione, salvo, di seguito, affermarla, seppure con la connotazione di sporadicità, al fine di giustificare la legittimazione della madre alla domanda di cui trattasi, rimarcando la contraddittorietà nell’utilizzo del termine coabitazione, che non può essere sporadica, oppure, diversamente opinando, dovendosi attribuire rilevanza anche alla coabitazione con il padre, parimenti sporadica; (ii) con i motivi secondo, terzo e quinto la violazione dell’art. 337 ter e septies c.c., per avere la Corte d’appello attribuito rilevanza alla coabitazione, e non alla convivenza, in contrasto con i principi affermati da questa Corte nelle pronunce che richiama (Cass. n. 18869/2014 e n. 4555/2012) e per avere il giudice d’appello ritenuto sussistente la legittimazione concorrente del genitore collocatario, nonostante la pacifica cessazione della convivenza con quest’ultimo, in contrasto con il principio dettato dall’art. 337 septies c.c., secondo il quale, ad avviso del ricorrente, il figlio maggiorenne che non coabita con i genitori è legittimato in via esclusiva a trattare la quantificazione dell’assegno di mantenimento con ciascuno dei genitori e a riceverne direttamente il versamento, non essendo concepibile una sorta di prorogatio, in capo al genitore originariamente collocatario, della responsabilità di sostentamento del figlio maggiorenne allontanatosi per motivi di studio; (iii) con il quarto motivo l’omessa motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riguardo le specifiche circostanze di fatto giustificative del riconoscimento alla madre, e non già direttamente al figlio maggiorenne e non economicamente autonomo, della legittimazione a richiedere l’assegno di mantenimento; (iv) con il sesto motivo la mancata valutazione delle circostanze del caso maggiore età del figlio, suo trasferimento a (*), rientro in (*) in alcuni periodi di vacanza con alloggio alternato presso entrambi i genitori, versamento dell’assegno di mantenimento sul conto corrente intestato al figlio- in base alle quali emergeva l’autonomia del figlio nella gestione delle risorse economiche e della sua esistenza; (v) con il settimo motivo la violazione dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, per mancata revocazione del provvedimento 10-19/11/2015 della Corte d’appello di Lecce, ricorrendo l’errore di fatto consistito nell’affermazione di una circostanza – convivenza o coabitazione con la madre – pacificamente esclusa dalle parti, la violazione dell’art. 324 c.p.c., in relazione al giudicato formatosi sul difetto di coabitazione, con provvedimento del 28/01/2015 del Tribunale di Lecce, nonchè, infine, l’improprio rilievo attribuito alla coabitazione sporadica e il mancato riconoscimento di una eguale posizione giuridica a entrambi i genitori verso il figlio maggiorenne, una volta cessata la coabitazione con la madre, già genitore collocatario.
3. In via preliminare deve disporsi la riunione dei due ricorsi in applicazione analogica dell’art. 335 c.p.c.. Si deve, infatti, ritenere che la riunione di detti ricorsi, anche se non espressamente prevista dalla citata norma del codice di rito, discenda dalla connessione esistente tra le due pronunce, atteso che sul ricorso per cassazione proposto contro la sentenza revocanda può risultare determinante la pronuncia di cassazione riguardante la sentenza resa in sede di revocazione (Cass. n. 10534/2015).
4. In ragione della peculiare connessione di cui si è appena detto, prioritariamente deve esaminarsi il ricorso avverso la sentenza che rigetta l’istanza di revocazione (n. 20675/2016 R.G.).
4.1. L’oggetto del giudizio di revocazione, promosso dall’attuale ricorrente ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, è l’errore sul fatto della coabitazione del figlio maggiorenne con la madre, fatto che è stato posto, ad avviso del ricorrente, a fondamento della decisione assunta con il decreto della Corte d’appello impugnato e la cui sussistenza il ricorrente assume incontestabilmente esclusa tra le parti.
Premesso, dunque, che il giudizio revocatorio verte, in base alla stessa prospettazione del ricorrente, sull’errore di fatto denunciato nei termini precisati, deve ritenersi pertinente all’oggetto di quel giudizio solo il settimo motivo di ricorso, mentre tutti gli altri motivi, che sono sostanziale riproposizione di quelli di cui al primo ricorso (n. 1634/2016 R.G.), attengono a questioni giuridiche o di merito, estranee al tema decidendi di cui si è detto.
4.2. Ciò posto, le doglianze espresse con il settimo motivo non colgono la ratio decidendi. La Corte territoriale ha, infatti, ritenuto insussistente il denunciato errore di fatto, rilevando che con il decreto impugnato era stato valutato l’aspetto della maggiore o minore permanenza del figlio presso la casa materna, presso quella paterna e presso la sede universitaria e se ne era esclusa la rilevanza, attribuita, invece, alla circostanza che il figlio, nonostante la coabitazione sporadica con la madre, faceva capo alla stessa “per reperire le risorse necessarie per soddisfare le sue esigenze, a cui non può provvedere autonomamente”.
In altri termini, la Corte d’appello non solo ha affermato che non vi fosse stata la falsa percezione di quanto emergeva dagli atti, ma anche e soprattutto ha escluso la decisività di quel fatto ai fini della decisione assunta, per avere avuto rilievo non la circostanza della coabitazione del figlio con la madre, peraltro sporadica, ma il fatto che quest’ultima fosse il soggetto di riferimento del figlio per soddisfare le sue esigenze. A ciò si aggiunga che il giudizio sulla decisività dell’errore costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da idonea motivazione, come nella specie (Cass. n. 25376/2006).
Le censure espresse dal ricorrente non si confrontano con il suddetto, chiaro, percorso argomentativo, risolvendosi in ripetitiva enunciazione della erronea rilevanza decisiva attribuita alla circostanza della coabitazione del figlio con la madre, decisività che è stata, invece, espressamente esclusa dalla Corte territoriale, ed essendo, per le stesse ragioni, inconferente il richiamo al giudicato, asseritamente formatosi in punto di difetto di coabitazione, di cui al decreto del Tribunale del 28/01/2015, riformato con il decreto della Corte d’appello di cui è chiesta la revocazione.
4.3. In conclusione, il ricorso di cui al n. 20675/2016 R.G. deve dichiararsi inammissibile.
5. Passando all’esame dell’altro ricorso, occorre premettere che, anche qualora fosse ora mutata la situazione per effetto dei provvedimenti provvisori emessi in sede di divorzio (cfr. memoria illustrativa del ricorrente di data 28-3-2017 e documenti allegati), permarrebbe l’interesse del ricorrente alla pronuncia in relazione al periodo anteriore, atteso che solo a partire dalla data in cui nel giudizio divorzile sono emessi i provvedimenti provvisori questi ultimi si sostituiscono a quelli emessi nel giudizio di separazione (Cass. n. 7547/2020).
5.1. Il primo motivo è articolato in cinque punti, con censure espresse sub specie del vizio di violazione di legge (artt. 337 ter e septies c.c.) e motivazionale, tutte concernenti, sotto distinti ma collegati profili, la rilevanza della convivenza e/o coabitazione del figlio maggiorenne con la madre al fine di escludere la legittimazione iure proprio di quest’ultima a pretendere l’aumento del contributo di mantenimento di Euro 200 che era stato posto a carico del padre, con obbligo di versamento alla madre collocataria, in base a quanto concordato dai coniugi in sede di separazione e recepito con la sentenza del Tribunale di Lecce n. 2583/2011.
Il ricorrente assume, in buona sostanza, che non sussista la legittimazione iure proprio e concorrente della madre ad agire per ottenere l’aumento del contributo di mantenimento per il figlio maggiorenne in ragione del fatto che quest’ultimo, per motivi di studio, trascorre lunghi periodi non più presso l’abitazione della madre, ma nella città ove ha intrapreso gli studi universitari.
5.2. La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente chiarito, con orientamento costante, che l’obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, sia tuttavia ancora dipendente dai genitori. In tale ipotesi, il coniuge separato o divorziato, già affidatario, è legittimato, iure proprio, ed in via concorrente con la diversa legittimazione del figlio, che trova fondamento nella titolarità, in capo a quest’ultimo, del diritto al mantenimento, ad ottenere dall’altro coniuge un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne. La perdurante legittimazione del coniuge già affidatario, in difetto di richiesta di corresponsione diretta dell’assegno da parte del figlio divenuto nelle more maggiorenne, si configura come autonoma, nel senso che il genitore già collocatario resta titolare, nei confronti dell’altro genitore obbligato, di un’autonoma pretesa basata sul comune dovere nei confronti del figlio ai sensi degli artt. 147 e 148 c.c. (tra le tante Cass. n. 25300/2013 e Cass. n. 35629/2018).
L’art. 337 septies c.c., prevede, infatti, come ipotesi alternativa a quella, ordinaria, del versamento diretto dell’assegno di mantenimento al figlio maggiorenne, quella conseguente a “diversa determinazione del giudice”. Nella casistica giurisprudenziale di merito, formatasi in osservanza dei principi affermati da questa Corte (tra le tante Cass. n. 4555/2012 e da ultimo Cass. n. 17380/2020), la “diversa determinazione” che il giudice può assumere, valutate le circostanze del caso concreto, è anzitutto, appunto, il versamento del contributo all’altro genitore che si occupi materialmente del mantenimento del figlio, a ciò conseguendo la legittimazione attiva del suddetto genitore. Poichè, di norma, è il genitore con il quale il figlio abita a provvedere materialmente ai bisogni ed alle necessità del figlio stesso, la coabitazione si configura, nelle ipotesi che più frequentemente ricorrono, come un parametro fattuale di rilevanza indiziaria, idoneo a giustificare la deroga alla regola generale della corresponsione diretta della somma a titolo di contributo al mantenimento al figlio maggiorenne. Il versamento dell’assegno periodico al genitore con cui permane la coabitazione con il figlio maggiorenne rappresenta, perciò, un contributo concreto alla copertura delle spese correnti che egli si trova a dover sostenere mensilmente, spese correnti cui sono e restano comunque entrambi i genitori obbligati ai sensi degli artt. 147 e 148 c.c..
In definitiva, la coabitazione può assurgere ad univoco indice del fatto che permanga un più intenso legame di comunanza familiare tra il figlio maggiorenne e il genitore con cui abita e che sia quest’ultimo la figura di riferimento per il corrente sostentamento del primo e colui che provvede materialmente alle sue esigenze. Ciò che decisivamente rileva, perciò, ai fini della legittimazione, è che il genitore di cui trattasi sia appunto la figura di riferimento del figlio per il suo corrente sostentamento e colui che provvede materialmente alle sue esigenze: elemento, questo, rispetto al quale la convivenza ha valore puramente inferenziale.
5.2.1. Così chiarita la finalità, sostanzialmente probatoria a livello indiziario, da attribuirsi al fatto della coabitazione, ritiene il Collegio che debba darsi continuità, con le precisazioni di cui si dirà, all’orientamento di questa Corte (Cass. n. 11320/2005; Cass. n. 14241/2017 e n. 12391/2017 non massimate) secondo il quale non può darsi dirimente rilevanza al solo dato temporale della permanenza del figlio presso l’abitazione del genitore già collocatario. Mentre il rapporto coniugale è connotato di regola da una quotidiana coabitazione e dalla unicità di interessi familiari, quello di filiazione può essere più spesso caratterizzato, in presenza di peculiari e personali interessi del figlio, specie se maggiorenne, da una sua presenza solo saltuaria per la necessità di assentarsi con frequenza per motivi di studio o di lavoro anche per non brevi periodi (così Cass. n. 11320/2005).
La sporadicità dei rientri presso l’abitazione del genitore, stante le ragioni dell’allontamento, non comporta affatto, per ciò solo, che siano mutati i precedenti assetti di contribuzione familiare. Una frequentazione solo saltuaria della casa da parte del figlio non è, infatti, incompatibile con la persistenza di un più intenso legame di comunanza di vita con uno solo dei genitori, tale che sia quest’ultimo a restare la figura di riferimento per il corrente sostentamento del figlio e a provvedere materialmente alle sue esigenze.
In altri termini, come rimarcato anche dalla Procura Generale, pur in difetto della prevalenza temporale della presenza del figlio nella casa del genitore già collocatario, quest’ultimo e la sua casa potranno essere rimasti per il primo un punto di riferimento stabile del nucleo familiare, sebbene “ristretto” all’esito della separazione coniugale, stante la sistematicità del ritorno del figlio studente in quel luogo, compatibilmente con i suoi impegni universitari o, in generale, di studio. Soprattutto, poi, potrà verificarsi in concreto che sia quel genitore, pur in assenza di coabitazione abituale o prevalente, a provvedere materialmente alle esigenze del figlio stesso, anticipando ogni esborso necessario per il suo sostentamento presso la sede di studio.
Nel concorso di dette circostanze, il cui accertamento non può che essere rimesso ai giudici di merito, trova giustificazione la legittimazione iure proprio di cui si sta trattando, sempre che sia mancata la richiesta in via giudiziale, da parte del figlio maggiorenne, di corresponsione diretta dell’assegno di mantenimento (Cass. n. 12392/2017, non massimata, per l’affermazione del principio secondo cui la legittimazione attiva resta al genitore in mancanza di richiesta giudiziale di versamento diretto del figlio).
5.2.2. Ritiene, pertanto, il Collegio di dover dissentire dall’indirizzo espresso in alcune pronunce di questa Corte (cfr. Cass. n. 4555/2012 e Cass. n. 18075/2013) secondo cui, anche nelle ipotesi di allontamento del figlio per motivi di studio, la persistenza della legittimazione iure proprio del genitore già collocatario deve valutarsi in base al criterio discretivo della prevalenza temporale della coabitazione, potendo mutuarsi i principi affermati sull’assegnazione della casa familiare.
In relazione a quest’ultima tematica, il parametro della prevalenza temporale è certamente dirimente, atteso che è solo l’effettiva e fisica presenza del figlio nella casa familiare a giustificarne l’assegnazione al coniuge già collocatario, sicchè detta assegnazione va negata se difetta la prevalenza temporale effettiva della presenza del figlio nell’abitazione. Invece, con riguardo alla legittimazione iure proprio del genitore a richiedere all’ex coniuge il contributo per il mantenimento del figlio, nella particolare ipotesi di suo allontanamento per motivi di studio, la casa ove vive il coniuge già collocatario assume rilevanza solo come luogo di “ritorno” e ritrovo del nucleo familiare nei termini di cui si è detto, sicchè non è pertinente, ai fini che qui interessano e per quanto precisato, l’accertamento dell’assidua o prevalente frequentazione della casa da parte del figlio.
5.3. Facendo applicazione dei principi suesposti al caso di specie, le doglianze sono infondate, laddove il ricorrente assume la carenza di legittimazione attiva della V. perchè difetta la coabitazione prevalente del figlio presso la sua casa.
Occorre premettere che non è in discussione che sia dovuto il mantenimento al figlio maggiorenne, studente universitario “modello”, e non autosufficiente, nè risulta, in base a quanto esposto nel decreto impugnato e a quanto dedotto dalle parti, che egli abbia richiesto al padre la corresponsione diretta dell’assegno, a modifica di quanto previsto nella sentenza di separazione coniugale, intervenendo in giudizio oppure esperendo autonoma azione.
Ciò posto, la Corte territoriale, dopo aver precisato di non condividere l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il genitore è legittimato a chiedere l’aumento dell’assegno di mantenimento per il figlio solo se quest’ultimo abiti in prevalenza presso la sua casa, ha ravvisato sussistente la legittimazione concorrente della reclamante in quanto genitore a cui il figlio faceva capo per reperire le risorse necessarie per soddisfare le sue esigenze, a cui non poteva provvedere autonomamente. L’accertamento di fatto compiuto dalla Corte d’appello è, dunque, consistito nell’individuare la madre come soggetto di riferimento per il corrente e materiale sostentamento economico del figlio trasferitosi in altra città per motivi di studio, ossia per necessità di istruzione e per scelta dello stesso figlio, condivisa dalla madre ed avversata dal padre, anche giudizialmente senza esito positivo.
Le censure si incentrano, per un verso e principalmente, sulla questione della sporadicità della coabitazione del figlio con la madre, che non ha, invece, rilevanza dirimente in base alle considerazioni in diritto sopra espresse (p. 5.2), sicchè ne discende l’infondatezza per quanto si è precisato.
Per altro verso, il ricorrente, senza censurare specificamente il fatto posto a base della decisione impugnata (materiale e corrente sostentamento della madre necessario per mantenere il figlio a (*), con la relativa anticipazione di ogni spesa), deduce che il figlio si gestisce autonomamente, dato che gli assegni di mantenimento corrisposti dal padre venivano versati dalla madre su un conto corrente intestato al giovane, nonchè si limita genericamente a sostenere di contribuire “alle spese straordinarie, specie quelle universitarie e concordate col figlio”, richiamando una “nota di WhatsApp”, prodotta in primo grado come doc. n. 5, indicata come risalente al (*), da cui risulterebbero le nuove condizioni economiche concordate con il figlio, peraltro, per quanto è dato comprendere, con un aumento del contributo (raddoppiato rispetto a quello iniziale di Euro 200) solo a carico della madre.
In disparte ogni considerazione sulla valenza di quel documento, del quale non vi è cenno nel decreto impugnato, ai fini della prova dell’accordo asseritamente intervenuto tra padre e figlio, che non risulta aver mai avanzato richiesta di corresponsione diretta del contributo di mantenimento dovuto dal padre, le doglianze sono inammissibili perchè genericamente formulate e neppure specificamente riferibili alla ratio decidendi del decreto impugnato di cui si è detto.
6. Anche il secondo motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.
6.1. Il ricorrente si duole della suddivisione in parti paritarie tra gli ex coniugi del disposto aumento del contributo di mantenimento (Euro 450 a carico di ciascuno) per mancata considerazione delle sue condizioni reddituali, lamentando anche omessa motivazione.
La Corte d’appello ha, invece, motivato in modo idoneo, non inferiore al minimo costituzionale (Cass. S.U. n. 8053/2014), la statuizione sul punto e le ulteriori doglianze, relative alla valutazione della capacità reddituale del padre, libero professionista, sollecitano, in realtà, inammissibilmente una rivalutazione del merito.
7. In conclusione il ricorso di cui al n. 1634/2016 R.G. va rigettato.
8. Considerata la parziale difformità di orientamento di questa Corte sulle questioni dirimenti rispetto a precedenti pronunce, le spese del presente giudizio sono compensate per metà e le residue spese, liquidate nell’intero come in dispositivo, sono poste a carico del ricorrente.
9. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto (Cass. S.U. n. 5314/2020).
10. Va disposto che in caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.

P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, dichiara inammissibile il ricorso di cui al n. 20675/2016 R.G. e rigetta il ricorso di cui al n. 1634/2016, compensa per metà le spese del presente giudizio e condanna il ricorrente alla rifusione della residua metà di dette spese, liquidate, nell’intero, in complessivi Euro 6.400, di cui Euro 400 per esborsi, oltre spese generali, nella misura del 15 per cento, ed accessori come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Dispone che in caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.
Così deciso in Roma, il 16 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 31 dicembre 2020

Esercizio della professione forense: l’apertura di uno studio come comunemente inteso rientra nella libera scelta del professionista

Cons. Stato, Sez. V, Sent., 21 gennaio 2021, n. 653
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4301 del 2014, proposto dall’Ordine degli Avvocati di Parma, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Andrea Manzi e Maurizio Palladini, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Manzi in Roma, via Federico Confalonieri, 5;contro il Comune di Parma, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Adriano Rossi, con domicilio eletto presso lo studio del difensore in Roma, viale delle Milizie, 1;la Provincia di Parma, non costituita in giudizio;e con l’intervento diad adiuvandum:Unione delle Camere penali italiane, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Stefano Rossi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio del difensore in Roma, via Gabriele Camozzi, 9;per la riforma della sentenza del TAR Emilia Romagna, sezione staccata di Parma, sez. I, 6 novembre 2013 n. 303, che ha respinto il ricorso n. 154/2007 R.G., proposto per l’annullamento dei seguenti atti del Comune di Parma:a) deliberazione 22 gennaio 2007 n. 6/2, pubblicata all’albo pretorio dal 25 gennaio 2007 e sul Bollettino ufficiale regionale del 14 febbraio 2007, con la quale il Consiglio comunale ha approvato la variante all’art. 66 bis del Regolamento edilizio, parte del RUE -Regolamento urbanistico edilizio, recante “Disciplina per il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche”, nella parte in cui ricomprende, fra gli edifici aperti al pubblico, anche gli studi professionali di avvocati iscritti nell’elenco dei difensori d’ufficio e abilitati al gratuito patrocinio;b) deliberazione 12 giugno 2006 n. 102/20, pubblicata all’albo pretorio dal 14 giugno 2006, con la quale il Consiglio comunale ha adottato la variante di cui sopra;Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Parma;
Visti tutti gli atti della causa;Relatore nell’udienza smaltimento del giorno 22 dicembre 2020 il Cons. Francesco Gambato Spisani e dato atto che nessuno è comparso per le parti, nonché del deposito delle note di udienza ai sensi e agli effetti dell’art.4, comma 1, del D.L. 20 aprile 2020, n. 28,convertito, con modificazioni, dalla L. 25 giugno 2020, n. 70, come richiamato dall’art.25, comma 1, del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137,convertito, con modificazioni, dallaL. 18 dicembre 2020, n. 176,da parte degli avvocati Manzi e Rossi;Svolgimento del processo –Motivi della decisione1. Con le delibere consiliari meglio indicate in epigrafe (doc. ti 1 e 2 in primo gradodel ricorrente appellante), il Comune appellato ha, rispettivamente, adottato ed approvato un nuovo testo dell’art. 66 bis del proprio regolamento edilizio, parte del più ampio regolamento urbanistico edilizio -RUE, che per quanto interessa dispone, al comma 2: “Superamento delle barriere architettoniche. 2.1 … devono essere realizzati gli interventi volti a garantire l’accesso e la visitabilità agli edifici privati, pubblici ed aperti al pubblico. 2.2 Oltre agli edifici pubblici, sono da considerarsi aperti al pubblico… f) studi professionali, quando il professionista sia legato da convenzione pubblica e/o ad una funzione istituzionale in forza della quale riceva un pubblico indistinto (come a titolo esemplificativo notai, commercialisti abilitati a trasmettere denunce dei redditi, centri assistenza fiscale, avvocati iscritti nell’elenco difensori d’ufficio e al gratuito patrocinio, medici e pediatri convenzionati); …”.2. L’effetto giuridico della norma così come modificata, come osservato anche dalla sentenza di primo grado, è quello di rendere applicabile la disciplina dell’art. 82 del T.U. 6 giugno 2001 n. 380, per cui “Tutte le opere edilizie riguardanti edifici pubblici e privati aperti al pubblico che sono suscettibili di limitare l’accessibilità e la visitabilità di cui alla sezione prima del presente capo, sono eseguite in conformità alle disposizioni di cui allaL. 30 marzo 1971, n. 118, e successive modificazioni, alla sezione prima del presente capo, al regolamento approvato con D.P.R. 24 luglio 1996, n. 503,recante norme per l’eliminazione delle barriere architettoniche, e al decreto del Ministro dei lavori pubblici 14 giugno 1989, n. 236”.3. Il primo di questi due regolamenti definisce le caratteristiche tecniche delle opere in questione, il secondo, ovvero il D.M. 14 giugno 1989, n. 236, definisce anzitutto i concetti di “accessibilità” e di “visitabilità”: per accessibilità si intende, ai sensi dell’art. 2, lettera g), “la possibilità, anche per persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale, di raggiungere l’edificio e le sue singole unità immobiliari e ambientali, di entrarvi agevolmente e di fruirne spazi e attrezzature in condizioni di adeguata sicurezza e autonomia”; per visitabilità si intende, ai sensi dell’art. 2, lettera h), “la possibilità, anche da parte di persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale, di accedere agli spazi di relazione e ad almeno un servizio igienico di ogni unità immobiliare. Sono spazi di relazione gli spazi di soggiorno o pranzo dell’alloggio e quelli dei luoghi di lavoro, servizio ed incontro, nei quali il cittadino entra in rapporto con la funzione ivi svolta”. Sempre secondo il decreto, negli edifici aperti al pubblico l’accessibilità va garantita per gli spazi esterni e le parti comuni (art. 3, comma 2), mentre la visitabilità sussiste art. 3, comma 4, lettera e) se sono accessibili gli spazi correlati alla funzione svolta.4. L’effetto concreto di queste norme è poi quello di obbligare i titolari degli studi professionali interessati a sostenere l’onere delle opere richieste di cui si è detto; si tratta, per quanto interessa, degli avvocati iscritti agli elenchi dei difensori di ufficio e dei difensori abilitati al gratuito patrocinio. Avendone per questo motivo interesse, l’Ordine degli avvocati locale ha proposto quindi impugnazione contro le delibere suddette.5. Con la sentenza a sua volta meglio indicata in epigrafe, il TAR ha respinto questo ricorso, con la motivazione ora riassunta.5.1 In primo luogo, il TAR ritiene che il concetto di luogo aperto al pubblico, ai fini della disciplina sulle barriere architettoniche, vada inteso in senso elastico, comprensivo anche dei luoghi privati chiusi alla generalità delle persone, ma accessibili a una data categoria di aventi diritto, se pure entro determinati orari ovvero con date modalità; ritiene poi che lo studio dell’avvocato rientri nel concetto.
5.2 Ciò posto, il TAR osserva che la norma riguarda solo due particolari categorie di avvocati, i difensori di ufficio e gli abilitati al gratuito patrocinio, i quali a suo avviso fanno parte della più generale categoria considerata dal citato art. 66 bis, ovvero quella dei professionisti legati a una funzione o convenzione in base alla quale ricevono un pubblico indistinto. Il TAR evidenzia infatti che il patrocinio a spese dello Stato è garantito dall’art. 74 del T.U. 30 maggio 2002 n. 115 e che il difensore d’ufficio è obbligato a prestare la propria opera ai sensidell’art. 97, comma 5, c.p.p.5.3 Il TAR evidenzia ancora che i difensori di queste due categorie vi appartengono per loro scelta, avendo richiesto l’iscrizione nel relativo elenco, e ritiene che la norma la quale impone loro le opere per il superamento delle barriere appaia non illogica né irragionevole, in quanto realizzerebbe una sorta di equilibrio fra il vantaggio della corresponsione del compenso da parte dello Stato e l’onere relativo.5.4 Il TAR aggiunge poi che la norma sarebbe anche conforme alla logica della legge sul superamento delle barriere, che coinciderebbe con la volontà di consentire al disabile di usufruire, senza impedimenti dati dalle barriere, della prestazione del professionista recandosi nello studio di questi.5.5 Infine, il TAR respinge il motivo centrato sulla violazione delle garanzie partecipative, evidenziando che l’Ordine ricorrente non ha ritenuto di presentare osservazioni, a differenza di quanto fatto da altri ordini professionali.6. L’Ordine ha proposto impugnazione contro questa sentenza, con appello che contiene cinque motivi, come segue:-con il primo di essi, critica la sentenza impugnata per avere qualificato in generale come luogo aperto al pubblico lo studio dell’avvocato. Sottolinea che certamente la funzione dell’avvocato difensore è di tipo pubblicistico, ma rimangono privatistiche le norme secondo le quali essa viene svolta, dato che l’avvocato non è obbligato ad avere uno studio, ma soltanto un domicilio professionale, che può coincidere con l’abitazione e non è aperto indiscriminatamente a terze persone;-con il secondo motivo, critica la sentenza impugnata per avere ritenuto ragionevole la norma impugnata in ragione di un presunto vantaggio economico che i difensori delle categorie indicate ricaverebbero dall’appartenenza ad esse; fa notare che la retribuzione del patrocinio a spese dello Stato è modesta e corrisposta con ritardo, e che la difesa d’ufficio deve essere pagata dal cliente, e viene pagata dallo Stato solo ove vi siano i presupposti del patrocinio a spese di questo;-con il terzo motivo, critica la sentenza impugnata per avere ritenuto la norma di regolamento contestata conforme alla logica delle norme di legge sulle barriere architettoniche, osservando, da un lato, che l’accesso alla difesa si può ottenere anche nel momento in cui, come è consentito, l’avvocato si rechi personalmente dal cliente e, dall’altro, che esso non è garantito comunque, perché il difensore, anche d’ufficio, può sempre rinunciare al mandato;-con il quarto motivo, critica la sentenza impugnata per avere ritenuto non rilevante il mancato apporto partecipativo dell’ente, dato che esso avrebbe fatto emergere quanto si è detto;-con il quinto motivo, contesta la liquidazione delle spese a favore del Comune come sproporzionata rispetto all’attività difensiva da questo effettivamente svolta.7. Il Comune ha resistito, con atto 7 febbraio 2015 e memoria 19 novembre 2020,ed ha chiesto che l’appello sia respinto, difendendo la motivazione della sentenza impugnata.8. L’Unione delle Camere penali italiane, associazione volontaria fra gli avvocati penalisti italiani, con atto 19 novembre 2020, ha proposto intervento ad adiuvandum, e chiesto che l’appello sia accolto.9. Con repliche 30 novembre 2020 per l’Ordine e 1 dicembre 2020 per il Comune e per l’Unione interveniente, le parti hanno infine ribadito le rispettive asserite ragioni; inoltre, il Comune ha eccepito l’inammissibilità, per difetto di interesse, dell’intervento dell’Unione stessa.10. All’udienza del 22 dicembre 2020, la Sezione ha trattenuto il ricorso in decisione.11. In via preliminare, va respinta l’eccezione di inammissibilità dell’intervento, perché un’associazione di categoria di professionisti intellettuali, quale è l’Unione delle Camere penali, è da considerare in generale legittimata ad intervenire in un giudizio nel quale si controverta di questioni di principio di interesse economico per la categoria:specifica sul punto C.d.S., sez. V, 7 aprile 1978 n. 403. Nel caso di specie, l’interesse economico è rappresentato dall’interesse ad evitare le spese che
l’associato, il quale intendesse iscriversi negli elenchi di cui si è detto, dovrebbe affrontare perattrezzare lo studio in conformità a quanto richiede il regolamento impugnato.12. Ciò posto, nel merito, l’appello è fondato e va accolto, per le ragioni di seguito esposte, che si fondano, come doveroso, esclusivamente su considerazioni giuridiche, omesso ogni apprezzamento in termini di valore ovvero opportunità sociale, che come tale non compete al Giudice.13. Il primo motivo, centrato sull’esclusione della qualità di luogo pubblico o aperto al pubblico dello studio legale, è fondato.In termini generali, è corretto quanto afferma la difesa dell’appellante, ovvero che né la legge professionale 31 dicembre 2012 n. 247, in particolare l’art. 7 di essa, relativo al “domicilio”, né il codice deontologico forense obbligano l’avvocato, per esercitare la sua professione, ad avere la disponibilità di un ufficio a ciò dedicato. In particolare, l’art. 7 della L. n. 247 del 2017 prevede solo che egli abbia un “domicilio”, ovvero in termini semplici un recapito ove essere reperibile e ricevere gli atti, ma non vieta che esso, al limite, coincida con la propria abitazione. Pertanto, l’apertura di uno studio come comunemente inteso rientra nella libera scelta del professionista. Inoltre, lo studio legale, anche quando esiste, non è di per sé luogo pubblico o aperto alpubblico, come si desume, per implicito, dalla costante giurisprudenza penale, secondo la quale commette il reato di violazione di domicilio previstodall’art. 614 c.p., chi acceda allo studio di un avvocato, o vi si trattenga, contro la volontà del titolare: per tutte, da ultimo, Cass. pen., sez. V, 18 aprile -26 luglio 2018 n. 35767. Non va quindi condivisa l’affermazione del Giudice di primo grado, per cui nellaspecifica disciplina delle barriere architettoniche il concetto di luogo aperto al pubblico andrebbe inteso in modo particolare, comprensivo, come si è detto, dei luoghi privati chiusi alla generalità delle persone, ma accessibili a una data categoria di aventi diritto. Da un lato, infatti, la ritenuta interpretazione estensiva non trova sostegno nel testo di legge, dall’altro comunque i luoghi così qualificati non si differenziano in modo apprezzabile dal concetto generale di luogo aperto al pubblico, peril quale vale quanto si è detto.14. È fondato anche il secondo motivo di appello, nel senso che l’affermazione del Giudice di primo grado si basa su presupposti di fatto solo in parte corretti, e comunque non trova riscontro nella legge.14.1 In primo luogo, come previsto in modo espresso dall’art. 31 d. att. c.p.p., l’attività del difensore d’ufficio è retribuita dall’assistito, e non dallo Stato, e quindi non si può in assoluto ritenere che dai relativi incarichi provenga all’avvocato un vantaggio economico a carico delle casse pubbliche, che debba essere compensato con una qualche forma di contropartita.14.2 Un vantaggio economico per l’iscritto deriva invece effettivamente dall’iscrizione nell’elenco degli abilitati al patrocinio a spese dello Stato, che corrisponde appunto il relativo onorario. E’ però vero quanto afferma la parte appellante, ovvero che questa retribuzione non risulta particolarmente favorevole. In linea di diritto, per l’art. 82 del T.U n. 115/2002, essa non può comunque superare i valori medi dei parametri relativi. In linea di fatto, poi, essa viene per fatto notorio liquidata con notevole ritardo, tanto che, come si ricorda per completezza, l’art.1, comma 778,dellaL. 28 dicembre2015 n. 208, ha introdotto la facoltà di utilizzare il relativo credito a compensazione dei debiti fiscali e previdenziali dell’avvocato, peraltro non in generale, ma entro un limite complessivo di risorse assegnate.14.3 Il presunto vantaggio per il professionista iscritto, che secondo il Giudice di primo grado giustificherebbe una contropartita in termini di oneri per le opere per il superamento delle barriere architettoniche, notoriamente di impegno economico non sempre lieve, potrebbe quindi al limite sussistere quanto agli iscritti all’elenco degli abilitati al patrocinio a spese dello Stato, e non per gli iscritti all’elenco dei difensori d’ufficio.14.4 Più in generale, bisogna però osservare che il vantaggio economico di cui si è detto, oltre che in valore assoluto non particolarmente rilevante, è del tutto eventuale, perché dipende dalla clientela che il professionista in concreto riesca ad acquisire a quel titolo. Non appare quindi giustificato, in termini di proporzionalità, che a fronte di un vantaggio solo potenziale sia imposto un esborso certo ed immediato.15. Il terzo motivo di appello è a sua volta fondato.
Premesso quanto si è detto sopra trattando del primo motivo, ovvero che l’avvocato non è obbligato a disporre di uno studio, si deve condividere quanto afferma la difesa della parte appellante, ovvero che il relativo incarico professionale si può sempre svolgere con modalità che prescindono dalle barriere architettoniche in questione. La L. n. 247 del 2012 citata e il codice deontologico non vietano infatti in generale che il difensore, per svolgere il proprio mandato, possa recarsi presso la parte, in un luogo che essa ritiene adeguato alle proprie esigenze, anche di salute, e in particolare non vietano certo che egli si rechi al domicilio di un disabile il quale se ne possa allontanare solo con difficoltà.16. Il quarto motivo di appello è invece infondato.Come afferma il Giudice di primo grado e come non è contestato, hanno presentato le proprie osservazioni altri ordini professionali; non però l’Ordine ricorrente appellante, che pertanto, secondo logica, pur avendone la possibilità, non ha ritenuto di farlo, e quindi non può in questa sede censurare sotto quest’aspetto l’esito della sua scelta.17. Per quanto concerne il quinto ed ultimo motivo di appello, riferito alla liquidazione delle spese, si rinvia a quanto si dirà in chiusura.18. In conclusione, l’appello va accolto e, in riforma della sentenza impugnata, va accolto il ricorso di primo grado, come indicato in motivazione; di conseguenza, sono annullate le delibere del Consiglio comunale impugnate, 22 gennaio 2007 n. 6/2 e 12 giugno 2006 n. 102/20, rispettivamente, di adozione e di approvazione della variante all’art. 66 bis del Regolamento edilizio, parte del RUE -Regolamento urbanistico edilizio, recante “Disciplina per il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche”, nella sola parte in cui il testo adottato e poi approvato ricomprende fra gli edifici aperti al pubblico, con le conseguenze di cui si è detto, anche gli studi professionali di avvocati iscritti nell’elenco dei difensori d’ufficio e abilitati al gratuito patrocinio.19. La particolarità della controversia, sulla quale non constano precedenti editi negli esatti termini, è giusto motivo per compensare per intero fra le parti le spese del doppio grado del giudizio, e con ciò si pronuncia anche sul quinto ed ultimo motivo di appello.P.Q.M.Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello come in epigrafe proposto (ricorso n. 4301/2014), lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado (n. 154/2007 R.G. TAR Emilia Romagna Parma) e annulla, ai sensi e nei limiti di cui in motivazione, le deliberazioni del Consiglio comunale di Parma 22 gennaio 2007 n. 6/2 e 12 giugno 2006 n. 102/20. Compensa fra le parti le spese del doppio grado del giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 dicembre 2020 con l’intervento dei magistrati:Carmine Volpe, Presidente Oreste Mario Caputo, Consigliere Francesco Gambato Spisani, Consigliere, Estensore Raffaello Sestini, Consigliere Antonella Manzione, Consigliere

E’ attendibile il testimone che abbia vincoli di parentela o coniugali con una delle parti?

Cass. Civ. Sez. VI – Lav., Ord., 02 febbraio 2021, n. 2295
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONE SESTA CIVILESOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:Dott. ESPOSITO Lucia -Presidente -Dott. LEONE Margherita Maria -Consigliere -Dott. PONTERIO Carla -Consigliere -Dott. MARCHESE Gabriella -rel. Consigliere -Dott. DE FELICE Alfonsina -Consigliere -ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 26579-2018 proposto da:Z.G., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA IRNERIO 29, presso lo studio dell’avvocato ELENA CONTINI, rappresentata edifesa dagli avvocati CALOGERO AGOZZINO, MARIA ASSUNTA GIUSTI, CHIARA GASPARINI;-ricorrenti
-contro
M.P., M.M., M.G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE MEDAGLIE D’ORO 36, presso lo studio dell’avvocato BARBARA BUCCOLERI, che li rappresenta e difende;-controricorrenti –
avverso la sentenza n. 1268/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 18/07/2018;udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 09/09/2020 dal Consigliere Relatore Dott. GABRIELLA MARCHESE.
Svolgimento del processo Che:con sentenza del 18.7.2018, la Corte di appello di Milano ha respinto il gravame di Z.G. (iscritto al R.G. Appello Lavoro n. 289 del 2016) e confermato la decisione di primo grado con la quale quest’ultima era stata condannata al pagamento, in favore della lavoratrice S.A.A., dante causa degli odierni controricorrenti, di Euro 56.671,93 a titolo di differenze di retribuzione, di cui Euro 11.520,22 a titolo di TFR, oltre accessori e regolarizzazione previdenziale e contributiva;controversi, tra le parti, gli aspetti concernenti la retrodatazione del rapporto di lavoro subordinato con la de cuius e le concrete modalità del suo svolgimento, la Corte territoriale ha condiviso integralmente l’istruttoria -e l’interpretazione delle relative risultanze -operata dal primo giudice; a
tale riguardo, ha ritenuto maggiormente attendibili, rispetto a quelle del teste F., le deposizioni dei testi S. e R., in ragione sia della loro estraneità rispetto alle parti, sia della univocità e concordanza delle dichiarazioni, numericamente prevalenti;per ciò che qui maggiormente rileva, quanto all’individuazione dei testimoni da esaminare, la Corte di appello, pronunciando sullo specifico motivo di gravame, ha osservato come il Tribunale avesse rimesso alle parti la scelta dei testi (nel limite di due, per ciascuna), con l’espressa eccezione di “parenti o affini” sulla base dell’ “adeguata motivazione della maggiore attendibilità dei soggetti estranei alla sfera familiare delle contendenti”; la Corte territoriale ha, inoltre, respinto la richiesta di acquisizione dei “documenti ulteriori” (6 cpv., pag. 7 sent. impugnata) in quanto “tutti di formazione antecedente al deposito della memoria difensiva di primo grado”; in proposito, ha, anche, osservato come “non vi (fosse), peraltro, alcun elemento per ritenere che gli stessi attest(assero) il pagamento di somme ulteriori, rispetto a quelle risultanti dalle buste paga a titolo di competenze di fine rapporto e TFR in ragione delle condizioni di formale assunzione della lavoratrice, non comprese nella quantificazione operata dal CTU di primo grado”;avverso la decisione, ha proposto ricorso per cassazione Z.G., articolato in quattro motivi;hanno resistito i controricorrenti indicati in epigrafe, nella qualità di eredi;è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c.,ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in Camera di consiglio. Motivi della decisione Che:con il primo motivo -ai sensi dell’art. 360 c.p.c.,n. 3 -è dedotta violazione degli artt. 244, 245 e 209 c.p.c. e dell’art. 24 Cost.;le censure investono la sentenza della Corte di appello nella parte in cui ha ridotto la lista testimoniale della ricorrente, escludendo dalla stessa le persone legate alla parte (id est: alla ricorrente) da un vincolo di parentela;secondo la parte ricorrente, in tal modo, la sentenza si porrebbe in contrasto con l’art. 244 c.p.c.,che non vieta l’esame di persone legate da rapporti di parentela con le parti del processo, salvo le ipotesi di cuiall’art. 246 c.p.c.,; sotto diverso profilo, la statuizione risulterebbe viziata in ragione di una aprioristica valutazione di inattendibilità di dette persone;con il secondo motivo -ai sensi dell’art. 360 c.p.c.,n. 3 -è dedotta la violazione degli artt. 115, 116 e 437 c.p.c., per omessa valutazione e comunque per omessa ammissione delle prove precostituite e delle prove orali dedotte; parte ricorrente lamenta la mancata ammissione di una serie di documenti che dimostrerebbero il pagamento di acconti a titolo di TFR;con il terzo motivo -ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 -è dedotta la violazione degli artt. 115 e116c.p.c.,e il travisamento della prova perchè erroneamente supposta; è criticata la valutazione di inattendibilità espressa in relazione al teste F.A., in quanto convivente della ricorrente; sotto altro profilo, sono contestati gli esiti della disposta CTU per non aver considerato la somma di Euro 9.691.06 corrisposta in corso di rapporto;con il quarto motivo -ai sensi dell’art. 360 c.p.c.,n. 3 -è dedotta la violazione degliartt. 115, 209, 233, 437 c.p.c. e dell’art. 2736 c.c., per omessa ammissione del giuramento decisorio;il Collegio giudica fondato il primo motivo, con assorbimento degli altri;come già sinteticamente esposto nello storico di lite, a fronte delle critiche espresse dall’appellante (odierna ricorrente) alla decisione del Tribunale di limitare, in via preventiva, le liste testimoniali, escludendo dalle stesse i parenti e gli affini delle parti, la Corte di appello ha osservato come il Giudice avesse esercitato il potere ex art. 245c.p.c.,ed offerto al riguardo, l'”adeguata motivazione della maggiore attendibilità dei soggetti estranei alla sfera familiare delle contendenti”;in particolare, l’ordinanza ammissiva della prova testimoniale, direttamente esaminabile da questa Corte per la natura dei vizi denunciati, stabilisce di ammettere “(…) a testimoniare (…) due testimoni per parte tra quelli indicati in atti ed a scelta dei difensori con divieto di addurre in udienza come testimoni parenti o affini delle parti”;
il provvedimento non è corretto;così pronunciando sulle richieste di prova per testimoni, il Giudice del merito non ha esercitato il legittimo potere di riduzione delle liste testimoniali sovrabbondanti (v. in argomento, per tutte, Cass. n. 11810 del 2016), perchè non si è limitato a ridurre, a due, il numero di testimoni ma ha escluso persone, tra coloro che erano stati indicati dal difensore, al di fuori dei limiti consentiti dall’art. 245c.p.c.,;infatti, venuto meno il divieto di testimoniare previsto dall’art. 247c.p.c.,per effetto della sentenza della Corte Cost. n. 248 del 1974, i soggetti che, come nella specie, sono legati alle parti processuali dai vincoli di parentela o affinità possono (e devono) essere sentiti in qualità di testimoni, restando ovviamente salva, al di là della ricorrenza dell’ipotesi di cui all’art. 246 c.p.c.,la successiva valutazione di attendibilità dei testimoni, all’esito del loro esame;a tale riguardo è utile ricordare l’insegnamento di questa Corte secondo cui ” In materia di prova testimoniale, non sussiste alcun principio di necessaria inattendibilità del testimone che abbia vincoli di parentela o coniugali con una delle parti (…), l’attendibilità del teste legato da uno dei predetti vincoli non può essere esclusa aprioristicamente in difetto di ulteriori elementi dai quali il giudice del merito desuma la perdita di credibilità” (così Cass. n. 25358 del 2015 con i richiami ivi effettuati a Cass. n. 1109 del 2006; conformi Cass. n. 12365 del 2006 e Cass. n. 4202 del 2011; cfr. anche Cass. n. 25549 del 2007);coerentemente con tali premesse, si espone alle denunciate criticità l’ordinanza che, ai sensi dell’art. 245 c.p.c.,ai fini di riduzione delle liste testimoniali sovrabbondanti, escluda quali testimoni coloro che sono legati alle parti processuali dai vincoli indicati all’art. 247c.p.c.,-e per il solo fatto di detti vincoli, -in quanto espressione di un pregiudizio e di un aprioristico giudizio di inattendibilità che non trova alcun fondamento nel dettato normativo e nei principi della Suprema Corte;pertanto, in accoglimento del primo motivo, la sentenza va cassata e la causa rinviata alla Corte di appello di Milano che, in diversa composizione, dovrà procedere ad un nuovo esame della fattispecie concreta, nel rispetto degli esposti principi;rimane così assorbito l’esame degli altri motivi di censura che logicamente suppongono che si sia delineata la fase istruttoria;le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo, assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in merito alle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 9 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2021

Cognome materno. Anche per la Consulta l’art. 262 cod. civ. è una norma di dubbia costituzionalità

Corte Costituzionale, ord. 11 febbraio 2021 n. 18
ORDINANZA N. 18 ANNO 2021
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, del codice civile, promosso dal Tribunale ordinario di Bolzano nel procedimento vertente tra la Procura della Repubblica del Tribunale ordinario di Bolzano e D. G. e altro, con ordinanza del 17 ottobre 2019, iscritta al n. 78 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2020. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 13 gennaio 2021 il Giudice relatore Giuliano Amato; deliberato nella camera di consiglio del 14 gennaio 2021.
Ritenuto che, con ordinanza del 17 ottobre 2019, il Tribunale ordinario di Bolzano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, del codice civile che, nel disciplinare il cognome del figlio nato fuori dal matrimonio, prevede che «Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre»; che la disposizione è censurata nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, il solo cognome materno; che questa preclusione si porrebbe in contrasto, in primo luogo, con l’art. 2 della Costituzione, sotto il profilo della tutela dell’identità personale; sarebbe, inoltre, violato l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’uguaglianza tra donna e uomo, come già rilevato da questa Corte nella sentenza n. 286 del 2016; è denunciata, infine, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia diritti dell’uomo e libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, che trovano corrispondenza negli artt. 7 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007; che il Tribunale di Bolzano è chiamato a decidere in ordine al ricorso proposto dal pubblico ministero, ai sensi dell’art. 95 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), al fine di ottenere la rettificazione dell’atto di nascita di una bambina, cui i genitori, non uniti in matrimonio, hanno concordemente voluto attribuire il solo cognome materno, confermando tale volontà anche nel corso del procedimento dinanzi al giudice a quo; che, tuttavia, questa scelta dei genitori è preclusa dall’art. 262, primo comma, cod. civ. anche all’esito della sentenza di questa Corte n. 286 del 2016, che ha riconosciuto la possibilità di aggiungere al patronimico il cognome della madre, mentre nel caso in esame la volontà di entrambi i genitori è volta all’acquisizione del solo cognome materno; che, ad avviso del giudice rimettente, la questione di legittimità costituzionale sarebbe rilevante poiché, applicando l’art. 262, primo comma, cod. civ. con il solo correttivo introdotto dalla sentenza richiamata, il ricorso del pubblico ministero dovrebbe essere accolto e l’atto di nascita dovrebbe essere rettificato; qualora, invece, fosse accolta la presente questione, sarebbe consentita l’assunzione del solo cognome materno, come richiesto da entrambi i genitori, con conseguente rigetto del ricorso; che, ritenendo esclusa la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, il giudice a quo ravvisa la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, cod. civ. nella parte in cui tale disposizione non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, il solo cognome materno; che questa disciplina sarebbe in contrasto sia con l’art. 2 Cost., sotto il profilo della tutela dell’identità personale, sia con l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’uguaglianza tra donna e uomo; che il Tribunale ritiene che l’acquisizione del cognome alla nascita avvenga unicamente sulla base di una discriminazione fondata sul sesso dei genitori, anche in presenza di una diversa volontà comune degli stessi; come riconosciuto dalla stessa sentenza di questa Corte n. 286 del 2016, il sistema in vigore deriva da una concezione patriarcale della famiglia e della potestà maritale, che non è più compatibile con il principio costituzionale della parità tra uomo e donna;
che la disposizione censurata sarebbe, altresì, in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU; al riguardo, è richiamata la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 7 gennaio 2014 (Cusan e Fazzo contro Italia),che ha affermato che l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, alla nascita, il cognome della madre, anziché quello del padre, integra la violazione dell’art. 14 (Divieto di discriminazione), in combinato disposto con l’art. 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) CEDU, principi che trovano corrispondenza negli artt. 7 e 21 CDFUE, che pure verrebbero in rilievo; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata; che ad avviso dell’interveniente le questioni sarebbero inammissibili, poiché l’intervento richiesto richiederebbe una operazione manipolativa esorbitante daipoteri di questa Corte (sono richiamate le sentenze n. 61 del 2006 e le ordinanze n. 586 e n. 176 del 1988); che, nel merito, le questioni sarebbero manifestamente infondate; nel caso in esame le censure del giudice a quo sarebbero volte a rimettere ai genitori la scelta del cognome da attribuire ai figli, in particolare attraverso l’indicazione del solo cognome materno; tuttavia, la norma di sistema attributiva del cognome paterno al figlio –ferma restando la possibilità di aggiungere il cognome materno–non consente, proprio a tutela del diritto del figlio al nome, di far dipendere l’attribuzione del cognome dalla scelta dei genitori. Considerato che il Tribunale ordinario di Bolzano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, del codice civile che, nel dettare la disciplina del cognome del figlio nato fuori dal matrimonio, prevede che «Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre»; la disposizione è censurata nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, il solo cognome materno; che questa preclusione si porrebbe in contrasto, in primo luogo, con l’art. 2 della Costituzione, sotto il profilo della tutela dell’identità personale; sarebbe, inoltre, violato l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’uguaglianza tra donna e uomo, come già rilevato da questa Corte nella sentenza n. 286 del 2016; è denunciata, infine, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia diritti dell’uomo e libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutivacon legge 4 agosto 1955, n. 848, che trovano corrispondenza negli artt. 7 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007; che, in via preliminare, non è fondata l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa dello Stato per il carattere manipolativo dell’intervento richiesto a questa Corte; che, infatti, il petitum del rimettente è circoscritto al riconoscimento della possibilità, attualmente preclusa dall’art. 262, primo comma, cod. civ., di trasmettere al figlio, di comune accordo, alla nascita, il solo cognome materno; con ciò, dunque, il giudice a quo chiede l’addizione di una specifica ipotesi derogatoria, ritenuta costituzionalmente imposta, volta a riconoscere il paritario rilievo dei genitori nella trasmissione del cognome al figlio; che le questioni sollevate dal giudice a quo, relative alla preclusione della facoltà di scelta del solo cognome materno, sono strettamente connesse alla più ampia questione che ha ad oggetto la generale disciplina dell’automatica attribuzione del cognome paterno;
che la secolare prevalenza del cognome paterno trova il suo riconoscimento normativo –oltre che nella disposizione censurata –negli artt. 237 e299 cod. civ.; nell’art. 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile); negli artt. 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127); che questa Corte è già stata chiamata, in più occasioni, a valutare la legittimità costituzionale di questa disciplina, in riferimento sia al principio di parità dei genitori, sia al diritto all’identità personale dei figli, sia alla salvaguardia dell’unità familiare; che, sin da epoca risalente, è stata evidenziata la possibilità di introdurre sistemi diversi di determinazione del nome, egualmente idonei a salvaguardare l’unità della famiglia, senza comprimere l’eguaglianza e l’autonomia dei genitori (ordinanze n. 586 e n. 176 del 1988); che, in tempi più recenti, è stato espressamente riconosciuto che «l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna» (ordinanza n. 61 del 2006); che, da ultimo, ravvisando il contrasto della regola del patronimico con gli artt. 2, 3, 29, secondo comma, Cost., questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 cod. civ.; 72, primo comma, del r.d. n. 1238 del 1939; e 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000, nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno; la dichiarazione di illegittimità costituzionale è stata estesa, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), all’art. 262, primo comma, cod. civ., e all’art. 299, terzo comma, cod.civ. (sentenza n. 286 del 2016); che in tale decisione –pur essendo stata riaffermata la necessità di ristabilire il principio della parità dei genitori –si è preso atto che, in via temporanea, «in attesa di un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità», “sopravvive” la generale previsione dell’attribuzione del cognome paterno, destinata a operare in mancanza di accordo espresso dei genitori; che, tuttavia, anche dopo questa pronuncia, gli inviti ad una sollecita rimodulazione della disciplina –in grado di coniugare il trattamento paritario delle posizioni soggettive dei genitori con il diritto all’identità personale del figlio –sinora non hanno avuto séguito; che, pertanto, la prevalenza del cognome paterno costituisce tuttora il presupposto delle disposizioni, sopra richiamate, che declinano la regola del patronimico nelle sue diverse esplicazioni, tra le quali rientra certamente la disposizione censurata dell’art. 262, primo comma, cod. civ.; che, di conseguenza, anche laddove fosse riconosciuta la facoltà dei genitori di scegliere, di comune accordo, la trasmissione del solo cognome materno, la regola che impone l’acquisizione del solo cognome paterno dovrebbe essere ribadita in tutte le fattispecie in cui tale accordo manchi o, comunque, non sia stato legittimamente espresso; in questi casi, verosimilmente più frequenti, dovrebbe dunque essere riconfermata la prevalenza del cognome paterno, la cui incompatibilità con il valore fondamentale dell’uguaglianza è stata da tempo riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 286 del 2016 e n. 61 del 2006);
che, in questo quadro, neppure il consenso, su cui fa leva la limitata possibilità di deroga alla generale disciplina del patronimico, potrebbe ritenersi espressione di un’effettiva parità tra le parti, posto che una di esse non ha bisogno dell’accordo per far prevalere il proprio cognome; che, pertanto, nella perdurante vigenza del sistema che fa prevalere il cognome paterno, lo stesso meccanismo consensuale –che il rimettente vorrebbe estendere all’opzione del solo cognome materno –non porrebbe rimedio allo squilibrio e alla disparità tra i genitori; che «il modo in cui occasionalmente sono poste le questioni incidentali di legittimità costituzionale non può impedire al giudice delle leggi l’esame pieno del sistema nel quale le norme denunciate sono inserite» (ordinanza n. 183 del 1996; nello stesso senso, sentenza n. 179 del 1976 e ordinanze n. 230 del 1975 e n. 100 del 1970); che, alla luce del rapporto di presupposizione e di continenza tra la questione specifica dedotta dal giudice a quo e quella nascente dai dubbi di legittimità costituzionale ora indicati, la risoluzione della questione avente ad oggetto l’art. 262, primo comma, cod. civ., nella parte in cui impone l’acquisizione del solo cognome paterno, si configura come logicamente pregiudiziale e strumentale per definire le questioni sollevate dal giudice a quo (ex multis, sentenze n. 255 del 2014, n. 179 del 1976, n. 195 del 1972; nonché ordinanze n. 114 e n. 96 del 2014, n. 42 del 2001; n. 197 e n. 183 del 1996; n. 297 e n. 225 del 1995; n. 294 del 1993; n. 378 del 1992, n. 230 del 1975 e n. 100 del 1970); che d’altra parte, ancorché siano legittimamente prospettabili soluzioni normative differenziate, l’esame di queste specifiche istanze di tutela costituzionale, attinenti a diritti fondamentali, non può essere pretermesso, poiché «l’esigenza di garantire la legalità costituzionale deve, comunque sia, prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia» (sentenza n. 242 del 2019; nello stesso senso, sentenze n. 96 del 2015, n. 162 del 2014 e n. 113 del 2011); che la non manifesta infondatezza della questione pregiudiziale è rilevabile nel contrasto della vigente disciplina, impositiva di un solo cognome e ricognitiva di un solo ramo genitoriale, con la necessità, costituzionalmente imposta dagli artt. 2 e3 Cost., di garantire l’effettiva parità dei genitori, la pienezza dell’identità personale del figlio e di salvaguardare l’unità della famiglia; che tutto ciò porta a dubitare della legittimità costituzionale della disciplina dell’automatica acquisizione del solo patronimico, che trova espressione nell’art. 262, primo comma, cod. civ.; che è stato osservato sin da epoca risalente che la prevalenza attribuita al ramo paterno nella trasmissione del cognome non può ritenersi giustificata dall’esigenza di salvaguardia dell’unità familiare, poiché «è proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo», in quanto l’unità «si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità» (sentenza n. 133 del 1970); nel caso in esame, ancora una volta, «[l]a perdurante violazione del principio di uguaglianza “morale e giuridica” dei coniugi […] contraddice, ora come allora, quella finalità di garanzia dell’unità familiare, individuata quale ratio giustificatrice, in generale, di eventuali deroghe alla parità dei coniugi» (sentenza n. 286 del 2016); che «la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrifica il diritto all’identità del minore,negandogli la possibilità di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome materno» (ancora sentenza n. 286 del 2016);
che, infine, il dubbio di legittimità costituzionale che investe l’art. 262, primo comma, cod. civ., attiene anche alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 14 (Divieto di discriminazione) CEDU; che, a questo riguardo, la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza 7 gennaio 2014, Cusan e Fazzo contro Italia, ha ritenuto che la rigidità del sistema italiano –che fa prevalere il cognome paterno e nega rilievo ad una diversa volontà concordemente espressa dai genitori –costituisce una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, determinando altresì una discriminazione ingiustificata tra i genitori, in contrasto con gli art. 8 e 14 CEDU; che, pertanto, questa Corte non può esimersi, ai fini della definizione del presente giudizio, dal risolvere pregiudizialmente le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, cod. civ., nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’automatica acquisizione del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) solleva, disponendone la trattazione innanzi a sé, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, del codice civile, nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848; 2) sospende il presente giudizio fino alla definizione delle questioni di legittimità costituzionale di cui sopra; 3) ordina che la cancelleria provveda agli adempimenti di legge. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 gennaio 2021. F.to: Giancarlo CORAGGIO, Presidente Giuliano AMATO, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria l’11 febbraio 2021. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA

Assegnazione della casa familiare nel giudizio di separazione personale dei coniugi

Cassazione civile, sez. VI, 15 Ottobre 2020, n. 22266. Pres. Scaldaferri. Est. Maria Acierno.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 28150-2018 proposto da:
S.D., elettivamente domiciliato in ROMA, *, presso lo studio dell’avvocato G. G., rappresentato e difeso dall’avvocato U. D.;
– ricorrente –
contro
B.R., elettivamente domiciliata in ROMA, *, presso lo studio dell’avvocato G. B., rappresentata e difesa dall’avvocato E. D.;
– controricorrente –
contro
PROCURA GENERALE DELLA REPUBBLICA C/O PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;
– intimata –
avverso la sentenza n. 25/2018 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 25/07/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 01/07/2020 dal Consigliere Relatore Dott. MARIA ACIERNO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Relazione n. 28150 del 2018 ruolo generale.
Il Tribunale di Salerno aveva rigettato le reciproche domande di addebito della responsabilità della separazione personale, avanzate dai coniugi, B.R. e S.D., aveva affidato il figlio a collocazione presso la madre nella casa coniugale che veniva assegnata alla B. e aveva posto a carico del S. un assegno mensile ammontante a Euro 200,00 per il mantenimento del figlio, oltre alla metà delle spese straordinarie.
Il S. ha impugnato la sentenza dinanzi alla Corte di appello di Salerno, chiedendo la pronuncia di addebito della separazione a carico della moglie, la collocazione del minore presso il padre nella casa coniugale, con conseguente assegnazione della medesima o di una parte di essa al S.. L’appellata si è costituita, deducendo l’inammissibilità e l’infondatezza dell’appello e ha proposto appello incidentale affinchè la separazione fosse addebitata al S. e fosse disposto l’aumento dell’assegno di mantenimento per il figlio a Euro 300,00. Il giudice di secondo grado ha respinto l’impugnazione, considerando infondati sia l’appello principale che quello incidentale. In particolare, ha evidenziato che la pronuncia di addebito, richiesta da entrambi, non potesse fondarsi sulla mera violazione degli obblighi coniugali, essendo necessario accertare il nesso eziologico tra la condotta violativa e il fallimento della convivenza coniugale. Ha confermato la collocazione del figlio presso la madre, non essendo ravvisabili condotte pregiudizievoli della stessa e neanche disagi del minore a causa della convivenza con il nuovo compagno della madre. Poi, ha assegnato l’immobile nella sua interezza alla B., escludendo l’ammissibilità di un’assegnazione parziaria, stanti le modeste dimensioni della stessa e la conflittualità accesa tra i due coniugi. La Corte d’appello ha respinto il ricorso incidentale anche relativamente all’aumento dell’assegno di mantenimento richiesto dall’appellata, considerando le condizioni economiche del S..
Il S. propone ricorso per Cassazione e formula tre motivi di ricorso. La B. deposita controricorso. Il ricorrente ha depositato memoria.
Con il primo motivo, si deduce la illegittimità della sentenza impugnata e la mancata valutazione di una prova in relazione al rigetto della domanda di addebito. Il giudice di secondo grado, ha erroneamente escluso alla luce delle prove espletate che l’infedeltà dimostrata potesse essere la causa dell’intollerabilità della convivenza, avendo omesso di considerare i messaggi pubblicati dalla B. sui social network nei quali si dichiarava disponibile a incontri amorosi che si sono reiterati, come accertato dalla relazione investigativa.
Con il secondo motivo si deduce l’illegittimità della sentenza impugnata per violazione di legge e la violazione e la falsa applicazione dell’art. 151 c.c.. Il ricorrente ritiene che la persistenza della relazione extraconiugale della B. avrebbe giustificato la pronuncia di addebito, infatti, ex art. 151 c.c. la separazione può essere chiesta quando si verificano fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare pregiudizio alla prole, indipendentemente, dalla volontà di uno o entrambi i coniugi.
Con il terzo motivo si deduce l’illegittimità della sentenza impugnata per violazione di legge ed omesso esame di un fatto decisivo in relazione al rigetto della domanda relativa all’assegnazione parziaria della casa coniugale. In particolare non è stato considerato che il S. risiede nel vano cucina della proprietà della madre confinante con la casa coniugale. Inoltre, l’assegnazione parziale della casa coniugale secondo il ricorrente non provocherebbe conflitti, anzi ne eviterebbe l’insorgenza.
I primi due motivi sono inammissibili in quanto volti a censurare la valutazione dei fatti svolta insindacabilmente dal giudice del merito in relazione alle reciproche condotte degli ex coniugi e alla conseguente mancanza di rilevanza in ordine all’incidenza causale sull’insorgenza dell’intollerabilità della vita coniugale.
Il terzo motivo è manifestamente infondato perchè la Corte d’appello si è attenuta al prevalente orientamento giurisprudenziale secondo cui la possibilità di assegnare una porzione della casa coniugale al genitore non collocatario possa essere prevista solo nel caso in cui l’unità immobiliare sia del tutto autonoma e distinta da quella destinata ad abitazione della famiglia o sia agevolmente divisibile (sent. n. 23631 del 2011).
In conclusione il ricorso è inammissibile. Si applica il principio della soccombenza alle spese processuali.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali da liquidare in Euro 4000 per compensi, 100 per esborsi oltre accessori di legge.
Sussistono i presupposti processuali per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 1 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2020